mercoledì 23 settembre 2009

l’Unità 23.9.09
Educazione e media: Ruini rilancia il modello-egemonia
L’ex presidente della Cei propone un nuovo patto e trova sponde nel ministro Gelmini. Che ha fornito ampie assicurazioni, dall’ora di religione ai crocifissi nelle classi
di Roberto Monteforte


Una società sempre più lacerata, che ha abdicato al suo compito di indicare modelli e sistemi di valore, in partico-
lare ai giovani, viene meno ad un suo preciso dovere. Un futuro incerto, segnato dalla precarietà: questa è la dura prospettiva per le nuove generazioni. Con questo, con l’emergenza educativa, occorre misurarsi. La Chiesa lancia la sua sfida-provocazione rivolta al mondo cattolico, ma soprattutto a quello laico. Se ne fa portavoce il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dei vescovi italiani e responsabile del Progetto culturale della Cei che ieri ha presentato il volume «La sfida educativa» edito da Laterza che raccoglie approfondimenti e proposte sulle agenzie educative classiche: scuola, famiglia, comunità cristiana, ma anche sul lavoro, l’impresa, i mass media, lo spettacolo, il tempo libero, lo sport. Tutte realtà che concorrono alla formazione della persona. «L’educazione è una urgenza, o meglio, è una emergenza» scandisce Ruini. «L’educazione per sua natura impone sfide a lungo termine spiegaattorno all’educazione deve trovarsi una convergenza che superi il variare delle persone, delle idee, degli interessi. Il nostro rapporto vuole essere un invito aggiunge a muoverci nella direzione di una alleanza educativa di lungo termine».
Così la Chiesa si propone come luogo di confronto per una società divisa e lacerata, riproponendo una sua centralità. È la strategia che ha segnato l’«era Ruini» e che ieri ha trovato sponde robuste. Ha colto a volo l’occasione il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini per rilanciare il tema dell’identità culturale del nostro paese, contraddistinta dai valori cattolici, con cui devono rapportarsi i giovani figli di immigrati. È da lì che passa l’integrazione per il ministro che ha rassicurato: nulla cambierà sull’ora di religione e sul crocifisso nelle aule. Le sollecitazioni sulla funzione formativa ed educativa dei media contenute nella proposta della Cei sono state raccolte dal presidente della Rai, Paolo Galimberti, che ha riconosciuto la difficoltà a proporre una televisione di qualità. Al confronto ha partecipato anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. ❖

il Riformista 23.9.09
Ruini rilancia la sua sfida sull'emergenza educativa
La prima politica è l'educazione
di Camillo Ruini


Agenda. Il cardinale responsabile del Progetto culturale della Cei parla di linee orientatrici di un lavoro di anni: «La posta in gioco riguarda il senso stesso che attribuiamo all'uomo e alla nostra civiltà.

In ogni epoca l'educazione delle nuove generazioni ha rappresentato per ciascun gruppo umano un compito fondamentale, a cui dedicare attenzione, risorse ed energie, dando vita a regole, percorsi, usanze e anche riti formativi. Nel nostro tempo però, almeno in Occidente, l'educazione è diventata, in maniera nuova, problema: un nodo, cioè, che sembra ogni giorno più difficile affrontare, un territorio assai cambiato e quasi sconosciuto. Sono divenuti più incerti e problematici i rapporti tra le generazioni, in particolare riguardo alla trasmissione dei modelli di comportamento e di vita, tanto che specialmente sotto questo profilo si tende a parlare di frattura o di indifferenza tra le generazioni.
E, quel che più importa, appaiono ridotte e precarie le possibilità di un'autentica formazione della persona, che comporti una buona capacità di orientarsi nella vita, di trovarvi significati e motivi di impegno e di fiducia, rapportandosi agli altri in maniera costruttiva e non smarrendosi davanti alle difficoltà e alle contraddizioni. In altre parole, mentre sono assai aumentate, sotto diversi profili, le opportunità e le facilitazioni a nostra disposizione, diventa più arduo tenere insieme la consapevolezza di sé e del mondo in cui viviamo, la libertà e la responsabilità delle nostre decisioni, cioè quegli elementi che sembrano essenziali per una vera educazione.
La Chiesa si sente interpellata da una situazione di questo genere. Fin dall'inizio, infatti, spinta dalla sua sollecitudine per l'uomo, ha esercitato una particolare vocazione educativa nei confronti delle persone, delle famiglie e di intere popolazioni. «L'uomo è la via della Chiesa», si legge nell'enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II. Per questo essa non può non essere interessata alla formazione del soggetto umano. Suo compito specifico è certamente l'educazione alla fede, la formazione del cristiano, non però in modo astratto, non prescindendo cioè dalla consistenza umana delle persone, bensì interessandosi all'autentica umanità di tutti coloro che incontra sul proprio cammino, compresi i non cristiani, come mostra una lunga esperienza di lavoro educativo in molti paesi.
In questi anni la Chiesa italiana ha più volte richiamato l'attenzione sull'attuale «emergenza educativa». Si rende conto infatti che la posta in gioco riguarda il senso stesso che attribuiamo all'uomo e alla nostra civiltà. Nei limiti del possibile cerca quindi di farsi carico del compito e della sfida davvero grandi che questa emergenza ci pone davanti. La Chiesa sa però altrettanto bene che non si tratta in alcun modo di un suo compito esclusivo e che occorre invece promuovere una collaborazione aperta a tutto campo, così come sono condivise da molte parti le preoccupazioni per la qualità dell'educazione.
Il Rapporto-proposta che presentiamo non si concentra in primo luogo sulle tecniche educative, che sono utili e importanti ma non decisive: oserei dire tanto più utili quanto più consapevoli di non costituire il tutto dell'educazione. Consideriamo cioè l'educazione come un processo umano globale e primordiale, nel quale entrano in gioco e sono determinanti soprattutto le strutture portanti - potremmo dire i fondamentali - dell'esistenza dell'uomo e della donna: quindi la relazionalità e specialmente il bisogno di amore, la conoscenza, con l'attitudine a capire e a valutare, la libertà, che richiede anch'essa di essere fatta crescere ed educata, in un rapporto costante con la credibilità e l'autorevolezza di coloro che hanno il compito di educare. «Il rapporto educativo - scrive Benedetto XVI - è anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà». In concreto, le difficoltà di questi ultimi decenni stanno facendo riemergere quella necessità di precise regole di comportamento e di vita che si ritrova in tutte le grandi tradizioni educative. Ancora più profondamente, rilanciano un decisivo principio antropologico: quello per cui abbiamo bisogno di educazione, non tanto per essere buoni cittadini o buoni cattolici, ma semplicemente per essere uomini. Per questo abbiamo insistito in modo particolare sul carattere generativo dell'educazione, sull'importanza che ha per l'uomo e per la donna l'essere accompagnati, educati, sia nella vita intellettuale che in quella affettiva, nella capacità di ascolto come in quella di comprensione e di giudizio critico.
Questo Rapporto-proposta non è dunque settoriale: prende in attenta considerazione ciascuno degli ambiti specificamente deputati all'educazione, come la famiglia e la scuola, o che comunque possono svolgere in essa un ruolo significativo, ma ha l'ambizione di riflettere sui motivi più profondi delle attuali difficoltà e affronta pertanto alcune fondamentali questioni antropologiche. Avendo come suo scopo la formazione e lo sviluppo del soggetto umano, l'educazione è infatti intrinsecamente connessa con le risposte che vengono date ai grandi interrogativi riguardo all'uomo. Il libro si occupa quindi anche di quei pervasivi fattori educativi che sono la società nel suo complesso e la sua cultura: in realtà, pur con diversi gradi di responsabilità secondo il ruolo sociale di ciascuno, siamo tutti in qualche modo attori del processo educativo. Proprio per rivolgersi a tutti il linguaggio del Rapporto-proposta ha cercato di evitare i tecnicismi e di limitare al minimo il ricorso a termini specialistici.
Gli orientamenti di fondo qui proposti vengono assunti come ipotesi di lavoro nell'esame delle situazioni concrete dell'educazione in Italia, con i loro aspetti positivi, problematici o anche francamente negativi. La descrizione e l'interpretazione di ciascuna di esse sono sintetiche ma cercano di essere accurate. L'obiettivo non è comunque soltanto descrittivo e interpretativo: è soprattutto offrire un contributo al fine di fare evolvere positivamente la situazione. Perciò questo libro è, oltre che un "rapporto", una "proposta" di linee orientatrici e anche di correzioni di rotta. Esse ambiscono a una valenza di medio e lungo periodo, ma riguardano anzitutto ciò che appare da farsi in questi anni e in particolare l'approccio che sembra richiesto per far crescere e irrobustire quella che è, sotto ogni profilo, la prima risorsa di un corpo sociale, cioè la persona, il soggetto umano.
Camillo Ruini
(prefazione de "La sfida educativa", Editori Laterza)

il Riformista 23.9.09
Abortire a 16 anni senza il permesso dei genitori è giusto
di Ritanna Armeni


La donna deve essere libera di scegliere da quando può procreare e non da un momento astratto e fissato per legge

La notizia è che in Spagna, con la nuova legge sull'aborto si può interrompere la gravidanza a 16 anni anche senza il consenso dei genitori. In Italia questa informazione è stata accolta con un certo disinteresse. Non è seguita alcuna discussione, nessuno ha dato segnali di approvazione. Nessuno ha urlato contro. Come spesso in casa nostra le questioni etiche sono solo strumenti per questa o quella battaglia politica o per polemiche esterne alle questioni stesse. Voglio tornare invece su quella notizia proprio perché dei temi etici occorre discutere a mente fredda e al riparo da ogni strumentalizzazione.
Dico subito che la legge spagnola mi pare giusta, umana e favorevole alle donne. E non solo per i motivi addotti da coloro che l'hanno approvata. A quell'età - hanno detto - una giovane donna può rifarsi il seno senza il permesso di mamma e papà e può opporsi a qualunque trattamento sanitario che i genitori vogliano eventualmente imporre. Perché quindi non può decidere di abortire? Francamente non mi sembra un'argomentazione sensata perché l'aborto non è un intervento chirurgico come un altro, le motivazioni per cui è giusto che anche una donna di 16 anni possa sceglierlo senza il consenso dei genitori non possono essere solo quelle che rendono libero un intervento per rifare il seno o difendono la opposizione di una minorenne a un apparecchio per raddrizzare i denti. Credo che quella legge sia giusta per motivi molto più seri: perché tutela e protegge la libera scelta della donna, anche quando questa ha 16 anni e, quindi, scegliere è più difficile. Conosco l'opposizione: si può scegliere a 16 anni? Si può prendere una decisione consapevole quando si è poco più che bambine? Si può accettare che in una società in cui la maggiore età è ritenuta necessaria per votare, per guidare l'automobile o per andare all'estero senza il permesso dei genitori questa non abbia alcuna importanza nella decisione di una maternità? Non è, all'opposto, opportuno che proprio in un momento comunque grave e delicato, quale è quello in cui una giovane donna scopre di essere incinta, siano i genitori a decidere?
Proviamo a rispondere a queste domande. E cominciamo dall'ultima immaginando una situazione concreta: una giovane donna di 16 anni che vuole interrompere la gravidanza. Sarebbe giusto e auspicabile che i genitori glielo impedissero, che la obbligassero anche contro il suo parere a tenere un figlio che non vuole? Credo che il buon senso suggerisca una risposta negativa. Come suggerisce, del resto, una risposta negativa a una altra opposta domanda. Sarebbe giusto e auspicabile che una giovane donna di 16 anni fosse costretta ad abortire perché i suoi genitori non ritengono opportuna una gravidanza? Perché la ritengono troppo giovane e vogliono, ad esempio, che continui gli studi senza il peso di un figlio? I genitori in entrambi i casi, per quanto sinceramente interessati alla loro figlia, possono avere voce in capitolo per consigliare o affettuosamente sostenere. Oltre non possono e non devono andare perché interverrebbero in una sfera che non è di loro competenza, quello che implica l'accettazione della trasformazione del proprio corpo, della gravidanza, dell'accoglienza di un'altra vita. Quella rimane di competenza della loro figlia, maggiorenne o minorenne che sia.
E andiamo alla questione della maggiore età invocata come limite necessario per concedere diritti e imporre doveri. Secondo questa logica così come si può votare o prendere la patente solo dopo i 18 anni, così solo da questa età si può decidere di interrompere o di accettare una gravidanza. È una logica astratta che in nome di un principio universale pretende di intervenire su chi è differente. Il corpo di una donna di 16 anni non è quello di un uomo della stessa età per il semplice e banale motivo che al secondo non spetta la gravidanza e la procreazione e la responsabilità di entrambi. Una donna deve essere libera di scegliere dal momento in cui può procreare e non da un momento astratto e fissato per legge in cui, siccome può votare o guidare, può anche fare figli. Il diritto non può non tenere conto delle diversità, la sua pretesa universalità trova un limite invalicabile nel corpo e nella decisione femminile.
C'è un altro motivo per cui la legge spagnola mi pare di grande interesse. Riguarda il ruolo dello Stato, il rapporto fra lo Stato e la famiglia e fra il singolo - in questo caso la ragazza che deve scegliere - ed entrambi. Decidendo che una donna di 16 anni può scegliere di interrompere la gravidanza senza il parere dei genitori, lo Stato sceglie di proteggerla anche da pesanti interferenze familiari. Si pone quindi in diretto rapporto con la donna a cui garantisce la libertà di scelta (di questo - ricordiamolo - stiamo parlando) anche - eventualmente - contro il parere della propria famiglia. È importante che in un momento sicuramente non facile quale è quello della scelta della maternità una ragazza di 16 anni, essa sappia di poter contare anche sull'aiuto di un soggetto terzo, in questo caso dello Stato, che dovrà poi essere anche di importante sostegno economico e sociale. Di protezione e di aiuto ha bisogno in entrambi i casi, sia che rifiuti sia che scelga di diventare madre. «Con questa legge - ha detto la ministra dell'eguaglianza Bibiana Aido - tuteliamo anche la minorenne che voglia tenere il suo bambino contro il parere dei genitori».

l’Unità 23.9.09
«Fatto quotidiano» Da oggi in edicola il nuovo giornale di Padellaro


Da oggi in edicola un nuovo quotidiano, Il Fatto Quotidiano, sedici pagine per sei numeri settimanali, non esce il lunedì, per il costo di 1,20 euro. Il giornale, diretto da Antonio Padellaro – che figura tra i soci -, vede tra le sue firme di punta Furio Colombo, Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo, Luca Telese, Francesco Bonazzi e Beatrice Borromeo. Come hanno dichiarato nei giorni scorsi Padellaro e Travaglio nel corso della conferenza stampa di presentazione, dietro il quotidiano non c’è un editore, c’è un azionariato di cui fanno parte oltre al direttore, Travaglio stesso – che ogni giorno scriverà sulla prima pagina, il magistrato-giornalista Bruno Tinti e la casa editrice «Chiarelettere». I redattori, come prevede lo statuto, potranno dire la loro sulle scelte editoriali e sulla nomina del direttore.
Fino ad ora, dicono da via Orazio, gli abbonamenti sono 27mila, di cui 19mila per la versione on-line che sarà disponibile per il download un minuto prima della mezzanotte. Oggi circa 85mila le copie in edicola nelle maggiori città italiane. Il primo editoriale sarà dedicato alla linea politica del Fatto, «cioè la Costituzione», come spiega Nuccio Ciconte, caporedattore. «Non saremo un giornale filo-opposizione» dicono i giornalisti, ma «critici verso tutti tutti», con particolare attenzione al presidente del Consiglio. ❖

il Riformista 23.9.09
Nasce Il Fatto di Di Pietro. Spot Rai per Travaglio
Nuovi girotondi. Così il giornale di Padellaro punta a riaprire a sinistra la contesa sul modo migliore di fare opposizione
Ecco "Il Fatto", il foglio rosso-bruno delle Procure
di Stefano Cappellini


Quotidiano. Nel primo numero oggi in edicola anche un'intervista a Marino, il candidato preferito nella corsa alla segreteria del Pd.

Attacco a Letta Il Pm quotidiano. Il giornale di Padellaro comincia col suo «indagato eccellente» e rispolvera un'indagine sul sottosegretario. Braccio di ferro su Annozero, Santoro ha già trovato il suo nuovo martire.

Il Fatto quotidiano, diretto da Antonio Padellaro, esordisce stamattina in edicola forte del lancio gratuito offerto dalla Rai col caso Annozero: viale Mazzini continua a nicchiare sul rinnovo del contratto di Marco Travaglio, firma di punta e azionista del nuovo giornale, oltre che opinionista del programma di Michele Santoro. Ma i lettori del Fatto - questo impasto di ex Pd (i più giovani) ed ex Pci (i più anziani) sensibili al dipietrismo, di liberali e outsider antiberlusconiani, di grillini di destra e di sinistra e, soprattutto, di giustizialisti orfani inconsolabili della stagione delle manette - non si dovranno accontentare dei resoconti sul caso Travaglio. Il primo numero si segnala soprattutto per un classico del filone: l'indagato eccellente. Che nel caso in questione sarebbe Gianni Letta.
Si dà infatti conto degli sviluppi di una indagine della Procura di Potenza (pm John Woodcock, naturalmente) sull'apertura di nuovi centri di identificazione ed espulsione, indagine nei cui atti è finito anche il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. La notizia non è nuova. Sull'inchiesta potentina, i cui atti sono stati trasmessi a Roma nei mesi scorsi, erano già uscite indiscrezioni prima dell'estate: ma l'ipotesi che Letta fosse ufficialmente indagato non ha mai trovato conferme. Certo è solo che, per un quotidiano zeppo di giornalisti sensibili alle teorie dell'inciucio bipartisan, puntare sugli eventuali guai giudiziari di una personalità come Letta, che come poche altre incarna il mito della trasversalità e della inafferrabilità politica, pare un biglietto di visita coerente con le intenzioni dichiarate.
Che sono quelle di fare un giornale «i cui unici padroni sono i lettori» (sostiene Padellaro), che le canta sia alla destra che alla sinistra (promettono i redattori intervistati sul sito Antefatto.it), e ancor di più alla sinistra che si confonde con la destra. Una confusione cui, peraltro, non sembra estraneo lo stesso Fatto, il cui parco firme è uno dei più spericolati collage rosso-bruni che si ricordino: sfogliandolo, ci si potrà imbattere nel kennedismo obamiano di Furio Colombo e nel talibanismo di Massimo Fini, sincero estimatore del mullah Omar (chissà quale linea ne uscirà sull'Afghanistan), nel berlinguerismo nostalgico di Luca Telese e nel montanellismo di Gomez e Travaglio, nei cuori rossi ex Unità (da lì, peraltro, viene pure l'amministratore delegato Giorgio Poidomani) e nei cuori neri che invocano più galera per tutti. Una squadra che promette di far felice Luigi De Magistris, l'ex pm di Why not, europarlamentare dell'Italia dei valori e testimonial del quotidiano nelle iniziative di presentazione degli ultimi mesi, il quale era orgoglioso in campagna elettorale di spiegare al mondo che i suoi due fari in politica sono Berlinguer e Almirante.
I maligni argomentano che, con un simile frullato di idee e inclinazioni, l'unico possibile comune denominatore resterà Antonio Di Pietro. Ma guai a spiegare a Padellaro che, a dispetto delle buone intenzioni, il rischio di finire schiacciati sull'Idv e sul partito delle Procure (c'erano i pm Ingroia e Scarpinato alla presentazione del giornale, con annesse polemiche del Pdl) è molto alto. È senz'altro vero, però, che nessuno a via Orazio, sede della redazione nel borghese quartiere romano di Prati, ha voglia di ridursi a fare da megafono o bollettino di partito. L'ambizione è, in effetti, più alta: riaprire a sinistra quel contenzioso sul modo più giusto e produttivo di fare opposizione al Cavaliere che nel bienno 2002-03 vide fronteggiarsi per mesi da una parte Sergio Cofferati, la Cgil e il girotondismo di Moretti-Pardi-Flores e dall'altra i vertici di Ds-Margherita. Impegnati a contendersi la stessa base di elettori, un po' come oggi Di Pietro e il Pd.
Non sembrano in vista endorsement ufficiali sulla corsa alla segreteria del Pd, ma non è un caso che la prima intervista a un leader democratico se la sia aggiudicata Ignazio Marino, che dei tre contendenti alla leadership è quello che più spinge sulla linea nuovista, additando sia Bersani che Franceschini come esponenti d'apparato. Qualche simpatia interna va comunque anche all'ex ministro dello Sviluppo, mentre i redattori segnalano zero consensi per Franceschini, nonostante il segretario in carica stia dando ampi segnali di voler trasformare la questione morale nel cavallo di battaglia della sua campagna per le primarie del 25 ottobre.
Ma questa settimana di esordio in edicola e sul web (sono quasi ventimila, secondo i dati forniti, gli abbonati alla versione on line del quotidiano) sarà comunque la settimana del caso Travaglio e della manifestazione per la libertà di stampa. Con Santoro in onda domani, e Travaglio comunque in studio con contratto o senza, si annuncia una vera e propria sinergia Fatto-Annozero. L'embrione di un gruppo editoriale virtuale con ambizioni politiche pari a quelle giornalistiche.

l’Unità 23.9.09
Finiani e laici Pdl al premier: «Sul biotestamento una legge soft»
Lettera sottoscritta tra gli altri da Adolfo Urso, Fiamma Nirenstein, Flavia Perina, Souad Sbai, Alessandra Mussolini, Mario Pepe. Una ventina di nomi, finora: ma facilmente si arriverebbe ai cento di quella contro i medici-spia.
di Susanna Turco


Il co-fondatore gliel’ha presentato subito, il conto. A meno di ventiquattr’ore dal colloquio con Berlusconi a casa Letta, a meno di un giorno dalle «parole» del Cavaliere sulla volontà di dar spazio a posizioni diverse nel Pdl, Gianfranco Fini sfodera – fa sfoderare ai suoi – un documento preparato e visionato da tempo. Pronto da un paio di settimane, addirittura. Ed estratto oggi per cominciare a vedere se alle parole pronunciate in casa Letta «seguiranno fatti».
«Caro presidente», esordisce infatti la lettera aperta a Berlusconi sul biotestamento che oggi pubblica il Foglio. Un testo mite, aperturista, per chiedere un passo indietro dal ddl Calabrò, una sorta di «disarmo bilaterale» che apra la strada a una soft law, nella quale si enuncino alcuni principi base (no a eutanasia e accanimento terapeutico) evitando però i bracci di ferro di una legge troppo prescrittiva. Un documento che, su iniziativa del neofiniano radicale Benedetto Della Vedova, un gruppo ristretto di parlamentari vicini alla sensibilità del presidente della Camera aveva scritto – nel corso di una serie di incontri riservati già prima del deflagrante intervento a Gubbio del leader di riferimento. E prudentemente infilato in un cassetto, in attesa del momento opportuno.
IL NODO DELLE FIRME
Una lettera che dunque non a caso viene fuori oggi. E che non a caso segue, nelle sottoscrizioni, il principio opposto a quello del documento dei 53 critici sulla democraticità del Pdl. Là, infatti, si trattava di finiani. Adesso, al contrario, si tratta di sensibilità diverse che nel Pdl si ritrovano intorno ad un obiettivo comune: Adolfo Urso ma anche Fiamma Nirenstein, Flavia Perina ma anche Souad Sbai, Alessandra Mussolini ma anche Mario Pepe. Una ventina di nomi, finora: ma facilmente si arriverebbe ai cento che a suo tempo firmarono la lettera contro i medici-spia.
Un mosaico di gruppi di influenza che, dalla lettera dei 53 a quella di oggi, ha il suo punto di forza nell’essere a geometria variabile. Difficile infatti che stavolta i fedelissimi dell’ex leader di An, come Andrea Ronchi per esempio, accorrano a firmare il «disarmo bilaterale»: in loro vece, deputati che hanno una storia diversissima da quella di chi ha militato in via della Scrofa.
LO SCENARIO
Così, dietro la sequenza delle lettere si intravede una strategia, il percorso per mostrare come e quanto il presidente della Camera possa influire negli equilibri del Pdl. E rappresentare il coagulo di una sensibilità diversa da quella del partito-caserma.
Potenzialmente in grado, a essere ottimisti, di mettere in difficoltà Berlusconi. Il quale, per il momento, si guarda bene di dare al co-fondatore più guazza di quella che già si prende da solo. Piuttosto gli manda incontro un Fabrizio Cicchitto. Pronto al confronto anche stavolta, perché no. ❖

l’Unità 23.9.09
Il testo passa con il voto contrario della sola Poretti (Radicali)
Pd diviso Finocchiaro: «È pretestuosa». Ma la relatrice è la Bianchi
Pillola abortiva, il Senato vara l’indagine conoscitiva
«Bisogna evitare il rischio che con la RU gli aborti diventino troppo facili. Però non metto in dubbio la 194». Dorina Bianchi (Pd) affronta con piglio deciso il nuovo incarico di relatrice, con Calabrò, dell’indagine.
di Su. Tu.


La Roccella: «L’approfondimento serve a chiarire i lati oscuri della RU486»

Se ne era fatto promotore, prima della pausa estiva, il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, beccandosi del «surreale» da parte del suo ex leader Gianfranco Fini. E proprio due giorni fa, il presidente della Cei Angelo Bagnasco si era augurato un dibattito parlamentare «per arrivare a una maggiore verità sul farmaco».
Puntuale come uno scroscio di pioggia, arriva così dalla commissione Sanità del Senato il sì all’indagine conoscitiva sulla RU486, la pillola abortiva che a luglio ha ottenuto il via libera alla commercializzazione da parte dell’agenzia del farmaco Aifa, ma che nonostante ciò Palazzo Madama ritiene dover ancora esaminare, per capire fra l’altro se e come si armonizza con la legge 194 che regola l’interruzione di gravidanza.
UNA «INDAGINE TECNICA»
Il sì, nell’ufficio di presidenza della commissione, arriva all’unanimità in un solo quarto d’ora di discussione e con il solo dissenso della segretaria d’Aula Donatella Poretti, radicale del Pd. Tuttavia, un minuto dopo, si scatenano le polemiche. Se nella maggioranza si parla di una «indagine tecnica», la decisione provoca una levata di scudi di una parte del Pd. Preoccupato, soprattutto, che questa iniziativa – pur priva di effetti pratici immediati possa rivelarsi invece una scelta «politica» che apra la strada per una rimessa in discussione della 194.
La presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro parla fra l’altro di una «indagine pretestuosa» e di un «atteggiamento stru-
mentale da parte del governo». «Non è vero», ribatte la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella «l’approfondimento serve a chiarire i lati oscuri della RU486».
IL PD DIVISO
La questione riapre comunque nel Pd il doloroso capitolo delle divisioni sui temi etici. Le molte voci critiche che si levano contro l’indagine conoscitiva, infatti, non combaciano felicemente con la posizione – favorevole a una «indagine seria» decisa dal Pd una settimana fa in apposita riunione. Nello specifico, poi, la polemica si avvita attorno alla circostanza che, accanto al relatore della maggioranza Calabrò, relatore per le opposizioni sia designata Dorina Bianchi, la capogruppo del Pd in commissione Sanità. «I due relatori la pensano allo stesso modo», lamentano, «così finiamo per rappresentare solo una parte».
È un fatto, del resto, che sul biotestamento, la Bianchi si sia sempre trovata d’accordo con il testo Calabrò. Una parte del Pd, dalla Poretti alla Franco, le rimprovera di aver accettato l’incarico. La Bianchi, però, non fa una piega: «Rifiutare l’incarico non era nemmeno nei miei poteri», replica. «Bisogna evitare il rischio che con la RU gli aborti diventino troppo facili. Però non metto in dubbio la 194. E non capisco chi parla del rischio che io e Calabrò ci troviamo d’accordo: su un tema così dovremmo per forza pensarla diversamente?». ❖

Repubblica 23.9.09
Polemica contro la rappresentante del centrosinistra in commissione che ha approvato la scelta
E tra i democratici scoppia il caso Bianchi. Bersani e Marino: la nostra linea è un´altra
La senatrice sarà la relatrice dell´inchiesta Malumori nel partito, la resa dei conti rinviata a dopo il congresso
di Mauro Favale


ROMA - Il rischio è quello di spaccare il partito. Aprire un fronte pericolosissimo ad appena 18 giorni dal congresso. Il "caso Dorina Bianchi" agita i democratici. Il suo assenso all´indagine conoscitiva sulla pillola Ru486 non piace ai vertici del Pd. Grande malumore. Ma nessuno si spinge a chiederne le dimissioni. Anche se sono in tanti a segnalare, come la senatrice Vittoria Franco, che la Bianchi, ormai «è diventata un problema oggettivo».
Il rischio di far saltare il banco consiglia prudenza al segretario Dario Franceschini che non parla. Gli sfidanti, invece, qualcosa la dicono. Pierluigi Bersani, seppure la Bianchi non si sia richiamata per il suo voto ad "un caso di coscienza", interpreta la decisione della capogruppo in commissione sanità come «un uso improprio della coscienza, utilizzato per farsi nominare relatrice». L´idea dello sfidante di Franceschini è che la senatrice si sarebbe dovuta attenere alle decisioni del gruppo.
«La Bianchi doveva essere più prudente», afferma "il terzo uomo" al congresso, il senatore Ignazio Marino. Lui, che della laicità ha fatto la bandiera della sua campagna in vista dell´11 ottobre, è stato sostituito otto mesi fa sulla poltrona di capogruppo proprio dalla Bianchi. «Un´indagine così è inutile. Bisognava aprire un dibattito all´interno della commissione, in sede collegiale. Non sono certo, infatti, che il gruppo del Pd sia convinto di questa decisione. Io certamente non lo sono».
Non era d´accordo nemmeno la presidente dei senatori democratici, Anna Finocchiaro. Definisce «pretestuosa» l´indagine. E preferisce prendersela con il presidente della commissione, Antonio Tomassini, ginecologo, fedelissimo di Berlusconi, che le aveva assicurato, racconta, non meno di una settimana fa, che avrebbe rimandato la delibera sull´indagine conoscitiva dopo il congresso Pd. La decisione di ieri, insomma, è stata vissuta come un´accelerazione. Una manovra "furba", orchestrata con Maurizio Gasparri, grande sponsor dell´iniziativa, per affiancare, spiegano nel Pd, «due che la pensano allo stesso modo»: Dorina Bianchi e Raffaele Calabrò, l´autore del ddl sul testamento biologico.
Nel Pd, però, l´accelerazione che brucia di più è proprio quella della Bianchi. Sette giorni fa, la senatrice aveva avuto con i vertici del partito al Senato, un incontro per stabilire l´atteggiamento da tenere sulla Ru486. E qui le interpretazioni non concordano. La Bianchi sostiene che in quella sede ci fu un sostanziale via libera all´indagine parlamentare. «Sono sorpresa del clima che si è creato», spiega la senatrice che non vuole sentirsi apostrofare come una "teodem". Per la Finocchiaro, invece, in quella riunione si stabilì che il dibattito sarebbe dovuto avvenire in commissione e non limitarlo all´ufficio di presidenza. Un dibattito che, sostengono i democratici, avrebbe consentito di non affrettare i tempi dell´indagine che, invece, partirà già domani con l´audizione del ministro Sacconi.
Incomprensioni a parte, le due ieri hanno avuto un rapidissimo faccia a faccia in aula durante il quale la Finocchiaro ha avuto modo solo di dire un «sii seria» a Dorina Bianchi. Lei, la relatrice dell´indagine, è tranquilla. Va avanti e, nonostante l´evidenza, non si sente isolata. È un dato, però, che nemmeno i suoi "padrini", Francesco Rutelli e Beppe Fioroni, siano intervenuti per difenderla dal "fuoco amico" che si è alzato contro la sua decisione ieri pomeriggio.

Repubblica 23.9.09
Pahor: "Il mio secolo fra Trieste e il mondo"
Intervista/ il lager, la memoria e gli amori in due libri dello scrittore di lingua slovena
di Paolo Rumiz


TRIESTE. Come se si fosse rotta una diga. Libri, libri e ancora libri. A 96 anni Boris Pahor, triestino di lingua slovena, assiste con stupore e soddisfazione allo "scongelamento" di un quarantennio di opere sue che, dopo il successo un anno fa di Necropoli, vengono tradotte finalmente in Italiano. Premiato e tradotto in mezza Europa ma sconosciuto fino a ieri nel suo stesso Paese, ora il patriarca col vizio della memoria, registra un bel tandem, con l´inedito autobiografico Tre volte no (Rizzoli) e il romanzo del 1967 Primavera difficile (Zandonai).
Il vecchio è felice nella sua casetta a picco sull´Adriatico. La "riabilitazione" letteraria ha avuto effetti a cascata persino in Slovenia, dove pure è arcinoto: in un anno rilanciati cinque dei suoi libri. È richiestissimo, il telefono suona a ripetizione, e lui risponde a tutti, anche ora che Radoslava, la compagna della vita, lo ha lasciato. Al tramonto scendiamo nel suo bunker, oltre un orticello di pomodori. Si cala per ripide scalette con passo elastico, in tuta e mocassini. Oltre una porticina, montagne di libri, una Remington vecchia di quarant´anni, un lettino con un testo di Spinoza. «Qui - dice - ho vissuto la mia vita parallela. Riemergo solo per mangiare e dormire».
Primavera difficile è la storia di un suo amore francese, dopo la liberazione dal Lager.
«Madeleine si chiamava. Per me che ero un naufrago dell´orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nel sanatorio di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. "Mon petit" mi chiamava. Fu un regalo magnifico».
Fino ad allora lei era stato in mezzo alla morte.
«Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. È stato allora che ho capito l´importanza e la benedizione di quella cosa che il secolo ventesimo degradava a un non-valore».
Che cosa?
«Il corpo appunto. Il più bel dono che abbiamo. Io ho amato tanto il corpo femminile, ma è il corpo umano in generale che va amato e rispettato. Per uno come me che è tornato dall´abominio l´unica consolazione era pensare che l´umanità aveva in sé la possibilità di creare corpi nuovi e diversi, generazioni migliori».
Cosa fu per lei la Francia?
«Era il 1946 e non avevo nessuna voglia di tornare a Trieste. A casa mia erano offesi che rimanessi lontano così a lungo, anche dopo la guarigione. Il problema è che a Trieste c´era il marasma. Manifestazioni continue. La città era passata senza interruzione dalla guerra alla guerra fredda».
Non è stufo di questa complessità di frontiera?
«A volte vorrei avere vissuto in un luogo meno complicato di Trieste, ma a che serve essere stufi? Ormai ci siamo dentro e dobbiamo macinare... Davvero non vedo alternative».
Sente ancora così ostico questo suo luogo?
«C´è chi rema contro ma qualcosa cambia. Ieri sono andato a Prosecco per un documento d´identità, e quando sono entrato l´impiegata, riconoscendomi, mi ha salutato con un "dober dan", il buongiorno in sloveno. Mi ha reso felice».
E sul piano della cultura?
«Qualche giorno fa ho affrontato una sala strapiena con Claudio Magris e ho detto che quando il poeta sloveno Kosovel potrà entrare nei programmi di studio delle scuole italiane, allora Trieste sarà un piccolo paradiso. Ho avuto un applauso di straordinario calore. Sì, le cose cambiano».
Professore, qual è il suo segreto?
«Aggrapparmi al presente. Nel campo di concentramento ho imparato a fare sempre qualcosa, senza pensare al passato e al futuro».
Eppure lei al passato ci pensa eccome. Secondo alcuni anche troppo.
«Me lo dicono in tanti. Gli sloveni post-comunisti mi accusano di rivangare cose morte e sepolte. Ma io non mollo, fino a quando il ventennio fascista resterà nell´ombra in cui si trova. Non si parla degli orrori che comportò. Il nazismo era peggio, mi contesta alcuno. E allora? Non è un buon motivo per archiviare tutto».
Pensa che la memoria italiana sia a senso unico?
«Dico: sacrosanto che si sappia delle foibe. Ma altrettanto sacrosanto che si sappia del fascismo e soprattutto della sua aggressione alla comunità slovena. Bastonature, incendi, condanne a morte, cognomi e nomi cancellati, una lingua negata. E molti dimenticano che questo accadeva già vent´anni prima della guerra».
Pensa ci sia una rimozione?
«Guardi cosa c´è scritto sulla targa bilingue che ricorda l´incendio alla casa di cultura slovena di Trieste. Si parla di "esagitati", non di fascisti. C´è un´ostinazione tenace e non ammettere l´innegabile».
Come visse da sloveno la proclamazione a Trieste delle leggi razziste contro gli ebrei?
«Pensai: ecco, ora anche loro sono nella nostra condizione di perseguitati ed esclusi. Anche quelli di loro che avevano abbracciato il fascismo e magari erano stati antisloveni. Ovviamente non immaginavo l´orrore che si sarebbe scatenato di lì a poco col nazismo».
Nel lager lei capì il destino degli ebrei?
«Non fino in fondo. Non c´erano ebrei nei miei campi. Ma la gente passava egualmente per il camino. Bisogna stare attenti a ricordare che i forni crematori hanno incenerito anche tanti oppositori del regime e tanti prigionieri politici».
La soppressione della lingua fu la sua prima ferita.
«Fu uno choc tremendo. Ne parlo diffusamente in quest´ultimo libro-intervista dal titolo Tre volte no. Ero bambino e improvvisamente persi la mia identità. Un giorno fui umiliato in classe perché avevo sbagliato un verbo e il mondo mi crollò. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare da mio padre».
Poi ha avuto le sue rivincite.
«Durante la guerra, con ritardo, presi la maturità durante una pausa sul fronte libico. Passammo in quattro su quarantasei, fui il migliore in greco... io che ero sloveno... Le lingue mi salvarono... Grazie al francese fui aiutato da un medico francese che mi face fare l´infermiere. Ma sapevo anche il tedesco, e con le SS che mi avevano imprigionato fu un vantaggio. Le lingue slave, poi, mi aiutarono con i prigionieri jugoslavi, russi, cechi, polacchi».
Qual è il suo primo ricordo?
«Io e le mie due sorelline nel lettone dei miei con quaranta di febbre per l´epidemia di spagnola. Era il 1917. Una sorella morì. Deliravamo. E nessuno ci aiutava come famiglia».
Lei invece è arrivato a 96 anni. Pensa di essere un uomo fortunato?
«Mah. Più volte in situazioni difficili ho trovato persone che mi hanno aiutato. Ma che cos´è: fortuna o spirito di iniziativa?».
Che pensa di Dio?
«Mi sento panteista, come Spinoza, ebreo che gli ebrei maledissero. Credo che ci sia un disegno straordinario nel mondo. Ma non penso proprio che Dio si occupi di noi, che sia un padre affettuoso».
E poi c´è il mare.
«Io al mare ci parlo, non potrei vivere senza... Il mare grande e ventoso di casa mia. È il mio amico migliore».

Corriere della Sera 23.9.09
Galileo. Strategia di un monopolio
Ritratto di una star Aveva una straordinaria abilità a garantirsi il massimo dei riconoscimenti
La sua scoperta. Dopo il Nuncius distribuì telescopi ai principi e ai cardinali ma non ai matematici
Teneva segrete fino all’ultimo le sue scoperte Così impediva che altri le replicassero
di Mario Biagioli


Era preoccupato non tanto che le sue teorie potessero essere confutate, quanto che diventasse troppo facile farne di nuove

Gli scienziati moderni difendono in ma­niera sempre più aggressiva la proprie­tà intellettuale, brevettando le loro sco­perte e, a volte, tenendole segrete. Gali­leo Galilei anticipò questa tendenza. Fin dall’ini­zio della carriera Galileo rivendicò la paternità del­le sue invenzioni, e ovviamente adottò il medesi­mo atteggiamento protettivo anche nei confronti del telescopio e delle scoperte astronomiche del 1610.
Temendo che altri astronomi si attribuissero il merito delle sue scoperte, si affrettò a pubblicarle, ma diede pochissime informazioni su come co­struire il telescopio. Diversamente da quel che si crede, gran parte dell’opposizione alle scoperte che fece con il telescopio non derivava da conside­razioni filosofiche, ma dal segreto con cui le cir­condava. La rischiosa strategia alla fine si dimo­strò efficace: la magistrale descrizione, in testo e in immagini, delle sue scoperte fatta nel Sidereus nuncius , assieme alla reticenza sui suoi strumen­ti, gli permise di avere il monopolio quasi totale delle prime scoperte fatte con il telescopio, facen­dolo diventare quella «star» che oggi ammiriamo e festeggiamo.
La maggior parte degli storici ha sostenuto che le scoperte di Galileo non erano ovvie e che poté farle, e avvalorarle, grazie alle sue particolari atti­tudini percettive (forse legate alla sua formazione nelle arti visive), all’adesione alle teorie copernica­ne, o a una speciale abilità nel costruire telescopi. Anche se sono spesso interessanti e acute, queste teorie non tengono conto che, nonostante tutte le implicazioni percettive e cosmologiche associate a quelle scoperte, e nonostante l’ambiguo status epistemologico dello strumento che le re­se possibili, le scoperte di Galileo furono ampiamente accettate già nove me­si dopo la loro pubblicazione nel Sidereus nun­cius , avvenuta nel marzo 1610. La cosa è partico­larmente notevole, visto che i satelliti di Giove quell’estate non furono visibili per circa due mesi, che i canali di circolazione delle teorie filosofiche non erano allora né diffusi né veloci, e che per so­stenere queste scoperte bisognava saper costruire e usare uno strumento del tutto nuovo.
Un diverso quadro emerge se si osserva il perso­nale protocollo di lavoro adottato da Galileo e quanto lo scienziato abbia aiutato (o piuttosto non aiutato) gli altri a replicare le sue scoperte. Galileo si comportava come se la verifica delle sue osservazioni non presentasse difficoltà. La sua principale preoccupazione non era tanto che le sue scoperte potessero essere confutate, quanto che diventasse troppo facile farne di nuove per chi era in grado di replicarle, privandolo così dei riconoscimenti futuri. Cercò quindi di frenare i po­tenziali emulatori per impedire che si trasformas­sero in concorrenti, e lo fece negando loro l’acces­so ai telescopi più potenti e celando i dettagli del­la loro costruzione.
A queste tattiche aggiunse il segreto sulle sue scoperte, che mantenne fino alla pubblicazione del Nuncius . Prima della pubblicazione Galileo tenne all’oscuro dell’esatta posizione dei pianeti Medicei anche i suoi mecenati, per impedire che facessero inavvertitamente trapelare informazio­ni che permettessero ai suoi concorrenti di batter­lo sul tempo, e chiese al segretario dei Medici di trattare la sua corrispondenza su questi argomen­ti con la stessa discrezione riservata alle questioni diplomatiche importanti. Per evitare qualsiasi fu­ga di notizie da parte dello stampatore del libro, Galileo gli diede la sezione sui pianeti Medicei so­lo all’ultimo momento, e probabilmente gli fece giurare di mantenere il segreto sull’intero conte­nuto dell’opera.
Il Nuncius fu costruito abilmente, per ottenere il massimo dei riconoscimenti da parte dei lettori fornendo allo stesso tempo il minimo di informa­zioni ai possibili concorrenti. Benché il lavoro di ricerca, stesura e stampa avesse richiesto meno di tre mesi, il libro offriva la descrizione precisa del­le osservazioni di Galileo, con abbondanti illustra­zioni a sostegno delle scoperte. Diceva però ben poco sulla costruzione di un telescopio con cui po­terle replicare.
Galileo spiegò sinteticamente (con abbondan­za di date e nomi, ma con pochi particolari tecni­ci) come avesse costruito il suo strumento. Non disse ai lettori come molava le lenti — la particola­re abilità che gli diede un vantaggio rispetto ai pri­mi costruttori di telescopi — né parlò delle dimen­sioni del suo telescopio, del tipo di vetro, del dia­metro o della lunghezza focale delle lenti che usa­va, e non fece menzione del diaframma che aveva posto sull’obiettivo per migliorarne la risoluzio­ne. Fornì solo un semplice diagramma dello stru­mento, dicendo ai suoi lettori che senza un tele­scopio da almeno 20 ingrandimenti avrebbero cer­cato «invano di vedere tutte le cose osservate da noi nei cieli». Promise di scrivere un libro sul fun­zionamento del telescopio, ma non lo diede mai alle stampe, e non abbiamo alcun manoscritto che documenti una simile intenzione.
Quel che sto dicendo sembrerebbe contraddet­to dal fatto che Galileo, poco dopo la pubblicazio­ne del Nuncius , distribuì parecchi telescopi in tut­ta Europa. Li inviò, però, a principi e cardinali, non a matematici. Principi e cardinali non erano colleghi, e non potevano quindi essere rivali. Il lo­ro appoggio serviva a rafforzare la sua credibilità agli occhi del granduca, ma la loro posizione socia­le impediva che concorressero con lui nella caccia alle novità astronomiche. Inoltre la maggior parte dei principi e dei cardinali aveva già avuto per le mani dei telescopi di scarsa potenza, che fin dal 1609 i vetrai facevano avere a loro, ma non agli astronomi o ai filosofi.
Verso la fine di quello stesso anno questi telescopi avevano perduto l’au­ra di mirabili marchingegni ed erano diventati, per gli standard dei nobili, oggetti di poco prezzo, prodotti in pa­recchie città italiane da artigiani stra­nieri e da occhialai locali. I principi usavano i telescopi — puntandoli più su oggetti terrestri che celesti — assai prima che cominciassero a circolare le voci sulle scoperte di Galileo, e prima che la maggior parte degli astronomi avesse cominciato a mostrare un serio interesse per essi. Agli occhi di Galileo principi e cardinali costituivano un pubblico poco temibile e molto utile. Avendo con il telescopio maggiore dimestichezza dei filosofi o degli astronomi, avrebbero probabilmente apprezzato la qualità su­periore dei suoi strumenti e saputo dare il giusto peso alle sue scoperte. Al contempo, non sarebbe­ro entrati in competizione con lui e, non avendo un particolare interesse professionale o filosofico verso le sue scoperte, avrebbero avuto meno ra­gioni per contrastarle.
L’atteggiamento differenziato che Galileo adot­tò nei confronti dei suoi diversi interlocutori si di­mostrò efficace: alla fine del 1610 aveva ottenuto, sull’astronomia telescopica, un monopolio che conservò grazie alle risorse che aveva a disposizio­ne come matematico e filosofo del granduca di To­scana.

Corriere della Sera 23.9.09
Oggi non c’è scampo. A imporre il silenzio è il grande business
di Massimo Piattelli Palmarini


Due sono i principali freni alla libera e precoce circolazione delle idee scientifiche e dei dati sperimentali.
Uno è costituito dal desiderio di avere la documentabile priorità personale di una scoperta, l’altro dal desiderio di ottenere l’esclusiva sulle possibili, spesso economicamente proficue, applicazioni.
Al giorno d’oggi la seconda motivazione è fortissima. Quando laboratori e istituzioni scientifiche sono finanziati con denaro pubblico, si pongono limiti alla segretezza. Ma anche in tale caso intervengono regole piuttosto ferree sulla divulgazione precoce. Una delle due principali riviste scientifiche internazionali che era solita mandarmi in anteprima, con embargo, le novità settimanali in quanto collaboratore del «Corriere», avendo appreso (e non era certo un segreto) che sono anche ricercatore in una università americana, mi ha comunicato da qualche mese che da ora in poi non riceverò più tali anteprime. La paura della divulgazione precoce verte su tre punti capitali.
Il primo è quello di rivelare l’inizio di un campo nuovo di ricerca, di una nuova linea sperimentale, di un nuovo sistema modello, sul quale possono subito «buttarsi» altri. Il secondo è quello delle tecniche e del loro successo.
O insuccesso, apprendere il quale può essere altrettanto interessante e far risparmiare tempo e denaro. Il terzo è rivelare chi è molto bravo e su cosa lavora e in che modo. Prima della presente crisi, un’allettante offerta di lavoro poteva piombare sull’interessato nell’arco di giorni o perfino ore, strappandolo all’istituzione. Come molte cose della vita, il segreto scientifico è un’arma a doppio taglio. Da un lato garantisce serietà, severo controllo e solidità ai dati e alle ipotesi. Dall’altro stravolge l’ideale della scienza come libero agone di idee e di risultati.

l’Unità 23.9.09
L’arruolamento nei ranghi militari sempre più difficile per i giovani volontari
Truppe di pendolari L’85% delle richieste viene dal sud, ma le caserme stanno a nord
Eroi da morti, precari da vivi L’Esercito dei «professionals»
L’85% dei volontari in ferma breve viene dal Sud. Hanno meno di 25 anni, molte speranze e poche certezze. Solo un terzo delle domande di impiego per un contratto annuale viene accettato. Il resto va a casa.
di Bianca Di Giovanni


Contratto annuale. Nel 2007 oltre 47mila domande, solo un terzo ce l’ha fatta

Doveva essere un esercito di «professionals», sta diventando una guarnigione di ragazzi senza speranza. Eroi da morti, precari da vivi. Ogni anno circa 45mila giovani tra i 18 e i 25 anni tentano di entrare nell’esercito almeno per un anno. È il primo passo per una carriera in divisa. L’85% di loro proviene dalla Regioni del sud: campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna. Molti entrano nei ranghi, ma dopo più contratti a termine sono messi in congedo: non c’è posto
Nel 2007 la Difesa ne ha mandati a casa 500: sono idonei ad entrare nella polizia, ma il posto non c’è per via del blocco del turn-over. Per loro la Difesa ha allestito dei percorsi di formazione, corsi di aggiornamento, riqualificazione. Ma i risultati non ci sono. Si è tentata anche la strada dell’incrocio delle domande con il mondo del lavoro. l’Azienda di elicotteri Agusta, sollecitata dal ministero, aveva offerto 109 posti. Ma l’operazione ricollocazione non è riuscita. Il fatto è che sono tutti giovani del sud, che a nord non hanno né casa, né famiglia. Da soli non ce la fanno con 800 euro al mese. Così, nulla di fatto.
DOMANDE
Sulle oltre 47mila domande presentate due anni fa per un contratto annuale, solo un terzo ce l’ha fatta. E solo un settimo di quelli che volevano proseguire per altri quattro anni dopo la prima ferma annuale è riuscito a farlo: poco più di 4mila persone su quasi 28mila domande. Cosa fanno gli altri 23mila? Cercano di restare un altro anno, per rientare il contratto lungo l’anno successivo. Ma il processo di arruolamento inaugurato con la fine della leva obbligatoria lascia a casa gran parte degli aspiranti soldati, e ne inserisce altrettanti in un meccanismo infernale di «rafferme» (cioè nuovi contrattini a termine), in vista di un’assunzione che rischia di non arrivare mai. La manovra triennale varata l’anno scorso, infatti, taglia del 40% le risorse per il reclutamento a partire dal 2010: dei circa 700 milioni necessari 304 vengono sottratti. Con questi numeri le stime sul futuro
sono disarmanti. I 78mila volontari di truppa, previsti dal modello professionale, si ridurrebbero a 45mila. Le speranze di chi vuole entrare si riducono sensibilmente: tanto che anche le domande sono previste in calo.
Nella stessa situazione di precarietà si trovano molte donne. Stando agli ultimi dati forniti dal ministero, tra i volontari a termine dell'esercito c’erano circa 4mila donne nel 2007, quelle della marina non superavano le 600 unità, mentre solo un’ottantina erano in aeronautica.
Chi entra ottiene un posto di lavoro spesso sottopagato (45 euro al giorno in Italia) e poco tutelato. Le malattie, per esempio, non sono coperte. In missione di guerra le cifre cambiano: si arriva a una diaria di 150 dollari. Una boccata d’ossigeno, certo. ma anche un rischio economico. Capita spesso, infatti, che con quella una tantum legata alla missione si sfori il tetto consentito per ottenere un alloggio della Difesa, cioè 39mila euro lordi annui.
SENZA TUTELE
Perdere la casa vuol dire molto. Soprattutto perché le caserme sono quasi tutte dislocate nel centro-nord, cioè in zone dai prezzi immobiliari molto alti. le infrastrutture militari italiane, infatti, seguono ancora una geografia legata all’epoca dei due blocchi. Insomma, è una dislocazione da guerra fredda, che prevedeva la costruzione della cosiddetta «soglia di Gorizia». Oggi non è più così, ma le strutture sono rimaste dove erano. Ai passaggi della storia, che hanno abbattuto la cortina di ferro, si è aggiunta l’abolizione della leva obbligatoria. Il risultato è che oggi i giovani militari sono quasi tutti meridionali, costretti a trasferirsi al centro-nord per nessuna ragione plausibile. Truppe costrette spesso al pendolarismo, sradicate dalle famiglie e dalle zone di provenienza. precari e senza cuscinetti, quando il contratto finisce.
E se si muore, come è accaduto a Kabul? per la famiglia c’è comunque una polizza vita finanziata dalla Difesa, che concede un risarcimento di oltre 400mila euro. In questo caso la copertura è più alta del lavoro civile, dove le morti sul lavoro sono risarcite con cifre molto più basse. ❖

l’Unità 23.9.09
Conversando con Aldo Schiavone Direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane
«Ormai abbiamo il sovversivismo al governo...»
di Pietro Spataro


Aldo Schiavone, storico, direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, non usa mezzi termini per descrivere lo stato presente dell’Italia. «Certo, la democrazia corre rischi seri, ma io sono convinto che il berlusconismo stia tramontando», aggiunge con sicurezza. «Questo premier non interpreta più il sentimento degli italiani».
Professore, a proposito dei sovversivi al governo il premier ha di nuovo attaccato l’opposizione accusandola di essere anti-italiana. Davvero la nostra democrazia è in pericolo? «Guardi, Berlusconi sta stressando la democrazia, la tira per i capelli. La sta impoverendo. Per lui democrazia vuol dire: si vota, chi vince comanda. In questa idea non c’è più ruolo per il Parlamento, si figuri la divisione dei poteri. Resta solo il rapporto carismatico del leader con il popolo che lo ha scelto. In questo senso certo che c’è un rischio per la democrazia. Però, anche se l’Italia rappresenta una versione estrema, la questione democratica è globale. Io dico
che in tutto il mondo c’è bisogno di un rinvigorimento della democrazia». Ha visto quel che ha detto il ministro Brunetta? Ha parlato di golpe e di una sinistra che deve “morire ammazzata”...
«Questi atteggiamenti ricordano molto quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ceti fragili e senza storia, proiettati all’improvviso al potere, assumono posizioni sovversive, ai limiti dell’anarchia. Chi guida questa logica è Berlusconi, Brunetta non fa altro che interpretare».
Ma è sicuro che Berlusconi sia al capolinea? Lo abbiamo sentito dire tante volte... «Sì, il declino c’è. Ma non per la storia delle escort. Il berlusconismo è esaurito, evaporato. Si ricordi che lui vince negli anni Novanta con un messaggio di ottimismo: arricchitevi senza regole. Allora interpretava una voglia di dinamismo della società italiana. Oggi invece è costretto a rovesciare il suo discorso. E infatti nel 2008 ha vinto facendo leva sulla paura. Il disfacimento che vediamo attorno a lui è conseguenza di questa perdita di rappresentanza».
È possibile che nasca in Italia una destra non più populista? «Credo di sì. In Italia ci sono due destre possibili. C’è quella di Bossi e Tremonti che hanno in mente un’Italia divisa, con un regionalismo lacerato. È una destra arroccata, ringhiosa, contraria al multiculturalismo, paurosa dell’Europa e della globalizzazione e che cerca di ritagliarsi un angolino ai margini. Su questa si posa l’ala protettiva della Chiesa. Poi c’è una destra che fa riferimento a Fini di cui ancora non capisco i confini ma che sembra più moderna, aperta, legalista.
Possiamo dire: una destra dei diritti. Queste due destre si contendono il campo. E l’esito è ancora difficile da intravedere». Come ha fatto secondo lei Berlusconi a cambiare lo spirito degli italiani? Come ha fatto a vincere culturalmente?
«Berlusconi è l’erede di Craxi. Lui e Craxi sono stati gli unici, anche se con pesanti limiti etici e culturali, che hanno letto la modernizzazione, hanno capito l’Italia post-industriale. Diciamo che, in un modo un po’ straccione, sono stati i Reagan e le Thatcher italiani. Berlusconi ha potuto svolgere questo lavoro in un vuoto politico, con una sinistra ancora legata al passato e incapace di interpretare il presente. Così è passato il suo messaggio: individualismo, consumismo, egoismo sociale, niente regole».
Insomma, la sinistra gli ha lasciato campo libero? «Certo, alla fine della prima repubblica la sinistra non è stata capace di fare una proposta al Paese. Ha compiuto troppi errori, si è trasformata tardi e in modo pasticciato. Se il Pci avesse avuto il coraggio di cambiare prima, credo che Berlusconi non ci sarebbe stato. Possiamo dire, in un certo senso, che Berlusconi è la conseguenza del ritardo della sinistra».
Ma chi ha sbagliato, Berlinguer? «No, perché Berlinguer non poteva fare di più, era dentro la storia del comunismo. Gli errori più grandi li hanno commessi i suoi eredi tra l’84 e l’89. Si è perduto troppo tempo».
Oggi come la vede l’Italia: un paese stanco, depresso? «Vedo un paese provato, toccato dalla crisi che avrà conseguenze che ancora non abbiamo visto. Stiamo andando verso un autunno che sarà pesante. Però io credo che l’Italia ha le risorse per reagire. Noi diamo il meglio nei momenti di difficoltà, quando siamo con le spalle al muro».
Ma come uscirne?
«Questo paese ha un grande bisogno di una leadership politica. Berlusconi non è più in grado di rispondere a questa domanda, la sua visione è entrata in crisi. All’Italia serve un leader che racconti un’altra storia».
Un bel compito per la sinistra...
«Sì, la sinistra ha una grande occasione, si sta aprendo uno spazio enorme: ora deve saper essere espressione della modernizzazione del Paese. Quando negli anni Sessanta e Settanta ha interpretato la spinta verso l’industrializzazione il Pci è diventato polo di attrazione per tante forze diverse per provenienza e matrice culturale. E lo sa perché? Perché vedevano quel partito come soggetto forte del cambiamento».
Ma che vuol dire modernizzazione? È una parola che si può declinare in modi diversi... «Le dico alcune parole fondamentali. Uguaglianza, ma non intesa in modo seriale: penso invece all’uguaglianza del merito. Nuovi legami sociali. Solidarietà. Nuovi rapporti tra generazioni. E nuovi rapporti anche tra vita e innovazione tecnologica, perché non si può lasciare tutto al mercato. Questi devono essere, per il centrosinistra, i capisaldi della modernità. Qualcuno potrà dirmi: facile a dirsi. Lo so, ma questa è la grande sfida». Nel suo ultimo libro “L’Italia contesa” lei sostiene che c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Ce la farà il Pd?
«Penso che il Pd abbia bisogno di una forte leadership unita a una forma partito robusta. È sbagliato mettere in contrasto partito del leader e partito organizzato, devono tenersi insieme. C’è bisogno di una pesantezza territoriale. Però attenzione alla fretta, queste sono operazioni che richiedono tempo. Quello del Pd è sicuramente un amalgama difficile ma guai se interpretassimo questa difficoltà come una impossibilità e quindi si reagisca con la voglia di tornare indietro, ai Ds e alla Margherita. Oggi non vedo altra prospettiva oltre al Pd».
Scusi, professore: che cosa c’è di sinistra nel Pd? «Veltroni ha compiuto diversi errori ma ha avuto un’intuizione giusta. Oggi serve una nuova cultura politica. La sinistra deve essere un’altra cosa rispetto al Novecento, non si può tornare alla vecchia cultura socialista». Qualcuno le obietterà: ma in Europa i socialisti ci sono...
«Sì, ma guardi bene. Guardi i socialisti francesi che cosa sono diventati, ormai sembrano ridotti a un’ombra di se stessi. E in Germania? La Spd soffre, non sa indicare una prospettiva e infatti vince la Merkel. Persino in Inghilterra è fallito il modello Blair che pure aveva tentato un certo rinnovamento. Questo succede perché tutte e tre le socialdemocrazie (anche se meno quella inglese) sono state esperienze legate al mondo industriale strutturato in classi, non sono state capaci di cogliere le novità dirompenti che entravano in scena. Non hanno compiuto la loro rivoluzione culturale».
C’è un’eccezione: Zapatero. Che ne dice?
«Dico: aspettiamo, bisogna vedere come va a finire. Anche nei paesi dove la tradizione socialista è forte ci sono difficoltà. Bisogna sapere vedere il nuovo: sono cambiati i confini dell’uguaglianza, dello stato sociale, del lavoro. È ora di chiudere con il Novecento. Non dico di cancellare il passato. Dico: usiamolo per fare qualcosa di veramente nuovo». ❖

l’Unità 23.9.09
No al nero in prima serata
di Igiaba Scego


Il 22 maggio 1979 un giovane somalo Amhed Ali Giama viene arso vivo vicino alla chiesa di Santa Maria della Pace a Piazza Navona, Roma. È un homeless, non ha niente, solo la sua piccola vita avvolta di stracci. Dell’omicidio sono accusati due giovani poi assolti per non aver commesso il fatto. Alcuni giornali parlano di una giustizia di parte.
Il 21 settembre 2009 alcuni ciclisti nel parco della Caffarella (sempre a Roma) notano il cadavere di Ali Farah Hassan e chiamano la polizia. Ali Hassan Farah era un profugo somalo. Lo conoscevano tutti nel quartiere, era solito lavare i vetri al semaforo dell’incrocio tra via Appia Pignatelli e via dell’Almone. Viveva in una tenda all’interno del parco. Era una persona tranquilla. L’unica sua “colpa” era la sua povertà. Non rivedrà più la Somalia.
A trent’anni di distanza non è cambiato nulla per i somali in Italia. La situazione per certi aspetti è addirittura peggiorata. L’Italia si è chiusa in se stessa. Invece di scendere in piazza per i diritti, alcuni trovano più facile prendersela con i settori più deboli della società. Per fortuna c’è una Italia sana, ma quella malata comincia a farmi davvero paura. Come mai questo odio per chi non si può difendere?
Ahmed e Ali erano rifugiati politici. Scappavano uno dalla dittatura feroce di Siad Barre e l’altro da una guerra in-civile che ha divorato tutti i sogni (e che è molto “alimentata” dall’Occidente che trova molto utile gettare i rifiuti tossici in mare somalo). E come sono stati accolti? Con il fuoco e le sprangate. Non si conoscono gli assassini di Ali Farah, ma l’Italia lo ha già ammazzato ignorandolo. All’inizio i cronisti non sapevano collocarlo nemmeno geograficamente. Senegalese? Ivoriano? Somalo? Se fosse stato bianco ora al parco della Caffarella ci sarebbe stato Bruno Vespa con una puntata speciale di Porta a Porta. Ma no i neri non meritano la prima serata.❖

Corriere della Sera 23.9.09
D’Alema: sbagliato l’antiberlusconismo che diventa anti-italiano
di Paolo Foschi


«Non siamo gli illuminati in un Paese disgraziato»

«Questo antiberlusconi smo che sconfina in una sorta di sentimento an ti- italiano è l'approccio peggiore alla grande sfida politica che il Paese ha di fronte». Lo ha detto ieri Massimo D'Alema, in qual che modo riecheggiando le parole pronunciate po che ore prima da Silvio Berlusconi. «L’opposizio ne — aveva affermato il presidente del Consiglio presentando la Finanzia ria — è anti-italiana, fa il tifo per la crisi e non vuole che l’Italia ne esca». E par­lando con i giornalisti Ber lusconi ha aggiunto: «Ho chiesto ai ministri di non rispondere più a domande sul gossip. Da qui in avanti a me potete fare solo do mande di politica vera».
Sferzata di D’Alema «L’antiberlusconismo a volte è anti-italiano»

ROMA — «L’opposizione è anti-italiana»: l’ennesimo j’accuse lanciato da Silvio Berlusconi contro il centrosi nistra divide il Pd. E, un po’ a sorpresa, mentre altri espo­nenti del partito reagiscono con toni duri al capo del go verno, il premier riceve, in qualche maniera, l’appoggio di Massimo D’Alema.

«C’è un anti-berlusconi smo che sconfina in una sor ta di sentimento anti-italia no. Questa concezione di una minoranza illuminata che vi ve in un Paese disgraziato è l’approccio peggiore, subal terno, che possiamo avere. Piuttosto bisogna sforzarsi di capire le ragioni della destra. Una destra nuova, post-libera le, anzi spesso illiberale», af ferma il presidente della Fon dazione Italianieuropei inter venendo alla presentazione del libro A destra tutta - Do­ve si è persa la sinistra? , del lo storico Biagio De Giovan ni. E — ancora — D’Alema ag giunge che «la sfida per il Par tito democratico non è inse guire la destra nel suo terre no, ma proporre un riformi smo alternativo a quel poco o niente di innovazione che è stata la destra negli ultimi 15 anni». Secondo l’esponente del Pd bisogna dunque lavo­rare a un progetto riformista «senza demonizzare Berlusco ni, sebbene al processo di de monizzazione reciproca Ber lusconi ha dato un contribu to potentissimo. Non è facile andare a un bipolarismo mite avendo davanti un avversa rio che tutto è, tranne che mi te ».

Rosy Bindi, che nel dibatti to congressuale, come l’ex mi nistro degli Esteri, sostiene Bersani, non sembra però convinta: «È vero — com menta a tarda sera — che c’è un certo anti-berlusconismo che rischia di essere impro­duttivo. Ed è altrettanto vero che D’Alema parla sempre per paradossi. Ma essendo convinta che Berlusconi non stia facendo il bene dell’Italia, credo che combatterlo faccia bene all’Italia». Prima la parla mentare del Pd aveva comun que invitato Berlusconi a «moderare il linguaggio» a «rispettare l’opposizione»: «Anti-italiani a chi? Pensi al suo governo. Un governo che vara leggi incostituzionali co me il Lodo Alfano e introduce il reato di immigrazione clan destina paralizzando le procu re d’Italia; un governo che ap prova una Finanziaria al buio senza affrontare i nodi della crisi lasciando sole le fami glie e le imprese; un governo che colleziona figuracce alle Nazioni unite. È questo gover no che dimostra di non avere a cuore il bene del Paese e di lavorare contro la dignità de gli italiani».

Enrico Morando, senatore di area veltroniana e sosteni tore della mozione France schini, riconosce che «spesso c’è un pregiudizio nei con fronti di Berlusconi che an nebbia la mente a una parte del centrosinistra». E aggiun ge: «Già diversi mesi fa avevo scritto che dovremmo occu parci di più di capire le ragio ni della destra e perché molti italiani si riconoscono in Ber lusconi. Detto questo, critica re per esempio le politiche economiche di questo gover no non ha nulla di anti-italia no ». Secondo Morando, «l’im mobilismo davanti alla crisi è sotto gli occhi di tutti. Siamo di fronte a un governo che ha negato la crisi in tutte le ma niere e anche quando ha rico nosciuto che c’è, a differenza di tutti gli altri Paesi non ha messo in campo interventi de cisi per affrontare la situazio ne. Tacere di fronte a questo atteggiamento da parte del l’opposizione sarebbe irre sponsabile ». Semmai, conclu de il senatore, è «anti-italia no il comportamento di un governo che lascia gli italiani in balìa della crisi».

Dario Franceschini invece è netto nel liquidare l’attacco di Berlusconi all’opposizione. Come aveva detto prima del­l’intervento di D’Alema: «An ti- italiano non è chi dice la ve rità e cerca di dare voce agli italiani in difficoltà, ma è un capo del governo che da oltre un anno nasconde la realtà della crisi e non dà risposte a milioni di italiani che non hanno più un reddito per vi vere ». E poi: «Anti-italiano è chi imbroglia il popolo».

Liberazione 22.9.09
In Italia la custodia cautelare raggiunge il 54%, nel resto d'Europa è solo al 24%
Celle affollate grazie al primato del carcere preventivo
Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro



Anche il sovraffollamento delle galere è un problema globale. Nelle prigioni dei 47 paesi che fanno parte del Consiglio d'Europa ci sono 1,8 milioni di detenuti e l'emergenza sovraffollamento tormenta 27 dei 47 paesi membri, Italia in testa. Intanto nelle patrie galere aumentano vertiginosamente i suicidi. Al 31 agosto di quest'anno si sono verificati già 48 episodi, contro i 28 riscontrati nei primi otto mesi del 2007 e i 30 del 2008. E chi non si è tolto la vita resiste in condizioni disumane.
Lo stato italiano è stato di recente condannato per trattamenti disumani per aver costretto un detenuto a vivere in 16 metri quadri insieme ad altre quattro persone. In carcere il tasso dei suicidi è di venti volte superiore a quello riscontrato nella società esterna (fonte: ristretti.it) e in Italia l'istigazione al suicidio è reato penale (art. 580 c.p.). La domanda (implicita) è: che condanna dovrebbe avere lo stato italiano per i detenuti che si sono tolti la vita per non morire in celle disumane?
Tornando ai tristi primati del Belpaese, le patrie galere primeggiano anche per il numero di detenuti in custodia cautelare. Basti pensare che nelle carceri dei 27 paesi dell'Ue vi sono 130mila persone in attesa di giudizio, un quarto delle quali in Italia, con una crescita del 70% negli ultimi dieci anni. E mentre nell'Ue i detenuti in custodia cautelare rappresentano una media del 24%, in Italia costituiscono il 54% della popolazione carceraria.
Più che "certezza" della pena in Italia bisognerebbe parlare di "certezza della anticipazione di una pena", in spregio al valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Eppure nel Belpaese i reati sono in diminuzione, sin dal secondo semestre del 2007. Addirittura nel 2008 gli omicidi volontari sono al minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all'anno precedente, le rapine del 28,8%, l'usura del 10,4%, la ricettazione del 31,6%, la violenza sessuale dell'8,4 e il riciclaggio del 5,8% (fonte: Unione camere penali). A dimostrazione del fatto che l'aumento delle carcerazioni è una variabile indipendente che prescinde dal reale andamento dei crimini. L'aumento delle carcerazioni, piuttosto, dipende dalla percezione di insicurezza e dall'abuso che di tale percezione fanno politici e media. Aumento di carcerazioni, inutile dirlo, che riguarda quasi esclusivamente stranieri che commettono irregolarità amministrative e consumatori di droghe. Non certo i colletti bianchi che beneficiano dell'amnistia di classe chiamata prescrizione (secondo i Radicali, negli ultimi 10 anni vi sono stati due milioni di processi estinti per tale ragione). Scrive un detenuto del carcere di Spoleto, Carmelo Musumeci, una delle voci di protesta contro la pena dell'ergastolo: "i colletti bianchi non sono solo criminali, sono molto di più, sono criminali disonesti cattivi, furbi e malvagi più di tutti gli altri criminali perché usano la legge, il potere, la cultura, l'intelligenza e il bene per fare il male. E di questi mafiosi ‘perbene' non ne ho mai trovato uno in carcere"; ed ancora "spesso i buoni fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali". A proposito. A Carmelo Musumeci da mesi viene trattenuta la corrispondenza finanche con il suo tutore e l'associazione Antigone. La libertà di espressione, evidentemente, è un diritto costituzionale inviolabile ma non troppo. Il bavaglio al dissenso, nel nostro paese, sta diventando una pre-regola del gioco. E se lo è per le alte cariche dello Stato e per giornalisti del Vaticano, figuriamoci per un ergastolano. Chi si indignerà per lui?


martedì 22 settembre 2009

l’Unità 22.9.09
«Condizioni spaventose» L’accusa contro il governo: rimandati versoTripoli, inaccettabile
Il nodo delle domande d’asilo. Bocciata la linea italiana. Barrot: aspettiamo risposte
Onu e Europa: l’Italia fermi i respingimenti verso la Libia
di Marco Mongiello


Doppia «condanna» a Bruxelles durante la riunione dei ministri dell’Interno europei: adesso basta con le politiche di allontanamento indiscriminato di immigrati verso paesi «dove ci sono minacce per le loro vite».

BRUXELLES. L’Italia fermi i respingimenti, perché la situazione è «inaccettabile» e le condizioni degli immigrati «spaventose». Cresce la pressione della comunità internazionale sull'Italia per la sua discussa politica sull'immigrazione. Ieri sono stati il vicepresidente dell'Ue, Jacques Barrot, e l'Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, a condannare le scelte di Palazzo Chigi, in occasione della riunione dei ministri degli Interni europei a Bruxelles. L'Italia, ha insistito il segretario agli interni Francesco Nitto Palma, è in linea con le norme internazionali.
MISSIONE IN NORD AFRICA
Al termine dell'incontro Barrot ha annunciato che si recherà a Tripoli «per dire ai libici che la situazione non è più accettabile e non può più durare». Secondo il vicepresidente dell'esecutivo Ue la Libia non è in grado di garantire la gestione dei richiedenti asilo e «proprio per questo vogliamo aprire un dialogo». Secondo il commissario Ue oggi i rifugiati «che si trovano in Libia sono praticamente costretti a trattare con i trafficanti di esseri umani per poter raggiungere le nostre coste ed ottenere una protezione internazionale». All'Italia, ha riferito, «abbiamo ricordato i principi, secondo cui non si rinviano le persone in Paesi dove ci sono delle minacce per la loro vita».
Al governo italiano «abbiamo chiesto molte spiegazioni», ha ricordato Barrot, «e stiamo ancora valutando le risposte». Ancore più dure le parole di Guterres, secondo cui le condizioni degli immigrati in Libia sono «spaventose» e «c'è il rischio per le persone che necessitano di protezione internazionale che vengano respinte nei propri Paesi d'origine».
Per questo il commissario Onu ha espresso «forti riserve» sulla politica di Maroni, con cui è sfumato l'incontro a causa dei funerali dei soldati italiani caduti a Kabul. Bocciata la teoria di Palazzo Chigi secondo cui le domande d'asilo vanno fatte in Libia. In quel Paese «l'Unhcr lavora senza un riconoscimento ufficiale», ha spiegato Guterres, «ma è proprio perché ci lavoriamo che diciamo che non ci sono le condizioni per fornire protezione adeguata ai richiedenti asilo». Per il rappresentante delle Nazioni Unite l'identificazione va fatta dove si possono controllare le condizioni umanitarie. Per questo l'esperienza del centro di Lampedusa era «straordinariamente importante e positiva», ha detto, auspicando «che questa esperienza possa essere ripresa e funzionare pienamente».
IMPEGNI VOLONTARI
I ministri europei si sono detti d'accordo con la proposta della Commissione per ridistribuire nell'Ue i richiedenti asilo, ma a patto che il programma resti «volontario». Ma, ha sottolineato il collega tedesco, Wolfgang Schauble, rispondendo ad una domanda sulla politica italiana, «il rispetto dei diritti umani non può mai essere messo in discussione, in nessuna parte dell'Unione europea».
Il sottosegretario Nitto Palma ha presentato la richiesta italiana per «uno specifico programma dedicato ai richiedenti asilo presenti in territorio libico», in particolare per quanto riguarda coloro che provengono dalla regione del Corno d'Africa. Ma la difesa della linea Maroni diventa sempre più difficile.
Delle 757 persone respinte «nessuno ha chiesto protezione internazionale quando si trovava sulle navi italiane», ha azzardato il sottosegretario in conferenza stampa. Peccato che diversi esponenti del governo abbiano ammesso che è impossibile fare le domande d'asilo sulle navi e che statisticamente è ovvio che tra 757 migranti ci siano rifugiati che hanno diritto alla protezione internazionale.
DOMANDE INEVASE
Possibile che nessuno abbia fatto domanda? Chi lo ha verificato sulle navi? «Io sono sottosegretario al ministero dell'Interno si è difeso Nitto Palma e sono abituato a parlare sulla base ufficiale dei dati che risultano al ministero e che risultano dal personale che ha operato in quegli interventi».
La verità, ha osservato il capodelegazione del Pd all'Europarlamento, David Sassoli, è che «l'arrogante politica xenofoba messa in atto dal Governo italiano continua a creare imbarazzo al nostro Paese» e, secondo l'eurodeputato dell'Italia dei Valori, Luigi De Magistris, i richiami di Onu e Ue «rappresentano l'ennesima umiliazione inferta al Governo italiano».❖

l’Unità 22.9.09
«Stupri e poliziotti corrotti: l’orrore nelle carceri di Gheddafi»
Il rapporto di «Human Rights Watch»: i migranti respinti in Libia sottoposti a trattamenti brutali
I racconti dal campo di Bin Gashir: «Gli agenti arrivano di notte e scelgono le donne da violentare»
di M.Mo.


BRUXELLES. Le autorità italiane rispediscono brutalmente i rifugiati nelle mani dei loro torturatori, le autorità libiche commettono abusi e l’Unione europea non fa rispettare le leggi. È questo il quadro che emerge dal rapporto presentato ieri dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), intitolato «Scacciati e schiacciati» e dedicato ai respingi-
L’accusa
«Roma viola i propri doveri l’Ue impedisca i rinvii»
menti italiani in Libia. «L’Italia si legge nel rapporto intercetta migranti e richiedenti asilo africani sui barconi e, senza valutare se possano considerarsi rifugiati o siano bisognosi di protezione, li respinge con la forza in Libia, dove in molti sono detenuti in condizioni inumane e degradanti e vengono sottoposti ad abusi». Il documento è stato diffuso in coincidenza con la riunione dei ministri degli Interni europei a Bruxelles, dove l’Italia ha ribadito di essere in linea con le normative internazionali. «La realtà è che l’Italia sta rimandando questi individui incontro ad abusi», ha detto Bill Frelick, direttore delle politiche per rifugiati di Hrw e autore del rapporto, «i migranti che sono stati detenuti in Libia riferiscono categoricamente di trattamenti brutali, condizioni di sovraffollamento ed igiene precaria».
Secondo Frelick Roma «viola i propri doveri legali» e Bruxelles «dovrebbe esigere che l’Italia rispetti i propri doveri ponendo termine a tali rinvii verso la Libia. Altri Stati membri dell’Ue dovrebbero rifiutare di prendere parte ad operazioni di Frontex
(l’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne, ndr) che sfociano in rinvii di migranti ed abusi».
La denuncia dell’Ong, che conferma quanto documentato dalle inchieste de l’Unità, si basa su delle interviste condotte a maggio 2009 con 91 immigrati e rifugiati in Italia e Malta e su un’intervista telefonica con un immigrato detenuto in Libia. Le autorità di Tripoli hanno rifiutato l’accesso ai loro centri di detenzione, denunciano gli autori, e le autorità italiane hanno concesso solo interviste molto brevi con gli immigrati presenti nei centri di Caltanissetta, Trapani e Lampedusa e hanno rifiutato ogni incontro con rappresentanti del Governo. Gli italiani, si spiega nel testo, «usano la forza nel trasferire i migranti dai barconi su imbarcazioni libiche o li riportano direttamente in Libia, dove le autorità li imprigionano immediatamente» e alcune di queste operazioni sono coordinate da Frontex. Si tratta di «un’aperta violazione dell’obbligo di non commettere refoulement», il respingimento indiscriminato.
Le testimonianze raccolte sono agghiaccianti. Si parla di percosse, di abusi, di violenze sessuali. Al campo di deportazione libico di Bin Gashir, ha raccontato Paul Pastor (i nomi sono modificati) le autorità «iniziarono subito a picchiare sia me che gli
Il ministro delle pari Opportunità altri. Alcuni dei ragazzi furono picchiati al punto da non poter più camminare». Madihah, una ragazza eritrea di 24 anni, ha raccontato che «tutte le donne hanno avuto problemi con la polizia» libica, che «arrivava di notte e sceglieva le donne da violentare».
Non va meglio per i minori. «Le autorità libiche si legge non sembrano fare nessuna distinzione tra adulti e bambini non accompagnati» e questi sono di solito messi nelle stesse celle con il «rischio di abusi e violenze».
Tutti inoltre hanno riferito che la differenza tra i trafficanti di esseri umani e la polizia libica è molto sfumata. Spesso gli immigrati sono detenuti fino a quando qualcuno non paga dei soldi, che non si capisce se a titolo di cauzione o riscatto.
L’Italia, conclude il rapporto, «dovrebbe smettere immediatamente di violare i suoi obblighi sul non respingimento» e dovrebbe anche smettere di cooperare con la Libia. In base al Trattato firmato da Berlusconi il 30 agosto 2008, Roma si è impegnata a finanziare il 50% delle spese per i controlli effettuati da quelle stesse autorità libiche che maltrattano i migranti. Piuttosto bisognerebbe aumentare la cooperazione con l’Agenzia Onu per i rifugiati, suggeriscono gli attivisti di Human Rights Watch.
Da parte sua l’Unione europea dovrebbe esigere dall’Italia il rispetto delle norme Ue e internazionali, incoraggiare la Libia a ratificare la Convenzione di Ginevra ed inserire esplicitamente la questione dei diritti umani nel prossimo accordo quadro con Tripoli. ❖

l’Unità 22.9.09
In ricordo di Jerry Masslo. Il prossimo 26 settembre Villa Literno si mobilita
di Romana Sansa


Aveva 30 anni. Era arrivato a Roma come rifugiato politico. Nell’estate dell'89 era andato a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. La notte del 25 agosto, mentre dormiva, era stato aggredito da giovani locali che volevano derubarlo. Mentre tentava di difendersi, venne ucciso.
La notizia produsse un’emozione fortissima: mai era successo un fatto del genere in Italia (altri, purtroppo, sarebbero seguiti).
In maniera spontanea venne decisa una manifestazione nazionale antirazzista, la prima, per il 7 ottobre, e vi partecipò gran parte della società civile e religiosa. Per ore italiani e immigrati, uomini e donne giunti da tutta Italia, sfilarono per le strade di Roma. La morte di questo giovane contribuì alla discussione pubblica che sfociò nella legge Martelli.
L'anno successivo, nell'agosto del '90, davanti al cimitero di Villa Literno, dove era stato sepolto Masslo, le Confederazioni sindacali e l'associazione Nero e non solo realizzarono un campo con tende, docce e mensa, affinché i raccoglitori di pomodoro non dormissero nella polvere. I giovani volontari organizzavano le presenze. Tutti gli immigrati avevano il permesso di soggiorno o la ricevuta della presentazione della domanda.
Fu un'esperienza molto intensa, che coinvolse positivamente una parte della popolazione locale.
A 20 anni di distanza, il 26 e 27 prossimi, a Villa Literno si ricorderà Jerry Essan Masslo grazie a un’iniziativa del Forum campano per l’eguaglianza. Nel frattempo, il nostro paese è diventato irriconoscibile, attraversato da feroci tentazioni xenofobe. E, dunque, oggi la domanda è: come salvare le vite dei tanti Jerry Masslo, che non riescono nemmeno ad attraversare il mare per chiedere rifugio politico?

l’Unità 22.9.09
Conversando con Goffredo Fofi critico cinematografico e letterario
«Gli intellettuali? Servi del potere di turno Una brillante corporazione»
La sinistra si è suicidata e «sinistra» è rimasta una parola senza senso
di Oreste Pivetta


Farabutto, coglione, va’ a morì ammazzato. Da tempo ormai. Ha ragione Brunetta quando dice che tutto sommato sono soltanto modi di dire popolari. Ma una volta a scuola si sussurravano appena e per sentirli sonanti bisognava incappare in una lite di mercato o di condominio. Adesso siamo alle platee politiche e alle (massime) responsabilità politiche, dopo un breve viatico televisivo, con la scusa del dialetto, nell’esercizio del dialetto come piacerebbe a Bossi (dal celeberrimo gesticolare), ma dalla parte del potere. Democrazia tra Chavez e Putin, diceva ieri Daniel Cohn Bendit, il politico francese, all’Unità. Storie diverse. Con un filo d’arroganza nazionale si potrebbe alludere a tradizioni democraticamente diverse, almeno dalla metà del secolo scorso. «Ma nell’ultimo ventennio – dice Goffredo Fofi, tra i pochi intellettuali critici di questo paese – ci siamo messi a correre: stupisce la rapidità del declino...».
Le tradizioni, a quanto pare, sono andate a farsi benedire, divelte, sconquassate, annichilite nel confortante silenzio delle mag-
gioranze. Perché alle fondamenta del regime berlusconiano ci staranno i soldi, ci staranno le televisioni, ma ci stanno anche le maggioranze... Come definirle queste maggioranze? Menefreghiste, qualunquiste, indifferenti, sfiduciate? Perché ci siamo così presto abituati alle bravate, parole e atti, dei nostri governanti? Insomma che paese siamo? «Rispondo che ha ragione Cohn Bendit: tra Putin e Chavez, in mezzo a qualsiasi dittatorello che non ha più bisogno delle armi e dei bastoni per imporsi. Ma è una storia antica: il populismo è l’arte di manipolare l’opinione pubblica e gli esempi risalgono ai millenni passati. Nerone insegna. Adesso semplicemente si usano i mezzi di comunicazione di massa, ma non è che allora non non ne disponessero con la loro buona parte di originalità». Magari offrendo i cristiani in pasto alle belve. «Il problema sarebbe reagire. Ma chi reagisce? La destra non ha nulla da dire e non ha neppure interesse a dire qualcosa o a cercarsi altre strade o altre collocazioni e la sinistra si è suicidata e “sinistra” è rimasta una parola senza senso, che evoca soltanto assembramenti e divisioni, clan, famiglie, gruppi e litigi, con un modello di sviluppo in testa che non è diverso da quello che agita chi governa e con l’idea fissa soltanto di entrare nelle stanze del potere. Per che cosa, per quale futuro? Quali prospettive ci vuole indicare?». Ci è capitato di leggere quella bellissima invettiva di Don Tonino Bello contro gli intellettuali: «Siete latitanti dall’agorà.... State disertando la strada... Vi siete staccati dal popolo». D’accordo: chi avrebbe il compito di criticare e di pensare per l’avvenire non è più un riferimento per il presente, è diventato un imbonitore a libro paga... «Sono stato di recente a un convegno sul teatro. E naturalmente parlando di teatro e di teatranti, la prima questione che salta fuori sono i finanziamenti. Ogni assessore ritiene che i soldi della collettività siano suoi e ne deduce di poterne fare quello che vuole: premiare l’amico, il parente, premiare chi gli lecca il culo...». Siamo arrivati al cattivo esempio della parolaccia... «Per dire però che l’abbandono di criteri morali e culturali è ormai una questione antropologica...». Di una mutazione antropologica. Siamo di nuovo alla fine delle lucciole. Non è il malaffare o l’ignoranza del singolo... «No, si fa così perché s’è rinunciato a ragionare, a immaginare il domani, a discutere e a decidere che cosa sia sbagliato e che cosa sia giusto e scegliere il giusto, anche quando il popolo sbraita chiedendo caramelle invece di un lavoro serio o di una scuola seria...». Siamo al top del disastro. E, permetti, non è questione di precari...«No, il caos generale dimostra come la scuola abbia esaurito la sua funzione. Gli utenti, clienti, consumatori, la gente insomma, pensa che così debba essere e che così si debba continuare a governare, in una società guidata dal ciclo delle merci e dalla pubblicità. Si è abituata. Ecco la mutazione».
E gli intellettuali? Non dovrebbero aprirci gli occhi? «Gli intellettuali prosperano, autentici guru, predicatori inesauribili, megalomani e narcisisti, che non contano niente o contano soltanto in funzione di un potere che li usa come mediatori, un potere molecorale rappresentato e conteso tra mafie, camorre, massonerie di ogni genere... Clan opportunistici di cui l’Italia è strapiena. Poi arriva Brunetta e annuncia: basta con l’assistenzialismo, basta con il clientelismo. Salvo poi rifare assistenzialismo e clientelismo per quelli e con quelli che gli stanno più simpatici. Vedi, la Costituzione dice che bisogna dare ai poveri e ai meritevoli: ma chi giudica? Dove stanno in Italia i probiviri? Frequenti le giurie dei premi letterari: sempre gli stessi, critici e autori, che parlano di se stessi e dei loro libri, premiati e premiatori insieme, una volta a te, una volta a me. Una brillante corporazione. Chi sente più la responsabilità nei confronti della società? Nessuno». Nessuno che insegni. È un paradosso, forse. «Ma certo. L’Italia è paese ancora vivo grazie a tante brave persone. Se non fosse così sarebbe alla catastrofe». Mancano i punti di riferimento... «Alla lettera. Non esistono persone di riferimento. Morte. Non esiste chi pensa, chi guarda avanti, chi immagina il futuro, chi rifà opera di formazione nei confronti delle giovani generazioni in rapporto a ciò che dovrà essere. Solo o con gli altri. E qui s’aggiunge la terribile colpa della sinistra, di una sinistra piegata a rincorrere chi ha vinto, cioè i modelli del consumismo, delle merci, del libero mercato...».
La vorresti alternativa? «La vorrei solidale, capace di ascoltare, capace di inventare, critica. Ennio Flaiano diceva che la sinistra è bravissima a fare l’autocritica degli altri». C’e una bella espressione di Cohn Bendit, che ho letto sulla tua rivista, «Lo straniero»: «...continueremo nello sforzo di spezzare la caratteristica proprietaria del sistema politico sia a livello nazionale che locale ed europeo. Più che mai noi promuoveremo il concetto di software libero applicato alla politica e alla società». «Sì, per rompere gli schemi di una democrazia autoritaria e proprietaria. Il che significa in questo paese ricostruire una cultura diffusa dello stato e della collettività. Come mi è sempre parso si fosse riusciti nel ventennio dal ’43, dalla Resistenza, al ’63, al tramonto cioè del centro sinistra, alla sconfitta dei suoi disegni più innovatori...».
Basterebbe pensare alla casa, all’urbanistica, al ruolo allora di tanti intellettuali. «Quelli che adesso mancano. Perché non esistono più i critici, non esistono i teorici. Sopravvivono gli informatori e gli accademici, come Asor Rosa, che ancora predica l’autonomia della politica. Tutti affetti da narcisismo. Mi è appena arrivato un libro di Lucio Magri, con la sua bella faccia in copertina. Ma capisci! Neanche fosse Clooney. Si specchierà nella sua copertina. Invece credo che il primo dovere degli intellettuali, compreso il sottoscritto, sia certo guardarsi allo specchio, ma per sputarsi in faccia, per riconoscere il proprio fallimento».
Una volta si diceva: ci salverà la Chiesa... «Tutti crediamo che la Chiesa si debba occupare della gente, cioè della collettività dimenticata dalla politica. Ma il primo scrupolo della Chiesa è la salvaguardia della istituzione». Come saremo? «Quello che colpisce è la velocità appunto del declino italiano. In altri paesi d’Europa il senso dello Stato e il senso della comunità resistono. Da noi dominano egoismo e cinismo orripilanti. A Venezia, all’uscita dal cinema, dopo la propriezione del film di Patrick Chereau, la gente quasi vomitava: se qualcuno ti mette di fronte alla realtà, le reazioni sono il vomito e la fuga». ❖

l’Unità 22.9.09
Fine vita: lo sguardo senza retorica di Ignazio Marino
«Nelle tue mani» del chirurgo senatore riflette su terapie e alimentazione forzata, dottori e malati a confronto con la morte, mentre il parlamento discute una legge illiberale
di Elisabetta Ambrosi


Solo nel paese cui si è scritto che Goebbels era un fanciullino rispetto a Beppino Englaro e ai suoi sostenitori (Il Foglio, 23 febbraio); e in cui si sta discutendo un disegno di legge che permette ai cittadini di stilare dichiarazioni anticipate di trattamento che poi possono essere beffardamente ignorate, costringendoli a mangiare «pane ed acqua» all’infinito; solo in quel paese può accadere che un cattolico mite come Ignazio Marino appaia un pericoloso radicale.
Non c’è invettiva, né provocazione, ma soprattutto narrazione e racconto nel suo ultimo libro, Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti (Einaudi, pp. 226, euro 18). Da uomo di mediazione e dialogo, Marino preferisce mettere chi legge in ascolto dei malati in attesa di trapianto o affetti da malattie degenerative. Ovvio dovrebbe apparire, in un paese normale, che il rifiuto da parte del paziente di «un’incisione fatta con il bisturi per cucire un tubo nell’addome in modo da somministrare con una pompa meccanica sostanze chimiche» (il «pane») sia un atto etico del tutto identico al rifiuto di un trapianto o di una chemioterapia, e in quanto tale da rispettare poiché costituzionalmente previsto.
Autoevidente, anche, dovrebbe essere che il rispetto di questo rifiuto è eticamente e praticamente distinto da eutanasia o suicidio assistito. E che, infine, il dovere di un medico di fronte ad un paziente imprigionato in un corpo-bara non sia solo evitare la morte «che fa parte della vita, ed è la conclusione naturale di molte malattie» ma soprattutto allontanare le sofferenze insopportabili.
Nulla di tutto ciò è scontato, in un paese che «ha perso il suo umanesimo e il suo buonsenso», scrive il senatore chirurgo. Ci si aspetterebbe, come ripiego consolatorio, una compattezza del Pd sull’evidenza di alcuni
punti al fine di rispettare, scrive il candidato alla segreteria, «i principi della libertà, del rispetto, dell’uguaglianza, del diritto, elementi irrinunciabili in cui si riconoscono quasi tutti i cittadini italiani» e per questo «non avere alcuna esitazione nel momento in cui c’è bisogno di schierarsi dalla parte della libertà e dei diritti civili».
Invece, il Pd è arrivato a spaccarsi persino sul ddl Eluana, incapace di ascoltare la ragionevolezza delle parole di chi è colpito. «Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita», scriveva Welby in una lettera al presidente della repubblica pubblicata per intero nel libro, «non ci si trova in presenza di uno scontro trachièafavoredellavitaechièa favore della morte, perché tutti i malati vogliono guarire, non morire».
Per questo, quando un malato, al quale «morire fa orrore», «decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita, io credo che questa sua volontà debba essere rispettata e accolta».
La volontà di Welby non è stata rispettata, come non lo sarà quella di tutti i cittadini italiani se passerà una legge che costringerà persino chi con le sole palpebre chiede di staccare la macchina che lo tiene in vita, e non può da solo compiere alcun gesto, ad andare avanti all’infinito. In una sorta di beffarda vita eterna, dispensata in vita da sacerdoti quelli laici di maggioranza che legiferano, quelli di opposizione che tacciono o fiancheggiano, quelli religiosi che hanno negato i funerali a chi è colpevole solo di essere malato che nessun Dio ha investito di quel ruolo.❖

Repubblica 22.9.09
Pechino celebra i 60 anni della Rivoluzione con manifestazioni e musei dedicati al grande timoniere
La Cina capitalista rilancia Mao
di Yan’ An e Giampaolo Visetti


Viaggio nella Cina che festeggia i 60 anni della Rivoluzione. E che tenta l´impossibile: guardare al futuro santificando il Grande Timoniere

A sessant´anni dalla sua vittoria, il comunismo della Cina aveva due alternative. Uccidere Mao, consegnandolo alla storia. Oppure fingere che sia ancora vivo, proiettandolo nel futuro. Ha scelto una terza via, impossibile ma audace: sacralizzare, dopo le sue spoglie, anche la sua esistenza, per trasformare il passato di un uomo nel destino di un popolo. Fino ad oggi Pechino si era legata ad un doppio simbolo: il mausoleo di Mao su piazza Tiananmen e le grotte dei rivoluzionari a Yan´an, la città dove è terminata la Lunga Marcia e i comunisti hanno vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-Shek. Luoghi ormai invecchiati, che i cinesi da tempo frequentano con l´entusiasmo di una visita dal dentista. Il potere, che il primo ottobre celebrerà la propria transecolare immutabilità con un´esibizione di forza che non ha precedenti, ha sentito che serviva altro. Nel Grande Anniversario, pensato per sancire il primato dell´inarginabile superpotenza globale, ha creato molto più di un monumento a se stesso: una Mecca rossa piuttosto, o un Vaticano socialista, il tempio generatore della nazione.
Il nuovo «Museo della rivoluzione», appena inaugurato a Yan´an, un´ora di volo dalla capitale, nello Shanxi, non è meta per turisti. Qui si viene in pellegrinaggio. Organizzati, spinti, magari obbligati: ma pellegrini. La scenografia è colossale. Sullo sfondo di una piazza immensa, lastricata di pietra candida, domina una montagna di marmi. Nessuno sa precisare quanto sia costata: 6, 15, 20 milioni di dollari. Ognuno, in città, formula con orgoglio la somma più esagerata che riesce a immaginare. All´interno si apre una sorta di universo parallelo, l´impressionante ricostruzione del mito fondativo della patria.
Il primo ottobre Pechino celebra i 60 anni della Repubblica popolare: a Yan´an, nell´antico quartier generale di Mao, un nuovo museo ripercorre le gesta dei padri della Patria. E lancia un ammonimento alla moderna potenza economica: crescere va bene, ma non bisogna allontanarsi troppo dalle radici
Si preparano 10 giorni di feste e balli: per esaltare il passato e far paura agli altri paesi
Al centro di tutto c´è il Grande condottiero: nulla invece sui problemi ancora aperti

Le antiche grotte scavate nella terra arancione da cui sgorga il fiume Giallo, il quartier generale dei rivoluzionari tra il 1937 e il 1947, le dimore di Mao Ze Dong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping, non sono più che il prologo esausto di una stravolta liturgia. È nel trapiantato cuore del socialismo di mercato, che la Cina espone invece la propria reliquia: la prova fisica dell´origine di una identità, la ragione del dilagato neonazionalismo.
Un giorno a Yan´an, sessant´anni dopo il primo discorso da vincitore del Grande Timoniere, in equilibrio tra le gesta dei maoisti e la loro disneyana trasfigurazione, aiuta a percepire il segreto di questo misterioso Paese. Dall´alba, migliaia di persone assediano il Museo che riassume la gloria del loro dramma. C´è chi ha impiegato giorni, per arrivare qui dal suo villaggio, chi una settimana di corriera tra risaie e ciminiere. Vecchi e ammalati, o coppie in abiti da sposi, dopo durature attese, si lasciano spingere lungo corridoi infiniti, traboccanti di documenti, fotografie, divise e armi. Solo le immagini di Mao sono a colori. All´ingresso una scritta spiega che «questa è la terra sacra della rivoluzione, la culla della Cina moderna». Di conseguenza, all´interno, la folla si muove in religioso silenzio, bambini compresi.
Pan Fuquan, paralizzato alle gambe, viene portato in braccio dai nipoti di Shenzhen, attraverso sale che ricostruiscono epiche battaglie, città bombardate e riconquistate, campagne collettivizzate. Ogni volta che arriva davanti ad un reperto di Mao, basta una lettera con la sua calligrafia, divenuta carattere, il vecchio pretende di essere deposto a terra e prega. Anche la moltitudine accanto a lui manifesta la commozione di chi spera in una grazia. Si fa fotografare davanti alle statue degli eroici leader della resistenza, o presso cumuli di zucche e pannocchie finte, emblema della riforma agraria. Lo sfondo più ambito è il cavallo imbalsamato di Mao, bianco e tozzo, però «forte e veloce», come avverte un cartello. Due ragazze, di fianco alla mummia lucida dell´animale, piangono, mentre soldatesse-guide in divisa grigia declamano nei megafoni la mitologia rivoluzionaria.
I pellegrini di questo santuario estremo del solo totalitarismo del Novecento rimasto al potere, conoscono ogni cosa a memoria. Nelle grotte polverose osservano seri l´essenzialità monastica di brande e sdraio da spiaggia, non sempre di un tavolo, il solo arredo dei fondatori della patria. Apprendono la lezione sulla sobrietà originaria del partito, e silenziosamente riflettono sull´esibita opulenza dei funzionari di oggi. Nelle sale scintillanti ammirano estatici il grandioso Luna Park della rivoluzione e della cacciata dei giapponesi, i plastici a grandezza naturale che trasformano ogni dubbio in una certezza contemporanea. In tre piani, dove si possono trascorrere giornate ad allontanare ombre e a viaggiare di vittoria in successo, di coraggio in sacrifico, non c´è una sedia, o una panca. La massa, negli ultimi saloni riservati alla «costruzione del potere», si trascina esausta, come per espiare qualche inconfessata incertezza, però fiera di contribuire a rimettere in scena la sua «memorabile impresa». Perché non è il contenuto, la sostanza del Grande Museo del Sessantesimo, bensì lo strabiliante contenitore costruito in soli due anni affinché la Cina possa «recuperare e rinnovare lo spirito di Yan´an».
È chiaro che quello «spirito», con le sue indispensabili falsificazioni, è estinto. All´uscita quattro immagini documentano la mutazione perfino corporea, quasi razziale, tra il gonfiore trasandato di Mao Zedong e Deng Xiaoping, e l´asciuttezza ricercata di Jiang Zemin e Hu Hintao: un altro mondo, altri indumenti, oltre che un altro tempo. Del resto anche la città del trionfo comunista, appena oltre il percorso chiuso della memoria costruita in laboratorio, è l´opposto della sua replica. Il petrolio sgorga oggi abbondante sotto i campi di battaglia e sommerge i rifugi rossi con un mare di renmimbi. Grattacieli, cantieri, centri commerciali, traffico di suv e Audi, vecchi quartieri sventrati, negozi e hotel di lusso, demoliscono in un passo l´ostinata deificazione della sorgente che alimenta l´immutabilità apparente del potere. Nel pomeriggio un corteo di berline nere, a sirene spiegate, si blocca davanti alla squallida grotta di Zhu De.
Balzano fuori alcuni giovanotti in affari, che accompagnano i loro bambini griffati «a giocare alla guerra contro gli imperialisti». Nell´ex miglior albergo della città, una vecchia vive invece in ascensore. Per dodici ore al giorno, ricompensata con gli avanzi di cucina, passa uno straccio sudicio su uno specchio ancora più unto. E´ comprensibile che anche i cinesi, pur così devoti alla loro nuova rappresentazione, dopo sessant´anni si aggirino nell´irriconoscibile Yan´an con qualche domanda negli occhi.
Sentono, come dice un alto funzionario a riposo, che «non è il partito comunista ad essere della nazione, ma la nazione ad appartenere al partito comunista». Si chiedono perché, dopo un passato che non conosce sconfitte e in un presente che non riconosce errori, milioni di compagni continuino a soffrire nell´ingiustizia e inesperti della libertà. Questo «non detto» della storia, la museificazione definitiva del «mai ammesso», finisce per demolire l´impressionante città-specchio di Mao, destinata a rappresentare il passaggio dall´ideologia alla teologia del «socialismo alla cinese». La grande occasione perduta di dire la verità su se stessa, ora che la Cina potrebbe permetterselo dando un´altra lezione di modernità al mondo, è il cuore del fallimento dell´imminente Sessantesimo. L´ombra della cattedrale vuota di Yan´an, ridotta a umiliante luogo di preghiera del potere cinese, si proietta così fino a Pechino.
Da mesi la capitale del prodigio economico è sconvolta dai preparativi della parata militare più imponente della sua storia. Poteva riflettere: prigioniera dell´esaltazione olimpica, incerta sulla nuova leadership che preme per la successione, ha scelto di limitarsi a celebrare. Per trasformare il 1949 in un approdo, l´esibizione di forza dell´esercito tornerà fondamenta pressochè unica dell´azione politica. In piazza Tiananmen, a titolo di prova, l´altra notte hanno sfilato centinaia di carri armati e missili nucleari. Due milioni di soldati, stivati in prefabbricati, da settimane si allenano a fare il passo dell´oca. Mezzo milione di «volontari», reclutati nelle università, trascorrono il tempo a «provare lo spettacolo». Il cielo sopra Pechino è chiuso ormai «anche a piccioni e aquiloni» per consentire a sconosciuti bombardieri, atomici e invisibili, di sfrecciare ad altezza uomo. La paura di attentati è tale che fino a metà ottobre nel Paese è vietato vendere coltelli.
La Cina dominante, per dieci giorni, canterà, ballerà, farà festa, vivrà nel terrore, ammirerà i fuochi d´artificio, andrà in vacanza, esalterà il marxismo-leninismo e l´iperliberismo, spaventerà il pianeta. Il potere ha distribuito i «50 slogan della nuova armonia», e i «43 inni delle masse e del partito». Il colossal di Stato dal titolo «La fondazione della Repubblica», recitato da star nazionali con passaporti stranieri per poter viaggiare all´estero, occupa 4100 cinema di tutto il Paese e semina dibattiti nazionalisti. In tivù sfilano i «cento eroi e cento modelli» premiati dal partito. I giornali raccontano nel dettaglio «la perfezione delle Tre Rappresentanze» e le «misure straordinarie» contro la possibilità di «attacchi terroristici in Tibet e nello Xinjiang. E´ difficile comprendere come questa ossessionata Cina politica dello «spirito di Yan´an» e della «parata di Tiananmen», sia la stessa Cina economica del «miracolo di Shanghai» e dell´«esempio di Canton». Sessant´anni dopo, il potere continua a venerare Mao perché ideologicamente non ha prodotto altro. Dal «Museo» alla «Piazza», avverte tale fragilità, la drammatica inadeguatezza di restare prigioniero della forza e degli anniversari, l´appuntamento mancato tra il mercato e la democrazia. Sulla Città Proibita, il primo ottobre, tramonta un´altra generazione politica. Non solo ha rinunciato a dire «la verità su Mao», ma si è costretta a erigere un tempio per sacralizzare la sua contemporaneità, presentandolo quale necrofilo obbiettivo del futuro. Hu Hintao e Wen Jiabao si congedano tra gli exploit della finanza e il rombo di armi ancora segrete. Il confine tra moderna potenza economica e vecchia dittatura militare rimane esile. Con il duello tra le fazioni di Xi Jinping e Li Keqiang si affaccia al comando della Cina la prima generazione di leader liberisti costretti a dirsi comunisti, nati dopo «la vittoria degli eroi della Lunga Marcia». Sono cresciuti con la pericolosa "globalcrazia di internet": orfani, protetti ormai solo da musei e parate militari, da una liturgia che li condanna a replicare una storia riscritta "ex post" da chi li ha preceduti e oggi li abbandona. Pochi pensano che tra dieci anni, alla prossimo Anniversario, l´hollywoodiana bugia di Yan´an e l´asiatico silenzio su Tiananmen potranno ancora sostenere una Cina «protago-nista del secolo». E questo, come chiunque sente, non è un trascurabile dettaglio della nostra vita.

Repubblica 22.9.09
Il lodo Alfano la Costituzione e l’Europa
di Andrea Manzella


Nei primi giorni di ottobre la Corte costituzionale giudicherà se la legge n. 124 del 2008 (il cosiddetto "lodo Alfano") sia o meno conforme alla Costituzione della Repubblica. In quella legge è disposta la sospensione dei processi penali contro le quattro più alte cariche dello Stato, in esse compresa ovviamente quella del presidente del Consiglio. Una interruzione per tutta la durata della carica.
La legge del 2008 è la seconda edizione, riveduta e corretta, di un´altra legge che aveva la stessa funzione di "scudo" penale. Era la legge n. 140 del 2003, che però era stata bocciata, dopo appena sette mesi di vita, dalla Corte costituzionale. Ma la Corte non aveva pregiudizialmente respinto la ragione politica di quella legge. Anzi: aveva riconosciuto come «interesse apprezzabile» la «esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche». Un interesse, aveva però aggiunto la Corte, «che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto».
Senonché in quella legge, pur politicamente «apprezzabile», quella «armonia» non c´era. Così com´era stata costruita, quella «sospensione» violava alcuni di quei principi: e alla Corte bastò la constatazione preliminare dei difetti di legittimità di quello specifico "scudo", per affondare la legge, «assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale». E "assorbito" anche un referendum abrogativo di quella stessa legge che, nello stesso giorno, era stato dichiarato pienamente "ammissibile". Ma che era divenuto privo di oggetto: perché le norme che avrebbe voluto abolire avevano ora cessato la loro efficacia.
Quella sentenza era una pietra tombale su tutti i "lodi" di questo mondo? No. Sia perché restavano in piedi processi penali che continuavano a pesare sul "sereno svolgimento" di funzioni di vertice governativo. E sia perché restava in piedi l´"interesse apprezzabile" alla protezione di quelle funzioni, come era stato riconosciuto dalla Corte costituzionale. Era quasi inevitabile perciò che, incombendo scadenze giudiziarie (e anche la minaccia ritorsiva di un blocco generale di tutti i processi penali) un nuovo "lodo" venisse approvato in fretta e furia, cercando di ripulire lo "scudo" dai difetti più vistosi che ne avevano determinato la caduta.
Era però altrettanto inevitabile che giudici penali, a Roma e a Milano, denunciassero alla Corte anche la nuova legge. Essi segnalavano la persistenza di vizi contro la Costituzione in quella barriera eretta tra i giudici e le alte cariche dello Stato. La "pulizia" richiesta dalla Corte non era stata, insomma, completa. E segnalavano soprattutto, esplicitamente, una questione di fondo alla quale la Corte questa volta non avrebbe potuto sottrarsi con l´"assorbimento" e con il "non detto".
La questione di fondo è: una garanzia di immunità penale per i vertici costituzionali dello Stato può costruirsi senza innovare la Costituzione? In altri termini, l´"armonia con i principi fondamentali dello Stato del diritto" (che è la condizione di base a cui la Corte ha subordinato, nella sentenza del 2004, ogni "ragione politica") può considerarsi rispettata con una semplice legge ordinaria? Una legge che sfugga quindi alla trasparenza, ai quorum, ai tempi e all´eventuale giudizio popolare: a tutte le caratteristiche, cioè, di una legge di revisione costituzionale?
Nella Costituzione non esiste, in effetti, alcuna garanzia di questo tipo per i "reati comuni" imputabili alle più alte cariche dello Stato. C´è solo una procedura speciale per i «reati politici, commessi da membri del governo nell´esercizio delle loro funzioni». E l´art. 96 espressamente prevede per questa procedura «norme stabilite con legge costituzionale». La domanda allora è: per tutelare le alte cariche anche contro processi per reati comuni, la Costituzione può essere "integrata" con una legge approvata a maggioranza semplice? Una legge che ha l´effetto di creare per tali cariche un privilegio ancora più incisivo, dato che le copre per fatti che non riguardano le loro funzioni ma la loro privata condotta: e quindi con una più vistosa eccezione ai principi di uguaglianza e di responsabilità personale, rispetto alla condizione dei normali cittadini? Dopo che l´opinione pubblica è stata lungamente esasperata contro i privilegi, veri o presunti, della "casta" politica, può giustificarsene un altro e nuovo, nella forma ritenuta di dubbia legittimità dai giudici di Roma e di Milano? Può una tale legge – che modifica la Costituzione, aggiungendovi una tutela che essa non aveva previsto – essere, dunque, approvata senza le garanzie della revisione costituzionale?
È a queste domande assai stringenti che deve rispondere l´imminente giudizio della Corte. Tuttavia l´interrogativo più critico è un altro. Il vero punto di diritto infatti è che con questa "sospensione" viene impedita, nel suo ordinario svolgimento, una funzione costituzionale: quella giurisdizionale. Ed è "sospesa" non per una delle tante cause tecniche che possono determinare la sospensione processuale, ma per una ragione di politica costituzionale ben precisa: il "sereno svolgimento" di altre funzioni dello Stato. Si introduce, cioè, un rapporto di equilibrio assolutamente nuovo nella Costituzione. Perché si dice che, tra il giudicare e il governare, è l´esercizio di quest´ultima funzione a dover prevalere, sia pure solo per il tempo della durata della carica. Torna, allora, in termini ancora più netti la domanda: può tale misura di diverso equilibrio costituzionale essere stabilita con una legge ordinaria, cioè senza cambiare la Costituzione?
Un costituzionalismo a noi sempre assai vicino, come quello francese, ha accolto, nel 2007, la medesima "ragion di Stato" delle "democrazie elettorali", nel senso di riconoscere al presidente della Repubblica (e solo a lui) una temporanea immunità dai processi. Ma lo ha fatto modificando espressamente l´art. 67 della sua Costituzione: non tacitamente, con una qualsiasi legge ordinaria. Non si riesce a capire perché la nostra attuale, larghissima maggioranza parlamentare non abbia, sia pure a sanatoria, seguito quella via.
Un altro costituzionalismo, anche esso a noi assai vicino, quello tedesco, ha visto, il giugno scorso, il suo Tribunale costituzionale emettere una monumentale e aspra sentenza, con possibili effetti sul destino istituzionale non solo della Germania ma dell´intera Unione europea. Una sentenza criticabile nel merito quanto si vuole: ma che non ha guardato in faccia nessuno. E che rende ora la vita più difficile ai governi e alle istituzioni di tutta Europa. Essa ha però anche indicato le vie di soluzione per "costituzionalizzare" procedure parlamentari insufficienti.
Nella sua "sfera di insindacabile autonomia", la nostra Corte costituzionale dovrà misurarsi anche con questi esempi.

Corriere della Sera 22.9.09
Il retroscena. Timori sul biotestamento. E sugli immigrati: potremmo perdere consensi tra i nostri elettori
Il Cavaliere e il compromesso obbligato «Ma rischiamo il rapporto con i cattolici»
di Francesco Verderami



ROMA — Tendenza Silvio. Nono­stante lo scontro con Gianfranco Fi­ni, le tensioni con Umberto Bossi sul­l’Afghanistan, i morsi della crisi eco­nomica sull’occupazione e i rapporti complicati con il mondo cattolico, il Cavaliere continua a salire nei son­daggi riservati che l’opposizione mo­nitora settimanalmente. Perché an­che l’ultimo report di Ipsos , analizza­to dai dirigenti del Pd, ha evidenzia­to un dato tendenziale in ascesa per il premier e il suo partito: nell’indice di fiducia, infatti, Berlusconi guada­gna un altro decimale (oggi è al 51,2%) e il Pdl tre (dal 38 al 38,3%).
Ma non è sulle variazioni numeri­che che si soffermano gli analisti, bensì sul trend positivo che da lu­glio non conosce soste. I rilevamenti fanno capire che — in assenza di un’alternativa — l’opinione pubbli­ca continua a puntare sul presidente del Consiglio, se è vero che la Lega subisce una flessione di mezzo pun­to, scende al 10,1%, e non raccoglie il consenso degli elettori di centrode­stra, rimasti contrariati dal duello tra i «cofondatori» del Pdl.
Ed è proprio lo scontro con Fini a preoccupare Berlusconi, perché la «fiducia» è un credito da onorare con l’azione di governo, dunque in Parlamento, dove i provvedimenti dell’esecutivo devono trovare il con­senso. Il premier deve quindi disin­nescare il conflitto con il presidente della Camera, con il quale i problemi politici ieri sono stati solo esamina­ti. I due infatti si rivedranno, dopo il viaggio negli Usa del Cavaliere, sicco­me non potevano bastare due ore di colloquio per chiudere la vertenza. Il faccia a faccia in casa Letta è servito quantomeno per chiarirsi — in alcu­ni frangenti anche a muso duro — e per constatare che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Non c’è dub­bio che l’ex leader di An non abbia progetti politici alternativi al Pdl, non ci ha mai pensato: l’ha spiegato a Berlusconi, che pure si fa forte dei sondaggi commissionati da tempo sulle «basse potenzialità» del «brand» finiano. Dall’altra parte il Cavaliere sa che — se non vuole apri­re un fronte pericoloso — deve con­cedere al «cofondatore» un ruolo adeguato nel partito. Ed è chiaro che il presidente della Camera è preoccu­pato di non esporsi: vuole verificare che le promesse verranno mantenu­te. Altrimenti, rischierebbe di qui a breve una cocente sconfitta.
Poco importa però se «Silvio» non si fida di «Gianfranco» e vicever­sa, se l’unica intesa è stata quella di non parlarsi più attraverso i media. Entrambi sanno che i problemi resta­no, frutto delle due «visioni diver­se ». Certo, la consultazione perma­nente consentirà di cercare dei com­promessi su questioni spinose. Ma è da vedere se e come si comporrà una mediazione su temi, per esem­pio, come i diritti agli immigrati e il testamento biologico. Perché Berlu­sconi teme che le posizioni di Fini «da una parte ci facciano perdere consensi nel nostro elettorato, e del­­l’altra mettano a rischio il rapporto con il mondo cattolico», assai in­quieto e critico verso il premier, co­me ha fatto capire ieri il presidente della Cei, Angelo Bagnasco.
Allora il consenso nei sondaggi as­sume per il premier un altro signifi­cato, è un debito contratto con l’opi­nione pubblica, da restituire entro la primavera se lo si vuole far fruttare alle Regionali. È vero che il Pd resta per ora accartocciato su se stesso, e sebbene questa settimana guadagni quasi mezzo punto (28,9%), non rie­sce a drenare voti all’Idv, quotato so­pra l’8% malgrado un calo di due de­cimali.
Nelle tabelle di Berlusconi i Democratici non vanno oltre il 27%, semmai è su Pier Ferdinando Casini che dovrà fare delle valutazioni: tra i leader, infatti, negli indici di gradi­mento il capo dei centristi è salito al 48,8%, ed è secondo solo al Cavalie­re, che nei suoi report calcola l’Udc al 6,8%.
Che fare allora per le Regionali? Anche questo tema è stato trattato ie­ri da Berlusconi e Fini. Nei giorni scorsi l’ex leader di An — a parte far muro contro le «eccessive pretese» al Nord della Lega — teorizzava che «per rafforzare il Pdl è necessario le­gittimare le strutture territoriali del partito. Non è pensabile che le scelte dei candidati governatori siano frut­to solo di una decisione romana». È un ragionamento da rifare con il pre­mier, che su questo punto — e an­che su altri — proprio non ci sente.
Ma è come se tutto fosse sospeso, in attesa di altri eventi. Perché è ve­ro che nel Pdl si avverte un cauto ot­timismo sulla decisione della Con­sulta per il lodo Alfano, ma ad otto­bre la decisione della Corte Costitu­zionale avrà un’influenza sulle scel­te politiche, nel Palazzo. Fini ha già detto che «questo clima di messiani­ca attesa è fuori luogo», tranne ag­giungere poi che «mentre tutti aspet­tano la sentenza, sarà importante co­noscere le motivazioni». E Berlusco­ni — giorni fa — ha cercato di mo­strarsi distaccato: «Se fosse necessa­rio — ha detto — si potrebbe fare un altro lodo. Ma io sono tranquillo perché, anche se andassi a processo, sul caso Mills mi assolverebbe qual­siasi tribunale fatto da giudici non politicizzati e prevenuti contro di me». Possibile che ieri i «cofondato­ri » abbiano parlato solo del partito?