venerdì 18 settembre 2009

l’Unità 18.9.09
Intervista a Pietro Ingrao
«Basta con questa guerra, ma il movimento pacifista si è quasi spento»
La tragedia di Kabul: «Non è con i soldati che si batte il fondamentalismo. Guai a rassegnarsi, lo dobbiamo alle vittime e alla pena delle loro famiglie»
di Pietro Spataro


L’articolo 11. La Costituzione autorizza la partecipazione solo a guerre di difesa
Quella in Afghanistan è un’altra guerra
Le risposte della sinistra. Purtroppo ci sono divisioni anche pesanti
Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova

«Sento mia la pena di quei poveri genitori...». È segnato dall’amarezza lo sguardo di Pietro Ingrao mentre vede scorrere in tv le immagini dell’ultimo massacro che ha spezzato la vita di sei ragazzi italiani a Kabul. Resta in silenzio nella sua casa di Piazza Bologna circondato dalle foto della sua vita. Cerca le parole con cura guardando fisso davanti a sé.
Nomina la parola pace e dice, quasi con un peso sul cuore: «Il movimento pacifista s’è quasi spento...». Ma il vecchio leader della sinistra non si rassegna. «È ancora forte la sete di un mondo nuovo». Ricorda un articolo della Costituzione, il numero undici, che gli è molto caro.
Allora, Ingrao che cosa provi davanti a queste drammatiche immagini che arrivano da Kabul? «Dolore e rabbia. Dolore nel vedere ancora questo pianeta insanguinato dalla guerra e chino a contare i morti in terre che invece avrebbero bisogno di pace e civiltà. E rabbia, rabbia perché, ancora oggi e dopo tanti lutti, il mio Paese è ferito e turbato dall’ammazzarsi fra gli uomini».
Cito le date di nascita di quei soldati morti: 1972, 1974, 1977, 1983. Poco più che ragazzi... «Sono passato attraverso decenni di massacri totali dopo i quali avevamo giurato al nostro cuore e a noi stessi che il ricorso alle armi lo avremmo consentito solo per difendere la libertà del nostro Paese. Adesso dinanzi a noi stanno quei ragazzi».
Che cosa ti senti di dire ai loro genitori? «Che sono vicino alla loro pena infinita. Anche se io, se fossi stato al governo, non avrei mandato i loro figli in Afghanistan. A quei padri e a quelle madri dico: dobbiamo cercare le vie nuove per non far morire più i nostri soldati».
Ma perché siamo arrivati a questo punto? «Perché la pace non è e non è mai stata un fatto spontaneo. Anzi se ripercorro con la mente il secolo amaro e terribile in cui sono vissuto vedo che mi sono trovato subito in compagnia della guerra, anche quando erano appena finite le carneficine umane».
Allora, la pace è impossibile?
«Se guardo all’esperienza di tanti popoli e di tante generazioni starei per rispondere: sì. Però poi mi ricordo anche che in pagine vincolanti delle nostre leggi abbiamo dichiarato il contrario. Ricordi l’articolo 11 della Costituzione? Lì sta scritto che è consentita al nostro Paese solo la guerra di difesa. Io dico con grande amarezza: non mi pare che l’impresa di quei soldati italiani in Afghanistan possa essere definita guerra di difesa».
Ma come si fa a far rispettare quell’articolo della Costituzione che tu, insieme con Scalfaro, avete richiamato più volte in questi anni?
«Credo che possa pesare solo un’azione compatta di popolo. Sai anche però quanto in questa enorme questione pesi di fatto l’azione dei massimi reggitori dello Stato».
Circa un anno fa, dopo l’ennesima strage a Gaza, hai scritto una poesia che pubblicammo su “l’Unità”. Un verso diceva: “bombe fiorenti e furenti che cantano l’inno della morte”. Dobbiamo rassegnarci al dominio della bomba?
«No. Quei versi esprimevano un’ardente speranza: anche i morti di oggi chiamano ancora a quei pensieri».
Ingrao, ma che fine ha fatto il movimento pacifista? «S’è quasi spento. Lo so che sono parole amare, ma bisogna guardare in faccia le cose. Dobbiamo rassegnarci a questa conclusione? Eppure in Italia e altrove non s’è ancora spenta la sete di un mondo diverso. Bisogna ricominciare a tessere una tela».
Ma che cosa si può fare concretamente? Dobbiamo ritirarci dall’Afghanistan? «In quel paese purtroppo agiscono forze locali che non mi piacciono e che sono segnate da ideologie fondamentaliste. E però non possiamo sconfiggerle mandando soldati dall’Occidente ad ammazzarli. Adopero una parola che può sembrare folle in questo momento. Dico: c’è bisogno di dialogo e di depositare in un angolo le armi. Come realizzare una svolta simile è difficile dirlo. Ma questa è la grande questione che vedo squadernata in questi momenti di dolore e di lacrime».
Quei morti non pongono domande anche alla sinistra? «Sì. La sinistra italiana ha molti nodi da affrontare purtroppo. È divisa, anche in modo pesante. Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova. Ci ricordano crudamente che lo scenario è mondiale e che se non si affrontano le questioni del terzo mondo non riusciremo a costruire una via di salvezza».
Proprio in un’intervista a “l’Unità” hai detto qualche mese fa che Barack Obama è l’unica novità nel mondo. Ma sta facendo di tutto per fermare la guerra?
«La risposta è troppo difficile. Credo che anche lui abbia molto cammino da fare».❖

l’Unità 18.9.09
Colloquio con Gino Strada: «In Afghanistan è vera guerra. Dobbiamo ritirarci subito»
Il fondatore di Emergency: per il nostro contingente militare spendiamo ogni giorno 3 milioni di euro. Con quei soldi laggiù si potevano costruire 600 ospedali e 10mila scuole
di Rachele Gonnelli


La missione. «Basta ipocrisie, non si può usare la parola pace
Dobbiamo chiederci cosa ci stiamo a fare»

Per Gino Strada il sangue non ha un colore diverso a seconda della bandiera e il dispiacere è lo stesso per i soldati italiani uccisi ieri e per tutte le altre vittime della guerra. Non riesce neppure a capire perchè la Fnsi abbia rinunciato alla manifestazione di sabato per la libertà di informazione. «Con decine di morti ogni giorno...donne, bambini...non so, dev’essere per il clima di guerra. Stiamo vivendo da anni in un clima di guerra senza dircelo, anche se solo ultimamente è passata l’ipocrisia di chiamarla “missione di pace”. Un clima che sta avvelenando la coscienza civile, creando intolleranza, criminalità verso il diverso, lo straniero, l’altro da sè. È anche questo, la guerra».
Il lascito di una casta, lo chiama. «I politici di 30 anni fa non lo avrebbero fatto in spregio della Costituzione». Il 7 novembre del 2001: «l’entrata in guerra dell’Italia decisa dal 92 percento del Parlamento italiano, il voto più bipartisan della storia della Repubblica», per puro «servilismo verso gli Stati Uniti». «Che cosa ci avevano fatto i talebani? Niente. E poi cosa avevano fatto anche agli americani?». Forse non è troppo semplice, recentemente anche negli Usa gli analisti cominciano a porsi la stessa domanda: perchè siamo lì, cosa ci stiamo a fare?. Non c’erano afghani nel commando dei terroristi delle Torri gemelle. Ma la rappresaglia di Bush scattò lì, con Enduring Freedom, il 7 ottobre. Per colpire le basi di Bin Laden, si disse. Otto anni dopo più del l’80 percento dell’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani, di Bin Laden non c’è traccia, sono morti 1.403 militari stranieri, spesi centinaia di milioni di euro e il Paese è più povero e più criminale, produce il 90 percento dell’oppio del mondo.
Dopo otto anni l’unico centro di rianimazione è quello di Emergency a Kabul, sei letti di terapia intensiva per 25 milioni di persone. Spendiamo 3 milioni di euro al giorno per la guerra. Sai cosa avremmo potuto con questi soldi in Italia per i poveri, gli emarginati, chi ha bisogno. In moneta afghana invece avremmo potuto aprire 600 ospedali e 10 mila scuole». A Khost gli americani hanno costruito una strada, a Kajaki una diga, la Banca Mondiale lo scorso giugno ha stanziato altri 600 milioni di dollari di aiuti per la popolazione afghana...«Se si devono costruire dighe e ponti si mandino commando di ingegneri, non aerei telecomandati e bombe. Non tremila baionette, o fucili, per sostenere il dittatorello di turno». Quanto ai soldi della cooperazione internazionale, «noi non abbiamo ricevuto una lira quindi non so dice il fondatore di Emergency ma gli afghani che si lamentano, anche ora alle presidenziali, dicono che i soldi sono serviti soprattutto a ingrassare funzionari ministeriali e signorotti della guerra».
Lasciare il Paese, allora, andarsene unilateralmente o tutti insieme, e lasciare ai fanatici mujaeddin partita vinta? Non una bella prospettiva anche fosse realizzabile. «Finchè c’è l’occupazione militare ci sarà la guerra. Emergency lavora in Afghanistan da 10 anni, da tempi non sospetti. Abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, il 10 percento della popolazione. In pratica una famiglia su due, sono famiglie con centinaia di persone, ha ricevuto nostre cure. Per questo a Laskhargah non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale. Tutti dovrebbero porre fine a questa guerra e lasciare che gli afghani trovino la loro soluzione attraverso il dialogo, che per la verità non si è mai interrotto, tra le varie fazioni di talebani, mujaeddin e questo governo. Qual è l’obbiettivo di questa guerra?». Domanda che torna. «Le ultime due guerre internazionaliè la spiegazione di Strada sono legate ai giacimenti di gas e petrolio. In Iraq perchè ci sono, l’Afghanistan invece è sulla via di transito dal Kazakistan e dalle altre ex repubbliche sovietiche». Pipeline di sangue.
La nuova strategia McChrystal o la conferenza sull’Afghanistan, inutile parlarne con un chirurgo. Ad inquietarlo è che dei 35 feriti civili dell’attentato all’ospedale di Emergency a Kabul ne sono arrivati solo tre. Gli altri sono stati dirottati all’ospedale militare detto “dei 400 letti”, «struttura del tutto inadeguata, ma lì possono essere interrogati senza paroline dolci». ❖

Liberazione 17.9.09
Notizie filtrate da generali, segreti di Stato e censure mirate. Quando la stampa è in libertà condizionata L'informazione sotto tutela militare
Come fare giornalismo in Israele
di Riccardo Valsecchi



Gerusalemme. Il mestiere del giornalista nello Stato d'Israele non è certo facile. Ogni operatore deve essere accreditato presso il Government Press Office (GPO), l'Ufficio Stampa Governativo con sede in Gerusalemme, alle dirette dipendenze del gabinetto del Primo Ministro. Qualsiasi corrispondente straniero, poi, deve seguire un lungo iter burocratico - fino a novanta giorni -, con varie discriminanti che potrebbero ostacolare l'assegnazione della Press Card: per esempio lo status di freelance, la propria storia professionale, la "non familiarità" dell'impiegato di servizio con il media per cui si lavora o il motivo per la richiesta dell'accredito. A tutti, infine, è richiesta la firma su un documento che vincola la pubblicazione di qualsiasi materiale video, audio, fotografico e testuale riguardante argomenti militari o di sicurezza nazionale, previa supervisione della censura militare. La Lt. Col. Avital Leibovich, portavoce dell'Ufficio Stampa Internazionale dell'Esercito Israeliano, non ha dubbi in proposito:«Siamo un paese in guerra e la censura è assolutamente necessaria come strumento di difesa».
La costituzione israeliana prevede una legge per la censura basata sulla "norma d'emergenza" promulgata nel 1945 durante il mandato britannico, che autorizzava l'interdizione di pubblicazioni locali o internazionali e il taglio di collegamenti tra le agenzie stampa, al fine di eludere il passaggio d'informazioni coperte da segreto militare. L'organismo attuale preposto al controllo è l'Ufficio della Censura Militare, un distaccamento dell'Aman, l'intelligence militare israeliana. La censura militare è assolutamente indipendente dall'Ufficio del Primo Ministro, onde evitare il sovrapporsi d'interessi nazionali e politici.
La linea guida che regola l'attività censoria è definita in un accordo tra IDF - Israel Defense Forces - e un comitato di editori: la censura non può intervenire su tematiche politiche, opinioni o valutazioni personali, a meno che vadano a ledere informazioni classificate come top-secret; la pubblicazione di materiale che possa recare beneficio alla forza nemica o danneggiare lo stato d'Israele, i suoi cittadini, la loro sicurezza, come quella degli ebrei costretti a emigrare da nazioni ostili a Israele, è vietata; IDF e comitato editoriale si riservano, in caso di conflitto, di fornire un elenco di specifici argomenti la cui pubblicazione non verrà consentita al fine di garantire la sicurezza nazionale. Il mancato rispetto delle norme sopra citate potrebbe significare la persecuzione legale, l'arresto, l'espulsione o la preclusione del visto di entrata in territorio israeliano.
«Nella mia lunga esperienza come corrispondente straniera a Gerusalemme,» racconta la giornalista tedesca Inge Günther, direttrice della sede locale del Frankfurter Rundschau, «posso dire che la censura militare israeliana si attiene a standard di professionalità e discrezione assolutamente elevati. Non ci sono particolari episodi di cui potrei lamentarmi. Diversa è la situazione per quello che riguarda le informazioni e le fonti fornite dagli uffici stampa militari o governativi sul tema dello scontro israeliano-palestinese: ma questo è un problema di entrambe le parti in causa. La propaganda, manipolazione, disinformazione e mistificazione è una caratteristica propria di questo conflitto».
Mikhael Manekin, ex soldato nella pluridecorata Brigata Golani, è uno degli ideatori di "Breaking the Silence", organizzazione che si occupa della raccolta e diffusione delle testimonianze di veterani dell'esercito israeliano durante la Seconda Intifada:«Nessuno di noi rinnega ciò che ha fatto per la propria patria, però crediamo che mostrare il lato oscuro delle operazioni militari svolte dall'esercito israeliano durante il conflitto sia doveroso in una società democratica». La galleria fotografica, i filmati e i racconti presenti sul sito dell'associazione mostrano esplicitamente soprusi e angherie perpetrate contro civili palestinesi:«Tutto il materiale che pubblichiamo è sottoposto alla supervisione dell'IDF, eppure non abbiamo mai avuto problemi o ostacoli. Non è la censura militare a boicottare il nostro lavoro, piuttosto la comunità stessa in cui viviamo, a cominciare dai partiti politici fino ad arrivare alla gente comune: i soldati, spesso ancora in servizio, che ci contattano per poter raccontare la loro versione della guerra in Gaza, chiedono di rimanere anonimi non tanto per paura della censura, ma piuttosto per il timore di essere additati come traditori della patria dai compagni, dai propri familiari, dall'opinione pubblica».
«La censura,» spiega Mr Amir Ofek, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, «non è atta ad assicurare che si scrivano "carinerie" su Israele. Ciò si può verificare leggendo i giornali europei, i quali spesso riportano posizioni critiche nei nostri confronti». Di diverso parere la Prof. Galia Golan, docente in scienze politiche presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, Tel Aviv:«Certo la metodologia con cui opera la censura militare è migliorata rispetto a vent'anni fa, ma ci sono molti argomenti che non si possono trattare. È noto, per esempio, che i giornalisti israeliani spesso attendono che certe notizie vengano riportate prima all'estero, perché così sono liberi dal vincolo della censura».
La Prof. Golan racconta la sua esperienza riguardo le recenti guerre in Libano e Gaza:«Durante la seconda guerra libanese e il conflitto in Gaza, i media, sia governativi che privati, non sono sembrati imparziali: dai servizi televisivi sembrava che Israele fosse sotto assedio, bombardata tutto il tempo, mentre in realtà pochissimi sono stati i missili lanciati verso il nostro territorio. In un certo senso la situazione era abbastanza divertente: gli inviati delle televisioni nazionali che si trovavano ad Ashkelon, Beersheba, alcune delle località apparentemente più colpite, contattati a ogni ora, mostravano un certo imbarazzo, dal momento che non avevano assolutamente nulla da mostrare. Il risultato è stato che, alla fine delle ostilità, gli israeliani non avevano alcuna idea del motivo per cui l'opinione pubblica internazionale si fosse schierata contro. I nostri media non avevano mostrato nulla di ciò che si vedeva all'estero. In una conferenza all'Università dove lavoro, la rappresentante di una di queste Tv private disse che era stata la censura a operare i tagli. Come cittadina, non posso accettarlo: credo che ci fosse margine per mostrare molte altre scene senza intaccare la sicurezza».
Ron Ben-Yishai è la leggenda del giornalismo israeliano. Opinionista e commentatore per la televisione pubblica, corrispondente di guerra per "Channel 1" e "Time Magazine", è noto al pubblico internazionale per la parte nel pluripremiato film d'animazione di Ari Folman Valzer con Bashir : «Nella mia carriera ho coperto in prima linea conflitti in tutte le parti del mondo: Cipro, Afghanistan, Yugoslavia, Colombia, Cecenia, Nagorno-Karabakh, Iraq, e, ovviamente, il conflitto israeliano-palestinese. Se devo essere sincero da nessun altra parte ho trovato la professionalità e competenza della censura militare israeliana nel garantire la sicurezza nazionale senza ledere la libertà di stampa».
Controverso però è stato il rapporto tra governo/forze militari israeliane e stampa, soprattutto estera, durante il conflitto a Gaza, quando è stato vietato l'accesso alla zona dall'8 Novembre 2008 fino al cessate-il-fuoco del 18 Gennaio 2009: «Qui si fa confusione di competenze,» ribatte la Lt. Col. Leibovich, «l'accesso o meno nei territori occupati è di competenza del governo. Ritengo che i giornalisti dovessero essere autorizzati a entrare a Gaza». Nonostante la Corte Suprema avesse autorizzato l'accesso già dal 29 Dicembre 2008, l'IDF ne precluse l'entrata, con poche eccezioni, fino alla fine del conflitto. Ron Ben-Yishai, che fu uno dei pochissimi a operare nei territori, non ha dubbi: «Vietare l'accesso dei giornalisti a Gaza è stata una vergogna».
Ma che cosa pensano gli israeliani dei propri media e della censura militare? «Non è un tema di cui si parla spesso,» chiude la Prof. Golan, «sembra che le persone non si accorgano, o non si vogliano accorgere, dell'univocità dell'informazione. Prima dell'Intifada, vent'anni fa, c'era molta discussione sul tema, sia per televisione che per radio, ma oggi non più: io credo che non sarà possibile almeno fino a quando persisterà questo clima di guerra».


l’Unità 18.9.09
Il Tribunale accoglie il ricorso del Movimento difesa cittadini. Influirà sul Testamento biologico
Sconfessati l’ordinanza Sacconi e il testo del Senato. Il ministro: subito la «leggina Eluana»
Il Tar: non si può imporre l’alimentazione artificiale
di N.L.


Il Tar del Lazio: alimentazione e idratazione forzata non si possono imporre a nessuno. Una sentenza che «chiarisce ambiguità» per Marino, Pd. Sacconi vuole subito la «leggina» che impone i trattamenti.
Ignazio Marino: «La sentenza chiarisce: non si possono discriminare i pazienti»

L’alimentazione e l’idratazione forzata non possono essere imposte. A nessuno, né in stato cosciente, né incosciente, e anche se si trova in stato vegetativo un cittadino può esprimere, ex post, la propria volontà di interrompere terapie giudicate inutili. Volontà che possono essere ricostruite, per non discriminare tra pazienti che possono esprimere il loro consenso. Il Tar si rifà al «diritto di rango costituzionale della libertà personale», inviolabile secondo l’art. 13 della Costituzione.
A sette mesi dal caso Eluana, il Tar del Lazio di fatto boccia il cuore della legge sul testamento biologico passata al Senato, ora in commissione alla Camera. Il tribunale regionale ha accolto il ricorso del «Movimento di difesa dei cittadini» contro l’ordinanza del ministro Sacconi emanata l’anno scorso, che imponeva alimentazione e idratazione forzata. Principi contenuti nel testo Calabrò: sono trattamenti che il malato in stato vegetativo non può rifiutare neppure con una dichiarazione anticipata di trattamento.
Ignazio Marino del Pd, afferma invece che la sentenza «chiarisce molte ambiguità» che si sono create sul caso Englaro, perché afferma che non si possono imporre l'alimentazione e l'idratazione artificiale ad un paziente, nemmeno se si trovi in stato vegetativo permanente». L’imposizione, secondo il chirurgo, causerebbe «delle discriminazioni tra due pazienti, tra due cittadini italiani, che devono avere gli stessi identici diritti rispetto alla scelta delle terapie, come prevede del resto la nostra Costituzione».
Il ministro del Welfare Sacconi riparte all’attacco e tuona che «è ancora più urgente la “norma Englaro”». Sarebbe la «leggina» che impone come «inalienabile diritto» alimentazione e idratazione forzata. Il ministro fa un pressing sulla soluzione lampo rilanciata ieri da Eugenia Roccella, «nel caso alla Camera si allungassero i tempi». La «leggina», varata dal consiglio dei ministri a febbraio (per bloccare la scelta del padre di Eluana), è «ferma al Senato», spiega Roccella.
RISPETTO DELLA COSTITUZIONE
Una sentenza «molto importante», commenta Vittoria Franco del Pd: «Conferma quanto sostenuto dalla sentenza della Corte di Cassazione a proposito del caso Englaro: stabiliva che la libertà della persona rispetto alle terapie è una libertà assoluta». «Il ministro getta benzina sul fuoco», per Livia Turco, Pd, «la norma che vorrebbe è un' imposizione che impedirebbe il più elementare sentimento di pietas e di rispetto della persona umana». La notizia è accolta con soddisfazione dai radicali, apprezzata anche dall Fp Cgil Medici.
La sentenza del Tar si inserisce nella discussione sulla legge del biotestamento, che Marino spera sia cambiata in modo «equilibrato». Come la vorrebbe il presidente della Camera, Fini. Ieri a Montecitorio ha avuto un colloquio con Savino Pezzotta, dell’ Udc: «Abbiamo parlato di laicità e della riflessione che oggi impone la multireligiosità», ha raccontato l’ex segretario della Cisl. Il fronte teocon del Pdl fa muro, Maurizio Gasparri bolla sprezzate come «fantasie amministrative» la sentenza del Tar. ❖

l’Unità 18.9.09
Seicento vittime nel mare libico lo scorso marzo. Erano due navi cariche di disperati
La strage dei migranti Dalla Libia solo silenzi
di Alessandro Leogrande


La scoperta dei magistrati di Bari durante le indagini su un giro di prostituzione nigeriana
Il Pm di Bari, Scelsi, ha chiesto la collaborazione dei colleghi africani. A marzo un incontro tra i magistrati per far luce sulla tragedia ma non c’è stato alcun riscontro. I testimoni in carcere o rimpatriati.

Un silenzio inquietante. Dalla Libia non giunge alcuna collaborazione per accertare le responsabilità del terribile naufragio avvenuto a fine marzo. Finora l’unica conferma delle proporzioni dell’ecatombe è data – come riportato su l’Unità di ieri – dalle conversazioni tra un trafficante del sesso residente in Italia e un connection-man in Libia, in cui si ribadisce insistentemente che i boat people affondati quella notte erano due, e non uno, e le persone morte quasi seicento.
La Procura antimafia di Bari ha scoperto per caso il disastro indagando sulla tratta di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione in Italia. Trenta di loro erano a bordo di una delle due imbarcazioni naufragate, insieme a uomini e donne che avevano pagato per il viaggio. Dopo aver iscritto «connection man» nel registro degli indagati per strage colposa, il pm Giuseppe Scelsi ha chiesto, tramite rogatoria internazionale, la collaborazione della magistratura libica nel fornire accertamenti investigativi.
INCONTRO
Ora sappiamo che l’incontro tra magistrati italiani e libici è avvenuto in Italia, nella scorsa primavera, grazie alla mediazione dell’Oim (Organizzazione mondiale delle migrazioni) una delle pochissime organizzazioni internazionali ad avere una propria sede in Libia. Dopo quell’incontro, nonostante la promessa da parte dei magistrati libici di interessarsi al caso, non è pervenuto però alcun riscontro investigativo. Una nube di silenzio sembra avvolgere il naufragio, per altro avvenuto a pochi chilometri da Tripoli, e quindi in acque che non sono di competenza italiana. Con i pochi dati raccolti è difficile ricostruire che cosa sia veramente accaduto quella notte, in che modo il viaggio sia stato organizzato, perché – come si legge nelle intercettazioni – “le barche si siano spezzate in due”. I superstiti, che pure potrebbero fornire una testimonianza molto importante, sono stati rimpatriati o incarcerati nei centri per migranti. All’ambasciata nigeriana di Tripoli (dalla Nigeria provenivano, oltre alle 30 ragazze destinate alla prostituzione, altri migranti imbarcati) rammentano solo la notizia ufficiale in cui si diceva di una sola barca affondata.
CONNECTION MAN
L’unica cosa certa, come confermato dalla Procura di Bari, è che «connection man», benché residente in Libia, è di nazionalità nigeriana, e che i morti, stando alle intercettazioni, dovrebbero davvero essere seicento. Tuttavia «connection man» è ancora a piede libero, e l’inchiesta risulta bloccata. La magistratura italiana non può fare indagini al di là del Mediterraneo. Per essere precisi: non può neanche mettere sotto controllo il telefono di «connection-man», dal momento che quell’utenza è stata rilasciata in Libia. È stato possibile intercettare le conversazioni in cui si parlava del disastro solo perché era sotto controllo l’altra utenza, quella del trafficante residente in Italia. Pertanto ogni accertamento spetta alla magistratura libica. E qui emerge il nodo del problema, che ha a che fare con la natura del potere giudiziario nella Jamahiriyya. Questo non è autonomo, dipende strettamente dal potere politi-
Commissione d’inchiesta
La necessità di una indagine in Libia da parte del Parlamento
co: in una struttura piramidale dipende direttamente dalla Guida della Rivoluzione. Non è dunque azzardato quindi ipotizzare che a decidere se rispondere o meno alla rogatoria internazionale della procura barese sia proprio l’entourage di Gheddafi.
Il Trattato di Amicizia Italia-Libia sembra soprassedere sul fatto che il partner mediterraneo sia uno stato illiberale. Ma tant’è... Per fare un po’ di luce sul disastro di fine marzo – come chiesto dal deputato radicale Matteo Mecacci – l’unica strada percorribile è forse quella di una commissione parlamentare d’inchiesta sui disastri in mare, a partire da quello che si configura come il più grave naufragio della storia dell’immigrazione verso l’Italia. ❖

l’Unità 18.9.09
«Respingimenti», la parola alla Corte europea per i diritti dell’uomo
di Gabriele Del Grande


La Corte europea dei diritti umani deciderà sulla legittimità della politica del governo sull’immigrazione. Il commissario europeo Barrot ha di recente lanciato un appello al rispetto del principio del «non respingimento».

È stato depositato a Strasburgo il ricorso dei ventiquattro rifugiati somali ed eritrei che facevano parte del gruppo dei 227 migranti che furono respinti in Libia il 6 maggio scorso. Fu il primo della lunga serie di «respingimenti» che ha messo l’Italia sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni umanitarie. L’Unità ha già raccontato le storie di alcuni di quegli uomini. Storie che dimostrano senza ombra di dubbio che si trattava di perseguitati politici. Uomini, dunque, che avrebbero avuto il diritto d’asilo, se solo fosse stato permesso loro di presentare la domanda alle autorità del nostro paese. Questa possibilità, invece, è stata negata. Ed è su questo che si fonda il ricorso dell’avvocato Anton Giulio Lana, del foro di Roma.
Fa appello all’articolo 3 della «Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», che vieta la tortura e la riammissione in Paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all’articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all’articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive.
LE VIOLAZIONI
Tutti articoli che, secondo l’avvocato Lana, sarebbero stati violati, dal momento che le persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d’asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso. E sono state respinte in Libia, dove è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E se è vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto vero che i respinti sono stati fatti salire a bordo di unità marittime italiane, che in base all’articolo 4 del codice di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, che vieta espressamente il respingimento in frontiera "nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari" (articolo 10, comma 4, Testo unico sull’immigrazione).
Adesso si dovranno aspettare i tempi della pronuncia della Corte europea. Il caso non rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i 24 ricorrenti sono già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero passare mesi prima che la Corte dichiari l’ammissibilità dei ricorsi e notifichi al governo italiano l’apertura delle indagini.
Per un’eventuale sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che ancora non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il ricorso sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di tempo perché soggetti terzi depositino i loro interventi presso la Corte, in quello che si annuncia come un ricorso chiave per il destino delle politiche di contrasto all’immigrazione nel Mediterraneo. ❖

l’Unità 18.9.09
Vittime di camorra
A un anno dal massacro
di Jean-Rene Bilongo


Con un pensiero commosso rivolto ai sei militari caduti ieri in Afghanistan, la diaspora straniera ricorda oggi
un’altra strage: l’eccidio di San Gennaro. Un’ecatombe che vide, esattamente un anno fa, sei immigrati di color ebano inspiegabilmente crivellati di pallottole a Castelvolturno, una striscia di terra del casertano alla periferia nord della megalopoli partenopea. Fu la spavalda reazione della comunità nera dinanzi ai teoremi liquidatori dell’accaduto, relegato con maliziosa disinvoltura a semplice regolamento di conti tra malavitosi, a suscitare il dibattito. Tra colpevolisti ed innocentisti. Un anno dopo, Castelvolturno sembra essere rimasta uguale a sè stessa. Stressata, sfiatata. Traboccante di problemi. Antichi e nuovi. E mentre la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere si accinge ad avviare le udienze a Setola e ai suoi accoliti, con il Comune di Castelvolturno costituitosi parte civile in un processo i cui imputati sono accusati di strage aggravata dal terrorismo e dall’odio razziale, gli immigrati continuano le loro perenni peregrinazioni di miseri dannati in un contesto propenso a considerarli come fonte di depravazione e di degrado. Il modo migliore di onorare i morti, dice il saggio, è di aiutare i vivi. Impresa piuttosto ardua in una società che vede trionfare etno-centrismo ed egocentrismo, in cui si afferma persino che gli immigrati debbano essere «aiutati», ma paradossalmente a casa loro. Eppure basta dare un’occhiata alla Treccani per afferrare l’essenza del sostantivo immigrato: tale è chi si è trasferito in un altro paese. Con legittime aspirazioni. Coniugando doveri e diritti. Senza bisogno n di buonismo morboso, di subdolo rigidismo dai connotati xenofobi. L’immigrazione è un tema che richiede ragionevolezza, equilibrio, lungimiranza. Perché si tratta anzitutto di uomini. In carne e ossa.❖

Repubblica 18.9.09
Libertà di stampa a rischio in Italia il caso approda al parlamento Ue
A piazza del Popolo il 3 ottobre. Volantini a Bruxelles: "Il premier vuole intimidire i giornali"
di Vladimiro Polchi


ROMA - Il parlamento europeo terrà l´8 ottobre un dibattito sulla libertà di informazione in Italia, accogliendo una proposta del gruppo liberaldemocratico. La Commissione risponderà in aula lo stesso giorno. Il dibattito si terrà a Bruxelles, mentre nella plenaria di Strasburgo del 19-22 ottobre si voterà una risoluzione sull´argomento. E ieri volantini e adesivi sulla libertà di stampa («Berlusconi cerca di intimidire stampa e portavoce Ue») sono stati distribuiti al summit Ue dall´Associazione della stampa internazionale (Api), Reporter senza frontiere (Rsf) e Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj).
In segno di lutto per l´attentato di Kabul slitta la manifestazione per la libertà d´informazione, indetta dalla Federazione nazionale della stampa. «Il rinvio è stato deciso per una ragione molto seria – spiega il segretario del sindacato dei giornalisti, Franco Siddi – e cioè la tragedia di Kabul, ma la manifestazione non si archivia, perché i problemi non sono archiviati». La mobilitazione, prevista per il 19 settembre, si terrà il 3 ottobre alla stessa ora (dalle 16 alle 19) sempre a piazza del Popolo a Roma. «Due settimane di rinvio non fanno sgonfiare il tema – aggiunge il presidente della Federazione, Roberto Natale – perché il problema della libertà d´informazione non è possibile che magicamente si dissolva: era presente da mesi». Intanto il portavoce dell´associazione Articolo 21, Giuseppe Giulietti, annuncia due iniziative: la prima avrà luogo in caso di approvazione della legge sulle intercettazioni, con la presentazione di un esposto alla Corte di Giustizia di Strasburgo; la seconda, insieme al senatore del Pd Vincenzo Vita, è la presentazione di un esposto all´Antitrust e all´Agcom contro le dichiarazioni sui media pronunciate Berlusconi a Porta a Porta.
E continuano a correre le adesioni all´appello in difesa della libertà di stampa lanciato su Repubblica dai giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky: superata quota 390mila firme. Dopo i direttori dei maggiori giornali europei, si allunga la lista delle adesioni illustri: firma la poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, il settimo Nobel dopo le adesioni dei giorni scorsi di Dario Fo, Nadime Gordimer, Guenter Grass, Edmund Phelps, José Saramago e Betty Williams. Hanno deciso di sostenere l´appello l´americano Roane Carey, managing editor di The Nation e il direttore del Financial Times, Lionel Barber. Firma Edgar Morin filosofo e sociologo francese e Orlando Figes, storico britannico. Aderiscono Graham Watson, eurodeputato britannico dell´Alde, Louis Michel, commissario europeo per lo sviluppo e gli aiuti umanitari, l´ex eurodeputato Francois Bayrou, la parlamentare europea Sylvie Goulard dell´Eldr e Sylvana Koch-Mehrin, vicepresidente del gruppo Eldr. Sottoscrive l´appello l´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica.

Repubblica 18.9.09
L’ora di religione e una pari dignità che non c’è
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, se ci fosse la «pari dignità» dell'ora di religione rispetto alle altre materiedovrebbe essere studiata al pari delle altre. Ma non è così. La Chiesa vuole che la religione sia presente, ma non che sia studiata seriamente. Una conoscenza approfondita rischierebbe di evidenziare la distanza che c'è tra certe posizioni della Chiesa e il messaggio di Cristo. Meglio una blanda ignoranza
Miriam Della Croce miriamdellacroce@tiscali.it

G entile Augias, il ministro Gelmini ha detto: «L'Italia non può non riconoscere l'importanza della religione cattolica nella nostra storia e tradizione». Ma a giudicare dai risultati che ottiene l'insegnamento questa importanza non emerge. Un qualsiasi allievo dell'ultimo anno delle superiori sa molto più di storia, di matematica, o di qualsiasi altra materia che non di religione. Allora dove sta la pari dignità?
Attilio Doni Genova attiliodoni@tiscali.it

L a pari dignità dell'insegnamento della religione (cattolica) può essere sostenuta solo con la più sfacciata ipocrisia. Ecco uno dei tanti paradossi al quale raramente si pensa: nelle università esistono cattedre di storia del cristianesimo affidate spesso a studiosi di vaglia. Nessun laureato però, brillante che sia, potrà andare ad insegnare la materia a meno che non abbia il crisma delle autorità cattoliche. La Costituzione (art. 33) stabilisce che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Per la religione questo non vale. Il prof Remo Cacitti (cattedra alla Statale di Milano) mi ha fatto il seguente esempio: «Di fronte ai vangeli secondo cui Gesù aveva quattro fratelli e alcune sorelle (Mc 6,3; Mt 12,46; Gv 7,3; At 1,14), il docente può farsi persuaso che si tratti di veri e propri fratelli e sorelle; però non potrà mai insegnarlo pena la revoca dell'incarico per difformità dalla dottrina ufficiale della Chiesa». Basterebbe questo a dimostrare l'assurda situazione nella quale ci siamo cacciati. Tanto più che i risultati dell'insegnamento sono (pedagogicamente) deplorevoli. Mi scrive Elisa Merlo (ex prof di religione): «Basterebbe qualche domanda ad allievi delle scuole superiori. Ad esempio che cosa è la Messa, o il significato di un sacramento, o dell'Immacolata Concezione e via di seguito. Bisogna aggiungere che raramente il docente di religione dà un voto insufficiente, e questo avvantaggia gli alunni che scelgono di "studiare" la materia». Che l'ignoranza di molti cattolici italiani sulla loro religione sia immensa ho potuto constatarlo di persona.

Repubblica 18.9.09
Filosofia, l´edizione 2009 del riconoscimento
A Giacomo Marramao il premio Karl-Otto Apel


ROMA - A vincere l´edizione 2009 del "Premio Internazionale per la Filosofia Karl-Otto Apel" è Giacomo Marramao. Fra i temi salienti del suo percorso filosofico, ci sono gli studi sulla secolarizzazione e sul politico, la riflessione sul problema del tempo e l´analisi del fenomeno della globalizzazione. L´approccio filosofico e politico delineato da Marramao pone al centro della discussione i linguaggi e i contenuti attraverso i quali la modernità ha pensato se stessa e la propria storia. La cerimonia di premiazione si svolgerà domenica prossima, nella cittadina di Acquappesa, sulla costa tirrenica cosentina.
Nella prima edizione il riconoscimento internazionale è andato al padre del pensiero debole, Gianni Vattimo. Nella seconda edizione il designato è stato Raúl Fornet-Betancourt, filosofo e teologo di origini cubane, ideatore della trasformazione interculturale della filosofia.

Repubblica 18.9.09
L’edizione americana, agli inizi di ottobre, annunciata dal "New York Times"
Esce il libro rosso di Jung “Santo Graal dell’inconscio”
Un diario privato che raccoglie la sua "discesa negli inferi" della psiche iniziata dopo la rottura con Freud. Il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi
di Luciana Sica


sce agli inizi di ottobre nelle librerie americane uno dei più favoleggiati inediti di Carl Gustav Jung, il Libro Rosso, 205 grandi pagine scritte in tedesco dal fondatore svizzero della psicologia analitica, tra gli allievi più geniali ed eterodossi di Freud, il maestro amato ma non idolatrato e poi in qualche modo "tradito". Lo scrive Sara Corbett nel prossimo numero del magazine del New York Times in un lungo articolo intitolato "Il Santo Graal dell´Inconscio". L´editore del Libro è W.W. Norton, il curatore è lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, indiano nato a Singapore e cresciuto in Inghilterra, coordinatore delle "Philemon series", progetto che punta alla pubblicazione di tutta l´opera di Jung rimasta inedita.
Quel diario privatissimo di Jung raccolto gelosamente in una cartella di pelle rossa, zeppo di decorazioni e disegni in stile Art déco, ne rievoca la celebre e comunque misteriosa "discesa negli inferi", quel periodo di confusione datato tra il 1914 e il ´30 segnato dal "confronto con l´inconscio", a tratti da terrificanti esperienze anche di natura psicotica - sogni paurosi, visioni allucinatorie, incontri con folle di spiriti, dei e demoni, suoni sinistri. Un viaggio negli abissi della psiche, come un prolungato esperimento con la mescalina con il gravissimo rischio di una progressiva perdita di sé, che Jung ha annotato dettagliatamente, ma in forma sempre molto riservata, temendo l´esposizione pubblica di un volume che - come lui stesso ebbe a scrivere col senno del poi - «a un osservatore superficiale sembrerà pura follia».
Non a caso il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi di Jung, scomparso nel ´61. Prima ben chiuso nei cassetti di case private, poi messo al sicuro nel deposito di una banca svizzera, l´United Bank of Switzerland, per ventitré anni. Shamdasani - che considera il Libro Rosso di Jung l´equivalente di Così parlò Zarathustra nell´opera di Nietzsche - ha cominciato a lavorare all´inedito nel ´97. «Il suo è stato un lavoro enorme, dal punto di vista non solo di una corretta traduzione ma soprattutto del rigore filologico, tenendo conto che Jung non ha mai smesso, per tutta la vita, di rimaneggiare quelle pagine»: a dirlo è Luigi Zoja, analista e studioso junghiano di fama. A lui la Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Libro non prima della fine del 2010, avrebbe voluto affidarne la cura ma Zoja ha rifiutato un incarico che considera incompatibile con i suoi impegni.
Quello che sarà interessante capire è come l´opera junghiana potrà essere riletta alla luce della pubblicazione di un Libro così singolare che - in una forma decisamente più letteraria che scientifica - anticipa comunque i grandi temi proposti da Jung al pensiero psicologico del Novecento: il processo di individuazione, l´Ombra e l´inconscio collettivo, gli archetipi e il Sé. «Certamente - è l´idea di Mario Trevi, tra i teorici più brillanti dello junghismo non solo italiano - questo Libro costituirà un documento imprescindibile anche per chi come me ama lo Jung empirico, critico, ermeneutico, probabilista».
Da un punto di vista storico, la "traversata notturna" di Jung sta tutta dentro la vicenda del movimento psicoanalitico delle origini. È proprio quando si rompe l´amicizia con Freud - un fratello maggiore se non un padre in un certo senso amato e odiato - che si scatena "il magma fuso e incandescente" dell´inconscio. Jung - che con Simboli e trasformazioni della libido segna i primi contrasti con il fondatore viennese della psicoanalisi - perde un sostegno fondamentale, un amico che lo aveva protetto anche contro se stesso.
Il "torrente di lava" che rischia di travolgere Jung poco alla volta - ci vorranno anni - rientra, smette di debordare, di provocare deliri ad occhi aperti. L´io e l´inconscio, il bellissimo libro del ´28, segna in qualche modo la fuoriuscita da un pericoloso tunnel. Di quegli anni in cui lo psichiatra svizzero è stato senz´altro su un crinale, sapevamo soprattutto attraverso l´autobiografia scritta con Aniela Jaffé, Ricordi sogni riflessioni (ad esempio: «L´intera casa era piena come se ci fosse una folla, totalmente piena zeppa di spiriti...»). Ora il Libro Rosso ci dirà più esattamente di che pasta fosse fatta quell´"immaginazione attiva", quella vicenda non solo personale nel segno della più estrema creatività.

Corriere della Sera 18.9.09
Un saggio ripercorre il difficile rapporto fra laicità e religione in Italia: uno strumento per comprendere le difficoltà di oggi
Quel sogno fallito di Cavour
La separazione fra Stato e Chiesa, che lui avrebbe voluto, viene tradita da 150 anni


di Sergio Romano



Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presi­dente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale.
Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Sena­to nel marzo e nell’aprile del 1861. Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Ro­ma e a interpellare direttamente Pio IX: «San­to Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».
Come scrive Roberto Pertici in un libro edi­to dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia. Dal­la Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità. Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica. Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà.
Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto.
Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour. Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui so­no riprodotti i dibattiti parla­mentari (da quello sulla rati­fica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisio­ne del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di al­cuni grandi predecessori dell’autore, da Fran­cesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Car­lo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani.
Torniamo all’Italia del dopo Cavour. La leg­ge delle guarentigie, approvata dal Parlamen­to italiano dopo la presa di Roma, ebbe il me­rito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni. Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovra­no senza territorio. Il papa sarebbe stato trat­tato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambascia­tori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palaz­zi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia. La Grande guerra, come ricorda Perti­ci, convinse la Chiesa che la formula era terri­bilmente scomoda, se non addirittura perico­losa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la per­suase che era inutile attendere la morte natu­rale del regno blasfemo dei Savoia.
Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la fir­ma dei Patti Lateranensi. Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato con­quistò prerogative e privilegi che erano l’esat­to opposto del grande disegno delineato da Cavour.
La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Prov­videnza ». Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Patti Latera­nensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine dei regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione. Rinvio il lettore alle pa­gine del libro in cui Pertici descrive un incon­tro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsi­gnor Mariano Rampolla, ni­pote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comuni­sti (Ambrogio Donini ed Emi­lio Sereni). Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di ap­prendere che il Pci non ave­va alcuna intenzione di ri­mettere in discussione il Trattato del 1929. Ma appre­se anche con preoccupazio­ne «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concor­datario ». La linea della Chiesa da quel mo­mento fu netta. Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa co­struzione e la sorte dell’uno avrebbe inevita­bilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt . Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana.
Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percor­so parlamentare nella seconda metà degli an­ni Sessanta. La Santa Sede sostenne che il di­vorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato. Aveva ragione giuridicamen­te ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allo­ra presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mus­solini e salvate grazie a un accordo con i co­munisti, politicamente perché «tutte le na­zioni civili hanno il divorzio».
L’approvazione della legge e la sua confer­ma dopo il referendum del maggio 1974 eb­bero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era or­mai inevitabile. Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni. Pertici ne de­scrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti. Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’of­ferta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il prin­cipio del pluralismo religioso.
Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rap­porti di forza tra coloro che lo hanno firma­to. Oggi la Chiesa si serve della debolezza del­la politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle li­nee della propria politica. Questa affermazio­ne, beninteso, è mia, non di Pertici, che è un eccellente storico e conclude la sua storia nel 1984.

Corriere della Sera 18.9.09
Nel romanzo di Shahriar Mandanipour la prefigurazione della vicenda di Neda, vittima del regime
A Teheran l’amore sfida la censura
«La tirannia ci ha resi forti, ora gli scrittori incalzano il potere»
di Livia Manera



In una Teheran misteriosa e caotica, dove il profumo dei fiori di primave­ra si mescola al puzzo di monossido di carbonio e le motociclette diven­tano taxi improvvisati in un traffico da de­lirio, una ragazza che manifesta davanti al­l’università sta per diventare l’eroina di una storia più grande di lei. «La ragazza non sa che esattamente sette minuti e set­te secondi dopo, al culmine degli scontri tra polizia, studenti e militanti nel Partito di Dio, sarà travolta nel caos delle cariche e delle fughe, cadrà all’indietro, batterà la testa su uno spigolo di cemento e chiude­rà i suoi occhi orientali per sempre». Rara­mente un’opera letteraria ha anticipato con maggiore puntualità una tragedia co­me la morte di Neda Agha-Soltan, la ragaz­za iraniana uccisa negli scontri tra studen­ti e polizia lo scorso giugno, la cui morte ripresa in video è diventata l’anima delle proteste durante l’ultimo contestatissimo trionfo elettorale di Ahmadinejad. Ma di puntualità davvero si tratta, se si pensa che Censura. Una storia d’amore irania­na , il romanzo di Shahriar Mandanipour che Rizzoli ha appena mandato in libreria nella traduzione di Flavio Santi (pp. 370, e 19,50), è uscito negli Stati Uniti proprio du­rante le passate elezioni in Iran. Ed è di­ventato immediatamente un «caso» sui giornali e nei circoli letterari americani per molti buoni motivi, a cominciare al suo inizio tristemente profetico. Gli altri motivi sono legati al metodo postmoder­no usato dall’autore per interrogarsi sui li­miti e le possibilità dello storytelling in uno Stato totalitario. Su cosa significhi cioè «narrare» in un Paese dove l’immagi­nazione può condurre alla galera; dove il linguaggio deve farsi ipercreativo per aggi­rare divieti culturali durissimi; e dove il semplice dare forma a una storia d’amore tra un ragazzo (Dara) e una ragazza (Sara) diventa una sfida, sullo sfondo di un Pae­se dove due giovani non sposati non pos­sono né incontrarsi né tenersi per mano né guardarsi negli occhi in pubblico.
Ma per capire meglio dove nasce l’inte­resse per un libro complesso come Censu­ra , bisogna andare a pagina 16, dove Shahriar Mandanipour — o il suo alter ego letterario — si presenta al lettore di­cendo: «Sono uno scrittore iraniano stan­co di scrivere storie cupe e amare, popola­te da fantasmi e narratori passati da tem­po a miglior vita, con prevedibili finali di morte e distruzione». Uno scrittore cin­quantenne, aggiungiamo noi, che scrive in farsi per un pubblico che non può leg­gerlo (essendo in Iran censurato) e pensa in inglese per un pubblico americano col­to; che è stato critico cinematografico, di­rettore di una rivista letteraria e autore di racconti, prima di emigrare negli Stati Uni­ti nel 2006, dove Harvard gli ha offerto un posto di writer in residence che occupa tuttora.
Pieno di energia, ironico, erudito e am­biziosissimo, Mandanipour ha scritto un romanzo che è tre cose in una: la storia di un amore segreto tra due giovani nella cu­pa Teheran di oggi; la storia dello scrittore di quella storia costretto, per poterla raccontare, ad aggirare con mille compromessi l’inevitabile censura; e una riflessione su il modo in cui arte e vita possono mescolarsi nella realtà e sulla pagina. Chi ha visto i film di Michel Gondry o ha letto Diario di un anno cattivo di Coetzee sa di che cosa stiamo parlando.
Con queste premesse, ecco che la storia di Dara (trent’anni) e del suo amore per Sara (ventidue) diventa un escamotage per parlare d’altro. Dunque: Dara vede Sa­ra per la prima volta a una dimostrazione davanti all’università. Comincia a seguirla in biblioteca ma, siccome non può parlar­le, escogita un sistema per mandarle mes­saggi cifrati attraverso i libri che la ragaz­za prende in prestito (un classico persia­no ma anche Saint-Exupéry, Bram Stoker e Kundera). Impossibilitati a incontrarsi in pubblico, Sara e Dara si danno appuntamento in luoghi affollati: un museo, un pronto soccorso. E mentre la loro storia d’amore si incendia senza consumarsi, l’autore che la racconta è costretto a misurarsi con la penna del censore che la passa al vaglio (molte frasi sono cancellate) e a cercare di aggirare i suoi divieti. Tutto questo mentre la storia d’amore che continua a scorrere sulla pagina perde importanza a scapito delle avventure creative dell’auto­re e i personaggi gli sfuggono di mano (al punto che verso la fine il censore s’inna­mora di Sara e chiede allo scrittore di ucci­dere Dara per avere via libera con la ragaz­za).
Dunque è la censura la vera protagoni­sta di questo romanzo. Una censura eleva­bile ad arte che è la vera ragione, secondo Mandanipour, per cui «gli scrittori irania­ni sono diventati i più educati, i più male­ducati, i più romantici, i più pornografici, i più politici, i più realisti e i più postmo­derni del mondo». Non grazie alla nostra cara vecchia libertà di espressione che può intimorire le menti più navigate. Ma grazie a una tirannia che nella sua stupidi­tà non si accorge di essersi trasformata nella madre di tutte le metafore.

Corriere della Sera Roma 18.9.09
Vincere l’anoressia
Va in scena «Le Preziose» con quattro giovani attrici
di Emilia Costantini


Anoressia. Una malattia che ha radici antiche, ma è modernissima. Per la prima volta viene portata in teatro. Al Piccolo Eliseo sabato e do­menica va in scena «Le Prezio­se », uno spettacolo nato da un testo medico: «L’anores­sia. Storia, psicopatologia e cli­nica di un’epidemia moder­na » di Ludovica Costantino. In palcoscenico quattro giova­ni attrici, Sara Carlenzi, Valen­tina Gristina, Giada Olivetti e Micol Pavoncello, con la regia di Massimo Monaci.
Spiega l’autrice, medico psi­coanalista: «Lo spettacolo trae ispirazione dal mio libro, ma poi spicca il volo e trasci­na lo spettatore in un viaggio fantastico attraverso il tempo, per parlarci della donna e del­la sua realtà irrazionale che da sempre è stata temuta e osteg­giata dagli uomini». Il testo te­atrale ha preso vita dalla colla­borazione di un gruppo di donne: letterate, poetese, filo­sofe e naturalmente psichia­tre, unite da un’importante ri­cerca sulla realtà psichica che conduce all’anoressia. Spiega Monaci, giovane direttore del­l’Eliseo, qui in veste di regista: «È un percorso che indaga su 2500 anni di storia, a partire dall’antica Grecia, quando il costruirsi del logos occidenta­le, che aveva penalizzato la vi­ta della donna perché 'irrazio­nale', fece sì che l’uomo occi­dentale perdesse il rapporto con il mondo della fantasia in­conscia. La sfida è quella di rappresentare una ricerca così intima e profonda, con il lin­guaggio del teatro».
Ma si può stabilire una data di nascita di questa malattia? Risponde la Costantino: «Va precisato che l’anoressia colpi­sce solo l’Occidente. Solo le donne che appartengono al cosiddetto mondo ricco ed evoluto possono caderne vitti­me ». E quelle orientali? «Solo quando entrano in contatto con l’Occidente. L’anoressia esiste da sempre, solo che pri­ma non veniva riconosciuta come tale. Durante l’Illumini­smo, l’affermazione della ra­gione sul sentimento, della ra­zionalità dell’uomo sull’irra­zionalità della donna, accen­de la miccia. Dalla seconda metà dell’Ottocento, quando parte il processo di evoluzio­ne femminile, si trasforma in una malattia grave sotto il pro­filo psicopatologico e sociale. Negli ultimi vent’anni, il feno­meno ha subito un’accelera­zione preoccupante. Ormai è diventata un’epidemia».
Perché il titolo «Le Prezio­se », che sembra parafrasare una celebre commedia di Mo­lière, «Le preziose ridicole»? Risponde Monaci: «Nel seco­lo dei lumi, venivano chiama­te 'preziose', anche in forma dispregiativa e Molière ne è il testimone, proprio quelle don­ne che, appartenenti a una classe sociale culturalmente elevata, si riunivano per discu­tere e prendere coscienza dei propri diritti e della loro iden­tità. In un certo senso, erano delle antesignane di un fem­minismo non rivoluzionario, come quello che sarebbe ve­nuto in seguito, ma di sicuro impatto sul piano sociale».
Si può guarire davvero e de­finitivamente dall’anoressia? «Assolutamente sì - conclude la Costantino - purché si ritro­vi e si rivendichi la propria ir­razionalità, la fantasia, quel primitivismo che purtroppo tutti noi abbiamo perso».

giovedì 17 settembre 2009

l’Unità 17.9.09
«In Rai situazione gravissima. Il 19 in piazza possiamo fermare l’assalto finale»
Intervista a Davide Sassoli di Andrea Carugati


Mi aspettavo che la maggioranza avrebbe cercato di fare dei rimescolamenti in Rai, ma non una blindatura di questo genere, che non ha precedenti neppure sotto i passati governi Berlusconi». David Sassoli, impegnato a Strasburgo nel voto su Barroso, guarda alla situazione in Rai: «È gravissima, la potenza mediatica del premier si sta accanendo contro tutte le voci libere». All’europarlamento che commenti ha raccolto?
«Ci chiedono cosa sta succedendo in Italia, sono stupiti. Negli altri paesi le presenze dei politici in tv sono gestite con rigore, c’è il senso di una indipendenza delle emittenti, a partire dalla Bbc. Mentre da noi il potere del governo non trova alcun freno...».
Come valuta il comportamento del presidente Rai Garimberti, indicato dal Pd? «Il suo è un ruolo delicato, in una situazione difficilissima. Mi sembra prematuro dare un giudizio sulla sua esperienza».
Adesso però si prepara l’assalto finale a Rai3? Il Pd cosa dovrebbe fare? «Faremo di tutto per impedire l’occupazione dei pochi spazi di autonomia e di libertà rimasti in Rai. La manifestazione di sabato può essere molto utile per mettere Rai3 e Tg3 al riparo dagli assalti. Del resto il potere ce l’hanno loro, noi abbiamo solo l’iniziativa politica, la possibilità di mobilitare l’opinione pubblica. Con la manifestazione ma anche con il nostro congresso e con le primarie: solo con la partecipazione possiamo risvegliare un paese narcotizzato da 15 anni».
Domani (oggi, ndr) lei presenta a Roma la lista «Semplicemente democratici» a sostegno di Franceschini. Ci sono nomi di prestigio, dalla Serracchiani alla Borsellino. Qual è la vostra cifra? Il “nuovismo”?
«La discussione su nuovo e vecchio non ci interessa, l’obiettivo è scommettere su un’identità nuova e comune del Pd, che si costruisce proveniendo da storie diverse e andando oltre le forze che hanno fatto nascere il Pd. Ci saranno anche Cofferati, Stefania Pezzopane, Michele Emiliano (che precisa: «Ci sarò per David e Debora, ma rimango neutrale nel congresso nazionale»). Abbiamo scelto Franceschini per guardare avanti e non indietro, perché vuole scommettere su una nuova classe dirigente, per avere un partito forte ma anche aperto, che non rinunci alle primarie».
Nei primi congressi però è avanti Bersani... ««Il segretario verrà scelto con le primarie, i congressi servono solo per individuare i tre candidati. Che del resto ci sono già, dunque tutta questa prima fase mi pare solo un esercizio di stile: arrivare alle primarie col 40% o col 30% non fa differenza...».
Che fa, critica anche lei lo statuto come fanno i bersaniani? «Critico questo meccanismo sbagliato che serve solo ad aumentare le tensioni nel partito».❖

il Riformista 17.9.09
Marco Pannella. «I paladini della stampa sono gli stessi che hanno creato questo sistema» Perché non vado in piazza con Rep.
di Sonia Oranges


Lo storico leader radicale spiega il suo no alla manifestazione di piazza del Popolo: «Quelli che oggi urlano allo scandalo sono gli stessi che hanno creato questa situazione».

Questi o quelli, destra, sinistra o centro, poco cambia: per Marco Pannella, i paladini della libertà d'informazione che sabato hanno convocato in piazza del Popolo la voce del dissenso, sono in realtà assolutamente funzionali a un sistema antidemocratico. Che, a suo avviso, non nasce oggi, né con il premier Silvio Berlusconi. Così, i Radicali, da sempre in prima linea in qualsiasi battaglia di libertà, in piazza brilleranno per la propria assenza.
Perché?
Sono felice che la gente perbene finalmente venga convocata per esprimersi su questo tema finora vero tabù con quello della giustizia. Sono 30 anni che sollecitiamo una reazione in questo senso. Il problema è che la "manifestazione di massa" è organizzata proprio da chi ha causato quel che si pretende di denunciare: ciò contro cui per quasi mezzo secolo i Radicali hanno combattuto mentre in nome dell'Antifascismo sono tornati a opprimere l'Italia, abolendo democrazia e Stato di diritto.
A che cosa si riferisce?
Esattamente 35 anni fa, nel settembre del '74, riuscimmo a ottenere, con l'appoggio dei nostri pochi iscritti e di qualche voce dissenziente, come quella di Francesco De Gregori, le dimissioni dalla Rai dell'onnipotente Bernabei, perché il servizio pubblico in realtà attentava ai diritti civili degli italiani. Da allora nulla è cambiato. Da allora la giustizia ha ritenuto di imputare di analogo attentato solamente Adriano Celentano, che disse una sciocchezza a proposito del referendum sulla caccia, e un terrorista che voleva uccidere qualcuno ma non aveva alcun progetto politico. Mentre noi continuavamo a chiedere la difesa della democrazia, in Italia morta da tempo sotto la pressione degli apparati dello Stato degni di un regime totalitario. Le condizioni in cui versano le carceri lo dimostrano bene.
Sì, ma chi sono questi "attentatori" della libertà d'informazione?
Il Regime! Il Ventennio partitocratico, ora il Sessantennio. Ora la chiamano "bipolare" ma è la nuova forma del monopartitismo fascista. C'è poi il transpartito Eiar-Rai, antropologicamente ormai di mero potere anticostituzionale ed eversivo.
Eppure tre illustri giuristi hanno lanciato con successo un appello in questo senso.
A loro ho scritto una lettera aperta, invitandoli a rileggere la storia che hanno vissuto, senza comprenderla. Intanto il Paese perbene è minchionato: da una parte i "buoni", gli amici, dall'altra i berlusconiani - i nemici. Peccato che siano stati proprio quei buoni a ridurre il Paese a un desolato deserto di democrazia che ha prodotto Berlusconi. Vede, a me appare del tutto chiaro i servigi che si imputavano a Bettino Craxi erano copertura di quel baratto tra Pci e Fininvest, erano un baratto strutturale tra l'area comunista, il partito della Rai, la sinistra perbene e la virtualità berlusconiana. Quelli che ora chiamano la gente in piazza contro Berlusca, col quale rubano insieme di notte e di giorno ostentano di litigare magari per la spartizione del bottino. Sono molto lieto che dopo la "diserzione" di noi Radicali, anche personalità così diverse e significative come Cesare Salvi e Raffaele Bonanni non abbiano aderito a questa parata di regime.
Insomma, ma secondo lei la libertà di stampa è in pericolo o no?
Non è in pericolo, è vietata se non è di regime, partitocratica. Il sistema presceglie i propri oppositori. Per dieci anni, ad esempio, le notti "televisive" degli italiani sono state date in gestione a Rifondazione Porta a porta Comunista. In sette anni Vespa aveva invitato Emma Bonino sei volte e me cinque, di cui tre su sollecitazione del Garante. La Rai è stata sanzionata per ben 47 volte dall'autorità garante, che certo non avevamo nominato noi. E non c'è stato un solo democratico, tra quelli che sabato manifesteranno, che abbia detto una parola. Il Pdl è quello che è, ma il Partito cosiddetto democratico di Veltroni ha imposto la solitaria alleanza con Di Pietro e ha eliminato la presenza evidente di noi Radicali, che avremmo tentato quello che ci era già riuscito con la Rosa Nel Pugno, quando abbiamo fatto vincere Prodi. Il risultato è che noi siamo stati fatti fuori anche dall'Europa, mentre Tonino urla in tv senza togliere un solo voto a Berlusconi.
Però oramai siamo allo spostamento dei programmi perché tutti siano costretti a guardare il premier in tv.
Il popolo italiano, dopo un sessantennio antidemocratico con tutte le caratteristiche di un regime fascista, dimostra che sui temi etici, come su quello del finanziamento ai partiti, è in sintonia con noi. Anche se non viene nemmeno più messo in condizioni di sapere se esistiamo. La gente, d'altra parte, non ha gradito affatto. Ha preferito calcio e fiction: solo tre milioni e mezzo per Berlusconi. Magra consolazione per Franceschini, lui quanti ne avrebbe avuti? Trent'anni fa inviai a Fede, che era in via del Babbuino, una livrea. Ne devo trovare un'altra, con più mostrine, da regalare a Bruno Vespa.
Ma non le sembra che ci sia un'intolleranza senza precedenti verso un pensiero un po' diversificato?
Un'intolleranza , semmai, che è invece regola assoluta con mezzo secolo ormai di precedenti. Ora è ufficiale. Fa parte del gioco trasformare delle vecchie bagasce in vergini scandalizzate. Ma non sono credibili, sembrano delle vecchie maitresse incartapecorite che pretendono di lavorare in bordelli di lusso.
Se stiamo messi così male, che cosa dobbiamo sperare?
L'obiettivo dei Radicali è chiaro, preciso, dite pure folle e ridicolo. Farla finita con questo Sessantennio, prima che Berlusconi, che ha a che fare con cose ormai più grandi di lui, incapace di governarle, se ne vada e porti il Paese al macello. È il momento di preparare un Governo alternativo al regime. Un Governo di liberazione.
Sì, ma qui siamo a corto di uomini.
Dissento. A ben vedere c'è solamente l'imbarazzo della scelta. Noi Radicali abbiamo un solo obiettivo: fare la Riforma "americana" e un governo alternativo, come noi già siamo per storia e capacità dimostrate.

Repubblica 17.9.09
Figlie in rivolta e genitori giustizieri
La rivolta delle figlie
di Renzo Guolo


La tragica fine di Sanaa Dafani rimanda fatalmente all´analoga sorte toccata a Hina, la ragazza pachistana uccisa tre anni fa dal padre con l´aiuto di altri familiari per lavare "l´onta" che con la sua condotta, uno stile di vita occidentale e una relazione con un giovane italiano, gettava sulla famiglia.
Anche la giovane marocchina Sanaa aveva violato il namus, l´onore familiare: mettendo in discussione l´autorità del padre, contrario a una convivenza, con un italiano, uomo di diversa religione. Violazioni pagate con una morte sacrificale, mirata, illusoriamente, a ripristinare quell´onore davanti alla rete parentale e alla comunità cui i "padri giustizieri" appartengono.
Facile prevedere che questo efferato delitto, come del resto le troppe violenze contro le giovani donne musulmane picchiate o richiuse perché non indossano il velo o si abbigliano "lascivamente", rilanceranno le argomentazioni dei teorici dello "scontro di civiltà", ridislocato ormai a livello locale, sull´impossibile convivenza tra musulmani e italiani. In realtà l´esercizio della "violenza riparatrice" rivela crepe molto larghe all´interno di una cultura che nell´immaginario collettivo appare fortemente coesa.
La rivolta delle figlie, tanto inaccettabile quanto "eversiva" perché scardina l´ordine tradizionale a partire dal vissuto quotidiano e dalla famiglia, esprime la richiesta di autodeterminazione di giovani donne che si ritengono comunque musulmane, portino o meno il velo. A dimostrazione che nell´analizzare simili fatti, più che di islam, si dovrebbe parlare di musulmani, con i loro diversi modi di vivere la fede e i loro comportamenti concreti. Tra questi vi sono osservanti e fondamentalisti, ma anche aderenti a una religione vissuta essenzialmente come cultura o secolarizzati. È questo pluralismo interno che quelle ragazze alimentano, nel doppio ruolo di credenti non dogmatiche e di donne che vogliono decidere della propria vita, con la loro soggettività femminile.
La violenza sulle donne, su Sanaa, Hina e le altre, quelle che non conosciamo e non denunciano i maltrattamenti, mostra che la presa del corpo sociale maschile sui corpi femminili, segna il passo. È questa sensazione di impotenza, che si manifesta in quei brutali colpi di lama. Sul corpo delle giovani donne musulmane è, infatti, in corso una battaglia che ha come posta due esiti diversi: il ripristino del controllo maschile, legato a una tradizione che si nutre di elementi culturali prima ancora che religiosi ed è ostile a stili di vita che, per rigoristi e fondamentalisti, trasformerebbe la seduzione in sedizione, la libertà femminile in minaccia a un ordine ritenuto immutabile; o il suo progressivo sgretolamento e sostituzione, attraverso il conflitto familiare e l´erosione del controllo sociale comunitario, con una dialettica che accetta, o subisce, la libera scelta delle donne senza ricorrere a un arbitraria violenza restauratrice.
I terribili colpi inferti a Sanaa e Hina devono indurre, dunque, più che a irrealistiche chiusure verso i musulmani, che proprio nelle loro nicchie etniche e religiose rafforzate da riflessi identitari e da meccanismi di esclusione culturale possono coltivare la loro separatezza e le loro coercitive visioni della donna, a un´azione politica e sociale che spezzi la claustrofobia comunitaria; che li metta sempre più in relazione con gli italiani.
Non basta che questo accada nella sfera del lavoro, come dimostrano le biografie dei "padri giustizieri", entrambi integrati da questo punto di vista. Quello che serve è l´interazione nella sfera culturale, nel vissuto quotidiano, negli spazi sociali che vanno condivisi. Perché, anche se lentamente, le culture mutano quando interagiscono tra loro. Solo così sarà possibile attenuare il pesante maglio della violenza patriarcale. In caso contrario altre vite si consumeranno ai bordi di una strada o in una stanza divenuta prima un privatissimo tribunale e poi uno scannatoio.

l’Unità 17.9.09
«Sono amico di Israele ma non voglio coprire i crimini compiuti a Gaza»
Le accuse. «Mi hanno ferito e indignato, io sono ebreo ma questo non può voler dire occultare le verità scomode»
Il procuratore che ha presentato il rapporto sulla guerra nella Striscia: «Nessun pregiudizio ma ci sono state violazioni del diritto umanitario»
Intervista a Richard Goldstone di Umberto De Giovannangeli


Hamas. «Nel documento abbiamo condannato anche il lancio di razzi
in territorio israeliano su obiettivi civili»
Bufera sul dossier: «Troppo sbilanciato contro di noi»

Nei giorni scorsi aveva respinto con cortesia e fermezza le nostre sollecitazioni a parlare del rapporto-bomba che da lì a poco avrebbe presentato al Consiglio dei diritti umani dell’Onu: «Se vuole, ne potremo parlare dopo...». Quel dopo è arrivato e Richard Goldstone, ex procuratore del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia e il Ruanda, mantiene la parola e ritorna con l’Unità sui punti più scottanti delle 600 pagine del rapporto – presentato ufficialmente l’altro ieri a New York, sull’offensiva israeliana «Piombo Fuso» condotta nella Striscia di Gaza. «In me e nei miei colleghi – sottolinea il professor Goldstone, sudafricano, ebreo – non c’è stato alcun pregiudizio anti israeliano, tanto meno antisemita. Essere amici di Israele significa anche denunciarne gli errori e gli abusi commessi». Goldstone ha chiesto che il suo rapporto sia trasmesso alla Corte Penale Internazionale dell’Aja e al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, che lo ha ordinato. Sarà il pubblico ministero della Corte dell’Aja, l’argentino Luis Moreno-Ocampo ad esaminare il dossier preparato da Goldstone. «Mi auguro che tutto proceda più rapidamente possibile e in totale trasparenza», dice a l’Unità il giudice sudafricano. Che alle accuse piovutegli addosso, ribatte così: «Io e i miei colleghi sappiamo di avere la coscienza a posto. Non so se altri coinvolti in questa tragica storia possano dire altrettanto».
Professor Goldstone, il rapporto da lei redatto assieme ad altri tre esperti internazionali ha scatenato polemiche in Israele e nel mondo. Partiamo dall’accusa rivolta a Tsahal e ai responsabili del ministero della Difesa israeliano. Qual è con precisione?
«Nel rapporto abbiamo documentato casi che evidenziano come le forze armate d’Israele non abbiano adottato le precauzioni necessarie richieste dal diritto internazionale per limitare le perdite umane e i feriti fra i civili e i danni materiali».
Lei parla di casi documentati. Può fare qualche esempio in merito?
«Posso dirle che i proiettili di mortaio al fosforo bianco contro le istallazioni dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (ndr), l’attacco deliberato sull’ospedale Al Qods con proiettili esplosivi e al fosforo e l’attacco contro l’ospedale Al Wafa, rappresentano chiare violazioni del diritto umanitario internazionale».
Nel rapporto l’accusa rivolta a Israele è pesantissima... «Io e i miei colleghi abbiamo cercato di fare del nostro meglio, in condizioni difficilissime, per documentare una vicenda – la guerra di Gaza – drammatica e complessa nei suoi molteplici risvolti . In questa ricerca abbiamo rilevato che sia Israele che i miliziani palestinesi hanno commesso crimini di guerra e in alcuni casi crimini contro l’umanità. La prova che io e i miei colleghi non eravamo mossi da uno spirito di parte, è che a criticare il rapporto sono sia Israele sia Hamas».
Professor Goldstone, lei sa che c’è chi l’accusa di aver portato acqua al mulino dell’antisemitismo mascherato dall’odio verso Israele.
«Lo so bene e questa è l’accusa che più mi ferisce e m’indigna. Io sono ebreo, mi considero amico d’Israele e penso che quello che ho fatto sia nell’interesse d’Israele. Essere veri amici non vuol dire occultare le verità scomode. Questo significa essere complici di atti – come quelli documentati dal rapporto contrari alle più elementari norme del diritto umanitario internazionale».
Nel rapporto non vengono prese in considerazione solo le operazioni strettamente militari, ma anche il blocco imposto da Israele a Gaza. Le autorità dello Stato ebraico lo motivano come misura di sicurezza.
«In discussione non è il diritto di difesa da parte dello Stato d’Israele, né il rapporto si avventura in considerazioni di natura politica sull’effettiva incidenza di certe politiche repressive nel contenimento dei gruppi estremisti palestinesi. Ciò che affermiamo è che il blocco dei rifornimenti imposto da Israele tende a configurarsi, in base alle norme del diritto umanitario internazionale e della Convenzione di Ginevra, come una punizione collettiva per la popolazione della Striscia di Gaza». Hamas vi accusa di aver messo sullo stesso piano aggredito e aggressore.
Quel rapporto ha scatenato l'inferno. Il dossier del giudice sudafricano Richard Goldstone, come scrive ieri il quotidiano Haaretz, è ritenuto dal governo israeliano «un attacco diretto al Paese». Il timore principale è che il rapporto giunga in sede di Consiglio di Sicurezza dell'Onu e che alcuni militari possano dover comparire davanti alla Corte Penale Internazionale (Cpi) dell'Aja con l'accusa di essere criminali di guerra. Netanyahu, il presidente Peres, il ministro degli Esteri, Lieberman e il ministro della Difesa, Barak, avvieranno un giro di contatti con i loro omologhi dei Paesi alleati per spiegare che si tratta di un dossier troppo sbilanciato contro Israele».
«Queste sono conclusioni di parte che nulla hanno a che fare con lo spirito e il contenuto del rapporto. Ciò che abbiamo rilevato è che il lancio di razzi in territorio israeliano costituisce un crimine di guerra e può essere ritenuto un crimine contro l’umanità in quanto non fa differenza alcuna fra obiettivi militari e civili. Il diritto di resistenza a forze occupanti, così come è configurato nella stessa Convenzione di Ginevra, non giustifica azioni che tendono a colpire civili. Voglio ribadirlo con forza: il lancio di missili e mortai verso città, villaggi e aree civili in Israele è ugualmente grave e e ciò è un grave crimine di guerra e forse un crimine contro l’umanità. Nel rapporto abbiamo anche condannato gli arresti arbitrari e le esecuzioni senza processo operati da Hamas a Gaza e chiesto la liberazione del soldato Shalit (catturato da Hamas nel giugno 2006, ndr)».
Tra le accuse che provengono da Israele, una delle più ricorrenti è che il rapporto è “preconfenzionato”. Quel rapporto, denuncia Marc Regev, portavoce del governo di Gerusalemme, è “nato nel peccato”...
«Preconfenzionato un rapporto basato su 188 interviste, migliaia di pagine di documentazione, 1200 foto? Quel rapporto è pubblico. Chiunque voglia può prenderne visione. Chiedo solo che venga letto senza pregiudizi di parte e con onestà intellettuale. Ciò di cui mi rammarico è il rifiuto delle autorità israeliane a collaborare nella ricerca della verità. Per quanto riguarda poi il “peccato”, sia io che i miei colleghi abbiamo la coscienza a posto. Non so se altri possono dire altrettanto». ❖

Repubblica 17.9.09
Respingimenti, indaga la procura "Va rispettato il diritto d´asilo"
Agrigento, i comandanti delle motovedette rischiano l´incriminazione
Ieri le prime tre condanne a Milano per il reato di clandestinità. Ma per i giudici di pace la legge è un caos
di Francesco Viviano


LAMPEDUSA - I comandanti delle motovedette della Marina Militare e della Guardia di Finanza che hanno soccorso in mare e "respinto", volenti o nolenti, in Libia oltre un migliaio di extracomunitari che tentavano di raggiungere Lampedusa, rischiano di essere incriminati per avere eseguito un "ordine illegittimo" e per omissione d´atti d´ufficio. La Procura della Repubblica di Agrigento ha infatti aperto una inchiesta, allo stato contro ignoti, sui respingimenti compiuti in questi mesi nel canale di Sicilia dopo che il nostro Governo ha attuato l´accordo con la Libia dove vengono riportati gli extracomunitari intercettati nel Canale di Sicilia. Il fascicolo aperto dal Procuratore di Agrigento, Angelo Di Natale e dal suo aggiunto, Ignazio Fonzo, per adesso ha raccolto gli articoli di stampa sui respingimenti e le testimonianze dei sopravvissuti e di altri che, riportati in Libia, sono riusciti a contattare le organizzazioni umanitarie denunciando di non avere potuto chiedere ed ottenere il diritto d´asilo o lo status di rifugiato politico.
Agli atti c´è anche una denuncia dell´Unione Forense per la tutela dei diritti dell´uomo che ha presentato anche un ricorso presso la Corte Europea di Strasburgo. I magistrati agrigentini dovranno accertare se durante i respingimenti i militari italiani hanno rispettato le leggi italiane e le convenzioni internazionali. «Quando gli extracomunitari vengono soccorsi in mare e trasbordati sulle navi italiane - sottolineano in Procura - devono essere rispettate le leggi italiane e le convenzioni internazionali. Quello che dovremmo accertare in particolare è se gli extracomunitari respinti in Libia siano stati identificati, riconosciuti e se hanno avuto o meno la possibilità di richiedere l´asilo politico o lo status di rifugiato come prevedono la legge italiana e le convenzioni internazionali per chi fugge da paesi in guerra o per altri motivi previsti».
È chiaro che gli extracomunitari soccorsi e respinti, non sono stati identificati e, probabilmente, non è stato chiesto a quei disgraziati se volessero fare o meno domanda d´asilo. In maggioranza i "respinti" sono di nazionalità eritrea e somala come hanno dimostrato i pochi sopravvissuti che sono riusciti a raggiungere Lampedusa in condizioni disperate ed i cadaveri ripescati in mare. «Come fanno i militare a stabilire - fanno notare ancora in Procura - di che nazionalità sono le persone che hanno soccorso in mare e se hanno diritto o meno all´asilo senza rispettare le procedure italiane ed internazionali? Quel che può sembrare un paradosso è che a rischiare sono proprio i comandanti delle nostre motovedette perché eseguono un ordine che viene dall´alto e che potrebbe essere illegittimo e questo è un reato. Quindi non rischia chi ha dato l´ordine, ma chi lo esegue».
Molti militari sono consapevoli del rischio che corrono, ma si trovano tra due fuochi. «Prima dell´entrata in vigore di questo accordo con la Libia - dice un ufficiale - li andavamo a soccorrere fin sotto le coste africane. Poi sono arrivati gli ordini di "respingerli". Cosa possiamo fare? Come uomo spesso sono in difficoltà con me stesso perché so perfettamente che si tratta di persone che hanno il diritto di essere accolti in Italia, come militare però devo eseguire gli ordini anche se non li condivido. Ma rischiare pure di essere indagati non ci fa certamente molto piacere. È necessario che questa vicenda sia chiarita una volta e per sempre, perché così siamo sempre noi a rischiare». E sul reato di immigrazione clandestina, ieri sono arrivate le prime tre condanne a Milano. Ma al tempo stesso sono molti i giudici di pace che hanno sollevato eccezioni di incostituzionalità. «È una legge ancora piena di misteri», ha dichiarato ieri Vito D´Attolico, coordinatore dei giudici di pace di Milano. Mentre un altro giudice, a Bologna, ha rinviato al 21 ottobre la decisione dopo che il pm ha sollevato l´eccezione.

Repubblica 17.9.09
Se l’immigrato non ha diritti
di Chiara Saraceno


Il botta e risposta tra Bossi e Fini ha se non altro il pregio di aver chiarito una volta per tutte la posizione del primo sui diritti degli immigrati: non devono averne nessuno, neppure quelli umani, quelli sanciti dalla dichiarazione universale dei diritti dell´uomo. Non si tratta solo di rifiutare loro il diritto di voto, anche solo a livello amministrativo, anche quando siano da molti anni in Italia, in modo regolare, paghino le tasse, mandino i propri figli a scuola e così via. Un rifiuto discutibile, su cui anche negli altri paesi esistono posizioni e soluzioni diverse, ma comunque limitato ad un livello particolare dei diritti.
È l´idea dell´immigrato (non comunitario) come soggetto di diritti di base nel nostro paese che sembra messa in discussione dal leader della Lega. Secondo Bossi, infatti, «gli immigrati hanno diritti sì, ma solo a casa loro, dove sono cittadini. Da noi sono i nostri ad avere diritti». Sembra di essere tornati ad un´epoca in cui lo straniero è un paria in preda all´arbitrio del paese i cui confini ha incautamente attraversato, una persona verso cui non si riconoscono neppure i doveri minimi di ospitalità, di cui si può accogliere e utilizzare eventualmente il contributo (il lavoro, le tasse), ma senza avere alcun dovere di reciprocità. Neppure un denizen, un "cittadino parziale", con diritti civili e sociali, ma non politici.
Da questa concezione dei diritti umani come collegati alla cittadinanza nazionale, e non al riconoscimento della appartenenza comune alla società umana, discende una politica dei respingimenti che non tiene in alcun conto le condizioni cui si rimandano i respinti, in particolare della possibilità che siano in fuga da pericoli per la loro vita o per la loro libertà. Il diritto d´asilo era riconosciuto anche in epoche precedenti le dichiarazioni e gli accordi internazionali sui diritti dell´uomo. Negli ultimi mesi esso sembra invece diventato un ricordo nelle acque del Mediterraneo. E anche quando non è in questione il diritto d´asilo, fa comodo far finta di ignorare che cosa aspetta i respinti una volta "riaccolti" in Libia. Gli accordi con quel paese sono stati fatti sui modi del respingimento, non sui diritti minimi dei respinti. E l´introduzione del reato di clandestinità ha esposto migliaia di persone ai ricatti di chiunque, oltre che alla negazione di diritti fondamentali come le cure se ammalati, l´istruzione e persino lo status civile di "esistente in vita".
Ma da quella visione restrittiva dei diritti umani discendono anche le tante piccole e grandi vessazioni cui sono sottoposti gli immigrati non comunitari, anche quando regolari: esclusione da alcune misure di politica sociale (ad esempio l´assegno di maternità per le donne a basso reddito che non hanno diritto all´indennità di maternità, l´assegno per il terzo figlio per le famiglie numerose a basso reddito, in alcuni casi l´accesso alla abitazione di edilizia popolare). Discende anche la negazione di un diritto civile fondamentale nelle società democratiche: il diritto a manifestare il proprio credo religioso e ad avere propri dignitosi luoghi di culto. Esso in troppe delle nostre città è violato con varie scuse per gli aderenti alla religione islamica. Persino indossare il velo islamico (non il burqua totale) può essere considerato da qualche amministratore come illegittimo. In Francia, dove, a mio parere sbagliando, in nome della laicità dello stato lo hanno proibito nei luoghi pubblici come la scuola, hanno esteso la stessa proibizione ad ogni altro visibile segno di appartenenza religiosa – dalla kippà ebraica al velo delle suore cattoliche e la tonaca dei preti. In Italia invece la Lega, e non solo la Lega, vorrebbero moltiplicare e imporre i segni della religione cattolica nei luoghi pubblici, e non hanno nessun problema (anzi) a finanziare la scuola cattolica. Ma contemporaneamente negano ogni valore e dignità alla appartenenza islamica comunque si manifesti. L´evocazione del sospetto del terrorismo copre in realtà un radicale rifiuto del diverso.
L´immigrazione pone certamente problemi ad ogni stato nazionale democratico. Una democrazia, per potersi esercitare, ha bisogno di confini e non può lasciare che i propri confini siano impunemente modificati. Per questo distingue, entro il proprio territorio, tra coloro che sono pienamente cittadini (e quindi anche corpo elettorale) e coloro che invece non hanno diritti politici ma solo civili e sociali. E cerca anche un compromesso tra il dovere dell´accoglienza e il diritto a controllare i propri confini. Si tratta, come ha ricordato Seyla Benhabib in un denso piccolo volume pubblicato dal Mulino (Cittadini globali, 2008), del "paradosso della sovranità democratica". Ma la posizione della Lega, sostenuta di fatto anche dal governo, sembra ignorare questo paradosso e i doveri di mediazione che esso comporta. Anziché disarticolare i diversi livelli di diritti, li schiaccia in uno solo, da cui fa dipendere tutti gli altri. Negando quello, nega automaticamente anche gli altri.

Corriere della Sera 17.9.09
L’incertezza delle prime udienze dopo la pausa estiva sul reato introdotto dal decreto Maroni
L’imputato non c’è o fa il badante Falsa partenza dei processi ai clandestini
Dubbi e rinvii in aula. Le procure di Bologna e Agrigento: legge incostituzionale
di Marco Imarisio


BOLOGNA — Il debutto si chiama Abid Elha­ch, assente in aula. Seguono altri nove nomi, da Vladyslav Chvikov a Sergio Parfeh (sospetto alias, annota la Polizia municipale). L’indirizzo è la fabbrica dell’Idrolitina, tutti la chiamano an­cora così, pochi sanno che da qualche anno ha cambiato destinazione d’uso diventando l’uffi­cio dei giudici di pace. Quartiere Cirenaica, al­l’incrocio con la via Paolo Fabbri che deve la sua fama all’ex residente Francesco Guccini.
La giustizia «minore» si prende la ribalta per un giorno, a Bologna e non solo. In tutta Italia, il reato di «soggiorno e ingresso illegale» passa da questa strettoia. Finite le vacanze, si comin­cia oggi, ore 9. L’aula al pianterreno è piccola, con vista sul parcheggio. Tre file di sedie, divise a metà tra vigili chiamati in quanto testimoni e giornalisti. Imputati presenti, uno su dieci. La prima udienza interamente dedicata al nuovo reato di clandestinità può cominciare. E subito finisce.
Al posto del del Vpo, vice procuratore onora­rio delegato a trattare i piccoli reati che non pre­vedono l’arresto, sulla seggiola dell’accusa — il banco non c’è — siede il procuratore reggente Massimo Serpi, ovvero il più alto in grado di un ufficio che attende la nomina di un capo soltan­to da un anno e mezzo. Non appena lo vede, la vigilessa di Castelmaggiore capisce tutto. «Vab­bè, potevano dirlo anche a noi, così stavamo a casa...». Visibilmente compiaciuto, Mario Luigi Cocco, coordinatore dei giudici di pace, fa gli onori di casa. «La presenza del dottor Serpi te­stimonia l’attenzione della Procura a questo procedimento».
Il magistrato, che va di fretta per altri impe­gni, chiede e ottiene la parola. «Nel confrontar­si con questo tipo di nuovo reato, l’Ufficio da me rappresentato ritiene vi siano ipotesi di cen­surabilità della legge così come è stata modella­ta ». L’esposizione dei presunti profili di incosti­tuzionalità dell’articolo 10 bis non prende più di cinquanta minuti. Riassumendo: violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza della legge, del diritto alla difesa e di quello per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. In platea sbuffano. Le rappresen­tanze delle Polizie municipali di Bologna e Ca­stelmaggiore concordano solo su un aspetto. «Dalle circolari che la Procura ci ha mandato in questi due mesi era chiaro l’andazzo», dicono. L’atmosfera in aula non è certo solenne, dal­l’atrio arrivano voci e risate, non c’è mica solo la clandestinità, con la ripresa dell’attività tor­na anche il popolo dei multati. «Sembra una fie­ra di paese» azzarda un difensore d’ufficio.
Il giudizio è ingeneroso, ma riflette il caratte­re di precarietà di queste udienze, che stanno al funzionamento della nuova e contestatissima legge come le prove libere al Gran Premio di Formula 1. Le prime indicazioni sembrano escludere l’assalto ai forni paventato da molti osservatori. Niente sovraccarichi di lavoro, per ora. Dall’8 agosto, giorno dell’entrata in vigore della legge, ad oggi, gli imputati per il reato di clandestinità non è che abbondino: 27 a Geno­va, 25 a Torino, 16 a Firenze, 29 a Bologna. L’ar­retrato da smaltire dopo le ferie è questo. Ma l’ormai famoso articolo 10 bis che introduce il reato di clandestinità è una terra ancora ine­splorata. «Piena di misteri» l’ha definita Vito D’Attolico, il coordinatore dei giudici di pace milanesi. Ieri, quattro condanne e due ammen­de pecuniarie, respinte le eccezioni di costitu­zionalità sollevate dai legali, non dalla Procura. E un nuovo dubbio che va ad aggiungersi ad un nutrito elenco. Che si fa quando viene decretata l’espulsione immediata per un clandestino in carcere per altro reato e in attesa di processo d’appello? L’algerino Omar Ruis, a San Vittore per spaccio di droga, primo condannato «mila­nese », per il momento rimane dov’è. L’unico imputato che invece doveva rispondere solo del reato di clandestinità non si è presentato. Al suo avvocato è stato chiesto di notificare al cliente il rinvio dell’udienza. Risposta: «E dove lo trovo?» A Torino non si è neppure cominciato. Sei dei dieci imputati provenivano dal carcere delle Vallette, arrestati per altro reato. «Non sono quindi di mia competenza» ha messo agli atti il giudice di pace Maria Alessandra Bucchi, in os­sequio alla direttiva del procuratore capo Gian­carlo Caselli, che prevede una corsia preferen­ziale con assegnazione al pubblico ministero di turno per chi ha già conti pendenti con la giusti­zia. I fascicoli degli altri quattro, due cittadini nigeriani e due gabonesi, erano incompleti. «Non ci sono quindi elementi per decidere». Ar­rivederci al 30 ottobre. Anche a Genova nessu­na sentenza, a causa di un gesto in controten­denza. L’unico imputato di giornata, un cittadi­no equadoriano denunciato a piede libero, infat­ti si è presentato. E subito ha esibito la doman­da di regolarizzazione fatta dalla sua datrice di lavoro, che ha chiesto di assumerlo come ba­dante approfittando della sanatoria in corso. Attimi di incertezza, sguardi smar­riti. «Che si fa?» chiede l’av­vocato di fiducia. «Aspettia­mo di vedere come va la sa­natoria » ribatte rassegnato il giudice di pace Maria Gra­zia Tavella. Se ne riparla tra un mese, come minimo. A Firenze si comincia tra qual­che giorno, ma il procurato­re aggiunto Giuseppe Sore­sina ha già parlato di «con­sistenti difficoltà» in tutta la Toscana a causa dell’as­senza di un Centro di identi­ficazione ed espulsione (Cie) dove gli imputati do­vrebbero attendere il pro­cesso. Napoli: astensione dal lavoro degli avvocati, nulla di fatto. L’avamposto di Agrigento, al quale guar­dano i sostenitori della leg­ge convinti che i magistrati la vogliano boicottare, con­trariamente alle previsioni non ha grandi arretrati ago­stani da smaltire ma aspet­ta il 20 settembre, quando la Procura esprimerà la sua opinione sull’istanza di co­stituzionalità presentata da un difensore d’ufficio. «In linea di massima la nostra posizione è nota — dice con sincerità il procuratore capo Renato Di Natale —.
Rispettiamo ciò che il legi­slatore fa e propone, ma sia­mo convinti che vi siano importanti aspetti da chiari­re».
Una volta che il procuratore Serpi ha finito la sua esposizione, lasciando le altre incombenze al viceprocuratore onorario, a Bologna si proce­de spediti, a ritmi fordistici. Concerto a quattro voci. «Slonoskaja Katerina», dice il giudice. «Il pubblico ministero presenta istanza», ribatte il sostituto. «L’avvocato si associa alla richie­sta? », aggiunge il giudice. «Sì», è la risposta. Co­sì per nove giri, fino al «grazie e arrivederci», ci vediamo il prossimo 21 ottobre. La decisione sull’eccezione spetta a Mario Luigi Cocco, coor­dinatore dei giudici di pace. «Si tratta di una leg­ge controversa — dice —, sicuramente di diffi­cile interpretazione e gestibilità. I dubbi sulla sua costituzionalità sono piuttosto seri. Ma non penso che questo sia l’unico ufficio destina­to a trovarsi davanti al dilemma di decidere sul­le sue sorti». La prima udienza è tolta. Avanti piano, pianissimo.

l’Unità 17.9.09
L’Ad dell’azienda per l’ambiente «capace e incensurato» secondo il primo cittadino
Ma 20 anni fa partecipò a un’aggressione. E aiutò il senatore Di Girolamo ad aggirare le legge
Campidoglio, Alemanno premia ex «cuori neri»
Il nome di Stefano Andrini, appena promosso ai vertici dell’azienda capitolini che si occupa di rifiuti, compare anche in una informativa della Dia insieme a Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher.
di M Gerina S. Provenzani


Lungo curriculum. Un passato come simpatizzante in gruppi di estrema destra

Certo, adesso, Dagospia, che ama pizzicarlo nei salotti romani, lo ha ribattezzato Retromanno. Ma non per niente da giovane lo chiamavano “Lupomanno”. E quel richiamo della “comunità politica” da cui proviene continua a risuonare nelle stanze capitoline. Anche ora che il nuovo Gianni Alemanno si ritrova a calcare le orme di Veltroni, il passato nelle sue varie riedizioni parla all' orecchio del sindaco di Roma che viene dal fu-Movimento sociale italiano. E anche quando la linea sembra disturbata, il canale funziona bene. È andata così per Stefano Andrini, già militante dell’estrema destra romana, che vent’anni fa feriva a sprangate due ragazzi all’uscita del cinema Capranica e dal 31 agosto è amministratore delegato nella municipalizzata che si occupa di rifiuti. «Avrei dovuto porre il veto, ma non c’erano gli estremi, mi hanno detto che si tratta di una persona capace e poi ora è incensurato», spiega, a caldo, Alemanno che ora, Aula Giulio Cesare, promette risposte più circostanziate.
DOCUMENTARSI
Quindici giorni di tempo per documentarsi. Ma ce ne sono voluti un paio solo per produrre il curriculum. In cui spicca il nome di una società informatica svedese (in Svezia Andrini era fuggito nell’’89 per evitare l’arresto, ma il cv non lo dice) e un paio di patronati Ugl. Il resto bisogna cercarlo altrove. Tra le carte del processo per l’aggressione al Capranica. Dove compare il nome di un altro strettissimo collaboratore di Alemanno, Mario Vattani, figlio di Umberto, che però venne prosciolto. Le strade separate allora si riuniscono ora in Campidoglio dove Vattani è responsabile Relazioni internazionali. Anche la Direzione investigativa antimafia, ad un certo punto, si imbatte in Andrini. E quanto contenuto nell’informativa n. 3815 del 31/1/1998, in cui Andrini è citato insieme a Tilgher e Delle Chiaie, viene ritenuto interessante anche dai pm che indagano sulle stragi del ‘92-3 (l’inchiesta, poi archiviata, sui “Sistemi criminali”). Solo una citazione, appunto, che serve ai pm palermitani a ricostruire l’ambiente in cui prese piede il progetto della “Lega meridionale” tra l’altro, candidare Gelli e Ciancimino e che i pm collocano al centro di un intereccio tra mafia, massoneria ed eversione nera. In particolare ad attirare l’attenzione è la manifestazione (6 giugno 1990) “Un indulto per la pacificazione nazionale” a cui partecipano con l’avvocato Lanari, fondatore della Lega, «Adriano Tilgher (esponente di Avanguardia Nazionale), Pisauro (legale di Stefano delle Chiaie), Tommaso Staiti Di Cuddia» e «i fratelli Andrini (militanti dell’organizzazione di estrema destra “Movimento Politico occidentale” di Maurizio Boccacci, molto legato a Stefano Delle Chiaie)». Ma veniamo al passato più recente. Nel 2000 Andrini, passato ad An, lo ritroviamo, grazie a una moglie brasiliana, tra gli “italiani all’estero”. Accanto a Tremaglia, prima. Poi con Pallaro, candidato non eletto. Infine come “consulente” del futuro senatore Di Girolamo, ex An. Il quale non avendo i requisiti per candidarsi nelle liste degli italiani all’estero (è residente in Italia) si rivolge ad Andrini, che gli dà il giusto aggancio al Consolato di Bruxelles. E l’ostacolo della mancata residenza viene aggirato. Con l’inganno. Come annota la richiesta di autorizzazione a procedere contro l’eletto Di Girolamo. Anche questo non c’è nel curriculum. Come certo non è annotato nel curriculum di Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno, quando nel 2000, portavoce di Forza Nuova, voleva frapporsi «fisicamente alla parata gay». Sorge il dubbio che nemmeno Casa Pound, centro sociale di destra legato all’ex Tp Adinolfi, abbia fatto pervenire in Campidoglio statuto e foto degli aderenti che fanno il saluto romano. E nemmeno l’intervista di Sky al suo leader Iannone che a Fini sul male assoluto replica: «Uno str...». Dal Campidoglio, infatti, dopo i patrocini concessi e ritirati, sono arrivati anche i finanziamenti, che Piero Terracina insieme all’associazione Miriam Novitch e al consigliere del Pd Paolo Masini chiedono di ritirare. Insieme alla nomina di Andrini. ❖

l’Unità 17.9.09
«Pensieri & parole per costruire una nuova comunità»
Festivalfilosofia Comunanza, frontiera, straniero, frammentazioni, identità femminili: ne parliamo con la direttrice del festival: «La società ottunde e anestetizza, ma abbiamo tutti bisogno di conoscenza»
Intervista a Michelina Borsari di Luigina Venturelli


Il prossimo. «Per dire straniero la lingua greca sa due parole, una delle quali ha la stessa radice della parola ospitalità»
Un nuovo lessico. «L’accelerazione della storia ci obbliga a rinnovare costantemente il nostro apparato concettuale»
Donne e uomini. «Le ragioni dell’identità femminile sembrano affievolite: anche nelle relazioni uomo-donna c’è bisogno di un inedito...»
Tempi di presunti diritti individuali contro fastidiosi doveri sociali. Tempi di eccezioni personali contro mal tollerate regole condivise. Tempi in cui parlare di comunità assume un’inedita carica rivoluzionaria, scomoda e disturbante come solo la filosofia può essere quando scova e smaschera false certezze. Michelina Borsari, direttrice del festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, perchè la scelta di dedicare questa nona edizione al tema, per nulla scontato, della comunità? «Fin dalla sua nascita, il festivalfilosofia sceglie come parole d’ordine quelle categorie del pensiero che fanno problema, che vivono nel senso comune, ma che non hanno già tutte le risposte date. Cerchiamo di fornire un lessico, non un teorema». Mai come in questo momento storico e politico, si lamenta in Italia la perdita di senso comunitario. «Non è un fenomeno solo italiano, ma uno degli effetti principali della globalizzazione sulla nostra civiltà, caratterizzata da frammentazione, solitudine e inaridimento sentimentale. Allo stesso tempo si sono acuite le sensibilità locali, l’attenzione alla prossimità, quindi la fragilità del legame sociale». Il che spiega il successo di un partito come la Lega Nord.
«Il problema non riguarda solo l’arrivo dei migranti nel nostro Paese, che sicuramente acuisce l’ipersensibilità locale e le reazioni nei confronti dell’immigrazione, ma attiene al concetto stesso di comunità e non può essere risolto con semplici appelli ai buoni sentimenti».
Dunque, il conflitto è inevitabile?
«Alla filosofia spetta proporre le giuste diagnosi, pulire le domande, capire la vera natura del problema. Individuare le buone pratiche necessarie a disinnescare il conflitto non spetta ad altri».
Alla politica, in teoria.
«Da questo punto di vista è centrale il tema delle frontiere, che sarà affrontato dall’antropologo Marc Augè nella sua lezione magistrale, sabato a Carpi. In passato sognavamo un mondo senza frontiere, oggi siamo consapevoli che le frontiere si spostano, ma non si eliminano. Per questo bisogna renderle il più porose possibile, accertarsi che possano essere attraversate e non si trasformino in barriere invalicabili».
La lezione di Massimo Cacciari sarà dedicata al concetto di prossimo. Che cosa succede quando il prossimo diventa lo straniero?
«La domanda sul prossimo ha origine evangelica e trova nella parabola del buon samaritano la risposta più compiuta: il samaritano resta il diverso per etnia, lingua, cultura e religione ma la diversità non ha valenza negativa, soprattutto quando si accompagna al riconoscimento dell’altro come prossimo. Per dire straniero la lingua greca usa due parole, una delle quali ha la stessa radice della parola ospitalità: come spiegherà Umberto Curi, esiste un’ambivalenza profonda nelle comunità e nel modo in cui accolgono gli altri. Il rischio è quello di diventare comunità chiuse».
L’analisi filosofica sembra più attinente alla realtà italiana di tante analisi politiche. Per questo il festival di Modena, Carpi e Sassuolo ha tanto successo?
«I festival culturali rappresentano una forma contemporanea di comunicazione della conoscenza. L’accellerazione della storia rende insufficienti le categorie del pensiero già acquisite e richiede il costante rinnovo del nostro apparato concettuale. La società ottunde ed anestetizza, ma tutti gli uomini desiderano di sapere, dice Dante. E noi ci crediamo».
Dovrebbe provvedere anche il sistema scolastico. «Purtroppo il sistema pedagogico fondato sulla scuola è in crisi, non solo in Italia. Anche questo è un fenomeno epocale, sia per le modalità frontali dell’apprendimento, sia per l’obbligatorietà della scelta formativa. I festival culturali, invece, rispondono al bisogno umano di condivisione del discorso argomentato. Sono comunità di elezione che ci caratterizzano come individui che scelgono, sono dei media tra chi possiede il sapere e chi lo desidera».
Si può parlare di comunità femminile oggi in Italia? «Questo non è un momento favorevole per noi, le ragioni dell’identità femminile in senso comunitario sembrano essersi affievolite, e molte battaglie restano ancora da fare. Eppure, nonostante le cose impressionanti che si leggono sulle prime pagine dei giornali, in Italia esiste il fior fiore dell’operosità femminile: donne che lavorano per migliorare la trasparenza della vita pubblica, l’autonomia delle scelte singole, la qualità delle politiche. Anche per questo si avverte la necessità di approfondire le relazioni tra uomo e donna, i cambiamenti del modello della famiglia nucleare, le nuove identità di genere. C’è bisogno di un inedito. Il festivalfilosofia potrebbe occuparsene presto».❖

Corriere della Sera 17.9.09
Passa all’unanimità alla Camera la legge che garantisce anche la terapia del dolore
Le cure palliative diventano un diritto
di Margherita De Bac




Le cure palliative diventano un diritto per tutti i cittadini, dal Pie­monte alla Sicilia. Dovranno esse­re assicurate con criteri uniformi, sostenute da un finanziamento proprio: 150 milioni presi in parte dal Fondo sanitario nazionale (100), il resto dall’ultimo decreto anticrisi. Semplificate in modo permanente le procedure per i far­maci antidolorifici. Sono alcuni dei passaggi salienti della legge ap­provata ieri dalla Camera.
Sanità La Camera approva il testo in due sedute. Il piano sarà finanziato con 150 milioni di euro

ROMA — Le cure palliative escono dall’ombra e diventano diritto di tutti i cittadini, dal Pie­monte alla Sicilia. Dovranno es­sere assicurate in ogni Regione, con criteri uniformi, sostenute da un finanziamento proprio. In tutto 150 milioni presi in par­te dal Fondo sanitario naziona­le (100), il resto dall’ultimo de­creto anti crisi. Semplificate in modo permanente le procedu­re per i farmaci antidolorifici. L’introduzione del ricettario or­dinario, il passaggio di alcuni derivati della cannabis (e alcu­ni oppiacei) per uso terapeuti­co dalla tabella A alla B e l’esclu­sione automatica dall’elenco de­gli stupefacenti erano previsti da un decreto a scadenza annua­le del viceministro al Welfare, Ferruccio Fazio. Nasce una rete di hospice e centri ospedalieri.

Sono alcuni dei passaggi sa­lienti della legge di iniziativa parlamentare approvata ieri dal­la Camera (ora tocca al Senato). Tempi record, due sole sedute, unanimità. Non era mai succes­so che maggioranza e opposi­zione fossero in perfetto accor­do. Per Livia Turco, ex ministro della salute, Pd, è una soddisfa­zione, anche personale: «La leg­ge ha rischiato di andare avanti senza un euro. Noi abbiamo in­gaggiato un ostruzionismo pe­sante e i soldi sono stati trovati. Ora è una cosa seria, che aiuta i malati in modo concreto. Bella prova di dialogo». Secondo Fa­zio «viene colmato un grosso vuoto». Per Dorina Bianchi, Pd «è la prova che si può avviare una discussione costruttiva». Un augurio per il prossimo lavo­ro, molto più difficile sul piano politico. Il testo sul testamento biologico, all’esame della com­missione affari sociali della Ca­mera. L’armonia appare un mi­raggio specialmente alla luce l’ultimo richiamo di Gianfran­co Fini sull’«obbligo delle istitu­zioni di essere laiche» e la repli­ca gelida del Pdl: «Non accettia­mo lezioni».

Il testo da discutere non è an­cora stato presentato dal relato­re Nino Di Virgilio (Pdl) e non è scontato che si tratti di quello passato in Senato, scritto da Raffaele Calabrò. Eugenia Roc­cella, sottosegretario al Welfare individua gli unici spazi di ma­novra: «Correzioni? Sempre nel­l’ambito della posizione del go­verno. Se come da noi proposto la legge fosse allargata non solo agli stati vegetativi ma anche ai pazienti con perdita di coscien­za duratura, si potrebbe accetta­re la sospensione di idratazione e alimentazione artificiale quan­do assumono il carattere di ac­canimento terapeutico».

Queste due modifiche erano in due emendamenti presentati al Senato rispettivamente da maggioranza e opposizione, en­trambi bocciati. Resta in piedi la prospettiva delineata dal mi­nistro Maurizio Sacconi. Estra­polare dalla legge Calabrò la parte che ricalca sostanzialmen­te il disegno di legge cosiddetto salva-Eluana varato all’unani­mità dal Consiglio dei ministri per evitare che le venissero so­spese le cure così come era sta­to deciso dai giudici. «Il Parla­mento è sovrano di valutare questa opportunità se i tempi della discussione delle norme del fine vita si allungassero», di­ce il ministro. 


Corriere della Sera 17.9.09
Chiesa e testamento biologico «Critiche, non imposizioni»
di Gian Guido Vecchi




ROMA — Che ne pensa, ec­cellenza?
«Ma quale sanfedismo o fondamentalismo! Ricordo il grande insegnamento del car­dinale Newman: la coscienza personale è il valore che Dio stesso rispetta, anche se fosse erronea. La coscienza è il tri­bunale ultimo nel quale il Si­gnore ci giudicherà. E la Chie­sa lo sa e lo predica». Carlo Ghidelli, arcivescovo di Lan­ciano e Ortona e biblista di fa­ma internazionale, non si scompone di fronte all’edito­riale di Giovanni Sartori che sul Corriere di ieri contestava il «testamento biologico 'alla vaticana'» rivendicando «il diritto di morire (di morte na­turale) come scelgo».
Il professor Sartori dice: oggi la Chiesa co­manda, come non ac­cadeva ai tempi della Dc. ..
(L’arcivescovo scoppia a ridere) «Guardi, io lo dico da anni: secondo me la Chiesa deve fare meno politica e badare più al Vangelo. Però, se la so­cietà esalta pseudovalori e smantella i valori autentici, la Chiesa ha il dovere di parlare: sempre partendo dal Vange­lo, beninteso, senza mai com­promettersi e scendere sullo stesso piano della politica».
Ma c’è un’«obbedienza» della politica?
«Non saprei. So che l’obbe­dienza non è mai cieca. L’ob­bedienza cieca non è degna di una creatura».
Giovanni Sartori cita il car­dinale «Messo così, sembra un dialogo tra sordi. Nel senso che l’affermazione del cardi­nale viene estrapolata dal con­testo e riportata in modo apo­dittico, senza le motivazioni e la riflessione che l’accompa­gnano. È facile, ma non serve a capire».
Ma imporre la nutrizione forzata non viola la libertà individuale?
«Per la Chiesa la libertà è un bene relativo, non assolu­to: un bene 'creaturale', vis­suto non solo in relazione con gli altri ma con l’Altro, con Dio. Essere libero signifi­ca realizzarmi in questa liber­tà filiale. Sartori oppone una filosofia che esalta solo in ap­parenza la libertà, ma rivela un concetto menomato della persona: chiusa in se stessa, senza relazioni trascenden­ti».
Questo vale per i credenti. Ma la legge dello Stato?
«Qui siamo all’equivoco che c’era ai tempi della legge sull’aborto. C’erano cattolici che dicevano: io non lo farei mai, ma gli altri devono esse­re liberi di farlo. Se si arriva a tanto, è perché si confonde la libertà con il libertinismo. Io però contesto la legge e sono libero di dirlo! Del resto non è detto che la verità stia dalla parte della maggioranza».
Va bene, ma l’imposizio­ne per legge...
«Qui non si tratta d’impor­re niente a nessuno, ma di in­dicare la strada verso il bene e il vero. Per questo la Chiesa non può tacere».

Repubblica 17.9.09
Il retroscena. L'alleanza trasversale che prepara il dopo-Silvio
di Massimo Giannini


C´è chi sostiene che il dopo-Berlusconi abbia già un nome. Si chiamerebbe "governo di salvezza nazionale". Ci lavorano in parecchi, nell´ombra e a cielo aperto.
Exit strategy dal berlusconismo
Manovre e contatti bipartisan
Quei quattro anelli che già lavorano al dopo-Berlusconi

Il dopo-Cavaliere ha già un nome: "governo di salvezza nazionale". Un´alternativa per il 2013 o per l´emergenza. La Bonino si sbilancia: "Le probabilità che Silvio cada sono al 50%"
Il progetto deve considerare Fini e Tremonti. L´inquilino di Montecitorio ha dimostrato che i 50 "riservisti" sono in campo. Il titolare dell´Economia si propone come il "pacificatore"
Non possiamo incastrare Casini offrendogli una fusione per incorporazione ripete da tempo D´Alema ma nel breve periodo è interessato a trovare la fuoriuscita dal berlusconismo.
Per offrire al Paese un´alternativa nel 2013, nel caso in cui questo governo riuscisse miracolosamente a superare le colonne d´Ercole del Lodo Alfano, delle elezioni regionali, dei nuovi guai giudiziari e dei vecchi vizi personali del premier. Oppure per tenersi pronti all´emergenza immediata, nel caso in cui la legislatura incappasse in un traumatico incidente di percorso. Ieri, per i corridoi di Palazzo Madama, Emma Bonino si sbilanciava con un collega: «Le possibilità che per qualche ragione il governo cada, a questo punto, sono al 50%...». Alte, com´è evidente. Per questo, tra maggioranza e opposizione capita di sentire personaggi autorevoli che dicono «bisogna creare un campo più vasto di forze», capaci di reggere l´urto di una crisi e di «mettere in sicurezza il Paese».
Chi c´è dietro questo disegno? Per capirlo, basta seguire la «catena» degli attacchi forsennati che il Cavaliere sta menando in queste ore. Nel centrodestra il primo «anello» è Gianfranco Fini. Il presidente della Camera è in costante movimento. Indicativo l´incontro di ieri sera con Rutelli, insieme a lui destinatario dell´offerta di Casini, lanciata agli stati generali dell´Udc di domenica scorsa, a «sapersi prendere per mano nella diversità e guardare al futuro del Paese». Chi gli ha parlato, in questi giorni, lo descrive più determinato che mai a combattere la battaglia politica contro il premier, e quella giudiziaria contro il suo «Giornale». «Stavolta Gianfranco non arretrerà...», ripete da giorni l´amico e ministro Andrea Ronchi. Se rispondesse solo al suo istinto, dopo il killeraggio di Feltri se ne sarebbe già andato via dal Pdl. Ma capisce che, come la vecchia talpa, è ancora in quel campo che deve «ben scavare». E sta scavando. Ciascuno dei temi sui quali affonda il colpo è un potenziale destabilizzante, che mette in mora il Cavaliere e in sofferenza la Lega. «Il Secolo» lo spalleggia. «Farefuturo» non cede di un millimetro sui temi sensibili. Anche la lettera dei «50 riservisti» è servita allo scopo. Ha confermato che Fini è minoritario, dentro il Pdl. Ma ha dimostrato che è in campo, e che al momento opportuno le sue «divisioni» degli ex di An le possiede, e le può schierare.
Poi c´è Giulio Tremonti. Il ministro dell´Economia, fino a qualche tempo fa, era il «genio dei numeri». Ora, per il Cavaliere, è già diventato il «difficile genio». Una sfumatura, ma da il segno di un distacco, o quanto meno di un sospetto. Tremonti non fa nulla di visibile, per alimentarlo. Ma continua a scontentare tutti i colleghi ministri che battono cassa al Tesoro, e soprattutto accumula nuovo potere, attraverso le nomine pubbliche. Intanto accresce progressivamente la sua «caratura». E i suoi «vezzi cattedratici – come dice Giuliano Ferrara – non fanno ombra al suo rango politico sempre più alto». In questi mesi ha curato a fondo i rapporti con la Chiesa. E non ha mai smesso di dialogare con una parte dell´opposizione. L´intervista di due giorni fa al «Corriere della Sera» è indicativa: il ministro fa il «pacificatore», apre a Fini e propone una «tregua» non solo e non tanto al Pdl, ma al Pd «che uscirà dal congresso», offrendogli «un ruolo preminente» da «interlocutore responsabile».
E qui sta il terzo anello di questa catena. È Massimo D´Alema. Da anni viene additato (anche nel centrosinistra) come potenziale «inciucista». Ma da giorni l´ex ministro degli Esteri è a sua volta sotto il fuoco incrociato di «Libero» e del «Giornale», per i suoi incontri in barca con Tarantini. E l´altroieri sera, a «Porta a Porta», il Cavaliere è tornato a sparargli contro, con una violenza che non si ricordava da tempo. «Un vecchio comunista, che usa espressioni da vero stalinista». Un´uscita quasi a freddo. Che non si spiega se non in nome del «solito sospetto» complottista. Ma al di là delle ossessioni berlusconiane, è vero che D´Alema è tornato a tessere la sua tela. Non solo nel suo partito, con l´obiettivo di far vincere Bersani. Ma anche con l´intenzione di giocare la partita in «campo avverso». Con Fini il rapporto è sempre più stretto. Due giorni fa si sono parlati a lungo, perfino della comune querela contro il «Giornale». Intanto «Italianieuropei» e «Farefuturo» preparano un grande convegno sull´immigrazione, in una città leghista come Asolo. Con Tremonti il rapporto non si è mai interrotto. Associato proprio dal ministro all´Aspen Institute come «membro autorevole», D´Alema ha parlato ieri sera, con lo stesso Tremonti, Sacconi, monsignor Ravasi e Riccardi, in una tavola rotonda a porte chiuse sul tema «Dalla verità al dono: il bene comune». Intanto i due preparano un grande convegno sul Mezzogiorno, nel quale discuteranno di quella «questione meridionale che oggi è più mai questione nazionale».
Il quarto anello si chiama Pierferdinando Casini. Il leader dell´Udc sta lottando per non farsi risucchiare dal Pdl, come vorrebbe la logica inesorabile del potere. La riscoperta della vena rivoluzionaria delle camice verdi di Bossi lo aiuta, come dimostra la risposta «dura e pura» che i centristi hanno dato domenica a Chianciano. Ma Casini ha bisogno di sponde. Il Pd gliela offre. Nella versione di D´Alema, sul solito schema del «centro-sinistra col trattino». I due ne parlano quasi quotidianamente. «Casini – continua a ripetere da tempo il Lider Maximo è interessato a trovare una soluzione comune per la fuoriuscita dal berlusconismo, e nel lungo periodo è pronto a un accordo strategico se gli offriamo una riforma elettorale sul modello proporzionale alla tedesca».
Queste sarebbero le forze in campo per l´ipotetica «alternativa». Ma è un´alternativa credibile? Le incognite sono tante. La prima, ed è gigantesca, si chiama proprio Silvio Berlusconi. È stato legittimamente eletto dagli italiani. Conserva un indice di fiducia elevato. Chi e che cosa dovrebbe farlo cadere non è ancora chiaro. Certo, appare sempre più debole, irascibile, vulnerabile. La decisione della Consulta sul Lodo Alfano può essere esiziale, benchè Feltri abbia scritto che se ne può approvare un altro in un amen. Ma perché dovrebbe uscire di scena, se il processo Mills pur ripartendo finirebbe quasi certamente con l´ennesima prescrizione?
La seconda incognita si chiama Giorgio Napolitano. Che farebbe il Capo dello Stato, se il Cavaliere volesse usare l´arma, potenziata dall´esplosivo leghista, delle elezioni anticipate? Chi gli ha parlato, in questi giorni, racconta di un presidente della Repubblica molto più preoccupato dei danni che il premier può fare qui ed ora, tra la «strategia della tensione» e l´uso dei dossier, l´avvelenamento dei pozzi della politica e il totale «sgoverno» del Paese. Come ha ammesso qualche giorno fa un commensale che sedeva con il presidente a cena, al Quirinale, «la lenta agonia del berlusconismo potrebbe assumere forme non lineari».
Ad ogni modo, se per qualche motivo Berlusconi cadesse, il «governo di salvezza nazionale» sarebbe un governo politico, non tecnico. Dunque no a ipotesi alla Mario Draghi, semmai un incarico proprio a Fini, terza carica dello Stato. C´è persino chi sostiene che sarebbe già scritto un programma: riforma del sistema politico, con abbattimento del numero di parlamentari, consiglieri regionali e comunali; riforma del Welfare, con radicale riforma dei contratti di lavoro sul modello Ichino-Boeri; riforma della spesa pubblica, con massicci tagli e dirottamento di risorse verso la scuola, la ricerca e l´innovazione.
Sembra fantapolitica. Forse lo è. Ma anche di questi scenari, sia pure costruiti a tavolino, si discute in questi giorni. Il Cavaliere lo sa. Anche per questo è nervoso, e a tratti furioso. Raccontano che D´Alema lo abbia detto a Fini, qualche giorno fa: «Il tuo premier, ormai, non è più nelle condizioni, politiche e psicologiche, per negoziare alcunchè...». Ma se questo è vero, c´è da essere ancora più allarmati sui destini del Paese.

l’Unità 17.9.09
Rutelli vede Fini. I «co-fondatori» a tu per tu
di Susanna Turco


Un’ ora e mezza a colloquio ieri a Montecitorio. Il primo punta sull’«incontro tra moderati», il presidente della Camera sempre più distante dal Cavaliere è attirato dai centristi
I colonnelli. Gli ex An ormai guardano più a Bonaiuti che all’ex leader
Un piccolo passo per i co-fondatori in questione, un grande passo per il progetto di rassemblement moderato che ogni giorno sembra farsi più concreto. Così, ieri pomeriggio, Francesco Rutelli, co-fondatore del Pd, è andato a trovare Gianfranco Fini, co-fondatore del Pdl, nel suo studio di Montecitorio. Un incontro lunghissimo, di oltre un’ora e mezza. Nel quale si è parlato di tutto, di politica come dell’attività del Copasir. Ma del quale tutto può dirsi, tranne che non sia chiaro l’intento. Guarda caso, la chiacchierata si doveva fare – prima che slittasse a ieri – proprio a margine degli stati generali Udc, tra l’intervento dell’uno e quello dell’altro. Ma lo scorrere dei giorni non ha fatto che aumentare nei due la voglia di vedersi. Rutelli, infatti, sta già con un piede fuori del Pd e, come ha ribadito anche ieri a chi a potuto parlarci, ritiene “importante che i moderati si incontrino fra loro”. Fini, dal canto suo, dopo l’ultima doppietta – casuale ma tutto sommato fortunata di querele (depositate, contro il Giornale) e prove di forza (vinte, con la lettera degli ex An), comincia ad essere allettato sul serio dalle proposte e dalle possibilità che gli vengono dai moderati centristi. Scenari su cui l’ex leader di An sta iniziando a “riflettere sul serio”, dice chi è più vicino, “in una prospettiva di medio periodo”, se non proprio per l’immediato.
Un avvicinamento progressivo al progetto di nuovo centro moderato che fino alla settimana scorsa il presidente della Camera non metteva davvero nel conto. Pur duramente critico con il “suo” Pdl, andando a Gubbio aveva annunciato ai suoi: “Dirò parole chiare, se non sarò ascoltato non ci saranno ulteriori margini”. Ma sotto sotto, sperava che lo spazio per ritrovare un minimo di concordia ci sarebbe stato. Ebbene, a sei giorni dall’inizio di questo ultimo giro di giostra, il bilancino pende più di là che di qua.
Il rapporto con Berlusconi non è certo migliorato, come prova il gelo diffuso dal Cavaliere via “Porta a porta” e il fatto che la chiacchierata pacificatoria sia ancora rinviata a data da destinarsi. L’attacco del Giornale di Feltri, con relativa circolazione di polpette avvelenate (rispetto alle quali ancora ieri l’ex leader di An ha confermato la propria estraneità) non ha certo giovato: tanto che Fini si sarebbe mostrato scandalosamente poco sensibile alle istanze degli emissari berlusconiani che, per una volta travestiti da colombe, in questi giorni hanno voluto parlargli per spiegare che “sarebbe meglio non mollare Silvio, sta passando un momento davvero difficile”.
Difficoltà o no, il presidente della Camera, sembra ormai tentato davvero di guardare oltre. La conta della sua fronda interna ha confermato la sua forza e tolto terreno agli ex fedelissimi colonnelli. D’altra parte, i La Russa e i Gasparri, sono ormai davvero più interessanti a riconquistare la fiducia dei Bonaiuti che non a confrontarsi con il loro ex leader.

Repubblica 17.9.09
Il fallimento del comunicatore
di Curzio Maltese


Berlusconi ha fatto segnare un record. Questo vero. Il presidente del Consiglio, ospite unico dello speciale di Porta a Porta, ha registrato il peggior ascolto dell´anno nella prima serata di Raiuno. Tre milioni 200 mila spettatori di media, il 13,4 per cento di share. Un risultato che per qualsiasi altro programma di Raiuno comporterebbe l´immediata chiusura col voto unanime dei vertici di viale Mazzini. Al contrario, stavolta erano stati oscurati i programmi concorrenti, da Ballarò a Matrix.
Eppure la «tv dell´obbligo», come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, non ha funzionato. Soprattutto perché non ha funzionato lui, il Grande Comunicatore.
È una nemesi storica per un uomo che ha fondato un partito con un messaggio via etere. Si possono naturalmente trovare molti alibi, a cominciare dalle partite sulla pay tv, che per chi è abbonato sono ormai pane quotidiano. Si può credere comunque ai sondaggi esibiti dal premier, che certo rimane popolare. Ma nessuno come Berlusconi sa che si vota anche col telecomando. E stavolta gli italiani hanno cambiato canale in massa. Il re delle televisioni è stato sfiduciato dall´audience.
Si tratta di una svolta nella fenomenologia del personaggio. Il Grande Comunicatore sembra aver perso la sua magia. La trasmissione era davvero brutta, televisivamente sgrammaticata, ingessata e noiosa, percorsa da un livore fastidioso e soprattutto per lunghi tratti incomprensibile. Berlusconi va ormai da mesi in tv per reagire, in genere con insulti, a fatti dei quali lo spettatore medio, tanto più quello di Porta a Porta, non sa assolutamente nulla. Nessun telegiornale ha mai letto le famose dieci domande di Repubblica, riprese da tv e giornali di mezzo mondo. I notiziari hanno ormai abolito o censurato le rassegne stampa italiane e straniere. Pochi italiani usano Internet. Insomma, s´immagina lo sconcerto dello spettatore medio di Porta a Porta, fascia anziana, bassa scolarità, poca consuetudine con la carta stampata, che osserva il premier gonfio di rancore e si volta per chiedere lumi alla signora: «Ma con chi ce l´ha? Che è successo?».
Nella puntata dei record, si è assistito a un´oretta di tv surreale, durante la quale si è discusso dei «dissapori» fra Berlusconi e Fini senza che uno dei giornalisti presenti sentisse il bisogno di citare l´episodio scatenante. Il fatto. In questo caso, la notizia che Gianfranco Fini aveva querelato il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, dopo essere stato prima invitato a tornare «nei ranghi» e poi minacciato con presunte rivelazioni a sfondo sessuale. Questi sono fatti, non opinioni di Repubblica. A proposito, sempre Berlusconi continua a ripetere nel salotto di Vespa che «Repubblica s´inventa di mie frequentazioni con minorenni e di veline inserite nelle liste elettorali». Anche qui, nessun giornalista del salotto ha mai avvertito il dovere professionale d´informare gli spettatori che quelle accuse non sono partite da Repubblica ma dalla signora Veronica Lario, moglie di Berlusconi e madre dei suoi figli. Riportate come tali, ancora una volta, dalla stampa mondiale.
Questi sono fatti. Vengono prima di destra e sinistra. Possiamo domandare che razza di servizio pubblico è quello che offre un pulpito agli insulti del premier («farabutti», «delinquenti»), senza mai sfiorare una notizia? Il presidente della Rai è giustamente intervenuto per difendere i programmi Rai e i giornalisti attaccati dal premier in casa Vespa. Ma in questi giorni i nuovi padroni della tv di Stato stanno valutando il modo di correggere, ridimensionare negli organici o addirittura chiudere programmi di giornalismo come Annozero o Report. I pochi che ancora offrono informazione, fatti. A parte questo, programmi di successo, con percentuali di ascolti ben superiori agli speciali di Porta a Porta. I cui conduttori costano un terzo, nel caso di Michele Santoro, o addirittura un decimo, come Milena Gabanelli, rispetto al milione e ottocentomila euro che ogni anno porta a casa Bruno Vespa per non fare servizio pubblico. Per questo dobbiamo pagare il canone?

Repubblica 17.9.09
Il disprezzo del Senato al tempo di Cesare
Il "divo Giulio" provava per la figura dell'anziano rivale ribrezzo e avversione, ma a un livello profondo doveva sentire anche attrazione e ammirazione
di Andrea Giardina


Pubblichiamo parte dell´intervento di al convegno "Cesare: precursore o visionario" che si apre oggi a Cividale del Friuli

e un Plutarco latino avesse deciso di mettere in parallelo soltanto le vite dei grandi personaggi romani, Silla e Cesare sarebbero stati una coppia efficace. Molte le caratteristiche comuni: il fatto di essere due patrizi decaduti, che disprezzavano la maggior parte dei loro colleghi senatori e non ne facevano mistero; la cultura raffinata, che univa la tradizione romana all´ellenismo dilagante; la sensualità, che il costume dei tempi e l´inclinazione personale rendevano alquanto versatile; la capacità di collegare l´analisi delle situazioni all´azione fulminea; il talento nella guida degli eserciti e il coraggio di esporsi in battaglia; l´abilità nell´ottenere un´arma preziosa quale la fedeltà personale dei soldati; il ricorso alla dittatura come unico mezzo per regolare le contese civili e imporre la propria egemonia.
C´è chi è andato oltre e ha persino assimilato gli obiettivi politici dei due personaggi. Nella più famosa tra le innumerevoli biografie di Silla, lo storico francese Jérôme Carcopino sostenne – era il 1931 – che entrambi ebbero l´idea d´impiantare a Roma una monarchia di tipo orientale. Silla non ci sarebbe riuscito perché isolato dai suoi protettori politici, che lo avrebbero costretto a ritirarsi, Cesare perché fermato dai congiurati. La tesi era assurda e fu rapidamente smantellata, ma il libro di Carcopino è rimasto in quel ristretto e nobile gruppo di opere fallite che tuttavia continuano a influenzare la ricerca perché toccano comunque inquietudini storiografiche concrete e profonde.
Più di recente, Christian Meier ha elaborato una brillante teoria sui rapporti tra i due protagonisti romani dell´agonia repubblicana. La persona di Silla suscitava in Cesare ribrezzo e avversione, ma «a qualche livello della coscienza Silla deve anche averlo profondamente attratto, terribile e affascinante qual era... Un esempio tremendo e odiato, e forse tanto più odiato quanto più intimamente ammirato». La spregiudicatezza di Silla nei confronti delle istituzioni tradizionali, la libertà con la quale si era mosso cancellando antiche norme o alterandole, avrebbero liberato l´azione politica di Cesare e resa effettiva la sua potenziale creatività. Malgrado l´apparente equilibrio, in questo caso la psicologia prevale sull´analisi politica e dà luogo a un´interpretazione credibile ma non verificabile, la cui forza è pari all´evanescenza. [...]
Gli antichi preferivano insistere sulle differenze, e inventavano persino aneddoti per rafforzarle. Attribuivano per esempio a Cesare questa battuta: «fu un analfabeta politico Silla, che depose la dittatura». Una frase troppo dozzinale per essere di Cesare e che suonava come ironica autocondanna del personaggio che fu ucciso proprio per non aver deposto la dittatura e per avere cercato anzi di trasformarla in monarchia. Raccontavano anche che Silla, quando cedette alle pressioni degli amici che lo scongiuravano di non uccidere Cesare, che aveva appena diciotto anni ma il grave torto di essere il nipote di Gaio Mario, avrebbe detto «fate come volete, ma sappiate che in questo giovane ci sono molti Marii»: una tipica profezia inventata a posteriori per rendere primordiale quella che dopo la morte di Silla sarebbe diventata una contrapposizione politica radicale. Pur inventando, gli antichi avevano ragione: le affinità tra i due personaggi appaiono superficiali, mentre le dissonanze sono profonde. Anche se la storiografia moderna si è generalmente rifiutata di prendere in seria considerazione questo aspetto, Silla era un uomo religioso, quasi mistico. Credeva ai sogni, alle visioni, alle ricorrenze fatidiche. Nel dedicare la sua autobiografia a Lucullo, lo invitò a tenere queste cose nella massima considerazione, perché «per un politico nulla è più importante di ciò che un dio gli rivela nel sonno». E affermava che le sue più belle imprese erano state quelle compiute d´impulso. Il "feroce" Silla si proclamò "prediletto da Afrodite", ma la sua era una Venere diversa da quella canonica, la dea dell´amore da cui era nato Enea ed era discesa la stirpe romana. Era una divinità arcaica, bellicosa e rara, che indossava le armi di Marte e rappresentava l´intelligenza astuta, che presiede al kairòs, l´occasione fugace che deve essere colta al volo o dalla quale al volo bisogna sganciarsi. Scrisse che aveva deciso di ritirarsi dalla vita politica perché gli era apparso in sogno il figlio morto, che lo aveva invitato ad abbandonare gli affanni. Dopo decenni di guerre civili nessuno era più in grado di capirlo, e Seneca poteva scrivere, riportando un´opinione diffusa, che al quesito «chi fu Silla?» era impossibile rispondere.
Le guerre civili aumentano la velocità della storia. Giulio Cesare, che era uno scettico, aveva in simpatia gli epicurei, usava in modo strumentale la discendenza della gens Iulia da Venere e disprezzava le superstizioni, viveva in un´altra dimensione. Se fosse possibile usare questo aggettivo anacronistico, diremmo che era un uomo più moderno. Quando la moglie lo scongiurò di non uscire di casa perché aveva fatto un sogno funesto, si vergognò di accontentarla e si presentò all´appuntamento con i pugnali dei molti che lo odiavano. Non aveva capito che la clemenza può essere più insopportabile della punizione.

Repubblica 17.9.09
Asor Rosa: "Così l'Italia ha smesso di ascoltarci"
di Nello Ajello


Nel libro-intervista con Simonetta Fiori lo studioso racconta il declino del ceto colto Un "grande silenzio" che parte da lontano e che oggi segna la storia del Paese

Che fine ha fatto l´intellettuale, questa figura sorniona o ammonitrice che, dall´età dei Lumi in avanti, ha animato in Occidente il palcoscenico del vivere civile? È scomparso, si è autopensionato, ha «marcato visita»? Qualcuno gli ha intimato di non farsi più vedere? Oppure viene dato per disperso, come può capitare al termine d´una battaglia? Dobbiamo dirgli addio o ci verrà ancora incontro, vestito magari alla moda di un´altra epoca? Duecento pagine, da oggi in libreria, cercano di metterci sulle sue tracce.
S´intitolano Il grande silenzio e vi si legge un´intervista, condotta da Simonetta Fiori, con Alberto Asor Rosa (Laterza, pagg. VIII-181, euro 12). Chi domanda e chi risponde formano una coppia di persone informate dei fatti, si direbbe in pretura. Le provocazioni della Fiori, redattrice di questo giornale e attenta studiosa della cultura contemporanea (o di ciò che ne resta in tempi di caduta del pil intellettuale) colgono spesso nel segno.
Nelle risposte si riverbera la biografia dell´intervistato, cattedratico e uomo di lettere che ha assunto, in varie stagioni della vita nazionale, un ruolo da militante. O da protagonista.
Eccoli, dunque, a discutere. L´arco temporale del tema di cui si tratta - a parte le sue radici che risalgono alle fonti stesse del pensiero liberale e progressista - si estende in massima parte dall´ultimo dopoguerra ad oggi.
Mezzo secolo e più di vita democratica, che qui viene riesaminato con l´ottica di chi, come l´intervistato, l´ha vissuto «da sinistra». Vale a dire, a ridosso di quel Pci che, nell´acclimatare in Italia le liturgie del comunismo sovietico, vi praticava integrazioni di efficace richiamo, fino a far pensare - per il numero e la qualità delle adesioni raccolte fra gli intellettuali - di aver instaurato in quel campo una sorta di monopolio: ed è qui il caso di ricordare en passant la diatriba in materia di «egemonia culturale» della sinistra che, esplosa nei tardi anni Quaranta sulla scia di un non casuale ma certo malcapitato suggerimento gramsciano, anima ancora oggi tanti articoli di fondo, frementi di postumo scandalo.
Come Moravia usava raccontare parlando di se stesso e di Sartre, anche per Asor Rosa i rapporti con il Pci sono stati «ora vicini, ora lontani, ondeggianti, da far venire il mal di mare»: come si conviene a chi non contempla fra i propri talenti lo spirito gregario. In particolare, pur nelle file d´un partito che poneva chiari limiti al dibattito interno, il professore non riesce - così afferma in una risposta - «a considerare positiva un´attività di pensiero che decisamente si subordini a un comando, quale che sia». Con buona pace di Gramsci, la figura dell´intellettuale organico - e nel Pci se ne trovavano di illustri e coriacei, da Emilio Sereni a Mario Alicata e Carlo Salinari - non lo affascina. Fra i propri ideali progenitori, lui annovera Marx accanto a Nietzsche. Ammira Norberto Bobbio. Esclude che la militanza nel Pci debba vietargli la lettura d´un Koestler o d´un Silone. Né si sottrae alla degustazione del «grande romanzo decadente europeo: Mann, Proust, Joyce, Woolf, Musil», oltre che di quello nostrano, da Verga a Svevo, da Gadda a Pirandello (è la Fiori a ricordarglielo). Quanto ad altri autori, Pratolini, Vittorini, Pavese, Pasolini, egli ne stroncava i «lavori populistici» privilegiando le loro opere «meno intaccate dall´ideologia progressista».
Finché in un libro assai discusso del 1965, Scrittori e popolo, egli liquidò l´argomento con un deciso giro di chiave: «Per fare della buona letteratura il socialismo non è stato essenziale». Addio dunque all´«engagement tradizionalmente inteso». E se non basta si aggiunga al conto la circostanza seguente: «Io», dichiara a un certo punto Asor, «sono l´unico al mondo ad aver letto tutto Dante e tutto Marx, comprese le virgole». Quasi a dire: chi non lo sa, s´informi.
«Engagé» talora persuaso e disciplinato, ma non a corpo morto.
«Difficilmente incasellabile» ed «eterodosso nell´ortodossia», lo giudica l´intervistatrice. Asor è fra quelli che, dopo il 1956, non rinnovano la tessera del partito, senza con ciò passare al «disimpegno». Essere o dichiararsi comunista o giù di lì non implica più, ormai, un´iniziazione dogmatica, un´investitura ecclesiale. All´orizzonte del protagonista di questo libro spunteranno così, in sequenza, l´esperienza operaista (con un frutto che gli parrà prezioso, la solidarietà fra operai e studenti), la dimensione riformista accolta sotto forma di adesione al femminismo e di plauso a divorzio e aborto, la scoperta dell´ambientalismo. In termini di partito, ci sarà per lui l´adesione al Psiup di Basso e Foa, e poi il ritorno nel Pci nel ´72, alba dell´era berlingueriana (con elezione alla Camera nel 1979).
Seguirà, fra i suoi pensieri, un certo favore accordato al compromesso storico: il professore lo considera ancora oggi l´ultima «ipotesi di trasformazione» del Paese. Gli nascerà nell´animo un integrale rifiuto della violenza terroristica, foriera di una «catastrofe civile».
Venti o trent´anni sono lunghi da raccontare, specie se vi si sceneggia un lento declino. Ma proprio a uno spettacolo del genere ci invita, nel suo epilogo, questo libro-intervista. Ecco, sul versante negli anni Ottanta, affievolirsi, per poi scomparire, quel binomio cultura e politica che ha segnato il Novecento italiano.
Su questa progressiva sparizione Asor Rosa s´intrattiene qui senza visibili nostalgie. A ciglio asciutto. Con amarezza. Con energia, eloquenza, realismo, severità. E il lettore, riandando alle pagine appena percorse, le rivedrà sotto il segno di un virile disinganno. Non a caso l´intervistatrice evoca più volte, nella chiusa di questo lavoro, la parola «requiem». Nel tardo craxismo gli intellettuali, secondo Asor, non ottennero più ascolto.
Presero a esiliarsi in quel Grande Silenzio cui il volume s´intitola. Nel partito di Botteghe Oscure, ormai in disarmo, riuscirono a incidere assai poco. E alla fine il partito non ci fu più. Della decisione di scioglierlo, presa da Occhetto, il protagonista di queste pagine parla come di un errore commesso con «disinvoltura suicida». «Scassò tutto, come un bambino viziato»: è la formula che egli adotta.
La testimonianza che qui ci viene resa - lo si sarà capito - è personalissima. Esente da cautele diplomatiche e remore professorali: è il suo pregio. E perciò essa postula, e quasi sollecita, le riserve da parte di un lettore che ha avuto una storia diversa, coltivando su vari temi pensieri di altro tipo; e a parere del quale, per esempio, in quel 1991, il Pci non poteva far altro che dileguarsi dall´orizzonte politico prima che fosse troppo tardi: e già tardi era. Ma ciò che colpisce, più in generale, è l´idea che sul malinconico presente dell´Italia incida l´ascolto sempre più tenue che si presta alle voci di coloro che attribuiscono un qualche valore alle sue tradizioni civili. Ai suoi intellettuali, per esempio, se ancora si può usare impunemente il termine. Per la classe politica al potere, a partire dal suo vertice proprietario - si afferma in una riga del Grande silenzio - «la cancellazione di qualsiasi ipotesi culturale è l´unica ipotesi culturale».
Sentenza tutta da condividere.

il Riformista 17.9.09
Fejtö, riformista scomodo per i fascismi rossi e neri
di Alessandro Leogrande


Escono da Sellerio i "Ricordi" di questo straordinario intellettuale, avversario di totalitarismi e demagogie politiche. La sua vita e il suo pensiero testimoniano le difficoltà degli umanisti, che in un'epoca di barbarie sono stretti tra i nemici naturali e i compagni di strada che poi si mettono di traverso.

Nato in Ungheria, a Nagykanizsa, nel 1909 e morto a Parigi nel 2008, François Fejtö ha attraversato tutte le tragedie e i rivolgimenti del Novecento, e ha osservato gli albori del nuovo secolo, da una posizione di rigoroso riformismo socialista, perennemente ostile a ogni dittatura, a ogni autoritarismo, a ogni soppressione delle libertà civili e politiche e dei diritti umani. Naturalizzato francese nel 1955, Fejtö è l'autore del celebre Storia delle democrazie popolari, il primo grande resoconto dettagliato della sovietizzazione dell'Europa centrale e orientale sotto il tallone dello stalinismo. Paese per paese, ha contemplato la fine della sovranità nazionale e analizzato l'edificazione del comunismo reale con estrema lucidità.
Dirà negli anni ottanta: «L'utopia della società perfetta è la più pericolosa di tutte, quella che ha fatto scorrere più sangue. Non condanno i sogni umanitari che sono alla base del riformismo, e talvolta, delle rivoluzioni. Semplicemente rifiuto assolutamente l'utopia dell'avvento di un'età dell'oro grazie a questo o a quel sacrificio umano. Non detesto niente così intensamente quanto la demagogia».
Ma Fejtö non arrivò a queste conclusioni dopo la soppressione della rivolta di Budapest (di cui colse in anticipo la sua natura operaia) o dopo la fine della Primavera di Praga; vi giunse molto prima, già alla metà degli anni trenta. E lo scrisse puntualmente nei saggi redatti per la rivista in lingua ungherese Szép Szó, fondata insieme al grande poeta Attila Jozsef (che prevedendo il diluvio totalitario alle porte si uccise, giovanissimo, nel 1937).
Lo storico ungherese ripercorre la sua straordinaria biografia in Ricordi. Da Budapest a Parigi, raccolta di memorie pubblicata in Francia nel 1986 e ora presentata in Italia da Sellerio. Nato in una famiglia ebraica (il padre era tipografo ed editore), Fejtö crebbe nell'Ungheria via via sempre più parafascista di Horthy. Sia lui che l'amico Attila Jozsef abbracciarono il comunismo (Fejtö finì anche in carcere), ma se ne distaccarono subito alla metà degli anni trenta, elaborando un proprio socialismo libertario ed "eretico", critico di ogni dittatura. Intransigente sia contro il fascismo nero che contro il fascismo rosso: oggi, scrive in Ricordi, «parlare delle affinità strutturali dei due totalitarismi, di destra e di sinistra, è quasi un luogo comune. Nel 1936 era un'idea nuova, scandalosa».
Fin da allora, Fejtö era consapevole che gli umanisti, specie in un'epoca di barbarie, fanno una brutta fine, che si ritrovano stritolati tra i due fronti: quello che si dovrebbe combattere e quello dei «compagni di strada» che finiscono per assumere le stesse logiche organizzative, politiche, strutturali dell'avversario (del "male") cui ci si oppone. «Il comunismo era diventato una religione politica che tendeva, nei paesi socialisti, ad asservire gli operai e a giustificare il loro sfruttamento», scriveva ancora Fejtö: ben lungi da essere nelle mani degli operai, il potere era nelle mani di una ristretta élite poliziesca.
Ovviamente Fejtö è stato perennemente accusato dall'intellighenzia comunista, durante tutto l'arco della sua lunga vita, per queste posizioni «socialdemocratiche»; a volte è stato addirittura indicato come «spia fascista». Tuttavia fu costretto a un esilio precipitoso nel 1938, subito dopo l'Anschluss, per aver previsto la nazificazione dell'Ungheria e aver scritto su un giornale socialista che i contadini sapevano opporre maggiore resistenza alla demagogia nazista della classe media. Per questa frase (e ovviamente per tutta la sua attività di editorialista) gli sbirri di Horthy avrebbero voluto internarlo con un processo farsa.
Così scappò precipitosamente a Parigi, dove sarebbe rimasto per tutta la vita. Durante la seconda guerra mondiale, Fejtö e la moglie Rose si rifugiarono nella Francia meridionale. Alla fine del conflitto, apprese che tutta la sua famiglia (che non aveva più visto dal '38) era stata sterminata nell'Olocausto.
I Ricordi di Fejtö sono una straordinaria galleria di eventi, riflessioni e incontri con i maggiori intellettuali del secolo. L'autore appartiene a quella ristretta cerchia di socialisti e libertari antitotalitari che seppero opporsi a ogni dittatura, passando per innumerevoli tribolazioni e rischiando di essere costantemente isolati. Koestler, Camus, Silone, Aron, con la loro vita, le loro scelte, la loro onestà intellettuale, i loro giudizi acuti e privi di condizionamenti, ritornano spesso in queste pagine. A un certo punto, citando Ferdinand Lassalle, Fejtö dà una bellissima descrizione di quello che dovrebbe essere il compito prioritario del socialismo: «Dire ciò che è, dunque demistificare, deideologizzare, il nostro approccio alla realtà sociale».
Viceversa, il libro è popolato anche dai tanti compagni di strada che (nell'intento di non cedere un solo centimetro alla «forze imperialiste») hanno preferito sottomettersi ai diktat dell'Urss, giustificare ogni patto Molotov-Ribbentrop, e non dire «ciò che è». E qui le maggiori critiche del franco-ungherese Fejtö più che contro Sartre e i suoi tentennamenti, sono indirizzate contro Lukács, il «grande pensatore» che in un loro incontro del '48 - al culmine della sua ortodossia - gli chiese, a nome del Pc ungherese, di fare autocritica, riconoscere il proprio deviazionismo e assumersi pubblicamente la responsabilità di aver allontanato Jozsef dal comunismo.
È un peccato che questa carrellata di storia intellettuale e politica (che passa anche per l'analisi della Primavera di Praga e degli scioperi di Danzica, di Cuba e del terzomondismo quale ultima forma del marxismo-leninismo) si fermi alla metà degli anni ottanta, e non comprenda eventi cui pure Fejtö ha assistito, dalla caduta del Muro all'11 settembre.
Chi voglia approfondire il suo pensiero può leggere anche altri due suoi libri già editi da Sellerio, Il passeggero del secolo. Guerre, Rivoluzioni, Europe e Dio, l'uomo e il diavolo. Meditazioni sul male nel corso della storia o l'acuto Dio e il suo ebreo (Liberal Libri), in attesa che venga ristampata, cosa che sarebbe doverosa, la monumentale Storia delle democrazie popolari.

Liberazione 16.9.09
Marc Augé Etnologo e antropologo del mondo contemporaneo
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è "Il metrò rivisitato"
«Non dobbiamo temere le frontiere: sono porte da varcare, non barriere»
intervista di Guido Caldiron



«Non ho mai smesso di prendere il metrò, mai smesso di essere parigino (...) Vent'anni dopo, dunque, non si tratta semplicemente di un ritorno nel metrò, quanto di una fermata, di una pausa, di un colpo d'occhio retrospettivo per cercare di fare il punto su cosa è cambiato». Marc Augé, tra gli intellettuali europei più attenti ai mutamenti delle società, delle metropoli e della cultura spiega così il senso del suo viaggio nei sotterranei di Parigi compiuto con Il metrò ritrovato (Raffaello Cortina, pp. 80, euro 8,00) a vent'anni dalla sua prima, storica, indagine raccontata in Un etnologo nel metrò (Elèuthera). Augé che ha partecipato nei giorni scorsi al Festivaletteratura di Mantova sarà tra i protagonisti del Festivalfilosofia che si svolgerà tra Modena, Carpi e Sassuolo a partire da venerdì e che quest'anno è dedicato al tema della "comunità". L'intervento di Augé, centrato sull'idea di "frontiera", è in programma sabato alle 11.30 in Piazza Garibaldi a Carpi.
L'edizione di quest'anno del Festivalfilosofia è dedicata al tema della "comunità", una sorta di "parola maledetta" del Novecento che oggi sembra essere tornata molto in auge. Come la si può usare?
Quello di "comunità" è un concetto che viene utilizzato sempre più spesso anche se non credo abbia sempre un centenuto altrettanto evidente. Mi spiego: si parla di comunità etniche, gli ebrei, gli arabi e via dicendo, di questo o quel paese; si parla di comunità a proposito delle preferenze sessuali di ciascuno, la comunità omosessuale; per estensione di parla anche della comunità docente o di quella scientifica a proposito dei gruppi di insegnanti e di ricercatori; infine c'è la Comunità europea... Insomma, mi viene il sospetto che questa non sia la parola migliore per pensare gli individui all'interno della società. "Comunità" significa che chi ne fa parte dovrebbe condividere con gli altri determinati elementi, ma non credo che questo basti a definire dei gruppi coerenti. Piuttosto il termine è spesso utilizzato in maniera molto pericolosa per descrivere degli insiemi a tutto tondo che si confrontano con insiemi altrettanto chiusi e definiti. In realtà se si guarda bene nessun tipo di comunità è invece così coerente al proprio interno e così valida come punto d'osservazione verso una società. Appare chiaro che come anche "identità" e "cultura", altri due termini molto in voga, il riferimento alla "comunità" serve perciò prima di tutto a negare la voce ai soggetti, agli invidui. Si dice guardiamo alle comunità per sminuire il valore e i diritti dei singoli esseri umani. 
Al festival lei interverrà parlando della "frontiera" che a suo dire non rappresenta però un limite quanto piuttosto un'occasione di scoperta. Come è possibile?
E' semplice, proprio perché cerchiamo di partire dall'individuo piuttosto che dalla comunità dobbiamo interrogarci su cosa rappresenti oggi l'idea di "frontiera". Infatti, accanto a un mondo fatto di comunità si parla da tempo di un mondo globale senza più frontiere: le frontiere esisterebbero solo tra gruppi definiti, coerenti e formati da simili. Si tratta ovviamente di una rappresentazione della realtà davvero molto rischiosa e inquietante. Proprio per questo si deve partire da una definizione della frontiera. Dal mio punto di vista una frontiera non rappresenta in alcun modo una barriera, bensì una sorta di strumento di passaggio e una soglia da cui guardare dentro qualcosa. Si dice che esistono delle frontiere tra le lingue, ma questo non impedisce che si passa da una lingua all'altra. La nozione di frontiera ci serve perciò non tanto per delimitare il campo della ricerca intellettuale, quanto piuttosto per rendere possibile il riconoscimento dell'"altro". Sono abituato a partire sempre dal punto di vista dell'individuo e mi sembra che in questo senso la frontiera sia il luogo simbolico nel quale può avvenire l'incontro e la scoperta degli altri. In questo senso la frontiera ci offre l'occasione di parlare degli individui e del futuro, piuttosto che di presunte collettività fittizie e del passato. 
Le frontiere tornano però spesso nella sua riflessione come elementi che strutturano il mondo frutto dei processi di globalizzazione di questi ultimi decenni: non le frontiere tra le culture e i paesi, ma quelle che continuano ad attraversare ogni singola società. Vale a dire?
L'esempio che faccio spesso riguarda l'accesso all'educazione. Più che le differenze tra gruppi o comunità mi sembra molto significativa quella che mette a confronto le chance che possiede la figlia di un professore di Harvard e il figlio di un contadino afghano: l'una ha di fronte a sé ogni tipo di possibilità, l'altro non è ha probabilmente alcuna. E' tutto ciò, questa profonda disparità non ha nulla a che fare con la loro cultura, invertendo i ruoli si invertirebbero anche le possibilità... Ci sono delle barriere che limitano l'accesso al sapere, all'educazione e, ovviamente anche a molte altre cose. Dovremmo essere in grado di trasformare queste "barriere" in "frontiere" permettendo a tutti il passaggio da una condizione all'altra, da una chance all'altra. In questo l'educazione è la base da cui partire, per tutti. Credo rappresenti una sorta di apprendistato delle frontiere, la base da cui apprendere come si fa a varcare la porta che ci introduce a ciascuna cultura. Per questo l'accesso all'educazione rappresenta una delle sfide principali del mondo globale di oggi. 
Parlando di "comunità" con un intellettuale parigino non si può evitare di citare il dibattito che da tempo caratterizza la società francese, dove alla crisi del modello di integrazione repubblicana sembra essersi sostituita una particolare attenzione al "fatto comunitario". Lei è tornato recentemente a visitare il metrò della capitale a vent'anni dalla sua prima indagine: che cosa ha trovato da questo punto di vista?
E' evidente che nel metrò di oggi non si può che cogliere una diversità etnica maggiore rispetto a vent'anni fa. Ci sono molti più asiatici, africani e via dicendo. Il metrò di oggi ha, per così dire, una popolazione sempre più varia e mista. Ma sostenere che si tratta dei rappresentanti di altrettante comunità sarebbe una vera aberrazione: ho studiato e viaggiato abbastanza in Africa per poter dire che cosa siano le vere differenze tra i gruppi umani. No, una cosa è la voglia degli individui di definirsi come gruppo, e penso alle tante culture giovanili che crescono in una metropoli, altra cosa è il percepire queste come "differenze" fondanti qualcosa. Per quanto ho detto fin qui credo si sia capito che io non credo che le comunità esistano davvero nella realtà e siano piuttosto un comodo alibi per non affrontare i temi posti da ciascun individuo. 
Parlando di questi temi è difficile non pensare alla crisi delle banlieue: che cosa non ha funzionato nei grandi spazi urbani sorti attorno alle metropoli francesi?
Si tratta di una situazione complessa e gli elementi che andrebbero analizzati sono molti. Una cosa che mi sento di dire è che intanto si deve uscire da una rappresentazione delle periferie costruita sulla base di facili cliché: le banlieue non sono la giungla oltre la porta di casa, questa specie di mondo spaventoso che sta intorno a noi e di cui non possiamo che avere paura. Oggi sembra che ci voglia più coraggio per andare a Sarcelles, banlieue di Parigi, che nella savana o nel Sahara. Decisamente una cosa ridicola. Ciò detto, i problemi sono molti: sul terreno economico, del lavoro, ancora una volta dell'educazione. La politica dell'urbanistica pubblica francese, fin dagli anni Settanta, ha puntato a far vivere tutta una parte della popolazione, la più disagiata, nelle stesse zone, e questo non ha certo reso le cose più facili. Sul fondo c'è però il fatto che ai giovani cresciuti in queste zone la Francia non è stata molto spesso in grado di offrire un percorso educativo degno di questo nome: non si è cercato di farne dei cittadini come tutti gli altri a partire dalla loro educazione. Ed è da lì che si deve ripartire ora per cambiare le cose, non certo dalle politiche repressive e del controllo sociale.

l'Unità, 16.09.09, p. 14
A voi donne: esistete insistete resistete

Cara Unità, ti abbiamo sempre scritto così, noi che mandiamo commenti in forma di lettere d'amore. Al femminile. Ci si rivolge così alla notte, alla musa, alla libertà e alla bellezza. Cara. Unità. Cosa sarebbe, del resto, un uomo senza una donna? Dove troveremmo, noi uomini, le forze per esistere, insistere, resistere quando le cose non vanno? Cara Concita, cara Unità, esistete, insistete, resistete... e rimanete "femminili", in questo mondo ancora troppo monosessuale, per dire sempre dell’importanza del rapporto tra donna e uomo, anche dove c’è politica, cultura e cronaca. Anche dove sembrano esserci soltanto uomini (e che sorta di uomini!). Cara Concita, cara Unità, siete necessarie, indispensabili come le donne vere.
Paolo Izzo