mercoledì 16 settembre 2009

l’Unità 15.9.09
VERSO IL 19
Un sabato di lotta per la libertà di informare e di essere informati
Il 19 settembre a Piazza del Popolo è in gioco il grande tema dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Senza una grande mobilitazione sarà sempre più concreto il rischio che la stampa libera diventi un optional
di Nicola Tranfaglia


Contro il Lodo Alfano. Un disegno di legge che seppellirà la cronaca giudiziaria
Di Pietro: «C’è una vera e propria censura ai danni dell’Idv. È un miraggio la indipendenza della stampa»
Gentiloni: «Preoccupati per ciò che sta succedendo in Italia a proposito della libertà di informazione»

Sabato 19 settembre può essere un nuovo inizio per i democratici italiani di tutte le forze politiche che hanno a cuore le libertà fondamentali sancite dalla nostra costituzione repubblicana, tra cui è fondamentale quella di informazione televisiva e giornalistica.
La manifestazione indetta a piazza del Popolo dalla Federazione Nazionale della Stampa ha raccolto l’adesione di tutti i partiti delle opposizioni rappresentati in Parlamento e nella società italiana e questa circostanza fa sperare che tanti partecipino all’iniziativa.
Viviamo da tempo in un paese nel quale, grazie ad alcuni errori del centrosinistra e alla vittoria ultima (ma ormai tre volte ripetuta) di Berlusconi, la libertà di informazione è a tutti i livelli un genere optional, una sorta di piccola lampada che oggi è limitata a poche testate, a un piccolo angolo della Rai sul quale si preparano nuovi assalti, probabilmente vittoriosi, se non ci sarà una forte mobilitazione di una parte rilevante della società italiana.
Eppure oggi abbiamo conferme costanti della situazione drammatica in cui ormai versa l’articolo 21 della costituzione repubblicana e ogni altra legge che si conformi ad essa. La ripresa parlamentare porterà in breve all’approvazione del disegno di legge Alfano che ripercorre, senza differenze rilevanti, il cammino del regime fascista, con l’effetto di intimidire i magistrati, in particolare quelli che non hanno un minimo di sensibilità democratica, e i giornalisti.
Avrà l’effetto, come sanno da tempo i lettori del nostro giornale, di seppellire la cronaca giudiziaria e di ostacolare in maniera determinante tutte le indagini in grado di mettere in difficoltà la corruzione e il malaffare che caratterizzano il nostro paese.
Sicché lo stato di diritto tramonterà in maniera ancora più ampia e generalizzata di quanto è già avvenuto finora e il “populismo autoritario”, che ha già in buona parte sostituito la democrazia parlamentare iscritta nel nostro dettato costituzionale, dispiegherà i suoi effetti negativi sul piano culturale, politico e sociale.
Ebbene, grazie al silenzio dei nostri giornali più diffusi, se si esclude la Repubblica, poco o nulla sanno i lettori italiani di quel che succede negli altri paesi dell’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, nostro maggior alleato internazionale sempre osannato dal governo Berlusconi, che dice di ispirarsi alla politica di Washington.
Negli Stati Uniti, invece, il Freedom Information Act, una legge che è in vigore dal 1966, epoca della presidenza Johnson, consente ai cittadini, a tutti i cittadini, di ottenere non solo la desecretazione di importanti documenti segreti di tutte le presidenze americane ma anche di ottenere, fra le altre informazioni, il registro delle telefonate fatte dagli uffici dei ministri in carica.
Ebbene un grande giornale di recente come il New York Times ha chiesto e ottenuto le telefonate del ministro del Tesoro di G. W. Bush, Hank Paulson. Attraverso quelle telefonate ha potuto accertare che il ministro, fino a poco tempo prima dirigente della Lehman Brothers fallita per la crisi, ha venduto, all’atto di diventare ministro, le proprie azioni GS della società ma in seguito ha avvantaggiato con la sua politica proprio i possessori di azioni di quella società cui il ministro ha dimostrato di continuare ad essere legato, malgrado la vendita delle sue azioni. Dopo questa indagine, il quotidiano americano ha scritto un severo articolo di critica all’ex ministro rimproverandogli di non essersi liberato del suo conflitto di interessi e di aver fatto gli affari del gruppo di affaristi di cui fa parte piuttosto che quelli generali della comunità nazionale. Ora un episodio come questo, di cui ha parlato qualche giorno fa, il 13 agosto Salvatore Bragantini sul Corriere della Sera (ma nessun altro giornale ne ha dato notizia) appare particolarmente significativo se confrontato alla situazione italiana.
Noi non abbiamo una legge paragonabile a quella americana, o a quella inglese che ne ha ripercorso le orme, e siamo ancora addirittura alle prese con la persistenza di un segreto di Stato esteso oltre ogni limite ma, soprattutto, abbiamo una formidabile disattenzione di tutti i mezzi di comunicazione rispetto a quel che fa l’esecutivo come i vari ministri.
E ci chiediamo se una democrazia repubblicana, come prevede la nostra Costituzione, è in grado di adempiere ai propri compiti essenziali in una situazione così lontana da quella americana, cui pure dice di ispirarsi.
È una domanda da aggiungere alle dieci domande che la Repubblica ha già fatto al presidente del Consiglio sui suoi comportamenti, spingendolo addirittura, nei giorni scorsi, a querelare con particolare arroganza il giornale che ha esercitato una normale attività di critica democratica. Come ha fatto con questo giornale arrivando a chiedere un risarcimento di tre milioni di euro.
* Storico, docente all’Università di Torino

l’Unità 15.9.09
L’Alto commissario per i diritti umani Pillay: «Migranti respinti come rifiuti pericolosi»
Critiche anche per le discriminazioni ai rom. La Farnesina:richiamo non rivolto all’Italia
Dure critiche all’Italia dall’Alto commissario Onu Navi Pillay: i respingimenti violano il diritto internazionale». La Farnesina: «Richiamo non rivolto all’Italia». Il Pdl: critiche irricevibili. Opposizioni all’attacco.
di Andrea Carugati


Duro monito dell’Onu contro il respingimento degli immigrati. Non solo nel Mediterraneo, ma nel discorso inaugurale della 12esima sessione del Consiglio Onu per i diritti umani, previsto per oggi a Ginevra, l’Alto Commissario per i diritti umani Navi Pillay fa un riferimento esplicito al gommone di eritrei rimasto senza soccorsi in agosto tra Libia, Malta e Italia. Immigrati, spiega la Pillay, «abbandonati e respinti in violazione del diritto internazionale, senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni». «In molti casiaggiungele autorità respingono questi migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi». «La pratica della detenzione dei migranti irregolari, della loro criminalizzazione e dei maltrattamenti nel contesto dei controlli delle frontiere deve cessare», è il monito dell’Alto Commissario. «Oggi afferma partendo dal presupposto che le imbarcazioni in difficoltà trasportano migranti, le navi le oltrepassano ignorando le suppliche d’aiuto».
«ROM DISCRIMINATI»
Italia nel mirino del’Onu anche per quanto riguarda le condizioni dei rom. «In Italia c’è stata un’abbondante documentazione di discriminazioni e trattamenti degradanti nei confronti della popolazione Rom», dice Pillay. Secondo l’Onu, il sentimento anti-rom in Europa resta «forte». Tra i paesi citati anche Francia, Irlanda, Regno Unito, Svezia, Finlandia, Spagna e Portogallo. «Deve essere fatto di più per porre fine a questa discriminazione», dice la Pillay.
La Farnesina, con una nota ufficiale, si chiama fuori dalle accuse: «Il richiamo alle violazioni del diritto internazionale non è evidentemente rivolto all’Italia: le regole sono il caposaldo dell’azione del governo». Quanto ai respingimenti, si legge, «non possiamo che condividere la giusta preoccupazione per il rispetto della sacralità della vita umana». Ma «l’Italia è il Paese che ha salvato il maggior numero di vite umane nel Mediterraneo». Nella maggioranza i toni sono più accesi: «Esternazioni irricevibili, l’Onu si occupi del suo spesso discutibile funzionamento», tuona il portavoce Pdl Capezzone. «Ricordatevi del lassismo dei caschi blu in Rwanda e a Srebrenica», protesta il leghista Stiffoni. E Gasparri: «L’Italia è un paese modello, l’Onu guardi altrove».
Le opposizioni attaccano. «Il governo risponda all’Onu, senza minacciare nessuno», dice Anna Finocchiaro. E Rosy Bindi: «Ora qualcuno pensa di tappare la bocca anche all’Onu con ricatti morali, come si è fatto con la Chiesa e si vorrebbe fare con il Presidente della Camera?». E Bersani: «Disumanità e figuracce internazionali».❖

l’Unità 15.9.09
Dalle prigioni libiche parte un ricorso alla Corte Europea
Ventiquattro somali ed eritrei provano a far valere le proprie ragioni attraverso un avvocato romano. Le storie delle loro vite in fuga da fame e guerre per il riconoscimento di un diritto
di Gabriele Del Grande


Ma dove sono andati a finire i primi respinti in Libia? Ricordate? Era il 6 maggio del 2009. Le autorità italiane intercettarono nel Canale di Sicilia tre gommoni con 227 passeggeri, e per la prima volta in anni di pattugliamento, venne dato l’ordine di respingere tutti in Libia. Comprese le 40 donne. Una «svolta storica», la definì il ministro dell’Interno Roberto Maroni, che rassicurò gli scettici: «La Libia fa parte dell’Onu: lì c’è l’Unhcr che può fare l’accertamento delle persone che richiedono asilo». A quattro mesi di distanza però la verità inizia a venire a galla. A parlare sono le vittime di quei respingimenti. Ventiquattro rifugiati somali e eritrei, che dalle carceri libiche hanno nominato l’avvocato Anton Giulio Lana, perché denunci l’Italia alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Il ricorso è stato depositato a luglio. Oggi, a quattro mesi di distanza dal respingimento, Lana sostiene che i suoi assistiti siano ancora detenuti nei campi libici. Tra loro ci sono 11 cittadini eritrei, fuggiti dopo anni di servizio nell’esercito, in un paese dove la coscrizione militare è a tempo indeterminato. E 13 cittadini somali sfuggiti alla violenza della guerra civile. Persone che in Italia si vedrebbero riconosciuto un permesso di soggiorno per asilo politico.
Anzi, uno di loro, che chiameremo K., l’asilo l’aveva già ricevuto nel settembre 2006 in un campo profughi in Sudan. Era stato arruolato nell’esercito eritreo nel 2000, all’età di 19 anni. Dopo un anno e mezzo di leva, senza salario, e con la prospettiva di rimanere tutta la vita abbracciato a un fucile, K. disertò. Ma la sua latitanza durò poco. Nel 2004 venne arrestato dalla polizia militare, trasportato a Korkogy e detenuto per due anni, quindi ricollocato nell’esercito, finché decise di abbandonare definitivamente il suo paese e fuggì prima in Sudan e poi, non sentendosi al sicuro, in Libia. Arrestato, recluso nel campo di detenzione degli eritrei, a Misratah, la vecchia Misurata di coloniale memoria, vi rimase dall’aprile del 2007 fino alla fine di marzo del 2009. Per l’Italia si imbarcò poco dopo, all’inizio di maggio. Poi il respingimento. Quattro mesi dopo, K. si trova ancora in un campo di detenzione in Libia.
Tra i respinti poi c’è chi la traversata l’aveva già provata, e lo avevano già respinto. Forse qualcuno ricorderà il caso del «Clot de l’Illot», il peschereccio spagnolo, che il 22 agosto del 2008, dopo un braccio di ferro diplomatico tra Spagna e Libia, attraccò al porto di Tripoli riconsegnando 49 naufraghi alle guardie libiche. Finirono nel carcere di ‘Ain Zara. A. era uno di loro. Si fece otto mesi. Appena riuscì a scappare, si comprò subito un altro passaggio per
l’Europa. Rimanere in Libia in quelle condizioni era impensabile. Ma il suo gommone venne respinto. Era il 6 maggio del 2009. Quattro mesi dopo, A. si trova ancora dietro le sbarre. Eppure in Italia otterrebbe facilmente l’asilo politico. Classe 1983, ha lasciato Mogadiscio nel 2006. Nel 2004, suo padre, appartenente alla minoranza degli Ashraf, fu ucciso per mano di un membro del clan degli Hawiye. E lo stesso A., prima di partire, era stato costretto sotto minaccia a divorziare dalla moglie.
Una delle imbarcazioni intercettata dalle motovedette italiane il 6 maggio scorso e riportata in tutta fretta a Tripoli, era in mare da 12 giorni e i passeggeri non erano in buone condizioni di salute. Lo sostengono due dei rifugiati somali che hanno denunciato l’Italia. B. è uno di loro. Costretto a lasciare la Somalia nel marzo 2008, in seguito agli scontri tra le Corti islamiche e il governo di transizione, arrivò in Libia dopo aver attraversato clandestinamente Etiopia e Sudan. La prima volta partì nel febbraio del 2009, ma persero la rotta e finirono a Bengasi, dove furono tutti arrestati. Riuscito a fuggire dal campo di detenzione nell’aprile del 2009, acquistò quanto prima un posto su un gommone diretto in Italia, ma il carburante era insufficiente e finirono presto alla deriva. Dopo 12 giorni in mare, finalmente arrivarono i soccorsi, ma anche l’immediato respingimento. Su quella stessa barca viaggiava anche C., un ragazzo somalo di 25 anni fuggito da Mogadiscio nel marzo del 2007. Il giorno del respingimento, era in pessime condizioni di salute, e nonostante ciò venne comunque detenuto, insieme agli altri, nel campo di Garaboulli, vicino Tripoli, senza ricevere nessuna cura. A oggi è tuttora in carcere.
Capita di combattere per l’indipendenza del proprio paese. Di essere feriti in guerra, di ricevere i massimi onori, e poi di dover fuggire da quello stesso paese per cui si è rischiato la vita. È la storia di M., nato in Eritrea nel 1978. Nel 1999 il signor M. venne richiamato alle armi per difendere la patria, nella seconda guerra etiope-eritrea. Dopo tre giorni di combattimenti sul fronte, M. venne gravemente ferito a una gamba e ricoverato d'urgenza presso l’ospedale Makanaheiwt a Asmara. Dopo nove mesi di ricovero, nel 2001 venne ricollocato presso la 22 ̊ divisione a Dekemhare. I guai arrivarono nel giugno del 2008. Per una banale visita alla famiglia, effettuata però senza avere preventivamente ottenuto un permesso ufficiale dell’esercito. La polizia fece arrestare suo padre, intimandogli di consegnare il figlio alle autorità. Temendo per la sua incolumità, M. si consegnò spontaneamente. I tre mesi nel carcere militare di Alla furono terribili. Quando riuscì a evadere, nel novembre del 2008, entrò clandestinamente in Sudan. E poi proseguì il viaggio, perché a Khartoum non si sentiva protetto dalle incursioni dei servizi segreti eritrei. Lo stesso timore lo spinse a imbarcarsi dalla Libia verso l’Italia.❖

l’Unità 16.9.09
La Ue critica l’Italia «Non si può respingere chi rischia la tortura»
di Marco Mongiello


Un’altra mazzata per il governo italiano. Il commissario europeo alla Sicurezza Barrot: le leggi comunitarie vietano i respingimenti «verso paesi dove le persone rischiano di essere soggette a trattamenti degradanti o inumani».

STRASBURGO. Ultima chiamata per l'Italia dalla Ue: i respingimenti in mare sono contrari alle leggi europee. L'ennesimo invito a tornare nella legalità con le buone è arrivato dal commissario alla Giustizia, Jacques Barrot, in un acceso dibattito sull'immigrazione tenutosi ieri al Parlamento europeo a Strasburgo. «Abbiamo inviato una lettera a luglio alle autorità italiane per avere informazioni sul respingimento di imbarcazioni intercettate in acque internazionali», ha ricordato il commissario francese. «Ora abbiamo ricevuto una risposta e i miei servizi la stanno esaminando». Un modo diplomatico per prendere tempo quello della Commissione, perché le osservazioni di Barrot lasciano pochi dubbi sull'insufficienza della risposta italiana.
CONVENZIONI INTERNAZIONALI
«La legislazione comunitaria – ha continuato dice che queste operazioni devono essere effettuate sulla base del principio di non respingimento» e «gli Stati devono astenersi dal respingere una persona dove potrebbe correre il rischio di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti» in territori «in cui la loro vita o la loro libertà potrebbero essere minacciate». Questo «dovere di protezione deve essere rispettato», ha ordinato il responsabile Ue per la Giustizia. Oltre alle convenzioni internazionali, ha chiarito il commissario, a stabilire il principio del non respingimento in acque internazionali è il codice delle frontiere Schengen. Un regolamento Ue la cui violazione potrebbe far scattare una procedura di infrazione con tanto di sanzioni, aveva spiegato un portavoce nei giorni scorsi, causando la reazione scomposta del governo italiano. Le parole di Barrot si sono aggiunte a quelle dell'Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay, che aveva parlato di «diritto internazionale violato». L'Italia «rispetta tutte le regole internazionali», ha insistito invece il ministro degli Esteri Frattini da Seul, «e quindi, evidentemente, non è a noi che si deve indirizzare la critica o qualsiasi tipo di rilievo».
UN’AGENZIA PER L’ASILO
Il capodelegazione degli eurodeputati Pd, David Sassoli, ha ammonito che «la richiesta di informazioni inviata dalla Commissione all' Italia sottolinea la grande preoccupazione dell'Unione per il rispetto della legislazione europea». Dai banchi del Pdl dell'aula di Strasbugo gli ha ribattuto Roberta Angelilli accusando la sinistra di «strumentalizzazioni ideologiche». Il sottosegretario agli Esteri Mantica, a Bruxelles per la riunione dei ministri disertata da Frattini, ha accusato l'Europa di «scaricare il problema dell'immigrazione sui Paesi che sono in prima linea».
In realtà il cantiere europeo in materia di giustizia, inclusa l'immigrazione, continua ad andare avanti, più per l'impulso della presidenza di turno svedese che per le proteste dell'Italia. La Commissione, ha illustrato Barrot, ha proposto la creazione di un'Agenzia Ue per l'asilo e auspica che l'accordo possa essere raggiunto prima della fine della presidenza svedese a dicembre «in modo che il nuovo ufficio sia operativo dal 2010». Altri sforzi poi sono dedicati al rafforzamento dell'Agenzia Ue per le frontiere Frontex e al dialogo con Libia e Turchia. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, sulla cui riconferma di pronuncerà oggi l'Europarlamento, ha promesso di dividere in due l'attuale portafoglio di Barroso, con un commissario Affari interni con delega specifica sull'immigrazione per «favorire un approccio comune», e un altro per il rispetto delle libertà civili e dei diritti delle minoranze, che non farà sconti.❖

l’Unità 16.9.09
Un rapporto di 572 pagine sui diritti umani violati durante l’operazione «Piombo fuso»
Il procuratore Goldstone chiede che sia inviato alla Corte penale internazionale dell’Aja
«A Gaza compiuti crimini di guerra» L’Onu accusa, Israele si indigna
di Umberto De Giovannangeli


Un rapporto Onu di quasi 600 pagine, per un’accusa pesantissima: a Gaza l’esercito israeliano ha commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Israele ribatte: accusa vergognosa. È scontro aperto.

«A seguito delle nostre indagini, siamo giunti alla conclusione che le forze israeliane hanno commesso azioni riconducibili a crimini di guerra e possibilmente, per alcuni aspetti, crimini contro l'umanità». Un’accusa pesantissima, quella contenuta nel rapporto delle Nazioni Unite sull’operazione militare «Piombo Fuso» condotta dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. A stendere il rapporto (574 pagine) è stato un pool di quattro esperti internazionali guidato dal giudice sudafricano Richard Goldstone, ex procuratore capo dei Tribunali internazionali per il Ruanda e l’ex Jugoslavia. Il rapporto delle Nazioni Unite accusa Israele di «non aver preso le precauzioni necessarie per ridurre al minimo le perdite di vite civili», come si legge in un riassunto del documento diffuso alla stampa. Goldstone è stato incaricato dal Palazzo di Vetro di indagare le violazioni del diritto internazionale nel corso dell'intervento di Israele nella Striscia di Gaza dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009. Il rapporto sostiene che il governo israeliano ha «imposto un blocco di rifornimenti pari ad una punizione collettiva» per la popolazione delle Striscia di Gaza, «portando avanti una politica sistematica tesa a isolare e privare di risorse» i civili.
D'altro canto il rapporto rimarca anche che il lancio di missili contro Israele da parte palestinese costituisce «un crimine di guerra e può essere ritenuto crimine contro l'umanità» in quanto non distingue fra obiettivi militari e civili. Hamas è sotto accusa. Nel presentare il rapporto,il giudice Goldstone ha anche esortato i miliziani i palestinesi a liberare il soldato israeliano Gilad Shalit, sequestrato nel 2006 e da allora tenuto prigioniero a Gaza.
ACCUSA E DIFESA
Goldstone, un ebreo, ha definito «ridicole» le accuse di antisemitismo che gli sono state rivolte da ambienti israeliani del rapporto. «Accusarmi di antisemitismo è ridicolo» ha detto Goldstone, presentando il rapporto dell'Onu molto critico su comportamento degli israeliani, ma anche dei palestinesi, nel corso dell' operazione militare «Piombo Fuso». In una conferenza stampa al Palazzo di Vetro Goldstone ha detto: «Sono ebreo, ho legami con Israele, e sono stato profondamente deluso» dall'atteggiamento israeliano nei miei confronti in questa vicenda. «Penso che quello che ho fatto sia nell'interesse di Israele». Goldstone ha chiesto che il suo rapporto sia trasmesso alla Corte Penale Internazionale (Cpi) dell'Aja, e al Consiglio dei diritti umani dell'Onu, che lo ha ordinato. Il pubblico ministero della Corte de L'Aja, l'argentino Luis Moreno-Ocampo, dovrà esaminare il dossier preparato da Goldstone «il più rapidamente possibile», ha auspicato il giudice sudafricano.
GERUSALEMME FURIOSA
Durissima la reazione d’Israele. Quel rapporto si legge in una nota di reazione diffusa dal ministero degli Esteri da Gerusalemme «scrive un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all'autodifesa». Nella nota si afferma che «il verdetto era stato già scritto in anticipo a Ginevra» e si accusa la commissione guidata da Goldstone di «essersi limitata a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele» nella sua recente missione nella regione. Di qui la convinzione del ministero degli Esteri israeliano che «il rapporto scriva un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto all'autodifesa dei popoli». Principio, quest'ultimo, invocato da Israele a fondamento dell'operazione Piombo Fuso.❖

Repubblica 16.9.09
Piombo fuso, l´Onu accusa Israele "Fu un crimine contro l´umanità"


NEW YORK - L´operazione "Piombo fuso", l´offensiva sferrata dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio dalle forze armate israeliane contro la Striscia di Gaza, potrebbe essere ricordata come un «crimine contro l´umanità». E´ la conclusione cui arriva un rapporto delle Nazioni Unite presentato ieri. «A seguito delle nostre indagini, siamo giunti alla conclusione che le forze israeliane hanno commesso azioni riconducibili a crimini di guerra e possibilmente, per alcuni aspetti, crimini contro l´umanità», ha detto ai giornalisti Richard Goldstone, il magistrato sudafricano di origine ebraica cui è stata affidata l´inchiesta dell´Onu sull´operazione israeliana. A finire sotto la lente della commissione internazionale sono stati in particolare «l´attacco intenzionale sull´ospedale Al Qods con proiettili esplosivi e al fosforo» e «l´attacco contro l´ospedale Al Wafa», entrambe definibili come «violazioni del diritto umanitario internazionale».
Accuse pesantissime, attenuate solo in parte dal fatto che l´offensiva partì in seguito al ripetuto lancio di razzi palestinesi sui villaggi del sud d´Israele che lo stesso documento definisce «senza un obiettivo militare» e quindi «un deliberato attacco contro la popolazione civile». Precisazione che non è bastata però a Gerusalemme, che attraverso una nota del ministero degli Esteri ha immediatamente bocciato il rapporto Onu come «un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all´autodifesa». Secondo il governo israeliano, inoltre, «il verdetto era stato già scritto in anticipo a Ginevra» mentre la commissione guidata da Goldstone nella sua recente missione nella regione si sarebbe limitata «a raccogliere testimonianze false o unilaterali contro Israele».
Fonti palestinesi e dell´organizzazione pacifista israeliana B´tselem stimano il bilancio finale dell´operazione "Piombo fuso" in quasi 1400 palestinesi uccisi, per lo più civili, oltre a pesanti distruzioni. Secondo i dati dello stato maggiore israeliano, il consuntivo è invece di poco meno di 1200 morti, in maggioranza militanti di Hamas.

l’Unità 16.9.09
«Servi» di Marco Rovelli è l’epoea dei migranti tra violenze private e respingimenti di Stato
L’Italia che nessuno vuol vedere e raccontare, narrata attraverso storie in presa diretta
Sesso e pomodori tra vecchie povertà e nuove schiavitù
di Marco Rovelli


Da domani nelle librerie «Servi» di Marco Rovelli (Feltrinelli pagine 224, euro 15): un reportage narrativo sull’Italia sconosciuta e crudele della vita e del lavoro dei clandestini. Pubblichiamo un estratto del quarto capitolo.

Torno alla Campagna Tre Titoli che è estate e si muore di caldo. Sono sceso insieme al mio amico Luca Galassi, di «Peacereporter», la testata giornalistica legata a Emergency che racconta i conflitti nascosti in giro per il mondo: e qui in Puglia ce n’è uno. Scendo perché mi fa piacere tornare a salutare Marcella, ogni tanto ci sentiamo per telefono e ho voglia di vedere come se la passa adesso, in piena stagione di raccolta. (...)
Con Marcella invece ci vediamo, anche se non è per il racconto, le sue cose me le ha già dette per telefono. Però mi mostra dal cellulare le foto della sua bella figlia, che ha vent’anni e studia a Bergamo. Una birra, il solito Peroncino. Bevo insieme a un ragazzo polacco, e penso a quel centinaio di ragazzi polacchi scomparsi da queste parti negli ultimi anni, come si è saputo alla fine del 2006.
Lui è qui da due anni e mi dice che è cosa nota che molti di quelli sono stati uccisi perché protestavano e reclamavano condizioni migliori. Sono stati uccisi a botte dai «capi», dice, e i capi – che noi chiamiamo caporali – sono italiani, ucraini o polacchi come loro, in ogni caso persone che li sfruttavano facendoli lavorare e trattenendogli un euro e mezzo per ogni cinque euro guadagnati, a cui andavano aggiunti tre euro per il passaggio in macchina.
Capitava che qualcuno venuto dalla Polonia si rendesse conto di questo taglieggiamento solo dopo un po’ di tempo, e osava pretendere condizioni migliori. Allora, i «capi» li mettevano al loro posto. Quello dei servi. Mi siedo al sole.
Luca torna dal suo giro per i campi con la sua macchina digitale. Sedute accanto a me, una bella ragazza nera e una bambina che la chiama mamma. Ma la mamma è piuttosto ubriaca, e da come la bambina le si rivolge pare che le relazioni tra loro siano invertite. La bambina, che si chiama Laura, è volitiva, sicura di sé. Instaura subito un rapporto con Luca, che le insegna a usare la macchina digitale. Lei capisce al volo, è molto intelligente.
Nel frattempo, parlo con Caterina. Che è nigeriana, anche se mi dice di venire dalla Sierra Leone. «Sono venuta con mio marito ghanese, a Napoli. Ma mi picchiava. Sono scappata», dice. E questo invece risponde a verità, come poi mi confermerà Marcella. Parla lenta, di quella lentezza propria dell’alcol in un pomeriggio d’estate. Sembra raccontare con levità, ogni tanto sorride, di un sorriso dolce, bambinesco – preci-
samente quel sorriso che manca dal volto della bambina che deve farle da madre. Poi d’un tratto, come se fosse un ricordo della sua condizione attuale che si ripresenta come spavento, esclama: «The world is wicked». E piange.
Le accarezzo la nuca, i capelli. Poi si solleva dal suo scivolare, il corpo si fa più eretto sullo schienale della sedia di plastica bianca: «Basta, parlare. Parlare mi fa male. Balliamo?» mi dice. Poi arriva un vecchio, camicia sbottonata, una sensazione di sporco che emana. Papà, dice Caterina. Il «papà» le si getta addosso, quasi le si siede in braccio, si strofina su di lei, la mano a sfiorarle il seno. È impaziente. «Aspetta», dice lei. »Andiamo», insiste lui. «No, adesso no. Più tardi» Lei adesso vuole me. «Voglio stare con te», dice. Sono una pos-
Lager italiani
sibilità migliore di quel vecchio viscido e sporco. Mi chiede di darle il mio numero di telefono. «Non voglio stare con te», le dico. «Però sono a disposizione per te e la tua bambina, per qualsiasi cosa». «You love her more than me», mi rimprovera.
Dalla stanza del bancone Marcella manda musica africana, che muove alla danza. Io mi sono alzato, accenno un passo. Caterina mi viene davanti, e si muove, scivola. Laura pareva concentrata nell’imparare il funzionamento della macchina digitale, ma è lì, e vigila. Viene e prende sua madre per mano. La tira via. Non vuole che balli. Non vuole. Caterina si fa tirare via, e dice: «Lei è l’unica cosa che ho». Torniamo alle sedie circolari, con Luca. Io dico due battute, Caterina ride. Luca dice a Laura: «Take a picture of your mama laughing», fa’ una foto di tua madre che ride. Laura scatta (...)
Arriva un’auto, una vecchia Fiat Tipo. Scende una donna giovane e corpulenta, con i capelli raccolti in treccine nero ruggine. Caterina si alza, come sperasse di andar via. «Mama», le dice. Ma la mama – quella che probabilmente gestisce la casa in fondo alla strada – le ordina: «Sit down».
E Caterina siede, e riprende il lavoro. Torna ordinatamente nelle fila di quell’esercito nel quale si è arruolata, divisione di una legione straniera dalla quale, una volta entrati, è poi così difficile uscire. Lei fa parte di una rete potente, ed è l’anello più debole. Una rete che usa decine di migliaia di ragazze africane ed esteuropee, le stime vanno dai ventimila ai cinquantamila, per «servizi alla persona», come nel caso delle badanti – solo che queste «sex workers», essendo illegali, sono nelle mani di trafficanti che le riducono in stato di semischiavitù, quando non in schiavitù vera e propria. Del resto, l’Italia ha il record in Europa, 115 vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale ogni 100.000 abitanti maschi adulti (...)
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Serie Bianca settembre 2009

l’Unità 15.9.09
Bioetica e diktat
Il Vaticano e la legge del peccato
di Maria Antonietta Coscioni


Il Pontefice istiga i farmacisti a non vendere quelle che definisce “medicine anti-vita”, cioè le pillole antifecondative e la RU 486; in pratica a violare le leggi dello Stato; giorni fa dal Vaticano arrivava un ukase contro alcuni sacerdoti “colpevoli” di non aver condiviso la posizione assunta dalle gerarchie sul caso Englaro e il testo di legge sul testamento biologico della maggioranza: una pessima legge che non tiene conto la volontà del paziente, e contraddice il principio di libertà di cura. Quei sacerdoti hanno rivendicato il diritto di ognuno di vivere la propria vita, e di poter anche di morire in pace, «quando non c’è speranza di migliorare le proprie condizioni di esistenza umana». Li ringrazio quei sacerdoti: sono la prova che c’è un mondo di credenti sommerso, mortificato; che si vorrebbe restasse tale, ignorato; un mondo che vive con sofferenza le scelte della gerarchia; cristiani adulti, che sanno coniugare fede a misericordia, buon senso e senso buono. Intanto il Governo si affanna in rassicurazioni: fa sapere che si verificherà con rigore la compatibilità della legge sull’aborto con l’uso della pillola RU 486; e per quanto riguarda il testamento biologico conferma che non sono discutibili alimentazione e idratazione anche contro la volontà dell’interessato; il ministro Sacconi propone perfino una sorta road map per il Parlamento: immediata approvazione di quelle norme, e rinvio a soluzioni più condivise quelle relative alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Proposta inaccettabile, da rinviare al mittente.
Come sempre, è un problema di informazione. Basterebbe che ci fosse adeguata informazione da parte del servizio pubblico e tutto sarebbe diverso: l’opinione pubblica vigilerebbe e ne chiederebbe conto. Abbiamo inoltre la conferma che il problema di questo Paese è la sostanziale incapacità di saper distinguere fra legge e precetto morale; fra reato e peccato, fra pena e penitenza.
Un po’ tutti abbiamo salutato con speranza la nuova presidenza americana; bene: una delle prime cose che Obama ha fatto è di restituire alla scienza e alla libertà della ricerca il suo giusto posto e la sua autonomia. La battaglia da combattere è per la libertà della ricerca scientifica e per affermare i diritti umani fondamentali alla vita, alla salute, a una vita dignitosa fino all’ultimo istante che ciascuno considera degno di essere vissuto, scegliere di vivere senza sentirsi dire da altri: questo lo puoi o non lo puoi fare. Questa è la posta in gioco, è bene che se ne sia tutti consapevoli e coscienti.
Maia Antonietta Farina Coscioni è deputata radicale e membro della Commissione Affari Sociali

l’Unità 16.9.09
Se la medicina si trasforma in polemica
L’Avvenire e la diagnosi di eluana
di Carlo Alberto Defanti, neurologo


Essendo stato per tredici anni il neurologo di Eluana, mi sento in dovere di formulare qualche considerazione su quanto affermato dal mio collega Gianluigi Gigli sugli aspetti scientifici dello stato vegetativo persistente (Avvenire, 10 settembre). Citando articoli recenti e un’intervista di Steven Laureys, neurologo di Liegi, in occasione del Congresso della European Neurological Society tenutosi a Milano a giugno, Gigli non fa che ricordare un dato noto, ossia l’elevata percentuale di errori commessi nel diagnosticare la mancanza di coscienza in questi pazienti. Come neurologi siamo sollecitati ad una maggiore attenzione sia nel porre questa diagnosi sia a ricorrere a scale di valutazione standardizzate oggi non ancora diffuse. Su questo punto non si può che concordare. Meno scontata, invece, è la tesi dell’importanza delle indagini strumentali (Pet, Risonanza Magnetica Funzionale, ecc.) per avvalorare la diagnosi. È vero che negli ultimi anni vi sono stati progressi nello studio strumentale, ma il significato delle nuove acquisizioni è ancora incerto e le indagini citate non sono fra le linee guida per la diagnosi di stato vegetativo.
Il vero obiettivo di Gigli è polemico: sostenere che senza le misurazioni strumentali le diagnosi basate sulle proprie convinzioni cliniche possono essere fuorviate, «specie se influenzate dall’ideologia o da influenze esterne». Così sostiene che «purtroppo di quanto accaduto nel mondo scientifico negli ultimi quindici anni non c’è traccia nel decreto della Corte di appello di Milano con cui si è autorizzata la sospensione dell’idratazione e della nutrizione in Eluana».
Quest’ultimo ragionamento è sbagliato: una cosa è sottolineare il dovere alla prudenza nel diagnosticare lo stato vegetativo – punto su cui non posso che concordare –, altro è voler riferire l’invito alla cautela al caso di Eluana, che in 17 anni di decorso non ha mai manifestato alcun segno di coscienza. Trovo offensivo il sospetto avanzato da Gigli che sulla diagnosi di Eluana, che altri prima di me avevano posto ma di cui porto la responsabilità, possano aver interferito «ideologia o influenze esterne», in altre parole la volontà da fare di lei l’agnello sacrificale di una battaglia bioetica “laicista”. Il fatto che io sia stato sia l’esperto che fa la diagnosi sia il sostenitore della battaglia del padre per far rispettare la volontà della figlia può apparire una contraddizione agli occhi di coloro che vedono nella difesa della vita sempre e comunque il dovere assoluto del medico. Io penso invece che essere a fianco del malato significhi non solo difenderne la vita, ciò che credo di aver fatto durante tutta la mia carriera, ma anche porsi al suo servizio quando, in condizioni terminali o di estrema menomazione, manifesti la volontà di rinunciare ai trattamenti di sostegno vitale. ❖

Corriere della Sera 16.9.09
La Chiesa e la legge sul fine vita
Il testamento senza volontà
di Giovanni Sartori


Paradossalmente, quando la Dc era al potere la Chiesa non comandava. De Gasperi e altri leader de­mocristiani agirono, rispet­to alle richieste del Vatica­no, secondo coscienza e seppero anche dire secca­mente No. Oggi la Chiesa comanda (parecchio) e Pro­di, pur cattolico fervente, la indispettì per aver osato dire che era «un cattolico adulto», e cioè capace di ra­gionare con la sua testa. E l’ulteriore paradosso è che oggi il più «aperto» ai vole­ri del Vaticano sia Berlusco­ni. Bossi tiene, e sulla im­migrazione clandestina non si piega. Invece Berlu­sconi, che non è certo un cattolico esemplare, è pron­to a cedere quasi su tutto (salvo che sulla sua perso­na). Il testamento biologi­co approvato tempo fa dal Senato e fortemente voluto dalla Chiesa, è stato appro­vato dalla sua maggioran­za. Ed è arrivato ieri alla Commissione competente della Camera per l’approva­zione definitiva. Si prevede che sarà ritoccato. Anche così resterà un testamento che viola la volontà del te­statore. Perché questo è l’intento della Santa Sede.

La Chiesa, e per essa il suo Pontefice, può sbaglia­re? Certo che può sbaglia­re. Tantovero che agli ulti­mi Pontefici è venuto addi­rittura il vezzo di chiedere scusa per errori e anche male azioni di loro prede­cessori. D’altronde la dottri­na della infallibilità papale è recente, è del 1870, e si ap­plica soltanto ai pronuncia­menti solenni, ex cathe­dra, in materia di fede e di morale. Quando papa Rat­zinger è andato in Africa a discettare di preservativi e di Aids, il suo discettare non era solenne ed era an­che sicuramente sbagliato. Nemmeno è vero che in quella occasione il Papa non abbia detto niente di nuovo. Sì, il Vaticano si op­pone da sempre agli anti­concezionali.

Ma un Ponte­fice non ha mai asserito, che io ricordi, che «la di­stribuzione dei preservati­vi » non serva a combattere davvero l’Aids: una tesi (ci­to dalla importante rivista Lancet ) che «manipola la scienza » .

Restiamo al testamento biologico, in merito al qua­le il Vaticano vuole ad ogni costo impedire ulteriori «omicidi», se non assassi­nii, alla Eluana. Perché, nel­l’autorevole dire del cardi­nale Bagnasco (presidente della Conferenza episcopa­le italiana, e cioè dei nostri vescovi), non è accettabile «un diritto di libertà tanto inedito quanto raccapric­ciante: il diritto di mori­re ». Ma «raccapricciante» è invece per me la tesi del cardinale.

Come è ovvio, i miei di­ritti di libertà sono limitati e delimitati dai diritti di li­bertà degli altri. Cioè, io so­no libero finché non inva­do e danneggio la libertà al­trui. E viceversa. L’unica ec­cezione, l’unico diritto di li­bertà assoluto, che spetta soltanto a me perché è sol­tanto «solitario», è il mio diritto di morire (di morte naturale) come scelgo. Per­tanto la novità, l’inedito, è che si vuole persino negare la libertà di morire senza inutili sofferenze e prolun­gate agonie. Sia chiaro: questa imposizione, que­sta illibertà, esisterebbe so­lo da noi. Dal che ricavo che il testamento biologico «alla Vaticana» dovrebbe essere rispedito al mitten­te. Libera Chiesa nel suo li­bero Stato. Aggiungi che la partita non è — come ha ben precisato Massimo Sal­vadori — tra cattolici e lai­ci. È, piuttosto, tra un rina­to sanfedismo, un fidei­smo che acceca la ragione e, dall’altro lato, tutte le persone, laiche o cattoli­che che siano, che voglio­no decidere da sé sulla pro­pria sorte, o, se si vuole, malasorte.

Repubblica 15.9.09
La strategia del ragno
di Curzio Maltese


C´è qualcosa che gli italiani non sanno, ma soprattutto non debbono sapere, dietro la violenza dell´assalto finale di Silvio Berlusconi al valore di cui s´è sempre orwellianamente riempito la bocca, la libertà.
La libertà d´informazione e di critica del giornalismo, perfino la semplice libertà di scelta degli spettatori televisivi. C´è, deve esserci una disperata ragione se il premier, già osservato speciale delle opinioni pubbliche di mezzo mondo, invece di rientrare (lui sì) nei ranghi del gioco democratico, continua a sparare bordate contro le riserve indiane che ancora sfuggono al suo controllo.
L´ultimo episodio, l´oscuramento di Ballarò su Raitre, e ora anche di Matrix su Canale 5, per concentrare tutta l´audience di oggi sulla puntata celebrativa di Porta a Porta per la consegna alle vittime del terremoto abruzzese delle prime case, aggiunge un ulteriore tocco "coreano" al disegno dell´egemone. Volenti o nolenti, milioni di spettatori sono chiamati stasera all´appello, da bravi soldatini, per plaudire al «miglior presidente del Consiglio in 150 anni», che si esibisce nell´ennesimo spettacolare sfruttamento del dolore, fra le lodi dei ciambellani. Si ha un bel dire che ci vuole prudenza nell´adoperare certe parole, ma queste cose si vedono soltanto nei regimi. Più spesso, alla fine dei regimi, quando l´egemone è parecchio in là con gli anni e con l´incontinenza egolatrica.
La vicenda è grave in sé, come ha subito commentato Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e memoria storica della Rai. E lascia perplessi che invece il presidente di garanzia della Rai la riduca a scompenso organizzativo. Si tratta quantomeno di un eufemismo. Ma l´affare Ballarò diventa ancora più inquietante perché s´inserisce in una strategia del ragno governativa per intimidire o tappare direttamente la bocca all´informazione critica. Le denunce e le minacce contro Repubblica e Unità e perfino la stampa estera, il pestaggio mediatico di questo o quel giornalista, gli avvertimenti mafiosi a questo o quel conduttore perché si pieghino alle censure o dicano addio ai loro programmi, questi sono i metodi. Non si può neppure dire che si tratti di una trama occulta. Gli obiettivi sono palesi, dichiarati, in qualche caso rivendicati. Berlusconi sta usando tutto il suo potere di premier, primo editore e uomo più ricco d´Italia, per strangolare economicamente la stampa d´opposizione, epurare i pochi programmi d´informazione degna di un servizio pubblico, a cominciare da Annozero di Santoro, Report di Gabanelli e Che tempo che fa di Fazio, infine destituire l´unico direttore di rete televisiva, Paolo Ruffini di RaiTre, che non obbedisce agli ordini.
Non sappiamo se tutto questo si possa definire «l´agonia di una democrazia», come ha scritto Le Monde. Ma certo gli assomiglia moltissimo. Del quotidiano francese si può condividere anche il conciso titolo del commento: «Basta!». Nella speranza che siano in molti ormai in Italia a voler dire «basta!», non tanto, non più per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria. Lo si vedrà anche alla manifestazione di piazza del Popolo il prossimo sabato.
Al giornalismo libero rimane il compito di chiarire il mistero dietro l´offensiva finale di Berlusconi contro la libertà d´informazione. Oltre a quanto già gli italiani sanno, o almeno la minoranza che non si limita a bersi i telegiornali. E cioè il terrore governativo per il calo (reale) di consensi, l´incombere degli effetti autunnali della crisi sempre negata, il dilatarsi dei noti scandali di escort e minorenni, l´avvicinarsi di una sentenza della Consulta che potrebbe restituire Berlusconi alle proprie responsabilità davanti alla legge. E poi forse ci sarà dell´altro da nascondere, che all´informazione indipendente spetta d´indagare. Salvo che il potere impedisca ai giornalisti di fare il proprio lavoro. Come sta accadendo in Italia, con questa guerra preventiva, sotto gli occhi di tutto il mondo.

Repubblica 15.9.09
I rischi di un insegnamento confessionale
Cosa deve fare una scuola laica
di Stefano Rodotà


Già negli anni Ottanta Leopoldo Elia e Pietro Scoppola ritenevano che fossero maturi i tempi per la "storia delle religioni". Non se ne fece nulla, perché la politica era troppo ansiosa di ricevere la legittimazione vaticana

Non è la prima volta che si propone di sostituire un insegnamento di storia delle religioni all´ora di religione cattolica. Negli anni ´80 Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, cattolici, ritennero i tempi maturi per questo passaggio culturale, ma l´occasione non fu colta perché, una volta di più, la politica italiana si mostrò più ansiosa di una legittimazione vaticana, attraverso un nuovo Concordato, che sensibile alle attese presenti nella società. Cosi la situazione italiana rimane lontana da quella di altri paesi europei dove sono obbligatori solo insegnamenti di etica o educazione civica, mentre da noi la religione rimane come insegnamento confessionale, impartito da insegnanti scelti dall´autorità ecclesiastica, che può revocarli in ogni momento. Una situazione anomala, alla quale ha cercato di porre qualche rimedio il Tar del Lazio, che ha considerato illegittima una ordinanza ministeriale che riconosceva un credito formativo agli studenti che avevano scelto l´ora di religione. La ragione della violazione si trova proprio nel Concordato, dove si afferma che quella scelta «non deve determinare alcuna forma di discriminazione, neppure in relazione ai criteri per la formazione delle classi». Per i giudici la discriminazione è evidente, perché non si assicura la possibilità di conseguire un credito formativo a chi professa altre religioni o non ne professa alcuna. Si riflette qui il principio secondo il quale l´entrata della religione nello spazio pubblico non può attribuire ad una confessione una posizione "dominante".
Per sciogliere questo antico nodo è tornata la proposta di un insegnamento che elimini la ragione del conflitto, guardando al fenomeno religioso in una prospettiva storica e comparativa. Ma la ministra della Pubblica Istruzione, dopo aver ribadito la regola sui crediti formativi in un modo che non consente di superare la sentenza del Tar, ha giustificato il rifiuto di un insegnamento multiconfessionale anche con l´argomento che «questo non avviene nei paesi musulmani». Ma la democrazia non può ispirarsi alla legge del taglione, il riconoscimento di libertà e eguaglianza non può essere subordinato agli atteggiamenti assunti da totalitarismi o fondamentalismi.
La linea del Governo coincide con il rifiuto vaticano dell´insegnamento paritetico delle religioni, rafforzato dall´affermazione per cui «spetta alla Chiesa stabilire i contenuti autentici dell´insegnamento della religione cattolica». Parole che rivelano la debolezza delle tesi di chi sostiene che quell´insegnamento non ha carattere confessionale e che gli insegnanti di religione hanno uno status identico a quello degli altri professori. Per essi, infatti, non vale la norma costituzionale sulla libertà dell´insegnamento, per l´imposizione dall´alto dei "contenuti autentici". E non valgono le garanzie contro le discriminazioni, poiché una parola fuori posto o uno stile di vita non gradito possono far scattare la revoca del nulla osta ecclesiastico.
Così, nel cuore della scuola pubblica si apre una contraddizione grave. Mai come oggi quella scuola deve essere il luogo del riconoscimento reciproco, non di una separazione che fa vedere l´altro come diverso, preparando una società del conflitto. All´inizio del ´900 Gaetano Salvemini indicava la via per sfuggire a questi rischi. «La scuola laica non deve imporre agli alunni credenze religiose, filosofiche o politiche in nome di autorità sottratte al sindacato della ragione. Ma deve mettere gli alunni in condizione di potere con piena libertà e consapevolezza formarsi da sé le proprie convinzioni politiche, filosofiche, religiose».

Repubblica 15.9.09
Ora di religione
Quella disputa che divide lo Stato dalla Chiesa
Le decisioni del Tar e del ministro Gelmini hanno riaperto le polemiche sulla laicità della scuola italiana
di Filippo Ceccarelli


Ci sono questioni nel nostro paese che sembrano create apposta per dimostrare l´impossibilità di essere risolte. E che riemergono con inutile regolarità
I ricordi scolastici si affollano: scoperte, discussioni libri letti sotto il banco partite a carte, tante chiacchiere e anche qualche dormitina

Circolari ministeriali, Tar, Consiglio di Stato, protocolli addizionali, vertenze sindacali, vertici di maggioranza, dibattiti in Parlamento, incontri segreti, presidenti e monsignori scarrozzati in giro per l´Italia a bordo dell´aereo – si è poi saputo – di Calisto Tanzi.
Ci sono in Italia questioni che sembrano create apposta per dimostrare non solo l´impossibilità di essere risolte, ma anche destinate a riemergere con vana regolarità in una dimensione misteriosa, senza più confini. Ecco: l´ora di religione, che in questi giorni il governo di centrodestra ha scelto come merce di scambio per farsi perdonare i peccati del premier, è una di queste storie senza fine nelle quali in realtà rifulge, debitamente ammantata di sacri principi, la tignosissima inconcludenza nazionale.
Solita solfa, dunque, e iper-groviglio a più voci. Il classico "relitto concordatario" (Vittorio Messori), imposto alla Repubblica dai negoziatori vaticani per dovere di firma, estremo avamposto dell´ex religione di Stato. E come tale accolto dai governanti italiani, Craxi in testa, con un sovrappiù di furbizia tipo: vedremo poi come aggiustare la faccenda. E si vede, infatti.
Il nuovo Concordato è del 1984. Già nell´estate del 1986 si mosse il Tar del Lazio, terrore di ogni legislatore, precipitando l´ora di religione in pieno marasma. Tra moduli ritirati e fiammate anticlericali, dopo un plebiscito di adesioni (oltre il 90 per cento) si compresero le insidie deposto all´articolo 9 di quel celebratissimo "accordo di libertà": nella loro ambigua nettezza, ce n´era a sufficienza per esercizi di laicismo, scherzi da prete e pretesti per una guerra di religione.
Fin dall´inizio il caos attuativo si articolò su vari livelli d´incandescenza: materia alternativa, orario delle lezioni, destino degli alunni esonerati. Ma sopra tutto divampava – come oggi – la disputa sul carattere obbligatorio e confessionale dell´insegnamento.
Nulla di drammatico, per la verità, a generazioni di italiani aveva comportato la vecchia e cara oretta di religione, prossima per importanza a quella di musica o di ginnastica. Innocui ricordi: scoperte, discussioni, omelie, libri letti sotto il banco, partite a carte, chiacchiere e dormitine, anche. In una loro preistorica canzone, Carlo Conti e Leonardo Pieraccioni raccontano di un amore nato durante l´ora di religione – esito non sai bene se gradito ai cardinali Bagnasco e Bertone.
Anche rispetto agli insegnanti vale il detto: a ciascuno il suo. Ecco dunque una gamma vastissima di figure, autentiche e anche immaginarie, dal sacerdote orbo di Amarcord a don Giussani, che nelle aule del Berchet conquistò il futuro gruppo dirigente di Cl. Pochi libri e niente voti (che l´ineffabile Gelmini vuol riproporre). Condizione scolastica a suo modo proverbiale come dimostra il titolo di quel film di Bellocchio, L´ora di religione appunto, che pure con la materia non c´entra nulla.
E forse le cose vanno meglio quando non ci si pensa troppo. Fatto sta che nell´autunno del 1987 la Santa Sede depositò la sua prima bomba a orologeria. C´entrava l´obbligatorietà e l´ordigno faceva tic-tac sotto il tavolo del povero Goria che tampinando l´allora Segretario di Stato cardinal Casaroli cercò affannosamente di disinnescare la crisi di governo, come si è detto anche grazie alla diplomazia aeronautica della Parmalat.
Dalle cronache vien fuori un rimarchevole cammeo della Prima Repubblica: cardinalizio Spadolini; sfuggente Andreotti; facile profeta Almirante nel prevedere l´ennesimo "pateracchio". L´onorevole Ilona Staller, al secolo Cicciolina, propose un´ora di educazione sessuale alternativa; mentre a gestire l´improvvida matassa alla Pubblica Istruzione c´era il ministro Galloni, per la sua specchiata calvizie detto "la testa più lucida della Dc", invocatissimo in tv da un´attrice satirica travestita da insegnante che con isterico abbandono esplodeva: «Galloooni! Oh Galloooni!».
Sul risultato per così dire finale ci si affida alla caustica penna di Ghino di Tacco, cioè Craxi: «Ho vinto io. No, abbiamo vinto noi. Hanno vinto tutti. Non ha vinto nessuno. È finita pari. È finita pari e dispari. Poi di seguito un crescendo di intrighi, strategie raffinate, storie di scavalcamenti, appiattimenti, confessioni, sconfessioni, revisioni e conversioni. Nel frattempo, nel campo di battaglia invaso dal fumo, è scomparsa proprio la principale materia che ha originato il contendere, e cioè l´ora di religione».
Si fece allora notare per la prima volta un giovane prelato, a nome Camillo Ruini, tanto ambizioso quanto terrorizzato dai processi di secolarizzazione. Dopo di che nella ricostruzione è necessario farsi schematici per evitare la più martellante ripetitività.
Nel 1988 intervenne di nuovo il Tar del Lazio, e poi il governo, e poi il Consiglio di Stato, e poi anche la Corte costituzionale, ogni entità dando sostanzialmente torto a quella che la precedeva in giudizio. Ed era di sicuro una grande questione di principio, ma nel frattempo urgeva l´incerto destino degli insegnanti, nominati dai vescovi e retribuiti dallo Stato; per cui ai già bastevoli contendenti si aggiunse la più abbondante varietà di sindacati, oltre ai presidi, ai provveditorati e alla magistratura che tutelava singoli studenti esonerati che venivano rispediti a casa o tenuti a scuola.
Quindi ancora il Tar, ancora il governo, ancora il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale, oltre alla Cei che cominciava anche a preoccuparsi per una lenta erosione.
Non c´era più la Dc, oltretutto: e ciò spinse monsignor Ruini a riaffermare il carattere dell´insegnamento contro "l´ora del nulla". Con il che, anche per battere il nichilismo, nel 1994 l´ora di religione divenne "Insegnamento della religione cattolica", Irc. Come se per salvare la fede e le opere di Santa Romana Chiesa bastasse una sigla – e lo Spirito fosse un optional o un pretesto per attaccare briga (in attesa del prossimo Tar del Lazio).

Repubblica 16.9.09
Così la musica vinse la sfida con la parola
I neurologi: fu la prima forma di linguaggio
"I segreti della comunicazione svelati da un´area del cervello e dal Boléro di Ravel"
di Carlo Brambilla


MILANO - Il linguaggio verbale, fatto di parole e il linguaggio musicale, fatto di suoni, hanno un antenato comune, il "musilinguaggio". I primi uomini avrebbero comunicato tra loro le emozioni con versi musicali. Solo successivamente le due forme di espressione si sarebbero evolute, separandosi e sviluppando diverse e autonome sintassi. Di questa tesi affascinante e più in generale del rapporto tra pensiero musicale, emozioni, cervello e linguaggio, alla luce delle più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze, discuteranno oggi neurologi, neurochirurghi, psicologi e musicologi, all´interno di una giornata di studi che si apre all´Università Bocconi di Milano, in collaborazione l´istituto Neurologico Carlo Besta, nell´ambito del festival Mito, Settembre-musica.
Spiega Giuliano Avanzini, neurologo del Besta, docente di neurofisiologia, tra i principali relatori del convegno: «Esistono strumenti musicali a fiato, dei flauti, che risalgono a più di 45 mila anni fa, quando il linguaggio verbale doveva essere estremamente limitato. L´ipotesi che il nostro linguaggio derivi in qualche modo da un linguaggio musicale precedente o che entrambi abbiano un antenato comune mi sembra particolarmente interessante. Le ultime scoperte nel campo delle neuroscienze sembrano avvalorare l´ipotesi. Le due forme di espressione hanno il loro centro privilegiato nella medesima area cerebrale, la cosiddetta area di Broca (dal nome del neurologo francese che l´ha scoperta) poco dietro la fronte. Un´area di convergenza che presenta un elevato numero di neuroni a specchio, particolari cellule cerebrali importantissime per la comprensione dei meccanismi di apprendimento».
Pur avendo un´origine comune musica e linguaggio verbale hanno finito per differenziarsi e seguire percorsi autonomi. Un caso emblematico, che verrà discusso oggi, è quello del grande musicista Maurice Ravel. E della sua grave malattia neurologica, descritta con precisione dai medici curanti, che lo portò alla perdita della parola, ma gli consentì di comporre ugualmente il suo massimo capolavoro, il celebre Bolero. Racconta Giovanni Broggi, neurochirurgo del Besta: «Ravel era gravemente ammalato. Venne anche operato perché si sospettò avesse un tumore al cervello. Ma si trattava di una malattia degenerativa, forse una encefalite. Proprio mentre aveva difficoltà nella parola scrisse il Bolero. Una musica straordinaria, ripetitiva, nella quale un´interpretazione psicoanalitica ha voluto leggere la configurazione musicale di un atto erotico. La prima volta che venne eseguito una dama svenne e Ravel commentò che quella donna aveva veramente capito la sua musica. Ma il neurologo che lo seguiva aveva annotato che nello stesso momento il paziente non riusciva a riconoscere molti accordi musicali. Possibile che abbia composto il suo capolavoro come lo ha composto proprio perché aveva una sensazione distorta della musica»?
Linguaggio verbale e linguaggio musicale. Aree cerebrali in parte sovrapposte, ma in parte autonome. Una caratteristica che viene sempre maggiormente sfruttata nei procedimenti di riabilitazione nei soggetti che hanno perso la parola. È una delle frontiere della musicoterapia che utilizza proprio la musica come strumento di comunicazione non verbale. La musica dà infatti alla persona malata la possibilità di esprimere le proprie emozioni e di comunicare i propri sentimenti. Ottimi risultati si ottengono, per esempio, con i pazienti affetti da autismo, ma anche con i malati di morbo di Alzheimer, demenza, disturbi dell´umore e del comportamento alimentare.

Corriere della Sera 15.9.09
La lezione di Luciano Canfora a Cividale
L’ambigua attrazione tra intellettuali e potere Da Cicerone a Hegel
L’eterna storia di fascino, adulazione, condanna
di Luciano Canfora



Quando Ibn-Khaldun fu introdotto al cospetto di Tamerlano, sdraiato sul divano tra i suoi guerrieri, aprì bocca e disse: «Sono trenta o qua­ranta anni che aspettavo questo incontro». «Perché mai?» chiese Tamerlano. «Perché — rispose lo storico — tu sei il sultano del mondo, il sovrano di quaggiù. Non so se, dalla creazione di Adamo, sia mai apparso un re che ti fosse comparabile. Non sono uno di quelli che parlano a vanvera, sono uomo di scienza. Ed ecco la spiegazione: il potere non esiste che grazie allo spirito di corpo». E seguitò spiegando al conquistato­re, signore di un impero che, caduta Dama­sco (nell’anno 1400), si estendeva ormai dall’India all’Anatolia, la sua teoria della «forza di coesione del gruppo», elemento decisivo nella conquista e conservazione del potere. Ibn-Khaldun era stato inviato dal sovrano mamelucco del Cairo a difende­re Damasco minacciata da Tamerlano: sconfitto, cercò di comprendere la grandez­za del nemico, «affascinato» dal fatto stes­so della irresistibilità del vincitore.

Hegel che, alla vista di Napoleone col suo seguito per le strade di Jena, riconosce in lui «lo spirito del mondo a cavallo», Max Weber al cospetto del generale Luden­dorff, Machiavelli «soggiogato» dalla figu­ra del duca Valentino, Teopompo che de­scrive Filippo il Macedone come un perfet­to criminale eppure ravvisa in lui, con stu­pore di Polibio che non riesce a compren­dere la contraddizione, «l’uomo più gran­de che l’Europa abbia prodotto», sono al­trettanti aspetti di un unico fenomeno.

L’intellettuale, il cui compito primario, la cui esigenza dominante, è comprendere la storia addirittura nel suo farsi, finisce col trovare la risposta non genericamente nei «grandi fattori di storia», ma in uno di essi: uno nel quale convergano quelle mol­teplici risorse e qualità che Ibn-Khaldun condensava nella formula dello «spirito di gruppo» (proporzionale, nel suo pensiero, alla grandezza dell’impero), e che al princi­pio del secolo XX hanno preso consistenza nella efficace definizione di «capo carisma­tico ».

Non è facile enuclearne i caratteri, e si rischia — se si ricorre a formule compen­diarie e sintetiche — di cadere nella con­traddizione (apparente) di Teopompo a proposito del grande sovrano macedone. Perché, ad esempio, sia pure in modi e si­tuazioni lontanissime Cicerone provò per Cesare la stessa attrazione-repulsione che Teopompo per Filippo padre di Alessan­dro?

Il diagramma dei sentimenti contraddit­tori (forse fino a un certo punto tali) di Ci­cerone nei confronti di Cesare è facile per noi seguirlo, perché disponiamo del più ri­servato dei suoi epistolari, quello con Atti­co. Lì seguiamo, nei mesi in cui precipita e alla fine esplode la guerra civile, l’altalena dei suoi slanci, dei suoi ripiegamenti, delle sue incertezze; mentre Cesare sa quali tasti toccare scrivendogli; e quasi lo seduce, mentre lui di malavoglia e tardi si imbarca per raggiungere Pompeo in una campagna tutta sbagliata e perdente. E appena consu­mata la sconfitta, abbandona il campo, fa­natico e rissoso, dei «repubblicani» e tor­na in Italia per ottenere, sicuro di non man­carlo, il perdono di Cesare. Che infatti ci sa­rà, pieno e affettuoso; e ricambiato dalla più infelicemente adulatoria delle prove di eloquenza di Cicerone: le «orazioni cesaria­ne ». Tra le quali campeggia negativamente la Pro Marcello , monumento imperituro (e molte volte imitato da altri, in altre non dis­simili circostanze) di servitù spontanea e non necessaria.

Negli stessi mesi in cui parla a quel mo­do, Cicerone è per lo meno conscio (se non, come fu detto poi da Marco Antonio, promotore) della congiura culminata nelle Idi di marzo. Eppure, morto ormai il ditta­tore e nel rapido precipitare di una nuova guerra civile contro colui che ai più appari­va come l’erede politico di Cesare, cioè An­tonio, nella seconda Filippica mai recitata in Senato, Cicerone scriverà il giudizio sto­rico più tormentato e denso di chiaroscuri che sia mai stato destinato al dittatore as­sassinato. «Aveva ingegno, spirito critico, memoria, cultura, applicazione, previden­za, diligenza. Aveva compiuto imprese di guerra, quantunque calamitose per la Re­pubblica, tuttavia grandi. Da anni e anni puntava al regno: alla fine, con uno sforzo immane, e a costo di grandi rischi, realizzò il suo proposito. Con donativi, distribuzio­ni di ricchezze e pasti pubblici aveva con­quistato l’animo della massa, inesperta. Aveva legato a sé i suoi con i premi che con­cedeva loro, gli avversari con la maschera della clemenza. Che dire di più? Un po’ col terrore, un po’ contando sulla rassegnazio­ne, aveva introdotto in un popolo libero l’assuefazione all’asservimento».

Incurante che circolasse ancora la Pro Marcello , Cicerone chiude la Filippica rivol­ta contro Antonio con queste parole. Nelle quali, nonostante ogni riconoscimento o concessione vi sia controbilanciato da un vettore di segno opposto, può ravvisarsi un monumento al grande scomparso posto a fronte della pochezza del «nuovo che avan­za » (avanzava anche allora).

il Riformista 15.9.09
Exploit Negli incassi del weekend il "Grande Sogno" è terzo, primo italiano
Il Placido 68 batte se stesso e sfida Bellocchio
di Stefano Ciavatta


Box Office. All'esordio in sala il film contestato di Venezia va meglio di "Romanzo criminale". E già insidia lo stracelebrato "Vincere". Il regista stempera la polemica, Croppi da Roma gli viene incontro mentre Rossellini jr invita a duello Brunetta.

Tante le tante reazioni indignate alla lettera tranchant di Brunetta al Corriere della Sera. Una su tutte, quella di Renzo Rossellini, figlio del grande regista che tira in ballo la Codice di Cavalleria, ma forse il duello potrebbe risolversi «in un pubblico dibattito alla Casa del Cinema di Roma».
E la pietra dello scandalo che dice? Il Michele Placido infuriato che rifiuta l'etichetta di parassita e intende denunciare il ministro Brunetta, avrebbe oggi una carta in più per ribadire la sua rabbia - Il Grande Sogno è il terzo incasso del weekend -, ma il regista, impegnato al Sud, preferisce stemperare i toni: «Credo che sia un momento particolare e difficile proprio perchè c'è un inasprimento dei toni, come accaduto a Venezia. Lo scontro non porta a nulla e adesso ho un'età in cui l'esperienza mi dice di dialogare tra le parti. È come per i sindacati con i posti di lavoro nelle fabbriche: occorre dialogare con i datori di lavoro». Sui fondi pubblici però Placido ha una opinione precisa: «Soprattutto al Sud c'è bisogno di investire nella cultura per la quale occorrono i fondi».
Intanto Il Grande Sogno batte anche Romanzo criminale, altro film di Placido, targato 2005 e tratto dal libro di De Cataldo, fin qui il suo maggior successo in sala (poi diventato un blockbuster anche per homevideo e tv). Oltre un milione di euro l'incasso della pellicola presentata a Venezia, primo titolo italiano nella classifica dopo G.I. Joe la nascita dei cobra e l'Era Glaciale 3 che da tre settimane comanda il box office con 23 milioni.
Al confronto l'epopea della Banda della Magliana nel primo week end aveva incassato 800.000 euro e Ovunque sei pure bersagliatissimo a Venezia nel 2004 si era attestato sui 700.000. Quindi lavorare in proprio funziona, merito alla Tao Due del produttore Pietro Valsecchi che ribadisce «di non aver mai voluto fondi per il "Grande Sogno"». «Il mio film piace ai giovani - commenta Placido - Non è un film politico, non inneggia nè al comunismo nè al fascismo, non è di destra, nè di sinistra, nè di centro».
Frugando tra i numeri del dopo Mostra si scopre che l'incasso d'esordio del Grande Sogno vale la metà di quello totale di Vincere di Bellocchio, che al 30 agosto 2009 ha fatto registrare 2.080.000 euro. Prodotto da Rai Cinema con finanziamenti pubblici, Vincere aveva avuto vita più facile sulla Croisette rispetto al Grande Sogno di Placido al Lido, a cominciare dalle attese, essendo anche l'unico film italiano in concorso. Ci fu qualche perplessità in proiezione stampa è vero, ma poi una lunga standing ovation alla proiezione ufficiale, e la benedizione della stampa internazionale. Variety lo definì «un'opera entusiasmante, una brillante messa in scena».
I numeri del weekend raccontano anche le sorti degli altri film veneziani. Com'era prevedibile, Le Ombre rosse di Citto Maselli in due settimane ha totalizzato soltanto 54mila euro. Mentre Videocracy in programmazione dal 4 settembre, ha incassato finora 528mila euro. Per entrambi il weekend coincidente con la premiazione di Lebanon di Samuel Maoz, ha inciso parecchio sull'incasso totale, oltre il 40 %.
In soccorso di Placido viene Umberto Croppi, assessore alla cultura di Roma, dove Placido è consulente artistico del Teatro di Tor Bella Monaca. «Al di là di qualche intemperanza di Placido il film non mi pare che esprima nessun atto di accusa a questo governo, è un'opera su cui si possono avere opinioni diverse sulla qualità ma certo non esprime un livello politico di attacco alla maggioranza». Sull'egemonia della sinistra Croppi dice che «nei termini di Gramsci, consiste proprio nell'acquisire alla propria causa la cultura e quindi gli operatori della cultura. Questo parte da un rapporto corretto con chi nella cultura ci sta, a prescindere dalle idee che in quel momento rappresenta».
Discorso che Croppi allarga a Brunetta: «Le produzioni mostrate al Lido possono piacere o no, altra cosa è la contestazione di utilizzare quel palcoscenico per fare dichiarazioni politiche contro il governo, su questo si può discutere sull'opportunità. Però da questo a contestare poi la concessione di contributi alle produzioni ce ne passa molto».

lunedì 14 settembre 2009

l’Unità 14.9.09
5 risposte da Laura Boldrini, Portavoce Unhcr
di Umberto De Giovannangeli


1 Emergenza rifugiati
Le condizioni di sicurezza in alcune situazioni, come ad esempio la Somalia, sono così precarie da rendere difficile la fornitura di assistenza umanitaria alle persone bisognose.
2 Copertura finanziaria
Per molti casi, specialmente quelli di lunga durata, c’è anche un problema di copertura finanziaria, le cosiddette «donor fatigue».
3 Analisi viziate
Contrariamente a quanto si dice spesso, che tutti vogliono vivere in Europa, l’80% dei rifugiati vive nel Sud del mondo, cioè in Paesi poveri. Bisognerebbe alleviare questi Paesi, o attraverso maggiori contributi da parte della comunità internazionale, o accettando delle quote di rifugiati da trasferire in Paesi che hanno più risorse e un minor numero di rifugiati.
4 Tendenza inquietante
Quello dei rifugiati è un fenomeno che, a causa della crisi finanziaria che ha toccato anche le economie dei Paesi del Sud del mondo, e anche a causa di disastri ambientali, pare destinato ad accrescersi in futuro.
5 L’Italia, che fare
Sarebbe auspicabile che l’Italia aumenti i propri contributi sia per le emergenze internazionali che per la Cooperazione allo sviluppo.

l’Unità 14.9.09
Intervista a Giovanni Floris «Sostituiti senza ragione Forse per non farci parlare?»
Il conduttore di Ballarò «Si sono inventati una trasmissione di sana pianta e a noi si chiede di non andare in onda...»
di N.L.


Spiegatemi il perché mi devono sostituire, perché Ballarò dev’essere spostato o non deve andare in onda. C’è qualcosa che non va?»: Giovanni Floris, conduttore di Ballarò, non riesce a trovare una ragione plausibile nell’ordine arrivato dalla direzione generale di lasciare il posto allo speciale di Bruno Vespa. Quando le è arrivata la richiesta di non andare in onda maretedì? La settimana scorsa avete presentato la nuova edizione. «Me l’ha detto oggi (ieri per chi legge, ndr) il direttore Ruffini, che ha manifestato il suo disaccordo all’azienda ma non è stato ascoltato. Mi ha detto: non andiamo in onda perché l’azienda vuole fare uno speciale su RaiUno sulla consegna delle case in Abruzzo. Sono amareggiato, è come lavorare per mandare in stampa un giornale, e il giorno dopo scopri che in edicola ne è andato un altro. È un atto immotivato». Spostamenti nel palinsesto capitano, ma è mai accaduto in questo modo? «È capitato per avvenimenti speciali, dei concerti o delle partite, o per eventi accaduti all’improvviso. Io non sono uno che si oppone per principio, tutti noi facciamo quello che dice l’azienda, ma questa volta ci sostituiscono. Si inventa una trasmissione di sana pianta e ci si chiede di non andare in onda? Non si tratta di un evento imprevisto, la data della consegna delle case il 15 settembre è stata annunciata da tempo, era in agenda. Voglio una spiegazione».
Nella prima puntata avreste parlato anche della consegna delle case prefabbricate ai terremotati? «Ma certo. Abbiamo un inviato in Abruzzo da due settimane. Avremmo fatto il servizio sul terremoto e avremmo anche parlato d’altro: della crisi politica, dei rapporti difficili tra Berlusconi, Fini e Bossi, della stampa straniera, della scuola e dell’economia. Tutti temi caldi alla ripresa autunnale. E alla conferenza stampa di presentazione, martedì scorso, c’era anche il capo ufficio stampa della Rai».
Pensa ci siano dei problemi di contenuti? Non è la stessa cosa far seguire un evento caro al premier da Vespa o da Floris...
«Cancellare Ballarò per far parlare una trasmissione sul tema di cui noi avremmo parlato: questo è successo. Allora vuol dire che non vogliono che siamo noi a parlare di certe cose».
A questo punto però avete accettato di cambiare giorno? «Spero che andremo in onda quanto prima. Io voglio raccontare l’Italia. Spero che questo sia solo un episodio, pur sgradevole e grave».❖

Repubblica 14.8.09
L'orgia del potere nella tv del Cavaliere
di Giovanni Valentini


Un diktat, un atto d´imperio, una censura preventiva. Non contento di avere già a disposizione tre reti televisive private controllate dalla sua azienda di famiglia e due pubbliche controllate dalla sua maggioranza di governo, in piena orgia del potere mediatico il presidente del Consiglio è deciso ora a normalizzare la Terza rete della Rai, l´ultimo bastione della resistenza catodica, per omologarla definitivamente all´informazione di regime attraverso cui controlla a sua volta gran parte dell´opinione pubblica italiana.
La decisione di cancellare la prossima puntata di Ballarò per trasferire lo show sulla consegna delle case ai terremotati dell´Abruzzo a uno speciale di Porta a porta, in programma domani sera in prima serata, conferma purtroppo tutte le preoccupazioni e i sospetti manifestati da più parti negli ultimi tempi. E imprime così il sigillo di Palazzo Chigi su ciò che ancora resta del nostro cosiddetto servizio pubblico televisivo.
Anche se la scelta corrispondesse effettivamente alla volontà di "valorizzare un momento importante per il Paese", come dichiara con falso candore il vicedirettore generale della Rai Antonio Marano; e anche se Bruno Vespa, dopo aver accondisceso senza alcuna esitazione a questa manovra, riuscisse a imbastire una puntata professionalmente ineccepibile della sua trasmissione, la brutalità dell´imposizione danneggia due volte l´immagine e la credibilità dell´azienda di viale Mazzini agli occhi dei cittadini telespettatori. Una prima volta, perché assegna a Porta a porta il crisma dell´ufficialità governativa, quasi fosse l´house organ di Palazzo Chigi, a scapito della sua residua autonomia e indipendenza. E una seconda volta, perché di fatto scredita Ballarò, bollando il programma di Giovanni Floris come infido ed eretico.
Preferenze personali a parte, si può dire in coscienza che nessuna delle due trasmissioni avrebbe meritato un tale trattamento. Né tantomeno i due conduttori, con i rispettivi pregi e difetti. Ma forse, a ben vedere, la sconfessione più grave colpisce il Tg Uno diretto da Augusto Minzolini, da pochi mesi imposto alla guida della maggiore testata giornalistica televisiva, ritenuto evidentemente inadeguato a gestire una serata così speciale: e la scomunica si estende a un corpo redazionale che pure annovera rispettabili professionisti.
Alla radice di questa scelta, c´è verosimilmente l´idea di un´informazione per così dire addomesticata; subalterna al potere politico; incline a rappresentare e a difendere l´immagine del governo, preservandolo da qualsiasi sorpresa, imprevisto, critica o contestazione. Un´informazione imbavagliata, costretta a rispettare il protocollo di Palazzo Chigi, tendenzialmente ridotta al ruolo di megafono governativo. E dunque, agli antipodi del suo ruolo e della sua responsabilità istituzionale: cioè della sua funzione di contropotere, inteso qui come controllo del potere e non già come opposizione pregiudiziale al potere costituito.
Non sappiamo ancora se domani sera assisteremo a una cerimonia autocelebrativa. Oppure a uno show di regime, con la sfilata in passerella della Protezione civile, dei pompieri e dei tanti volontari che pure hanno offerto un contributo assolutamente apprezzabile alla ricostruzione. Ovvero a un altro one-man-show come quelli che Berlusconi ha già più volte interpretato a senso unico sul palcoscenico di Porta a porta, dal celebre "contratto con gli italiani" fino al più recente "Adesso parlo io" all´indomani del caso Noemi.
Da cittadini che pagano il canone Rai, vorremmo sentire però anche le voci dei terremotati, di coloro che hanno perso la casa e magari ne hanno ritrovata una oppure che ancora l´aspettano. E soprattutto, vorremmo sentire gli amministratori locali, i tecnici, gli esperti, tutti coloro che prima e dopo il sisma hanno lanciato l´allarme, denunciando una situazione a rischio che certamente non è finita.

Repubblica 14.9.09
I ministri dell'Astio e l'assalto alla cultura
di Francesco Merlo


OGNI giorno c´è un ministro dell´Astio, il sovrauomo Brunetta innanzitutto, che vomita trivialità ora su uno ora su un altro pezzo d´Italia: i cineasti sono parassiti, la borghesia è marcia, i professori sono ignoranti, gli statali sono fannulloni, gli studenti sono stupidi, gli economisti sono sconclusionati… Insomma ogni giorno arriva un insulto, un dileggio o una derisione a carico di una categoria sociale diversa. E sono parole rivelatrici, più di un album di fotografie, parole che sono la verità di questi uomini.
parole che esprimono il senso compiuto di questi cortigiani del Principe che hanno un conto aperto con la natura o con la società e approfittano del loro potere per sfogarsi, come quei personaggi di Stendhal che cercavano a Parigi il risarcimento degli affronti subiti in provincia.
E infatti non si erano mai visti governanti così furiosi contro i governati. Giganti in esilio dentro corpi politicamente troppo angusti, Brunetta, Gelmini, Bondi e, qualche volta, anche Sacconi e Tremonti, trattano l´Italia come una pessima bestia da addomesticare, hanno elevato il disprezzo ad arte di governo, vogliono far espiare al Paese le loro inadeguatezze e le loro frustrazioni.
Bondi per esempio crede che la cultura sia il computo di sillabe in versi sciolti. Brunetta, che non sopporta la bassezza degli indici di produttività, vorrebbe disitalianizzare l´Italia per farne un campo di concentramento laburista: il lavoro detentivo rende liberi, belli, grandi e anche biondi. La Gelmini persegue un sessantotto al contrario che lobotomizzi fantasia e dottrina e mandi al potere i ragionieri con la lesina come scettro.
Di Bossi è inutile dire: vanta una lunga carriera fondata sulla parolaccia, sul dito medio, sulla scatole rotte, sulla carta igienica, sul ce l´ho duro…
Benché nessun governo abbia mai teorizzato e praticato l´offesa dei propri elettori come scienza politica, l´attacco alla cultura non è certo una novità. Goebbels, che era piccolo, nero e zoppo, metteva la mano alla pistola. Scelba, che era calvo e rotondo come un arancino, coniò il neologismo - culturame - ora rilanciato da Brunetta. Anche Togliatti sfotteva in terronio maccheronico il terrone Vittorini, e più in generale il Partito comunista riconosceva solo gli intellettuali organici, cioè gli intellettuali senza intelletto ma con il piffero…
Insomma, fare guerra alla cultura è sempre nevrosi, alla lunga perdente, ed è comunque manganello nelle sue varie forme, reali e metaforiche. Oltraggiare la cultura è uno scandalo penoso: è come sparare in chiesa, impiccare i neri, imputare all´immigrato clandestino la sua miseria, punire la sofferenza come un reato. Ed è un altro modo di organizzare ronde, magari sotto forma di squadracce ministeriali: prediche, comizi, fatwa…
Se Brunetta potesse pesterebbe i vari Placido d´Italia, da Dario Fo a Umberto Eco e, per imparzialità, anche Pippo Baudo e Fiorello. Per Brunetta e Bondi, infatti, gli uomini colti sono la misura della propria dannazione, lo specchio della propria nudità, come Berlusconi visto dalla D´Addario.
Con quegli uomini, che ora chiamano parassiti, Brunetta e Bondi non sono mai riusciti ad intrattenersi neppure quando militavano a sinistra. È da allora che covano rancori. Odiano i salotti (cioè le buone maniere) che li tenevano a distanza. Disprezzano i libri che non hanno letto né tanto meno scritto e che per il popolo della Padania sono ciapa pulver, acchiappa polvere, deposito di pulviscolo.
Sono rancorosi, Brunetta e Bondi, perché sono stati di sinistra e ora ne sono pentiti visto che solo la destra plebea e indecorosa li ha "capiti", promossi e ben ripagati. Come gli ebrei convertiti dell´Inquisizione cristiana rimproveravano a Cristo la debolezza di amare tutti, così questi ministri cortigiani rimproverano alla casa di produzione Medusa, che appartiene al loro dio, di investire sui nemici di dio, sudditi infidi che loro conoscono come se stessi.
Dunque i ministri dell´Astio danno del parassita agli artitisti di sinistra perché non sopportano che siano sovvenzionati dal loro stesso padrone senza neppure baciargli la mano. Addirittura quelli gliela addentano! Ebbene questa, signori ministri dell´Astio, è stizza.
È la stizza di chi, per avere i favori del Principe, non ha badato a spese, ha cambiato i propri connotati, ha ceduto l´anima, si è legato a doppie catene al suo carro. E ora vede che i vari Placido - non importa se bravi o meno - non si sono fatti ipnotizzare dalla medusa che li paga.
In buona sostanza, l´insulto come forma governo è espressione di malafede e di malessere, un impasto di vita vissuta male e di autoespiazione forcaiola: un film drammatico insomma. Dunque Michele Placido non li quereli, ma li metta in scena. Con i soldi della Medusa. Titolo? "La bava dei servi".

Repubblica 14.9.09
Tra il Grande Nord e il Grande Centro
di Ilvo Diamanti


Sono passati 13 anni da quando la Lega tentò di "strappare" l´Italia. Mobilitando il suo popolo, in marcia lungo il Po fino a Venezia. Dove, da allora, si riunisce puntualmente, ogni anno, a rinnovare il rito padano (e pagano) che vede Umberto Bossi versare in laguna l´ampolla con le acque del Po (ma anche del Piave e dell´Olona).
Per rammentare che l´indipendenza della Padania resta il vero orizzonte della Lega. Anche se il fallimento della manifestazione del 1996 ha costretto la Lega ad accantonare la secessione tornando all´obiettivo del federalismo. Distintivo originario dell´esperienza leghista. Non più rivoluzionario come in origine. Anche per questo la Lega ha spostato, rapidamente e decisamente, la sua offerta politica, concentrandola sui temi della sicurezza. Intorno alle paure prodotte dalla criminalità e dall´immigrazione. Ha anche ridefinito i riferimenti del territorio. I nemici: non più (solo) Roma, ma il Mondo. La globalizzazione. L´Europa larga. I paesi dell´Est. La Cina.
Oggi la Lega è tornata forte come nel 1996, dal punto di vista elettorale. Ha ottenuto oltre il 10% alle europee. Un dato che i sondaggi confermano stabile e, semmai, in ulteriore crescita. Ma, dal punto di vista politico, molto più forte di allora. È Lega di governo. Alleata del Pdl di Berlusconi. Meglio: di Berlusconi e del suo Pmm (Partito mediale di massa). Ma, soprattutto, è la principale artefice dei temi che caratterizzano l´agenda di governo. Tremonti si occupa della crisi economica e finanziaria. Opera importante, ma impopolare. Brunetta insegue i fannulloni che affollano gli uffici pubblici. Ma le questioni che preoccupano maggiormente i cittadini le affrontano gli uomini della Lega. In primo luogo, Roberto Maroni, titolare dell´Interno. Il "ministro della paura", per citare il personaggio interpretato da Antonio Albanese. Ma anche Zaia, vista l´importanza assunta dalle minacce "alimentari". La Lega oggi è soprattutto il "partito securitario". E ciò le ha permesso di sfondare anche nelle zone rosse. In molte province della Toscana, dell´Emilia Romagna e delle Marche. Le più simili alle zone pedemontane del Nord dove è maggiormente radicata. Le aree di piccola e piccolissima impresa. Per altri versi, però, la Lega si è "normalizzata". È l´ultimo partito di massa. L´unico sopravvissuto al crollo della prima Repubblica (a cui ha contribuito attivamente). Ha un´organizzazione diffusa, una base di militanti fedeli - estesa e presente sul territorio. Un giornale, alcune emittenti. Governa in centinaia di comuni piccoli e medi. Ha anche appreso dai "vizi" dei partiti tradizionali, che un tempo contestava fieramente. Ha coltivato un ceto di professionisti politici. Inseriti negli enti e nelle amministrazioni, a livello locale e nazionale. Anche a romaladrona. Basta vedere come ha gestito la vicenda delle nomine Rai. La Lega oggi è un partito forte politicamente. Nel Nord come a Roma. Ma ciò può sollevare qualche problema. Perché rischia, appunto, di normalizzarla. Farla apparire un partito come gli altri. I suoi obiettivi caratterizzanti non la caratterizzano più. Il federalismo è stato raggiunto, anche se non è chiaro cosa significhi. Il suo linguaggio, i suoi proclami, anche i più scandalosi, non scandalizzano più. D´altra parte, dopo le ronde, i respingimenti e il reato di clandestinità, non è chiaro quali altri obiettivi possano scaldare gli animi dei suoi elettori e degli antagonisti. E poi le parole più violente e le iniziative più grevi tendono a perdersi nel rumore di fondo che segna il dibattito politico - in questi tempi tristi. Quando tutti gridano e urlano. E i media frullano in modo indistinto ogni offesa e ogni minaccia, anche la più turpe. Da ciò il richiamo esplicito all´indipendenza padana. Espresso ieri ad alta voce da Bossi. Con echi secessionisti che non si udivano da un decennio. Non a caso. Perché, come nel 1996, il federalismo non basta più. Inoltre, l´etichetta di partito populista e securitario - o xenofobo - non scandalizza nessuno. Ma, anzi, rende più confusa la sua missione originaria. La rappresentanza del Nord. Peraltro, non è casuale anche la sfida lanciata da Casini. Alla Lega e agli altri partiti maggiori. Nello stesso giorno in cui Bossi riprendeva il tema della secessione. Perché c´è simmetria fra la Lega e l´Udc. Anzitutto dal punto di vista territoriale. Perché l´Udc è impiantata nel Sud, dove alimenta, a sua volta, forti spinte autonomiste. Una minaccia per il Pdl, che nel 2008 ha raccolto oltre metà dei voti nel Mezzogiorno e nel Lazio ma solo un terzo nel Nord padano. L´Udc, inoltre, nel Nord fa concorrenza alla Lega. Nel 2006 è cresciuta nelle zone dove è calata la Lega. Viceversa nel 2008. Entrambe, d´altronde, attingono dall´antico bacino elettorale democristiano. A maggior ragione, l´Udc è alternativa alla Lega nei rapporti con la Chiesa e i cattolici. Perché la Lega è una "chiesa locale", che usa i riferimenti della religiosità popolare - la famiglia, il lavoro autonomo, il localismo - come base della propria ideologia. Mentre l´Udc continua a riproporre l´antico modello collaterale. Partito al servizio degli interessi e dei valori della Chiesa. Un´ipotesi che sta raccogliendo nuova attenzione negli ambienti ecclesiali, dopo le tensioni recenti.
D´altra parte, nel 2007 Berlusconi respinse la "pretesa" dell´Udc di presentarsi con il proprio marchio. Come la Lega. Perché la Lega, più ancora di Berlusconi, non l´avrebbe accettato.
Oggi Casini guarda al di là del proprio "piccolo centro". Scommette sul declino del bipolarismo tradizionale per attrarre altri settori e altri leader politici. Ma anche del mondo imprenditoriale e associativo. Conta sulle difficoltà del Pd, impigliato in un percorso congressuale lungo. Che ne sta logorando l´identità e ancor più la leadership. Mentre il Pdl è ormai totalmente risucchiato - e sperduto - nelle vicende personali del suo leader.
La collisione Bossi e Casini pare, dunque, inevitabile. In nome di un nuovo bipolarismo. Fra il Grande Nord e il Grande Centro.

l’Unità 14.9.09
Un disturbo ormai evidente
risponde lo psichiatra Luigi Cancrini


Qualche giorno fa lei adombrava una diagnosi psichiatrica per il cav. Berlusconi. I telegiornali di qualche giorno fa l’hanno «immortalato», a fianco di Zapatero, mentre si attribuiva la palma di «miglior presidente del Consiglio» dall’unità d’Italia ad oggi. Berlusconi è il capo del governo. C’è da preoccuparsi?
Giovanni Cappellari
RISPOSTA Sì. Il potere fa male alle persone che soffrono di un disturbo narcisistico di personalità e la diretta televisiva da La Maddalena ha proposto, in modo a tratti perfino imbarazzante, l’idea di una persona malata che sta perdendo il controllo di quello che dice e la percezione dei contesti in cui si muove. Il disagio di Zapatero, le risatine del pubblico, la lunghezza spropositata dell’intervento, l’ingenuità quasi infantile di alcune affermazioni («A me piace la conquista, pagandole che piacere ne avrei?»), il bisogno irresistibile di parlare di sé dimenticando i contenuti e le ragioni politiche di un incontro fra capi di governo, le minacce fuori misura alla D’Addario e a “El País” proponevano in modo quasi caricaturale la comicità involontaria dell’uomo che straparla, che sta «fuori di testa», di fronte a persone che non sanno che fare per fermarlo. In prima fila impassibile, estasiato senza capire nulla di quello che stava accadendo c’era solo Frattini. Innamorato di un capo che sta male e pericoloso assai: per lui, che di tutto ha bisogno tranne che di una ammirazione incondizionata, e per tutti noi.

Corriere della Sera 14.9.09
Il leader udc rifiuta la «santa alleanza con il Pd contro Berlusconi»
Casini: un’altra maggioranza: «Bossi minaccia le elezioni? Facciamole»
di Andrea Garibaldi



La sfida di Pier Ferdinando Casini: «Bossi minaccia le elezioni anticipate? Facciamo­le! Ci vogliono dieci minuti per trovare un’altra maggioranza».

CHIANCIANO (Siena) — Pier Ferdinando a Chianciano mette la prima pietra del Gran­de Centro, la nuova Dc: «Un anno e mezzo fa eravamo dei sopravvissuti, oggi siamo deci­sivi. Ieri eravamo da far fuori, oggi da corteggiare». All’Udc di Casini chiedono alleanze sia il centrodestra sia il centro­sinistra, e «questa è la prova che il bipartitismo è morto», dice Casini. Anche con il sei virgola sei per cento (Europee 2009), l’Udc ha smontato i pia­ni dei due giganti: «Siamo la forza per il cambiamento del Paese. Perché la politica di og­gi non piace agli italiani». Co­sì, Casini può già lanciare una sfida clamorosa: «Bossi minac­cia le elezioni anticipate, se non viene ascoltato? Faccia­mole!
Qui c’è un partito pron­to, con ben altra forza di quel­la che si vede. Se Berlusconi non dice 'basta', ci vogliono dieci minuti per trovare in Par­lamento una maggioranza am­pia che non vuole stare a dik­tat e ricatti della Lega!». Casi­ni evoca una rivolta trasversa­le, contro «una forza politica che instilla veleno», con i dia­­letti, le bandiere, la lotta alla Chiesa, Nord contro Sud: non c’è prova della realizzabilità del progetto, ma in un mo­mento come questo la sola enunciazione può aggiungere ansie a Berlusconi. Ne ha par­lato anche D’Alema, ieri: «Non dobbiamo temere le elezioni anticipate, anche se questa mi­naccia è grave».
Ora si tratta, per Casini, di allargare i confini. Qui, attor­no all’Udc, c’erano associazio­ni cattoliche e di categoria, e Sant’Egidio, il Movimento per la vita, Bonanni e Angeletti. Casini vuole rappresentare «i volontari e non le veline», da­re un messaggio di moralità «a chi crede che la politica sia fatta di festini con escort ». Su questioni come «la sacralità della vita» chiama a raccolta i parlamentari cattolici di ogni schieramento. Fini è venuto a Chianciano sabato e sul testa­mento biologico ha citato il ca­techismo. Casini, un filo d’iro­nia, gli dice «grazie, non per la lezione di catechismo, ma perché difenderà i diritti di tutti i parlamentari». Chiede a Berlusconi di «non passare il 90 per cento del tempo a insul­tare l’opposizione». Gli chiede di coinvolgere chi non è in maggioranza, di ascoltare il Parlamento. E di fare le rifor­me, pubblica amministrazio­ne, previdenza, e le liberalizza­zioni, e fuori i partiti dalla sa­nità.
Per tre volte, poi, picchia sull’«amico Franceschini», che ripropone la «Santa Alle­anza » contro Berlusconi, che lascia alla Lega il monopolio della lotta contro la clandesti­nità, che condanna l’idea del Grande Centro.
Allora, l’Udc tentenna fra i due poli? «Ma no! Noi voglia­mo mandarli a casa, cambiare il sistema. Non possiamo oggi fare alleanze organiche né con gli uni né con gli altri. E non è furba equidistanza, non è la convenienza dei due forni. Scommettiamo sul futuro». Però, dice Casini, «non abbia­mo fatto voto di castità»: quin­di per le elezioni regionali so­no possibili accordi diversi qui e là, «ma non scegliamo mai il partito degli assessori di fronte alle nostre prospetti­ve politiche». L’obiettivo stra­tegico è il nuovo partito, per le prossime elezioni politiche. Entro poche ore Franceschini (Pd) dirà che «stiamo assisten­do al 32˚ tentativo di dare vita al Grande Centro» e Bondi (Pdl) che il Grande Centro è «una vaga formula politica». Voliamo lungo, voliamo alto, aveva concluso Casini, da Chianciano, i suoi 90 minuti da grancentrista.

l’Unità 14.9.09
I docenti di religione
di Aldo Capasso


L’accorpamento delle classi automaticamente riduce il numero degli insegnanti, e quindi anche i vari tipi di discipline.
Nel caso dell’insegnamento della religione: riducendosi le classi si dovrebbero ridurre i relativi docenti, invece questo non avviene perché, ormai non più precari, vengono, in forza della legge 186 (16/7/2003), spostati su altri insegnamenti e tolgono posti ai docenti che, seppure precari, hanno sostenuto un esame di abilitazione o altro. Al tempo, quando furono assunti più di 25 mila insegnanti, con una semplice idoneità di competenza della Curia, la classe docente statale non si rese conto del danno che avrebbe subito, ma la «solidarietà» tra colleghi e la potenza della Chiesa presero il sopravvento, nonostante la palese ingiustizia che veniva perpetrata a chi regolarmente e con fatica ha rispettato le leggi dello Stato.

l’Unità 14.9.09
Parte oggi il nuovo anno scolastico, tra strutture fatiscenti e mille proteste dei precari
Si ritorna al maestro unico e si lancia la novità degli sms. Oggi presidio al ministero
Meno insegnanti, meno ore di lezione Parte la scuola secondo Gelmini
Riapre oggi una scuola più povera: meno insegnanti, meno ore di lezione, più confusione. Il segno dell’era Gelmini sono le manifestazioni di docenti precari e le aule fatiscenti.
di Maristella Iervasi


ROMA Le pagelle magari saranno pure on line e le assenze dei figli verranno comunicate ai genitori via sms. Uno specchietto per le allodole, visto come la ministra unica dell’Istruzione ha ridotto la scuola che riapre oggi i portoni.
LA SCURE DI TREMONTI
Sempre più studenti appiccicati uno all’altro, stretti in classe fino a trentatré ragazzi adolescenti e magari con al fianco diversi alunni con disabilità. Meno ore di lezione e nuove materie come quella che debutta alle medie: un’ora di «approfondimento in materia letteraria», che non si sa a chi spetta.
E insegnanti ridotto all’osso, al punto che i presidi non sanno come fronteggiare gli esoneri alla religione cattolica. Ma non finisce qui.
Le scuole riaprono più povere di prima in tutto, e non solo per la carta igenica e il sapone che sarà sempre a carico dei genitori: alla sonora sforbiciata di cattedre e risorse si aggiunge la questione della sicurezza. Non solo per l’edilizia scolastica che cade a pezzi: la scure di Tremonti è stata usata con vigore anche sui bidelli e il personale di segreteria. La sorveglianza dei bambini e dei ragazzi è demandata al fai-da-te.
Ecco la scuola del rigore e del merito decantata dall’avvocato-ministro Mariastella Gelmini. Ore 8: scatta l’era Gelmini. Zaini in spalla, si ricomincia. È il primo giorno di scuola per oltre sei milioni e mezzo di bambini e ragazzi che vivono in dodici regioni. Ancora qualche giorno di vacanza per altri studenti: in l’Emilia Ro-
magna e il Friuli Venezia Giulia tornano nei banchi martedì, nelle Marche e in Basilicata mercoledì, il 17 sarà la volta della Sardegna e il 18 di Puglia e Sicilia. E anche nel terremotato Abruzzo riprenderanno e lezioni interrotte dal devastante sisma: tra il 21 settembre e il 3 ottobre scatta il tutti in classe.
Al pettine tutti i “guasti”, il gran caos e le mistificazioni del ministero. Per la scuola, un anno “horribilis”. Presidi e dirigenti lasciati soli a garantire la didattica e l’ordinaria amministrazione. Ma la Gelmini nel primo giorno di scuola si è assicurata il suo spazio a Mediaset. Solo dopo andrà a Napoli per inaugurare l’anno scolastico all’istituto penale per minorenni di Nisida. I docenti precari scalzati dagli ammortizzatori sociali promessi dal governo l’aspettano al varco.
ELEMENTARI
È il giorno del ritorno del maestro unico prevalente nelle classi prime ma l’imposizione della Gelmini ha fatto un sonoro flop, nonostante i numeri sulla scelta delle famiglie che il Miur ha “girato” a proprio tornaconto. L’Onda anti-Gelmini almeno in questo è riuscita a contrastare la ministra-avvocato: ha tenuto testa al maestro “tuttologo”. Pochissime le classi a 24 ore, aumentano quelle a 27-30 e 40 ore con il tempo pieno. Abolite tutte le compresenze, che vuol dire abolire i laboratori come quello di informatica, impossibili da gestire da una sola maestra con 27 alunni. A rischio anche le uscite didattiche e le attività di recupero. Si prevedono disagi per i bidelli ridotti all’osso.
MEDIE
Un tempo scuola di 30 ore settimanali. Cattedre a 18 ore, aumento del numero degli alunni per classe, fino a 30. Gli insegnanti di Lettere faranno solo lezioni frontali e non potranno più svolgere potenziamento, recupero e progetti. Anche qui laboratori a rischio per la cancellazione delle compresenze.
SUPERIORI
Un taglio di insegnanti di 11mila unità da subito. Classi-pollaio come non mai: da un minimo di 27 fino a 33 alunni. E non finisce qui. Dal prossimo anno scatta il riodino di Licei, Tecnici e Professionali. Per ora la riforma della scuola superiore non è legge. Spariranno tutte le sperimentazioni. Ai licei un tempo scuola più corto che alle medie: 27 ore al biennio e 30 al triennio (31 al Classico). Negli istituti si costituiranno dipartimenti e comitati scientifici. Come le aziende.
L'ONDA
Mobilitazioni, siti-in, occupazioni degli Uffici scolastici regionali e insegnanti precari in sciopero della fame. Dal Piemonte alla Sardegna riparte l'onda anti-Gelmini. Volantinaggi sotto le scuole del Paese: "Io non ci sto", mentre dilaga la protesta sindacale. Oggi presidio della Flc-Cgil contro la soluzione dei contratti di disponibilità in viale Trastevere. E anche la Gilda degli Insegnanti chiede provvedimenti più incisivi che diano risposte a tutti i precari. Anche i Cobas di Piero Bernocchi in prima fila. Il 9 ottobre lo sciopero dell'Unicobas. ❖

l’Unità 14.9.09
Precari scuola, nel caos l’inizio delle lezioni
Una polpetta avvelenata


Scuola, si ricomincia. E il “catalogo” della Gelmini è questo: 42.000 insegnanti e 15.000 impiegati in meno, chiusura di 350 scuole, via ai moduli, riduzione del tempo pieno al vecchio dopo scuola parcheggio e strette disciplinari in ordine sparso. È questa la polpetta avvelenata che l’esecutivo, con una serie di provvedimenti a orologeria che hanno debuttato con l’articolo 47 della legge 133, ha preparato per la scuola italiana. Non solo per i precari che da quest’anno – e almeno per i prossimi tre – perderanno il lavoro, ma per studenti, famiglie e in generale il sistema del paese: come si può ricostruire un tessuto economico, uscire bene dalla crisi se si riducono costantemente tempo scuola e risorse a disposizione per il sistema dell’istruzione, della ricerca e dell’università? Le proteste di questi giorni dei precari, colorite, fantasmagoriche, fantasiose – tra cui quella dello scorso giovedì a Roma presso il ministero della Pubblica istruzione – puntano proprio a questo: a far capire alle persone che in gioco non sono in gioco il pure fondamentale posto di lavoro di tanti insegnanti che in questi anni
hanno sulle proprie spalle retto la scuola italiana (e poi a fine anno venivano licenziati: perché costa meno che assumerli, perché ormai si fa così nel mondo del lavoro uso e getta che la nostra società ha creato) ma quello, appunto dell’intero paese. Ed è su questa lunghezza d’onde che si sta muovendo la CGIL, che ha già minacciato uno sciopero generale con manifestazione qualora i tagli non vengano ritirati.
Del resto la situazione non è cambiata con gli sbandierati provvedimenti salva precari che, nei fatti, si limitano a prevedere l’anticipazione di un’indennità di disoccupazione e la precedenza nel conferimento delle supplenze brevi. Pannicelli caldi, come già abbiamo avuto modo di scrivere su queste pagine. Né rassicurano i singoli provvedimenti che alcune regioni stanno adottando per il sostegno ai lavoratori rimasti senza posto. Aldilà dei contenuti, è pericolosa l’idea di un sistema di tutele a geometria variabile, un federalismo scolastico in cui le regioni più ricche “danno”, mentre le altre non possono farlo.
In fondo è la prova generale di un welfare a geometria variabile e sul quale, in questo caso, anche il Sole 24 Ore ha avuto da dire nei giorni scorsi.

Corriere della Sera 14.9.09
Intervista al ministro «I precari assorbiti in 5 anni». «Soglia del 30% agli stranieri in classe»
«Chi fa politica lasci la scuola»
La Gelmini sfida gli insegnanti che non applicano la riforma
di Lorenzo Salvia


Si apre l’anno scolastico e il ministro Mariastella Gelmini sfida insegnanti e dirigenti che non applica­no la riforma: «Criticare è legittimo ma comportarsi così significa far politica a scuola e questo non è cor­retto. Se un insegnante vuol far politica deve usci­re dalla scuola e farsi eleg­gere » .
Poi attacca i sindacati sui precari: «Sono state ven­dute illusioni, ma credo che nei prossimi cinque an­ni la gran parte verrà assor­bita ». Riguardo agli stranie­ri in classe chiarisce: «Dal­l’anno prossimo ci sarà un limite del 30 per cento».

ROMA — «Ci sono alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoran­za, che disattendono l’attuazione del­le riforme». In che senso disattendo­no? «Ad esempio vogliono mantenere il modulo anche se il modulo è stato abolito con il passaggio al maestro unico prevalente». Alcuni docenti, co­me sa, non condividono la riforma. «Criticare è legittimo ma comportarsi così significa far politica a scuola e questo non è corretto. Se un insegnan­te vuol far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere. Quella è la se­de per le sue battaglie, non la catte­dra ». Comincia l’anno scolastico, il mi­nistro della Pubblica istruzione Maria­stella Gelmini ha appena fatto gli au­guri («in bocca al lupo») agli 8 milio­ni di studenti che da oggi torneranno in classe. Ma, con la protesta dei preca­ri e la manifestazione annunciata dal Pd, questo primo giorno di scuola sembra portare con sé nuove tensio­ni.
Ieri, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia ha paragonato il ruolo del ministro dell’Istruzione a San Se­bastiano, bersagliato da ogni parte e destinato quasi sempre a scontenta­re tutti. Lei è su quella poltrona da un anno e mezzo, si trova d’accor­do?
«È vero, è un ruolo complicato ma non mi sento un ministro particolar­mente contestato. Tempo fa, ricordo, ne parlai con il mio predecessore Lui­gi Berlinguer».
Anche lui ebbe qualche guaio.
«Con un certo senso dell’umori­smo mi disse che ero molto fortunata perché il vero inferno l’aveva vissuto lui, criticato anche dalla sua stessa maggioranza».
Lei non ha questo problema ma oggi ci saranno manifestazioni di protesta in tante città.
«Rispetto chi contesta ma sono con­vinta che si tratti di un numero molto limitato di persone».
Limitato?
«Limitato rispetto ai tanti genitori e studenti che non si vogliono più ac­contentare di una scuola mediocre. E che non vogliono sentir parlare solo di organici e di curriculum ma di scuo­la come luogo di educazione, di un servizio che dovrebbe stare a cuore a tutti. Come gli ospedali».
Per rimettere ordine nel campo dell’istruzione Galli della Loggia si augura proprio uno sforzo congiun­to di tutte le forze politiche interes­sate al bene del Paese. Lei ci crede?
«No. Nella mia prima audizione in Parlamento avevo auspicato che tutte le riforme venissero affrontate con uno spirito bipartisan. Dopo un anno, dalla sinistra non ho sentito proposte ma solo invettive contro il governo: se necessario, quindi, andremo avanti da soli. Su questo punto sono delusa dal mio predecessore, Giuseppe Fioro­ni ».
Alcune riforme del ministro Pd, ad esempio sull’istruzione tecnica e sulla formazione, lei però le ha con­fermate.
«Sì, perché sono decisioni che con­divido. Ma credo che ormai Fioroni debba scegliere se fare il responsabile istruzione del Pd, e quindi lavorare per il bene della scuola italiana, oppu­re fare politica punto e basta. Nessuna sorpresa se lui gioca una partita in vi­sta del congresso del suo partito ma non usi la scuola come strumento del­la contesa tra Franceschini e Bersani. La scuola non può essere il luogo del­la protesta della sinistra e della Cgil».
Intende dire che la protesta dei precari è strumentalizzata dalla sini­stra?
«La protesta esprime un disagio rea­le che va rispettato. Ma la sinistra pre­ferisce salire sui tetti per esprimere la solidarietà ai professori e cavalcare il disagio sociale senza assumersi re­sponsabilità per il passato».
Sono solo loro le responsabilità? In questi anni ha governato anche il centrodestra.
«Sono responsabilità che vengono da lontano. Per anni, complici i sinda­cati, si è data la sensazione che ci fos­se spazio per tutti quelli che volevano fare gli insegnanti, per poi lasciarli in graduatoria anni ed anni. Sono state vendute illusioni che si sono trasfor­mate in cocenti disillusioni».
Ma chi aspetta un posto da 20 an­ni ed è ancora precario ha forse tor­to a scendere in piazza e chiedere una cattedra, uno stipendio?
«No, certo. Credo che nei prossimi cinque anni, grazie ai prepensiona­menti, la gran parte di questi precari verrà assorbita negli organici. Ma è fondamentale impedire che nel frat­tempo si allunghi di nuovo la coda. Per questo abbiamo chiuso le sis, le scuole di specializzazione per l’inse­gnamento, e introdotto il numero pro­grammato ».
È vero che il Quirinale ha espres­so dubbi sull’inserimento della nor­ma salva precari nel decreto Ronchi sulle violazioni comunitarie? Servirà un decreto ad hoc?
«Dal Colle non ci è arrivata nessu­na comunicazione ufficiale. Se arrive­rà la rispetteremo anche se resto con­vinta della nostra scelta. In ogni caso sarebbe uno slittamento di pochi gior­ni ».
Ministro, gli stranieri sono sem­pre più numerosi nelle nostri classi. In alcuni casi si arriva al 97 per cen­to degli studenti: va bene così?
«No, rischiamo di creare delle clas­si ghetto. Dall’anno prossimo ci sarà un limite del 30 per cento. Volevamo introdurlo già quest’anno ma non c’erano i tempi tecnici per procede­re ».
L’inglese alla scuola media. La possibilità di aggiungere due ore al­le tre già previste si è scontrata con le ordinanze del Tar del Lazio. Ci ri­proverà l’anno prossimo?
«È vero che ci sono delle difficoltà applicative. Ma, compatibilmente con gli organici, è una strada percorribile già quest’anno. È stata chiesta dal 15 per cento delle famiglie».
E per l’università? Quando crede che arriverà in porto la riforma?
«Tra ottobre e novembre partirà l’esame in Parlamento, spero che il prossimo anno sia operativa».
Anche quest’anno ci sono stati er­rori nei test d’ingresso. È un model­lo da modificare?
«Per medicina c’era solo un errore sul sito internet, l’abbiamo corretto e il quesito sarà conteggiato. Mentre per architettura stiamo valutando se non tener conto di una domanda che forse non era chiara. In futuro i test non saranno più gestiti dalle singole università ma nazionali, per ogni fa­coltà. Così sarà possibile indirizzare ogni ragazzo verso la facoltà più adat­ta al suo talento ed al suo merito».

l’Unità 14.9.09
Il Vaticano ai farmacisti cattolici: «Non vendete la pillola abortiva»
Il farmacista cattolico sia al servizio della vita e rispetti la morale della Chiesa, non tenga conto solo del business. Dal «ministro» vaticano della Sanità monsignor Zimowski un invito: non distribuite la pillola abortiva Ru 486.
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO Obiezione di coscienza e opera di dissuasione. Questa deve essere la scelta dei farmacisti cattolici qualora venissero loro richiesti farmaci che mettono in discussione la vita, come la pillola abortiva Ru 486, gli anticoncezionali o farmaci in grado di favorire di fatto l'eutanasia. Lo ribadisce l'arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, intervenendo al Congresso Mondiale dei farmacisti cattolici in corso a Poznan, in Polonia e dai microfoni di Radio Vaticana. I farmacisti non devono piegarsi alle logiche del businness. Una cosa, puntualizza, è il giusto guadagno altro è compiere scelte che sarebbero in contraddizione con i principi della morale cristiana. Lo fa rilanciando una presa di posizione del 2007 di papa Ratzinger ed una del suo predecessore, Giovanni Paolo II sul ruolo di servizio alla vita del farmacista cattolico. «Nella distribuzione delle medicine affermava papa Wojtyla il farmacista non può rinunciare alle esigenze della sua coscienza in nome delle leggi del mercato, nè in nome di compiacenti legislazioni. Il guadagno, legittimo e necessario, dev' essere sempre subordinato al rispetto della legge morale e all'adesione al magistero della Chiesa». Quindi ribadiva i punti fermi della Chiesa «sul rispetto della vita e della dignità della persona umana, sin dal suo concepimento fino ai suoi ultimi momenti» che «non può essere sottoposto alle variazioni di opinioni o applicato secondo opzioni fluttuanti». È più esplicita la riproposizione del pensiero di Benedetto XVI che fa riferimento proprio allo smercio di farmaci come la pillola «abortiva» Ru 486. «Non è possibile anestetizzare le coscienze, ad esempio sugli effetti di molecole scriveva nel 2007 che hanno come fine quello di evitare l'annidamento di un embrione o di abbreviare la vita di una persona. Il farmacista deve invitare ciascuno a un sussulto di umanità, affinché ogni essere sia tutelato dal suo concepimento fino alla sua morte naturale e i farmaci svolgano veramente il ruolo terapeutico». Il
Vaticano rilancia il suo affondo per contrastare lo smercio di farmaci come la pillola abortiva Ru 486 e torna ad ipotizzare l’invito all’obiezione di coscienza dei farmacisti cattolici.
LA RISPOSTA DEGLI OPERATORI
Gli operatori del settore rispondono che per il farmacista questo, a differenza di medici e infermieri, non è consentito. «Il farmacista è tenuto per legge a dispensare un farmaco, o a procurarlo entro il più breve tempo possibile, a fronte della prescrizione del medico» precisa la presidente di Federfarma, l'associazione che riunisce i titolari di farmacie private, Annarosa Racca. E il presidente di Farmindustria, l’associazione dei produttori di farmaci, Sergio Dompé esprime «grande rispetto per il magistero della Chiesa e per il Papa», ma puntualizza«i farmaci sono fatti e pensati per risolvere problemi e aiutare le persone, e se la farmacologia e le aziende del farmaco possono mettere a disposizione soluzioni in tale direzione, è dovere delle aziende e del mondo scientifico farlo». Senza escludere soluzioni a problemi come il fine vita o il concepimento.
Il senatore del Pd, Ignazio Marino, cattolico e medico, osserva: «I farmacisti devono svolgere il loro lavoro obbedendo alle leggi dello stato laico. Se non se la sentono possono rinunciare ad avere una farmacia».❖

l’Unità 14.9.09
Intervista a Gianni Rinaldini
«Un’intesa senza Fiom è follia. Contro la crisi serve coesione»
Il segretario accusa Federmeccanica: rigettata la nostra piattaforma con parole ingiuriose «In una fase drammatica per tanti lavoratori si pensa a distruggere il contratto nazionale»
di Laura Matteucci


A questo punto, chi continua a parlare di coesione sociale prende in giro la gente. È una follia pensare di poter gestire una fase come l’attuale non solo escludendo la Fiom, ma di fatto negando qualsiasi forma di democrazia». Il segretario della Fiom Cgil Gianni Rinaldini sintetizza la situazione, dopo lo strappo dell’altro giorno con Federmeccanica, che ha rigettato la sua piattaforma e criti-
cato la proposta di una soluzione transitoria. «Le questioni aperte nel paese, economica e occupazionale, hanno necessità di iniziative coordinate e unificate. Noi siamo andati al tavolo con delle proposte chiare, e quello che abbiamo ottenuto sono state le dichiarazioni ingiuriose di Santarelli (il direttore generale di Federmeccanica, che ha definito le proposte “un foglietto bianco con quattro slogan”, ndr). Ingiuriose nei confronti dei lavoratori».
Rinaldini, facciamo un passo indietro: qual è la vostra proposta? «È una proposta precisa che non ha bisogno di un documento di 40 pagi-
ne. Chiediamo un armistizio per il prossimo biennio mettendo al centro il lavoro, una discussione su contratto e occupazione intesi come due elementi inscindibili. È la condizione per parlare poi di processi di riorganizzazione e riconversione del sistema industriale. Abbiamo chiesto il blocco dei licenziamenti e l’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori. Una soluzione transitoria sulla parte economica. In più, la sospensione del sistema di regole contrattuali, con l’impegno a ridiscuterne al termine del biennio. Perchè, ricordiamolo: il contratto nazionale unitario, valido quattro anni, è stato firmato e approvato con referendum dai lavoratori, e disdettato da Fim e Uilm due anni fa senza alcun mandato da parte dei lavoratori». Non è scontato che la Fiom faccia una proposta a Federmeccanica, eppure non è stata nemmeno presa in considerazione. E l’apertura di Marcegaglia verso la Cgil, di cui si è tanto parlato solo qualche giorno fa? «Esercizi di buona volontà, che non funzionano in sede contrattuale. In realtà non avevamo avuto alcun segnale di modifica dell’atteggiamento di Federmeccanica nei nostri confronti. Comunque formalmente Santarelli si è riservato di darci delle risposte. Di fatto, è chiaro, proseguirà le trattative con Fim e Uilm. Del resto, hanno già definito il calendario degli incontri per tutto settembre, a partire da giovedì prossimo. È per questo che abbiamo abbandonato il tavolo, lasciando solo un osservatore». Un commento sull’atteggiamento di Fim e Uilm.
«Per quanto ci riguarda, sono dentro un percorso di accordo separato, discuteranno la loro piattaforma. Che dire? Ritengo una follia pensare di gestire questa situazione non solo escludendo la Fiom, ma qualsiasi forma di democrazia».
E adesso, che succede? Un altro accordo separato delle tute blu certo non aiuta a mantenere la coesione sociale e a raffreddare le tensioni. «In Italia, ci sono decine e decine di presidi e di proteste dei lavoratori. E la situazione in termini di tensione sociale è destinata a crescere. Noi della Fiom decideremo oggi le prossime mosse. Ma l’operazione, da parte di Federmeccanica e del governo, è evidente».
E qual è?
«La distruzione del contratto nazionale, passo dopo passo, mentre la contrattazione aziendale viene finalizzata solo alla produttività e ai bilanci delle imprese. Il governo pensa alla detassazione dei premi di risultato? Solo una beffa, che mira a distruggere definitivamente il sistema fiscale progressivo. Il peso del fisco ricade interamente sul lavoro dipendente, mentre vengono favorite tutte le altre forme di determinazione del reddito».❖

l’Unità 14.9.09
Mantova
Con 60.000 biglietti staccati si è chiuso ieri il Festivaletteratura
Ospite il regista di «Shoah» che ha presentato la sua autobiografia
Lanzmann: «La vostra Italia ancora all’ombra del fascismo»
di Maria Serena Palieri


Claude Lanzmann nella sua autobiografia La lepre della Patagonia racconta l’impressione che ebbe quando, nel 1946, visitò l’Italia: l’immagine che ne dà è quella di un Paese all’epoca ancora «sotto l’ombra» del fascismo, per parafrasare il titolo di un fortunato saggio di Guido Crainz. E l’Italia di oggi, sostiene, di quell’«ombra» è figlia: l’ex partigiano e autore di Shoah punta il dito non contro i nostalgici del Duce in senso stretto, ma contro l’alleanza tra Lega e Berlusconi. Lanzmann ieri pomeriggio in quello che è il luogo d’onore del Festivaletteratura, il Cortile della Cavallerizza di Palazzo Ducale (dove code interminabili e folle reverenti hanno accolto sia Erri de Luca e la sua lettura della Bibbia che Sophie Kinsella), ha chiuso la rassegna mantovana a dialogo con Luciano Minerva.
LE IRRITAZIONI DI CLAUDE
Carattere ruvidissimo, Lanzmann, qui a Mantova ha girato per due giorni evitando di incrociarsi, uno, con i rappresentanti della Einaudi, la casa editrice colpevole di aver mandato in libreria nel 2007 in dvd il suo tragico capolavoro, Shoah, doppiato anziché sottotitolato; due, con quelli della Rizzoli, colpevoli di avergli sottoposto una traduzione di La lièvre de Patagonie (in Francia uscito per Gallimard) realizzata in soli tre mesi e quindi a suo parere, per assunto, non all’altezza di un’«opera letteraria» (l’edizione italiana programmata per gennaio 2010 è così rimandata a data da destinarsi); tre,
Claude Lanzmann Un ritratto del regista ospite ieri di Festivaletteratura, Mantova
con Georges Didi-Huberman, lo storico dell’arte col quale ha avuto in Francia una polemica in stile guerra totale per l’interpretazione di alcune fotografie realizzate da detenuti di Auschwitz ai compagni di sventura del Sonderkommando. Minerva ha esordito citando dei fotogrammi-clou di Shoah, quelli in cui Abraham Bomba, barbiere a Tel Aviv, ricorda quando doveva tagliare i capelli alle donne avviate alla camera a gas, per poi interrogare Lanzmann sulla sua partecipazione al maquis, quel viaggio in Italia nel ’46, l’amicizia con Sartre e Simone de Beauvoir...
Festivaletteratura, tredicesima edizione, ha chiuso con questi numeri: 60.000 biglietti staccati e 30.000 presenze agli eventi gratuiti. Ovvero un incremento tra il 5 e il
10% rispetto all’anno scorso. A controprova di quanto si va dicendo da inizio anno: che, cioè, la crisi anziché deprimere favorisce i consumi culturali, nella misura in cui è evidente i consumi restano a prezzi bassi. L’appuntamento per l’anno prossimo sarà dall’8 al 12 settembre. Nella quattordicesima edizione ritroveremo le novità di quest’anno, la «retrospettiva» dedicata a un autore così come la lettura delle pagine culturali della stampa italiana e internazionale. Più qualcuna ulteriore che, com’è prassi, maturerà nel lungo autunno-inverno mantovano. Mesi durante i quali la città dei Gonzaga si cimenterà col gioco intrapreso negli ultimi anni: la lettura collettiva d’un romanzo popolare di altri tempi. Quest’anno, via a Zanna bianca. ❖

Repubblica 14.9.09
Bauhaus
Quando fu creata l'arte democratica


Novant´anni fa Walter Gropius fondava a Weimar la sua scuola che rivoluzionò la cultura del Novecento. A Berlino una grande rassegna rievoca quel movimento che fece nascere la modernità

BERLINO. Ma dove sta scritto che le stagioni di profonda crisi economica e sociale siano poco propizie alla creatività e alle arti? La Germania della Repubblica di Weimar, negli anni seguenti alla sconfitta della prima guerra mondiale, è la più clamorosa smentita di questo assunto. Berlino era attraversata da folle di disperati, la carta moneta era divenuta carta straccia, reduci e mutilati si aggiravano affamati per le strade. Eppure, in questo clima di disfatta, nacque, come fiore dal deserto, il Bauhaus: nella piccola Weimar fu fondata una scuola di arti e mestieri nata dalle ceneri dei Deutscher Werkbund. Il Bauhaus rivoluzionò l´arte del Novecento come nessun altra istituzione ha saputo fare nel corso del secolo: ci fu un deus ex machina e si chiama Walter Gropius; elegante e intelligente era cresciuto nella scuola di un maestro come Peter Behrens, era stato tra fondatori del Ring e del Novembergrupp, espressionisti di punta, e s´era legato alla socialdemocrazia. Riteneva Gropius che le arti dovevano rispondere ai bisogni di una società di massa: perché questo disegno democratico si realizzasse bisognava creare uno strumento di formazione capace di produrre un tecnico che sapesse dar nuova forma al mondo delle più avanzate tecnologie. Il suo credo è felicemente riassunto nel volume Per un´architettura totale, ora riedito da Abscondita.
Per circa dieci anni, dal 1919 al 1928, Gropius diresse questa scuola, dapprima a Weimar, poi dal 1925 a Dessau: nella nuova sede da lui stessa costruita - vero manifesto della nuova architettura - Gropius ebbe il talento di riunire attorno a sé pittori, architetti, scenografi, fotografi della più diversa provenienza e con vocazioni non affatto uniformi. Bauhaus. Un modello concettuale che si tiene al Martin-Gropius-Bau (fino al 4 ottobre), a cura di Annemarie Jaeggi, vuole celebrare i novant´anni di questa avventura e ricordare la mostra che si tenne al MoMa di New York ottant´anni fa. Alfred Bahr fece così conoscere all´America la produzione del Bauhaus. Circa 900 pezzi sono in mostra tra dipinti, disegni, sculture, foto, modelli con molte novità e inediti di cui è impossibile dar conto.
Il Bauhaus si chiude nel 1933: Gropius, costretto a lasciare la direzione della scuola nel 1928, emigrò in Gran Bretagna prima, negli Stati Uniti poi. Le camice brune imposero i tetti a capanna all´edificio del Bauhaus, grottesca messa in scena che avrebbe dovuto cancellare la nitida chiarezza di questa architettura che divenne icona della modernità. Grande direttore d´orchestra, al pari di Furtwängler, Gropius ebbe nel Bauhaus solisti d´eccezione: passare in rassegna i loro nomi e le loro opere, prodotte in soli 14 anni, fa dire che la modernità di cui è intriso il Novecento nasce lì.
Diciotto sale, nell´edificio classicista costruito dal prozio Martin, scandiscono in modo didatticamente felice il dispiegarsi di questa avventura artistica che ha tra i suoi protagonisti Wassily Kandinsky e Paul Klee, le cui grammatiche formative e antagoniste forgiarono decine di allievi. L´uno svizzero l´altro russo, le loro lezioni furono pubblicate in parte nei Bauhausbürcher. In taluni casi la mostra offre spazi monografici, ma la tessitura del Bauhaus è articolata e complessa e l´una rimanda all´altra: Johannes Itten esplora la teoria dei colori e costruisce tele e sculture, Lázló Mohly-Nagy, ungherese, s´occupa di fotografia e cinema, e ha per collega l´americano Lionel Feininger; Hirschfeld elabora i suoi collage sperimentali e Herbert Beyer è un grande della foto. Oscar Schlemmer, scenografo e coreografo, con i manichini meccanici, rivoluziona il teatro d´avanguardia che ebbe, in questi anni della Repubblica di Weimar, come punte di diamante Bertolt Brecht e Kurt Weil. Sono gli anni della grande sperimentazione espressionista, quando Marlen Dietrich recita nell´Angelo azzurro, tratto da Heinrich Mann. Joseph Albers, grafico e pittore, segue una sua via in sintonia con la ratio del colore. La scuola produsse oggetti di design dalla tecnologia ineccepibile, capaci di rispondere all´esigenza di qualità nel grande numero.
Gropius, con i suoi allievi, progetta per un commerciante di legno una villa tutta in legno: la casa di Adolf Sommerfeld (1921) è un esempio raro di Gesamtkunstwerk, ovvero d´opera d´arte totale, in cui alcuna distinzione si pone tra le arti. Un´aspirazione che serpeggia nei programmi artistici europei: per la verità erano stati i Futuristi a concepire forse per primi un tale disegno, ma con essi - e in stretto dialogo con il Bauhaus - il gruppo olandese di De Stijl, a cui è dedicata una sezione: le sperimentazioni di Oud, van Doesburg, Rietveld, di formazione pittori e architetti, integrano nei loro progetti le arti con audacia. I dipinti di Mondrian, protagonista geniale del gruppo, divengono trama della nuova architettura di Mies van der Rohe come testimoniano le piante di tante sue celebri architetture. Anche lui come Gropius ha una formazione espressionista, poi scarnisce il suo linguaggio fino all´astrazione come nel Padiglione di Barcellona del ‘29. Il maestro di Achen fu l´ultimo direttore del Bauhaus, succedendo a Hannes Meyer che aveva preso il posto di Gropius.
La diaspora del Bauhaus è uno dei grandi drammi del secolo: Gropius, Mies, Hilberseimer, Breuer, Albers e altri ancora approdarono negli Stati Uniti e nel giro di pochi anni conquistarono le scuole più prestigiose del paese. Hannes Meyer fu attratto dalla sirena del comunismo e si trasferì a Mosca, altri raggiunsero la terra promessa d´Israele. Questa diaspora fu di certo per la cultura tedesca un dissanguamento dalle incalcolabili conseguenze.