Pd, spaccatura sulla Ru486 Bianchi costretta a lasciare
di Maria Zegarelli
Franceschini con la capogruppo Finocchiaro: «Su questioni etiche si decide a maggioranza»
La senatrice cattolica non sarà più la relatrice dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortivaSi è capito dove si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?».
Numeri
Già oltre tremila i documenti raccolti
3300 Sono i testamenti biologici ricevuti dai Radicali e di questi 2.758 sono stati elaborati.
56,4% è la percentuale di uomini «testatori», contro il 43,6% di donne. Fasce di età: il 6,3% fino a 30 anni; 8,5% 31-40 anni; 13,2% 41-50; 23,1% 51-60; 30,1% 61-70; 18,7% over 70.
95,4% dice no al ricorso alla respirazione meccanica. Di contro il 4,6% si è espresso per il «sì».
La mina innescata da Maurizio Gasparri e Antonio Tommassini, del Pdl, nel fragile equilibrio del partito democratico è puntualmente esplosa, dicono oggi i senatori democratici sconfortati dall’ennesima lacerazione. Dorina Bianchi, capogruppo Pd in Commissione, ha creato un caso, come sul testamento biologico, votando «sì» all’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva e accettando di fare la relatrice. Dopo una gioranta convulsa ha dovuto rimettere il mandato.
LA LETTERA DEL SEGRETARIO
Quel «sì» più che una mina è stata una bomba, disinnescata soltanto all’ultimo minuto. Lo stesso segretario, Dario Franceschini, ha appreso i fatti dai giornali di ieri mattina. Ha subito telefonato ad Anna Finocchiaro e poi inviato una lettera: «Cara Anna concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla Ru 486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Decisione alla quale «tutti devono attenersi». Ma ormai la frittata era fatta.
Così tutti i senatori sono stati chiamati a riunirsi. Bianchi ripeteva che lei di quel voto aveva parlato con la capogruppo, Finocchiaro a ribattere che le cose non erano andate così. Conclusione di una giornata tormentata: Dorina Bianchi si è dimessa da relatrice e si è impegnata a chiedere che sia la Commissione a decidere con un voto sulla modalità e i tempi di svolgimento dell’indagine conoscitiva. Solo così è stato possibile evitare la spaccatura del gruppo, che avrebbe provocato un terremoto in tutto il partito.
Due i livelli di scontro nel Pd. Uno sul merito, uno sul metodo. Da una parte chi è contrario all’indagine, perché «è strumentale, visto che sulla pillola si è già pronunciata l’Aifa, l’agenzia per il farmaco»; dall’altra chi invece non ci trova niente di strano «non si capisce perché non dovremmo conoscere più a fondo l’argomento». Tra i primi ci sono Finocchiaro, Latorre, Passoni, Marino, Soliani, Pinotti, Franco, Chiaromonte, solo per citarne alcuni tra le varie mozioni. Tra i secondi i teodem, Rutelli, alcuni cattolici anche di area Fioroni. Sul metodo si è scatenata la guerra delle mozioni: «Dorina ha fatto bene», «Dorina ha fatto male», con scambio reciproco di accuse. Alla fine, la mediazione. Si è capito che ci si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto a bruciapelo: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?». «Non ci penso neanche», la risposta a caldo. Poi, la retromarcia, nella stanza di Finocchiaro. Con la Bianchi Anna Serafini (che durante la riunione del gruppo ha attaccato Finocchiaro) e Garavaglia (entrambe pro-Franceschini), dall’altra parte Latorre e Finocchiaro 8pro-Bersani). «Dobbiamo trovare una soluzione che non laceri ulteriormente il partito». Bersaniani e i mariniani erano pronti a votare compatti per il no, mentre i franceschiniani era divisi. I rutelliani, sul piede di guerra. Luigi Lusi, tesoriere Margherita, solo per citarne uno, era fuori di sé: «Un suicidio di massa, ecco cos’è. Ma che ci stiamo a fare in questo partito? Siamo più bolscevichi dei siberiani, vogliono rifare il Pci? Lo facciano, restiamo altri 15 anni all’opposizione». Di Giovan Paolo (mozione Franceschini) rivolto a Cosentino: «Vedrai, ci faranno votare anche per l’eutanasia, dopo il congresso».
Una guerra di nervi andata avanti tutto il giorno, raccontata dalle facce scure che entravano nel «conclave» dei senatori, e da quelle che uscivano dall’incontro a palazzo Madama tra i supporter della mozione Franceschini svoltosi poco prima. «Il giorno in cui votano lo scudo fiscale noi finiamo sui giornali per la spaccatura sulla pillola», il commento più frequente.
In mezzo le due versioni dei fatti. Quella di Bianchi: «Non ho agito a titolo personale, ne avevo parlato con Anna». Finocchiaro: «Io sono contraria all’indagine, ma sapendo che è un tema delicato nei giorni scorsi ho convocato una riunione con i membri Pd della Commissione». Attorno al tavolo c’erano Bianchi, Bosone, Chiaromonte, Bassoli e Zanda. «Si è deciso che saremmo stati disponibili a parlare di una indagine tecnica per estrarre le migliori pratiche mediche della pillola e che comunque tutto sarebbe dovuto accadere dopo il congresso, con una decisione votata dalla Commissione e non dall’ufficio di presidenza. Mai si era parlato del relatore di minoranza». Il trappolone lo ha teso Tommasini, «è stata una mia iniziativa», ha detto. E la Bianchi ci è cascata. ❖
Repubblica 24.9.09
Concitata assemblea di gruppo. La Finocchiaro: ingenuità aver trattato con la maggioranza sui tempi dell´indagine
Ma l´area Rutelli si sente emarginata "Metodi bolscevichi, è dura restare"
Giaretta sbotta all´indirizzo dei compagni di partito laici: "Mi hanno davvero rotto i c..."
di Giovanna Casadio
La rabbia di Latorre: "Dorina gioca in proprio, però Anna ha fatto una stupidata"
ROMA - «Ma che ci stiamo a fare? Qui siamo più bolscevichi dei siberiani. Vogliono fare il Pci? Ma lo facciano...». Luigi Lusi, che della ex Margherita è tuttora il tesoriere, lascia la frase in sospeso. Fa capire però che Rutelli e i "suoi" possono andare altrove, che dietro l´angolo c´è il possibile divorzio dal Pd verso altri lidi, si chiamino Nuovo grande Centro o qualcos´altro. È una delle giornate nere dei Democratici e ruota attorno a un "casus belli": il sì di Dorina Bianchi - la cattolica capogruppo in commissione Sanità del Senato - all´indagine conoscitiva sulla RU486. Il Pd rischia la conta più insidiosa della sua breve storia, a quindici giorni dal primo congresso. Alla fine la Bianchi fa un passo indietro - si dimette da relatrice - e Anna Finocchiaro, la capogruppo, ammette l´ingenuità politica di avere chiesto ad Antonio Tomassini, fedelissimo di Berlusconi e amico personale di Bossi, nonché presidente della commissione Sanità, di togliere le castagne dal fuoco a loro Democratici spostando più in là l´indagine sulla pillola abortiva: «A dopo il congresso, per evitare polemiche».
Fino alle sette di sera, Dorina Bianchi non accetta di passare per il "caso Dorina", per quella cioè che ha già mandato il Pd sull´orlo di una crisi di nervi sul testamento biologico quando si schierò con il Pdl e che ora con il "sì" all´indagine conoscitiva ha spaccato gruppo, partito e persino la "mozione Franceschini", la sua. Poi si convince: Nicola Latorre, Anna Senafini, Maria Pia Garavaglia fanno da pontieri. Accetta quindi di dimettersi: «C´erano stati accordi che non sono stati rispettati, nell´accelerazione e perciò la commissione va riconvocata, discuta le modalità dell´indagine, e io rassegno le dimissioni da relatrice», dirà nell´ultima assemblea serale del gruppo che chiude la discussione.
Incassa Dorina la solidarietà interessata di tutto il centrodestra che gongola per avere creato l´occasione di un autogol del Pd. Lo va dicendo Rutelli uscendo dalla prima delle riunioni che scandiscono la giornata in un tutto contro tutti. Tensione altissima, stracci che volano. I rutelliani protestano: «È un suicidio in diretta». Il fronte laico, i supporter cioè di Pierluigi Bersani e di Ignazio Marino - sfidanti del segretario uscente e ricandidato, Dario Franceschini - ritengono «inopportuna» quell´indagine parlamentare e perciò bisognava dire semplicemente "no". Il segretario al mattino si attacca al telefono con Finocchiaro. Invia una lettera concordata: «Cara Anna, condivido con te che sulla scelta di avviare un´indagine parlamentare sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Bisogna insomma fare chiarezza, qui «la questione di coscienza non c´entra» perché si tratta di votare un atto parlamentare. Franceschini è un cattolico democratico, a passare per il clericale che si presta a combriccole con il centrodestra dopo l´invito del cardinale Bagnasco a non commercializzare la pillola abortiva in Italia, non ci sta. «In fatto di laicità non ho nulla da imparare né da Bersani, né da Marino». Sulla RU486, ha detto in tempi non sospetti: «Se c´è un modo meno invasivo per una donna di un intervento chirurgico, perché opporsi? Bisogna certo evitare che venga vissuta come un contraccettivo, e c´è una legge sull´aborto che nessuno mette in discussione».
Errori si sommano a errori. I senatori della mozione Franceschini si incontrano prima dell´assemblea di gruppo dell´ora di pranzo; arriva anche Rutelli. Riunione concitata. L´assemblea poi, è aperta dalla Finocchiaro che ammette di avere sbagliato la prima mossa, la richiesta a Tomassini. «E perché mai Tomassini avrebbe dovuto farci questo favore fino al 25 ottobre? Ho votato per il sì a nome del Pd, come hanno fatto tutti anche l´Idv», si difende la Bianchi. «Dorina ha giocato una partita in proprio e Anna ha fatto una stupidata», s´arrabbia Nicola Latorre. «Mi hanno rotto», si sfoga Paolo Giaretta, mite d´abitudine. La pillola abortiva diventa il punto di caduta della battaglia congressuale, e la bioetica uno dei banchi di prova del Pd. Albertina Soliani, sconsolata: «Siamo in una fase dissennata».
Corriere della Sera 24.9.09
Il passo indietro di Dorina Bianchi
Indagine sulla Ru486 Scontro aperto nel Pd Si dimette la relatrice
di Alessandro Trocino
ROMA — Dopo la tregua estiva, il Pd torna esattamente a dove era rimasto, alle polemiche sui temi etici, alle accuse di laicismo e clericalismo, ai risentimenti e ai sospetti. A dividere, questa volta, è la commissione di indagine sulla Ru486. Il via libera, dato l’altro ieri per il Pd dalla capogruppo in commissione Sanità del Senato Dorina Bianchi, nominata anche correlatrice, suscita un putiferio. Ieri il partito si lacera in una giornata di trattative, cominciate con la richiesta di un voto da parte del segretario in carica Dario Franceschini. Il voto, con la conseguente spaccatura, viene evitato in extremis grazie alle dimissioni della Bianchi da relatrice.
Il primo round nel partito è mattutino. Sfidanti Dorina Bianchi, cattolica e per mesi rivale del laico Ignazio Marino, e la capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro. La prima chiarisce che non c’è stata alcuna iniziativa autonoma da parte sua: «Il via libera era stato deciso con la Finocchiaro». In effetti, una settimana fa si era tenuta una riunione, presenti Finocchiaro e Luigi Zanda, con Marino collegato via telefono. I primi due avevano espresso una contrarietà a titolo personale alla commissione d’indagine. La Bianchi aveva obiettato: «C’è il rischio che se la faccia il Pdl da solo la commissione». Così, dopo una consultazione più ampia, la Finocchiaro aveva acconsentito a dire sì alla Commissione, ma solo dopo aver ottenuto dal presidente di Commissione (Pdl) Antonio Tomassini una garanzia: «Diremo di sì alla commissione, a patto che si faccia dopo il nostro Congresso».
Il timore, confermato dagli eventi, era quello di spaccature interne. L’altro ieri le agenzie di stampa informano che il Pd (ovvero la Bianchi) ha dato il via libera. Con due particolari che fanno imbufalire la Finocchiaro e non solo: l’avvio immediato della commissione e l’incarico di correlatore, mai concordato con il partito, alla stessa Bianchi. Insomma, una trappola del Pdl e una fuga in avanti della Bianchi.
A quel punto riesplodono le tensioni. Eugenia Roccella, sottosegretario pdl, accusa il Pd di lapidare la Bianchi. Paola Binetti è in scia: «Quella di Dorina è una presa di posizione quasi eroica. I tre candidati fanno a gara a chi è più laico». Dario Franceschini, nella cui mozione stanno la Bianchi e i rutelliani, è il primo a chiedere il voto. Spiegando (all’ Espresso ) di essere a favore della Ru486 ed escludendo che ci possa essere in questo voto sulla Commissione un’obiezione di coscienza. Quanto basta per allarmare i cattolici. E se Tomassini, alla fine, accetta il rinvio dell’indagine al 1 ottobre, il Pd continua a lacerarsi. Il rutelliano Claudio Gustavino dice sì alla Commissione: «È necessaria».
Ma parte la controffensiva dei franceschiniani, preoccupati da una spaccatura che finirebbe per dare armi ai rivali «laici » Bersani e Marino. Paola Concia è già all’attacco: «La Bianchi ci ha fatto perdere milioni di voti». Si cerca di convincerla a dimettersi. Lei non ci pensa nemmeno e più volte ripete: «Sto al mio posto. Non sarà Marino a farmi andare via». Alla fine, però, anche grazie alle pressioni di Giuseppe Fioroni, capitola: «Rimetto il mio mandato, i tempi e le finalità dell’indagine non sono chiari e c’è una strumentalizzazione della vicenda da parte del centrodestra. Non era assolutamente mia intenzione prendere decisioni in solitudine su questo argomento». Anna Finocchiaro è soddisfatta: «Grazie alla Bianchi, è una persona seria. E questo è un partito. Il Pd parteciperà all’indagine ma chiedendo alla maggioranza di definire la mission di questa indagine, a partire dai tempi e dai modi».
il Riformista 24.9.09
Chi ha preso la pillola del giorno dopo?
Scene di ordinaria follia al Senato
di Tommaso Labate
Pasticci.L’assemblea al Senato sulla RU486. La Bianchi lascerà il ruolo di relatrice della commissione di indagine, Finocchiaro ammette di essere stata «truffata» da Gasparri. La truppa di palazzo Madama è allibita: Rutelli s'indigna, Serafini attacca, Latorre lascia la sala.
A rompere il silenzio del plotone di una cinquanta senatori democrat, divisi a metà tra chi sorrideva sotto i baffi e chi si scuoteva il capo amaramente, è stato Francesco Rutelli, mozione Franceschini. «Ma che cosa rappresenta questa riunione? Di che cosa stiamo discutendo? Qual è l'ordine del giorno? E soprattutto, a che ora finisce questa cosa?». Al contrario Nicola Latorre, dalemiano vicepresidente del gruppo, mozione Bersani, aveva preferito lasciare la saletta dopo pochi minuti dall'inizio della riunione: «Non ce la faccio proprio. Non posso assistere a certe scene». Più o meno lo stesso canovaccio recitato da Ignazio Marino, mozione (ça va sans dire) Marino, che preferiva assistere allibito a un dibattito «surreale».
L'ultimo caso che si è (ri)aperto dentro il Pd, lo stesso che potrebbe portare la capogruppo in commissione Salute Dorina Bianchi ad abbandonare il ruolo di relatrice nell'indagine conoscitiva sulla RU486, è in realtà il frutto di un «grande boh». Una piccola grande commedia degli equivoci suddivisa in tre atti. Con tre protagonisti (i piddini Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e, appunto Dorina Bianchi), due antagonisti (i pidiellini Maurizio Gasparri e Antonio Tomassini) e il pubblico non pagante, composto dalla ciurma di senatori democrat che ieri ha assistito a quella che più testimoni considerano «una tra le assemblee più allucinanti degli ultimi due anni».
Il capitolo pubblico della commedia è quello che va in scena ieri l'altro, quando Dorina Bianchi - in ordine sparso: sostenitrice di Franceschini, anima teodem, ex uddiccì, oggi rutelliana, domani chissà - dà il via libera «a nome del Pd» all'indagine parlamentare sulla pillola abortiva. La RU486, appunto. La bionda senatrice calabrese, la stessa che (non senza polemiche) aveva ereditato da Ignazio Marino i galloni di capogruppo in commissione Sanità, finisce nel delle due mozioni concorrenti. Che rivendicano, con l'ex ministro delle Attività produttive e il chirurgo-senatore, «un'altra linea sui temi etici». A questo punto, e siamo a ieri mattina, Franceschini chiama il capogruppo Finocchiaro. Quindi, per non vedersi scalvalcato dai due competitor alle primarie sul terreno della laicità, rovescia il tavolo: «Cara Anna - scrive il segretario del Pd al presidente dei senatori del suo partito - a seguito del nostro colloquio telefonico di stamattina, concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione».
Ma chi aveva dato il via libera all'indagine? Di chi la colpa di aver preso una decisione che verosimilmente il gruppo, esprimendosi a maggioranza, avrebbe respinto? Di Dorina Bianchi?
E qui si arriva all'atto secondo, all'assemblea dei senatori democrat di ieri mattina. Quella dell'affondo di Rutelli, delle perplessità di Latorre, dell'incredulità di Marino. Bianchi, finita nel mirino anche del fuoco amico, si difende davanti agli onorevoli colleghi: «Io ho agito secondo mandato». Quindi, rivolta ai vertici del gruppo, incalza: «Mi avete detto voi di dare il via libera all'indagine sulla RU486». L'ora della verità scatta quando prima Finocchiaro (brevemente) e poi il vicario Zanda (più diffusamente), raccontano il retroscena. E ammettono, chiamando il correità i due antagonisti pidiellini: «Noi abbiamo detto sì all'indagine sulla pillola abortiva - è il loro ragionamento - chiedendo prima a Gasparri e poi a Tomassini che il dossier venisse aperto dopo il congresso del Partito democratico. Proprio perché sapevamo che la RU486 avrebbe aperto un altro caso...». Il retroscena diventa scena. E l'antefatto, fatto. I numeri uno e due del gruppo pd a Palazzo Madama ammettono quindi di essere stati truffati "dal gatto e dalla volpe" berlusconiani. Come a dire, «ci avevano garantito che l'indagine sarebbe partita tra due mesi e invece deve partire subito». Il capo d'accusa che pende sul capo della Bianchi diventa di conseguenza una specie di concorso in truffa aggravata: «Hai consentito che il loro inganno andasse a buon fine».
Bianchi continua a difendersi («Ma siete stati voi a...»), Finocchiaro&Zanda a replicare. Finché Anna Serafini non dà voce al pensiero che aleggia su praticamente tutta la sala incalzando capogruppo&vice: «Ma come avete potuto tirare in ballo il congresso di un partito in una questione istituzionale? Perché abbiamo prestato il fianco - prosegue il ragionamento della senatrice "in Fassino" - alla strumentalizzazione del Pdl?».
Il tira e molla va avanti fino alla seconda convocazione dell'assemblea, chiamata stavolta a votare su un provvedimento già approvato (ma, nel momento in cui il Riformista va in stampa, il summit sembra destinato al rinvio). L'indagine conoscitiva sulla pillola non ha la maggioranza dei consensi nel Pd. La Bianchi si prepara a lasciare il ruolo di relatrice di minoranza. Il resto è tutto un «boh», piccola grande commedia degli equivoci all'interno di un gruppo in preda a una crisi d'ilarità. O d'amarezza.
il Riformista 24.9.09
Quando si dice le coincidenze
Quando si dice le coincidenze. Ieri mattina il segretario del Pd ha scritto al suo capogruppo al Senato per dirle che, in materia di indagini parlamentari sulla Ru486, non è ammessa libertà di coscienza. Bisognerà dunque che i parlamentari votino secondo le indicazioni del gruppo, o ne traggano le conseguenze. La minaccia è rivolta a Dorina Bianchi, che su questa materia si era schierata in commissione dalla parte del governo. Sempre ieri, il presidente della Camera Fini, incontrando una delegazione di parlamentari radicali, ha invece confermato il suo auspicio: nel dibattito sul biotestamento ogni parlamentare ha diritto a esprimersi secondo coscienza. Il che, tradotto in politichese, vuol dire che i deputati del Pdl che non vogliono seguire la linea del Pdl al Senato, devono essere liberi di farlo. Si potrebbe notare che la libertà di coscienza viene in questo caso invocata quando è a favore dei laici e negata quando è a favore dei cattolici. Ma non è questo il punto. Il punto è che parlare di libertà di coscienza dei parlamentari, per concederla o per contestarla, è insensato. È infatti la Costituzione che garantisce quella libertà ai parlamentari, stabilendo che agiscono «senza vincolo di mandato»: poi ci sono i parlamentari che la loro libertà se la prendono, e quelli che non osano. Tutto qui.
Repubblica 24.9.09
"Non toccate la legge sul biotestamento"
Monito del cardinale Bertone a Bossi. Fini: impegno per la libertà di coscienza
di Marco Politi
All´incontro con il segretario di Stato presente anche il figlio del Senatur Renzo
ROMA - Grandi manovre in vista del dibattito sul testamento biologico. Mentre il presidente della Camera Fini si impegna a garantire a ogni deputato l´esercizio della massima libertà di coscienza, il Segretario di Stato vaticano Bertone - in un incontro tenuto segreto sino all´ultimo momento - preme sul leader della Lega Bossi perché il testo non venga stravolto rispetto a come è stato votato al Senato. Cioè senza l´autodeterminazione del paziente.
E´ appena passato un mese dalle violente polemiche della Lega nei confronti di esponenti vaticani (il presidente del Consiglio per i migranti mons. Vegliò e il segretario mons. Marchetto) e Umberto Bossi porta a segno due risultati nel suo tentativo di costruirsi un rapporto diretto con la gerarchia ecclesiastica. Il 4 settembre ha incontrato per un´ora di colloquio il presidente della Cei Bagnasco. E ieri si è recato in Vaticano in udienza con il cardinale Bertone. Il porporato, nell´ampio giro di orizzonte, ha chiesto che sia mantenuto nelle sue linee portanti il testo del Senato sul testamento biologico. Bossi, a quanto trapela, avrebbe garantito che vi saranno miglioramenti tecnici ma che l´impianto di fondo rimarrebbe intatto.
Esattamente l´opposto di quanto hanno appena chiesto venti parlamentari del Pdl e di quanto auspicato da una delegazione radicale, recatasi ieri dal presidente della Camera portando tremila dichiarazioni di volontà anticipate raccolte on line nei mesi scorsi. La volontà di autodecisione dei pazienti è stata illustrata da Marco Cappato e Mina Welby per l´associazione «Luca Coscioni» e Luigi Manconi per l´associazione «A buon diritto».
Fini - hanno poi dichiarato i radicali - ha auspicato che l´imminente dibattito in aula avvenga in un «clima pacato e scevro da ogni pregiudizio» e ha espresso il suo personale impegno perché la discussione si svolga «nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza».
Per il presidente della commissione Affari sociali della Camera, Domenico Di Virgilio (Pdl), il testo è «migliorabile» e si sta lavorando in un clima di «maggiore serenità». La maggioranza del Pdl, tuttavia, su input di Berlusconi e seguendo la linea del ministro Sacconi e del sottosegretario Eugenia Roccella (su cui il Vaticano fa grande affidamento) è per riaffermare che la nutrizione e l´idratazione artificiali siano «obbligatori». Lo stesso Di Virgilio è peraltro contrario a una legge morbida e la vuole «completa» come al Senato.
Sull´incontro Bossi-Bertone bocche cucite sia alla Lega che in Vaticano. Il Senatur annette all´udienza la massima importanza anche per mostrare a Berlusconi di avere un proprio filo diretto con la Santa Sede. Bertone prosegue la sua diplomazia parallela a quella della Cei, mentre l´episcopato sta preparando un´iniziativa per commemorare l´Unità d´Italia. Il Vaticano si è limitato a confermare che all´«udienza privata» hanno partecipato anche Renzo Bossi, la vicepresidente del Senato Rosi Mauro e i capigruppo di Camera e Senato Cota e Bricolo.
l’Unità 24.9.09
Biotestamento, Fini «Rispettare la libertà di coscienza dei deputati»
L’impegno preso in un incontro con i Radicali che gli hanno consegnato i numeri dei biotestamenti compilati online. I moduli sono sui siti della Consulta di Bioetica e Fondazione Veronesi. Alternativa: ricorrere al notaio.
di Federica Fantozzi
Il presidente della Camera Fini ha preso «l’impegno che il dibattito a Montecitorio sul testamento biologico si svolga con la massima serenità e pacatezza in un clima scevro da pregiudizi e nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza». Una promessa fatta durante l’incontro, nel suo studio ieri mattina, con una delegazione dei Radicali che gli hanno consegnato i dati relativi a 3300 biotestamenti compilati online dai cittadini.
Al colloquio hanno partecipato Luigi Manconi e Marco Cappato, presidente e segretario dell’associazione «A buon diritto», Mina Welby e Rocco Berardo, dell’associazione Luca Coscioni, e l’avvocato Ernesto Ruffini. Dall’indagine dei Radicali (relativa a 2750 moduli di testamento biologico) emerge una tendenza generale a essere informati sui trattamenti sanitari e a rifiutare quelli più invasivi. Il desiderio di esprimere la propria volontà su questo tema riguarda soprattutto persone con un discreto grado di istruzione (l’80% è diplomata o laureata), in maggioranza donne (56,4% contro 43,6%), concentrate in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna. Il 93,3% dei testatori ha nominato un fiduciario che si occupi di eseguire le loro ultime volontà. Ma il dato politicamente più rilevante riguarda il consenso a nutrizione e idratazione forzate, il punto in discussione parlamentare adesso: solo l’1,4% ha detto sì. Significa 38 persone su 2750.
Cappato ha sottolineato come questi documenti siano già ora «validi e vincolanti, espressione di volontà scritta e controfirmata, e ora consegnata alla terza carica dello Stato». Quasi un’esortazione, per chi è interessato, a redigere il proprio biotestamento tramite i moduli presenti su Internet (anche della Consulta di Bioetica e della Fondazione Vero-
nesi) o servendosi dell’intermediazione di un notaio, prima che un’eventuale legge più restrittiva entri in vigore.
L’ESEMPIO DI WELBY
Mina Welby ha consegnato a Fini il libro di suo marito Piergiorgio «Lasciatemi morire», in concomitanza con il terzo anniversario della commovente lettera al presidente della Repubblica. Ed ha sottolineato come l’apertura di un registro comunale per il biotestamento (a Roma applicata dal Municipio X dove si recano una ventina di persone a settimana) si stia allargando: «Ricordiamoci che serve per diminuire e non protrarre il dolore». Manconi ha citato il caso di un vedovo, residente in un Comune del Nord, la cui moglie ha inserito nel biotestamento la volontà di essere cremata: «In Italia c’è la legge ma non i regolamenti applicativi. Così il vedovo chiede alla nostra associazione di testimoniare sull’effettiva volontà della moglie. È un piccolo esempio che segnala la presenza, su questi temi, di desideri elementari e bisogni primari e autentici che no possono essere ignorati». Infine, Cappato ha fatto presente a Fini l’illegittimità del fatto che dal febbraio 2008 alle associazioni non sono garantiti in Rai gli spazi cui avrebbero diritto. Il motivo? «Poltrone e sottopoltrone».❖
Liberazione 23.9.09
Gregor Gysi copresidente e fondatore
del partito “Linke”: «Più veniamo discriminati più la gente vuole votarci»
intervista Matteo Alviti
Berlino. E’ un bel pomeriggio assolato. L'ultimo dell'estate, lunedì 21 settembre. I cartelli rossi annunciano il comizio del candidato locale dalla Linke, il partito della sinistra d'opposizione. Gregor Gysi, copresidente e fondatore del partito aspetta il suo momento sotto il palco. Nella piazza del castello di Köpenick - profondo est di Berlino, dove la neonazista Npd ha il suo quartier generale nazionale - la gente aspetta tra palloncini colorati e il jazz melodico dell'orchestrina di Tin Alley. Non sono tanti, forse cinquecento, ma bastano a dare l'impressione che la piazzetta sia piena.
L'aria non è proprio fresca: la stragrande maggioranza dei sostenitori avrà più di 60 anni. «Cosa ha contro le persone anziane?», accusa Gysi. Niente. «I giovani si raggiungono in altri modi, con internet, con il computer. Lo faccio anche io. C'è sempre una grande differenza tra est e ovest. Qui ci sono persone più anziane, mentre a ovest sono in maggioranza giovani. E' una cosa interessante». Già, interessante.
La Linke, come il resto del paese, a essere un po' schematici è ancora divisa tra le anime del partito, la Pds, e del movimento, Wasg, dalla cui fusione è nato. A est i governisti che vedrebbero di buon occhio un'avvicinamento alla Spd, a ovest i radicali, oppositori di ogni diaologo. La Linke, che domenica sicuramente andrà oltre il 10%, conta almeno due correnti ufficiali e altre tre ufficiose. Ma ora non è il momento di stare a sottilizzare. C'è molto in gioco e l'unità conta. Fuori dall'Afghanistan, "no" all'energia atomica. E poi salario minimo, lavoro, pensioni minime da 800 euro e abbassamento dell'età pensionabile, nuovi posti di lavoro pubblico, anche nella polizia, per la sicurezza. Gysi sa come prendere la piazza e con le critiche ai manager e al sistema fiscale che li protegge si fa sommergere di applausi. Il copresidente e capogruppo della Linke è un oratore brillante. La battuta efficace, piazzata al momento giusto. Gysi sa però essere anche irritante, la sua retorica pungente: ne sanno qualcosa giornalisti e avversari. Tra questi c'è chi cerca di tirarlo giù con mezzi poco puliti. Ne è convinto, Gysi. Questa settimana lo Spiegel ha pubblicato un articolo che lo accusava di essersi impegnato, come avvocato, a riportare nella Ddr una persona che era riuscita a saltare il muro. «Una storia ridicola. Cercano in ogni modo di screditarci. Lo sapevo che avrebbero tirato fuori qualcosa»
Il muro. Torna sempre nei comizi. Specialmente qui all'est, dove la stragrande maggioranza degli elettori ha avuto modo di conoscerlo bene. La candidata Petra Pau ha parlato dal palco prima di Gysi del «muro nella testa», che ancora divide in due il paese. «Da un punto di vista del pensiero la questione potrà essere superata solo dalla prossima generazione», ci dice Gysi. «Oggi sarebbe importante che agli uomini e alle donne dell'ovest si dica che la loro vita è migliorata perché sono state prese delle misure sul modello di stato dell'est. Non si è fatto nel 1990. Si può fare adesso. Per esempio con i policlinici dell'est, che oggi si chiamano centri medici».
Che vantaggi ci sono a portare avanti una campagna elettorale sapendo che nessuno degli altri partiti - Spd, Verdi, Cdu/Csu, Liberali - vi vuole come alleati? Siete più liberi?
«Non ci rende più liberi, ma ci dà un valore aggiunto. Quando tutti gli altri dicono che possono coalizzarsi tra loro ma non con noi, gli elettori sono meno portati a notare le loro differenze. E la Linke ne guadagna in attenzione: la gente si chiede che cosa ci sia mai di sbagliato in noi. Ciò ci rende più interessanti. Penso che dal punto di vista tattico stiano facendo un errore. Beh, se la Cdu dicesse di volersi coalizzare con noi, questo cambierebbe le cose in peggio»,
Rispetto alle posizioni di qualche mese fa le vostre proposte per l'innalzamento del sussidio di disoccupazione Hart IV sono aumentate da 435 a 500 euro. Lo stesso per l'introduzione del salario minimo, da 8 a 10 euro. Perché questa radicalizzazione?
«Una incredibile radicalizzazione! In Francia il salario minimo è sopra gli 8 euro, in Gran Bretagna anche, in Lussemburgo sopra i 9 euro e per gli specializzati di 11 euro. E ora i nostri 10 euro sono terribilmente radicali. Dai francesi dovremmo imparare a fare un po' più di resistenza. A volte esagerano, ma noi esageriamo nell'altra direzione».
La questione è un'altra: alzare il tiro delle richieste non danneggia l'eventuale apertura di un dialogo con la Spd?
«No, non danneggia il dialogo. Non c'è un dialogo vero: solo ai livelli più bassi magari, ma ai vertici è bloccato. Il presidente della Spd Müntefering e il candidato cancelliere Steinmeier sono persone legate a doppio filo all'ex cancelliere Schröder. Dovrà venire la prossima generazione di politici, e poi vedremo che succede. Bisogna avere pazienza. Se ci mettiamo a strisciare ora e a chiedere favori allora salta tutto. La sicurezza, la consapevolezza nei nostri mezzi è il nostro punto di forza e li porterà a noi, passo dopo passo. Sono in politica dal 1990 e ora me ne intendo un pochino. So a quali errori si può andare incontro».
Ma la forza della Linke non è anche nella debolezza della Spd?
«Il fatto che noi siamo potuti crescere così in fretta dopo la caduta del socialismo reale, a differenza di altri partiti socialisti in altri paesi europei, dipende dal fatto che la Spd non è più socialdemocratica. La gente ha bisogno di una forza sociale a sinistra della Spd».
Il passo indietro del candidato governatore della Linke in Turingia, Bodo Ramelow, che la settimana scorsa aveva detto di essere pronto a rinunciare al posto per facilitare la nascita della prima coalizione rosso-rosso-verde, è stato osteggiato da lei e dal suo partito. Perché? Non sarebbe un risultato importante?
«Cosa sarebbe importante? Che il risultato elettorale non venga più tenuto in debito conto? Anche se avessimo il 40% e la Spd il 5% vorrebbero decidere comunque chi fa il governatore. Così diremmo agli elettori: "Non c'è bisogno che ci eleggiate, votate direttamente la Spd". Con il 10% ce lo prendiamo lo stesso un ministro. Non deve pensare al singolo caso, ma a cosa significa per il futuro: per le prossime elezioni la gente non sarebbe più interessata al nostro candidato, perché tanto non verrebbe eletto. Comunque trovo quel che è accaduto interessante: il candidato della Spd Matschie ha detto di non essere interessato alla proposta di Ramelow, perché vuole governare. Ora a lui la scelta: non sarà governatore né con noi né con la Cdu, ma con la Linke potrà realizzare l'80% del suo programma, con la Cdu il 20%. Io prevedo che correrà dalla Cdu. E in questo senso nonostante tutto è una buona cosa che Ramelow abbia fatto quella mossa, così vi rendete conto che nemmeno la rinuncia serve a niente».
Liberazione 23.9.09
Processi sospesi. Immigrati, 3,5 milioni di residenti ma la crisi fa crescere l'intolleranza I pm: Nessuno è clandestino la norma è incostituzionale
di Stefano Galieni
Si chiama Ritai, è nata a Coassolo in provincia di Torino, da madre proveniente dal Marocco e padre egiziano. Ancora non se ne rende conto ma per le leggi italiane, in particolar modo per il pacchetto sicurezza (legge 94) è una pericolosa clandestina, meritevole di sanzione amministrativa ed immediatamente espellibile. Poco importa che Ritai compia il suo primo anno di vita il 23 gennaio prossimo e poco conta che la madre sia perfettamente regolare mentre il padre, psicologo che si è rassegnato a fare il giardiniere, lavori in Italia da 2 anni. Il suo è un percorso di quelli che stanno intasando le aule dei tribunali italiani, ha operato come assistente sociale presso la casa dello studente di Alessandria, si è sposato regolarmente in municipio ma quando ha provato a chiedere il permesso di soggiorno alla questura per motivi familiari, i funzionari, obbedendo alle nuove norme lo hanno dovuto denunciare. Durante l'udienza il Pm Paola Bellone, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della norma che incrimina il soggiorno illegale degli immigrati, per Ritai questa eccezione è accompagnata da una aperta violazione della Convenzione Onu per i diritti del fanciullo, ratificata dall'Italia nel 1989.
Dall'altra parte della penisola, al tribunale di Agrigento, è accaduto qualcosa di ancora più eclatante. Di fronte ad un processo che vede imputati 21 immigrati "rei" di essere sbarcati illegalmente, l'intera procura ha ritenuto di dover sospendere il procedimento demandando tutto alla Corte costituzionale. Numerose le perplessità sollevate dai magistrati: intanto "la scelta legislativa ha comportato la criminalizzazione di una condizione che fino all'entrata in vigore della norma era di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa". A detta del giudice il mancato rispetto delle norme sull'ingresso e sulla permanenza nel territorio dello Stato, non può essere di per se indice di "pericolosità sociale", la norma poi viola i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità. Del resto è opinione condivisa che in questo caso si è di fronte ad un palese mancato rispetto degli obblighi internazionali assunti dall'Italia in materia di immigrazione come il Protocollo dell'Onu sottoscritto a Palermo nel dicembre del 2000. «Si ritiene -a detta della procura agrigentina - che la norma impugnata, comportando l'incriminazione di persone che si trovano in una condizione in relazione alla quale si è assunto l'impegno di assisterle e proteggerle, versi in una contraddizione vistosa e insanabile». Le decisioni assunte ieri a Torino e ad Agrigento si aggiungono a quelle di procure che hanno ritenuto opportuno sollevare simili eccezioni. È il caso di Bologna ma è soprattutto il caso di Pesaro, primo tribunale che ha sollevato la questione riprendendo le stesse perplessità che avevano portato ad una lettera del Capo dello Stato che accompagnava la ratifica della legge 94. Il procedimento di Pesaro, a carico del cittadino senegalese Diouf Hibraima, è degno di essere raccontato per la sua carica di surrealismo giuridico. Arrestato il 18 giugno, prima dell'entrata in vigore del pacchetto, non poteva né essere espulso - non aveva con se documenti validi - né trattenuto in un Cie - non c'erano posti liberi. In prima istanza al signor Diouf veniva chiesto l'impossibile: tornare nel proprio paese con i mezzi propri senza avere i documenti per poter rientrare, in un contesto in cui neanche la forza pubblica poteva procedere, per le stesse ragioni al rimpatrio. Il signor Diouf, raccogliendo anche tutti gli elementi di criticità espressi da ampi settori del mondo giuridico nonché dell'associazionismo, è stato assolto da ogni reato per tutto il periodo di permanenza irregolare che va dal giorno dell'arresto a quello dell'entrata in vigore del reato di clandestinità, 8/8/2009. Per il resto, ritenendo recepibili le eccezioni sollevate dalla difesa la procura ha anche in questo caso rinviato gli atti alla Corte costituzionale, in attesa di un parere di costituzionalità. E se da una parte il sottosegretario al ministero dell'interno Alfredo Mantovano spara a zero contro quei settori della magistratura che si rifiutano di applicare la legge, considerandolo un problema squisitamente politico (le solite toghe rosse) dall'altra si va verificando quello che tutti temevano. I tribunali si stanno intasando di "procedimenti fantasma". Solo in un mese e mezzo i fascicoli relativi al reato di clandestinità, si sono decuplicati e si tratta di processi che quando verranno celebrati difficilmente vedranno gli imputati presenti, una mole inutile di lavoro che non porterà neanche ai decantati risultati promessi rispetto alla lotta alla clandestinità.
Nel frattempo da un rapporto dell'Ocse emerge un quadro della situazione dei migranti sempre più sfavorevole. Schiacciati dalla crisi, raramente regolarizzati dai datori di lavoro, in paesi in cui cresce il razzismo e il conflitto sociale orizzontale, sono i primi a pagare e gli ultimi a poter sperare.
l’Unità Firenze 24.9.09
Sollicciano sfiora quota mille: digiunano garante e radicali
di Silvia Casagrande
Sciopero della fame e della sete anche per una detenuta bisognosa di cure mediche
Corleone scrive a Ionta: «Mantenere gli impegni presi con i detenuti quest’estate»
Delle promesse fatte il mese scorso dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per sedare la rivolta dei detenuti, si sono viste finora solo la doccia domenicale e la possibilità di comprare un gelato al giorno.
SILVIA CASAGRANDE
FIRENZE fircro@unita.it
L’aveva annunciato prima dell’estate e ora, purtroppo, sarà costretto a farlo. Sollicciano ha (quasi) toccato quota mille detenuti (siamo a 993) e il loro garante Franco Corleone ha iniziato lo sciopero della fame: «Digiunerò per protestare contro il sovraffollamento della struttura, che a regime dovrebbe ospitare 483 reclusi». Con lui, ma solo per oggi, anche i senatori radicali Poretti e Perduca: «Da tragica la situazione si fa disperata e non ci sarebbe da stupirsi se assisteremo ad azioni che non dovrebbero accadere in un paese civile».
PRIVI DI DIRITTI
Anche dentro le mura del carcere fiorentino c’è qualcuno costretto ad intraprendere lo sciopero della fame e della sete per far sentire la sua voce. È il caso di una quarantenne che 10 mesi fa ha subito un intervento per un carcinoma alla gola e da allora è completamente afona, anche perché «all’interno del penitenziario non riceve le cure adeguate», spiega il consigliere di Sinistra per Firenze Eros Cruccolini che ha raccolto il suo appello: «Chi è privato della libertà perché ha commesso un reato, non può e non deve essere privato del diritto alla salute. Mi sembra anacronistico aggiunge che nel 2009 si debba ricorrere ad azioni come queste per ottenere un diritto sacrosanto».
LE RICHIESTE DEI DETENUTI
Le storie personali fanno solo da cornice a una situazione generale preoccupante, che quest’estate fece scoppiare la protesta dei detenuti, allora sedata con una serie di promesse da parte del capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Promesse realizzate in minima parte: «È offensivo pensare di aver risolto la questione con una doccia in più e la possibilità di acquistare un gelato al giorno», spiega il garante, che con una lettera ha ricordato a Ionta gli impegni presi: «Servono una nuova cucina, l’allargamento dei passeggi e la chiusura della Casa di cura e custodia femminile, dove su 15 solo 2 detenute sono toscane, oltre al permesso di chiamare i familiari ai telefoni cellulari».
LE REGIONI DEL SOVRAFFOLLAMENTO
E a chi invoca la costruzione di nuove carceri, Corleone risponde
Le richieste
Servono una nuova cucina e l’allargamento dei passeggi
come sempre ricordando la composizione della popolazione carceraria: «A Sollicciano il 38% dei detenuti sono tossicodipendenti, di cui 253 donne. Per loro la legge prevede un percorso alternativo alla detenzione attualmente inesistente». Da qui il progetto pilota, già sottoposto alla Regione e in attesa di finanziamenti, di trasferire cento detenuti tossicodipendenti da Sollicciano a comunità di recupero specializzate.❖
Liberazione 23.9.09
Presentata ieri la ricerca sul campo di Ristretti orizzonti
Carcere, fabbrica di suicidi, detenuti orfani della politica
di Paolo Persichetti
«Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica», scriveva Jean Baudrillard. Forse è per questo che in carcere ci si toglie la vita con tanta frequenza. Perché è rimasto uno dei luoghi dove permane ancora l'osceno, dove il sesso è vietato e la morte fa compagnia. Come si conciliano i decessi in carcere dovuti alla malasanità, all'alto numero di suicidi, oppure le migliaia di atti di autolesionismo e scioperi della fame col dettato costituzionale che cita espressamente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e le finalità rieducative della pena? Per chi conosce il mondo opaco degli universi concentrazionari: carceri, centri d'identificazione ed espulsione, Opg e sezioni psichiatriche dove si praticano Tso senza controllo e sono tornati in auge i letti di contenzione in spregio della riforma Basaglia, la domanda può apparire fin troppo logora, un esercizio di svogliata retorica. Il volume edito da Ristretti orizzonti, In carcere: del suicidio e altre fughe , scritto a due mani da Laura Baccaro e Francesco Morelli (lei, psicologa e criminologa, lui, animatore del sito www. Ristretti orizzonti.it ), ha il merito di restituire appieno la capacità di scandalo, l'indignazione della prima volta. Corredato con una serie di appendici storiche, normative e statistiche, il volume affronta il tema del suicidio seguendo un approccio socio-psicologico accompagnato da una ricca documentazione e una folta serie di testimonianze pescate dall'archivio di Ristretti orizzonti . Se ne è discusso ieri in occasione di una conferenza stampa tenutasi presso la Camera dei deputati, presenti Ornella Favero responsabile di Ristretti Orizzonti , Rita Bernardini, deputato radicale-Pd, Luigi Manconi ex sottosegretario alla Giustizia, Luigia Pulla, direttrice dell'ufficio studi dell'amministrazione penitenziaria e altri. Assenti, nonostante fossero i padroni di casa, i poco onorevoli deputati. L'argomento ha già perso d'interesse per il ceto politico-istituzionale (ammesso che l'abbia mai avuto) nonostante lo scorso Ferragosto ci sia stata la più grossa visita parlamentare negli istituti di pena dal dopoguerra. Proprio quella visita aveva consentito di aggiornare i dati sui decessi all'interno delle carceri, 53 (di cui 33 suicidi) dall'inizio dell'anno e almeno 4 mila gli atti di autolesionismo segnalati dall'inizio del 2008. Ultimo l'episodio, che ha avuto una certa eco sui quotidiani nazionali, quello di Sami Mbarka Ben Gargi, il 41enne tunisino morto alla fine di un lungo sciopero della fame avviato per protestare contro una condanna che riteneva infondata. Il fatto che all'interno delle carceri ci si tolga la vita con più frequenza che nella società esterna è un dato abbastanza intuitivo, non ci vuole molto per capirlo. Esistono tuttavia studi scientifici che fin dalla fine dell'Ottocento ne comprovano la fondatezza. Da allora la domanda rimane più o meno la stessa: quali sono le cause che favoriscono lo scatenamento del comportamento suicidario o autolesionista, di fronte ai mutamenti architettonici e normativi che hanno modificato la vita carceraria? Quanto può incidere il sovraffollamento attuale? Il degrado delle condizioni dirette e indirette, la riduzione degli spazi di vita, 3 metri a testa (anche meno in alcune situazioni) invece dei 6-7 abituali, le minori opportunità di lavoro, di spazi di socialità, di colloqui, l'assistenza sanitaria già carente che va in tilt, l'impossibilità per gli operatori (educatori e psicologi ridotti al lumicino) di seguire il trattamento e quindi di presentare dossier che reggano al vaglio di magistrati di sorveglianza sempre più maldisposti a concedere benefici, quanto pesa? Molto moltissimo. Ma c'è un dato che più d'ogni altro sorprende: l'esplosione dei suicidi segue il varo della riforma carceraria. Un terzo in meno prima della riforma e un numero di tentati suicidi e gesti di autolesionismo 14 volte superiore dopo. Gli autori trovano una spiegazione nei mutamenti sociologici intervenuti nella popolazione detenuta, oggi più fragile (alto numero di tossicodipendenti e stranieri); i mutamenti culturali (suicidarsi è meno disonorevole); la frantumazione della coesione; la struttura monocellulare che ha sostituito le camerate e quindi introdotto più solitudine. Rilievi socio-culturali importanti che ricordano in parte le modificazioni che hanno travolto la classe operaia. Ora questi cambiamenti, sovrapposti alle innovazioni normative, delineano un qualcosa che sa molto di politico. La Gozzini (1986) ha spezzato lo sviluppo di rivendicazioni collettive, rendendo la detenzione una vicenda fondamentalmente singola, "privata", legata a una logica premiale, paternalistico-inquisitoriale. L'aggressività o il conflitto hanno così mutato di segno rivolgendosi contro degli attori, i detenuti, divenuti soggetti nel senso di assoggettati. La fine della parola politica, della stagione delle lotte carcerarie ha lasciato come unica via l'impolitica dei corpi.
Repubblica 24.9.09
L´intervento di Stefano Rodotà oggi al Festival del diritto di Piacenza
La frontiere incerta tra pubblico e privato
di Stefano Rodotà
Dalla condivisione dell´intimità su Facebook alla più ridotta aspettativa di privacy per i politici la sfera personale e quella collettiva non sono più in un´alternativa secca
Più mobile che in passato, e ancora più incerta, appare oggi la frontiera tra pubblico e privato, fino a far dubitare che questa distinzione possa ancora essere proposta. La sfera dei media sembra sfuggire alla presa di queste categorie, contiene tutto e il contrario di tutto, e tutto proietta in una dimensione di crescente visibilità. La sfera globale, dove scompaiono o diventano opachi i poteri dei grandi soggetti pubblici, degli Stati nazionali, annuncia la privatizzazione del mondo. Ma una alternativa secca appare spesso improponibile. Nascono nuove formule - "privato sociale", "pubblico non statuale" - che scardinano gli assetti tradizionali. E, sempre più impetuosa, compare la "ragionevole follia" dei beni comuni. Né pubblico, né privato, allora?
Oggi non si possono seguire gli itinerari di Riesman o Sennett, che disegnavano processi lineari, con il prevalere ora dell´una, ora dell´altra logica. Se pure è vero che il privato invade il pubblico, che nella sfera pubblica il personale sostituisce l´impersonale, non si può poi concludere che il privato rimane sempre identico a se stesso. Un altro "privato" è davanti a noi, conosce il bisogno imperioso dell´apparire, si fa governo. E questo impone di ridefinire l´intero quadro di riferimento.
Si va su Facebook per essere visti, per conquistare una identità pubblica permanente. Si alimenta il "pubblico" per dare senso al "privato". Viviamo continui passaggi dall´intimité a quella che Lacan ha chiamato l´extimité: una intimità "esteriorizzata" che non connota soltanto il bisogno di guadagnare una ribalta costi quel che costi, ma rende possibili nuove forme di comunicazione sociale o politica.
In presenza di una sfera pubblica nutrita di spettacolo, di personalizzazione, le figure pubbliche accettano questa logica come una via obbligata per "promuovere" la propria immagine, per guadagnare consenso. Ma, imboccata questa strada, non si può pretendere un diritto all´autorappresentazione, che farebbe nascere una contraddizione tra la scelta di chiedere il consenso attraverso la spettacolarizzazione del privato e la pretesa di fornire un´immagine di sé costruita attraverso selezioni delle informazioni. Se chiedo di essere legittimato e giudicato per quel che sono, non posso poi proporre una immagine falsificata, che inquinerebbe quel giudizio su chi ha funzioni pubbliche che costituisce un elemento essenziale del processo democratico.
Si fa così più impegnativa la definizione della democrazia come "governo in pubblico". Non soltanto il passaggio da figura privata a figura pubblica determina una più ridotta aspettativa di privacy per i politici, per chi ricopre cariche pubbliche, ma si costruisce un nuovo circuito per il controllo del potere, fondato sulla trasparenza, sulla luce del sole come "miglior disinfettante", che attribuisce alla conoscenza dei cittadini una funzione essenziale, e così accentua il ruolo "pubblico" del sistema dell´informazione.
Ma, appunto, non siamo di fronte a processi lineari. Mentre la società della comunicazione presenta il suo conto, poteri vecchi e nuovi elaborano strategie di difesa, si trasferiscono in luoghi sottratti all´occhio del pubblico. Ricompaiono gli arcana imperii, che possono assumere la forma di un modello matematico, di un algoritmo che governa le attività finanziarie. Di questo mondo, privato e opaco, abbiamo avuto diretta nozione con l´esplodere della crisi economica, che ha rivelato la distruttiva privatizzazione di un potere che, esteso sull´intero pianeta, si è sostituito ad ogni altro. E così il pubblico è dovuto correre in soccorso del privato, con un ritorno ad una "privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite". La tardiva riscoperta di un bisogno di regole pubbliche obbliga a ridisegnare un territorio che si riteneva definitivamente assegnato a poteri privati.
Proprio qui s´innesta la questione dei beni comuni, dell´acqua e dell´aria, dell´ambiente nel suo complesso. "Il grande campo di battaglia sarà la proprietà" - aveva scritto, con parole presaghe, Alexis de Tocqueville, svelando la fragilità di un assetto il cui equilibrio era stato fondato su una divisione di compiti: "al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l´impero". Quel conflitto continua, e si è trasferito al mondo dei beni immateriali, alla conoscenza. L´oggetto della contesa non sono più soltanto beni scarsi (la terra, in primo luogo), ma l´ininterrotta produzione di conoscenza che ha in Internet il suo luogo di elezione. Qui la scarsità non è più naturale, ma prodotta da tecniche che limitano la libertà di accesso, determinando processi impropri di privatizzazione. Le regole pubbliche non possono limitarsi ad affermare che l´accesso alla conoscenza è un diritto fondamentale della persona se, poi, troppi contenuti non sono liberamente accessibili. Il centro dell´attenzione, allora, diviene appunto quello dei beni comuni. Non si può consegnare ai cittadini una chiave che apre una stanza vuota.
Continui conflitti di potere accompagnano la ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato. Molti sono i protagonisti di questa vicenda, ma è bene ricordare la radicalità con la quale le implicazioni profonde del tema sono state svelate dal pensiero delle donne. Non è solo una formula perentoria - "il personale è politico" - che torna alla memoria. Sono le molte vicende di questi tempi a inquietare, con la pretesa di ridisegnare il privato e il pubblico delle donne in forme che prospettano il primo come una prigione e l´altro come una subordinazione.
Corriere della Sera 24.9.09
L’indagine Identikit di 15 mila insegnanti appena assunti in otto regioni fatto dalla Fondazione Agnelli
La paura di insegnare dei nuovi professori
Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato
di Gabriela Jacomella
I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio. Ma il 95% non tornerebbe indietro
Hanno appena firmato un contratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — soprattutto di questi tempi — dovrebbe aiutare a mettere da parte una buona dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella.
Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragazzi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’adeguata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppicante con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecnologie: alle scuole superiori, addirittura il 49% riconosce di avere un rapporto non facile con computer e Web.
Ritratto di insegnanti in un interno, quello della scuola italiana ai tempi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritratto accurato, perché le pennellate sono davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al numero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al questionario di 223 domande diffuso dalla Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e ancora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Complessivamente, 16.000 insegnanti neoassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalissimo tocco di pennello.
Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intorno alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compilati — ammette con un certo orgoglio Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione e tra i coordinatori del lavoro — significa di gran lunga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeterminato se ne sentono poche. Qui, invece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stiamo parlando del più grande fenomeno italiano di immissione a tempo indeterminato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sapeva bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne conosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...».
I titoli di studio, ecco. Quella laurea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamente, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuovi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fondo del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoassunti arrivano, per la metà, dalle graduatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, negli anni, moltissimi altri colleghi. L’altra metà, invece, viene dalle graduatorie ad esaurimento, in questo momento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diverse, con regolamenti diversi». Insegnanti del futuro, ma già da rottamare? Certo che no, anzi: «Stiamo parlando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, hanno una buona esperienza e un’anzianità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inadeguata ».
Perché poi, in questo quadro a forti chiaroscuri che ritrae l’ultimo battaglione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — conferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice insieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rappresentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfazione agli insegnanti. Nonostante alcuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di precariato ».
E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfazione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il riconoscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Puglia.
Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi»
E va sotto il nome di «difficoltà nell’insegnare ». Una sensazione «in aumento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italiani inizino a sentirsi fortemente inadeguati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un divario generazionale, tecnologico, di vita e di apprendimento, e loro non sentono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuovamente) alla mano, nelle scuole superiori: il 63% degli intervistati confessa problemi nel gestire la multiculturalità in classe, il 55% non sa interagire come vorrebbe con i genitori. Persino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso.
«Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di oggi ». E in questo senso, la programmazione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiettivo per il Paese dovrebbe essere investire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella pedagogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicendo esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto.
il Riformista 24.9.09
«Senza l'Islam l'Europa perde un po' d'anima»
Mohammed Bennis intervistato da Antonello Guerrera
MOHAMMED BENNIS. Intervista con lo scrittore marocchino, appena ripubblicato in Italia da Donzelli. Dai danni della globalizzazione al futuro del Vecchio Continente. «L'Ue accentua l'odio nel Mediterraneo». E ancora: «Chi ha paura della Turchia nell'Unione ha paura di se stesso». Considera la mancata elezione di Hosni all'Unesco «un'occasione persa».
Cristiani ed islamici, uniamoci per vivere meglio. È l'appello di Mohammed Bennis, 61enne scrittore e poeta marocchino tra i più famosi del suo continente, ora riedito in Italia grazie a Donzelli editore con Il Mediterraneo e la parola (128 pp., euro 14). Bennis ha pubblicato oltre venti opere, tradotte in tutta Europa, è stato l'ideatore della Giornata della Poesia dell'Unesco, che si celebra ogni anno il 21 marzo, con lo scopo di stimolare il dialogo attraverso la poesia. Proprio il dialogo e la tolleranza tra i popoli del Mediterraneo - sempre più divisi e lacerati secondo l'autore - oltre ogni differenza etnica e religiosa, è uno dei punti cardini dell'opera ultima pubblicata da Donzelli. In questi giorni, Mohammed Bennis è in Italia e il Riformista ha colto l'occasione per intervistarlo.
Lei ha vinto numerosi premi, è uno dei poeti più famosi d'Africa. Ha cominciato a scrivere giovanissimo a 17 anni. Cosa rappresenta per lei la poesia e a chi si è ispirato per i suoi libri?
Per me la poesia è sempre stata attaccamento alla vita, sin da giovane, attraverso i versi ho trovato la forza di resistere a tutte le forme della morte. Non posso separarmene, per lei ho abbandonato tutto e mi hanno considerato pazzo per questo. I grandi poeti sono la mia famiglia, non mi tradiscono mai. Di questa mia personalissima cerchia fanno parte diversi scrittori africani come Chabbi, Gibran Khalin e Al Moutanabi. Mentre per quanto riguarda gli scrittori occidentali potrei citare Nietzsche: Così parlò Zarathustra mi ha insegnato il senso della libertà, da quel momento sono diventato un ribelle, ma allo stesso tempo cosciente della responsabilità della poesia. E poi altri classici: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Mallarmé, Hölderlin, Rilke, Lorca. E, sempre da giovane, ho scoperto anche Dante, che considero uno dei più grandi maestri per visione della vita e senso vitale della poesia, perché quest'ultima, come ha fatto con me, ha salvato la vita anche al più grande autore italiano. I poeti sono molto rari, ma per fortuna hanno un popolo che li ascolta.
A questo proposito, oggigiorno da più parti la poesia viene considerata morta o, perlomeno, in stato comatoso. Secondo lei cosa può ancora comunicare la poesia, che in "Il Mediterraneo e la parola", lei difende strenuamente? Lei scrive addirittura di «resistenza» in tal senso e di rischio, altrimenti, di «mutismo collettivo».
Quelli che dicono che la poesia è morta sono i nemici della letteratura. Oggi domina la letteratura mediatica, che segue la politica del mercato. Non c'è che dire, siamo molto lontani dalle grandi avventure letterarie degli ultimi secoli, quando la poesia ancora si ritagliava il suo legittimo spazio. Perché è un genere letterario che agisce segretamente, non sappiamo veramente cosa fa, come agisce. E poi è grazie alle poesia che le lingue esistono. Se sparisse, la parola umana, quella quotidiana, si dileguerebbe perché unidimensionale. È la poesia che veglia sul senso della parola, solo nella poesia si ritrova il senso infinito della parola.
Dal suo punto di vista, qual è la più grande differenza tra poesia occidentale e quella araba?
Le grandi esperienze versificatorie si rifanno allo stesso livello di qualità, non c'è comparazione tra i grandi di culture diverse. L'importante in queste tradizioni è di avere sempre un rapporto col corpo e col pensiero. Se proprio vogliamo trovare una differenza, una caratteristica della poesia arabo-orientale è il marcato rapporto con il corpo, che è una relazione sempre viva, sempre presente. Mentre invece nella tradizione occidentale il pensiero è spesso al centro di tutto. Personalmente credo che la poesia sia la lingua del corpo, perciò mi ritrovo nella tradizione sensibile e corporea.
Nella sua opera si scaglia contro la globalizzazione, secondo lei deleteria per la cultura. Perché tanto astio?
Il problema della globalizzazione è che vuole sottomettere tutta l'umanità ai regimi dell'economia e dell'informazione. Vuole sopprimere l'essenziale della vita umana, vuole fare di ciascuno di noi una sola persona affinché risponda alla domanda del mercato. L'essere umano invece è molto più grande e la sua immaginazione lo eleva dal piattume. La globalizzazione genera la chiusura in noi stessi. È la parola che non parla più.
Nel suo libro definisce «ignorante» chi afferma che le radici dell'Europa non si possono ritrovare solo nei valori giudaico-cristiani. Perché?
No, mi faccia chiarire bene questo punto. È vero che prima del Medioevo l'Europa poteva definirsi giudaico-cristiana, ma l'Europa moderna, nata dal Rinascimento italiano, era un continente in serrato dialogo con la cultura arabo-islamica. Lo stesso Dante è figlio di questo rapporto interculturale ed è assolutamente incomprensibile che si continui ad ignorare la storica e decisiva influenza islamica in Europa. Tutti i malesseri della nostra società nascono da questa incomprensione. Se invece avesse luogo il riconoscimento di questa commistione culturale, il rapporto tra cristiani e islamici potrebbe avviarsi verso la normalità e la tolleranza. Perché la cultura è lo spazio della verità.
Quindi immagino che lei veda di buon occhio l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea...
Ma certo, perché no? Per me la Turchia è già europea. Per come conosco i turchi, il loro stile di vita è molto simile a quello degli europei. Chi ha paura di far entrare la Turchia nell'Ue ha paura di se stesso. In alcune zone, per quello che ho visto, Roma somiglia a Pechino. Oggi ero a Piazza Navona e (agita le braccia verso l'alto, ndr) c'erano esclusivamente stranieri. Quindi perché sbarrare la strada ai turchi? I politici non hanno più immaginazione, solo gli artisti possono darci un'idea vera e moderna dell'Europa e dell'area mediterranea. Ben venga Obama che, al contrario di molti altri, dà grande spazio all'immaginazione e alla cultura.
In questo senso, che ne pensa delle politiche migratorie dell'Ue?
L'approccio europeo nei confronti dei paesi arabi del Mediterraneo non ha coscienza del futuro, non fa altro che accentuare l'odio e favorisce gli spiriti deboli. Invece, il Mediterraneo è lo spazio della nostra vita comune, lo è stato e dovrebbe esserlo sempre di più, senza timori di lingue o etnie differenti. Per questo difendo la sua dimensione culturale.
Lei è stato l'ideatore della Giornata della poesia dell'Unesco. Che ne pensa delle accuse di antisemitismo rivolte al ministro della Cultura egiziano Farouk Hosni e della sua mancata elezione alla presidenza del massimo organismo culturale a livello mondiale?
Sia ben chiara una cosa. Non sono favorevole a Hosni come persona in se per sé, ma la dura opposizione contro di lui nascondeva anche l'astio nei confronti del mondo arabo, perché questo aspetto è stato sottolineato più volte. Ad ogni modo, penso che purtroppo abbiamo perso un'occasione unica: un egiziano a capo dell'Unesco avrebbe giovato a tutte le culture per un riavvicinamento tra popoli che oggi sono in conflitto, almeno ideologico.
Ma non pensa che forse Hosni non fosse la persona giusta, visto il suo background e ultima la rivelazione sull'Achille Lauro...
A volte si accettano tutte le sconfitte per ottenere una sola importante vittoria. Qui non si trattava della vittoria di Hosni ma, al contrario, della concessione del diritto di parola al cosiddetto "Altro". Che così rimane sconosciuto e, ancora una volta, dimenticato.
l’Unità 24.9.09
Com’era colorata e meticcia la pittura romana
Non era un mondo di immagini in bianco. Dal voluttuoso abbraccio tra Polifemo e la nuda Galatea agli enigmatici ritratti di uomini e donne dall’oasi del Fayyum in Egitto, nell’impero romano esteso dalla Spagna alla Siria dipingevano molto e bene e con una varietà di colori e una fantasia oggi ignorate: pensiamo infatti la cultura classica come una infinita sequenza di statue in marmo bianco e non era affatto così. Lo prova «Roma. La pittura di un impero», mostra aperta da oggi al 17 gennaio alle Scuderie del Quirinale a Roma, curata da Eugenio La Rocca e allestita da Luca Ronconi e Margherita Palli. Dove un centinaio di pitture murali dal III secolo a. C. al II d.C. dispiega superfici dipinte a rosso cinabro, azzurri, scene di amplessi e riti sacri, fantasie architettoniche e nature morte. Quest’arte suggerisce il direttore dei Musei Vaticani Paolucci è solo l’eco della straordinaria ma irrimediabilmente scomparsa pittura greca del V e IV secolo a. C. e nasceva dalle genti dell’impero: «tra facce mediorientali, negre, egizie, germane, da quel meticciato che ha fatto l’Europa moderna». STE. MI.
Repubblica 24.9.09
Ma come mai qui sono tutti bianchi?
Caro Direttore, i miei figli hanno 12 e 9 anni. Vivono a Milano da due mesi. Tutti, bambini e genitori, li vogliono come compagni di classe, di giochi, di compiti. Eppure avevo sentito che i bambini stranieri sono considerati un "problema" nelle scuole italiane. I miei figli parlano un italiano approssimativo. I loro compagni di classe cinesi o arabi non suscitano tanto entusiasmo. Dimenticavo, i miei figli si esprimono in inglese. Sono cresciuti a Toronto. Di fronte a loro, a noi in generale, come famiglia, ogni barriera si abbatte, gli italiani si mettono in ginocchio pur di scambiare quattro parole.
Hanno la cittadinanza italiana perché io, la madre, sono italiana naturalizzata canadese. Ma il loro passaporto diventa un dettaglio per gli ammiratori che ignorano e non si curano della loro italianità anagrafica. Parlano in inglese, fra loro e con noi, quindi sono degli dei.
Dovrebbe farmi piacere, tutto questo interesse, e sono molto contenta che questo elemento stia di fatto facilitando la loro integrazione. Eppure mi fa anche tristezza constatare il provincialismo di cui è frutto.
Immersa in una società davvero multietnica, dove la diversità è un pregio da esibire, sono abituata ad apprezzare ogni seconda lingua, ogni seconda cultura. Invece constato qui che i miei figli sono accolti meglio di bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri, che per i miei parametri sono italianissimi, ma che hanno occhi a mandorla o la pelle scura.
Parlando con un bambino italiano è emerso che sua madre è marocchina. «Sei fortunato – gli ho detto – puoi imparare l´arabo. Cerca di non dimenticarlo mai ed esercitati perché sarà una competenza molto richiesta in un mondo del lavoro che darà l´inglese per scontato». Il padre, italiano, del ragazzino, mi ha guardato come fossi un´aliena, al punto che ho pensato di aver toccato un tasto doloroso: forse la madre era deceduta o divorziata e lontana. «Non gliel´ha mai detto nessuno - mi ha spiegato riferendosi al figlio che, ha aggiunto - non solo non esibisce mai questa capacità linguistica , ma addirittura la tiene nascosta».
Spingere la gente o peggio, i bambini, a vergognarsi della propria identità non porterà a nulla di buono. A Toronto è esattamente l´opposto. L´esaltazione della diversità è tale che sono i ragazzi "solo" anglosassoni a sentirsi obbligati, per apparire "cool", a fingere di avere una parentela italiana, portoghese o giamaicana. Il Canada è ben lontano dall´essere il paradiso sulla terra che molti pensano, ma in termini di politiche per l´integrazione dovrebbe essere una scuola obbligatoria per ogni amministratore e politico italiano che abbia a cuore il conseguimento di una società pacificata e più vivibile per tutti.
Mentre mi cimento a spiegare ai miei figli l´analisi grammaticale e l´educazione tecnica, mi chiedo anche quando la scuola italiana entrerà nel terzo millennio. Dov´è l´educazione ambientale, l´esposizione al multiculturalismo, la valorizzazione per esempio delle lingue e delle culture rappresentate in ogni classe? A Toronto non so nemmeno quanti fossero i figli di immigrati tra i compagni di scuola dei miei figli. Prima di tutto i bambini erano tutti considerati canadesi. Ogni giorno, inoltre, i programmi offrivano loro decine di occasioni per essere fieri della loro lingua polacca, o farsi, portoghese o italiana.
Una domanda molto frequente che i bambini canadesi si rivolgono quando si incontrano in un parco non è «come ti chiami?», ma semmai «e tu che lingua parli a casa?». In un clima di questo genere l´essere straniero non può essere un problema.
Sono certa che i miei figli acquisiranno una cultura più solida, dal punto di vista umanistico, nella scuola dell´obbligo piuttosto che in una nordamericana. Ma l´esposizione alla diversità e l´insegnamento che hanno ricevuto dalla scuola canadese, è ineguagliabile. Al punto che , ricorderò sempre una vacanza in Italia di cinque anni fa, quando scoprii che per mio figlio, allora di otto anni, una società omogenea era una menomazione, un´anomalia che ovviamente non poteva essere naturale. «Mamma – mi disse – non vorrei offenderti, ma mi sembra che siano tutti bianchi qui… Cosa avete fatto agli altri?».
Irene Zerbini