Intervista a Pietro Ingrao
«Basta con questa guerra, ma il movimento pacifista si è quasi spento»
La tragedia di Kabul: «Non è con i soldati che si batte il fondamentalismo. Guai a rassegnarsi, lo dobbiamo alle vittime e alla pena delle loro famiglie»
di Pietro Spataro
L’articolo 11. La Costituzione autorizza la partecipazione solo a guerre di difesa
Quella in Afghanistan è un’altra guerra
Le risposte della sinistra. Purtroppo ci sono divisioni anche pesanti
Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova
«Sento mia la pena di quei poveri genitori...». È segnato dall’amarezza lo sguardo di Pietro Ingrao mentre vede scorrere in tv le immagini dell’ultimo massacro che ha spezzato la vita di sei ragazzi italiani a Kabul. Resta in silenzio nella sua casa di Piazza Bologna circondato dalle foto della sua vita. Cerca le parole con cura guardando fisso davanti a sé.
Nomina la parola pace e dice, quasi con un peso sul cuore: «Il movimento pacifista s’è quasi spento...». Ma il vecchio leader della sinistra non si rassegna. «È ancora forte la sete di un mondo nuovo». Ricorda un articolo della Costituzione, il numero undici, che gli è molto caro.
Allora, Ingrao che cosa provi davanti a queste drammatiche immagini che arrivano da Kabul? «Dolore e rabbia. Dolore nel vedere ancora questo pianeta insanguinato dalla guerra e chino a contare i morti in terre che invece avrebbero bisogno di pace e civiltà. E rabbia, rabbia perché, ancora oggi e dopo tanti lutti, il mio Paese è ferito e turbato dall’ammazzarsi fra gli uomini».
Cito le date di nascita di quei soldati morti: 1972, 1974, 1977, 1983. Poco più che ragazzi... «Sono passato attraverso decenni di massacri totali dopo i quali avevamo giurato al nostro cuore e a noi stessi che il ricorso alle armi lo avremmo consentito solo per difendere la libertà del nostro Paese. Adesso dinanzi a noi stanno quei ragazzi».
Che cosa ti senti di dire ai loro genitori? «Che sono vicino alla loro pena infinita. Anche se io, se fossi stato al governo, non avrei mandato i loro figli in Afghanistan. A quei padri e a quelle madri dico: dobbiamo cercare le vie nuove per non far morire più i nostri soldati».
Ma perché siamo arrivati a questo punto? «Perché la pace non è e non è mai stata un fatto spontaneo. Anzi se ripercorro con la mente il secolo amaro e terribile in cui sono vissuto vedo che mi sono trovato subito in compagnia della guerra, anche quando erano appena finite le carneficine umane».
Allora, la pace è impossibile?
«Se guardo all’esperienza di tanti popoli e di tante generazioni starei per rispondere: sì. Però poi mi ricordo anche che in pagine vincolanti delle nostre leggi abbiamo dichiarato il contrario. Ricordi l’articolo 11 della Costituzione? Lì sta scritto che è consentita al nostro Paese solo la guerra di difesa. Io dico con grande amarezza: non mi pare che l’impresa di quei soldati italiani in Afghanistan possa essere definita guerra di difesa».
Ma come si fa a far rispettare quell’articolo della Costituzione che tu, insieme con Scalfaro, avete richiamato più volte in questi anni?
«Credo che possa pesare solo un’azione compatta di popolo. Sai anche però quanto in questa enorme questione pesi di fatto l’azione dei massimi reggitori dello Stato».
Circa un anno fa, dopo l’ennesima strage a Gaza, hai scritto una poesia che pubblicammo su “l’Unità”. Un verso diceva: “bombe fiorenti e furenti che cantano l’inno della morte”. Dobbiamo rassegnarci al dominio della bomba?
«No. Quei versi esprimevano un’ardente speranza: anche i morti di oggi chiamano ancora a quei pensieri».
Ingrao, ma che fine ha fatto il movimento pacifista? «S’è quasi spento. Lo so che sono parole amare, ma bisogna guardare in faccia le cose. Dobbiamo rassegnarci a questa conclusione? Eppure in Italia e altrove non s’è ancora spenta la sete di un mondo diverso. Bisogna ricominciare a tessere una tela».
Ma che cosa si può fare concretamente? Dobbiamo ritirarci dall’Afghanistan? «In quel paese purtroppo agiscono forze locali che non mi piacciono e che sono segnate da ideologie fondamentaliste. E però non possiamo sconfiggerle mandando soldati dall’Occidente ad ammazzarli. Adopero una parola che può sembrare folle in questo momento. Dico: c’è bisogno di dialogo e di depositare in un angolo le armi. Come realizzare una svolta simile è difficile dirlo. Ma questa è la grande questione che vedo squadernata in questi momenti di dolore e di lacrime».
Quei morti non pongono domande anche alla sinistra? «Sì. La sinistra italiana ha molti nodi da affrontare purtroppo. È divisa, anche in modo pesante. Ma quei morti ci rimandano alla dimensione mondiale della prova. Ci ricordano crudamente che lo scenario è mondiale e che se non si affrontano le questioni del terzo mondo non riusciremo a costruire una via di salvezza».
Proprio in un’intervista a “l’Unità” hai detto qualche mese fa che Barack Obama è l’unica novità nel mondo. Ma sta facendo di tutto per fermare la guerra?
«La risposta è troppo difficile. Credo che anche lui abbia molto cammino da fare».❖
l’Unità 18.9.09
Colloquio con Gino Strada: «In Afghanistan è vera guerra. Dobbiamo ritirarci subito»
Il fondatore di Emergency: per il nostro contingente militare spendiamo ogni giorno 3 milioni di euro. Con quei soldi laggiù si potevano costruire 600 ospedali e 10mila scuole
di Rachele Gonnelli
La missione. «Basta ipocrisie, non si può usare la parola pace
Dobbiamo chiederci cosa ci stiamo a fare»
Per Gino Strada il sangue non ha un colore diverso a seconda della bandiera e il dispiacere è lo stesso per i soldati italiani uccisi ieri e per tutte le altre vittime della guerra. Non riesce neppure a capire perchè la Fnsi abbia rinunciato alla manifestazione di sabato per la libertà di informazione. «Con decine di morti ogni giorno...donne, bambini...non so, dev’essere per il clima di guerra. Stiamo vivendo da anni in un clima di guerra senza dircelo, anche se solo ultimamente è passata l’ipocrisia di chiamarla “missione di pace”. Un clima che sta avvelenando la coscienza civile, creando intolleranza, criminalità verso il diverso, lo straniero, l’altro da sè. È anche questo, la guerra».
Il lascito di una casta, lo chiama. «I politici di 30 anni fa non lo avrebbero fatto in spregio della Costituzione». Il 7 novembre del 2001: «l’entrata in guerra dell’Italia decisa dal 92 percento del Parlamento italiano, il voto più bipartisan della storia della Repubblica», per puro «servilismo verso gli Stati Uniti». «Che cosa ci avevano fatto i talebani? Niente. E poi cosa avevano fatto anche agli americani?». Forse non è troppo semplice, recentemente anche negli Usa gli analisti cominciano a porsi la stessa domanda: perchè siamo lì, cosa ci stiamo a fare?. Non c’erano afghani nel commando dei terroristi delle Torri gemelle. Ma la rappresaglia di Bush scattò lì, con Enduring Freedom, il 7 ottobre. Per colpire le basi di Bin Laden, si disse. Otto anni dopo più del l’80 percento dell’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani, di Bin Laden non c’è traccia, sono morti 1.403 militari stranieri, spesi centinaia di milioni di euro e il Paese è più povero e più criminale, produce il 90 percento dell’oppio del mondo.
Dopo otto anni l’unico centro di rianimazione è quello di Emergency a Kabul, sei letti di terapia intensiva per 25 milioni di persone. Spendiamo 3 milioni di euro al giorno per la guerra. Sai cosa avremmo potuto con questi soldi in Italia per i poveri, gli emarginati, chi ha bisogno. In moneta afghana invece avremmo potuto aprire 600 ospedali e 10 mila scuole». A Khost gli americani hanno costruito una strada, a Kajaki una diga, la Banca Mondiale lo scorso giugno ha stanziato altri 600 milioni di dollari di aiuti per la popolazione afghana...«Se si devono costruire dighe e ponti si mandino commando di ingegneri, non aerei telecomandati e bombe. Non tremila baionette, o fucili, per sostenere il dittatorello di turno». Quanto ai soldi della cooperazione internazionale, «noi non abbiamo ricevuto una lira quindi non so dice il fondatore di Emergency ma gli afghani che si lamentano, anche ora alle presidenziali, dicono che i soldi sono serviti soprattutto a ingrassare funzionari ministeriali e signorotti della guerra».
Lasciare il Paese, allora, andarsene unilateralmente o tutti insieme, e lasciare ai fanatici mujaeddin partita vinta? Non una bella prospettiva anche fosse realizzabile. «Finchè c’è l’occupazione militare ci sarà la guerra. Emergency lavora in Afghanistan da 10 anni, da tempi non sospetti. Abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, il 10 percento della popolazione. In pratica una famiglia su due, sono famiglie con centinaia di persone, ha ricevuto nostre cure. Per questo a Laskhargah non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale. Tutti dovrebbero porre fine a questa guerra e lasciare che gli afghani trovino la loro soluzione attraverso il dialogo, che per la verità non si è mai interrotto, tra le varie fazioni di talebani, mujaeddin e questo governo. Qual è l’obbiettivo di questa guerra?». Domanda che torna. «Le ultime due guerre internazionaliè la spiegazione di Strada sono legate ai giacimenti di gas e petrolio. In Iraq perchè ci sono, l’Afghanistan invece è sulla via di transito dal Kazakistan e dalle altre ex repubbliche sovietiche». Pipeline di sangue.
La nuova strategia McChrystal o la conferenza sull’Afghanistan, inutile parlarne con un chirurgo. Ad inquietarlo è che dei 35 feriti civili dell’attentato all’ospedale di Emergency a Kabul ne sono arrivati solo tre. Gli altri sono stati dirottati all’ospedale militare detto “dei 400 letti”, «struttura del tutto inadeguata, ma lì possono essere interrogati senza paroline dolci». ❖
Liberazione 17.9.09
Notizie filtrate da generali, segreti di Stato e censure mirate. Quando la stampa è in libertà condizionata L'informazione sotto tutela militare
Come fare giornalismo in Israele
di Riccardo Valsecchi
Gerusalemme. Il mestiere del giornalista nello Stato d'Israele non è certo facile. Ogni operatore deve essere accreditato presso il Government Press Office (GPO), l'Ufficio Stampa Governativo con sede in Gerusalemme, alle dirette dipendenze del gabinetto del Primo Ministro. Qualsiasi corrispondente straniero, poi, deve seguire un lungo iter burocratico - fino a novanta giorni -, con varie discriminanti che potrebbero ostacolare l'assegnazione della Press Card: per esempio lo status di freelance, la propria storia professionale, la "non familiarità" dell'impiegato di servizio con il media per cui si lavora o il motivo per la richiesta dell'accredito. A tutti, infine, è richiesta la firma su un documento che vincola la pubblicazione di qualsiasi materiale video, audio, fotografico e testuale riguardante argomenti militari o di sicurezza nazionale, previa supervisione della censura militare. La Lt. Col. Avital Leibovich, portavoce dell'Ufficio Stampa Internazionale dell'Esercito Israeliano, non ha dubbi in proposito:«Siamo un paese in guerra e la censura è assolutamente necessaria come strumento di difesa». La costituzione israeliana prevede una legge per la censura basata sulla "norma d'emergenza" promulgata nel 1945 durante il mandato britannico, che autorizzava l'interdizione di pubblicazioni locali o internazionali e il taglio di collegamenti tra le agenzie stampa, al fine di eludere il passaggio d'informazioni coperte da segreto militare. L'organismo attuale preposto al controllo è l'Ufficio della Censura Militare, un distaccamento dell'Aman, l'intelligence militare israeliana. La censura militare è assolutamente indipendente dall'Ufficio del Primo Ministro, onde evitare il sovrapporsi d'interessi nazionali e politici. La linea guida che regola l'attività censoria è definita in un accordo tra IDF - Israel Defense Forces - e un comitato di editori: la censura non può intervenire su tematiche politiche, opinioni o valutazioni personali, a meno che vadano a ledere informazioni classificate come top-secret; la pubblicazione di materiale che possa recare beneficio alla forza nemica o danneggiare lo stato d'Israele, i suoi cittadini, la loro sicurezza, come quella degli ebrei costretti a emigrare da nazioni ostili a Israele, è vietata; IDF e comitato editoriale si riservano, in caso di conflitto, di fornire un elenco di specifici argomenti la cui pubblicazione non verrà consentita al fine di garantire la sicurezza nazionale. Il mancato rispetto delle norme sopra citate potrebbe significare la persecuzione legale, l'arresto, l'espulsione o la preclusione del visto di entrata in territorio israeliano. «Nella mia lunga esperienza come corrispondente straniera a Gerusalemme,» racconta la giornalista tedesca Inge Günther, direttrice della sede locale del Frankfurter Rundschau, «posso dire che la censura militare israeliana si attiene a standard di professionalità e discrezione assolutamente elevati. Non ci sono particolari episodi di cui potrei lamentarmi. Diversa è la situazione per quello che riguarda le informazioni e le fonti fornite dagli uffici stampa militari o governativi sul tema dello scontro israeliano-palestinese: ma questo è un problema di entrambe le parti in causa. La propaganda, manipolazione, disinformazione e mistificazione è una caratteristica propria di questo conflitto». Mikhael Manekin, ex soldato nella pluridecorata Brigata Golani, è uno degli ideatori di "Breaking the Silence", organizzazione che si occupa della raccolta e diffusione delle testimonianze di veterani dell'esercito israeliano durante la Seconda Intifada:«Nessuno di noi rinnega ciò che ha fatto per la propria patria, però crediamo che mostrare il lato oscuro delle operazioni militari svolte dall'esercito israeliano durante il conflitto sia doveroso in una società democratica». La galleria fotografica, i filmati e i racconti presenti sul sito dell'associazione mostrano esplicitamente soprusi e angherie perpetrate contro civili palestinesi:«Tutto il materiale che pubblichiamo è sottoposto alla supervisione dell'IDF, eppure non abbiamo mai avuto problemi o ostacoli. Non è la censura militare a boicottare il nostro lavoro, piuttosto la comunità stessa in cui viviamo, a cominciare dai partiti politici fino ad arrivare alla gente comune: i soldati, spesso ancora in servizio, che ci contattano per poter raccontare la loro versione della guerra in Gaza, chiedono di rimanere anonimi non tanto per paura della censura, ma piuttosto per il timore di essere additati come traditori della patria dai compagni, dai propri familiari, dall'opinione pubblica». «La censura,» spiega Mr Amir Ofek, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, «non è atta ad assicurare che si scrivano "carinerie" su Israele. Ciò si può verificare leggendo i giornali europei, i quali spesso riportano posizioni critiche nei nostri confronti». Di diverso parere la Prof. Galia Golan, docente in scienze politiche presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, Tel Aviv:«Certo la metodologia con cui opera la censura militare è migliorata rispetto a vent'anni fa, ma ci sono molti argomenti che non si possono trattare. È noto, per esempio, che i giornalisti israeliani spesso attendono che certe notizie vengano riportate prima all'estero, perché così sono liberi dal vincolo della censura». La Prof. Golan racconta la sua esperienza riguardo le recenti guerre in Libano e Gaza:«Durante la seconda guerra libanese e il conflitto in Gaza, i media, sia governativi che privati, non sono sembrati imparziali: dai servizi televisivi sembrava che Israele fosse sotto assedio, bombardata tutto il tempo, mentre in realtà pochissimi sono stati i missili lanciati verso il nostro territorio. In un certo senso la situazione era abbastanza divertente: gli inviati delle televisioni nazionali che si trovavano ad Ashkelon, Beersheba, alcune delle località apparentemente più colpite, contattati a ogni ora, mostravano un certo imbarazzo, dal momento che non avevano assolutamente nulla da mostrare. Il risultato è stato che, alla fine delle ostilità, gli israeliani non avevano alcuna idea del motivo per cui l'opinione pubblica internazionale si fosse schierata contro. I nostri media non avevano mostrato nulla di ciò che si vedeva all'estero. In una conferenza all'Università dove lavoro, la rappresentante di una di queste Tv private disse che era stata la censura a operare i tagli. Come cittadina, non posso accettarlo: credo che ci fosse margine per mostrare molte altre scene senza intaccare la sicurezza». Ron Ben-Yishai è la leggenda del giornalismo israeliano. Opinionista e commentatore per la televisione pubblica, corrispondente di guerra per "Channel 1" e "Time Magazine", è noto al pubblico internazionale per la parte nel pluripremiato film d'animazione di Ari Folman Valzer con Bashir : «Nella mia carriera ho coperto in prima linea conflitti in tutte le parti del mondo: Cipro, Afghanistan, Yugoslavia, Colombia, Cecenia, Nagorno-Karabakh, Iraq, e, ovviamente, il conflitto israeliano-palestinese. Se devo essere sincero da nessun altra parte ho trovato la professionalità e competenza della censura militare israeliana nel garantire la sicurezza nazionale senza ledere la libertà di stampa». Controverso però è stato il rapporto tra governo/forze militari israeliane e stampa, soprattutto estera, durante il conflitto a Gaza, quando è stato vietato l'accesso alla zona dall'8 Novembre 2008 fino al cessate-il-fuoco del 18 Gennaio 2009: «Qui si fa confusione di competenze,» ribatte la Lt. Col. Leibovich, «l'accesso o meno nei territori occupati è di competenza del governo. Ritengo che i giornalisti dovessero essere autorizzati a entrare a Gaza». Nonostante la Corte Suprema avesse autorizzato l'accesso già dal 29 Dicembre 2008, l'IDF ne precluse l'entrata, con poche eccezioni, fino alla fine del conflitto. Ron Ben-Yishai, che fu uno dei pochissimi a operare nei territori, non ha dubbi: «Vietare l'accesso dei giornalisti a Gaza è stata una vergogna». Ma che cosa pensano gli israeliani dei propri media e della censura militare? «Non è un tema di cui si parla spesso,» chiude la Prof. Golan, «sembra che le persone non si accorgano, o non si vogliano accorgere, dell'univocità dell'informazione. Prima dell'Intifada, vent'anni fa, c'era molta discussione sul tema, sia per televisione che per radio, ma oggi non più: io credo che non sarà possibile almeno fino a quando persisterà questo clima di guerra».
l’Unità 18.9.09
Il Tribunale accoglie il ricorso del Movimento difesa cittadini. Influirà sul Testamento biologico
Sconfessati l’ordinanza Sacconi e il testo del Senato. Il ministro: subito la «leggina Eluana»
Il Tar: non si può imporre l’alimentazione artificiale
di N.L.
Il Tar del Lazio: alimentazione e idratazione forzata non si possono imporre a nessuno. Una sentenza che «chiarisce ambiguità» per Marino, Pd. Sacconi vuole subito la «leggina» che impone i trattamenti.
Ignazio Marino: «La sentenza chiarisce: non si possono discriminare i pazienti»
L’alimentazione e l’idratazione forzata non possono essere imposte. A nessuno, né in stato cosciente, né incosciente, e anche se si trova in stato vegetativo un cittadino può esprimere, ex post, la propria volontà di interrompere terapie giudicate inutili. Volontà che possono essere ricostruite, per non discriminare tra pazienti che possono esprimere il loro consenso. Il Tar si rifà al «diritto di rango costituzionale della libertà personale», inviolabile secondo l’art. 13 della Costituzione.
A sette mesi dal caso Eluana, il Tar del Lazio di fatto boccia il cuore della legge sul testamento biologico passata al Senato, ora in commissione alla Camera. Il tribunale regionale ha accolto il ricorso del «Movimento di difesa dei cittadini» contro l’ordinanza del ministro Sacconi emanata l’anno scorso, che imponeva alimentazione e idratazione forzata. Principi contenuti nel testo Calabrò: sono trattamenti che il malato in stato vegetativo non può rifiutare neppure con una dichiarazione anticipata di trattamento.
Ignazio Marino del Pd, afferma invece che la sentenza «chiarisce molte ambiguità» che si sono create sul caso Englaro, perché afferma che non si possono imporre l'alimentazione e l'idratazione artificiale ad un paziente, nemmeno se si trovi in stato vegetativo permanente». L’imposizione, secondo il chirurgo, causerebbe «delle discriminazioni tra due pazienti, tra due cittadini italiani, che devono avere gli stessi identici diritti rispetto alla scelta delle terapie, come prevede del resto la nostra Costituzione».
Il ministro del Welfare Sacconi riparte all’attacco e tuona che «è ancora più urgente la “norma Englaro”». Sarebbe la «leggina» che impone come «inalienabile diritto» alimentazione e idratazione forzata. Il ministro fa un pressing sulla soluzione lampo rilanciata ieri da Eugenia Roccella, «nel caso alla Camera si allungassero i tempi». La «leggina», varata dal consiglio dei ministri a febbraio (per bloccare la scelta del padre di Eluana), è «ferma al Senato», spiega Roccella.
RISPETTO DELLA COSTITUZIONE
Una sentenza «molto importante», commenta Vittoria Franco del Pd: «Conferma quanto sostenuto dalla sentenza della Corte di Cassazione a proposito del caso Englaro: stabiliva che la libertà della persona rispetto alle terapie è una libertà assoluta». «Il ministro getta benzina sul fuoco», per Livia Turco, Pd, «la norma che vorrebbe è un' imposizione che impedirebbe il più elementare sentimento di pietas e di rispetto della persona umana». La notizia è accolta con soddisfazione dai radicali, apprezzata anche dall Fp Cgil Medici.
La sentenza del Tar si inserisce nella discussione sulla legge del biotestamento, che Marino spera sia cambiata in modo «equilibrato». Come la vorrebbe il presidente della Camera, Fini. Ieri a Montecitorio ha avuto un colloquio con Savino Pezzotta, dell’ Udc: «Abbiamo parlato di laicità e della riflessione che oggi impone la multireligiosità», ha raccontato l’ex segretario della Cisl. Il fronte teocon del Pdl fa muro, Maurizio Gasparri bolla sprezzate come «fantasie amministrative» la sentenza del Tar. ❖
l’Unità 18.9.09
Seicento vittime nel mare libico lo scorso marzo. Erano due navi cariche di disperati
La strage dei migranti Dalla Libia solo silenzi
di Alessandro Leogrande
La scoperta dei magistrati di Bari durante le indagini su un giro di prostituzione nigeriana
Il Pm di Bari, Scelsi, ha chiesto la collaborazione dei colleghi africani. A marzo un incontro tra i magistrati per far luce sulla tragedia ma non c’è stato alcun riscontro. I testimoni in carcere o rimpatriati.
Un silenzio inquietante. Dalla Libia non giunge alcuna collaborazione per accertare le responsabilità del terribile naufragio avvenuto a fine marzo. Finora l’unica conferma delle proporzioni dell’ecatombe è data – come riportato su l’Unità di ieri – dalle conversazioni tra un trafficante del sesso residente in Italia e un connection-man in Libia, in cui si ribadisce insistentemente che i boat people affondati quella notte erano due, e non uno, e le persone morte quasi seicento.
La Procura antimafia di Bari ha scoperto per caso il disastro indagando sulla tratta di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione in Italia. Trenta di loro erano a bordo di una delle due imbarcazioni naufragate, insieme a uomini e donne che avevano pagato per il viaggio. Dopo aver iscritto «connection man» nel registro degli indagati per strage colposa, il pm Giuseppe Scelsi ha chiesto, tramite rogatoria internazionale, la collaborazione della magistratura libica nel fornire accertamenti investigativi.
INCONTRO
Ora sappiamo che l’incontro tra magistrati italiani e libici è avvenuto in Italia, nella scorsa primavera, grazie alla mediazione dell’Oim (Organizzazione mondiale delle migrazioni) una delle pochissime organizzazioni internazionali ad avere una propria sede in Libia. Dopo quell’incontro, nonostante la promessa da parte dei magistrati libici di interessarsi al caso, non è pervenuto però alcun riscontro investigativo. Una nube di silenzio sembra avvolgere il naufragio, per altro avvenuto a pochi chilometri da Tripoli, e quindi in acque che non sono di competenza italiana. Con i pochi dati raccolti è difficile ricostruire che cosa sia veramente accaduto quella notte, in che modo il viaggio sia stato organizzato, perché – come si legge nelle intercettazioni – “le barche si siano spezzate in due”. I superstiti, che pure potrebbero fornire una testimonianza molto importante, sono stati rimpatriati o incarcerati nei centri per migranti. All’ambasciata nigeriana di Tripoli (dalla Nigeria provenivano, oltre alle 30 ragazze destinate alla prostituzione, altri migranti imbarcati) rammentano solo la notizia ufficiale in cui si diceva di una sola barca affondata.
CONNECTION MAN
L’unica cosa certa, come confermato dalla Procura di Bari, è che «connection man», benché residente in Libia, è di nazionalità nigeriana, e che i morti, stando alle intercettazioni, dovrebbero davvero essere seicento. Tuttavia «connection man» è ancora a piede libero, e l’inchiesta risulta bloccata. La magistratura italiana non può fare indagini al di là del Mediterraneo. Per essere precisi: non può neanche mettere sotto controllo il telefono di «connection-man», dal momento che quell’utenza è stata rilasciata in Libia. È stato possibile intercettare le conversazioni in cui si parlava del disastro solo perché era sotto controllo l’altra utenza, quella del trafficante residente in Italia. Pertanto ogni accertamento spetta alla magistratura libica. E qui emerge il nodo del problema, che ha a che fare con la natura del potere giudiziario nella Jamahiriyya. Questo non è autonomo, dipende strettamente dal potere politi-
Commissione d’inchiesta
La necessità di una indagine in Libia da parte del Parlamento
co: in una struttura piramidale dipende direttamente dalla Guida della Rivoluzione. Non è dunque azzardato quindi ipotizzare che a decidere se rispondere o meno alla rogatoria internazionale della procura barese sia proprio l’entourage di Gheddafi.
Il Trattato di Amicizia Italia-Libia sembra soprassedere sul fatto che il partner mediterraneo sia uno stato illiberale. Ma tant’è... Per fare un po’ di luce sul disastro di fine marzo – come chiesto dal deputato radicale Matteo Mecacci – l’unica strada percorribile è forse quella di una commissione parlamentare d’inchiesta sui disastri in mare, a partire da quello che si configura come il più grave naufragio della storia dell’immigrazione verso l’Italia. ❖
l’Unità 18.9.09
«Respingimenti», la parola alla Corte europea per i diritti dell’uomo
di Gabriele Del Grande
La Corte europea dei diritti umani deciderà sulla legittimità della politica del governo sull’immigrazione. Il commissario europeo Barrot ha di recente lanciato un appello al rispetto del principio del «non respingimento».
È stato depositato a Strasburgo il ricorso dei ventiquattro rifugiati somali ed eritrei che facevano parte del gruppo dei 227 migranti che furono respinti in Libia il 6 maggio scorso. Fu il primo della lunga serie di «respingimenti» che ha messo l’Italia sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni umanitarie. L’Unità ha già raccontato le storie di alcuni di quegli uomini. Storie che dimostrano senza ombra di dubbio che si trattava di perseguitati politici. Uomini, dunque, che avrebbero avuto il diritto d’asilo, se solo fosse stato permesso loro di presentare la domanda alle autorità del nostro paese. Questa possibilità, invece, è stata negata. Ed è su questo che si fonda il ricorso dell’avvocato Anton Giulio Lana, del foro di Roma.
Fa appello all’articolo 3 della «Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», che vieta la tortura e la riammissione in Paesi terzi dove esista un effettivo rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti; all’articolo 13, che stabilisce il diritto a un ricorso effettivo; e all’articolo 4 del quarto protocollo, che vieta espressamente le deportazioni collettive.
LE VIOLAZIONI
Tutti articoli che, secondo l’avvocato Lana, sarebbero stati violati, dal momento che le persone sono state respinte senza nessuna identificazione, in modo collettivo, senza permettere di presentare richiesta d’asilo politico e tantomeno di poter fare ricorso. E sono state respinte in Libia, dove è documentata la pratica di torture e trattamenti inumani e degradanti nei campi di detenzione. E se è vero che i fatti sono occorsi in acque internazionali, è altrettanto vero che i respinti sono stati fatti salire a bordo di unità marittime italiane, che in base all’articolo 4 del codice di navigazione sono sotto la giurisdizione dello Stato italiano. E quindi sotto il Testo unico sull’immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, che vieta espressamente il respingimento in frontiera "nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari" (articolo 10, comma 4, Testo unico sull’immigrazione).
Adesso si dovranno aspettare i tempi della pronuncia della Corte europea. Il caso non rientra nei provvedimenti di urgenza, in quanto i 24 ricorrenti sono già stati respinti in Libia. Pertanto potrebbero passare mesi prima che la Corte dichiari l’ammissibilità dei ricorsi e notifichi al governo italiano l’apertura delle indagini.
Per un’eventuale sentenza invece, potrebbero passare anni. Basti pensare che ancora non è stata pronunciata la sentenza per i respingimenti in Libia effettuati da Lampedusa nel 2005. Ad ogni modo, una volta che il ricorso sarà dichiarato ammissibile, ci saranno 12 settimane di tempo perché soggetti terzi depositino i loro interventi presso la Corte, in quello che si annuncia come un ricorso chiave per il destino delle politiche di contrasto all’immigrazione nel Mediterraneo. ❖
l’Unità 18.9.09
Vittime di camorra
A un anno dal massacro
di Jean-Rene Bilongo
Con un pensiero commosso rivolto ai sei militari caduti ieri in Afghanistan, la diaspora straniera ricorda oggi
un’altra strage: l’eccidio di San Gennaro. Un’ecatombe che vide, esattamente un anno fa, sei immigrati di color ebano inspiegabilmente crivellati di pallottole a Castelvolturno, una striscia di terra del casertano alla periferia nord della megalopoli partenopea. Fu la spavalda reazione della comunità nera dinanzi ai teoremi liquidatori dell’accaduto, relegato con maliziosa disinvoltura a semplice regolamento di conti tra malavitosi, a suscitare il dibattito. Tra colpevolisti ed innocentisti. Un anno dopo, Castelvolturno sembra essere rimasta uguale a sè stessa. Stressata, sfiatata. Traboccante di problemi. Antichi e nuovi. E mentre la Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere si accinge ad avviare le udienze a Setola e ai suoi accoliti, con il Comune di Castelvolturno costituitosi parte civile in un processo i cui imputati sono accusati di strage aggravata dal terrorismo e dall’odio razziale, gli immigrati continuano le loro perenni peregrinazioni di miseri dannati in un contesto propenso a considerarli come fonte di depravazione e di degrado. Il modo migliore di onorare i morti, dice il saggio, è di aiutare i vivi. Impresa piuttosto ardua in una società che vede trionfare etno-centrismo ed egocentrismo, in cui si afferma persino che gli immigrati debbano essere «aiutati», ma paradossalmente a casa loro. Eppure basta dare un’occhiata alla Treccani per afferrare l’essenza del sostantivo immigrato: tale è chi si è trasferito in un altro paese. Con legittime aspirazioni. Coniugando doveri e diritti. Senza bisogno n di buonismo morboso, di subdolo rigidismo dai connotati xenofobi. L’immigrazione è un tema che richiede ragionevolezza, equilibrio, lungimiranza. Perché si tratta anzitutto di uomini. In carne e ossa.❖
Repubblica 18.9.09
Libertà di stampa a rischio in Italia il caso approda al parlamento Ue
A piazza del Popolo il 3 ottobre. Volantini a Bruxelles: "Il premier vuole intimidire i giornali"
di Vladimiro Polchi
ROMA - Il parlamento europeo terrà l´8 ottobre un dibattito sulla libertà di informazione in Italia, accogliendo una proposta del gruppo liberaldemocratico. La Commissione risponderà in aula lo stesso giorno. Il dibattito si terrà a Bruxelles, mentre nella plenaria di Strasburgo del 19-22 ottobre si voterà una risoluzione sull´argomento. E ieri volantini e adesivi sulla libertà di stampa («Berlusconi cerca di intimidire stampa e portavoce Ue») sono stati distribuiti al summit Ue dall´Associazione della stampa internazionale (Api), Reporter senza frontiere (Rsf) e Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj).
In segno di lutto per l´attentato di Kabul slitta la manifestazione per la libertà d´informazione, indetta dalla Federazione nazionale della stampa. «Il rinvio è stato deciso per una ragione molto seria – spiega il segretario del sindacato dei giornalisti, Franco Siddi – e cioè la tragedia di Kabul, ma la manifestazione non si archivia, perché i problemi non sono archiviati». La mobilitazione, prevista per il 19 settembre, si terrà il 3 ottobre alla stessa ora (dalle 16 alle 19) sempre a piazza del Popolo a Roma. «Due settimane di rinvio non fanno sgonfiare il tema – aggiunge il presidente della Federazione, Roberto Natale – perché il problema della libertà d´informazione non è possibile che magicamente si dissolva: era presente da mesi». Intanto il portavoce dell´associazione Articolo 21, Giuseppe Giulietti, annuncia due iniziative: la prima avrà luogo in caso di approvazione della legge sulle intercettazioni, con la presentazione di un esposto alla Corte di Giustizia di Strasburgo; la seconda, insieme al senatore del Pd Vincenzo Vita, è la presentazione di un esposto all´Antitrust e all´Agcom contro le dichiarazioni sui media pronunciate Berlusconi a Porta a Porta.
E continuano a correre le adesioni all´appello in difesa della libertà di stampa lanciato su Repubblica dai giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky: superata quota 390mila firme. Dopo i direttori dei maggiori giornali europei, si allunga la lista delle adesioni illustri: firma la poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, il settimo Nobel dopo le adesioni dei giorni scorsi di Dario Fo, Nadime Gordimer, Guenter Grass, Edmund Phelps, José Saramago e Betty Williams. Hanno deciso di sostenere l´appello l´americano Roane Carey, managing editor di The Nation e il direttore del Financial Times, Lionel Barber. Firma Edgar Morin filosofo e sociologo francese e Orlando Figes, storico britannico. Aderiscono Graham Watson, eurodeputato britannico dell´Alde, Louis Michel, commissario europeo per lo sviluppo e gli aiuti umanitari, l´ex eurodeputato Francois Bayrou, la parlamentare europea Sylvie Goulard dell´Eldr e Sylvana Koch-Mehrin, vicepresidente del gruppo Eldr. Sottoscrive l´appello l´Aied, l´associazione italiana per l´educazione demografica.
Repubblica 18.9.09
L’ora di religione e una pari dignità che non c’è
risponde Corrado Augias
Gentile Augias, se ci fosse la «pari dignità» dell'ora di religione rispetto alle altre materiedovrebbe essere studiata al pari delle altre. Ma non è così. La Chiesa vuole che la religione sia presente, ma non che sia studiata seriamente. Una conoscenza approfondita rischierebbe di evidenziare la distanza che c'è tra certe posizioni della Chiesa e il messaggio di Cristo. Meglio una blanda ignoranza
Miriam Della Croce miriamdellacroce@tiscali.it
G entile Augias, il ministro Gelmini ha detto: «L'Italia non può non riconoscere l'importanza della religione cattolica nella nostra storia e tradizione». Ma a giudicare dai risultati che ottiene l'insegnamento questa importanza non emerge. Un qualsiasi allievo dell'ultimo anno delle superiori sa molto più di storia, di matematica, o di qualsiasi altra materia che non di religione. Allora dove sta la pari dignità?
Attilio Doni Genova attiliodoni@tiscali.it
L a pari dignità dell'insegnamento della religione (cattolica) può essere sostenuta solo con la più sfacciata ipocrisia. Ecco uno dei tanti paradossi al quale raramente si pensa: nelle università esistono cattedre di storia del cristianesimo affidate spesso a studiosi di vaglia. Nessun laureato però, brillante che sia, potrà andare ad insegnare la materia a meno che non abbia il crisma delle autorità cattoliche. La Costituzione (art. 33) stabilisce che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Per la religione questo non vale. Il prof Remo Cacitti (cattedra alla Statale di Milano) mi ha fatto il seguente esempio: «Di fronte ai vangeli secondo cui Gesù aveva quattro fratelli e alcune sorelle (Mc 6,3; Mt 12,46; Gv 7,3; At 1,14), il docente può farsi persuaso che si tratti di veri e propri fratelli e sorelle; però non potrà mai insegnarlo pena la revoca dell'incarico per difformità dalla dottrina ufficiale della Chiesa». Basterebbe questo a dimostrare l'assurda situazione nella quale ci siamo cacciati. Tanto più che i risultati dell'insegnamento sono (pedagogicamente) deplorevoli. Mi scrive Elisa Merlo (ex prof di religione): «Basterebbe qualche domanda ad allievi delle scuole superiori. Ad esempio che cosa è la Messa, o il significato di un sacramento, o dell'Immacolata Concezione e via di seguito. Bisogna aggiungere che raramente il docente di religione dà un voto insufficiente, e questo avvantaggia gli alunni che scelgono di "studiare" la materia». Che l'ignoranza di molti cattolici italiani sulla loro religione sia immensa ho potuto constatarlo di persona.
Repubblica 18.9.09
Filosofia, l´edizione 2009 del riconoscimento
A Giacomo Marramao il premio Karl-Otto Apel
ROMA - A vincere l´edizione 2009 del "Premio Internazionale per la Filosofia Karl-Otto Apel" è Giacomo Marramao. Fra i temi salienti del suo percorso filosofico, ci sono gli studi sulla secolarizzazione e sul politico, la riflessione sul problema del tempo e l´analisi del fenomeno della globalizzazione. L´approccio filosofico e politico delineato da Marramao pone al centro della discussione i linguaggi e i contenuti attraverso i quali la modernità ha pensato se stessa e la propria storia. La cerimonia di premiazione si svolgerà domenica prossima, nella cittadina di Acquappesa, sulla costa tirrenica cosentina.
Nella prima edizione il riconoscimento internazionale è andato al padre del pensiero debole, Gianni Vattimo. Nella seconda edizione il designato è stato Raúl Fornet-Betancourt, filosofo e teologo di origini cubane, ideatore della trasformazione interculturale della filosofia.
Repubblica 18.9.09
L’edizione americana, agli inizi di ottobre, annunciata dal "New York Times"
Esce il libro rosso di Jung “Santo Graal dell’inconscio”
Un diario privato che raccoglie la sua "discesa negli inferi" della psiche iniziata dopo la rottura con Freud. Il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi
di Luciana Sica
sce agli inizi di ottobre nelle librerie americane uno dei più favoleggiati inediti di Carl Gustav Jung, il Libro Rosso, 205 grandi pagine scritte in tedesco dal fondatore svizzero della psicologia analitica, tra gli allievi più geniali ed eterodossi di Freud, il maestro amato ma non idolatrato e poi in qualche modo "tradito". Lo scrive Sara Corbett nel prossimo numero del magazine del New York Times in un lungo articolo intitolato "Il Santo Graal dell´Inconscio". L´editore del Libro è W.W. Norton, il curatore è lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, indiano nato a Singapore e cresciuto in Inghilterra, coordinatore delle "Philemon series", progetto che punta alla pubblicazione di tutta l´opera di Jung rimasta inedita.
Quel diario privatissimo di Jung raccolto gelosamente in una cartella di pelle rossa, zeppo di decorazioni e disegni in stile Art déco, ne rievoca la celebre e comunque misteriosa "discesa negli inferi", quel periodo di confusione datato tra il 1914 e il ´30 segnato dal "confronto con l´inconscio", a tratti da terrificanti esperienze anche di natura psicotica - sogni paurosi, visioni allucinatorie, incontri con folle di spiriti, dei e demoni, suoni sinistri. Un viaggio negli abissi della psiche, come un prolungato esperimento con la mescalina con il gravissimo rischio di una progressiva perdita di sé, che Jung ha annotato dettagliatamente, ma in forma sempre molto riservata, temendo l´esposizione pubblica di un volume che - come lui stesso ebbe a scrivere col senno del poi - «a un osservatore superficiale sembrerà pura follia».
Non a caso il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi di Jung, scomparso nel ´61. Prima ben chiuso nei cassetti di case private, poi messo al sicuro nel deposito di una banca svizzera, l´United Bank of Switzerland, per ventitré anni. Shamdasani - che considera il Libro Rosso di Jung l´equivalente di Così parlò Zarathustra nell´opera di Nietzsche - ha cominciato a lavorare all´inedito nel ´97. «Il suo è stato un lavoro enorme, dal punto di vista non solo di una corretta traduzione ma soprattutto del rigore filologico, tenendo conto che Jung non ha mai smesso, per tutta la vita, di rimaneggiare quelle pagine»: a dirlo è Luigi Zoja, analista e studioso junghiano di fama. A lui la Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Libro non prima della fine del 2010, avrebbe voluto affidarne la cura ma Zoja ha rifiutato un incarico che considera incompatibile con i suoi impegni.
Quello che sarà interessante capire è come l´opera junghiana potrà essere riletta alla luce della pubblicazione di un Libro così singolare che - in una forma decisamente più letteraria che scientifica - anticipa comunque i grandi temi proposti da Jung al pensiero psicologico del Novecento: il processo di individuazione, l´Ombra e l´inconscio collettivo, gli archetipi e il Sé. «Certamente - è l´idea di Mario Trevi, tra i teorici più brillanti dello junghismo non solo italiano - questo Libro costituirà un documento imprescindibile anche per chi come me ama lo Jung empirico, critico, ermeneutico, probabilista».
Da un punto di vista storico, la "traversata notturna" di Jung sta tutta dentro la vicenda del movimento psicoanalitico delle origini. È proprio quando si rompe l´amicizia con Freud - un fratello maggiore se non un padre in un certo senso amato e odiato - che si scatena "il magma fuso e incandescente" dell´inconscio. Jung - che con Simboli e trasformazioni della libido segna i primi contrasti con il fondatore viennese della psicoanalisi - perde un sostegno fondamentale, un amico che lo aveva protetto anche contro se stesso.
Il "torrente di lava" che rischia di travolgere Jung poco alla volta - ci vorranno anni - rientra, smette di debordare, di provocare deliri ad occhi aperti. L´io e l´inconscio, il bellissimo libro del ´28, segna in qualche modo la fuoriuscita da un pericoloso tunnel. Di quegli anni in cui lo psichiatra svizzero è stato senz´altro su un crinale, sapevamo soprattutto attraverso l´autobiografia scritta con Aniela Jaffé, Ricordi sogni riflessioni (ad esempio: «L´intera casa era piena come se ci fosse una folla, totalmente piena zeppa di spiriti...»). Ora il Libro Rosso ci dirà più esattamente di che pasta fosse fatta quell´"immaginazione attiva", quella vicenda non solo personale nel segno della più estrema creatività.
Corriere della Sera 18.9.09
Un saggio ripercorre il difficile rapporto fra laicità e religione in Italia: uno strumento per comprendere le difficoltà di oggi
Quel sogno fallito di Cavour
La separazione fra Stato e Chiesa, che lui avrebbe voluto, viene tradita da 150 anni
di Sergio Romano
Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presidente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale. Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Senato nel marzo e nell’aprile del 1861. Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Roma e a interpellare direttamente Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato». Come scrive Roberto Pertici in un libro edito dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità. Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica. Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà. Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto. Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour. Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui sono riprodotti i dibattiti parlamentari (da quello sulla ratifica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisione del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di alcuni grandi predecessori dell’autore, da Francesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Carlo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani. Torniamo all’Italia del dopo Cavour. La legge delle guarentigie, approvata dal Parlamento italiano dopo la presa di Roma, ebbe il merito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni. Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovrano senza territorio. Il papa sarebbe stato trattato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambasciatori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palazzi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia. La Grande guerra, come ricorda Pertici, convinse la Chiesa che la formula era terribilmente scomoda, se non addirittura pericolosa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la persuase che era inutile attendere la morte naturale del regno blasfemo dei Savoia. Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi. Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato conquistò prerogative e privilegi che erano l’esatto opposto del grande disegno delineato da Cavour. La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Provvidenza ». Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Patti Lateranensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine dei regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione. Rinvio il lettore alle pagine del libro in cui Pertici descrive un incontro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsignor Mariano Rampolla, nipote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comunisti (Ambrogio Donini ed Emilio Sereni). Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di apprendere che il Pci non aveva alcuna intenzione di rimettere in discussione il Trattato del 1929. Ma apprese anche con preoccupazione «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario ». La linea della Chiesa da quel momento fu netta. Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa costruzione e la sorte dell’uno avrebbe inevitabilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt . Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana. Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percorso parlamentare nella seconda metà degli anni Sessanta. La Santa Sede sostenne che il divorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato. Aveva ragione giuridicamente ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allora presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mussolini e salvate grazie a un accordo con i comunisti, politicamente perché «tutte le nazioni civili hanno il divorzio». L’approvazione della legge e la sua conferma dopo il referendum del maggio 1974 ebbero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era ormai inevitabile. Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni. Pertici ne descrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti. Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’offerta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il principio del pluralismo religioso. Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rapporti di forza tra coloro che lo hanno firmato. Oggi la Chiesa si serve della debolezza della politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle linee della propria politica. Questa affermazione, beninteso, è mia, non di Pertici, che è un eccellente storico e conclude la sua storia nel 1984.
Corriere della Sera 18.9.09
Nel romanzo di Shahriar Mandanipour la prefigurazione della vicenda di Neda, vittima del regime
A Teheran l’amore sfida la censura
«La tirannia ci ha resi forti, ora gli scrittori incalzano il potere»
di Livia Manera
In una Teheran misteriosa e caotica, dove il profumo dei fiori di primavera si mescola al puzzo di monossido di carbonio e le motociclette diventano taxi improvvisati in un traffico da delirio, una ragazza che manifesta davanti all’università sta per diventare l’eroina di una storia più grande di lei. «La ragazza non sa che esattamente sette minuti e sette secondi dopo, al culmine degli scontri tra polizia, studenti e militanti nel Partito di Dio, sarà travolta nel caos delle cariche e delle fughe, cadrà all’indietro, batterà la testa su uno spigolo di cemento e chiuderà i suoi occhi orientali per sempre». Raramente un’opera letteraria ha anticipato con maggiore puntualità una tragedia come la morte di Neda Agha-Soltan, la ragazza iraniana uccisa negli scontri tra studenti e polizia lo scorso giugno, la cui morte ripresa in video è diventata l’anima delle proteste durante l’ultimo contestatissimo trionfo elettorale di Ahmadinejad. Ma di puntualità davvero si tratta, se si pensa che Censura. Una storia d’amore iraniana , il romanzo di Shahriar Mandanipour che Rizzoli ha appena mandato in libreria nella traduzione di Flavio Santi (pp. 370, e 19,50), è uscito negli Stati Uniti proprio durante le passate elezioni in Iran. Ed è diventato immediatamente un «caso» sui giornali e nei circoli letterari americani per molti buoni motivi, a cominciare al suo inizio tristemente profetico. Gli altri motivi sono legati al metodo postmoderno usato dall’autore per interrogarsi sui limiti e le possibilità dello storytelling in uno Stato totalitario. Su cosa significhi cioè «narrare» in un Paese dove l’immaginazione può condurre alla galera; dove il linguaggio deve farsi ipercreativo per aggirare divieti culturali durissimi; e dove il semplice dare forma a una storia d’amore tra un ragazzo (Dara) e una ragazza (Sara) diventa una sfida, sullo sfondo di un Paese dove due giovani non sposati non possono né incontrarsi né tenersi per mano né guardarsi negli occhi in pubblico. Ma per capire meglio dove nasce l’interesse per un libro complesso come Censura , bisogna andare a pagina 16, dove Shahriar Mandanipour — o il suo alter ego letterario — si presenta al lettore dicendo: «Sono uno scrittore iraniano stanco di scrivere storie cupe e amare, popolate da fantasmi e narratori passati da tempo a miglior vita, con prevedibili finali di morte e distruzione». Uno scrittore cinquantenne, aggiungiamo noi, che scrive in farsi per un pubblico che non può leggerlo (essendo in Iran censurato) e pensa in inglese per un pubblico americano colto; che è stato critico cinematografico, direttore di una rivista letteraria e autore di racconti, prima di emigrare negli Stati Uniti nel 2006, dove Harvard gli ha offerto un posto di writer in residence che occupa tuttora. Pieno di energia, ironico, erudito e ambiziosissimo, Mandanipour ha scritto un romanzo che è tre cose in una: la storia di un amore segreto tra due giovani nella cupa Teheran di oggi; la storia dello scrittore di quella storia costretto, per poterla raccontare, ad aggirare con mille compromessi l’inevitabile censura; e una riflessione su il modo in cui arte e vita possono mescolarsi nella realtà e sulla pagina. Chi ha visto i film di Michel Gondry o ha letto Diario di un anno cattivo di Coetzee sa di che cosa stiamo parlando. Con queste premesse, ecco che la storia di Dara (trent’anni) e del suo amore per Sara (ventidue) diventa un escamotage per parlare d’altro. Dunque: Dara vede Sara per la prima volta a una dimostrazione davanti all’università. Comincia a seguirla in biblioteca ma, siccome non può parlarle, escogita un sistema per mandarle messaggi cifrati attraverso i libri che la ragazza prende in prestito (un classico persiano ma anche Saint-Exupéry, Bram Stoker e Kundera). Impossibilitati a incontrarsi in pubblico, Sara e Dara si danno appuntamento in luoghi affollati: un museo, un pronto soccorso. E mentre la loro storia d’amore si incendia senza consumarsi, l’autore che la racconta è costretto a misurarsi con la penna del censore che la passa al vaglio (molte frasi sono cancellate) e a cercare di aggirare i suoi divieti. Tutto questo mentre la storia d’amore che continua a scorrere sulla pagina perde importanza a scapito delle avventure creative dell’autore e i personaggi gli sfuggono di mano (al punto che verso la fine il censore s’innamora di Sara e chiede allo scrittore di uccidere Dara per avere via libera con la ragazza). Dunque è la censura la vera protagonista di questo romanzo. Una censura elevabile ad arte che è la vera ragione, secondo Mandanipour, per cui «gli scrittori iraniani sono diventati i più educati, i più maleducati, i più romantici, i più pornografici, i più politici, i più realisti e i più postmoderni del mondo». Non grazie alla nostra cara vecchia libertà di espressione che può intimorire le menti più navigate. Ma grazie a una tirannia che nella sua stupidità non si accorge di essersi trasformata nella madre di tutte le metafore.
Corriere della Sera Roma 18.9.09
Vincere l’anoressia
Va in scena «Le Preziose» con quattro giovani attrici
di Emilia Costantini
Anoressia. Una malattia che ha radici antiche, ma è modernissima. Per la prima volta viene portata in teatro. Al Piccolo Eliseo sabato e domenica va in scena «Le Preziose », uno spettacolo nato da un testo medico: «L’anoressia. Storia, psicopatologia e clinica di un’epidemia moderna » di Ludovica Costantino. In palcoscenico quattro giovani attrici, Sara Carlenzi, Valentina Gristina, Giada Olivetti e Micol Pavoncello, con la regia di Massimo Monaci. Spiega l’autrice, medico psicoanalista: «Lo spettacolo trae ispirazione dal mio libro, ma poi spicca il volo e trascina lo spettatore in un viaggio fantastico attraverso il tempo, per parlarci della donna e della sua realtà irrazionale che da sempre è stata temuta e osteggiata dagli uomini». Il testo teatrale ha preso vita dalla collaborazione di un gruppo di donne: letterate, poetese, filosofe e naturalmente psichiatre, unite da un’importante ricerca sulla realtà psichica che conduce all’anoressia. Spiega Monaci, giovane direttore dell’Eliseo, qui in veste di regista: «È un percorso che indaga su 2500 anni di storia, a partire dall’antica Grecia, quando il costruirsi del logos occidentale, che aveva penalizzato la vita della donna perché 'irrazionale', fece sì che l’uomo occidentale perdesse il rapporto con il mondo della fantasia inconscia. La sfida è quella di rappresentare una ricerca così intima e profonda, con il linguaggio del teatro». Ma si può stabilire una data di nascita di questa malattia? Risponde la Costantino: «Va precisato che l’anoressia colpisce solo l’Occidente. Solo le donne che appartengono al cosiddetto mondo ricco ed evoluto possono caderne vittime ». E quelle orientali? «Solo quando entrano in contatto con l’Occidente. L’anoressia esiste da sempre, solo che prima non veniva riconosciuta come tale. Durante l’Illuminismo, l’affermazione della ragione sul sentimento, della razionalità dell’uomo sull’irrazionalità della donna, accende la miccia. Dalla seconda metà dell’Ottocento, quando parte il processo di evoluzione femminile, si trasforma in una malattia grave sotto il profilo psicopatologico e sociale. Negli ultimi vent’anni, il fenomeno ha subito un’accelerazione preoccupante. Ormai è diventata un’epidemia». Perché il titolo «Le Preziose », che sembra parafrasare una celebre commedia di Molière, «Le preziose ridicole»? Risponde Monaci: «Nel secolo dei lumi, venivano chiamate 'preziose', anche in forma dispregiativa e Molière ne è il testimone, proprio quelle donne che, appartenenti a una classe sociale culturalmente elevata, si riunivano per discutere e prendere coscienza dei propri diritti e della loro identità. In un certo senso, erano delle antesignane di un femminismo non rivoluzionario, come quello che sarebbe venuto in seguito, ma di sicuro impatto sul piano sociale». Si può guarire davvero e definitivamente dall’anoressia? «Assolutamente sì - conclude la Costantino - purché si ritrovi e si rivendichi la propria irrazionalità, la fantasia, quel primitivismo che purtroppo tutti noi abbiamo perso».