martedì 22 settembre 2009

l’Unità 22.9.09
«Condizioni spaventose» L’accusa contro il governo: rimandati versoTripoli, inaccettabile
Il nodo delle domande d’asilo. Bocciata la linea italiana. Barrot: aspettiamo risposte
Onu e Europa: l’Italia fermi i respingimenti verso la Libia
di Marco Mongiello


Doppia «condanna» a Bruxelles durante la riunione dei ministri dell’Interno europei: adesso basta con le politiche di allontanamento indiscriminato di immigrati verso paesi «dove ci sono minacce per le loro vite».

BRUXELLES. L’Italia fermi i respingimenti, perché la situazione è «inaccettabile» e le condizioni degli immigrati «spaventose». Cresce la pressione della comunità internazionale sull'Italia per la sua discussa politica sull'immigrazione. Ieri sono stati il vicepresidente dell'Ue, Jacques Barrot, e l'Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, a condannare le scelte di Palazzo Chigi, in occasione della riunione dei ministri degli Interni europei a Bruxelles. L'Italia, ha insistito il segretario agli interni Francesco Nitto Palma, è in linea con le norme internazionali.
MISSIONE IN NORD AFRICA
Al termine dell'incontro Barrot ha annunciato che si recherà a Tripoli «per dire ai libici che la situazione non è più accettabile e non può più durare». Secondo il vicepresidente dell'esecutivo Ue la Libia non è in grado di garantire la gestione dei richiedenti asilo e «proprio per questo vogliamo aprire un dialogo». Secondo il commissario Ue oggi i rifugiati «che si trovano in Libia sono praticamente costretti a trattare con i trafficanti di esseri umani per poter raggiungere le nostre coste ed ottenere una protezione internazionale». All'Italia, ha riferito, «abbiamo ricordato i principi, secondo cui non si rinviano le persone in Paesi dove ci sono delle minacce per la loro vita».
Al governo italiano «abbiamo chiesto molte spiegazioni», ha ricordato Barrot, «e stiamo ancora valutando le risposte». Ancore più dure le parole di Guterres, secondo cui le condizioni degli immigrati in Libia sono «spaventose» e «c'è il rischio per le persone che necessitano di protezione internazionale che vengano respinte nei propri Paesi d'origine».
Per questo il commissario Onu ha espresso «forti riserve» sulla politica di Maroni, con cui è sfumato l'incontro a causa dei funerali dei soldati italiani caduti a Kabul. Bocciata la teoria di Palazzo Chigi secondo cui le domande d'asilo vanno fatte in Libia. In quel Paese «l'Unhcr lavora senza un riconoscimento ufficiale», ha spiegato Guterres, «ma è proprio perché ci lavoriamo che diciamo che non ci sono le condizioni per fornire protezione adeguata ai richiedenti asilo». Per il rappresentante delle Nazioni Unite l'identificazione va fatta dove si possono controllare le condizioni umanitarie. Per questo l'esperienza del centro di Lampedusa era «straordinariamente importante e positiva», ha detto, auspicando «che questa esperienza possa essere ripresa e funzionare pienamente».
IMPEGNI VOLONTARI
I ministri europei si sono detti d'accordo con la proposta della Commissione per ridistribuire nell'Ue i richiedenti asilo, ma a patto che il programma resti «volontario». Ma, ha sottolineato il collega tedesco, Wolfgang Schauble, rispondendo ad una domanda sulla politica italiana, «il rispetto dei diritti umani non può mai essere messo in discussione, in nessuna parte dell'Unione europea».
Il sottosegretario Nitto Palma ha presentato la richiesta italiana per «uno specifico programma dedicato ai richiedenti asilo presenti in territorio libico», in particolare per quanto riguarda coloro che provengono dalla regione del Corno d'Africa. Ma la difesa della linea Maroni diventa sempre più difficile.
Delle 757 persone respinte «nessuno ha chiesto protezione internazionale quando si trovava sulle navi italiane», ha azzardato il sottosegretario in conferenza stampa. Peccato che diversi esponenti del governo abbiano ammesso che è impossibile fare le domande d'asilo sulle navi e che statisticamente è ovvio che tra 757 migranti ci siano rifugiati che hanno diritto alla protezione internazionale.
DOMANDE INEVASE
Possibile che nessuno abbia fatto domanda? Chi lo ha verificato sulle navi? «Io sono sottosegretario al ministero dell'Interno si è difeso Nitto Palma e sono abituato a parlare sulla base ufficiale dei dati che risultano al ministero e che risultano dal personale che ha operato in quegli interventi».
La verità, ha osservato il capodelegazione del Pd all'Europarlamento, David Sassoli, è che «l'arrogante politica xenofoba messa in atto dal Governo italiano continua a creare imbarazzo al nostro Paese» e, secondo l'eurodeputato dell'Italia dei Valori, Luigi De Magistris, i richiami di Onu e Ue «rappresentano l'ennesima umiliazione inferta al Governo italiano».❖

l’Unità 22.9.09
«Stupri e poliziotti corrotti: l’orrore nelle carceri di Gheddafi»
Il rapporto di «Human Rights Watch»: i migranti respinti in Libia sottoposti a trattamenti brutali
I racconti dal campo di Bin Gashir: «Gli agenti arrivano di notte e scelgono le donne da violentare»
di M.Mo.


BRUXELLES. Le autorità italiane rispediscono brutalmente i rifugiati nelle mani dei loro torturatori, le autorità libiche commettono abusi e l’Unione europea non fa rispettare le leggi. È questo il quadro che emerge dal rapporto presentato ieri dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), intitolato «Scacciati e schiacciati» e dedicato ai respingi-
L’accusa
«Roma viola i propri doveri l’Ue impedisca i rinvii»
menti italiani in Libia. «L’Italia si legge nel rapporto intercetta migranti e richiedenti asilo africani sui barconi e, senza valutare se possano considerarsi rifugiati o siano bisognosi di protezione, li respinge con la forza in Libia, dove in molti sono detenuti in condizioni inumane e degradanti e vengono sottoposti ad abusi». Il documento è stato diffuso in coincidenza con la riunione dei ministri degli Interni europei a Bruxelles, dove l’Italia ha ribadito di essere in linea con le normative internazionali. «La realtà è che l’Italia sta rimandando questi individui incontro ad abusi», ha detto Bill Frelick, direttore delle politiche per rifugiati di Hrw e autore del rapporto, «i migranti che sono stati detenuti in Libia riferiscono categoricamente di trattamenti brutali, condizioni di sovraffollamento ed igiene precaria».
Secondo Frelick Roma «viola i propri doveri legali» e Bruxelles «dovrebbe esigere che l’Italia rispetti i propri doveri ponendo termine a tali rinvii verso la Libia. Altri Stati membri dell’Ue dovrebbero rifiutare di prendere parte ad operazioni di Frontex
(l’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne, ndr) che sfociano in rinvii di migranti ed abusi».
La denuncia dell’Ong, che conferma quanto documentato dalle inchieste de l’Unità, si basa su delle interviste condotte a maggio 2009 con 91 immigrati e rifugiati in Italia e Malta e su un’intervista telefonica con un immigrato detenuto in Libia. Le autorità di Tripoli hanno rifiutato l’accesso ai loro centri di detenzione, denunciano gli autori, e le autorità italiane hanno concesso solo interviste molto brevi con gli immigrati presenti nei centri di Caltanissetta, Trapani e Lampedusa e hanno rifiutato ogni incontro con rappresentanti del Governo. Gli italiani, si spiega nel testo, «usano la forza nel trasferire i migranti dai barconi su imbarcazioni libiche o li riportano direttamente in Libia, dove le autorità li imprigionano immediatamente» e alcune di queste operazioni sono coordinate da Frontex. Si tratta di «un’aperta violazione dell’obbligo di non commettere refoulement», il respingimento indiscriminato.
Le testimonianze raccolte sono agghiaccianti. Si parla di percosse, di abusi, di violenze sessuali. Al campo di deportazione libico di Bin Gashir, ha raccontato Paul Pastor (i nomi sono modificati) le autorità «iniziarono subito a picchiare sia me che gli
Il ministro delle pari Opportunità altri. Alcuni dei ragazzi furono picchiati al punto da non poter più camminare». Madihah, una ragazza eritrea di 24 anni, ha raccontato che «tutte le donne hanno avuto problemi con la polizia» libica, che «arrivava di notte e sceglieva le donne da violentare».
Non va meglio per i minori. «Le autorità libiche si legge non sembrano fare nessuna distinzione tra adulti e bambini non accompagnati» e questi sono di solito messi nelle stesse celle con il «rischio di abusi e violenze».
Tutti inoltre hanno riferito che la differenza tra i trafficanti di esseri umani e la polizia libica è molto sfumata. Spesso gli immigrati sono detenuti fino a quando qualcuno non paga dei soldi, che non si capisce se a titolo di cauzione o riscatto.
L’Italia, conclude il rapporto, «dovrebbe smettere immediatamente di violare i suoi obblighi sul non respingimento» e dovrebbe anche smettere di cooperare con la Libia. In base al Trattato firmato da Berlusconi il 30 agosto 2008, Roma si è impegnata a finanziare il 50% delle spese per i controlli effettuati da quelle stesse autorità libiche che maltrattano i migranti. Piuttosto bisognerebbe aumentare la cooperazione con l’Agenzia Onu per i rifugiati, suggeriscono gli attivisti di Human Rights Watch.
Da parte sua l’Unione europea dovrebbe esigere dall’Italia il rispetto delle norme Ue e internazionali, incoraggiare la Libia a ratificare la Convenzione di Ginevra ed inserire esplicitamente la questione dei diritti umani nel prossimo accordo quadro con Tripoli. ❖

l’Unità 22.9.09
In ricordo di Jerry Masslo. Il prossimo 26 settembre Villa Literno si mobilita
di Romana Sansa


Aveva 30 anni. Era arrivato a Roma come rifugiato politico. Nell’estate dell'89 era andato a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. La notte del 25 agosto, mentre dormiva, era stato aggredito da giovani locali che volevano derubarlo. Mentre tentava di difendersi, venne ucciso.
La notizia produsse un’emozione fortissima: mai era successo un fatto del genere in Italia (altri, purtroppo, sarebbero seguiti).
In maniera spontanea venne decisa una manifestazione nazionale antirazzista, la prima, per il 7 ottobre, e vi partecipò gran parte della società civile e religiosa. Per ore italiani e immigrati, uomini e donne giunti da tutta Italia, sfilarono per le strade di Roma. La morte di questo giovane contribuì alla discussione pubblica che sfociò nella legge Martelli.
L'anno successivo, nell'agosto del '90, davanti al cimitero di Villa Literno, dove era stato sepolto Masslo, le Confederazioni sindacali e l'associazione Nero e non solo realizzarono un campo con tende, docce e mensa, affinché i raccoglitori di pomodoro non dormissero nella polvere. I giovani volontari organizzavano le presenze. Tutti gli immigrati avevano il permesso di soggiorno o la ricevuta della presentazione della domanda.
Fu un'esperienza molto intensa, che coinvolse positivamente una parte della popolazione locale.
A 20 anni di distanza, il 26 e 27 prossimi, a Villa Literno si ricorderà Jerry Essan Masslo grazie a un’iniziativa del Forum campano per l’eguaglianza. Nel frattempo, il nostro paese è diventato irriconoscibile, attraversato da feroci tentazioni xenofobe. E, dunque, oggi la domanda è: come salvare le vite dei tanti Jerry Masslo, che non riescono nemmeno ad attraversare il mare per chiedere rifugio politico?

l’Unità 22.9.09
Conversando con Goffredo Fofi critico cinematografico e letterario
«Gli intellettuali? Servi del potere di turno Una brillante corporazione»
La sinistra si è suicidata e «sinistra» è rimasta una parola senza senso
di Oreste Pivetta


Farabutto, coglione, va’ a morì ammazzato. Da tempo ormai. Ha ragione Brunetta quando dice che tutto sommato sono soltanto modi di dire popolari. Ma una volta a scuola si sussurravano appena e per sentirli sonanti bisognava incappare in una lite di mercato o di condominio. Adesso siamo alle platee politiche e alle (massime) responsabilità politiche, dopo un breve viatico televisivo, con la scusa del dialetto, nell’esercizio del dialetto come piacerebbe a Bossi (dal celeberrimo gesticolare), ma dalla parte del potere. Democrazia tra Chavez e Putin, diceva ieri Daniel Cohn Bendit, il politico francese, all’Unità. Storie diverse. Con un filo d’arroganza nazionale si potrebbe alludere a tradizioni democraticamente diverse, almeno dalla metà del secolo scorso. «Ma nell’ultimo ventennio – dice Goffredo Fofi, tra i pochi intellettuali critici di questo paese – ci siamo messi a correre: stupisce la rapidità del declino...».
Le tradizioni, a quanto pare, sono andate a farsi benedire, divelte, sconquassate, annichilite nel confortante silenzio delle mag-
gioranze. Perché alle fondamenta del regime berlusconiano ci staranno i soldi, ci staranno le televisioni, ma ci stanno anche le maggioranze... Come definirle queste maggioranze? Menefreghiste, qualunquiste, indifferenti, sfiduciate? Perché ci siamo così presto abituati alle bravate, parole e atti, dei nostri governanti? Insomma che paese siamo? «Rispondo che ha ragione Cohn Bendit: tra Putin e Chavez, in mezzo a qualsiasi dittatorello che non ha più bisogno delle armi e dei bastoni per imporsi. Ma è una storia antica: il populismo è l’arte di manipolare l’opinione pubblica e gli esempi risalgono ai millenni passati. Nerone insegna. Adesso semplicemente si usano i mezzi di comunicazione di massa, ma non è che allora non non ne disponessero con la loro buona parte di originalità». Magari offrendo i cristiani in pasto alle belve. «Il problema sarebbe reagire. Ma chi reagisce? La destra non ha nulla da dire e non ha neppure interesse a dire qualcosa o a cercarsi altre strade o altre collocazioni e la sinistra si è suicidata e “sinistra” è rimasta una parola senza senso, che evoca soltanto assembramenti e divisioni, clan, famiglie, gruppi e litigi, con un modello di sviluppo in testa che non è diverso da quello che agita chi governa e con l’idea fissa soltanto di entrare nelle stanze del potere. Per che cosa, per quale futuro? Quali prospettive ci vuole indicare?». Ci è capitato di leggere quella bellissima invettiva di Don Tonino Bello contro gli intellettuali: «Siete latitanti dall’agorà.... State disertando la strada... Vi siete staccati dal popolo». D’accordo: chi avrebbe il compito di criticare e di pensare per l’avvenire non è più un riferimento per il presente, è diventato un imbonitore a libro paga... «Sono stato di recente a un convegno sul teatro. E naturalmente parlando di teatro e di teatranti, la prima questione che salta fuori sono i finanziamenti. Ogni assessore ritiene che i soldi della collettività siano suoi e ne deduce di poterne fare quello che vuole: premiare l’amico, il parente, premiare chi gli lecca il culo...». Siamo arrivati al cattivo esempio della parolaccia... «Per dire però che l’abbandono di criteri morali e culturali è ormai una questione antropologica...». Di una mutazione antropologica. Siamo di nuovo alla fine delle lucciole. Non è il malaffare o l’ignoranza del singolo... «No, si fa così perché s’è rinunciato a ragionare, a immaginare il domani, a discutere e a decidere che cosa sia sbagliato e che cosa sia giusto e scegliere il giusto, anche quando il popolo sbraita chiedendo caramelle invece di un lavoro serio o di una scuola seria...». Siamo al top del disastro. E, permetti, non è questione di precari...«No, il caos generale dimostra come la scuola abbia esaurito la sua funzione. Gli utenti, clienti, consumatori, la gente insomma, pensa che così debba essere e che così si debba continuare a governare, in una società guidata dal ciclo delle merci e dalla pubblicità. Si è abituata. Ecco la mutazione».
E gli intellettuali? Non dovrebbero aprirci gli occhi? «Gli intellettuali prosperano, autentici guru, predicatori inesauribili, megalomani e narcisisti, che non contano niente o contano soltanto in funzione di un potere che li usa come mediatori, un potere molecorale rappresentato e conteso tra mafie, camorre, massonerie di ogni genere... Clan opportunistici di cui l’Italia è strapiena. Poi arriva Brunetta e annuncia: basta con l’assistenzialismo, basta con il clientelismo. Salvo poi rifare assistenzialismo e clientelismo per quelli e con quelli che gli stanno più simpatici. Vedi, la Costituzione dice che bisogna dare ai poveri e ai meritevoli: ma chi giudica? Dove stanno in Italia i probiviri? Frequenti le giurie dei premi letterari: sempre gli stessi, critici e autori, che parlano di se stessi e dei loro libri, premiati e premiatori insieme, una volta a te, una volta a me. Una brillante corporazione. Chi sente più la responsabilità nei confronti della società? Nessuno». Nessuno che insegni. È un paradosso, forse. «Ma certo. L’Italia è paese ancora vivo grazie a tante brave persone. Se non fosse così sarebbe alla catastrofe». Mancano i punti di riferimento... «Alla lettera. Non esistono persone di riferimento. Morte. Non esiste chi pensa, chi guarda avanti, chi immagina il futuro, chi rifà opera di formazione nei confronti delle giovani generazioni in rapporto a ciò che dovrà essere. Solo o con gli altri. E qui s’aggiunge la terribile colpa della sinistra, di una sinistra piegata a rincorrere chi ha vinto, cioè i modelli del consumismo, delle merci, del libero mercato...».
La vorresti alternativa? «La vorrei solidale, capace di ascoltare, capace di inventare, critica. Ennio Flaiano diceva che la sinistra è bravissima a fare l’autocritica degli altri». C’e una bella espressione di Cohn Bendit, che ho letto sulla tua rivista, «Lo straniero»: «...continueremo nello sforzo di spezzare la caratteristica proprietaria del sistema politico sia a livello nazionale che locale ed europeo. Più che mai noi promuoveremo il concetto di software libero applicato alla politica e alla società». «Sì, per rompere gli schemi di una democrazia autoritaria e proprietaria. Il che significa in questo paese ricostruire una cultura diffusa dello stato e della collettività. Come mi è sempre parso si fosse riusciti nel ventennio dal ’43, dalla Resistenza, al ’63, al tramonto cioè del centro sinistra, alla sconfitta dei suoi disegni più innovatori...».
Basterebbe pensare alla casa, all’urbanistica, al ruolo allora di tanti intellettuali. «Quelli che adesso mancano. Perché non esistono più i critici, non esistono i teorici. Sopravvivono gli informatori e gli accademici, come Asor Rosa, che ancora predica l’autonomia della politica. Tutti affetti da narcisismo. Mi è appena arrivato un libro di Lucio Magri, con la sua bella faccia in copertina. Ma capisci! Neanche fosse Clooney. Si specchierà nella sua copertina. Invece credo che il primo dovere degli intellettuali, compreso il sottoscritto, sia certo guardarsi allo specchio, ma per sputarsi in faccia, per riconoscere il proprio fallimento».
Una volta si diceva: ci salverà la Chiesa... «Tutti crediamo che la Chiesa si debba occupare della gente, cioè della collettività dimenticata dalla politica. Ma il primo scrupolo della Chiesa è la salvaguardia della istituzione». Come saremo? «Quello che colpisce è la velocità appunto del declino italiano. In altri paesi d’Europa il senso dello Stato e il senso della comunità resistono. Da noi dominano egoismo e cinismo orripilanti. A Venezia, all’uscita dal cinema, dopo la propriezione del film di Patrick Chereau, la gente quasi vomitava: se qualcuno ti mette di fronte alla realtà, le reazioni sono il vomito e la fuga». ❖

l’Unità 22.9.09
Fine vita: lo sguardo senza retorica di Ignazio Marino
«Nelle tue mani» del chirurgo senatore riflette su terapie e alimentazione forzata, dottori e malati a confronto con la morte, mentre il parlamento discute una legge illiberale
di Elisabetta Ambrosi


Solo nel paese cui si è scritto che Goebbels era un fanciullino rispetto a Beppino Englaro e ai suoi sostenitori (Il Foglio, 23 febbraio); e in cui si sta discutendo un disegno di legge che permette ai cittadini di stilare dichiarazioni anticipate di trattamento che poi possono essere beffardamente ignorate, costringendoli a mangiare «pane ed acqua» all’infinito; solo in quel paese può accadere che un cattolico mite come Ignazio Marino appaia un pericoloso radicale.
Non c’è invettiva, né provocazione, ma soprattutto narrazione e racconto nel suo ultimo libro, Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti (Einaudi, pp. 226, euro 18). Da uomo di mediazione e dialogo, Marino preferisce mettere chi legge in ascolto dei malati in attesa di trapianto o affetti da malattie degenerative. Ovvio dovrebbe apparire, in un paese normale, che il rifiuto da parte del paziente di «un’incisione fatta con il bisturi per cucire un tubo nell’addome in modo da somministrare con una pompa meccanica sostanze chimiche» (il «pane») sia un atto etico del tutto identico al rifiuto di un trapianto o di una chemioterapia, e in quanto tale da rispettare poiché costituzionalmente previsto.
Autoevidente, anche, dovrebbe essere che il rispetto di questo rifiuto è eticamente e praticamente distinto da eutanasia o suicidio assistito. E che, infine, il dovere di un medico di fronte ad un paziente imprigionato in un corpo-bara non sia solo evitare la morte «che fa parte della vita, ed è la conclusione naturale di molte malattie» ma soprattutto allontanare le sofferenze insopportabili.
Nulla di tutto ciò è scontato, in un paese che «ha perso il suo umanesimo e il suo buonsenso», scrive il senatore chirurgo. Ci si aspetterebbe, come ripiego consolatorio, una compattezza del Pd sull’evidenza di alcuni
punti al fine di rispettare, scrive il candidato alla segreteria, «i principi della libertà, del rispetto, dell’uguaglianza, del diritto, elementi irrinunciabili in cui si riconoscono quasi tutti i cittadini italiani» e per questo «non avere alcuna esitazione nel momento in cui c’è bisogno di schierarsi dalla parte della libertà e dei diritti civili».
Invece, il Pd è arrivato a spaccarsi persino sul ddl Eluana, incapace di ascoltare la ragionevolezza delle parole di chi è colpito. «Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita», scriveva Welby in una lettera al presidente della repubblica pubblicata per intero nel libro, «non ci si trova in presenza di uno scontro trachièafavoredellavitaechièa favore della morte, perché tutti i malati vogliono guarire, non morire».
Per questo, quando un malato, al quale «morire fa orrore», «decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita, io credo che questa sua volontà debba essere rispettata e accolta».
La volontà di Welby non è stata rispettata, come non lo sarà quella di tutti i cittadini italiani se passerà una legge che costringerà persino chi con le sole palpebre chiede di staccare la macchina che lo tiene in vita, e non può da solo compiere alcun gesto, ad andare avanti all’infinito. In una sorta di beffarda vita eterna, dispensata in vita da sacerdoti quelli laici di maggioranza che legiferano, quelli di opposizione che tacciono o fiancheggiano, quelli religiosi che hanno negato i funerali a chi è colpevole solo di essere malato che nessun Dio ha investito di quel ruolo.❖

Repubblica 22.9.09
Pechino celebra i 60 anni della Rivoluzione con manifestazioni e musei dedicati al grande timoniere
La Cina capitalista rilancia Mao
di Yan’ An e Giampaolo Visetti


Viaggio nella Cina che festeggia i 60 anni della Rivoluzione. E che tenta l´impossibile: guardare al futuro santificando il Grande Timoniere

A sessant´anni dalla sua vittoria, il comunismo della Cina aveva due alternative. Uccidere Mao, consegnandolo alla storia. Oppure fingere che sia ancora vivo, proiettandolo nel futuro. Ha scelto una terza via, impossibile ma audace: sacralizzare, dopo le sue spoglie, anche la sua esistenza, per trasformare il passato di un uomo nel destino di un popolo. Fino ad oggi Pechino si era legata ad un doppio simbolo: il mausoleo di Mao su piazza Tiananmen e le grotte dei rivoluzionari a Yan´an, la città dove è terminata la Lunga Marcia e i comunisti hanno vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-Shek. Luoghi ormai invecchiati, che i cinesi da tempo frequentano con l´entusiasmo di una visita dal dentista. Il potere, che il primo ottobre celebrerà la propria transecolare immutabilità con un´esibizione di forza che non ha precedenti, ha sentito che serviva altro. Nel Grande Anniversario, pensato per sancire il primato dell´inarginabile superpotenza globale, ha creato molto più di un monumento a se stesso: una Mecca rossa piuttosto, o un Vaticano socialista, il tempio generatore della nazione.
Il nuovo «Museo della rivoluzione», appena inaugurato a Yan´an, un´ora di volo dalla capitale, nello Shanxi, non è meta per turisti. Qui si viene in pellegrinaggio. Organizzati, spinti, magari obbligati: ma pellegrini. La scenografia è colossale. Sullo sfondo di una piazza immensa, lastricata di pietra candida, domina una montagna di marmi. Nessuno sa precisare quanto sia costata: 6, 15, 20 milioni di dollari. Ognuno, in città, formula con orgoglio la somma più esagerata che riesce a immaginare. All´interno si apre una sorta di universo parallelo, l´impressionante ricostruzione del mito fondativo della patria.
Il primo ottobre Pechino celebra i 60 anni della Repubblica popolare: a Yan´an, nell´antico quartier generale di Mao, un nuovo museo ripercorre le gesta dei padri della Patria. E lancia un ammonimento alla moderna potenza economica: crescere va bene, ma non bisogna allontanarsi troppo dalle radici
Si preparano 10 giorni di feste e balli: per esaltare il passato e far paura agli altri paesi
Al centro di tutto c´è il Grande condottiero: nulla invece sui problemi ancora aperti

Le antiche grotte scavate nella terra arancione da cui sgorga il fiume Giallo, il quartier generale dei rivoluzionari tra il 1937 e il 1947, le dimore di Mao Ze Dong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping, non sono più che il prologo esausto di una stravolta liturgia. È nel trapiantato cuore del socialismo di mercato, che la Cina espone invece la propria reliquia: la prova fisica dell´origine di una identità, la ragione del dilagato neonazionalismo.
Un giorno a Yan´an, sessant´anni dopo il primo discorso da vincitore del Grande Timoniere, in equilibrio tra le gesta dei maoisti e la loro disneyana trasfigurazione, aiuta a percepire il segreto di questo misterioso Paese. Dall´alba, migliaia di persone assediano il Museo che riassume la gloria del loro dramma. C´è chi ha impiegato giorni, per arrivare qui dal suo villaggio, chi una settimana di corriera tra risaie e ciminiere. Vecchi e ammalati, o coppie in abiti da sposi, dopo durature attese, si lasciano spingere lungo corridoi infiniti, traboccanti di documenti, fotografie, divise e armi. Solo le immagini di Mao sono a colori. All´ingresso una scritta spiega che «questa è la terra sacra della rivoluzione, la culla della Cina moderna». Di conseguenza, all´interno, la folla si muove in religioso silenzio, bambini compresi.
Pan Fuquan, paralizzato alle gambe, viene portato in braccio dai nipoti di Shenzhen, attraverso sale che ricostruiscono epiche battaglie, città bombardate e riconquistate, campagne collettivizzate. Ogni volta che arriva davanti ad un reperto di Mao, basta una lettera con la sua calligrafia, divenuta carattere, il vecchio pretende di essere deposto a terra e prega. Anche la moltitudine accanto a lui manifesta la commozione di chi spera in una grazia. Si fa fotografare davanti alle statue degli eroici leader della resistenza, o presso cumuli di zucche e pannocchie finte, emblema della riforma agraria. Lo sfondo più ambito è il cavallo imbalsamato di Mao, bianco e tozzo, però «forte e veloce», come avverte un cartello. Due ragazze, di fianco alla mummia lucida dell´animale, piangono, mentre soldatesse-guide in divisa grigia declamano nei megafoni la mitologia rivoluzionaria.
I pellegrini di questo santuario estremo del solo totalitarismo del Novecento rimasto al potere, conoscono ogni cosa a memoria. Nelle grotte polverose osservano seri l´essenzialità monastica di brande e sdraio da spiaggia, non sempre di un tavolo, il solo arredo dei fondatori della patria. Apprendono la lezione sulla sobrietà originaria del partito, e silenziosamente riflettono sull´esibita opulenza dei funzionari di oggi. Nelle sale scintillanti ammirano estatici il grandioso Luna Park della rivoluzione e della cacciata dei giapponesi, i plastici a grandezza naturale che trasformano ogni dubbio in una certezza contemporanea. In tre piani, dove si possono trascorrere giornate ad allontanare ombre e a viaggiare di vittoria in successo, di coraggio in sacrifico, non c´è una sedia, o una panca. La massa, negli ultimi saloni riservati alla «costruzione del potere», si trascina esausta, come per espiare qualche inconfessata incertezza, però fiera di contribuire a rimettere in scena la sua «memorabile impresa». Perché non è il contenuto, la sostanza del Grande Museo del Sessantesimo, bensì lo strabiliante contenitore costruito in soli due anni affinché la Cina possa «recuperare e rinnovare lo spirito di Yan´an».
È chiaro che quello «spirito», con le sue indispensabili falsificazioni, è estinto. All´uscita quattro immagini documentano la mutazione perfino corporea, quasi razziale, tra il gonfiore trasandato di Mao Zedong e Deng Xiaoping, e l´asciuttezza ricercata di Jiang Zemin e Hu Hintao: un altro mondo, altri indumenti, oltre che un altro tempo. Del resto anche la città del trionfo comunista, appena oltre il percorso chiuso della memoria costruita in laboratorio, è l´opposto della sua replica. Il petrolio sgorga oggi abbondante sotto i campi di battaglia e sommerge i rifugi rossi con un mare di renmimbi. Grattacieli, cantieri, centri commerciali, traffico di suv e Audi, vecchi quartieri sventrati, negozi e hotel di lusso, demoliscono in un passo l´ostinata deificazione della sorgente che alimenta l´immutabilità apparente del potere. Nel pomeriggio un corteo di berline nere, a sirene spiegate, si blocca davanti alla squallida grotta di Zhu De.
Balzano fuori alcuni giovanotti in affari, che accompagnano i loro bambini griffati «a giocare alla guerra contro gli imperialisti». Nell´ex miglior albergo della città, una vecchia vive invece in ascensore. Per dodici ore al giorno, ricompensata con gli avanzi di cucina, passa uno straccio sudicio su uno specchio ancora più unto. E´ comprensibile che anche i cinesi, pur così devoti alla loro nuova rappresentazione, dopo sessant´anni si aggirino nell´irriconoscibile Yan´an con qualche domanda negli occhi.
Sentono, come dice un alto funzionario a riposo, che «non è il partito comunista ad essere della nazione, ma la nazione ad appartenere al partito comunista». Si chiedono perché, dopo un passato che non conosce sconfitte e in un presente che non riconosce errori, milioni di compagni continuino a soffrire nell´ingiustizia e inesperti della libertà. Questo «non detto» della storia, la museificazione definitiva del «mai ammesso», finisce per demolire l´impressionante città-specchio di Mao, destinata a rappresentare il passaggio dall´ideologia alla teologia del «socialismo alla cinese». La grande occasione perduta di dire la verità su se stessa, ora che la Cina potrebbe permetterselo dando un´altra lezione di modernità al mondo, è il cuore del fallimento dell´imminente Sessantesimo. L´ombra della cattedrale vuota di Yan´an, ridotta a umiliante luogo di preghiera del potere cinese, si proietta così fino a Pechino.
Da mesi la capitale del prodigio economico è sconvolta dai preparativi della parata militare più imponente della sua storia. Poteva riflettere: prigioniera dell´esaltazione olimpica, incerta sulla nuova leadership che preme per la successione, ha scelto di limitarsi a celebrare. Per trasformare il 1949 in un approdo, l´esibizione di forza dell´esercito tornerà fondamenta pressochè unica dell´azione politica. In piazza Tiananmen, a titolo di prova, l´altra notte hanno sfilato centinaia di carri armati e missili nucleari. Due milioni di soldati, stivati in prefabbricati, da settimane si allenano a fare il passo dell´oca. Mezzo milione di «volontari», reclutati nelle università, trascorrono il tempo a «provare lo spettacolo». Il cielo sopra Pechino è chiuso ormai «anche a piccioni e aquiloni» per consentire a sconosciuti bombardieri, atomici e invisibili, di sfrecciare ad altezza uomo. La paura di attentati è tale che fino a metà ottobre nel Paese è vietato vendere coltelli.
La Cina dominante, per dieci giorni, canterà, ballerà, farà festa, vivrà nel terrore, ammirerà i fuochi d´artificio, andrà in vacanza, esalterà il marxismo-leninismo e l´iperliberismo, spaventerà il pianeta. Il potere ha distribuito i «50 slogan della nuova armonia», e i «43 inni delle masse e del partito». Il colossal di Stato dal titolo «La fondazione della Repubblica», recitato da star nazionali con passaporti stranieri per poter viaggiare all´estero, occupa 4100 cinema di tutto il Paese e semina dibattiti nazionalisti. In tivù sfilano i «cento eroi e cento modelli» premiati dal partito. I giornali raccontano nel dettaglio «la perfezione delle Tre Rappresentanze» e le «misure straordinarie» contro la possibilità di «attacchi terroristici in Tibet e nello Xinjiang. E´ difficile comprendere come questa ossessionata Cina politica dello «spirito di Yan´an» e della «parata di Tiananmen», sia la stessa Cina economica del «miracolo di Shanghai» e dell´«esempio di Canton». Sessant´anni dopo, il potere continua a venerare Mao perché ideologicamente non ha prodotto altro. Dal «Museo» alla «Piazza», avverte tale fragilità, la drammatica inadeguatezza di restare prigioniero della forza e degli anniversari, l´appuntamento mancato tra il mercato e la democrazia. Sulla Città Proibita, il primo ottobre, tramonta un´altra generazione politica. Non solo ha rinunciato a dire «la verità su Mao», ma si è costretta a erigere un tempio per sacralizzare la sua contemporaneità, presentandolo quale necrofilo obbiettivo del futuro. Hu Hintao e Wen Jiabao si congedano tra gli exploit della finanza e il rombo di armi ancora segrete. Il confine tra moderna potenza economica e vecchia dittatura militare rimane esile. Con il duello tra le fazioni di Xi Jinping e Li Keqiang si affaccia al comando della Cina la prima generazione di leader liberisti costretti a dirsi comunisti, nati dopo «la vittoria degli eroi della Lunga Marcia». Sono cresciuti con la pericolosa "globalcrazia di internet": orfani, protetti ormai solo da musei e parate militari, da una liturgia che li condanna a replicare una storia riscritta "ex post" da chi li ha preceduti e oggi li abbandona. Pochi pensano che tra dieci anni, alla prossimo Anniversario, l´hollywoodiana bugia di Yan´an e l´asiatico silenzio su Tiananmen potranno ancora sostenere una Cina «protago-nista del secolo». E questo, come chiunque sente, non è un trascurabile dettaglio della nostra vita.

Repubblica 22.9.09
Il lodo Alfano la Costituzione e l’Europa
di Andrea Manzella


Nei primi giorni di ottobre la Corte costituzionale giudicherà se la legge n. 124 del 2008 (il cosiddetto "lodo Alfano") sia o meno conforme alla Costituzione della Repubblica. In quella legge è disposta la sospensione dei processi penali contro le quattro più alte cariche dello Stato, in esse compresa ovviamente quella del presidente del Consiglio. Una interruzione per tutta la durata della carica.
La legge del 2008 è la seconda edizione, riveduta e corretta, di un´altra legge che aveva la stessa funzione di "scudo" penale. Era la legge n. 140 del 2003, che però era stata bocciata, dopo appena sette mesi di vita, dalla Corte costituzionale. Ma la Corte non aveva pregiudizialmente respinto la ragione politica di quella legge. Anzi: aveva riconosciuto come «interesse apprezzabile» la «esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche». Un interesse, aveva però aggiunto la Corte, «che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto».
Senonché in quella legge, pur politicamente «apprezzabile», quella «armonia» non c´era. Così com´era stata costruita, quella «sospensione» violava alcuni di quei principi: e alla Corte bastò la constatazione preliminare dei difetti di legittimità di quello specifico "scudo", per affondare la legge, «assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale». E "assorbito" anche un referendum abrogativo di quella stessa legge che, nello stesso giorno, era stato dichiarato pienamente "ammissibile". Ma che era divenuto privo di oggetto: perché le norme che avrebbe voluto abolire avevano ora cessato la loro efficacia.
Quella sentenza era una pietra tombale su tutti i "lodi" di questo mondo? No. Sia perché restavano in piedi processi penali che continuavano a pesare sul "sereno svolgimento" di funzioni di vertice governativo. E sia perché restava in piedi l´"interesse apprezzabile" alla protezione di quelle funzioni, come era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale. Era quasi inevitabile perciò che, incombendo scadenze giudiziarie (e anche la minaccia ritorsiva di un blocco generale di tutti i processi penali) un nuovo "lodo" venisse approvato in fretta e furia, cercando di ripulire lo "scudo" dai difetti più vistosi che ne avevano determinato la caduta.
Era però altrettanto inevitabile che giudici penali, a Roma e a Milano, denunciassero alla Corte anche la nuova legge. Essi segnalavano la persistenza di vizi contro la Costituzione in quella barriera eretta tra i giudici e le alte cariche dello Stato. La "pulizia" richiesta dalla Corte non era stata, insomma, completa. E segnalavano soprattutto, esplicitamente, una questione di fondo alla quale la Corte questa volta non avrebbe potuto sottrarsi con l´"assorbimento" e con il "non detto".
La questione di fondo è: una garanzia di immunità penale per i vertici costituzionali dello Stato può costruirsi senza innovare la Costituzione? In altri termini, l´"armonia con i principi fondamentali dello Stato del diritto" (che è la condizione di base a cui la Corte ha subordinato, nella sentenza del 2004, ogni "ragione politica") può considerarsi rispettata con una semplice legge ordinaria? Una legge che sfugga quindi alla trasparenza, ai quorum, ai tempi e all´eventuale giudizio popolare: a tutte le caratteristiche, cioè, di una legge di revisione costituzionale?
Nella Costituzione non esiste, in effetti, alcuna garanzia di questo tipo per i "reati comuni" imputabili alle più alte cariche dello Stato. C´è solo una procedura speciale per i «reati politici, commessi da membri del governo nell´esercizio delle loro funzioni». E l´art. 96 espressamente prevede per questa procedura «norme stabilite con legge costituzionale». La domanda allora è: per tutelare le alte cariche anche contro processi per reati comuni, la Costituzione può essere "integrata" con una legge approvata a maggioranza semplice? Una legge che ha l´effetto di creare per tali cariche un privilegio ancora più incisivo, dato che le copre per fatti che non riguardano le loro funzioni ma la loro privata condotta: e quindi con una più vistosa eccezione ai principi di uguaglianza e di responsabilità personale, rispetto alla condizione dei normali cittadini? Dopo che l´opinione pubblica è stata lungamente esasperata contro i privilegi, veri o presunti, della "casta" politica, può giustificarsene un altro e nuovo, nella forma ritenuta di dubbia legittimità dai giudici di Roma e di Milano? Può una tale legge – che modifica la Costituzione, aggiungendovi una tutela che essa non aveva previsto – essere, dunque, approvata senza le garanzie della revisione costituzionale?
È a queste domande assai stringenti che deve rispondere l´imminente giudizio della Corte. Tuttavia l´interrogativo più critico è un altro. Il vero punto di diritto infatti è che con questa "sospensione" viene impedita, nel suo ordinario svolgimento, una funzione costituzionale: quella giurisdizionale. Ed è "sospesa" non per una delle tante cause tecniche che possono determinare la sospensione processuale, ma per una ragione di politica costituzionale ben precisa: il "sereno svolgimento" di altre funzioni dello Stato. Si introduce, cioè, un rapporto di equilibrio assolutamente nuovo nella Costituzione. Perché si dice che, tra il giudicare e il governare, è l´esercizio di quest´ultima funzione a dover prevalere, sia pure solo per il tempo della durata della carica. Torna, allora, in termini ancora più netti la domanda: può tale misura di diverso equilibrio costituzionale essere stabilita con una legge ordinaria, cioè senza cambiare la Costituzione?
Un costituzionalismo a noi sempre assai vicino, come quello francese, ha accolto, nel 2007, la medesima "ragion di Stato" delle "democrazie elettorali", nel senso di riconoscere al presidente della Repubblica (e solo a lui) una temporanea immunità dai processi. Ma lo ha fatto modificando espressamente l´art. 67 della sua Costituzione: non tacitamente, con una qualsiasi legge ordinaria. Non si riesce a capire perché la nostra attuale, larghissima maggioranza parlamentare non abbia, sia pure a sanatoria, seguito quella via.
Un altro costituzionalismo, anche esso a noi assai vicino, quello tedesco, ha visto, il giugno scorso, il suo Tribunale costituzionale emettere una monumentale e aspra sentenza, con possibili effetti sul destino istituzionale non solo della Germania ma dell´intera Unione europea. Una sentenza criticabile nel merito quanto si vuole: ma che non ha guardato in faccia nessuno. E che rende ora la vita più difficile ai governi e alle istituzioni di tutta Europa. Essa ha però anche indicato le vie di soluzione per "costituzionalizzare" procedure parlamentari insufficienti.
Nella sua "sfera di insindacabile autonomia", la nostra Corte costituzionale dovrà misurarsi anche con questi esempi.

Corriere della Sera 22.9.09
Il retroscena. Timori sul biotestamento. E sugli immigrati: potremmo perdere consensi tra i nostri elettori
Il Cavaliere e il compromesso obbligato «Ma rischiamo il rapporto con i cattolici»
di Francesco Verderami



ROMA — Tendenza Silvio. Nono­stante lo scontro con Gianfranco Fi­ni, le tensioni con Umberto Bossi sul­l’Afghanistan, i morsi della crisi eco­nomica sull’occupazione e i rapporti complicati con il mondo cattolico, il Cavaliere continua a salire nei son­daggi riservati che l’opposizione mo­nitora settimanalmente. Perché an­che l’ultimo report di Ipsos , analizza­to dai dirigenti del Pd, ha evidenzia­to un dato tendenziale in ascesa per il premier e il suo partito: nell’indice di fiducia, infatti, Berlusconi guada­gna un altro decimale (oggi è al 51,2%) e il Pdl tre (dal 38 al 38,3%).
Ma non è sulle variazioni numeri­che che si soffermano gli analisti, bensì sul trend positivo che da lu­glio non conosce soste. I rilevamenti fanno capire che — in assenza di un’alternativa — l’opinione pubbli­ca continua a puntare sul presidente del Consiglio, se è vero che la Lega subisce una flessione di mezzo pun­to, scende al 10,1%, e non raccoglie il consenso degli elettori di centrode­stra, rimasti contrariati dal duello tra i «cofondatori» del Pdl.
Ed è proprio lo scontro con Fini a preoccupare Berlusconi, perché la «fiducia» è un credito da onorare con l’azione di governo, dunque in Parlamento, dove i provvedimenti dell’esecutivo devono trovare il con­senso. Il premier deve quindi disin­nescare il conflitto con il presidente della Camera, con il quale i problemi politici ieri sono stati solo esamina­ti. I due infatti si rivedranno, dopo il viaggio negli Usa del Cavaliere, sicco­me non potevano bastare due ore di colloquio per chiudere la vertenza. Il faccia a faccia in casa Letta è servito quantomeno per chiarirsi — in alcu­ni frangenti anche a muso duro — e per constatare che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Non c’è dub­bio che l’ex leader di An non abbia progetti politici alternativi al Pdl, non ci ha mai pensato: l’ha spiegato a Berlusconi, che pure si fa forte dei sondaggi commissionati da tempo sulle «basse potenzialità» del «brand» finiano. Dall’altra parte il Cavaliere sa che — se non vuole apri­re un fronte pericoloso — deve con­cedere al «cofondatore» un ruolo adeguato nel partito. Ed è chiaro che il presidente della Camera è preoccu­pato di non esporsi: vuole verificare che le promesse verranno mantenu­te. Altrimenti, rischierebbe di qui a breve una cocente sconfitta.
Poco importa però se «Silvio» non si fida di «Gianfranco» e vicever­sa, se l’unica intesa è stata quella di non parlarsi più attraverso i media. Entrambi sanno che i problemi resta­no, frutto delle due «visioni diver­se ». Certo, la consultazione perma­nente consentirà di cercare dei com­promessi su questioni spinose. Ma è da vedere se e come si comporrà una mediazione su temi, per esem­pio, come i diritti agli immigrati e il testamento biologico. Perché Berlu­sconi teme che le posizioni di Fini «da una parte ci facciano perdere consensi nel nostro elettorato, e del­­l’altra mettano a rischio il rapporto con il mondo cattolico», assai in­quieto e critico verso il premier, co­me ha fatto capire ieri il presidente della Cei, Angelo Bagnasco.
Allora il consenso nei sondaggi as­sume per il premier un altro signifi­cato, è un debito contratto con l’opi­nione pubblica, da restituire entro la primavera se lo si vuole far fruttare alle Regionali. È vero che il Pd resta per ora accartocciato su se stesso, e sebbene questa settimana guadagni quasi mezzo punto (28,9%), non rie­sce a drenare voti all’Idv, quotato so­pra l’8% malgrado un calo di due de­cimali.
Nelle tabelle di Berlusconi i Democratici non vanno oltre il 27%, semmai è su Pier Ferdinando Casini che dovrà fare delle valutazioni: tra i leader, infatti, negli indici di gradi­mento il capo dei centristi è salito al 48,8%, ed è secondo solo al Cavalie­re, che nei suoi report calcola l’Udc al 6,8%.
Che fare allora per le Regionali? Anche questo tema è stato trattato ie­ri da Berlusconi e Fini. Nei giorni scorsi l’ex leader di An — a parte far muro contro le «eccessive pretese» al Nord della Lega — teorizzava che «per rafforzare il Pdl è necessario le­gittimare le strutture territoriali del partito. Non è pensabile che le scelte dei candidati governatori siano frut­to solo di una decisione romana». È un ragionamento da rifare con il pre­mier, che su questo punto — e an­che su altri — proprio non ci sente.
Ma è come se tutto fosse sospeso, in attesa di altri eventi. Perché è ve­ro che nel Pdl si avverte un cauto ot­timismo sulla decisione della Con­sulta per il lodo Alfano, ma ad otto­bre la decisione della Corte Costitu­zionale avrà un’influenza sulle scel­te politiche, nel Palazzo. Fini ha già detto che «questo clima di messiani­ca attesa è fuori luogo», tranne ag­giungere poi che «mentre tutti aspet­tano la sentenza, sarà importante co­noscere le motivazioni». E Berlusco­ni — giorni fa — ha cercato di mo­strarsi distaccato: «Se fosse necessa­rio — ha detto — si potrebbe fare un altro lodo. Ma io sono tranquillo perché, anche se andassi a processo, sul caso Mills mi assolverebbe qual­siasi tribunale fatto da giudici non politicizzati e prevenuti contro di me». Possibile che ieri i «cofondato­ri » abbiano parlato solo del partito?

lunedì 21 settembre 2009

l’Unità 21.9.09
Depenalizzata l’eutanasia in Gran Bretagna

LONDRA Aiutare a morite malati terminali o con disabilità totali ed incurabili non sarà più un reato in Gran Bretagna: lo afferma il Sunday Times, annunciando che in settimana la procura generale emetterà linee-guida che stabiliscono che non ci sarà azione legale contro chi assiste queste persone a morire. Nel testo che verrà pubblicato da Keir Starmer, direttore delle procure nazionali, ci saranno comunque dei paletti: sarà sempre un crimine essere l’organizzatore della morte di una persona «vulnerabile o sensibile a manipolazioni». Le linee-guida saranno molto chiare su cosa vuol dire «assistere» un suicidio, e cosa «incoraggiare» un suicidio.

Repubblica 21.9.09
La rivolta di Praga, l'ascesa di Havel Una settimana dopo la caduta del Muro
Gli studenti in piazza che riscattarono la Primavera tradita
di Bernardo Valli


È il 17 novembre quando la polizia disperde un corteo di giovani. Ma la scintilla è scoccata
Il regista e autore di teatro viene acclamato dal popolo. È la fine del comunismo

PRAGA. L´89 cecoslovacco ci ricorda come in questa città la storia sia passata dal dramma alla fiaba, con la velocità con cui si cambia di scena su un palcoscenico. E´ quel che è accaduto nel novembre di vent´anni fa quando all´ormai polverosa figura di Gustav Husak, proconsole di un impero in disfacimento, subentra quella di Vaclav Havel, cavaliere democratico della nuova Europa. Il Muro è già crollato, il 9 novembre, a Berlino, quando a Praga, il 17, la polizia disperde brutalmente una manifestazione di studenti.
E´ il segnale della rivolta. Sotto la spinta degli avvenimenti di Varsavia, di Budapest, di Berlino, il giorno dopo duecentomila praghesi scendono nelle strade e Vaclav Havel e i suoi amici dell´opposizione creano il Forum civico e assumono la guida di quella che è ormai un´insurrezione. La quale vuole però essere incruenta, come è nella tradizione boema: una rivoluzione di velluto. Il potere si disintegra in pochi giorni. Il 24 novembre l´ufficio politico del Pc, e lo stesso segretario generale, Milos Jakes, danno le dimissioni. E Vaclav Havel scopre, presentandosi alla folla, una città in delirio. Egli sarà tra breve il presidente della Repubblica non più socialista.
Rientra nella tradizione letteraria praghese il rapido alternarsi di avvenimenti sinistri e di avvenimenti leggeri, liberatori. Ci si imbatte spesso in bruschi balzi dall´ironia al sarcasmo, o alla collera e allo smarrimento, senza che la convivenza tra questi atteggiamenti scompaia del tutto. Un sottile legame sopravvive sempre. Sono salti di umori e di situazioni raccontati nel romanzo, nella poesia, nella leggenda, ma soprattutto nel teatro che coltiva il senso dell´assurdo, nelle trame cupe o divertenti. Nel teatro si ha l´impressione che si tenti una miscela di sentimenti, di caratteri, di personaggi assai diversi; e che si voglia presentare come naturale il geniale miscuglio di elementi incompatibili. E´ come se le tante anime praghesi decidessero di fondersi. Come se Svejk, il soldato burlone di Hasek, e Josef K., l´angosciato impiegato di banca di Kafka, passeggiassero insieme sulla riva della Moldava, sotto il castello di Hradcany. Non è un caso che uno degli autori di quel teatro, subito accolto con entusiasmo, sia stato proprio Vaclav Havel. La sua satira rivelava in sostanza l´assurdità e la tristezza del sistema.
Lo stesso vale, in politica, per quel che riguarda la traumatica transizione dal razionalismo illuminato all´autoritarismo più tetro, o viceversa, vissuta più volte dal paese, dalla sua nascita in poi. La Cecoslovacchia nasce dal trauma della Grande Guerra; vive due brevi decenni esemplari come democrazia e paese industriale avanzato; ed è poi schiacciata dagli stivali di Hitler; riemerge per breve tempo dopo la Seconda guerra mondiale; e poi finisce sotto un comunismo cupo, tetro, umiliante; che cerca invano di umanizzarsi nel ‘68; ma sopraggiungono altri stivali, questa volta sovietici. Questa altalena di eventi occupa sette decenni. L´89 è un´esplosione che ha qualcosa di magico.
La peculiarità storica di Praga non risiede tuttavia negli improvvisi passaggi, nei due sensi, da epoche di tenebra a epoche di luce, comuni ad altre capitali europee. Con le sue torri, i suoi borghi, i suoi ponti, il suo castello per fate e streghe, sovrastante il fiume ora limaccioso ora languido, Praga è una ribalta che offre una vasta varietà di fondali: quelli per atmosfere da incubo, per accendere l´angoscia, come quelli adatti a circostanze più propizie, come il ritorno a una libertà a lungo umiliata. Allora tutte le luci della ribalta si accendono.
Senza perdere concretezza, sia essa crudele o generosa, la realtà assume a Praga aspetti teatrali. Voglio dire anche esteticamente validi: lo slancio, l´audacia, la collera non cancellano del tutto l´ironia, e l´ironia è spesso compagna dell´intelligenza. In balia a una storia dettata dai potenti vicini, i popoli dei piccoli paesi sanno esibire la loro dignità nei momenti cruciali. E la Praga dell´89 ha avuto in Vaclav Havel, uomo di teatro e uomo d´azione, un eccezionale regista.
Praga vive in ritardo l´89. Quando a Budapest e a Varsavia i giochi sembrano già fatti, o sono comunque avanzati come a Berlino, e l´Europa e il mondo valutano le conseguenze della crisi dell´impero sovietico, in Cecoslovacchia i dirigenti comunisti sperano ancora che le riforme di Mikhail Gorbaciov abbiano la vita breve e si ritorni presto all´ortodossia. Quindi a una stabilità del sistema minato da quelle che a Praga appaiono illusioni riformiste. Eppure i segnali, sempre meno esitanti, provenienti da Mosca, vanno in tutt´altra direzione. Ma Gustav Husak, il presidente, è della vecchia scuola, e pensa che l´URSS ritornerà sulla retta via.
Ha settantasei anni. E´ slovacco. E´ nato a Dubravka, nella periferia di Bratislava, dove viveva il padre operaio. Per tutta la vita è stato un comunista e un nazionalista slovacco. Come patriota slovacco si è battuto nella resistenza contro il regime fascista, alleato dei tedeschi. Come comunista ha contribuito a eliminare, dopo la liberazione, il Partito democratico che aveva vinto a Bratislava le elezioni. Ma resta presto impigliato nelle purghe che imperversano all´interno del partito, e nel ‘50 finisce in prigione dove resterà tredici anni. E dove la sua fedeltà al partito non verrà mai meno.
Sarà salda come la sua inimicizia per il ceco Antonin Novotny, il presidente in carica, che gli rifiuta fino al 1963 la revisione del processo. Reintegrato nel partito, Husak accuserà Novotny di «slovaccofobia». E quando la posizione di Novotny diventerà più fragile, perché il suo protettore Nikita Krusciov è stato sostituito a Mosca da Leonid Breznev che ha meno riguardi nei suoi confronti, Gustav Husak sarà uno dei più accaniti oppositori di Novotny, preso tra due fuochi: quello degli ortodossi che gli rimproverano le riforme, e quello dei riformisti che le giudicano insufficienti.
Durante la riunione del comitato centrale, del 1967, quando Novotny, abbandonato da Mosca, è ormai politicamente agonizzante, Husak rovescia tutto il suo odio sull´avversario.
«Ogni frase - ha raccontato Karel Kaplan, testimone della scena - sembrava una lama di coltello che faceva Novotny a pezzi». Husak sarà a fianco di Alexander Dubcek, pure lui slovacco, durante la Primavera di Praga. Ma i sovietici lo designeranno come successore di Dubcek, dopo l´invasione del ‘68. E Husak diventerà per vent´anni il normalizzatore; il proconsole del comunismo più grigio dell´impero; più grigio anche perché a differenza degli altri paesi comunisti, è giusto ripeterlo, la Cecoslovacchia aveva una sia pur breve, ma intensa, tradizione democratica, e aveva raggiunto prima della Seconda Guerra mondiale uno sviluppo industriale tra i più avanzati d´Europa.
La Primavera, da lui tradita «per realismo», inseguirà vent´anni dopo Husak. Nell´89 l´impero è ancora in piedi. E il presidente cecoslovacco, e il segretario generale del partito, Milos Jakes, osservano angosciati i movimenti degli ottantamila soldati sovietici acquartierati nel paese, dove sono arrivati nel 1968 per reprimere l´eretico «socialismo dal volto umano». E per proteggere i normalizzatori. Con chi si schiereranno questa volta? Due anni prima, a Mosca, i dirigenti cecoslovacchi hanno subito una doccia fredda quando un uomo vicino a Mikhail Gorbaciov, il politologo Georgui Shakhnazarov, ex presidente dell´Associazione di scienze politiche, ha letto ai giornalisti il messaggio inviato da Alexander Dubcek (relegato a fare il giardiniere nella Slovacchia natale) in occasione del settantesimo anniversario della Rivoluzione d´Ottobre.
Risentito, Gustav Husakh ha abbandonato Mosca senza nascondere il disappunto.
Poco dopo Oleg Bogomolov, altro consigliere di Gorbaciov, lasciava intendere che l´interpretazione degli avvenimenti cecoslovacchi del ‘68 doveva essere rivista.
Significava che potevano essere studiati come una tentata revisione del socialismo reale, dalla quale si potevano trarre interessanti indicazioni? Era come se il fantasma della Primavera fosse rispuntato a Mosca, e adesso si preparasse a riacciuffare i normalizzatori, con l´aiuto degli stessi sovietici. In quell´occasione, per i comunisti cecoslovacchi ortodossi, i cangianti fondali del teatro praghese furono quelli destinati alle trame angoscianti, da incubo.
C´era di più. I riformatori moscoviti avevano incaricato Marina Silvanskaya Pavlovna, un tempo redattrice della rivista del Kominform edita a Praga, di filmare a Bratislava un´intervista con Alexander Dubcek, allora in libertà sorvegliata. L´intervista doveva essere trasmessa dalla televisione di Leningrado, al fine di avviare una riabilitazione del personaggio. Ma questo non è accaduto. E´ quanto ha raccontato la Pavlovna, nel frattempo morta. C´era poi la risposta di di Gorbaciov a un giornalista: «La differenza tra la perestroika e la primavera di Praga? Soltanto vent´anni». Dopo avere sperato invano in un svolta a Mosca, Husak è uscito di scena, inseguito dalla Primavera tradita. Ma nella Praga di oggi non è coltivato il ricordo degli avvenimenti del ‘68. Alexander Dubcek fu fischiato quando apparve accanto a Vaclav Havel. L´ironia praghese in quell´occasione è diventata sarcasmo. Un rifiuto netto. Il solo di quell´epoca ad essere ricordato, con devozione, è Jan Palach, il ragazzo che si è bruciato in piazza Venceslav.
4.continua

Corriere della Sera 21.9.09
Venezia. Lo scienziato che scoprì la mappatura del genoma è intervenuto alla Conferenza mondiale della Fondazione Cini
L’annuncio di Venter: «Entro l’anno la vita artificiale»
di Mario Pappagallo


La nuova sfida: «Riuscire a catturare la CO2 prodotta per trasformarla in energia»

VENEZIA — «Entro quest’an­no si potrebbe avere la vita artifi­ciale ». Frase ad effetto per l’aper­tura della quinta Conferenza mondiale sul «Futuro della Scien­za ». Nella sede della Fondazione Cini, all’isola di San Giorgio Mag­giore a Venezia. A pronunciarla è uno scienziato che ha abituato il mondo agli effetti speciali delle sue performance: Craig Venter. Nel 2000 effettuò la mappatura del genoma umano e una setti­mana e mezza fa su Science onli­ne ha pubblicato come è riuscito a sintetizzare il cromosoma di un batterio e a portare il Dna da una cellula all’altra.
Chi meglio di lui poteva lancia­re la «Rivoluzione del Dna», te­ma della conferenza. Spiega Ven­ter: «Siamo riusciti a trasferire il software della vita da una cellula all’altra. A cambiare un organi­smo in un altro». Per ora lavora su batteri e organismi unicellula­ri, ma è proprio così che ebbe ini­zio la vita sul pianeta. Un fram­mento di Dna, un cromosoma, un batterio unicellulare… James Watson, che con Francis Crick nel 1962 ebbe il Nobel per la me­dicina proprio per la scoperta del­la struttura della doppia elica del Dna, all’isola di San Giorgio è pre­sente in modo virtuale, con un vi­deo- messaggio. Lui è l’inizio del­l’avventura, Venter uno degli ere­di più brillanti. Continua Venter, affrontando anche il tema del surriscaldamento della Terra: «Stiamo cercando di catturare la CO2 non solo dall’atmosfera ma anche dai grandi produttori di CO2, come le centrali termoelet­triche. Siamo vicini alla possibili­tà di fare in modo che ciò che og­gi produce CO2 non solo non la produca più ma anzi la usi per creare energia». Sempre giocan­do con il Dna.
E i risvolti etici? «Il limite del­la ricerca genetica è un problema sentito — risponde —. Noi abbia­mo commissioni etiche e reviso­ri etici. Ma è anche un problema culturale. In Italia c’è una situa­zione unica, quasi un’implosione perché c’è una paura intellettua­le nei confronti della ricerca di base e della conoscenza. Occorre mutare l’approccio politico, intel­lettuale. Capire la scienza per non averne timori». E chiude: «Siamo a un punto dove i limiti non sono le risorse ma la nostra immaginazione e la capacità di correre e accettare i rischi».
Il passaggio a nove miliardi di persone è la sfida: produrre far­maci, alimenti, acqua, nuovi combustibili…. «Pochi scienziati hanno la cassetta degli attrezzi per fare quello che era impossibi­le finora». Il messaggio del mini­stro dell’Innovazione, Renato Brunetta, questa volta è in linea: «Il settore della genetica, della ge­nomica, della postgenomica de­vono guidare lo sviluppo delle conoscenze e la dinamica stessa della nostra civiltà». E Kathleen Kennedy Townsend, vicepresi­dente della Conferenza, rafforza il concetto: «Bisogna dare fidu­cia agli scienziati, dopo un perio­do buio con Bush abbiamo final­mente un presidente che crede nella scienza e che chiama come consulenti i premi Nobel. È facile propagandare la paura e quando non c’è conoscenza di base è più facile». Umberto Veronesi, Gio­vanni Bazoli e Marco Tronchetti Provera sono lì ad ascoltare. «Pa­dri » della Conferenza con le ri­spettive Fondazioni (Veronesi, Cini, Tronchetti Provera) posso­no considerarsi soddisfatti dei messaggi lanciati al mondo da quest’isola simbolo di cultura ol­tre il tempo e oltre i limiti cultu­rali e scientifici. E domani firme­ranno la Carta di Venezia sul Dna.

Repubblica 21.9.09
Il MART di Rovereto ospita la collezione del Kunstmuseum di Winterthur
Capolavori della modernità dal cubismo all’arte astratta


ROVERETO. Seguendo una abitudine ormai consolidata, il MART di Rovereto ospita questo autunno la collezione d´arte moderna di un museo straniero. Dopo Washington, Vienna e Gerusalemme è la volta della raccolta del Kunstmuseum di Winterthur. ("Capolavori della modernità", fino al prossimo 10 gennaio, mostra e catalogo a cura di Gabriella Belli e Dieter Schwarz).
Quello di Winterthur è un museo particolare, il cui interesse risiede soprattutto nel fatto che è stato in gran parte formato da collezioni private, radunate all´inizio del XX secolo da facoltose famiglie di imprenditori locali. Facevano parte di quella borghesia illuminata che, negli anni che precedettero la Grande Guerra, venendo dalla Mitteleuropa e dalla Russia, frequentava le pionieristiche gallerie parigine. Dietro ai grands boulevards c´erano allora le gallerie di Durand Ruel, di Ambroise Vollard ed in seguito quella di Kahnweiler, i marchands d´art che offrivano agli imprenditori di Pietroburgo e di Berlino e ai banchieri di Basilea, prima dipinti impressionisti, nabis e fauves poi cubisti e Picasso. Il fatto straordinario è che una piccola città come Winterthur sia riuscita a competere con le grandi capitali del denaro e dell´intellighentsia.
Questa circostanza fortuita e fortunata dipese in parte dalla amicizia che legava il pittore svizzero Giovanni Giacometti, la cui fama è principalmente dovuta all´essere padre dello scultore Alberto, ad una famiglia che risiedeva nella cittadina. Nel 1906 Giacometti, dopo avere visto la mostra parigina di Cézanne, ne scrisse un resoconto entusiasta ed entusiasmante, in seguito al quale i primi collezionisti del cantone iniziarono una campagna di acquisti. L´impronta francese della raccolta, almeno per quanto riguarda il periodo a cavallo del secolo, è dovuta ad una sorta di gara di emulazione che coinvolse diverse famiglie svizzere. I legati Hanlohser e Reinhart formano i primi capitoli di una storia dell´arte contemporanea basata su opere scelte con grande coerenza e intelligenza. I Vuillard, i Bonnard, i Marquet di Winterthur sono opere di una qualità eccezionale, testimonianza di scelte che furono anche emotive e personali.
Ai prestiti e ai legati si affiancarono gli acquisti fatti direttamente dal museo, che riguardarono in un primo momento l´arte nazionale. Questo clima particolarmente fervido fu bruscamente interrotto dalle vicende politiche europee tra le due guerre e causò una lunga stagnazione, ma a partire dagli anni Cinquanta, una serrata campagna di acquisti e di donazioni portò la collezione al punto di rappresentare un panorama significativo delle spinte artistiche del Novecento, dal cubismo all´arte astratta. Ci furono momenti di crisi, legati alla decisione di accettare o meno opere informali, l´acquisto di uno straordinario ritratto di Kokoshka scatenò, agli inizi degli anni Cinquanta, una polemica feroce, ma lentamente e metodicamente la collezione crebbe, sempre seguendo un criterio di qualità estrema, fino a diventare uno dei più importanti poli museali svizzeri.
La presenza della famiglia Giacometti, filo rosso che attraversa la storia del museo, portò all´acquisizione della collezione di Alberto, e indirettamente alla presenza di un filone italiano, ricco e particolarmente attento all´arte concettuale del dopoguerra. Da Morandi a Paolini l´arte italiana si contrappone alle ultime ricerche artistiche d´oltreoceano, completando il profilo di un secolo tra i più controversi dell´intera storia dell´arte.
Un itinerario anche se evidentemente non completo, ricchissimo e interessante, proprio per quella qualità, impalpabile e leggera, che traspare da una scelta di opere raffinata, quasi personale, degna di quei signori che, molto tempo fa, sfidarono le convenzioni e finanziarono le prime avanguardie.

Repubblica 21.9.09
Milano. Frank O. Gehry
Triennale. Dal 27 settembre


Da vedere la mostra dedicata alla produzione recente del celebre architetto americano, curata da Germano Celant, responsabile del settore arte e architettura della Triennale. L'esposizione riunisce una selezione dei progetti realizzati da Gehry a partire dall'importante svolta stilistica del 1997 con la progettazione del Guggenheim Museum di Bilbao, considerato un capolavoro della museografia contemporanea. La rassegna propone progetti per la maggior parte inediti. In mostra, filmati, fotografie, disegni, modelli relativi alle varie fasi di elaborazione dei progetti, nel catalogo anche disegni a mano, disegni di studio, elaborazioni in 3D, modelli e fotografie.

Corriere della Sera 21.9.09
Due mostre illustrano il genio visionario e suggeriscono nuovi percorsi al dibattito sul futuro della metropoli
La Milano di Leonardo e la città di oggi che rimuove il passato
Il Codice Atlantico come metafora del possibile
di Carlo Bertelli


Le esposizioni alla Biblioteca Ambrosiana e nella sagrestia del Bramante in Santa Maria delle Grazie

Le nostre «città d’arte» sono il risultato di cure e ripristi­ni, soprattutto dell’Ottocen­to. Bologna fu quasi intera­mente «ripristinata», con gli auspici del vate Giosuè Carducci. A Firenze le facciate di Santa Maria Novella e di Santa Croce risalgono all’Ottocento. Le identità cittadine sono state rinfor­zate da questi massicci programmi di recupero e conservazione. Milano ha avuto tutt’altra storia. Ha demolito una grande chiesa gotica, Santa Maria della Scala, per fare un teatro e un’al­tra chiesa analoga, San Francesco, per una caserma. Milano ha costruito un’altra identità, quella della Torre Ve­lasca e del Pirellone, della Fiera e del­la Galleria. Eppure Milano ha una sto­ria assai lunga, che fa apparire ingiu­stificato l’orgoglio con cui ogni volta ha demolito ciò che di bello avevano realizzato le generazioni precedenti.
L’aspetto di Milano intorno al 1507-1510 lo si coglie in un disegno del Codice Atlantico di Leonardo, esposto in questi giorni alla Biblioteca Ambrosiana. Nel rapido schizzo di Le­onardo, la città si rivela nelle sue emergenze: la grande massa del Duo­mo con accanto l’aguzzo campanile di San Gottardo, il Castello, quasi in asse con il Duomo, e infine il vasto rettan­golo del lazzaretto. Intorno a questi ca­pisaldi si estende il mare dei tetti, argi­nato dal giro delle mura e dei navigli. Il cosiddetto Codice Atlantico fu do­nato alla Biblioteca Ambrosiana nel 1636 dal conte Galeazzo Arconati. Si componeva di fogli e foglietti sparsi, incollati in modo da formare un atlan­te. Anni or sono, la Biblioteca ha deci­so di separare i singoli fogli e di pre­sentarli ciascuno in un apposito pas­se- partout . Il programma è ora di alle­stire una serie di mostre che riuniran­no i disegni per tema. Questa volta Pie­tro C. Marani presenta una selezione di 45 fogli con disegni relativi a fortez­ze, bastioni e cannoni. Le sedi sono due: quella storica della biblioteca e quella, altamente suggestiva, della sa­grestia di Santa Maria delle Grazie.
La visita di entrambe le mostre è emozionante. All’Ambrosiana, i dise­gni si trovano alla fine di un labirinto di sorprese, tra le quali spiccano i co­dici arabi ed ebraici, il cartone di Raf­faello per la «Scuola d’Atene» e altri capolavori da Tiziano a Caravaggio. Lo scrigno dell’Ambrosiana è davvero inesauribile.
Una curiosa sala precede l’ingresso solenne all’esposizione. Il «Musico» di Leonardo vi si trova in una disinvol­ta compagnia che comprende un Bol­traffio che tale non è, un Giampietri­no che non è Giampietrino, anche se in compenso vi si può ammirare un grande affresco di Bernardino Luini solitamente invisibile al pubblico.
Gli studi di Leonardo, che s’inseguo­no da una sede all’altra (a un costo piuttosto elevato per il visitatore di en­trambe) non si riferiscono tutti al sog­giorno milanese. Studi condotti in Francia, al castello di Roromantin, si accompagnano ad altri condotti a Piombino o nella Firenze di Pier Sode­rini in concomitanza con la composi­zione della «Battaglia d’Anghiari». Stu­di elaborati, veri quadri eseguiti per di­mostrare la fattibilità d’un progetto, s’incontrano con altri nei quali l’entu­siasmo del pittore sovrasta l’impegno dell’ingegnere. Leonardo non può di­segnare un fossato senza arrestarsi a contemplare il movimento delle onde. All’acuta osservazione del reale su­bentrano i liberi voli dell’utopia, ma inseguita con un rigore logico che af­fascina in ogni minimo dettaglio. Mai più come in questi studi di macchine militari e fortificazioni Leonardo ci fa avvertire di essere giunto a un limite storico. Più in là, con le risorse energe­tiche disponibili del tempo — forza muscolare di uomini e animali, ener­gia dell’acqua e delle esplosioni di pol­vere da sparo, energia trattenuta da una molla — non si va. E tuttavia Leo­nardo batte alla porta del futuro e in­venta difese inespugnabili, baluardi cosparsi di punte come pelli di mostri preistorici, micidiali mitraglie, percor­si subacquei per improvvise imbosca­te, carri piramidali che sospingono ponti coperti al sommo delle mura av­versarie, cascate di proiettili lanciate dai mortai oltre le mura, collocazione delle mine che faranno crollare formi­dabili fortificazioni. Leonardo dise­gna il romanzo della guerra, così co­me altre volte, in altri disegni, scrive quello della terra nel suo formarsi e nel suo disgregarsi. Le proiezioni dei tiri disegnano geometrici caleidosco­pi e le ipotesi dei tragitti dei proiettili ridisegnano le sagome delle scarpate. Leonardo osserva, esperimenta, ritor­na ogni volta con nuove idee sullo stesso tema: rivellini, fossati, ostacoli, casematte. Oppure bombarde, mitra­glie, cannoni. A volte le architetture militari — torri, castelli — sono dise­gnate con la precisione di congegni meccanici, speroni tondeggianti affo­gano nelle murature, scale ellissoidali salgono negli interni delle torri, men­tre i tetti si fanno tondeggianti affin­ché i proiettili che le colpiscono scivo­lino limitando il danno.
In questi fogli, dove appunti veloci si sommano a disegni più elaborati, dove gli spunti s’inseguono e si elido­no in un processo continuo, sembra di ascoltare la voce di Leonardo a col­loquio ora con Ludovico il Moro, ora con Francesco I o con il Valentino, ma anche con i grandi geni dell’epoca, co­me il quasi conterraneo Francesco di Giorgio Martini. È qui un Leonardo pronto a verificare le esperienze dei condottieri, ad ascoltare i racconti dei prigionieri sfuggiti ai Turchi, o i com­menti di chi, dal trattato di Valturio, è risalito alle fonti dell’antichità.
È Milano, questo sconfinato giro di Leonardo per i porti e i forti d’Italia e di Francia? Attraverso le fonderie do­ve si fabbricavano cannoni, nei cantie­ri delle fortezze in attesa dell’assalto nemico? Nelle ricognizioni su baluar­di, fossati e torrioni? Credo di sì. Lo credo se penso alle generazioni che costruirono Milano come città euro­pea dell’industria e della ricerca. Era quella stessa Milano che nel Quattro­cento aveva aperto le porte a due «fo­restieri » come Leonardo e Bramante.
Uscendo dall’Ambrosiana, l’abban­dono in cui la città si trova stringe il cuore. Ecco, a pochi passi da lì, il pa­lazzo Stampa di Soncino. È un’opera insigne di Cristoforo Lombardo, conti­nuatore di Leonardo e Bramante. È sta­to una reggia, ma oggi è trattato come un qualunque edificio anonimo di pe­riferia, con unico fine l’utilizzo com­merciale. Ed è un esempio tra i tanti. La ricostruzione della città, dopo la guerra, aveva avuto scarsa attenzione al passato, ma aveva mirato al futuro. Oggi invece colpisce, più che un pro­gramma deliberato, la noncuranza. Le poche testimonianze superstiti sono trascurate e maltrattate, a incomincia­re dai resti del palazzo imperiale in via Brisa. Milano rimuove la memoria del passato, ma in un momento in cui non è affatto sicuro il tracciato del fu­turo e quando forse avrebbe senso an­che guardare indietro, per meglio ca­pire il presente.

Corriere della Sera 21.9.09
Interrogativi sul concetto di persona
La radice biblica dei diritti umani
di Alberto Melloni


Dai medesimi passi delle Scritture possono discendere conseguenze di segno opposto

Il linguaggio dei diritti è quello al quale da oltre due secoli è affidato il compito di rendere vivi­bile la vita. Ma come ha ben spiegato Marcello Flores nel­la sua Storia dei diritti umani (Il Mulino, pp. 376, € 25), pro­prio i diritti — inclusi quelli più supremi — hanno cammi­nato per tentative approssi­mazioni, nelle quali tutte le culture, tutte le ideologie, tut­te le fedi hanno sperimentato fallimenti e ritardi. Ciò è così vero che più d’uno oggi ritie­ne che di quei diritti sia sag­gio godersi la pratica, quando c’è; o chiederne il rispetto, do­ve mancano; senza interrogar­si troppo sui loro fondamen­ti, che sono meno rilevanti dei loro esiti.
Tuttavia, anche se si guar­da ai diritti col più pragmati­co disincanto, la discussione si riaccende quando si deve dire chi ne è titolare. C’è chi ripropone la famosa tesi di Si­mone Weil secondo cui «ciò che è sacro, ben lungi dall’es­sere la persona, è ciò che in un essere umano è imperso­nale ». E c’è chi ricorda che il personalismo è stato lo stru­mento col quale una grande cultura non proprio incline a riconoscere i diritti dell’uo­mo come fattore di progresso civile e morale come quella cattolica ha imparato a fidarsi della democrazia, a battersi per essa. Chi vuole assapora­re questa differenza potrà ri­leggere Roberto Esposito nel recente volume della fonda­zione Italianieuropei Religio­ne e democrazia (Solaris, pp. 200), a cura di Massimo Adi­nolfi e Alfredo D’Attorre, o ascoltare su Radio Radicale come Valerio Onida ha pre­sentato il volume di Lucia Ca­stellano e Donatella Stasio, Di­ritti e castighi. Storie di uma­nità cancellata in carcere (Il Saggiatore, pp. 292, € 15).
In realtà sia il linguaggio dell’umano che quello della persona non sono altro che interpretazioni di una convin­zione delle Scritture ebraiche e cristiane e (attraverso un ha­dith del Profeta) della tradi­zione islamica: quella espres­sa dall’affermazione sull’uo­mo creato nella immagine e somiglianza di Dio. Quel pas­so è già oggetto di un lavoro ermeneutico dentro lo stesso libro della Genesi: come im­magine l’uomo infatti eserci­ta il potere del rappresentato, ma la complementarietà fra i sessi («maschio e femmina li creò») ridimensiona quella immagine. Il Nuovo Testa­mento la rilegge nel Cristo, lui sì immagine del Dio invisi­bile, aprendo la via ad una in­terpretazione infinita.
Interpretazione che dall’uo­mo creato Ad imaginem Dei (lo ha mostrato un recente convegno con questo titolo te­nuto a Rossena per iniziativa di Pier Cesare Bori) fa discen­dere conseguenze del tutto di­verse. Affermando quella, in­fatti, si può dar forza ad ogni integralismo religioso che pretende di poter imporre al­l’uomo gli obblighi conse­guenti a questa sua dignità o condizione. Al contrario si può far derivare da quella tesi la più intransigente difesa del­la inviolabilità della coscien­za, della vita, del corpo. Può essere la base di un maschili­smo spinto oppure, come ha insegnato Karen Börresen, il detonatore di una rivendica­zione di genere irresistibile. Si studia nella scuola di Sala­manca del secolo XVI come criterio per mettere in discus­sione la stessa politica di colo­nizzazione delle Americhe, ovvero per legittimare la schiavitù di chi viene conside­rato sottoumano. E per venire alla differenza notata all’ini­zio, essa fonda la convinzione che quella creata è la «perso­na » (categoria che può essere attaccata, a patto di sapere che senza quella unità la fede cristiana perderebbe la sua cristologia) e insieme la criti­ca ad un personalismo fatto di diritto romano più che di sapienza biblica.
La storia dell’interpretazio­ne della creazione dell’uomo ad immagine di Dio, dunque, non distingue il falso dal ve­ro, ma il «vero» di oggi dal «più vero» di domani e dal «parimenti vero» che li ab­braccia. Parla di come i mon­di religiosi — quelli monotei­sti in ispecie — sono stati co­stretti a pensare l’alterità. Di come hanno trovato la via del­le proprie grandi riforme inte­riori: cioè rovistando in un grande magazzino ermeneuti­co nel quale ogni riassetto avrebbe effetti devastanti; un grande atelier d’artista non ha bisogno di essere riordina­to alla ricerca di una coerenza appiattita, ma di essere ascol­tato per sentire le potenziali­tà di universi spirituali. In at­tesa che il tempo e la storia aiutino a trovare in quel teso­ro le cose antiche e le cose (apparentemente) nuove che possono dare respiro al biso­gno di convivere umanamen­te, quando questo bisogno, dopo le catastrofi, si manife­sta; o nell’attenderle si difen­de dal pensiero della loro im­minenza.

Liberazione 20.9.09
Roma, Milano, Vicenza: le manifestazioni di ieri contro la guerra e il razzismo Pace e informazione possono andare insieme in piazza
di Checchino Antonini


P iù che dire che hanno manifestato, si potrebbe usare il riflessivo - si sono manifestate - per indicare ciò che stavano facendo, ieri pomeriggio a Roma, quattro-cinquecento persone che hanno risposto ai vari appelli su carta, web ed etere e si sono ritrovate a Piazza Navona, talvolta allungando il giro per Piazza del Popolo, per colpa dell'involontario "depistaggio" di uno dei quotidiani della sinistra pacifista che aveva creduto invariato il luogo del raduno dopo la s/convocazione dell'attesissima manifestazione per la libertà d'informazione causa lutto nazionale per la strage di parà in Afghanistan. Una motivazione che ha lasciato perplessa una fetta ben più ampia di lettori, internauti, attivisti di quanti si siano manifestati tra le Cinque lune e la Fontana dei Quattro Fiumi. Perché la confluenza è stata frutto di un tam-tam improvvisato da piccoli giornali (Terra, Left, Liberazione, Erre), piccole radio (Città Aperta, Onda rossa), piccoli siti (Pdci Tv) e piccolissimi blog o gruppi di facebook o catene di posta elettronica. Come quella che ha portato alcune giornaliste di Trento e donne di Bologna, Napoli, Milano, turiste di Città del Capo in visita in Italia. E quando una di loro spiega, parlando al megafono, il forte dissenso con la Fnsi sarà circondata dagli applausi della piccola folla. «Il profondo rispetto, che doveva essere esternato non solo verso i nostri morti ma anche verso i tanti civili vittime di eserciti più o meno regolari, avrebbe dovuto indurre il sindacato dei giornalisti a riconfermare la manifestazione con forza perché è proprio nelle zone di guerra che l'informazione paga il prezzo più alto». In giro ci sono pochi volti noti e molti signor nessuno magari con una bandiera rossa dei tanti partiti della diaspora comunista (Prc, Pdci, Pcl, Sinistra critica ecc). Tutti hanno una copia di qualche giornale "pacifico" in sintonia con lo slogan del tam-tam: "Portiamo in piazza l'informazione di pace". Con un pizzico di tempo in più si sarebbe potuto intercettare un settore ancora più ampio di scontento per il rinvio della scadenza Fnsi. A Sabina Guzzanti, che non era in piazza, l'idea di andare lo stesso a piazza del popolo era sembrata «ottima». «L'Afghanistan è una ragione in più per manifestare - ha scritto sul suo blog - è il simbolo della manipolazione dell'informazione grazie a cui sono stati violati i trattati internazionali la nostra costituzione e la vita di centinaia di migliaia di persone. Quelli che sostenevano a spada tratta che le guerre contro l'Islam fossero giuste intelligenti sono stati complici di un massacro e non hanno nemmeno mai detto: scusate ci eravamo sbagliati. vi ricordate quante cazzate abbiamo detto?».
«Che il 3 ottobre (la data scelta dalla Fnsi per la manifestazione) viva quello che s'è voluto togliere oggi - dice in piazza Rosy Rinaldi, della segreteria nazionale Prc - la pace non resti sullo sfondo. Il conformismo della stampa cancella spesso pezzi di società». «E l'Afghanistan deve diventare una grande questione democratica - aggiunge Alfio Nicotra, responsabile movimenti di Rifondazione) - missione impossibile con un parlamento ridotto a caserma e con la federazione della stampa che contribuisce ai corsi per giornalisti embedded». Come tutti, in piazza Navona, anche Citto Maselli coglie il dato della «partecipazione inaspettata» ma che è solo un primo passo contro «questa atmosfera repressiva impressionante» che al regista ricorda il clima impresso da Scelba e Andreotti negli anni '50. Per Marco Ferrando «Il Pd ha contribuito a questa revoca clamorosa per tentare di scavalcare Berlusconi sul terreno della fedeltà atlantica». E Franco Turigliatto, giunto da Torino, incassa senz'altro l'autocritica di chi, a sinistra, aveva capitolato di fronte alla guerra ma avverte: «Oggi è tutto più difficile, quella banalizzazione della guerra ha segnato la sorte del movimento pacifista. Dal punto di vista strategico siamo all'anno zero».
Ai numeri romani, senz'altro, vanno aggiunte le 1500 persone che, venerdì sera, hanno partecipato a Vicenza alla fiaccolata convocata contro l'ipotesi della Prefettura di impedire i cortei nel centro cittadino, ma diventata anche la prima risposta alle continue stragi in Afghanistan. E la sorpresa è stata la presenza di alcuni soldati Usa della caserma Ederle che, nonostante i pericoli disciplinari che corrono, hanno voluto unirsi ai vicentini.
«E' tempo - hanno detto al microfono - di riportare tutti a casa. E il nostro governo deve rinunciare alla nuova base al Dal Molin». E, ancora, le persone che hanno presidiato la Prefettura di Pisa o i Gc che hanno volantinato a Palermo per richiedere il ritiro immediato dall'Afghanistan.
E, soprattutto, le diecimila persone che hanno sfilato nel cuore di Milano, con centri sociali, collettivi, associazioni, comunità migranti, per non dimenticare Abba e fermare il razzismo. L'orrore per la guerra ha fatto irruzione anche qui. Dietro lo striscione di testa - "Abba vive, razzismo stop, la paura genera mostri, la vostra sicurezza uccide la libertà di tutti" - molti gli stendardi no war. Quando il corteo è arrivato in Piazza Fontana un centinaio di persone si è materializzato in Piazzale Marino, con uno striscione "Contro ogni razzismo e fascismo, Dax e Abba nel cuore", nonostante il divieto della questura di raggiungere il comune di Milano. Peccato che i giornali normali noteranno solo la squallida scritta "Meno sei" lasciata su un muro da qualche idiota.

Liberazione 20.9.09
Petizione per il diritto di scelta del trattamento nelle pratiche abortive A Milano si raccolgono firme per l'uso della Ru486
di Eleonora Cirant


Giocano d'anticipo i promotori e le promotrici della petizione per il diritto di scelta del trattamento sanitario nelle pratiche abortive, che all'Ospedale San Paolo di Milano invitano l'azienda sanitaria ad introdurre il metodo farmacologico accanto a quello chirurgico. L'Agenzia italiana del Farmaco ha infatti approvato in luglio la commercializzazione della pillola RU486. La sua effettiva disponibilità negli ospedali, dicono i promotori, si inscrive nel principio della scelta di un determinato trattamento sanitario, diritto garantito dall'art. 32 della Costituzione. Le organizzatrici e dagli organizzatori di questa iniziativa di sensibilizzazione (Sdl intercategoriale e HSP, Usi San Paolo-Sindacato autogestito, CGIL fp HSP, RdB-CUB, Donne per una difesa del lavoro delle donne, Arci Metromondo, Sinistraa Critica, PRC) precisano che "l'interruzione di gravidanza farmacologica debba praticarsi, a seconda dei casi, in base alle valutazioni effettuate dal personale medico". "Chiediamo che il protocollo per il metodo farmacologico sia sicuro per le pazienti, ma non penalizzante verso chi lo sceglie - spiega Margherita Napoletano, dell'Sdl. - Attualmente l'aborto chirurgico viene fatto in day hospital. Anche l'aborto farmacologico dovrebbe essere un'opla perazione ambulatoriale, mentre temiamo l'imposizione del ricovero per tre giorni. Noi pensiamo che l'eventualità del ricovero debba stabilirla il medico, insieme alla donna, caso per caso. Come succede negli altri Paesi europei, dove l'organizzazione sanitaria permette un attento monitoraggio delle condizioni della donna anche in assenza di obbligo di ricovero ospedaliero". Luca Grignani, SdL e Rsu Ospedale San Paolo, specifica che "l'iniziativa ha anche lo scopo di far sapere che esiste la possibilità dell'aborto farmacologico, mentre attualmente la metodica non è neppure proposta alle donne. Una informazione completa e tempestiva sarebbe necessaria, dati i tempi ristretti entro cui è permesso utilizzare la RU486". Secondo le regole stabilite dall'Aifa, infatti, il farmaco può essere assunto entro la settima settimana dall'inizio della gravidanza (la nona nel resto d'Europa e nella scheda tecnica dell'Emea, l'Agenzia europea del farmaco). "Presenteremo all'azienda le firme raccolte, chiedendo la disponibilità a discutere con gli operatori sulle procedure". Tra i promotori della petizione di ginecologi però non ce ne sono, "anche a causa dell'orientamento antiabortista della direzione ospedaliera", nota Grignani. Al San Paolo sono obiettori di coscienza l'80% circa dei ginecologi e degli anestesisti, secondo quanto riferito da Caterina Tassone, Cgil Ospedale San Paolo. Gli organizzatori stanno comunque cercando di contattare il personale che è più a diretto contatto con le donne che interrompono la gravidanza: ginecologhe e ginecologi, ostetriche, anestesisti.
Al banchetto davanti all'Ospedale hanno già firmato, nell'arco di una decina di ore, più di 500 persone. Si fermano in particolare le donne. Quelle che hanno visto più stagioni commentano: "abbiamo lottato tanto per avere i nostri diritti, ed eccoci ancora qui...". Qualcuna ricorda il proprio aborto in clandestinità negli anni in cui abortire era reato: "firmo perché nessuna donna dovrebbe vivere una cosa del genere, per nessun motivo".
Una raccolta di firme si sta organizzando anche a Lodi (Asl e ospedale), all'ospedale di Melegano e di Garbagnate per la provincia di Milano, all'Asl di Varese, all'Inps di Milano, all'Arcimetromondo, all'Università statale e nelle piazze. "Entro fine mese concludiamo la raccolta delle firme - dice Napoletano. - Organizzeremo un'assemblea pubblica e stiamo verificando la possibilità di una interrogazione in Regione Lombardia. Stiamo anche prendendo in considerazione le vie legali".

Liberazione 20.9.09
Storia di ordinaria persecuzione e di quotidiana repressione terminata con una tragica morte
Franco era il "maestro più alto del mondo"
di Daniele Nalbone


Quella di Francesco Mastrogiovanni, per le forze dell'ordine "noto anarchico", per i suoi alunni "il maestro più alto del mondo", è una storia di ordinaria persecuzione e di quotidiana repressione.
Una vita fatta di mille difficoltà, di tragedie messe alle spalle ma che lasciano un segno indelebile nella testa. Un'esistenza precaria fino all'ultimo giorno di libertà. Una storia di quelle che non vorresti mai raccontare ma che, come ci spiega il suo caro amico e compagno, il professore-editore anarchico Giuseppe Galzerano, «devi farlo, per rendere giustizia a Franco e far si che quanto gli è accaduto non si ripeta a nessun altro».
Liberazione è stato il primo giornale nazionale a denunciare la morte di Franco, deceduto nel reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania alle 7,20 di martedì 4 agosto. Pochi giorni dopo una mail inviata dal professor Galzerano ci ha fatto capire che qualcosa, in quella morte, non era chiara. Franco è stato ricoverato il 31 luglio per un trattamento sanitario obbligatorio. In quattro giorni è passato dalla calda spiaggia di San Mauro Cilento, dove stava trascorrendo le vacanze, al freddo marmo dell'obitorio dell'ospedale di Vallo della Lucania. Arresto cardiaco causato da un edema polmonare, hanno detto i medici. Ma c'è qualcosa di più che colpisce la nostra attenzione: Francesco Mastrogiovanni era salito agli onori della cronaca nei primi anni settanta per la morte di Carlo Falvella, giovane neofascista, vicepresidente del Fuan salernitano, ferito a morte durante l'aggressione dell'anarchico Giovanni Marini. Per capire in quale scenario sia morto il "maestro più alto del mondo", non possiamo fare altro che partire alla volta del Cilento per conoscere i parenti e i compagni. Il 9 settembre, nello splendido scenario di Castellabate è in programma la rassegna "Finisterre Plus", video, musica e performance dedicata a William Burroughs. "La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili". Un titolo, una frase, che spiega perché a Burroughs è stato accostato il racconto degli ultimi giorni di vita di Francesco Mastrogiovanni.
Ombra e violenza. Un resoconto dettagliato, quello fatto dal professor Galzerano e dall'ex sindaco di Montecorice, Giuseppe Tarallo, amico e compagno di Franco, che sembra costruito appositamente sullo sfondo persecutorio di una delle opere dello scrittore americano. Purtroppo, però, questa volta siamo al cospetto di una "storia vera" iniziata nel lontano 7 luglio 1972. Insieme a Giovanni Marini e Gennaro Scariati, Franco stava passeggiando sul lungomare di Salerno. Quel giorno era pieno di fascisti che da giorni cercavano di provocare Marini per avere la "scusa" di un'aggressione. Le sue indagini, all'epoca si diceva "controinformazione", sullo strano incidente stradale che il 27 settembre 1970 aveva provocato la morte sulla Roma-Napoli di cinque giovani anarchici calabresi, nei pressi di Ferentino, davano fastidio. Annalisa Borth, Giovanni Aricò, Angelo Casile, Francesco Scordo e Luigi Lo Celso si stavano recando a Roma per consegnare ai compagni della capitale i risultati di una loro inchiesta sulle stragi fasciste che avevano iniziato a insanguinare il paese, in particolare sul deragliamento del "Treno del Sole" Palermo-Milano del 22 luglio del 1970, nei pressi della stazione di Gioia Tauro. Giovanni Marini aveva scoperto che alla guida dell'autotreno, che procedeva a fari spenti, c'era un camionista con simpatie fasciste e che lo scontro avvenne precisamente all'altezza di una villa di Valerio Borghese. Erano iniziati a insinuarsi i primi dubbi sulla casualità dell'episodio. «Da allora su di lui incombeva una sentenza di morte alla quale sarebbe sopravvissuto per quasi trent'anni», spiega oggi il professor Galzerano. Giovanni, Franco e Gennaro si stavano recando a teatro. Ridiscendendo via Velia si trovano davanti a due giovani missini: Carlo Falvella e Giovanni Alflinito armati di lame. Franco accelera il passo per andare a parlare con loro. Dai racconti e dalle testimonianze del processo emerge come tentò di far da paciere ma, per tutta risposta, ricevette una coltellata ad una coscia da Alflinito e stramazzò a terra. I due compagni intervennero immediatamente e, nella rissa che ne seguì, Giovanni riuscì a disarmare Falvella ferendolo a morte con la sua stessa arma. Si costituì il giorno stesso mentre Franco venne trasportato in ospedale. Gennaro, invece, sarà immediatamente scarcerato perché minorenne. Da quel giorno il caso Marini finì su tutti i giornali: Giovanni era, per tutti, un mostro. «Per punizione», racconta il professor Galzerano, «peregrinava incessantemente da un carcere all'altro e a Caltanissetta venne rinchiuso in una cella senza luce da dove non smise mai di denunciare le aberranti condizioni di vita riservate ai carcerati». Per motivi di ordine pubblico il processo venne spostato da Salerno proprio a Vallo della Lucania. Marini viene condannato in primo grado a dodici anni (pena poi ridotta a nove in appello), Mastrogiovanni viene assolto ma allora per lui inizierà l'inferno. Un inferno in camicia nera fatto di minacce, telefonate minatorie, continue ritorsioni che lo porteranno ad emigrare al nord. A metà degli anni ottanta si trasferisce a Sarnico, sul lago di Iseo, in provincia di Bergamo, dove, per quindici anni, insegna nelle scuole elementari della zona. Ma la sua fama di "pericoloso anarchico" lo accompagnerà anche lassù. Il merito, questa volta, è delle forze dell'ordine che, con una nota, comunicano ai colleghi bergamaschi di non perderlo d'occhio. Inizia, così, una seconda fase di persecuzioni: questa volta condotta della forze dell'ordine.Alla fine degli anni novanta decide di fare ritorno a Castelnuovo Cilento.
Agli agenti del paese non sembra vero: ora avranno di che divertirsi. Per Franco la divisa diventa un incubo quotidiano che si trasforma in realtà il 5 ottobre 1999. Quel giorno per lui scattano le manette. Tutto inizia dall'ennesima, immotivata provocazione. Una multa per divieto di sosta a Vallo Scalo. Franco compie l'errore di mandare a quel paese un agente. Immediato l'arresto. Immancabili le botte nel commissariato. L'accusa è pesante: resistenza aggravata e continua nonché lesioni personali. Ovviamente Franco risponde con una controdenuncia per arresto illegale, lesioni personali, abuso di autorità e calunnia. Per lui scattano gli arresti domiciliari presso l'abitazione familiare, a Castelnuovo Cilento. Una beffa: il compito di controllarne l'osservanza viene affidato agli stessi carabinieri denunciati. Inizia il tormento al punto che diverse volte chiederà di tornare in carcere. Ma quando tutto sembra volgere per il meglio con il proscioglimento da ogni accusa, per Franco inizia la terza fase di persecuzione: quella dello Stato. Alla fine venti anni di angherie, soprusi, minacce, botte, lasciano il segno. Psicologicamente fragile, Franco si sente perseguitato. Ogni volta che incrocia una divisa, entra nel panico. Per due volte il sindaco di Castelnuovo firma la richiesta per un trattamento sanitario obbligatorio. Esperienza traumatica che Franco riesce a superare continuando ad insegnare. Adora i bambini e i bambini adorano questo maestro altissimo. Le uniche proteste dei genitori sono perché è poco severo. Di certo non una minaccia. Ma così non la pensa il sindaco di Pollica Acciaroli, Giuseppe Vassallo che ha formati contro di lui il Tso fatale. Il 30 luglio Franco si trovava nella località turistica cilentana quando, per l'ennesima volta, viene inseguito dai carabinieri. In preda al panico scappa. La pattuglia desiste. Il maestro trova rifugio nel bungalow del campeggio Club Costa Cilento. Un luogo tranquillo, per lui. Circondato da amici e persone che lo stimano come la signora Licia, la proprietaria del camping, che, di tanto in tanto, gli lascia i nipotini. Ma la mattina seguente l'incubo delle forze dell'ordine ritorna, prepotente. Arrivano sul posto una quindicina di carabinieri, una pattuglia dei vigili urbani, un medico dell'ospedale di Vallo della Lucania. Voglio portare Franco in ospedale. Il maestro scappa dalla finestra, si getta in mare, a nuoto raggiunge una secca. Per oltre due ore resta in acqua. Sopraggiunge anche una motovedetta della guardia costiera per avvertire i bagnanti che "è in corso una caccia all'uomo". Stremato, si arrende. Raggiunge la spiaggia, chiede una sigaretta, si fa una doccia. E' tranquillo. Consapevole di ciò che lo aspetta. Eppure, gli vengono fatte tre iniezioni. Sale sull'ambulanza e il suo ultimo messaggio è per la signora Licia. «Se mi portano a Vallo, non ne esco vivo». E così sarà. Dopo quattro giorni di Tso muore per un infarto causato da edema polmonare. Una morte naturale, "normale", dicono dall'ospedale. Ma dall'autopsia emergono particolari inquietanti. Franco aveva diversi lividi sul corpo e segni di lacci su polsi e caviglie. Era stato legato per tutti e quattro i giorni di Tso, anche se sulla cartella clinica non c'è traccia della contenzione. Ci rechiamo all'ospedale di Vallo per parlare con i medici. Nessuno apre bocca. Nessuno ha visto niente, anche se quattordici, fra medici e infermieri, sono tutt'ora sotto inchiesta. Tutti tacciono anche quando facciamo notare che le sbarre alle finestre e le porte del reparto chiuse a chiave non sono "normali". Chiediamo di parlare con i vertici dell'ospedale per avere dei chiarimenti che, puntualmente, non arrivano. «Quello che succede di sopra, non lo so» ci spiega, come se niente fosse, il vicedirettore. Ogni nostra domanda è un secco «no comment». Neanche quando domandiamo se avesse avuto notizia di una rissa al piano di sopra, cosa che spiegherebbe la contenzione (anche se non protratta per quattro giorni) e i lividi. «Quello che succede di sopra...». Certo, i dirigenti dell'ospedale non lo sanno. Rassicurante. Sta di fatto che un maestro elementare, che ha vissuto tutta la sua vita di precario insegnante, perseguitato da fascisti, forze dell'ordine, amministratori locali in quanto "noto e pericoloso anarchico", in poche ore è passato dalla calda spiaggia di Acciaroli al freddo marmo dell'obitorio dell'ospedale di Vallo della Lucania. Tutto per un trattamento sanitario obbligatorio deciso da un sindaco che non voleva avere problemi in una località che ha appena ottenuto la bandiera blu d'Europa e millanta di essere il paese di Ernest Hemingway. Come chiosa il professor Galzerano, «un falso storico senza precedenti».

In beffa all’articolo 3 della Costituzione, gli insegnanti di religione cattolica sono “più uguali” degli altri
PRIVILEGI CLERICALI
“Il riconoscimento degli scatti di anzianità e gli insegnanti di religione”


Non crediamo di dire nulla di nuovo ricordando che la Chiesa cattolica gode attualmente in Italia di una serie di benefici che la collocano in una posizione di privilegio.
Richiamando il concetto di privilegio intendiamo riferirci al suo valore tecnico giuridico di ius singulare, norma speciale e più favorevole rispetto a quella generale, prezzo che l’ordinamento italiano paga agli articoli 7 ed 8 della Costituzione: la normativa in materia religiosa vive nel segno dello ius singulare, negazione del principio di eguaglianza, a tutto favore della Chiesa cattolica e dei suoi accoliti.
Fra queste norme singolari, ne abbiamo scovata una bella serie tutte a favore degli insegnati della religione cattolica, categoria sempre ampiamente favorita dalla legislazione italiana, anche in epoche molto recenti. Ma i lettori non si preoccupino, non vogliamo tediarli con una tirata polemica sulla legge n.186 del 2003, che ha riconosciuto a questi docenti l’immissione in ruolo dopo un concorso farsa, quanto soffermarci su un aspetto apparentemente minore.
Semplificando al massimo il quadro normativo, si può dire che il trattamento economico del personale di ruolo della scuola dipenda - vero unicum nel pubblico impiego - dall’anzianità di servizio, che viene accertata mediante la cd. “ricostruzione di carriera”, ovverosia “sommando” i vari periodi di servizio di ruolo e di pre-ruolo prestato ed assegnando così il docente alla fascia retributiva corrispondente.
Un docente ordinario attualmente ha diritto ad ottenere la ricostruzione di carriera solo dopo la conferma in ruolo, per cui se non é di ruolo, se é precario insomma, non gode dei benefici economici che ne derivano: continuerà a percepire lo stipendio base anche dopo dieci anni di precariato.
L’articolo 53, comma 4, della legge n.312/80 contempla un’unica eccezione, il docente di religione, che può chiedere la ricostruzione di carriera, nella scuola secondaria, dopo 4 anni di servizio prestato come incaricato.
In sostanza, dopo 4 anni un docente di religione viene comunque a godere dello stesso trattamento di un docente di ruolo, cioè si viene a trovare in una situazione che un ordinario precario non può ottenere neanche dopo 20 anni!
L’introduzione della legge n.186/03, che ha istituito i ruoli degli insegnanti di religione cattolica, ha poi aggravato una situazione già chiaramente paradossale. Attualmente, infatti, i docenti di religione possono chiedere la ricostruzione di carriera sia mentre sono precari, in base ad una norma di privilegio (art.53 u.c. legge n.312/80), sia al momento della conferma in ruolo, in base alla norma generale (combinato disposto dell’art.485 d.lgs.297/94 ed art.1 legge n.186/03).
Ma non finisce qui.
L’articolo 53, comma 3 della medesima legge 312/80 riconosce a tutti i docenti non di ruolo, che abbiano ricevuto un incarico, “escluse le supplenze”, il diritto a scatti biennali del 2,5% sullo stipendio base. É un riconoscimento dell’anzianità di servizio meno rilevante rispetto a quella del comma 4, ma comunque significativo: dopo quattro anni di servizio la differenza stipendiale è del 10%! Ed inoltre ha portata generale.
Ciònonostante il Ministero dell’Istruzione ha dato della norma un’interpretazione capziosa che l’ha resa applicabile ai soli docenti di religione, facendo leva sulla formula “escluse le supplenze”
Per “sistemare” i precari ordinari, Il Monistero interpreta letteralmente il dato normativo: l’articolo 15 della legge n.270/82 ha, infatti, trasformato in supplenze annuali gli incarichi annuali ai docenti non di ruolo, per cui da allora tutti i precari sono letteralmente supplenti e come tali espressamente esclusi dal beneficio, in base all’articolo 53, comma 3. Per “salvare” i precari di religione, invece, la circolare ministeriale n.71 del 1987 interpreta l’articolo 2.5 dell’Intesa sull’insegnamento della religione cattolica, recepita dal DPR n.721/85, nel senso che gli insegnanti di religione ricevano un incarico annuale, sicché non sono supplenti!
Insomma: stretta interpretazione letterale per colpire i precari ordinari, funambolismo interpretativo per i docenti di religione, che così godono di una posizione di privilegio anche allorché appartengano alla categoria più bistrattata del pubblico impiego, i precari della scuola.
Il dato interessante è che tale risultato palesemente ingiusto è stato determinato, più ancora che dagli interventi del legislatore italiano, dai sofismi interpretativi del Ministero dell’Istruzione, ancora una volta “più papista del Papa”. Legislativo ed Esecutivo hanno congiurato nel generare ingiustizia…ma per fortuna ancora “c’è un giudice a Berlino”…anzi, a Tivoli!
Il Tribunale di Tivoli, con sentenza dell’11.3.09, ha riconosciuto ad una docente non di ruolo il diritto ai benefici economici di cui all’articolo 53, comma 3. Il succo è di una chiarezza lampante: l’unica interpretazione della norma conforme ai principi della Costituzione e dell’ordinamento dell’Unione Europea é quella che non ne limita l’applicazione ai soli docenti di religione.
In un paese normale la sentenza sarebbe stata utilizzata dal sindacato per alimentare un contenzioso di massa …Questo in un paese normale, ma siamo in Italia e l’iniziativa è stata assunta dall’associazione anticlericale.net e dal suo segretario, l’onorevole Maurizio Turco. Il sindacato lamenta a parole la situazione dei precari, ma è evidentemente anch’esso erede del voto togliattiano all’articolo 7!
Consigliamo a tutti i precari di chiedere l’applicazione degli scatti del 2,5% per ogni biennio utilizzando i preziosi fac simile a disposizione sul sito dell’associazione anticlericale.net, che ha promosso la causa o quello dell’avv. Claudio Zaza ( http://www.claudiozaza.it/scatti-stipendiali.html), che ha seguito la vicenda.