giovedì 24 settembre 2009

l’Unità 24.9.09
Pd, spaccatura sulla Ru486 Bianchi costretta a lasciare
di Maria Zegarelli


Franceschini con la capogruppo Finocchiaro: «Su questioni etiche si decide a maggioranza»
La senatrice cattolica non sarà più la relatrice dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortivaSi è capito dove si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?».

Numeri
Già oltre tremila i documenti raccolti
3300 Sono i testamenti biologici ricevuti dai Radicali e di questi 2.758 sono stati elaborati.
56,4% è la percentuale di uomini «testatori», contro il 43,6% di donne. Fasce di età: il 6,3% fino a 30 anni; 8,5% 31-40 anni; 13,2% 41-50; 23,1% 51-60; 30,1% 61-70; 18,7% over 70.
95,4% dice no al ricorso alla respirazione meccanica. Di contro il 4,6% si è espresso per il «sì».

La mina innescata da Maurizio Gasparri e Antonio Tommassini, del Pdl, nel fragile equilibrio del partito democratico è puntualmente esplosa, dicono oggi i senatori democratici sconfortati dall’ennesima lacerazione. Dorina Bianchi, capogruppo Pd in Commissione, ha creato un caso, come sul testamento biologico, votando «sì» all’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva e accettando di fare la relatrice. Dopo una gioranta convulsa ha dovuto rimettere il mandato.
LA LETTERA DEL SEGRETARIO
Quel «sì» più che una mina è stata una bomba, disinnescata soltanto all’ultimo minuto. Lo stesso segretario, Dario Franceschini, ha appreso i fatti dai giornali di ieri mattina. Ha subito telefonato ad Anna Finocchiaro e poi inviato una lettera: «Cara Anna concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla Ru 486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Decisione alla quale «tutti devono attenersi». Ma ormai la frittata era fatta.
Così tutti i senatori sono stati chiamati a riunirsi. Bianchi ripeteva che lei di quel voto aveva parlato con la capogruppo, Finocchiaro a ribattere che le cose non erano andate così. Conclusione di una giornata tormentata: Dorina Bianchi si è dimessa da relatrice e si è impegnata a chiedere che sia la Commissione a decidere con un voto sulla modalità e i tempi di svolgimento dell’indagine conoscitiva. Solo così è stato possibile evitare la spaccatura del gruppo, che avrebbe provocato un terremoto in tutto il partito.
Due i livelli di scontro nel Pd. Uno sul merito, uno sul metodo. Da una parte chi è contrario all’indagine, perché «è strumentale, visto che sulla pillola si è già pronunciata l’Aifa, l’agenzia per il farmaco»; dall’altra chi invece non ci trova niente di strano «non si capisce perché non dovremmo conoscere più a fondo l’argomento». Tra i primi ci sono Finocchiaro, Latorre, Passoni, Marino, Soliani, Pinotti, Franco, Chiaromonte, solo per citarne alcuni tra le varie mozioni. Tra i secondi i teodem, Rutelli, alcuni cattolici anche di area Fioroni. Sul metodo si è scatenata la guerra delle mozioni: «Dorina ha fatto bene», «Dorina ha fatto male», con scambio reciproco di accuse. Alla fine, la mediazione. Si è capito che ci si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto a bruciapelo: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?». «Non ci penso neanche», la risposta a caldo. Poi, la retromarcia, nella stanza di Finocchiaro. Con la Bianchi Anna Serafini (che durante la riunione del gruppo ha attaccato Finocchiaro) e Garavaglia (entrambe pro-Franceschini), dall’altra parte Latorre e Finocchiaro 8pro-Bersani). «Dobbiamo trovare una soluzione che non laceri ulteriormente il partito». Bersaniani e i mariniani erano pronti a votare compatti per il no, mentre i franceschiniani era divisi. I rutelliani, sul piede di guerra. Luigi Lusi, tesoriere Margherita, solo per citarne uno, era fuori di sé: «Un suicidio di massa, ecco cos’è. Ma che ci stiamo a fare in questo partito? Siamo più bolscevichi dei siberiani, vogliono rifare il Pci? Lo facciano, restiamo altri 15 anni all’opposizione». Di Giovan Paolo (mozione Franceschini) rivolto a Cosentino: «Vedrai, ci faranno votare anche per l’eutanasia, dopo il congresso».
Una guerra di nervi andata avanti tutto il giorno, raccontata dalle facce scure che entravano nel «conclave» dei senatori, e da quelle che uscivano dall’incontro a palazzo Madama tra i supporter della mozione Franceschini svoltosi poco prima. «Il giorno in cui votano lo scudo fiscale noi finiamo sui giornali per la spaccatura sulla pillola», il commento più frequente.
In mezzo le due versioni dei fatti. Quella di Bianchi: «Non ho agito a titolo personale, ne avevo parlato con Anna». Finocchiaro: «Io sono contraria all’indagine, ma sapendo che è un tema delicato nei giorni scorsi ho convocato una riunione con i membri Pd della Commissione». Attorno al tavolo c’erano Bianchi, Bosone, Chiaromonte, Bassoli e Zanda. «Si è deciso che saremmo stati disponibili a parlare di una indagine tecnica per estrarre le migliori pratiche mediche della pillola e che comunque tutto sarebbe dovuto accadere dopo il congresso, con una decisione votata dalla Commissione e non dall’ufficio di presidenza. Mai si era parlato del relatore di minoranza». Il trappolone lo ha teso Tommasini, «è stata una mia iniziativa», ha detto. E la Bianchi ci è cascata. ❖

Repubblica 24.9.09
Concitata assemblea di gruppo. La Finocchiaro: ingenuità aver trattato con la maggioranza sui tempi dell´indagine
Ma l´area Rutelli si sente emarginata "Metodi bolscevichi, è dura restare"
Giaretta sbotta all´indirizzo dei compagni di partito laici: "Mi hanno davvero rotto i c..."
di Giovanna Casadio


La rabbia di Latorre: "Dorina gioca in proprio, però Anna ha fatto una stupidata"

ROMA - «Ma che ci stiamo a fare? Qui siamo più bolscevichi dei siberiani. Vogliono fare il Pci? Ma lo facciano...». Luigi Lusi, che della ex Margherita è tuttora il tesoriere, lascia la frase in sospeso. Fa capire però che Rutelli e i "suoi" possono andare altrove, che dietro l´angolo c´è il possibile divorzio dal Pd verso altri lidi, si chiamino Nuovo grande Centro o qualcos´altro. È una delle giornate nere dei Democratici e ruota attorno a un "casus belli": il sì di Dorina Bianchi - la cattolica capogruppo in commissione Sanità del Senato - all´indagine conoscitiva sulla RU486. Il Pd rischia la conta più insidiosa della sua breve storia, a quindici giorni dal primo congresso. Alla fine la Bianchi fa un passo indietro - si dimette da relatrice - e Anna Finocchiaro, la capogruppo, ammette l´ingenuità politica di avere chiesto ad Antonio Tomassini, fedelissimo di Berlusconi e amico personale di Bossi, nonché presidente della commissione Sanità, di togliere le castagne dal fuoco a loro Democratici spostando più in là l´indagine sulla pillola abortiva: «A dopo il congresso, per evitare polemiche».
Fino alle sette di sera, Dorina Bianchi non accetta di passare per il "caso Dorina", per quella cioè che ha già mandato il Pd sull´orlo di una crisi di nervi sul testamento biologico quando si schierò con il Pdl e che ora con il "sì" all´indagine conoscitiva ha spaccato gruppo, partito e persino la "mozione Franceschini", la sua. Poi si convince: Nicola Latorre, Anna Senafini, Maria Pia Garavaglia fanno da pontieri. Accetta quindi di dimettersi: «C´erano stati accordi che non sono stati rispettati, nell´accelerazione e perciò la commissione va riconvocata, discuta le modalità dell´indagine, e io rassegno le dimissioni da relatrice», dirà nell´ultima assemblea serale del gruppo che chiude la discussione.
Incassa Dorina la solidarietà interessata di tutto il centrodestra che gongola per avere creato l´occasione di un autogol del Pd. Lo va dicendo Rutelli uscendo dalla prima delle riunioni che scandiscono la giornata in un tutto contro tutti. Tensione altissima, stracci che volano. I rutelliani protestano: «È un suicidio in diretta». Il fronte laico, i supporter cioè di Pierluigi Bersani e di Ignazio Marino - sfidanti del segretario uscente e ricandidato, Dario Franceschini - ritengono «inopportuna» quell´indagine parlamentare e perciò bisognava dire semplicemente "no". Il segretario al mattino si attacca al telefono con Finocchiaro. Invia una lettera concordata: «Cara Anna, condivido con te che sulla scelta di avviare un´indagine parlamentare sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Bisogna insomma fare chiarezza, qui «la questione di coscienza non c´entra» perché si tratta di votare un atto parlamentare. Franceschini è un cattolico democratico, a passare per il clericale che si presta a combriccole con il centrodestra dopo l´invito del cardinale Bagnasco a non commercializzare la pillola abortiva in Italia, non ci sta. «In fatto di laicità non ho nulla da imparare né da Bersani, né da Marino». Sulla RU486, ha detto in tempi non sospetti: «Se c´è un modo meno invasivo per una donna di un intervento chirurgico, perché opporsi? Bisogna certo evitare che venga vissuta come un contraccettivo, e c´è una legge sull´aborto che nessuno mette in discussione».
Errori si sommano a errori. I senatori della mozione Franceschini si incontrano prima dell´assemblea di gruppo dell´ora di pranzo; arriva anche Rutelli. Riunione concitata. L´assemblea poi, è aperta dalla Finocchiaro che ammette di avere sbagliato la prima mossa, la richiesta a Tomassini. «E perché mai Tomassini avrebbe dovuto farci questo favore fino al 25 ottobre? Ho votato per il sì a nome del Pd, come hanno fatto tutti anche l´Idv», si difende la Bianchi. «Dorina ha giocato una partita in proprio e Anna ha fatto una stupidata», s´arrabbia Nicola Latorre. «Mi hanno rotto», si sfoga Paolo Giaretta, mite d´abitudine. La pillola abortiva diventa il punto di caduta della battaglia congressuale, e la bioetica uno dei banchi di prova del Pd. Albertina Soliani, sconsolata: «Siamo in una fase dissennata».

Corriere della Sera 24.9.09
Il passo indietro di Dorina Bianchi
Indagine sulla Ru486 Scontro aperto nel Pd Si dimette la relatrice
di Alessandro Trocino


ROMA — Dopo la tregua esti­va, il Pd torna esattamente a do­ve era rimasto, alle polemiche sui temi etici, alle accuse di lai­cismo e clericalismo, ai risenti­menti e ai sospetti. A dividere, questa volta, è la commissione di indagine sulla Ru486. Il via libera, dato l’altro ieri per il Pd dalla capogruppo in commis­sione Sanità del Senato Dorina Bianchi, nominata anche corre­latrice, suscita un putiferio. Ieri il partito si lacera in una giorna­ta di trattative, cominciate con la richiesta di un voto da parte del segretario in carica Dario Franceschini. Il voto, con la conseguente spaccatura, viene evitato in extremis grazie alle dimissioni della Bianchi da re­latrice.
Il primo round nel partito è mattutino. Sfidanti Dorina Bianchi, cattolica e per mesi ri­vale del laico Ignazio Marino, e la capogruppo Pd al Senato An­na Finocchiaro. La prima chiari­sce che non c’è stata alcuna ini­ziativa autonoma da parte sua: «Il via libera era stato deciso con la Finocchiaro». In effetti, una settimana fa si era tenuta una riunione, presenti Finoc­chiaro e Luigi Zanda, con Mari­no collegato via telefono. I pri­mi due avevano espresso una contrarietà a titolo personale al­la commissione d’indagine. La Bianchi aveva obiettato: «C’è il rischio che se la faccia il Pdl da solo la commissione». Così, do­po una consultazione più am­pia, la Finocchiaro aveva accon­sentito a dire sì alla Commissio­ne, ma solo dopo aver ottenuto dal presidente di Commissione (Pdl) Antonio Tomassini una garanzia: «Diremo di sì alla commissione, a patto che si fac­cia dopo il nostro Congresso».
Il timore, confermato dagli eventi, era quello di spaccature interne. L’altro ieri le agenzie di stampa informano che il Pd (ovvero la Bianchi) ha dato il via libera. Con due particolari che fanno imbufalire la Finoc­chiaro e non solo: l’avvio imme­diato della commissione e l’in­carico di correlatore, mai con­cordato con il partito, alla stes­sa Bianchi. Insomma, una trap­pola del Pdl e una fuga in avan­ti della Bianchi.
A quel punto riesplodono le tensioni. Eugenia Roccella, sot­tosegretario pdl, accusa il Pd di lapidare la Bianchi. Paola Binet­ti è in scia: «Quella di Dorina è una presa di posizione quasi eroica. I tre candidati fanno a gara a chi è più laico». Dario Franceschini, nella cui mozio­ne stanno la Bianchi e i rutellia­ni, è il primo a chiedere il voto. Spiegando (all’ Espresso ) di es­sere a favore della Ru486 ed escludendo che ci possa essere in questo voto sulla Commis­sione un’obiezione di coscien­za. Quanto basta per allarmare i cattolici. E se Tomassini, alla fine, accetta il rinvio dell’inda­gine al 1 ottobre, il Pd continua a lacerarsi. Il rutelliano Claudio Gustavino dice sì alla Commis­sione: «È necessaria».
Ma parte la controffensiva dei franceschiniani, preoccupa­ti da una spaccatura che finireb­be per dare armi ai rivali «lai­ci » Bersani e Marino. Paola Concia è già all’attacco: «La Bianchi ci ha fatto perdere mi­lioni di voti». Si cerca di con­vincerla a dimettersi. Lei non ci pensa nemmeno e più volte ripete: «Sto al mio posto. Non sarà Marino a farmi andare via». Alla fine, però, anche gra­zie alle pressioni di Giuseppe Fioroni, capitola: «Rimetto il mio mandato, i tempi e le finali­tà dell’indagine non sono chia­ri e c’è una strumentalizzazio­ne della vicenda da parte del centrodestra. Non era assoluta­mente mia intenzione prende­re decisioni in solitudine su questo argomento». Anna Fi­nocchiaro è soddisfatta: «Gra­zie alla Bianchi, è una persona seria. E questo è un partito. Il Pd parteciperà all’indagine ma chiedendo alla maggioranza di definire la mission di questa in­dagine, a partire dai tempi e dai modi».

il Riformista 24.9.09
Chi ha preso la pillola del giorno dopo?
Scene di ordinaria follia al Senato
di Tommaso Labate


Pasticci.L’assemblea al Senato sulla RU486. La Bianchi lascerà il ruolo di relatrice della commissione di indagine, Finocchiaro ammette di essere stata «truffata» da Gasparri. La truppa di palazzo Madama è allibita: Rutelli s'indigna, Serafini attacca, Latorre lascia la sala.

A rompere il silenzio del plotone di una cinquanta senatori democrat, divisi a metà tra chi sorrideva sotto i baffi e chi si scuoteva il capo amaramente, è stato Francesco Rutelli, mozione Franceschini. «Ma che cosa rappresenta questa riunione? Di che cosa stiamo discutendo? Qual è l'ordine del giorno? E soprattutto, a che ora finisce questa cosa?». Al contrario Nicola Latorre, dalemiano vicepresidente del gruppo, mozione Bersani, aveva preferito lasciare la saletta dopo pochi minuti dall'inizio della riunione: «Non ce la faccio proprio. Non posso assistere a certe scene». Più o meno lo stesso canovaccio recitato da Ignazio Marino, mozione (ça va sans dire) Marino, che preferiva assistere allibito a un dibattito «surreale».
L'ultimo caso che si è (ri)aperto dentro il Pd, lo stesso che potrebbe portare la capogruppo in commissione Salute Dorina Bianchi ad abbandonare il ruolo di relatrice nell'indagine conoscitiva sulla RU486, è in realtà il frutto di un «grande boh». Una piccola grande commedia degli equivoci suddivisa in tre atti. Con tre protagonisti (i piddini Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e, appunto Dorina Bianchi), due antagonisti (i pidiellini Maurizio Gasparri e Antonio Tomassini) e il pubblico non pagante, composto dalla ciurma di senatori democrat che ieri ha assistito a quella che più testimoni considerano «una tra le assemblee più allucinanti degli ultimi due anni».
Il capitolo pubblico della commedia è quello che va in scena ieri l'altro, quando Dorina Bianchi - in ordine sparso: sostenitrice di Franceschini, anima teodem, ex uddiccì, oggi rutelliana, domani chissà - dà il via libera «a nome del Pd» all'indagine parlamentare sulla pillola abortiva. La RU486, appunto. La bionda senatrice calabrese, la stessa che (non senza polemiche) aveva ereditato da Ignazio Marino i galloni di capogruppo in commissione Sanità, finisce nel delle due mozioni concorrenti. Che rivendicano, con l'ex ministro delle Attività produttive e il chirurgo-senatore, «un'altra linea sui temi etici». A questo punto, e siamo a ieri mattina, Franceschini chiama il capogruppo Finocchiaro. Quindi, per non vedersi scalvalcato dai due competitor alle primarie sul terreno della laicità, rovescia il tavolo: «Cara Anna - scrive il segretario del Pd al presidente dei senatori del suo partito - a seguito del nostro colloquio telefonico di stamattina, concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione».
Ma chi aveva dato il via libera all'indagine? Di chi la colpa di aver preso una decisione che verosimilmente il gruppo, esprimendosi a maggioranza, avrebbe respinto? Di Dorina Bianchi?
E qui si arriva all'atto secondo, all'assemblea dei senatori democrat di ieri mattina. Quella dell'affondo di Rutelli, delle perplessità di Latorre, dell'incredulità di Marino. Bianchi, finita nel mirino anche del fuoco amico, si difende davanti agli onorevoli colleghi: «Io ho agito secondo mandato». Quindi, rivolta ai vertici del gruppo, incalza: «Mi avete detto voi di dare il via libera all'indagine sulla RU486». L'ora della verità scatta quando prima Finocchiaro (brevemente) e poi il vicario Zanda (più diffusamente), raccontano il retroscena. E ammettono, chiamando il correità i due antagonisti pidiellini: «Noi abbiamo detto sì all'indagine sulla pillola abortiva - è il loro ragionamento - chiedendo prima a Gasparri e poi a Tomassini che il dossier venisse aperto dopo il congresso del Partito democratico. Proprio perché sapevamo che la RU486 avrebbe aperto un altro caso...». Il retroscena diventa scena. E l'antefatto, fatto. I numeri uno e due del gruppo pd a Palazzo Madama ammettono quindi di essere stati truffati "dal gatto e dalla volpe" berlusconiani. Come a dire, «ci avevano garantito che l'indagine sarebbe partita tra due mesi e invece deve partire subito». Il capo d'accusa che pende sul capo della Bianchi diventa di conseguenza una specie di concorso in truffa aggravata: «Hai consentito che il loro inganno andasse a buon fine».
Bianchi continua a difendersi («Ma siete stati voi a...»), Finocchiaro&Zanda a replicare. Finché Anna Serafini non dà voce al pensiero che aleggia su praticamente tutta la sala incalzando capogruppo&vice: «Ma come avete potuto tirare in ballo il congresso di un partito in una questione istituzionale? Perché abbiamo prestato il fianco - prosegue il ragionamento della senatrice "in Fassino" - alla strumentalizzazione del Pdl?».
Il tira e molla va avanti fino alla seconda convocazione dell'assemblea, chiamata stavolta a votare su un provvedimento già approvato (ma, nel momento in cui il Riformista va in stampa, il summit sembra destinato al rinvio). L'indagine conoscitiva sulla pillola non ha la maggioranza dei consensi nel Pd. La Bianchi si prepara a lasciare il ruolo di relatrice di minoranza. Il resto è tutto un «boh», piccola grande commedia degli equivoci all'interno di un gruppo in preda a una crisi d'ilarità. O d'amarezza.

il Riformista 24.9.09
Quando si dice le coincidenze


Quando si dice le coincidenze. Ieri mattina il segretario del Pd ha scritto al suo capogruppo al Senato per dirle che, in materia di indagini parlamentari sulla Ru486, non è ammessa libertà di coscienza. Bisognerà dunque che i parlamentari votino secondo le indicazioni del gruppo, o ne traggano le conseguenze. La minaccia è rivolta a Dorina Bianchi, che su questa materia si era schierata in commissione dalla parte del governo. Sempre ieri, il presidente della Camera Fini, incontrando una delegazione di parlamentari radicali, ha invece confermato il suo auspicio: nel dibattito sul biotestamento ogni parlamentare ha diritto a esprimersi secondo coscienza. Il che, tradotto in politichese, vuol dire che i deputati del Pdl che non vogliono seguire la linea del Pdl al Senato, devono essere liberi di farlo.
Si potrebbe notare che la libertà di coscienza viene in questo caso invocata quando è a favore dei laici e negata quando è a favore dei cattolici. Ma non è questo il punto. Il punto è che parlare di libertà di coscienza dei parlamentari, per concederla o per contestarla, è insensato. È infatti la Costituzione che garantisce quella libertà ai parlamentari, stabilendo che agiscono «senza vincolo di mandato»: poi ci sono i parlamentari che la loro libertà se la prendono, e quelli che non osano. Tutto qui.

Repubblica 24.9.09
"Non toccate la legge sul biotestamento"
Monito del cardinale Bertone a Bossi. Fini: impegno per la libertà di coscienza
di Marco Politi


All´incontro con il segretario di Stato presente anche il figlio del Senatur Renzo

ROMA - Grandi manovre in vista del dibattito sul testamento biologico. Mentre il presidente della Camera Fini si impegna a garantire a ogni deputato l´esercizio della massima libertà di coscienza, il Segretario di Stato vaticano Bertone - in un incontro tenuto segreto sino all´ultimo momento - preme sul leader della Lega Bossi perché il testo non venga stravolto rispetto a come è stato votato al Senato. Cioè senza l´autodeterminazione del paziente.
E´ appena passato un mese dalle violente polemiche della Lega nei confronti di esponenti vaticani (il presidente del Consiglio per i migranti mons. Vegliò e il segretario mons. Marchetto) e Umberto Bossi porta a segno due risultati nel suo tentativo di costruirsi un rapporto diretto con la gerarchia ecclesiastica. Il 4 settembre ha incontrato per un´ora di colloquio il presidente della Cei Bagnasco. E ieri si è recato in Vaticano in udienza con il cardinale Bertone. Il porporato, nell´ampio giro di orizzonte, ha chiesto che sia mantenuto nelle sue linee portanti il testo del Senato sul testamento biologico. Bossi, a quanto trapela, avrebbe garantito che vi saranno miglioramenti tecnici ma che l´impianto di fondo rimarrebbe intatto.
Esattamente l´opposto di quanto hanno appena chiesto venti parlamentari del Pdl e di quanto auspicato da una delegazione radicale, recatasi ieri dal presidente della Camera portando tremila dichiarazioni di volontà anticipate raccolte on line nei mesi scorsi. La volontà di autodecisione dei pazienti è stata illustrata da Marco Cappato e Mina Welby per l´associazione «Luca Coscioni» e Luigi Manconi per l´associazione «A buon diritto».
Fini - hanno poi dichiarato i radicali - ha auspicato che l´imminente dibattito in aula avvenga in un «clima pacato e scevro da ogni pregiudizio» e ha espresso il suo personale impegno perché la discussione si svolga «nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza».
Per il presidente della commissione Affari sociali della Camera, Domenico Di Virgilio (Pdl), il testo è «migliorabile» e si sta lavorando in un clima di «maggiore serenità». La maggioranza del Pdl, tuttavia, su input di Berlusconi e seguendo la linea del ministro Sacconi e del sottosegretario Eugenia Roccella (su cui il Vaticano fa grande affidamento) è per riaffermare che la nutrizione e l´idratazione artificiali siano «obbligatori». Lo stesso Di Virgilio è peraltro contrario a una legge morbida e la vuole «completa» come al Senato.
Sull´incontro Bossi-Bertone bocche cucite sia alla Lega che in Vaticano. Il Senatur annette all´udienza la massima importanza anche per mostrare a Berlusconi di avere un proprio filo diretto con la Santa Sede. Bertone prosegue la sua diplomazia parallela a quella della Cei, mentre l´episcopato sta preparando un´iniziativa per commemorare l´Unità d´Italia. Il Vaticano si è limitato a confermare che all´«udienza privata» hanno partecipato anche Renzo Bossi, la vicepresidente del Senato Rosi Mauro e i capigruppo di Camera e Senato Cota e Bricolo.

l’Unità 24.9.09
Biotestamento, Fini «Rispettare la libertà di coscienza dei deputati»
L’impegno preso in un incontro con i Radicali che gli hanno consegnato i numeri dei biotestamenti compilati online. I moduli sono sui siti della Consulta di Bioetica e Fondazione Veronesi. Alternativa: ricorrere al notaio.
di Federica Fantozzi


Il presidente della Camera Fini ha preso «l’impegno che il dibattito a Montecitorio sul testamento biologico si svolga con la massima serenità e pacatezza in un clima scevro da pregiudizi e nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza». Una promessa fatta durante l’incontro, nel suo studio ieri mattina, con una delegazione dei Radicali che gli hanno consegnato i dati relativi a 3300 biotestamenti compilati online dai cittadini.
Al colloquio hanno partecipato Luigi Manconi e Marco Cappato, presidente e segretario dell’associazione «A buon diritto», Mina Welby e Rocco Berardo, dell’associazione Luca Coscioni, e l’avvocato Ernesto Ruffini. Dall’indagine dei Radicali (relativa a 2750 moduli di testamento biologico) emerge una tendenza generale a essere informati sui trattamenti sanitari e a rifiutare quelli più invasivi. Il desiderio di esprimere la propria volontà su questo tema riguarda soprattutto persone con un discreto grado di istruzione (l’80% è diplomata o laureata), in maggioranza donne (56,4% contro 43,6%), concentrate in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna. Il 93,3% dei testatori ha nominato un fiduciario che si occupi di eseguire le loro ultime volontà. Ma il dato politicamente più rilevante riguarda il consenso a nutrizione e idratazione forzate, il punto in discussione parlamentare adesso: solo l’1,4% ha detto sì. Significa 38 persone su 2750.
Cappato ha sottolineato come questi documenti siano già ora «validi e vincolanti, espressione di volontà scritta e controfirmata, e ora consegnata alla terza carica dello Stato». Quasi un’esortazione, per chi è interessato, a redigere il proprio biotestamento tramite i moduli presenti su Internet (anche della Consulta di Bioetica e della Fondazione Vero-
nesi) o servendosi dell’intermediazione di un notaio, prima che un’eventuale legge più restrittiva entri in vigore.
L’ESEMPIO DI WELBY
Mina Welby ha consegnato a Fini il libro di suo marito Piergiorgio «Lasciatemi morire», in concomitanza con il terzo anniversario della commovente lettera al presidente della Repubblica. Ed ha sottolineato come l’apertura di un registro comunale per il biotestamento (a Roma applicata dal Municipio X dove si recano una ventina di persone a settimana) si stia allargando: «Ricordiamoci che serve per diminuire e non protrarre il dolore». Manconi ha citato il caso di un vedovo, residente in un Comune del Nord, la cui moglie ha inserito nel biotestamento la volontà di essere cremata: «In Italia c’è la legge ma non i regolamenti applicativi. Così il vedovo chiede alla nostra associazione di testimoniare sull’effettiva volontà della moglie. È un piccolo esempio che segnala la presenza, su questi temi, di desideri elementari e bisogni primari e autentici che no possono essere ignorati». Infine, Cappato ha fatto presente a Fini l’illegittimità del fatto che dal febbraio 2008 alle associazioni non sono garantiti in Rai gli spazi cui avrebbero diritto. Il motivo? «Poltrone e sottopoltrone».❖

Liberazione 23.9.09
Gregor Gysi copresidente e fondatore
del partito “Linke”: «Più veniamo discriminati più la gente vuole votarci»
intervista Matteo Alviti


Berlino. E’ un bel pomeriggio assolato. L'ultimo dell'estate, lunedì 21 settembre. I cartelli rossi annunciano il comizio del candidato locale dalla Linke, il partito della sinistra d'opposizione. Gregor Gysi, copresidente e fondatore del partito aspetta il suo momento sotto il palco. Nella piazza del castello di Köpenick - profondo est di Berlino, dove la neonazista Npd ha il suo quartier generale nazionale - la gente aspetta tra palloncini colorati e il jazz melodico dell'orchestrina di Tin Alley. Non sono tanti, forse cinquecento, ma bastano a dare l'impressione che la piazzetta sia piena.
L'aria non è proprio fresca: la stragrande maggioranza dei sostenitori avrà più di 60 anni. «Cosa ha contro le persone anziane?», accusa Gysi. Niente. «I giovani si raggiungono in altri modi, con internet, con il computer. Lo faccio anche io. C'è sempre una grande differenza tra est e ovest. Qui ci sono persone più anziane, mentre a ovest sono in maggioranza giovani. E' una cosa interessante». Già, interessante.
La Linke, come il resto del paese, a essere un po' schematici è ancora divisa tra le anime del partito, la Pds, e del movimento, Wasg, dalla cui fusione è nato. A est i governisti che vedrebbero di buon occhio un'avvicinamento alla Spd, a ovest i radicali, oppositori di ogni diaologo. La Linke, che domenica sicuramente andrà oltre il 10%, conta almeno due correnti ufficiali e altre tre ufficiose. Ma ora non è il momento di stare a sottilizzare. C'è molto in gioco e l'unità conta. Fuori dall'Afghanistan, "no" all'energia atomica. E poi salario minimo, lavoro, pensioni minime da 800 euro e abbassamento dell'età pensionabile, nuovi posti di lavoro pubblico, anche nella polizia, per la sicurezza. Gysi sa come prendere la piazza e con le critiche ai manager e al sistema fiscale che li protegge si fa sommergere di applausi. Il copresidente e capogruppo della Linke è un oratore brillante. La battuta efficace, piazzata al momento giusto. Gysi sa però essere anche irritante, la sua retorica pungente: ne sanno qualcosa giornalisti e avversari. Tra questi c'è chi cerca di tirarlo giù con mezzi poco puliti. Ne è convinto, Gysi. Questa settimana lo Spiegel ha pubblicato un articolo che lo accusava di essersi impegnato, come avvocato, a riportare nella Ddr una persona che era riuscita a saltare il muro. «Una storia ridicola. Cercano in ogni modo di screditarci. Lo sapevo che avrebbero tirato fuori qualcosa»
Il muro. Torna sempre nei comizi. Specialmente qui all'est, dove la stragrande maggioranza degli elettori ha avuto modo di conoscerlo bene. La candidata Petra Pau ha parlato dal palco prima di Gysi del «muro nella testa», che ancora divide in due il paese. «Da un punto di vista del pensiero la questione potrà essere superata solo dalla prossima generazione», ci dice Gysi. «Oggi sarebbe importante che agli uomini e alle donne dell'ovest si dica che la loro vita è migliorata perché sono state prese delle misure sul modello di stato dell'est. Non si è fatto nel 1990. Si può fare adesso. Per esempio con i policlinici dell'est, che oggi si chiamano centri medici».

Che vantaggi ci sono a portare avanti una campagna elettorale sapendo che nessuno degli altri partiti - Spd, Verdi, Cdu/Csu, Liberali - vi vuole come alleati? Siete più liberi?
«Non ci rende più liberi, ma ci dà un valore aggiunto. Quando tutti gli altri dicono che possono coalizzarsi tra loro ma non con noi, gli elettori sono meno portati a notare le loro differenze. E la Linke ne guadagna in attenzione: la gente si chiede che cosa ci sia mai di sbagliato in noi. Ciò ci rende più interessanti. Penso che dal punto di vista tattico stiano facendo un errore. Beh, se la Cdu dicesse di volersi coalizzare con noi, questo cambierebbe le cose in peggio»,

Rispetto alle posizioni di qualche mese fa le vostre proposte per l'innalzamento del sussidio di disoccupazione Hart IV sono aumentate da 435 a 500 euro. Lo stesso per l'introduzione del salario minimo, da 8 a 10 euro. Perché questa radicalizzazione?
«Una incredibile radicalizzazione! In Francia il salario minimo è sopra gli 8 euro, in Gran Bretagna anche, in Lussemburgo sopra i 9 euro e per gli specializzati di 11 euro. E ora i nostri 10 euro sono terribilmente radicali. Dai francesi dovremmo imparare a fare un po' più di resistenza. A volte esagerano, ma noi esageriamo nell'altra direzione».

La questione è un'altra: alzare il tiro delle richieste non danneggia l'eventuale apertura di un dialogo con la Spd?
«No, non danneggia il dialogo. Non c'è un dialogo vero: solo ai livelli più bassi magari, ma ai vertici è bloccato. Il presidente della Spd Müntefering e il candidato cancelliere Steinmeier sono persone legate a doppio filo all'ex cancelliere Schröder. Dovrà venire la prossima generazione di politici, e poi vedremo che succede. Bisogna avere pazienza. Se ci mettiamo a strisciare ora e a chiedere favori allora salta tutto. La sicurezza, la consapevolezza nei nostri mezzi è il nostro punto di forza e li porterà a noi, passo dopo passo. Sono in politica dal 1990 e ora me ne intendo un pochino. So a quali errori si può andare incontro».

Ma la forza della Linke non è anche nella debolezza della Spd?
«Il fatto che noi siamo potuti crescere così in fretta dopo la caduta del socialismo reale, a differenza di altri partiti socialisti in altri paesi europei, dipende dal fatto che la Spd non è più socialdemocratica. La gente ha bisogno di una forza sociale a sinistra della Spd».

Il passo indietro del candidato governatore della Linke in Turingia, Bodo Ramelow, che la settimana scorsa aveva detto di essere pronto a rinunciare al posto per facilitare la nascita della prima coalizione rosso-rosso-verde, è stato osteggiato da lei e dal suo partito. Perché? Non sarebbe un risultato importante?
«Cosa sarebbe importante? Che il risultato elettorale non venga più tenuto in debito conto? Anche se avessimo il 40% e la Spd il 5% vorrebbero decidere comunque chi fa il governatore. Così diremmo agli elettori: "Non c'è bisogno che ci eleggiate, votate direttamente la Spd". Con il 10% ce lo prendiamo lo stesso un ministro. Non deve pensare al singolo caso, ma a cosa significa per il futuro: per le prossime elezioni la gente non sarebbe più interessata al nostro candidato, perché tanto non verrebbe eletto. Comunque trovo quel che è accaduto interessante: il candidato della Spd Matschie ha detto di non essere interessato alla proposta di Ramelow, perché vuole governare. Ora a lui la scelta: non sarà governatore né con noi né con la Cdu, ma con la Linke potrà realizzare l'80% del suo programma, con la Cdu il 20%. Io prevedo che correrà dalla Cdu. E in questo senso nonostante tutto è una buona cosa che Ramelow abbia fatto quella mossa, così vi rendete conto che nemmeno la rinuncia serve a niente».

Liberazione 23.9.09
Processi sospesi. Immigrati, 3,5 milioni di residenti ma la crisi fa crescere l'intolleranza I pm: Nessuno è clandestino la norma è incostituzionale
di Stefano Galieni


Si chiama Ritai, è nata a Coassolo in provincia di Torino, da madre proveniente dal Marocco e padre egiziano. Ancora non se ne rende conto ma per le leggi italiane, in particolar modo per il pacchetto sicurezza (legge 94) è una pericolosa clandestina, meritevole di sanzione amministrativa ed immediatamente espellibile. Poco importa che Ritai compia il suo primo anno di vita il 23 gennaio prossimo e poco conta che la madre sia perfettamente regolare mentre il padre, psicologo che si è rassegnato a fare il giardiniere, lavori in Italia da 2 anni. Il suo è un percorso di quelli che stanno intasando le aule dei tribunali italiani, ha operato come assistente sociale presso la casa dello studente di Alessandria, si è sposato regolarmente in municipio ma quando ha provato a chiedere il permesso di soggiorno alla questura per motivi familiari, i funzionari, obbedendo alle nuove norme lo hanno dovuto denunciare. Durante l'udienza il Pm Paola Bellone, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della norma che incrimina il soggiorno illegale degli immigrati, per Ritai questa eccezione è accompagnata da una aperta violazione della Convenzione Onu per i diritti del fanciullo, ratificata dall'Italia nel 1989.
Dall'altra parte della penisola, al tribunale di Agrigento, è accaduto qualcosa di ancora più eclatante. Di fronte ad un processo che vede imputati 21 immigrati "rei" di essere sbarcati illegalmente, l'intera procura ha ritenuto di dover sospendere il procedimento demandando tutto alla Corte costituzionale. Numerose le perplessità sollevate dai magistrati: intanto "la scelta legislativa ha comportato la criminalizzazione di una condizione che fino all'entrata in vigore della norma era di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa". A detta del giudice il mancato rispetto delle norme sull'ingresso e sulla permanenza nel territorio dello Stato, non può essere di per se indice di "pericolosità sociale", la norma poi viola i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità. Del resto è opinione condivisa che in questo caso si è di fronte ad un palese mancato rispetto degli obblighi internazionali assunti dall'Italia in materia di immigrazione come il Protocollo dell'Onu sottoscritto a Palermo nel dicembre del 2000. «Si ritiene -a detta della procura agrigentina - che la norma impugnata, comportando l'incriminazione di persone che si trovano in una condizione in relazione alla quale si è assunto l'impegno di assisterle e proteggerle, versi in una contraddizione vistosa e insanabile». Le decisioni assunte ieri a Torino e ad Agrigento si aggiungono a quelle di procure che hanno ritenuto opportuno sollevare simili eccezioni. È il caso di Bologna ma è soprattutto il caso di Pesaro, primo tribunale che ha sollevato la questione riprendendo le stesse perplessità che avevano portato ad una lettera del Capo dello Stato che accompagnava la ratifica della legge 94. Il procedimento di Pesaro, a carico del cittadino senegalese Diouf Hibraima, è degno di essere raccontato per la sua carica di surrealismo giuridico. Arrestato il 18 giugno, prima dell'entrata in vigore del pacchetto, non poteva né essere espulso - non aveva con se documenti validi - né trattenuto in un Cie - non c'erano posti liberi. In prima istanza al signor Diouf veniva chiesto l'impossibile: tornare nel proprio paese con i mezzi propri senza avere i documenti per poter rientrare, in un contesto in cui neanche la forza pubblica poteva procedere, per le stesse ragioni al rimpatrio. Il signor Diouf, raccogliendo anche tutti gli elementi di criticità espressi da ampi settori del mondo giuridico nonché dell'associazionismo, è stato assolto da ogni reato per tutto il periodo di permanenza irregolare che va dal giorno dell'arresto a quello dell'entrata in vigore del reato di clandestinità, 8/8/2009. Per il resto, ritenendo recepibili le eccezioni sollevate dalla difesa la procura ha anche in questo caso rinviato gli atti alla Corte costituzionale, in attesa di un parere di costituzionalità. E se da una parte il sottosegretario al ministero dell'interno Alfredo Mantovano spara a zero contro quei settori della magistratura che si rifiutano di applicare la legge, considerandolo un problema squisitamente politico (le solite toghe rosse) dall'altra si va verificando quello che tutti temevano. I tribunali si stanno intasando di "procedimenti fantasma". Solo in un mese e mezzo i fascicoli relativi al reato di clandestinità, si sono decuplicati e si tratta di processi che quando verranno celebrati difficilmente vedranno gli imputati presenti, una mole inutile di lavoro che non porterà neanche ai decantati risultati promessi rispetto alla lotta alla clandestinità.
Nel frattempo da un rapporto dell'Ocse emerge un quadro della situazione dei migranti sempre più sfavorevole. Schiacciati dalla crisi, raramente regolarizzati dai datori di lavoro, in paesi in cui cresce il razzismo e il conflitto sociale orizzontale, sono i primi a pagare e gli ultimi a poter sperare.

l’Unità Firenze 24.9.09
Sollicciano sfiora quota mille: digiunano garante e radicali
di Silvia Casagrande


Sciopero della fame e della sete anche per una detenuta bisognosa di cure mediche
Corleone scrive a Ionta: «Mantenere gli impegni presi con i detenuti quest’estate»
Delle promesse fatte il mese scorso dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per sedare la rivolta dei detenuti, si sono viste finora solo la doccia domenicale e la possibilità di comprare un gelato al giorno.
SILVIA CASAGRANDE
FIRENZE fircro@unita.it
L’aveva annunciato prima dell’estate e ora, purtroppo, sarà costretto a farlo. Sollicciano ha (quasi) toccato quota mille detenuti (siamo a 993) e il loro garante Franco Corleone ha iniziato lo sciopero della fame: «Digiunerò per protestare contro il sovraffollamento della struttura, che a regime dovrebbe ospitare 483 reclusi». Con lui, ma solo per oggi, anche i senatori radicali Poretti e Perduca: «Da tragica la situazione si fa disperata e non ci sarebbe da stupirsi se assisteremo ad azioni che non dovrebbero accadere in un paese civile».
PRIVI DI DIRITTI
Anche dentro le mura del carcere fiorentino c’è qualcuno costretto ad intraprendere lo sciopero della fame e della sete per far sentire la sua voce. È il caso di una quarantenne che 10 mesi fa ha subito un intervento per un carcinoma alla gola e da allora è completamente afona, anche perché «all’interno del penitenziario non riceve le cure adeguate», spiega il consigliere di Sinistra per Firenze Eros Cruccolini che ha raccolto il suo appello: «Chi è privato della libertà perché ha commesso un reato, non può e non deve essere privato del diritto alla salute. Mi sembra anacronistico aggiunge che nel 2009 si debba ricorrere ad azioni come queste per ottenere un diritto sacrosanto».
LE RICHIESTE DEI DETENUTI
Le storie personali fanno solo da cornice a una situazione generale preoccupante, che quest’estate fece scoppiare la protesta dei detenuti, allora sedata con una serie di promesse da parte del capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Promesse realizzate in minima parte: «È offensivo pensare di aver risolto la questione con una doccia in più e la possibilità di acquistare un gelato al giorno», spiega il garante, che con una lettera ha ricordato a Ionta gli impegni presi: «Servono una nuova cucina, l’allargamento dei passeggi e la chiusura della Casa di cura e custodia femminile, dove su 15 solo 2 detenute sono toscane, oltre al permesso di chiamare i familiari ai telefoni cellulari».
LE REGIONI DEL SOVRAFFOLLAMENTO
E a chi invoca la costruzione di nuove carceri, Corleone risponde
Le richieste
Servono una nuova cucina e l’allargamento dei passeggi
come sempre ricordando la composizione della popolazione carceraria: «A Sollicciano il 38% dei detenuti sono tossicodipendenti, di cui 253 donne. Per loro la legge prevede un percorso alternativo alla detenzione attualmente inesistente». Da qui il progetto pilota, già sottoposto alla Regione e in attesa di finanziamenti, di trasferire cento detenuti tossicodipendenti da Sollicciano a comunità di recupero specializzate.❖

Liberazione 23.9.09
Presentata ieri la ricerca sul campo di Ristretti orizzonti
Carcere, fabbrica di suicidi, detenuti orfani della politica
di Paolo Persichetti


«Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica», scriveva Jean Baudrillard. Forse è per questo che in carcere ci si toglie la vita con tanta frequenza. Perché è rimasto uno dei luoghi dove permane ancora l'osceno, dove il sesso è vietato e la morte fa compagnia. Come si conciliano i decessi in carcere dovuti alla malasanità, all'alto numero di suicidi, oppure le migliaia di atti di autolesionismo e scioperi della fame col dettato costituzionale che cita espressamente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e le finalità rieducative della pena? Per chi conosce il mondo opaco degli universi concentrazionari: carceri, centri d'identificazione ed espulsione, Opg e sezioni psichiatriche dove si praticano Tso senza controllo e sono tornati in auge i letti di contenzione in spregio della riforma Basaglia, la domanda può apparire fin troppo logora, un esercizio di svogliata retorica. Il volume edito da Ristretti orizzonti, In carcere: del suicidio e altre fughe , scritto a due mani da Laura Baccaro e Francesco Morelli (lei, psicologa e criminologa, lui, animatore del sito www. Ristretti orizzonti.it ), ha il merito di restituire appieno la capacità di scandalo, l'indignazione della prima volta. Corredato con una serie di appendici storiche, normative e statistiche, il volume affronta il tema del suicidio seguendo un approccio socio-psicologico accompagnato da una ricca documentazione e una folta serie di testimonianze pescate dall'archivio di Ristretti orizzonti . Se ne è discusso ieri in occasione di una conferenza stampa tenutasi presso la Camera dei deputati, presenti Ornella Favero responsabile di Ristretti Orizzonti , Rita Bernardini, deputato radicale-Pd, Luigi Manconi ex sottosegretario alla Giustizia, Luigia Pulla, direttrice dell'ufficio studi dell'amministrazione penitenziaria e altri. Assenti, nonostante fossero i padroni di casa, i poco onorevoli deputati. L'argomento ha già perso d'interesse per il ceto politico-istituzionale (ammesso che l'abbia mai avuto) nonostante lo scorso Ferragosto ci sia stata la più grossa visita parlamentare negli istituti di pena dal dopoguerra. Proprio quella visita aveva consentito di aggiornare i dati sui decessi all'interno delle carceri, 53 (di cui 33 suicidi) dall'inizio dell'anno e almeno 4 mila gli atti di autolesionismo segnalati dall'inizio del 2008. Ultimo l'episodio, che ha avuto una certa eco sui quotidiani nazionali, quello di Sami Mbarka Ben Gargi, il 41enne tunisino morto alla fine di un lungo sciopero della fame avviato per protestare contro una condanna che riteneva infondata. Il fatto che all'interno delle carceri ci si tolga la vita con più frequenza che nella società esterna è un dato abbastanza intuitivo, non ci vuole molto per capirlo. Esistono tuttavia studi scientifici che fin dalla fine dell'Ottocento ne comprovano la fondatezza. Da allora la domanda rimane più o meno la stessa: quali sono le cause che favoriscono lo scatenamento del comportamento suicidario o autolesionista, di fronte ai mutamenti architettonici e normativi che hanno modificato la vita carceraria? Quanto può incidere il sovraffollamento attuale? Il degrado delle condizioni dirette e indirette, la riduzione degli spazi di vita, 3 metri a testa (anche meno in alcune situazioni) invece dei 6-7 abituali, le minori opportunità di lavoro, di spazi di socialità, di colloqui, l'assistenza sanitaria già carente che va in tilt, l'impossibilità per gli operatori (educatori e psicologi ridotti al lumicino) di seguire il trattamento e quindi di presentare dossier che reggano al vaglio di magistrati di sorveglianza sempre più maldisposti a concedere benefici, quanto pesa? Molto moltissimo. Ma c'è un dato che più d'ogni altro sorprende: l'esplosione dei suicidi segue il varo della riforma carceraria. Un terzo in meno prima della riforma e un numero di tentati suicidi e gesti di autolesionismo 14 volte superiore dopo. Gli autori trovano una spiegazione nei mutamenti sociologici intervenuti nella popolazione detenuta, oggi più fragile (alto numero di tossicodipendenti e stranieri); i mutamenti culturali (suicidarsi è meno disonorevole); la frantumazione della coesione; la struttura monocellulare che ha sostituito le camerate e quindi introdotto più solitudine. Rilievi socio-culturali importanti che ricordano in parte le modificazioni che hanno travolto la classe operaia. Ora questi cambiamenti, sovrapposti alle innovazioni normative, delineano un qualcosa che sa molto di politico. La Gozzini (1986) ha spezzato lo sviluppo di rivendicazioni collettive, rendendo la detenzione una vicenda fondamentalmente singola, "privata", legata a una logica premiale, paternalistico-inquisitoriale. L'aggressività o il conflitto hanno così mutato di segno rivolgendosi contro degli attori, i detenuti, divenuti soggetti nel senso di assoggettati. La fine della parola politica, della stagione delle lotte carcerarie ha lasciato come unica via l'impolitica dei corpi.

Repubblica 24.9.09
L´intervento di Stefano Rodotà oggi al Festival del diritto di Piacenza
La frontiere incerta tra pubblico e privato
di Stefano Rodotà


Dalla condivisione dell´intimità su Facebook alla più ridotta aspettativa di privacy per i politici la sfera personale e quella collettiva non sono più in un´alternativa secca

Più mobile che in passato, e ancora più incerta, appare oggi la frontiera tra pubblico e privato, fino a far dubitare che questa distinzione possa ancora essere proposta. La sfera dei media sembra sfuggire alla presa di queste categorie, contiene tutto e il contrario di tutto, e tutto proietta in una dimensione di crescente visibilità. La sfera globale, dove scompaiono o diventano opachi i poteri dei grandi soggetti pubblici, degli Stati nazionali, annuncia la privatizzazione del mondo. Ma una alternativa secca appare spesso improponibile. Nascono nuove formule - "privato sociale", "pubblico non statuale" - che scardinano gli assetti tradizionali. E, sempre più impetuosa, compare la "ragionevole follia" dei beni comuni. Né pubblico, né privato, allora?
Oggi non si possono seguire gli itinerari di Riesman o Sennett, che disegnavano processi lineari, con il prevalere ora dell´una, ora dell´altra logica. Se pure è vero che il privato invade il pubblico, che nella sfera pubblica il personale sostituisce l´impersonale, non si può poi concludere che il privato rimane sempre identico a se stesso. Un altro "privato" è davanti a noi, conosce il bisogno imperioso dell´apparire, si fa governo. E questo impone di ridefinire l´intero quadro di riferimento.
Si va su Facebook per essere visti, per conquistare una identità pubblica permanente. Si alimenta il "pubblico" per dare senso al "privato". Viviamo continui passaggi dall´intimité a quella che Lacan ha chiamato l´extimité: una intimità "esteriorizzata" che non connota soltanto il bisogno di guadagnare una ribalta costi quel che costi, ma rende possibili nuove forme di comunicazione sociale o politica.
In presenza di una sfera pubblica nutrita di spettacolo, di personalizzazione, le figure pubbliche accettano questa logica come una via obbligata per "promuovere" la propria immagine, per guadagnare consenso. Ma, imboccata questa strada, non si può pretendere un diritto all´autorappresentazione, che farebbe nascere una contraddizione tra la scelta di chiedere il consenso attraverso la spettacolarizzazione del privato e la pretesa di fornire un´immagine di sé costruita attraverso selezioni delle informazioni. Se chiedo di essere legittimato e giudicato per quel che sono, non posso poi proporre una immagine falsificata, che inquinerebbe quel giudizio su chi ha funzioni pubbliche che costituisce un elemento essenziale del processo democratico.
Si fa così più impegnativa la definizione della democrazia come "governo in pubblico". Non soltanto il passaggio da figura privata a figura pubblica determina una più ridotta aspettativa di privacy per i politici, per chi ricopre cariche pubbliche, ma si costruisce un nuovo circuito per il controllo del potere, fondato sulla trasparenza, sulla luce del sole come "miglior disinfettante", che attribuisce alla conoscenza dei cittadini una funzione essenziale, e così accentua il ruolo "pubblico" del sistema dell´informazione.
Ma, appunto, non siamo di fronte a processi lineari. Mentre la società della comunicazione presenta il suo conto, poteri vecchi e nuovi elaborano strategie di difesa, si trasferiscono in luoghi sottratti all´occhio del pubblico. Ricompaiono gli arcana imperii, che possono assumere la forma di un modello matematico, di un algoritmo che governa le attività finanziarie. Di questo mondo, privato e opaco, abbiamo avuto diretta nozione con l´esplodere della crisi economica, che ha rivelato la distruttiva privatizzazione di un potere che, esteso sull´intero pianeta, si è sostituito ad ogni altro. E così il pubblico è dovuto correre in soccorso del privato, con un ritorno ad una "privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite". La tardiva riscoperta di un bisogno di regole pubbliche obbliga a ridisegnare un territorio che si riteneva definitivamente assegnato a poteri privati.
Proprio qui s´innesta la questione dei beni comuni, dell´acqua e dell´aria, dell´ambiente nel suo complesso. "Il grande campo di battaglia sarà la proprietà" - aveva scritto, con parole presaghe, Alexis de Tocqueville, svelando la fragilità di un assetto il cui equilibrio era stato fondato su una divisione di compiti: "al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l´impero". Quel conflitto continua, e si è trasferito al mondo dei beni immateriali, alla conoscenza. L´oggetto della contesa non sono più soltanto beni scarsi (la terra, in primo luogo), ma l´ininterrotta produzione di conoscenza che ha in Internet il suo luogo di elezione. Qui la scarsità non è più naturale, ma prodotta da tecniche che limitano la libertà di accesso, determinando processi impropri di privatizzazione. Le regole pubbliche non possono limitarsi ad affermare che l´accesso alla conoscenza è un diritto fondamentale della persona se, poi, troppi contenuti non sono liberamente accessibili. Il centro dell´attenzione, allora, diviene appunto quello dei beni comuni. Non si può consegnare ai cittadini una chiave che apre una stanza vuota.
Continui conflitti di potere accompagnano la ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato. Molti sono i protagonisti di questa vicenda, ma è bene ricordare la radicalità con la quale le implicazioni profonde del tema sono state svelate dal pensiero delle donne. Non è solo una formula perentoria - "il personale è politico" - che torna alla memoria. Sono le molte vicende di questi tempi a inquietare, con la pretesa di ridisegnare il privato e il pubblico delle donne in forme che prospettano il primo come una prigione e l´altro come una subordinazione.

Corriere della Sera 24.9.09
L’indagine Identikit di 15 mila insegnanti appena assunti in otto regioni fatto dalla Fondazione Agnelli
La paura di insegnare dei nuovi professori
Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato
di Gabriela Jacomella


I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio. Ma il 95% non tornerebbe indietro

Hanno appena firmato un con­tratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — so­prattutto di questi tempi — dovreb­be aiutare a mettere da parte una buo­na dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella.
Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragaz­zi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’ade­guata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppican­te con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecno­logie: alle scuole superiori, addirittu­ra il 49% riconosce di avere un rap­porto non facile con computer e Web.
Ritratto di insegnanti in un inter­no, quello della scuola italiana ai tem­pi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritrat­to accurato, perché le pennellate so­no davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al nu­mero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al que­stionario di 223 domande diffuso dal­la Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e an­cora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Com­plessivamente, 16.000 insegnanti ne­oassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalis­simo tocco di pennello.
Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intor­no alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compi­lati — ammette con un certo orgo­glio Stefano Molina, dirigente di ricer­ca della Fondazione e tra i coordinato­ri del lavoro — significa di gran lun­ga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeter­minato se ne sentono poche. Qui, in­vece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stia­mo parlando del più grande fenome­no italiano di immissione a tempo in­determinato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sape­va bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne co­nosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...».
I titoli di studio, ecco. Quella lau­rea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamen­te, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuo­vi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fon­do del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoas­sunti arrivano, per la metà, dalle gra­duatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, ne­gli anni, moltissimi altri colleghi. L’al­tra metà, invece, viene dalle gradua­torie ad esaurimento, in questo mo­mento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diver­se, con regolamenti diversi». Inse­gnanti del futuro, ma già da rottama­re? Certo che no, anzi: «Stiamo par­lando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, han­no una buona esperienza e un’anzia­nità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inade­guata ».
Perché poi, in questo quadro a for­ti chiaroscuri che ritrae l’ultimo batta­glione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — con­ferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice in­sieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rap­presentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfa­zione agli insegnanti. Nonostante al­cuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di preca­riato ».
E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfa­zione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il rico­noscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Pu­glia.
Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi»
E va sotto il nome di «difficoltà nel­l’insegnare ». Una sensazione «in au­mento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Ga­vosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italia­ni inizino a sentirsi fortemente inade­guati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un diva­rio generazionale, tecnologico, di vi­ta e di apprendimento, e loro non sen­tono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuova­mente) alla mano, nelle scuole supe­riori: il 63% degli intervistati confes­sa problemi nel gestire la multicultu­ralità in classe, il 55% non sa interagi­re come vorrebbe con i genitori. Per­sino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso.
«Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di og­gi ». E in questo senso, la programma­zione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiet­tivo per il Paese dovrebbe essere inve­stire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella peda­gogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicen­do esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto.

il Riformista 24.9.09
«Senza l'Islam l'Europa perde un po' d'anima»
Mohammed Bennis intervistato da Antonello Guerrera


MOHAMMED BENNIS. Intervista con lo scrittore marocchino, appena ripubblicato in Italia da Donzelli. Dai danni della globalizzazione al futuro del Vecchio Continente. «L'Ue accentua l'odio nel Mediterraneo». E ancora: «Chi ha paura della Turchia nell'Unione ha paura di se stesso». Considera la mancata elezione di Hosni all'Unesco «un'occasione persa».

Cristiani ed islamici, uniamoci per vivere meglio. È l'appello di Mohammed Bennis, 61enne scrittore e poeta marocchino tra i più famosi del suo continente, ora riedito in Italia grazie a Donzelli editore con Il Mediterraneo e la parola (128 pp., euro 14). Bennis ha pubblicato oltre venti opere, tradotte in tutta Europa, è stato l'ideatore della Giornata della Poesia dell'Unesco, che si celebra ogni anno il 21 marzo, con lo scopo di stimolare il dialogo attraverso la poesia. Proprio il dialogo e la tolleranza tra i popoli del Mediterraneo - sempre più divisi e lacerati secondo l'autore - oltre ogni differenza etnica e religiosa, è uno dei punti cardini dell'opera ultima pubblicata da Donzelli. In questi giorni, Mohammed Bennis è in Italia e il Riformista ha colto l'occasione per intervistarlo.
Lei ha vinto numerosi premi, è uno dei poeti più famosi d'Africa. Ha cominciato a scrivere giovanissimo a 17 anni. Cosa rappresenta per lei la poesia e a chi si è ispirato per i suoi libri?
Per me la poesia è sempre stata attaccamento alla vita, sin da giovane, attraverso i versi ho trovato la forza di resistere a tutte le forme della morte. Non posso separarmene, per lei ho abbandonato tutto e mi hanno considerato pazzo per questo. I grandi poeti sono la mia famiglia, non mi tradiscono mai. Di questa mia personalissima cerchia fanno parte diversi scrittori africani come Chabbi, Gibran Khalin e Al Moutanabi. Mentre per quanto riguarda gli scrittori occidentali potrei citare Nietzsche: Così parlò Zarathustra mi ha insegnato il senso della libertà, da quel momento sono diventato un ribelle, ma allo stesso tempo cosciente della responsabilità della poesia. E poi altri classici: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Mallarmé, Hölderlin, Rilke, Lorca. E, sempre da giovane, ho scoperto anche Dante, che considero uno dei più grandi maestri per visione della vita e senso vitale della poesia, perché quest'ultima, come ha fatto con me, ha salvato la vita anche al più grande autore italiano. I poeti sono molto rari, ma per fortuna hanno un popolo che li ascolta.
A questo proposito, oggigiorno da più parti la poesia viene considerata morta o, perlomeno, in stato comatoso. Secondo lei cosa può ancora comunicare la poesia, che in "Il Mediterraneo e la parola", lei difende strenuamente? Lei scrive addirittura di «resistenza» in tal senso e di rischio, altrimenti, di «mutismo collettivo».
Quelli che dicono che la poesia è morta sono i nemici della letteratura. Oggi domina la letteratura mediatica, che segue la politica del mercato. Non c'è che dire, siamo molto lontani dalle grandi avventure letterarie degli ultimi secoli, quando la poesia ancora si ritagliava il suo legittimo spazio. Perché è un genere letterario che agisce segretamente, non sappiamo veramente cosa fa, come agisce. E poi è grazie alle poesia che le lingue esistono. Se sparisse, la parola umana, quella quotidiana, si dileguerebbe perché unidimensionale. È la poesia che veglia sul senso della parola, solo nella poesia si ritrova il senso infinito della parola.
Dal suo punto di vista, qual è la più grande differenza tra poesia occidentale e quella araba?
Le grandi esperienze versificatorie si rifanno allo stesso livello di qualità, non c'è comparazione tra i grandi di culture diverse. L'importante in queste tradizioni è di avere sempre un rapporto col corpo e col pensiero. Se proprio vogliamo trovare una differenza, una caratteristica della poesia arabo-orientale è il marcato rapporto con il corpo, che è una relazione sempre viva, sempre presente. Mentre invece nella tradizione occidentale il pensiero è spesso al centro di tutto. Personalmente credo che la poesia sia la lingua del corpo, perciò mi ritrovo nella tradizione sensibile e corporea.
Nella sua opera si scaglia contro la globalizzazione, secondo lei deleteria per la cultura. Perché tanto astio?
Il problema della globalizzazione è che vuole sottomettere tutta l'umanità ai regimi dell'economia e dell'informazione. Vuole sopprimere l'essenziale della vita umana, vuole fare di ciascuno di noi una sola persona affinché risponda alla domanda del mercato. L'essere umano invece è molto più grande e la sua immaginazione lo eleva dal piattume. La globalizzazione genera la chiusura in noi stessi. È la parola che non parla più.
Nel suo libro definisce «ignorante» chi afferma che le radici dell'Europa non si possono ritrovare solo nei valori giudaico-cristiani. Perché?
No, mi faccia chiarire bene questo punto. È vero che prima del Medioevo l'Europa poteva definirsi giudaico-cristiana, ma l'Europa moderna, nata dal Rinascimento italiano, era un continente in serrato dialogo con la cultura arabo-islamica. Lo stesso Dante è figlio di questo rapporto interculturale ed è assolutamente incomprensibile che si continui ad ignorare la storica e decisiva influenza islamica in Europa. Tutti i malesseri della nostra società nascono da questa incomprensione. Se invece avesse luogo il riconoscimento di questa commistione culturale, il rapporto tra cristiani e islamici potrebbe avviarsi verso la normalità e la tolleranza. Perché la cultura è lo spazio della verità.
Quindi immagino che lei veda di buon occhio l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea...
Ma certo, perché no? Per me la Turchia è già europea. Per come conosco i turchi, il loro stile di vita è molto simile a quello degli europei. Chi ha paura di far entrare la Turchia nell'Ue ha paura di se stesso. In alcune zone, per quello che ho visto, Roma somiglia a Pechino. Oggi ero a Piazza Navona e (agita le braccia verso l'alto, ndr) c'erano esclusivamente stranieri. Quindi perché sbarrare la strada ai turchi? I politici non hanno più immaginazione, solo gli artisti possono darci un'idea vera e moderna dell'Europa e dell'area mediterranea. Ben venga Obama che, al contrario di molti altri, dà grande spazio all'immaginazione e alla cultura.
In questo senso, che ne pensa delle politiche migratorie dell'Ue?
L'approccio europeo nei confronti dei paesi arabi del Mediterraneo non ha coscienza del futuro, non fa altro che accentuare l'odio e favorisce gli spiriti deboli. Invece, il Mediterraneo è lo spazio della nostra vita comune, lo è stato e dovrebbe esserlo sempre di più, senza timori di lingue o etnie differenti. Per questo difendo la sua dimensione culturale.
Lei è stato l'ideatore della Giornata della poesia dell'Unesco. Che ne pensa delle accuse di antisemitismo rivolte al ministro della Cultura egiziano Farouk Hosni e della sua mancata elezione alla presidenza del massimo organismo culturale a livello mondiale?
Sia ben chiara una cosa. Non sono favorevole a Hosni come persona in se per sé, ma la dura opposizione contro di lui nascondeva anche l'astio nei confronti del mondo arabo, perché questo aspetto è stato sottolineato più volte. Ad ogni modo, penso che purtroppo abbiamo perso un'occasione unica: un egiziano a capo dell'Unesco avrebbe giovato a tutte le culture per un riavvicinamento tra popoli che oggi sono in conflitto, almeno ideologico.
Ma non pensa che forse Hosni non fosse la persona giusta, visto il suo background e ultima la rivelazione sull'Achille Lauro...
A volte si accettano tutte le sconfitte per ottenere una sola importante vittoria. Qui non si trattava della vittoria di Hosni ma, al contrario, della concessione del diritto di parola al cosiddetto "Altro". Che così rimane sconosciuto e, ancora una volta, dimenticato.

l’Unità 24.9.09
Com’era colorata e meticcia la pittura romana


Non era un mondo di immagini in bianco. Dal voluttuoso abbraccio tra Polifemo e la nuda Galatea agli enigmatici ritratti di uomini e donne dall’oasi del Fayyum in Egitto, nell’impero romano esteso dalla Spagna alla Siria dipingevano molto e bene e con una varietà di colori e una fantasia oggi ignorate: pensiamo infatti la cultura classica come una infinita sequenza di statue in marmo bianco e non era affatto così. Lo prova «Roma. La pittura di un impero», mostra aperta da oggi al 17 gennaio alle Scuderie del Quirinale a Roma, curata da Eugenio La Rocca e allestita da Luca Ronconi e Margherita Palli. Dove un centinaio di pitture murali dal III secolo a. C. al II d.C. dispiega superfici dipinte a rosso cinabro, azzurri, scene di amplessi e riti sacri, fantasie architettoniche e nature morte. Quest’arte suggerisce il direttore dei Musei Vaticani Paolucci è solo l’eco della straordinaria ma irrimediabilmente scomparsa pittura greca del V e IV secolo a. C. e nasceva dalle genti dell’impero: «tra facce mediorientali, negre, egizie, germane, da quel meticciato che ha fatto l’Europa moderna». STE. MI.

Repubblica 24.9.09
Ma come mai qui sono tutti bianchi?



Caro Direttore, i miei figli hanno 12 e 9 anni. Vivono a Milano da due mesi. Tutti, bambini e genitori, li vogliono come compagni di classe, di giochi, di compiti. Eppure avevo sentito che i bambini stranieri sono considerati un "problema" nelle scuole italiane. I miei figli parlano un italiano approssimativo. I loro compagni di classe cinesi o arabi non suscitano tanto entusiasmo. Dimenticavo, i miei figli si esprimono in inglese. Sono cresciuti a Toronto. Di fronte a loro, a noi in generale, come famiglia, ogni barriera si abbatte, gli italiani si mettono in ginocchio pur di scambiare quattro parole.
Hanno la cittadinanza italiana perché io, la madre, sono italiana naturalizzata canadese. Ma il loro passaporto diventa un dettaglio per gli ammiratori che ignorano e non si curano della loro italianità anagrafica. Parlano in inglese, fra loro e con noi, quindi sono degli dei.
Dovrebbe farmi piacere, tutto questo interesse, e sono molto contenta che questo elemento stia di fatto facilitando la loro integrazione. Eppure mi fa anche tristezza constatare il provincialismo di cui è frutto.
Immersa in una società davvero multietnica, dove la diversità è un pregio da esibire, sono abituata ad apprezzare ogni seconda lingua, ogni seconda cultura. Invece constato qui che i miei figli sono accolti meglio di bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri, che per i miei parametri sono italianissimi, ma che hanno occhi a mandorla o la pelle scura.
Parlando con un bambino italiano è emerso che sua madre è marocchina. «Sei fortunato – gli ho detto – puoi imparare l´arabo. Cerca di non dimenticarlo mai ed esercitati perché sarà una competenza molto richiesta in un mondo del lavoro che darà l´inglese per scontato». Il padre, italiano, del ragazzino, mi ha guardato come fossi un´aliena, al punto che ho pensato di aver toccato un tasto doloroso: forse la madre era deceduta o divorziata e lontana. «Non gliel´ha mai detto nessuno - mi ha spiegato riferendosi al figlio che, ha aggiunto - non solo non esibisce mai questa capacità linguistica , ma addirittura la tiene nascosta».
Spingere la gente o peggio, i bambini, a vergognarsi della propria identità non porterà a nulla di buono. A Toronto è esattamente l´opposto. L´esaltazione della diversità è tale che sono i ragazzi "solo" anglosassoni a sentirsi obbligati, per apparire "cool", a fingere di avere una parentela italiana, portoghese o giamaicana. Il Canada è ben lontano dall´essere il paradiso sulla terra che molti pensano, ma in termini di politiche per l´integrazione dovrebbe essere una scuola obbligatoria per ogni amministratore e politico italiano che abbia a cuore il conseguimento di una società pacificata e più vivibile per tutti.
Mentre mi cimento a spiegare ai miei figli l´analisi grammaticale e l´educazione tecnica, mi chiedo anche quando la scuola italiana entrerà nel terzo millennio. Dov´è l´educazione ambientale, l´esposizione al multiculturalismo, la valorizzazione per esempio delle lingue e delle culture rappresentate in ogni classe? A Toronto non so nemmeno quanti fossero i figli di immigrati tra i compagni di scuola dei miei figli. Prima di tutto i bambini erano tutti considerati canadesi. Ogni giorno, inoltre, i programmi offrivano loro decine di occasioni per essere fieri della loro lingua polacca, o farsi, portoghese o italiana.
Una domanda molto frequente che i bambini canadesi si rivolgono quando si incontrano in un parco non è «come ti chiami?», ma semmai «e tu che lingua parli a casa?». In un clima di questo genere l´essere straniero non può essere un problema.
Sono certa che i miei figli acquisiranno una cultura più solida, dal punto di vista umanistico, nella scuola dell´obbligo piuttosto che in una nordamericana. Ma l´esposizione alla diversità e l´insegnamento che hanno ricevuto dalla scuola canadese, è ineguagliabile. Al punto che , ricorderò sempre una vacanza in Italia di cinque anni fa, quando scoprii che per mio figlio, allora di otto anni, una società omogenea era una menomazione, un´anomalia che ovviamente non poteva essere naturale. «Mamma – mi disse – non vorrei offenderti, ma mi sembra che siano tutti bianchi qui… Cosa avete fatto agli altri?».
Irene Zerbini

mercoledì 23 settembre 2009

l’Unità 23.9.09
Educazione e media: Ruini rilancia il modello-egemonia
L’ex presidente della Cei propone un nuovo patto e trova sponde nel ministro Gelmini. Che ha fornito ampie assicurazioni, dall’ora di religione ai crocifissi nelle classi
di Roberto Monteforte


Una società sempre più lacerata, che ha abdicato al suo compito di indicare modelli e sistemi di valore, in partico-
lare ai giovani, viene meno ad un suo preciso dovere. Un futuro incerto, segnato dalla precarietà: questa è la dura prospettiva per le nuove generazioni. Con questo, con l’emergenza educativa, occorre misurarsi. La Chiesa lancia la sua sfida-provocazione rivolta al mondo cattolico, ma soprattutto a quello laico. Se ne fa portavoce il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dei vescovi italiani e responsabile del Progetto culturale della Cei che ieri ha presentato il volume «La sfida educativa» edito da Laterza che raccoglie approfondimenti e proposte sulle agenzie educative classiche: scuola, famiglia, comunità cristiana, ma anche sul lavoro, l’impresa, i mass media, lo spettacolo, il tempo libero, lo sport. Tutte realtà che concorrono alla formazione della persona. «L’educazione è una urgenza, o meglio, è una emergenza» scandisce Ruini. «L’educazione per sua natura impone sfide a lungo termine spiegaattorno all’educazione deve trovarsi una convergenza che superi il variare delle persone, delle idee, degli interessi. Il nostro rapporto vuole essere un invito aggiunge a muoverci nella direzione di una alleanza educativa di lungo termine».
Così la Chiesa si propone come luogo di confronto per una società divisa e lacerata, riproponendo una sua centralità. È la strategia che ha segnato l’«era Ruini» e che ieri ha trovato sponde robuste. Ha colto a volo l’occasione il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini per rilanciare il tema dell’identità culturale del nostro paese, contraddistinta dai valori cattolici, con cui devono rapportarsi i giovani figli di immigrati. È da lì che passa l’integrazione per il ministro che ha rassicurato: nulla cambierà sull’ora di religione e sul crocifisso nelle aule. Le sollecitazioni sulla funzione formativa ed educativa dei media contenute nella proposta della Cei sono state raccolte dal presidente della Rai, Paolo Galimberti, che ha riconosciuto la difficoltà a proporre una televisione di qualità. Al confronto ha partecipato anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. ❖

il Riformista 23.9.09
Ruini rilancia la sua sfida sull'emergenza educativa
La prima politica è l'educazione
di Camillo Ruini


Agenda. Il cardinale responsabile del Progetto culturale della Cei parla di linee orientatrici di un lavoro di anni: «La posta in gioco riguarda il senso stesso che attribuiamo all'uomo e alla nostra civiltà.

In ogni epoca l'educazione delle nuove generazioni ha rappresentato per ciascun gruppo umano un compito fondamentale, a cui dedicare attenzione, risorse ed energie, dando vita a regole, percorsi, usanze e anche riti formativi. Nel nostro tempo però, almeno in Occidente, l'educazione è diventata, in maniera nuova, problema: un nodo, cioè, che sembra ogni giorno più difficile affrontare, un territorio assai cambiato e quasi sconosciuto. Sono divenuti più incerti e problematici i rapporti tra le generazioni, in particolare riguardo alla trasmissione dei modelli di comportamento e di vita, tanto che specialmente sotto questo profilo si tende a parlare di frattura o di indifferenza tra le generazioni.
E, quel che più importa, appaiono ridotte e precarie le possibilità di un'autentica formazione della persona, che comporti una buona capacità di orientarsi nella vita, di trovarvi significati e motivi di impegno e di fiducia, rapportandosi agli altri in maniera costruttiva e non smarrendosi davanti alle difficoltà e alle contraddizioni. In altre parole, mentre sono assai aumentate, sotto diversi profili, le opportunità e le facilitazioni a nostra disposizione, diventa più arduo tenere insieme la consapevolezza di sé e del mondo in cui viviamo, la libertà e la responsabilità delle nostre decisioni, cioè quegli elementi che sembrano essenziali per una vera educazione.
La Chiesa si sente interpellata da una situazione di questo genere. Fin dall'inizio, infatti, spinta dalla sua sollecitudine per l'uomo, ha esercitato una particolare vocazione educativa nei confronti delle persone, delle famiglie e di intere popolazioni. «L'uomo è la via della Chiesa», si legge nell'enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II. Per questo essa non può non essere interessata alla formazione del soggetto umano. Suo compito specifico è certamente l'educazione alla fede, la formazione del cristiano, non però in modo astratto, non prescindendo cioè dalla consistenza umana delle persone, bensì interessandosi all'autentica umanità di tutti coloro che incontra sul proprio cammino, compresi i non cristiani, come mostra una lunga esperienza di lavoro educativo in molti paesi.
In questi anni la Chiesa italiana ha più volte richiamato l'attenzione sull'attuale «emergenza educativa». Si rende conto infatti che la posta in gioco riguarda il senso stesso che attribuiamo all'uomo e alla nostra civiltà. Nei limiti del possibile cerca quindi di farsi carico del compito e della sfida davvero grandi che questa emergenza ci pone davanti. La Chiesa sa però altrettanto bene che non si tratta in alcun modo di un suo compito esclusivo e che occorre invece promuovere una collaborazione aperta a tutto campo, così come sono condivise da molte parti le preoccupazioni per la qualità dell'educazione.
Il Rapporto-proposta che presentiamo non si concentra in primo luogo sulle tecniche educative, che sono utili e importanti ma non decisive: oserei dire tanto più utili quanto più consapevoli di non costituire il tutto dell'educazione. Consideriamo cioè l'educazione come un processo umano globale e primordiale, nel quale entrano in gioco e sono determinanti soprattutto le strutture portanti - potremmo dire i fondamentali - dell'esistenza dell'uomo e della donna: quindi la relazionalità e specialmente il bisogno di amore, la conoscenza, con l'attitudine a capire e a valutare, la libertà, che richiede anch'essa di essere fatta crescere ed educata, in un rapporto costante con la credibilità e l'autorevolezza di coloro che hanno il compito di educare. «Il rapporto educativo - scrive Benedetto XVI - è anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà». In concreto, le difficoltà di questi ultimi decenni stanno facendo riemergere quella necessità di precise regole di comportamento e di vita che si ritrova in tutte le grandi tradizioni educative. Ancora più profondamente, rilanciano un decisivo principio antropologico: quello per cui abbiamo bisogno di educazione, non tanto per essere buoni cittadini o buoni cattolici, ma semplicemente per essere uomini. Per questo abbiamo insistito in modo particolare sul carattere generativo dell'educazione, sull'importanza che ha per l'uomo e per la donna l'essere accompagnati, educati, sia nella vita intellettuale che in quella affettiva, nella capacità di ascolto come in quella di comprensione e di giudizio critico.
Questo Rapporto-proposta non è dunque settoriale: prende in attenta considerazione ciascuno degli ambiti specificamente deputati all'educazione, come la famiglia e la scuola, o che comunque possono svolgere in essa un ruolo significativo, ma ha l'ambizione di riflettere sui motivi più profondi delle attuali difficoltà e affronta pertanto alcune fondamentali questioni antropologiche. Avendo come suo scopo la formazione e lo sviluppo del soggetto umano, l'educazione è infatti intrinsecamente connessa con le risposte che vengono date ai grandi interrogativi riguardo all'uomo. Il libro si occupa quindi anche di quei pervasivi fattori educativi che sono la società nel suo complesso e la sua cultura: in realtà, pur con diversi gradi di responsabilità secondo il ruolo sociale di ciascuno, siamo tutti in qualche modo attori del processo educativo. Proprio per rivolgersi a tutti il linguaggio del Rapporto-proposta ha cercato di evitare i tecnicismi e di limitare al minimo il ricorso a termini specialistici.
Gli orientamenti di fondo qui proposti vengono assunti come ipotesi di lavoro nell'esame delle situazioni concrete dell'educazione in Italia, con i loro aspetti positivi, problematici o anche francamente negativi. La descrizione e l'interpretazione di ciascuna di esse sono sintetiche ma cercano di essere accurate. L'obiettivo non è comunque soltanto descrittivo e interpretativo: è soprattutto offrire un contributo al fine di fare evolvere positivamente la situazione. Perciò questo libro è, oltre che un "rapporto", una "proposta" di linee orientatrici e anche di correzioni di rotta. Esse ambiscono a una valenza di medio e lungo periodo, ma riguardano anzitutto ciò che appare da farsi in questi anni e in particolare l'approccio che sembra richiesto per far crescere e irrobustire quella che è, sotto ogni profilo, la prima risorsa di un corpo sociale, cioè la persona, il soggetto umano.
Camillo Ruini
(prefazione de "La sfida educativa", Editori Laterza)

il Riformista 23.9.09
Abortire a 16 anni senza il permesso dei genitori è giusto
di Ritanna Armeni


La donna deve essere libera di scegliere da quando può procreare e non da un momento astratto e fissato per legge

La notizia è che in Spagna, con la nuova legge sull'aborto si può interrompere la gravidanza a 16 anni anche senza il consenso dei genitori. In Italia questa informazione è stata accolta con un certo disinteresse. Non è seguita alcuna discussione, nessuno ha dato segnali di approvazione. Nessuno ha urlato contro. Come spesso in casa nostra le questioni etiche sono solo strumenti per questa o quella battaglia politica o per polemiche esterne alle questioni stesse. Voglio tornare invece su quella notizia proprio perché dei temi etici occorre discutere a mente fredda e al riparo da ogni strumentalizzazione.
Dico subito che la legge spagnola mi pare giusta, umana e favorevole alle donne. E non solo per i motivi addotti da coloro che l'hanno approvata. A quell'età - hanno detto - una giovane donna può rifarsi il seno senza il permesso di mamma e papà e può opporsi a qualunque trattamento sanitario che i genitori vogliano eventualmente imporre. Perché quindi non può decidere di abortire? Francamente non mi sembra un'argomentazione sensata perché l'aborto non è un intervento chirurgico come un altro, le motivazioni per cui è giusto che anche una donna di 16 anni possa sceglierlo senza il consenso dei genitori non possono essere solo quelle che rendono libero un intervento per rifare il seno o difendono la opposizione di una minorenne a un apparecchio per raddrizzare i denti. Credo che quella legge sia giusta per motivi molto più seri: perché tutela e protegge la libera scelta della donna, anche quando questa ha 16 anni e, quindi, scegliere è più difficile. Conosco l'opposizione: si può scegliere a 16 anni? Si può prendere una decisione consapevole quando si è poco più che bambine? Si può accettare che in una società in cui la maggiore età è ritenuta necessaria per votare, per guidare l'automobile o per andare all'estero senza il permesso dei genitori questa non abbia alcuna importanza nella decisione di una maternità? Non è, all'opposto, opportuno che proprio in un momento comunque grave e delicato, quale è quello in cui una giovane donna scopre di essere incinta, siano i genitori a decidere?
Proviamo a rispondere a queste domande. E cominciamo dall'ultima immaginando una situazione concreta: una giovane donna di 16 anni che vuole interrompere la gravidanza. Sarebbe giusto e auspicabile che i genitori glielo impedissero, che la obbligassero anche contro il suo parere a tenere un figlio che non vuole? Credo che il buon senso suggerisca una risposta negativa. Come suggerisce, del resto, una risposta negativa a una altra opposta domanda. Sarebbe giusto e auspicabile che una giovane donna di 16 anni fosse costretta ad abortire perché i suoi genitori non ritengono opportuna una gravidanza? Perché la ritengono troppo giovane e vogliono, ad esempio, che continui gli studi senza il peso di un figlio? I genitori in entrambi i casi, per quanto sinceramente interessati alla loro figlia, possono avere voce in capitolo per consigliare o affettuosamente sostenere. Oltre non possono e non devono andare perché interverrebbero in una sfera che non è di loro competenza, quello che implica l'accettazione della trasformazione del proprio corpo, della gravidanza, dell'accoglienza di un'altra vita. Quella rimane di competenza della loro figlia, maggiorenne o minorenne che sia.
E andiamo alla questione della maggiore età invocata come limite necessario per concedere diritti e imporre doveri. Secondo questa logica così come si può votare o prendere la patente solo dopo i 18 anni, così solo da questa età si può decidere di interrompere o di accettare una gravidanza. È una logica astratta che in nome di un principio universale pretende di intervenire su chi è differente. Il corpo di una donna di 16 anni non è quello di un uomo della stessa età per il semplice e banale motivo che al secondo non spetta la gravidanza e la procreazione e la responsabilità di entrambi. Una donna deve essere libera di scegliere dal momento in cui può procreare e non da un momento astratto e fissato per legge in cui, siccome può votare o guidare, può anche fare figli. Il diritto non può non tenere conto delle diversità, la sua pretesa universalità trova un limite invalicabile nel corpo e nella decisione femminile.
C'è un altro motivo per cui la legge spagnola mi pare di grande interesse. Riguarda il ruolo dello Stato, il rapporto fra lo Stato e la famiglia e fra il singolo - in questo caso la ragazza che deve scegliere - ed entrambi. Decidendo che una donna di 16 anni può scegliere di interrompere la gravidanza senza il parere dei genitori, lo Stato sceglie di proteggerla anche da pesanti interferenze familiari. Si pone quindi in diretto rapporto con la donna a cui garantisce la libertà di scelta (di questo - ricordiamolo - stiamo parlando) anche - eventualmente - contro il parere della propria famiglia. È importante che in un momento sicuramente non facile quale è quello della scelta della maternità una ragazza di 16 anni, essa sappia di poter contare anche sull'aiuto di un soggetto terzo, in questo caso dello Stato, che dovrà poi essere anche di importante sostegno economico e sociale. Di protezione e di aiuto ha bisogno in entrambi i casi, sia che rifiuti sia che scelga di diventare madre. «Con questa legge - ha detto la ministra dell'eguaglianza Bibiana Aido - tuteliamo anche la minorenne che voglia tenere il suo bambino contro il parere dei genitori».

l’Unità 23.9.09
«Fatto quotidiano» Da oggi in edicola il nuovo giornale di Padellaro


Da oggi in edicola un nuovo quotidiano, Il Fatto Quotidiano, sedici pagine per sei numeri settimanali, non esce il lunedì, per il costo di 1,20 euro. Il giornale, diretto da Antonio Padellaro – che figura tra i soci -, vede tra le sue firme di punta Furio Colombo, Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo, Luca Telese, Francesco Bonazzi e Beatrice Borromeo. Come hanno dichiarato nei giorni scorsi Padellaro e Travaglio nel corso della conferenza stampa di presentazione, dietro il quotidiano non c’è un editore, c’è un azionariato di cui fanno parte oltre al direttore, Travaglio stesso – che ogni giorno scriverà sulla prima pagina, il magistrato-giornalista Bruno Tinti e la casa editrice «Chiarelettere». I redattori, come prevede lo statuto, potranno dire la loro sulle scelte editoriali e sulla nomina del direttore.
Fino ad ora, dicono da via Orazio, gli abbonamenti sono 27mila, di cui 19mila per la versione on-line che sarà disponibile per il download un minuto prima della mezzanotte. Oggi circa 85mila le copie in edicola nelle maggiori città italiane. Il primo editoriale sarà dedicato alla linea politica del Fatto, «cioè la Costituzione», come spiega Nuccio Ciconte, caporedattore. «Non saremo un giornale filo-opposizione» dicono i giornalisti, ma «critici verso tutti tutti», con particolare attenzione al presidente del Consiglio. ❖

il Riformista 23.9.09
Nasce Il Fatto di Di Pietro. Spot Rai per Travaglio
Nuovi girotondi. Così il giornale di Padellaro punta a riaprire a sinistra la contesa sul modo migliore di fare opposizione
Ecco "Il Fatto", il foglio rosso-bruno delle Procure
di Stefano Cappellini


Quotidiano. Nel primo numero oggi in edicola anche un'intervista a Marino, il candidato preferito nella corsa alla segreteria del Pd.

Attacco a Letta Il Pm quotidiano. Il giornale di Padellaro comincia col suo «indagato eccellente» e rispolvera un'indagine sul sottosegretario. Braccio di ferro su Annozero, Santoro ha già trovato il suo nuovo martire.

Il Fatto quotidiano, diretto da Antonio Padellaro, esordisce stamattina in edicola forte del lancio gratuito offerto dalla Rai col caso Annozero: viale Mazzini continua a nicchiare sul rinnovo del contratto di Marco Travaglio, firma di punta e azionista del nuovo giornale, oltre che opinionista del programma di Michele Santoro. Ma i lettori del Fatto - questo impasto di ex Pd (i più giovani) ed ex Pci (i più anziani) sensibili al dipietrismo, di liberali e outsider antiberlusconiani, di grillini di destra e di sinistra e, soprattutto, di giustizialisti orfani inconsolabili della stagione delle manette - non si dovranno accontentare dei resoconti sul caso Travaglio. Il primo numero si segnala soprattutto per un classico del filone: l'indagato eccellente. Che nel caso in questione sarebbe Gianni Letta.
Si dà infatti conto degli sviluppi di una indagine della Procura di Potenza (pm John Woodcock, naturalmente) sull'apertura di nuovi centri di identificazione ed espulsione, indagine nei cui atti è finito anche il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. La notizia non è nuova. Sull'inchiesta potentina, i cui atti sono stati trasmessi a Roma nei mesi scorsi, erano già uscite indiscrezioni prima dell'estate: ma l'ipotesi che Letta fosse ufficialmente indagato non ha mai trovato conferme. Certo è solo che, per un quotidiano zeppo di giornalisti sensibili alle teorie dell'inciucio bipartisan, puntare sugli eventuali guai giudiziari di una personalità come Letta, che come poche altre incarna il mito della trasversalità e della inafferrabilità politica, pare un biglietto di visita coerente con le intenzioni dichiarate.
Che sono quelle di fare un giornale «i cui unici padroni sono i lettori» (sostiene Padellaro), che le canta sia alla destra che alla sinistra (promettono i redattori intervistati sul sito Antefatto.it), e ancor di più alla sinistra che si confonde con la destra. Una confusione cui, peraltro, non sembra estraneo lo stesso Fatto, il cui parco firme è uno dei più spericolati collage rosso-bruni che si ricordino: sfogliandolo, ci si potrà imbattere nel kennedismo obamiano di Furio Colombo e nel talibanismo di Massimo Fini, sincero estimatore del mullah Omar (chissà quale linea ne uscirà sull'Afghanistan), nel berlinguerismo nostalgico di Luca Telese e nel montanellismo di Gomez e Travaglio, nei cuori rossi ex Unità (da lì, peraltro, viene pure l'amministratore delegato Giorgio Poidomani) e nei cuori neri che invocano più galera per tutti. Una squadra che promette di far felice Luigi De Magistris, l'ex pm di Why not, europarlamentare dell'Italia dei valori e testimonial del quotidiano nelle iniziative di presentazione degli ultimi mesi, il quale era orgoglioso in campagna elettorale di spiegare al mondo che i suoi due fari in politica sono Berlinguer e Almirante.
I maligni argomentano che, con un simile frullato di idee e inclinazioni, l'unico possibile comune denominatore resterà Antonio Di Pietro. Ma guai a spiegare a Padellaro che, a dispetto delle buone intenzioni, il rischio di finire schiacciati sull'Idv e sul partito delle Procure (c'erano i pm Ingroia e Scarpinato alla presentazione del giornale, con annesse polemiche del Pdl) è molto alto. È senz'altro vero, però, che nessuno a via Orazio, sede della redazione nel borghese quartiere romano di Prati, ha voglia di ridursi a fare da megafono o bollettino di partito. L'ambizione è, in effetti, più alta: riaprire a sinistra quel contenzioso sul modo più giusto e produttivo di fare opposizione al Cavaliere che nel bienno 2002-03 vide fronteggiarsi per mesi da una parte Sergio Cofferati, la Cgil e il girotondismo di Moretti-Pardi-Flores e dall'altra i vertici di Ds-Margherita. Impegnati a contendersi la stessa base di elettori, un po' come oggi Di Pietro e il Pd.
Non sembrano in vista endorsement ufficiali sulla corsa alla segreteria del Pd, ma non è un caso che la prima intervista a un leader democratico se la sia aggiudicata Ignazio Marino, che dei tre contendenti alla leadership è quello che più spinge sulla linea nuovista, additando sia Bersani che Franceschini come esponenti d'apparato. Qualche simpatia interna va comunque anche all'ex ministro dello Sviluppo, mentre i redattori segnalano zero consensi per Franceschini, nonostante il segretario in carica stia dando ampi segnali di voler trasformare la questione morale nel cavallo di battaglia della sua campagna per le primarie del 25 ottobre.
Ma questa settimana di esordio in edicola e sul web (sono quasi ventimila, secondo i dati forniti, gli abbonati alla versione on line del quotidiano) sarà comunque la settimana del caso Travaglio e della manifestazione per la libertà di stampa. Con Santoro in onda domani, e Travaglio comunque in studio con contratto o senza, si annuncia una vera e propria sinergia Fatto-Annozero. L'embrione di un gruppo editoriale virtuale con ambizioni politiche pari a quelle giornalistiche.

l’Unità 23.9.09
Finiani e laici Pdl al premier: «Sul biotestamento una legge soft»
Lettera sottoscritta tra gli altri da Adolfo Urso, Fiamma Nirenstein, Flavia Perina, Souad Sbai, Alessandra Mussolini, Mario Pepe. Una ventina di nomi, finora: ma facilmente si arriverebbe ai cento di quella contro i medici-spia.
di Susanna Turco


Il co-fondatore gliel’ha presentato subito, il conto. A meno di ventiquattr’ore dal colloquio con Berlusconi a casa Letta, a meno di un giorno dalle «parole» del Cavaliere sulla volontà di dar spazio a posizioni diverse nel Pdl, Gianfranco Fini sfodera – fa sfoderare ai suoi – un documento preparato e visionato da tempo. Pronto da un paio di settimane, addirittura. Ed estratto oggi per cominciare a vedere se alle parole pronunciate in casa Letta «seguiranno fatti».
«Caro presidente», esordisce infatti la lettera aperta a Berlusconi sul biotestamento che oggi pubblica il Foglio. Un testo mite, aperturista, per chiedere un passo indietro dal ddl Calabrò, una sorta di «disarmo bilaterale» che apra la strada a una soft law, nella quale si enuncino alcuni principi base (no a eutanasia e accanimento terapeutico) evitando però i bracci di ferro di una legge troppo prescrittiva. Un documento che, su iniziativa del neofiniano radicale Benedetto Della Vedova, un gruppo ristretto di parlamentari vicini alla sensibilità del presidente della Camera aveva scritto – nel corso di una serie di incontri riservati già prima del deflagrante intervento a Gubbio del leader di riferimento. E prudentemente infilato in un cassetto, in attesa del momento opportuno.
IL NODO DELLE FIRME
Una lettera che dunque non a caso viene fuori oggi. E che non a caso segue, nelle sottoscrizioni, il principio opposto a quello del documento dei 53 critici sulla democraticità del Pdl. Là, infatti, si trattava di finiani. Adesso, al contrario, si tratta di sensibilità diverse che nel Pdl si ritrovano intorno ad un obiettivo comune: Adolfo Urso ma anche Fiamma Nirenstein, Flavia Perina ma anche Souad Sbai, Alessandra Mussolini ma anche Mario Pepe. Una ventina di nomi, finora: ma facilmente si arriverebbe ai cento che a suo tempo firmarono la lettera contro i medici-spia.
Un mosaico di gruppi di influenza che, dalla lettera dei 53 a quella di oggi, ha il suo punto di forza nell’essere a geometria variabile. Difficile infatti che stavolta i fedelissimi dell’ex leader di An, come Andrea Ronchi per esempio, accorrano a firmare il «disarmo bilaterale»: in loro vece, deputati che hanno una storia diversissima da quella di chi ha militato in via della Scrofa.
LO SCENARIO
Così, dietro la sequenza delle lettere si intravede una strategia, il percorso per mostrare come e quanto il presidente della Camera possa influire negli equilibri del Pdl. E rappresentare il coagulo di una sensibilità diversa da quella del partito-caserma.
Potenzialmente in grado, a essere ottimisti, di mettere in difficoltà Berlusconi. Il quale, per il momento, si guarda bene di dare al co-fondatore più guazza di quella che già si prende da solo. Piuttosto gli manda incontro un Fabrizio Cicchitto. Pronto al confronto anche stavolta, perché no. ❖

l’Unità 23.9.09
Il testo passa con il voto contrario della sola Poretti (Radicali)
Pd diviso Finocchiaro: «È pretestuosa». Ma la relatrice è la Bianchi
Pillola abortiva, il Senato vara l’indagine conoscitiva
«Bisogna evitare il rischio che con la RU gli aborti diventino troppo facili. Però non metto in dubbio la 194». Dorina Bianchi (Pd) affronta con piglio deciso il nuovo incarico di relatrice, con Calabrò, dell’indagine.
di Su. Tu.


La Roccella: «L’approfondimento serve a chiarire i lati oscuri della RU486»

Se ne era fatto promotore, prima della pausa estiva, il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, beccandosi del «surreale» da parte del suo ex leader Gianfranco Fini. E proprio due giorni fa, il presidente della Cei Angelo Bagnasco si era augurato un dibattito parlamentare «per arrivare a una maggiore verità sul farmaco».
Puntuale come uno scroscio di pioggia, arriva così dalla commissione Sanità del Senato il sì all’indagine conoscitiva sulla RU486, la pillola abortiva che a luglio ha ottenuto il via libera alla commercializzazione da parte dell’agenzia del farmaco Aifa, ma che nonostante ciò Palazzo Madama ritiene dover ancora esaminare, per capire fra l’altro se e come si armonizza con la legge 194 che regola l’interruzione di gravidanza.
UNA «INDAGINE TECNICA»
Il sì, nell’ufficio di presidenza della commissione, arriva all’unanimità in un solo quarto d’ora di discussione e con il solo dissenso della segretaria d’Aula Donatella Poretti, radicale del Pd. Tuttavia, un minuto dopo, si scatenano le polemiche. Se nella maggioranza si parla di una «indagine tecnica», la decisione provoca una levata di scudi di una parte del Pd. Preoccupato, soprattutto, che questa iniziativa – pur priva di effetti pratici immediati possa rivelarsi invece una scelta «politica» che apra la strada per una rimessa in discussione della 194.
La presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro parla fra l’altro di una «indagine pretestuosa» e di un «atteggiamento stru-
mentale da parte del governo». «Non è vero», ribatte la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella «l’approfondimento serve a chiarire i lati oscuri della RU486».
IL PD DIVISO
La questione riapre comunque nel Pd il doloroso capitolo delle divisioni sui temi etici. Le molte voci critiche che si levano contro l’indagine conoscitiva, infatti, non combaciano felicemente con la posizione – favorevole a una «indagine seria» decisa dal Pd una settimana fa in apposita riunione. Nello specifico, poi, la polemica si avvita attorno alla circostanza che, accanto al relatore della maggioranza Calabrò, relatore per le opposizioni sia designata Dorina Bianchi, la capogruppo del Pd in commissione Sanità. «I due relatori la pensano allo stesso modo», lamentano, «così finiamo per rappresentare solo una parte».
È un fatto, del resto, che sul biotestamento, la Bianchi si sia sempre trovata d’accordo con il testo Calabrò. Una parte del Pd, dalla Poretti alla Franco, le rimprovera di aver accettato l’incarico. La Bianchi, però, non fa una piega: «Rifiutare l’incarico non era nemmeno nei miei poteri», replica. «Bisogna evitare il rischio che con la RU gli aborti diventino troppo facili. Però non metto in dubbio la 194. E non capisco chi parla del rischio che io e Calabrò ci troviamo d’accordo: su un tema così dovremmo per forza pensarla diversamente?». ❖

Repubblica 23.9.09
Polemica contro la rappresentante del centrosinistra in commissione che ha approvato la scelta
E tra i democratici scoppia il caso Bianchi. Bersani e Marino: la nostra linea è un´altra
La senatrice sarà la relatrice dell´inchiesta Malumori nel partito, la resa dei conti rinviata a dopo il congresso
di Mauro Favale


ROMA - Il rischio è quello di spaccare il partito. Aprire un fronte pericolosissimo ad appena 18 giorni dal congresso. Il "caso Dorina Bianchi" agita i democratici. Il suo assenso all´indagine conoscitiva sulla pillola Ru486 non piace ai vertici del Pd. Grande malumore. Ma nessuno si spinge a chiederne le dimissioni. Anche se sono in tanti a segnalare, come la senatrice Vittoria Franco, che la Bianchi, ormai «è diventata un problema oggettivo».
Il rischio di far saltare il banco consiglia prudenza al segretario Dario Franceschini che non parla. Gli sfidanti, invece, qualcosa la dicono. Pierluigi Bersani, seppure la Bianchi non si sia richiamata per il suo voto ad "un caso di coscienza", interpreta la decisione della capogruppo in commissione sanità come «un uso improprio della coscienza, utilizzato per farsi nominare relatrice». L´idea dello sfidante di Franceschini è che la senatrice si sarebbe dovuta attenere alle decisioni del gruppo.
«La Bianchi doveva essere più prudente», afferma "il terzo uomo" al congresso, il senatore Ignazio Marino. Lui, che della laicità ha fatto la bandiera della sua campagna in vista dell´11 ottobre, è stato sostituito otto mesi fa sulla poltrona di capogruppo proprio dalla Bianchi. «Un´indagine così è inutile. Bisognava aprire un dibattito all´interno della commissione, in sede collegiale. Non sono certo, infatti, che il gruppo del Pd sia convinto di questa decisione. Io certamente non lo sono».
Non era d´accordo nemmeno la presidente dei senatori democratici, Anna Finocchiaro. Definisce «pretestuosa» l´indagine. E preferisce prendersela con il presidente della commissione, Antonio Tomassini, ginecologo, fedelissimo di Berlusconi, che le aveva assicurato, racconta, non meno di una settimana fa, che avrebbe rimandato la delibera sull´indagine conoscitiva dopo il congresso Pd. La decisione di ieri, insomma, è stata vissuta come un´accelerazione. Una manovra "furba", orchestrata con Maurizio Gasparri, grande sponsor dell´iniziativa, per affiancare, spiegano nel Pd, «due che la pensano allo stesso modo»: Dorina Bianchi e Raffaele Calabrò, l´autore del ddl sul testamento biologico.
Nel Pd, però, l´accelerazione che brucia di più è proprio quella della Bianchi. Sette giorni fa, la senatrice aveva avuto con i vertici del partito al Senato, un incontro per stabilire l´atteggiamento da tenere sulla Ru486. E qui le interpretazioni non concordano. La Bianchi sostiene che in quella sede ci fu un sostanziale via libera all´indagine parlamentare. «Sono sorpresa del clima che si è creato», spiega la senatrice che non vuole sentirsi apostrofare come una "teodem". Per la Finocchiaro, invece, in quella riunione si stabilì che il dibattito sarebbe dovuto avvenire in commissione e non limitarlo all´ufficio di presidenza. Un dibattito che, sostengono i democratici, avrebbe consentito di non affrettare i tempi dell´indagine che, invece, partirà già domani con l´audizione del ministro Sacconi.
Incomprensioni a parte, le due ieri hanno avuto un rapidissimo faccia a faccia in aula durante il quale la Finocchiaro ha avuto modo solo di dire un «sii seria» a Dorina Bianchi. Lei, la relatrice dell´indagine, è tranquilla. Va avanti e, nonostante l´evidenza, non si sente isolata. È un dato, però, che nemmeno i suoi "padrini", Francesco Rutelli e Beppe Fioroni, siano intervenuti per difenderla dal "fuoco amico" che si è alzato contro la sua decisione ieri pomeriggio.

Repubblica 23.9.09
Pahor: "Il mio secolo fra Trieste e il mondo"
Intervista/ il lager, la memoria e gli amori in due libri dello scrittore di lingua slovena
di Paolo Rumiz


TRIESTE. Come se si fosse rotta una diga. Libri, libri e ancora libri. A 96 anni Boris Pahor, triestino di lingua slovena, assiste con stupore e soddisfazione allo "scongelamento" di un quarantennio di opere sue che, dopo il successo un anno fa di Necropoli, vengono tradotte finalmente in Italiano. Premiato e tradotto in mezza Europa ma sconosciuto fino a ieri nel suo stesso Paese, ora il patriarca col vizio della memoria, registra un bel tandem, con l´inedito autobiografico Tre volte no (Rizzoli) e il romanzo del 1967 Primavera difficile (Zandonai).
Il vecchio è felice nella sua casetta a picco sull´Adriatico. La "riabilitazione" letteraria ha avuto effetti a cascata persino in Slovenia, dove pure è arcinoto: in un anno rilanciati cinque dei suoi libri. È richiestissimo, il telefono suona a ripetizione, e lui risponde a tutti, anche ora che Radoslava, la compagna della vita, lo ha lasciato. Al tramonto scendiamo nel suo bunker, oltre un orticello di pomodori. Si cala per ripide scalette con passo elastico, in tuta e mocassini. Oltre una porticina, montagne di libri, una Remington vecchia di quarant´anni, un lettino con un testo di Spinoza. «Qui - dice - ho vissuto la mia vita parallela. Riemergo solo per mangiare e dormire».
Primavera difficile è la storia di un suo amore francese, dopo la liberazione dal Lager.
«Madeleine si chiamava. Per me che ero un naufrago dell´orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nel sanatorio di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. "Mon petit" mi chiamava. Fu un regalo magnifico».
Fino ad allora lei era stato in mezzo alla morte.
«Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. È stato allora che ho capito l´importanza e la benedizione di quella cosa che il secolo ventesimo degradava a un non-valore».
Che cosa?
«Il corpo appunto. Il più bel dono che abbiamo. Io ho amato tanto il corpo femminile, ma è il corpo umano in generale che va amato e rispettato. Per uno come me che è tornato dall´abominio l´unica consolazione era pensare che l´umanità aveva in sé la possibilità di creare corpi nuovi e diversi, generazioni migliori».
Cosa fu per lei la Francia?
«Era il 1946 e non avevo nessuna voglia di tornare a Trieste. A casa mia erano offesi che rimanessi lontano così a lungo, anche dopo la guarigione. Il problema è che a Trieste c´era il marasma. Manifestazioni continue. La città era passata senza interruzione dalla guerra alla guerra fredda».
Non è stufo di questa complessità di frontiera?
«A volte vorrei avere vissuto in un luogo meno complicato di Trieste, ma a che serve essere stufi? Ormai ci siamo dentro e dobbiamo macinare... Davvero non vedo alternative».
Sente ancora così ostico questo suo luogo?
«C´è chi rema contro ma qualcosa cambia. Ieri sono andato a Prosecco per un documento d´identità, e quando sono entrato l´impiegata, riconoscendomi, mi ha salutato con un "dober dan", il buongiorno in sloveno. Mi ha reso felice».
E sul piano della cultura?
«Qualche giorno fa ho affrontato una sala strapiena con Claudio Magris e ho detto che quando il poeta sloveno Kosovel potrà entrare nei programmi di studio delle scuole italiane, allora Trieste sarà un piccolo paradiso. Ho avuto un applauso di straordinario calore. Sì, le cose cambiano».
Professore, qual è il suo segreto?
«Aggrapparmi al presente. Nel campo di concentramento ho imparato a fare sempre qualcosa, senza pensare al passato e al futuro».
Eppure lei al passato ci pensa eccome. Secondo alcuni anche troppo.
«Me lo dicono in tanti. Gli sloveni post-comunisti mi accusano di rivangare cose morte e sepolte. Ma io non mollo, fino a quando il ventennio fascista resterà nell´ombra in cui si trova. Non si parla degli orrori che comportò. Il nazismo era peggio, mi contesta alcuno. E allora? Non è un buon motivo per archiviare tutto».
Pensa che la memoria italiana sia a senso unico?
«Dico: sacrosanto che si sappia delle foibe. Ma altrettanto sacrosanto che si sappia del fascismo e soprattutto della sua aggressione alla comunità slovena. Bastonature, incendi, condanne a morte, cognomi e nomi cancellati, una lingua negata. E molti dimenticano che questo accadeva già vent´anni prima della guerra».
Pensa ci sia una rimozione?
«Guardi cosa c´è scritto sulla targa bilingue che ricorda l´incendio alla casa di cultura slovena di Trieste. Si parla di "esagitati", non di fascisti. C´è un´ostinazione tenace e non ammettere l´innegabile».
Come visse da sloveno la proclamazione a Trieste delle leggi razziste contro gli ebrei?
«Pensai: ecco, ora anche loro sono nella nostra condizione di perseguitati ed esclusi. Anche quelli di loro che avevano abbracciato il fascismo e magari erano stati antisloveni. Ovviamente non immaginavo l´orrore che si sarebbe scatenato di lì a poco col nazismo».
Nel lager lei capì il destino degli ebrei?
«Non fino in fondo. Non c´erano ebrei nei miei campi. Ma la gente passava egualmente per il camino. Bisogna stare attenti a ricordare che i forni crematori hanno incenerito anche tanti oppositori del regime e tanti prigionieri politici».
La soppressione della lingua fu la sua prima ferita.
«Fu uno choc tremendo. Ne parlo diffusamente in quest´ultimo libro-intervista dal titolo Tre volte no. Ero bambino e improvvisamente persi la mia identità. Un giorno fui umiliato in classe perché avevo sbagliato un verbo e il mondo mi crollò. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare da mio padre».
Poi ha avuto le sue rivincite.
«Durante la guerra, con ritardo, presi la maturità durante una pausa sul fronte libico. Passammo in quattro su quarantasei, fui il migliore in greco... io che ero sloveno... Le lingue mi salvarono... Grazie al francese fui aiutato da un medico francese che mi face fare l´infermiere. Ma sapevo anche il tedesco, e con le SS che mi avevano imprigionato fu un vantaggio. Le lingue slave, poi, mi aiutarono con i prigionieri jugoslavi, russi, cechi, polacchi».
Qual è il suo primo ricordo?
«Io e le mie due sorelline nel lettone dei miei con quaranta di febbre per l´epidemia di spagnola. Era il 1917. Una sorella morì. Deliravamo. E nessuno ci aiutava come famiglia».
Lei invece è arrivato a 96 anni. Pensa di essere un uomo fortunato?
«Mah. Più volte in situazioni difficili ho trovato persone che mi hanno aiutato. Ma che cos´è: fortuna o spirito di iniziativa?».
Che pensa di Dio?
«Mi sento panteista, come Spinoza, ebreo che gli ebrei maledissero. Credo che ci sia un disegno straordinario nel mondo. Ma non penso proprio che Dio si occupi di noi, che sia un padre affettuoso».
E poi c´è il mare.
«Io al mare ci parlo, non potrei vivere senza... Il mare grande e ventoso di casa mia. È il mio amico migliore».

Corriere della Sera 23.9.09
Galileo. Strategia di un monopolio
Ritratto di una star Aveva una straordinaria abilità a garantirsi il massimo dei riconoscimenti
La sua scoperta. Dopo il Nuncius distribuì telescopi ai principi e ai cardinali ma non ai matematici
Teneva segrete fino all’ultimo le sue scoperte Così impediva che altri le replicassero
di Mario Biagioli


Era preoccupato non tanto che le sue teorie potessero essere confutate, quanto che diventasse troppo facile farne di nuove

Gli scienziati moderni difendono in ma­niera sempre più aggressiva la proprie­tà intellettuale, brevettando le loro sco­perte e, a volte, tenendole segrete. Gali­leo Galilei anticipò questa tendenza. Fin dall’ini­zio della carriera Galileo rivendicò la paternità del­le sue invenzioni, e ovviamente adottò il medesi­mo atteggiamento protettivo anche nei confronti del telescopio e delle scoperte astronomiche del 1610.
Temendo che altri astronomi si attribuissero il merito delle sue scoperte, si affrettò a pubblicarle, ma diede pochissime informazioni su come co­struire il telescopio. Diversamente da quel che si crede, gran parte dell’opposizione alle scoperte che fece con il telescopio non derivava da conside­razioni filosofiche, ma dal segreto con cui le cir­condava. La rischiosa strategia alla fine si dimo­strò efficace: la magistrale descrizione, in testo e in immagini, delle sue scoperte fatta nel Sidereus nuncius , assieme alla reticenza sui suoi strumen­ti, gli permise di avere il monopolio quasi totale delle prime scoperte fatte con il telescopio, facen­dolo diventare quella «star» che oggi ammiriamo e festeggiamo.
La maggior parte degli storici ha sostenuto che le scoperte di Galileo non erano ovvie e che poté farle, e avvalorarle, grazie alle sue particolari atti­tudini percettive (forse legate alla sua formazione nelle arti visive), all’adesione alle teorie copernica­ne, o a una speciale abilità nel costruire telescopi. Anche se sono spesso interessanti e acute, queste teorie non tengono conto che, nonostante tutte le implicazioni percettive e cosmologiche associate a quelle scoperte, e nonostante l’ambiguo status epistemologico dello strumento che le re­se possibili, le scoperte di Galileo furono ampiamente accettate già nove me­si dopo la loro pubblicazione nel Sidereus nun­cius , avvenuta nel marzo 1610. La cosa è partico­larmente notevole, visto che i satelliti di Giove quell’estate non furono visibili per circa due mesi, che i canali di circolazione delle teorie filosofiche non erano allora né diffusi né veloci, e che per so­stenere queste scoperte bisognava saper costruire e usare uno strumento del tutto nuovo.
Un diverso quadro emerge se si osserva il perso­nale protocollo di lavoro adottato da Galileo e quanto lo scienziato abbia aiutato (o piuttosto non aiutato) gli altri a replicare le sue scoperte. Galileo si comportava come se la verifica delle sue osservazioni non presentasse difficoltà. La sua principale preoccupazione non era tanto che le sue scoperte potessero essere confutate, quanto che diventasse troppo facile farne di nuove per chi era in grado di replicarle, privandolo così dei riconoscimenti futuri. Cercò quindi di frenare i po­tenziali emulatori per impedire che si trasformas­sero in concorrenti, e lo fece negando loro l’acces­so ai telescopi più potenti e celando i dettagli del­la loro costruzione.
A queste tattiche aggiunse il segreto sulle sue scoperte, che mantenne fino alla pubblicazione del Nuncius . Prima della pubblicazione Galileo tenne all’oscuro dell’esatta posizione dei pianeti Medicei anche i suoi mecenati, per impedire che facessero inavvertitamente trapelare informazio­ni che permettessero ai suoi concorrenti di batter­lo sul tempo, e chiese al segretario dei Medici di trattare la sua corrispondenza su questi argomen­ti con la stessa discrezione riservata alle questioni diplomatiche importanti. Per evitare qualsiasi fu­ga di notizie da parte dello stampatore del libro, Galileo gli diede la sezione sui pianeti Medicei so­lo all’ultimo momento, e probabilmente gli fece giurare di mantenere il segreto sull’intero conte­nuto dell’opera.
Il Nuncius fu costruito abilmente, per ottenere il massimo dei riconoscimenti da parte dei lettori fornendo allo stesso tempo il minimo di informa­zioni ai possibili concorrenti. Benché il lavoro di ricerca, stesura e stampa avesse richiesto meno di tre mesi, il libro offriva la descrizione precisa del­le osservazioni di Galileo, con abbondanti illustra­zioni a sostegno delle scoperte. Diceva però ben poco sulla costruzione di un telescopio con cui po­terle replicare.
Galileo spiegò sinteticamente (con abbondan­za di date e nomi, ma con pochi particolari tecni­ci) come avesse costruito il suo strumento. Non disse ai lettori come molava le lenti — la particola­re abilità che gli diede un vantaggio rispetto ai pri­mi costruttori di telescopi — né parlò delle dimen­sioni del suo telescopio, del tipo di vetro, del dia­metro o della lunghezza focale delle lenti che usa­va, e non fece menzione del diaframma che aveva posto sull’obiettivo per migliorarne la risoluzio­ne. Fornì solo un semplice diagramma dello stru­mento, dicendo ai suoi lettori che senza un tele­scopio da almeno 20 ingrandimenti avrebbero cer­cato «invano di vedere tutte le cose osservate da noi nei cieli». Promise di scrivere un libro sul fun­zionamento del telescopio, ma non lo diede mai alle stampe, e non abbiamo alcun manoscritto che documenti una simile intenzione.
Quel che sto dicendo sembrerebbe contraddet­to dal fatto che Galileo, poco dopo la pubblicazio­ne del Nuncius , distribuì parecchi telescopi in tut­ta Europa. Li inviò, però, a principi e cardinali, non a matematici. Principi e cardinali non erano colleghi, e non potevano quindi essere rivali. Il lo­ro appoggio serviva a rafforzare la sua credibilità agli occhi del granduca, ma la loro posizione socia­le impediva che concorressero con lui nella caccia alle novità astronomiche. Inoltre la maggior parte dei principi e dei cardinali aveva già avuto per le mani dei telescopi di scarsa potenza, che fin dal 1609 i vetrai facevano avere a loro, ma non agli astronomi o ai filosofi.
Verso la fine di quello stesso anno questi telescopi avevano perduto l’au­ra di mirabili marchingegni ed erano diventati, per gli standard dei nobili, oggetti di poco prezzo, prodotti in pa­recchie città italiane da artigiani stra­nieri e da occhialai locali. I principi usavano i telescopi — puntandoli più su oggetti terrestri che celesti — assai prima che cominciassero a circolare le voci sulle scoperte di Galileo, e prima che la maggior parte degli astronomi avesse cominciato a mostrare un serio interesse per essi. Agli occhi di Galileo principi e cardinali costituivano un pubblico poco temibile e molto utile. Avendo con il telescopio maggiore dimestichezza dei filosofi o degli astronomi, avrebbero probabilmente apprezzato la qualità su­periore dei suoi strumenti e saputo dare il giusto peso alle sue scoperte. Al contempo, non sarebbe­ro entrati in competizione con lui e, non avendo un particolare interesse professionale o filosofico verso le sue scoperte, avrebbero avuto meno ra­gioni per contrastarle.
L’atteggiamento differenziato che Galileo adot­tò nei confronti dei suoi diversi interlocutori si di­mostrò efficace: alla fine del 1610 aveva ottenuto, sull’astronomia telescopica, un monopolio che conservò grazie alle risorse che aveva a disposizio­ne come matematico e filosofo del granduca di To­scana.

Corriere della Sera 23.9.09
Oggi non c’è scampo. A imporre il silenzio è il grande business
di Massimo Piattelli Palmarini


Due sono i principali freni alla libera e precoce circolazione delle idee scientifiche e dei dati sperimentali.
Uno è costituito dal desiderio di avere la documentabile priorità personale di una scoperta, l’altro dal desiderio di ottenere l’esclusiva sulle possibili, spesso economicamente proficue, applicazioni.
Al giorno d’oggi la seconda motivazione è fortissima. Quando laboratori e istituzioni scientifiche sono finanziati con denaro pubblico, si pongono limiti alla segretezza. Ma anche in tale caso intervengono regole piuttosto ferree sulla divulgazione precoce. Una delle due principali riviste scientifiche internazionali che era solita mandarmi in anteprima, con embargo, le novità settimanali in quanto collaboratore del «Corriere», avendo appreso (e non era certo un segreto) che sono anche ricercatore in una università americana, mi ha comunicato da qualche mese che da ora in poi non riceverò più tali anteprime. La paura della divulgazione precoce verte su tre punti capitali.
Il primo è quello di rivelare l’inizio di un campo nuovo di ricerca, di una nuova linea sperimentale, di un nuovo sistema modello, sul quale possono subito «buttarsi» altri. Il secondo è quello delle tecniche e del loro successo.
O insuccesso, apprendere il quale può essere altrettanto interessante e far risparmiare tempo e denaro. Il terzo è rivelare chi è molto bravo e su cosa lavora e in che modo. Prima della presente crisi, un’allettante offerta di lavoro poteva piombare sull’interessato nell’arco di giorni o perfino ore, strappandolo all’istituzione. Come molte cose della vita, il segreto scientifico è un’arma a doppio taglio. Da un lato garantisce serietà, severo controllo e solidità ai dati e alle ipotesi. Dall’altro stravolge l’ideale della scienza come libero agone di idee e di risultati.

l’Unità 23.9.09
L’arruolamento nei ranghi militari sempre più difficile per i giovani volontari
Truppe di pendolari L’85% delle richieste viene dal sud, ma le caserme stanno a nord
Eroi da morti, precari da vivi L’Esercito dei «professionals»
L’85% dei volontari in ferma breve viene dal Sud. Hanno meno di 25 anni, molte speranze e poche certezze. Solo un terzo delle domande di impiego per un contratto annuale viene accettato. Il resto va a casa.
di Bianca Di Giovanni


Contratto annuale. Nel 2007 oltre 47mila domande, solo un terzo ce l’ha fatta

Doveva essere un esercito di «professionals», sta diventando una guarnigione di ragazzi senza speranza. Eroi da morti, precari da vivi. Ogni anno circa 45mila giovani tra i 18 e i 25 anni tentano di entrare nell’esercito almeno per un anno. È il primo passo per una carriera in divisa. L’85% di loro proviene dalla Regioni del sud: campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna. Molti entrano nei ranghi, ma dopo più contratti a termine sono messi in congedo: non c’è posto
Nel 2007 la Difesa ne ha mandati a casa 500: sono idonei ad entrare nella polizia, ma il posto non c’è per via del blocco del turn-over. Per loro la Difesa ha allestito dei percorsi di formazione, corsi di aggiornamento, riqualificazione. Ma i risultati non ci sono. Si è tentata anche la strada dell’incrocio delle domande con il mondo del lavoro. l’Azienda di elicotteri Agusta, sollecitata dal ministero, aveva offerto 109 posti. Ma l’operazione ricollocazione non è riuscita. Il fatto è che sono tutti giovani del sud, che a nord non hanno né casa, né famiglia. Da soli non ce la fanno con 800 euro al mese. Così, nulla di fatto.
DOMANDE
Sulle oltre 47mila domande presentate due anni fa per un contratto annuale, solo un terzo ce l’ha fatta. E solo un settimo di quelli che volevano proseguire per altri quattro anni dopo la prima ferma annuale è riuscito a farlo: poco più di 4mila persone su quasi 28mila domande. Cosa fanno gli altri 23mila? Cercano di restare un altro anno, per rientare il contratto lungo l’anno successivo. Ma il processo di arruolamento inaugurato con la fine della leva obbligatoria lascia a casa gran parte degli aspiranti soldati, e ne inserisce altrettanti in un meccanismo infernale di «rafferme» (cioè nuovi contrattini a termine), in vista di un’assunzione che rischia di non arrivare mai. La manovra triennale varata l’anno scorso, infatti, taglia del 40% le risorse per il reclutamento a partire dal 2010: dei circa 700 milioni necessari 304 vengono sottratti. Con questi numeri le stime sul futuro
sono disarmanti. I 78mila volontari di truppa, previsti dal modello professionale, si ridurrebbero a 45mila. Le speranze di chi vuole entrare si riducono sensibilmente: tanto che anche le domande sono previste in calo.
Nella stessa situazione di precarietà si trovano molte donne. Stando agli ultimi dati forniti dal ministero, tra i volontari a termine dell'esercito c’erano circa 4mila donne nel 2007, quelle della marina non superavano le 600 unità, mentre solo un’ottantina erano in aeronautica.
Chi entra ottiene un posto di lavoro spesso sottopagato (45 euro al giorno in Italia) e poco tutelato. Le malattie, per esempio, non sono coperte. In missione di guerra le cifre cambiano: si arriva a una diaria di 150 dollari. Una boccata d’ossigeno, certo. ma anche un rischio economico. Capita spesso, infatti, che con quella una tantum legata alla missione si sfori il tetto consentito per ottenere un alloggio della Difesa, cioè 39mila euro lordi annui.
SENZA TUTELE
Perdere la casa vuol dire molto. Soprattutto perché le caserme sono quasi tutte dislocate nel centro-nord, cioè in zone dai prezzi immobiliari molto alti. le infrastrutture militari italiane, infatti, seguono ancora una geografia legata all’epoca dei due blocchi. Insomma, è una dislocazione da guerra fredda, che prevedeva la costruzione della cosiddetta «soglia di Gorizia». Oggi non è più così, ma le strutture sono rimaste dove erano. Ai passaggi della storia, che hanno abbattuto la cortina di ferro, si è aggiunta l’abolizione della leva obbligatoria. Il risultato è che oggi i giovani militari sono quasi tutti meridionali, costretti a trasferirsi al centro-nord per nessuna ragione plausibile. Truppe costrette spesso al pendolarismo, sradicate dalle famiglie e dalle zone di provenienza. precari e senza cuscinetti, quando il contratto finisce.
E se si muore, come è accaduto a Kabul? per la famiglia c’è comunque una polizza vita finanziata dalla Difesa, che concede un risarcimento di oltre 400mila euro. In questo caso la copertura è più alta del lavoro civile, dove le morti sul lavoro sono risarcite con cifre molto più basse. ❖

l’Unità 23.9.09
Conversando con Aldo Schiavone Direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane
«Ormai abbiamo il sovversivismo al governo...»
di Pietro Spataro


Aldo Schiavone, storico, direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, non usa mezzi termini per descrivere lo stato presente dell’Italia. «Certo, la democrazia corre rischi seri, ma io sono convinto che il berlusconismo stia tramontando», aggiunge con sicurezza. «Questo premier non interpreta più il sentimento degli italiani».
Professore, a proposito dei sovversivi al governo il premier ha di nuovo attaccato l’opposizione accusandola di essere anti-italiana. Davvero la nostra democrazia è in pericolo? «Guardi, Berlusconi sta stressando la democrazia, la tira per i capelli. La sta impoverendo. Per lui democrazia vuol dire: si vota, chi vince comanda. In questa idea non c’è più ruolo per il Parlamento, si figuri la divisione dei poteri. Resta solo il rapporto carismatico del leader con il popolo che lo ha scelto. In questo senso certo che c’è un rischio per la democrazia. Però, anche se l’Italia rappresenta una versione estrema, la questione democratica è globale. Io dico
che in tutto il mondo c’è bisogno di un rinvigorimento della democrazia». Ha visto quel che ha detto il ministro Brunetta? Ha parlato di golpe e di una sinistra che deve “morire ammazzata”...
«Questi atteggiamenti ricordano molto quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ceti fragili e senza storia, proiettati all’improvviso al potere, assumono posizioni sovversive, ai limiti dell’anarchia. Chi guida questa logica è Berlusconi, Brunetta non fa altro che interpretare».
Ma è sicuro che Berlusconi sia al capolinea? Lo abbiamo sentito dire tante volte... «Sì, il declino c’è. Ma non per la storia delle escort. Il berlusconismo è esaurito, evaporato. Si ricordi che lui vince negli anni Novanta con un messaggio di ottimismo: arricchitevi senza regole. Allora interpretava una voglia di dinamismo della società italiana. Oggi invece è costretto a rovesciare il suo discorso. E infatti nel 2008 ha vinto facendo leva sulla paura. Il disfacimento che vediamo attorno a lui è conseguenza di questa perdita di rappresentanza».
È possibile che nasca in Italia una destra non più populista? «Credo di sì. In Italia ci sono due destre possibili. C’è quella di Bossi e Tremonti che hanno in mente un’Italia divisa, con un regionalismo lacerato. È una destra arroccata, ringhiosa, contraria al multiculturalismo, paurosa dell’Europa e della globalizzazione e che cerca di ritagliarsi un angolino ai margini. Su questa si posa l’ala protettiva della Chiesa. Poi c’è una destra che fa riferimento a Fini di cui ancora non capisco i confini ma che sembra più moderna, aperta, legalista.
Possiamo dire: una destra dei diritti. Queste due destre si contendono il campo. E l’esito è ancora difficile da intravedere». Come ha fatto secondo lei Berlusconi a cambiare lo spirito degli italiani? Come ha fatto a vincere culturalmente?
«Berlusconi è l’erede di Craxi. Lui e Craxi sono stati gli unici, anche se con pesanti limiti etici e culturali, che hanno letto la modernizzazione, hanno capito l’Italia post-industriale. Diciamo che, in un modo un po’ straccione, sono stati i Reagan e le Thatcher italiani. Berlusconi ha potuto svolgere questo lavoro in un vuoto politico, con una sinistra ancora legata al passato e incapace di interpretare il presente. Così è passato il suo messaggio: individualismo, consumismo, egoismo sociale, niente regole».
Insomma, la sinistra gli ha lasciato campo libero? «Certo, alla fine della prima repubblica la sinistra non è stata capace di fare una proposta al Paese. Ha compiuto troppi errori, si è trasformata tardi e in modo pasticciato. Se il Pci avesse avuto il coraggio di cambiare prima, credo che Berlusconi non ci sarebbe stato. Possiamo dire, in un certo senso, che Berlusconi è la conseguenza del ritardo della sinistra».
Ma chi ha sbagliato, Berlinguer? «No, perché Berlinguer non poteva fare di più, era dentro la storia del comunismo. Gli errori più grandi li hanno commessi i suoi eredi tra l’84 e l’89. Si è perduto troppo tempo».
Oggi come la vede l’Italia: un paese stanco, depresso? «Vedo un paese provato, toccato dalla crisi che avrà conseguenze che ancora non abbiamo visto. Stiamo andando verso un autunno che sarà pesante. Però io credo che l’Italia ha le risorse per reagire. Noi diamo il meglio nei momenti di difficoltà, quando siamo con le spalle al muro».
Ma come uscirne?
«Questo paese ha un grande bisogno di una leadership politica. Berlusconi non è più in grado di rispondere a questa domanda, la sua visione è entrata in crisi. All’Italia serve un leader che racconti un’altra storia».
Un bel compito per la sinistra...
«Sì, la sinistra ha una grande occasione, si sta aprendo uno spazio enorme: ora deve saper essere espressione della modernizzazione del Paese. Quando negli anni Sessanta e Settanta ha interpretato la spinta verso l’industrializzazione il Pci è diventato polo di attrazione per tante forze diverse per provenienza e matrice culturale. E lo sa perché? Perché vedevano quel partito come soggetto forte del cambiamento».
Ma che vuol dire modernizzazione? È una parola che si può declinare in modi diversi... «Le dico alcune parole fondamentali. Uguaglianza, ma non intesa in modo seriale: penso invece all’uguaglianza del merito. Nuovi legami sociali. Solidarietà. Nuovi rapporti tra generazioni. E nuovi rapporti anche tra vita e innovazione tecnologica, perché non si può lasciare tutto al mercato. Questi devono essere, per il centrosinistra, i capisaldi della modernità. Qualcuno potrà dirmi: facile a dirsi. Lo so, ma questa è la grande sfida». Nel suo ultimo libro “L’Italia contesa” lei sostiene che c’è bisogno di un nuovo soggetto politico. Ce la farà il Pd?
«Penso che il Pd abbia bisogno di una forte leadership unita a una forma partito robusta. È sbagliato mettere in contrasto partito del leader e partito organizzato, devono tenersi insieme. C’è bisogno di una pesantezza territoriale. Però attenzione alla fretta, queste sono operazioni che richiedono tempo. Quello del Pd è sicuramente un amalgama difficile ma guai se interpretassimo questa difficoltà come una impossibilità e quindi si reagisca con la voglia di tornare indietro, ai Ds e alla Margherita. Oggi non vedo altra prospettiva oltre al Pd».
Scusi, professore: che cosa c’è di sinistra nel Pd? «Veltroni ha compiuto diversi errori ma ha avuto un’intuizione giusta. Oggi serve una nuova cultura politica. La sinistra deve essere un’altra cosa rispetto al Novecento, non si può tornare alla vecchia cultura socialista». Qualcuno le obietterà: ma in Europa i socialisti ci sono...
«Sì, ma guardi bene. Guardi i socialisti francesi che cosa sono diventati, ormai sembrano ridotti a un’ombra di se stessi. E in Germania? La Spd soffre, non sa indicare una prospettiva e infatti vince la Merkel. Persino in Inghilterra è fallito il modello Blair che pure aveva tentato un certo rinnovamento. Questo succede perché tutte e tre le socialdemocrazie (anche se meno quella inglese) sono state esperienze legate al mondo industriale strutturato in classi, non sono state capaci di cogliere le novità dirompenti che entravano in scena. Non hanno compiuto la loro rivoluzione culturale».
C’è un’eccezione: Zapatero. Che ne dice?
«Dico: aspettiamo, bisogna vedere come va a finire. Anche nei paesi dove la tradizione socialista è forte ci sono difficoltà. Bisogna sapere vedere il nuovo: sono cambiati i confini dell’uguaglianza, dello stato sociale, del lavoro. È ora di chiudere con il Novecento. Non dico di cancellare il passato. Dico: usiamolo per fare qualcosa di veramente nuovo». ❖

l’Unità 23.9.09
No al nero in prima serata
di Igiaba Scego


Il 22 maggio 1979 un giovane somalo Amhed Ali Giama viene arso vivo vicino alla chiesa di Santa Maria della Pace a Piazza Navona, Roma. È un homeless, non ha niente, solo la sua piccola vita avvolta di stracci. Dell’omicidio sono accusati due giovani poi assolti per non aver commesso il fatto. Alcuni giornali parlano di una giustizia di parte.
Il 21 settembre 2009 alcuni ciclisti nel parco della Caffarella (sempre a Roma) notano il cadavere di Ali Farah Hassan e chiamano la polizia. Ali Hassan Farah era un profugo somalo. Lo conoscevano tutti nel quartiere, era solito lavare i vetri al semaforo dell’incrocio tra via Appia Pignatelli e via dell’Almone. Viveva in una tenda all’interno del parco. Era una persona tranquilla. L’unica sua “colpa” era la sua povertà. Non rivedrà più la Somalia.
A trent’anni di distanza non è cambiato nulla per i somali in Italia. La situazione per certi aspetti è addirittura peggiorata. L’Italia si è chiusa in se stessa. Invece di scendere in piazza per i diritti, alcuni trovano più facile prendersela con i settori più deboli della società. Per fortuna c’è una Italia sana, ma quella malata comincia a farmi davvero paura. Come mai questo odio per chi non si può difendere?
Ahmed e Ali erano rifugiati politici. Scappavano uno dalla dittatura feroce di Siad Barre e l’altro da una guerra in-civile che ha divorato tutti i sogni (e che è molto “alimentata” dall’Occidente che trova molto utile gettare i rifiuti tossici in mare somalo). E come sono stati accolti? Con il fuoco e le sprangate. Non si conoscono gli assassini di Ali Farah, ma l’Italia lo ha già ammazzato ignorandolo. All’inizio i cronisti non sapevano collocarlo nemmeno geograficamente. Senegalese? Ivoriano? Somalo? Se fosse stato bianco ora al parco della Caffarella ci sarebbe stato Bruno Vespa con una puntata speciale di Porta a Porta. Ma no i neri non meritano la prima serata.❖

Corriere della Sera 23.9.09
D’Alema: sbagliato l’antiberlusconismo che diventa anti-italiano
di Paolo Foschi


«Non siamo gli illuminati in un Paese disgraziato»

«Questo antiberlusconi smo che sconfina in una sorta di sentimento an ti- italiano è l'approccio peggiore alla grande sfida politica che il Paese ha di fronte». Lo ha detto ieri Massimo D'Alema, in qual che modo riecheggiando le parole pronunciate po che ore prima da Silvio Berlusconi. «L’opposizio ne — aveva affermato il presidente del Consiglio presentando la Finanzia ria — è anti-italiana, fa il tifo per la crisi e non vuole che l’Italia ne esca». E par­lando con i giornalisti Ber lusconi ha aggiunto: «Ho chiesto ai ministri di non rispondere più a domande sul gossip. Da qui in avanti a me potete fare solo do mande di politica vera».
Sferzata di D’Alema «L’antiberlusconismo a volte è anti-italiano»

ROMA — «L’opposizione è anti-italiana»: l’ennesimo j’accuse lanciato da Silvio Berlusconi contro il centrosi nistra divide il Pd. E, un po’ a sorpresa, mentre altri espo­nenti del partito reagiscono con toni duri al capo del go verno, il premier riceve, in qualche maniera, l’appoggio di Massimo D’Alema.

«C’è un anti-berlusconi smo che sconfina in una sor ta di sentimento anti-italia no. Questa concezione di una minoranza illuminata che vi ve in un Paese disgraziato è l’approccio peggiore, subal terno, che possiamo avere. Piuttosto bisogna sforzarsi di capire le ragioni della destra. Una destra nuova, post-libera le, anzi spesso illiberale», af ferma il presidente della Fon dazione Italianieuropei inter venendo alla presentazione del libro A destra tutta - Do­ve si è persa la sinistra? , del lo storico Biagio De Giovan ni. E — ancora — D’Alema ag giunge che «la sfida per il Par tito democratico non è inse guire la destra nel suo terre no, ma proporre un riformi smo alternativo a quel poco o niente di innovazione che è stata la destra negli ultimi 15 anni». Secondo l’esponente del Pd bisogna dunque lavo­rare a un progetto riformista «senza demonizzare Berlusco ni, sebbene al processo di de monizzazione reciproca Ber lusconi ha dato un contribu to potentissimo. Non è facile andare a un bipolarismo mite avendo davanti un avversa rio che tutto è, tranne che mi te ».

Rosy Bindi, che nel dibatti to congressuale, come l’ex mi nistro degli Esteri, sostiene Bersani, non sembra però convinta: «È vero — com menta a tarda sera — che c’è un certo anti-berlusconismo che rischia di essere impro­duttivo. Ed è altrettanto vero che D’Alema parla sempre per paradossi. Ma essendo convinta che Berlusconi non stia facendo il bene dell’Italia, credo che combatterlo faccia bene all’Italia». Prima la parla mentare del Pd aveva comun que invitato Berlusconi a «moderare il linguaggio» a «rispettare l’opposizione»: «Anti-italiani a chi? Pensi al suo governo. Un governo che vara leggi incostituzionali co me il Lodo Alfano e introduce il reato di immigrazione clan destina paralizzando le procu re d’Italia; un governo che ap prova una Finanziaria al buio senza affrontare i nodi della crisi lasciando sole le fami glie e le imprese; un governo che colleziona figuracce alle Nazioni unite. È questo gover no che dimostra di non avere a cuore il bene del Paese e di lavorare contro la dignità de gli italiani».

Enrico Morando, senatore di area veltroniana e sosteni tore della mozione France schini, riconosce che «spesso c’è un pregiudizio nei con fronti di Berlusconi che an nebbia la mente a una parte del centrosinistra». E aggiun ge: «Già diversi mesi fa avevo scritto che dovremmo occu parci di più di capire le ragio ni della destra e perché molti italiani si riconoscono in Ber lusconi. Detto questo, critica re per esempio le politiche economiche di questo gover no non ha nulla di anti-italia no ». Secondo Morando, «l’im mobilismo davanti alla crisi è sotto gli occhi di tutti. Siamo di fronte a un governo che ha negato la crisi in tutte le ma niere e anche quando ha rico nosciuto che c’è, a differenza di tutti gli altri Paesi non ha messo in campo interventi de cisi per affrontare la situazio ne. Tacere di fronte a questo atteggiamento da parte del l’opposizione sarebbe irre sponsabile ». Semmai, conclu de il senatore, è «anti-italia no il comportamento di un governo che lascia gli italiani in balìa della crisi».

Dario Franceschini invece è netto nel liquidare l’attacco di Berlusconi all’opposizione. Come aveva detto prima del­l’intervento di D’Alema: «An ti- italiano non è chi dice la ve rità e cerca di dare voce agli italiani in difficoltà, ma è un capo del governo che da oltre un anno nasconde la realtà della crisi e non dà risposte a milioni di italiani che non hanno più un reddito per vi vere ». E poi: «Anti-italiano è chi imbroglia il popolo».

Liberazione 22.9.09
In Italia la custodia cautelare raggiunge il 54%, nel resto d'Europa è solo al 24%
Celle affollate grazie al primato del carcere preventivo
Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro



Anche il sovraffollamento delle galere è un problema globale. Nelle prigioni dei 47 paesi che fanno parte del Consiglio d'Europa ci sono 1,8 milioni di detenuti e l'emergenza sovraffollamento tormenta 27 dei 47 paesi membri, Italia in testa. Intanto nelle patrie galere aumentano vertiginosamente i suicidi. Al 31 agosto di quest'anno si sono verificati già 48 episodi, contro i 28 riscontrati nei primi otto mesi del 2007 e i 30 del 2008. E chi non si è tolto la vita resiste in condizioni disumane.
Lo stato italiano è stato di recente condannato per trattamenti disumani per aver costretto un detenuto a vivere in 16 metri quadri insieme ad altre quattro persone. In carcere il tasso dei suicidi è di venti volte superiore a quello riscontrato nella società esterna (fonte: ristretti.it) e in Italia l'istigazione al suicidio è reato penale (art. 580 c.p.). La domanda (implicita) è: che condanna dovrebbe avere lo stato italiano per i detenuti che si sono tolti la vita per non morire in celle disumane?
Tornando ai tristi primati del Belpaese, le patrie galere primeggiano anche per il numero di detenuti in custodia cautelare. Basti pensare che nelle carceri dei 27 paesi dell'Ue vi sono 130mila persone in attesa di giudizio, un quarto delle quali in Italia, con una crescita del 70% negli ultimi dieci anni. E mentre nell'Ue i detenuti in custodia cautelare rappresentano una media del 24%, in Italia costituiscono il 54% della popolazione carceraria.
Più che "certezza" della pena in Italia bisognerebbe parlare di "certezza della anticipazione di una pena", in spregio al valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Eppure nel Belpaese i reati sono in diminuzione, sin dal secondo semestre del 2007. Addirittura nel 2008 gli omicidi volontari sono al minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all'anno precedente, le rapine del 28,8%, l'usura del 10,4%, la ricettazione del 31,6%, la violenza sessuale dell'8,4 e il riciclaggio del 5,8% (fonte: Unione camere penali). A dimostrazione del fatto che l'aumento delle carcerazioni è una variabile indipendente che prescinde dal reale andamento dei crimini. L'aumento delle carcerazioni, piuttosto, dipende dalla percezione di insicurezza e dall'abuso che di tale percezione fanno politici e media. Aumento di carcerazioni, inutile dirlo, che riguarda quasi esclusivamente stranieri che commettono irregolarità amministrative e consumatori di droghe. Non certo i colletti bianchi che beneficiano dell'amnistia di classe chiamata prescrizione (secondo i Radicali, negli ultimi 10 anni vi sono stati due milioni di processi estinti per tale ragione). Scrive un detenuto del carcere di Spoleto, Carmelo Musumeci, una delle voci di protesta contro la pena dell'ergastolo: "i colletti bianchi non sono solo criminali, sono molto di più, sono criminali disonesti cattivi, furbi e malvagi più di tutti gli altri criminali perché usano la legge, il potere, la cultura, l'intelligenza e il bene per fare il male. E di questi mafiosi ‘perbene' non ne ho mai trovato uno in carcere"; ed ancora "spesso i buoni fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali". A proposito. A Carmelo Musumeci da mesi viene trattenuta la corrispondenza finanche con il suo tutore e l'associazione Antigone. La libertà di espressione, evidentemente, è un diritto costituzionale inviolabile ma non troppo. Il bavaglio al dissenso, nel nostro paese, sta diventando una pre-regola del gioco. E se lo è per le alte cariche dello Stato e per giornalisti del Vaticano, figuriamoci per un ergastolano. Chi si indignerà per lui?