venerdì 25 settembre 2009

l’Unità 25.9.09
Antigone. Prima l’amore poi il dovere
di Simone Weil


L’anticipazione A Tebe la protagonista del dramma di Sofocle antepone la fedeltà al fratello ucciso all’ordine di patria imposto dal re: ecco il mito narrato dalla pensatrice per una rivista operaia francese degli anni Trenta

Obbedienza. La fedeltà al fratello sconfitto è più forte di quella alla patria

Al re: «È proprio perché ho fatto il bene che mi fa tanto male...»

Sono passati circa duemilacinquecento anni da quando in Grecia si scrivevano bellissimi poemi. Ormai, a leggerli, sono quasi soltanto coloro che si specializzano in questo studio, ed è un peccato. Perché questi antichi poemi sono talmente umani da essere ancora molto vicini a noi e possono interessare tutti. Sarebbero persino molto più commoventi per quanti sanno cosa significhi lottare e soffrire, piuttosto che per coloro che hanno trascorso la loro vita tra le quattro mura di una biblioteca.
Sofocle è uno dei più grandi tra questi antichi poeti. Ha scritto componimenti teatrali, drammi e commedie; di lui non conosciamo più che pochi drammi. In ciascuno di questi drammi, il personaggio principale è un essere coraggioso e fiero, che lotta da solo contro una situazione intollerabilmente dolorosa; è piegato dalla solitudine, dalla miseria, dall’umiliazione e dall’ingiustizia; alle volte il suo coraggio si spezza; ma tiene duro, e non si lascia mai abbattere dalla sventura. Così questi drammi, benché dolorosi,
non lasciano mai un’impressione di tristezza. Resta piuttosto una sensazione di serenità.
Antigone è il titolo di uno di questi drammi. Il soggetto del dramma consiste nella storia di un essere umano che, completamente solo, senza alcun sostegno, entra in contrasto con il proprio paese, con le leggi del suo paese, con il capo dello Stato, e che naturalmente è subito messo a morte.
Ciò accade in una città chiamata Tebe. Due fratelli, dopo la morte del padre, si sono contesi il trono; uno dei due è riuscito a esiliare l’altro ed è diventato re. L’esiliato si è procurato degli appoggi all’estero; è ritornato per attaccare la sua città natale, a capo di un esercito straniero, nella speranza di rimpossessarsi del potere. C’è stata una battaglia; gli stranieri sono stati messi in fuga; ma i due fratelli si sono rincontrati sul campo di battaglia e si sono uccisi.
Il loro zio diventa re. Decide che i due cadaveri non verranno trattati allo stesso modo. Uno dei due fratelli è morto per difendere la patria; il suo corpo verrà sepolto con tutti gli onori opportuni. L’altro è morto mentre assaltava il proprio paese; il suo corpo sarà abbandonato sul suolo, lasciato in preda alle bestie e ai corvi. Bisogna sapere che, nella cultura greca, non esisteva peggiore sventura né peggiore umiliazione che l’essere trattati in questo modo dopo la morte. Il re comunica la sua decisione ai cittadini, e fa sapere che chiunque tenterà di seppellire il cadavere maledetto verrà punito con la morte.
I due fratelli morti hanno lasciato due sorelle che sono ancora due ragazze. Una di queste, Ismene, è una fanciulla dolce e timida come se ne vedono ovunque; l’altra, Antigone, ha un cuore amorevole e un coraggio eroico. Non può sopportare il pensiero che il corpo di suo fratello sia trattato in modo così disonorevole. Tra i due doveri di fedeltà, la fedeltà al fratello sconfitto e quella alla propria patria vittoriosa, non esita un istante. Si rifiuta di abbandonare suo fratello, il fratello la cui memoria è maledetta dal popolo e dallo Stato. Decide di seppellire il cadavere nonostante il divieto del re e la minaccia di morte.
Il dramma inizia con un dialogo tra Antigone e sua sorella Ismene. Antigone vorrebbe farsi aiutare da Ismene. Ismene è impaurita; il suo carattere la predispone più all’obbedienza che alla rivolta. (...) Agli occhi di Antigone, questa sottomissione è vigliaccheria. Agirà da sola. (...) Ci si accorge presto che qualcuno ha cercato di seppellire il cadavere; non si tarda a cogliere Antigone sul fatto; la si conduce davanti al re. Per lui, in questa situazione si tratta prima di tutto di una questione di autorità. La legge dello Stato esige che l’autorità del capo sia rispettata. In ciò che Antigone ha appena fatto, egli vede anzitutto un atto di disobbedienza. Vi scorge anche un atto di solidarietà a un traditore della patria. Per questo le parla duramente.
Quanto a lei, non nega niente. Sa di essere perduta. Ma non si turba nemmeno per un istante.
I tuoi ordini, secondo me, hanno meno autorità delle leggi non scritte e imprescrittibili di Dio. Tutti coloro che sono qui presenti mi approvano. Lo direbbero, se la paura non chiudesse loro la bocca. (...) Io non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore.
A queste parole commoventi, il re risponde con una condanna a morte:
E allora! Vai nella tomba, e ama i morti se hai bisogno d’amare.
Arriva Ismene; vorrebbe adesso condividere la sorte della sorella, morire insieme a lei. Antigone non lo permette, e cerca di calmarla.
LA CITTÀ È DI CHI COMANDA?
Il re fa portare via le due giovani. Ma suo figlio, che è promesso sposo di Antigone, va a intercedere presso di lui in favore di colei che ama. Il re vede in questo tentativo solo una nuova offesa alla sua autorità. Si adira violentemente quando il giovane uomo si permette di dire che il popolo ha pietà di Antigone. La discussione sfocia immediatamente in un litigio. Il re esclama:
Non spetta a me solo comandare questo paese?
Non esiste città che sia di un solo uomo.
La città non appartiene dunque a chi comanda?
Tu potresti ben regnare, a questo punto, da solo su un paese deserto.
Il re s’interstardisce; il giovane uomo s’infuria, non ottiene nulla, e va via disperato. Alcuni cittadini di Tebe, che hanno assistito al litigio, ammirano la potenza dell’amore. (...)
In questo momento appare Antigone, portata dal re. La tiene per le mani, la conduce alla morte. Non la ucciderà, perché i Greci credevano che portasse sventura versare il sangue di una giovane; ma farà di peggio. La seppellirà viva. La metterà dentro una caverna e murerà la caverna, perché agonizzi lentamente nelle tenebre, affamata e asfissiata. Non le restano più che pochi istanti. Adesso che si trova alle soglie della morte, e di una morte così atroce, la fierezza che la sosteneva si spezza. Piange.
Antigone non sente alcuna parola di consolazione. Coloro che si trovano là si guardano bene, in presenza del re, dal mostrare qualche segno di simpatia. Si accontentano di ricordarle freddamente che avrebbe fatto meglio a non disobbedire. Il re, con il tono più brutale, da l’ordine di affrettarsi. Ma Antigone non può ancora decidersi al silenzio:
Ecco che mi trascina presa nelle sue mani, me vergine, me senza sposo, me che non ho avuto la mia parte né del matrimonio né nell’allevamento dei bambini. (...) Quale crimine ho dunque commesso davanti a Dio? (...) Ah! È proprio perché ho fatto il bene che mi fanno tanto male. (...) Se sono loro che hanno torto non auguro loro dolori maggiori di quelli che mi fanno subire ingiustamente.
Il re perde la pazienza e finisce per trascinarla con la forza. Egli ritorna dopo aver fatto murare la caverna dove l’ha spinta. Ma sarà adesso il suo turno di soffrire. Un indovino che sa predire l’avvenire gli annuncia le più grandi sventure se non libera Antigone; dopo una lunga e violenta discussione, cede. Viene aperta la caverna, e Antigone è trovata già morta, perché è riuscita a strangolarsi; viene trovato anche il suo promesso sposo che abbraccia convulsamente il cadavere. Il giovane uomo si era lasciato murare volontariamente. Non appena intravede suo padre, si alza e, in un impeto di furore impotente, si uccide davanti ai suoi occhi. La regina, quando apprende il suicidio di suo figlio, si uccide a sua volta. Viene annunciata questa nuova morte al re. Quest’uomo che sapeva parlare così bene come capo crolla annientato dal dolore. E i cittadini di Tebe annunciano: Le parole altezzose degli uomini superbi si pagano con terribili sventure; è così che invecchiando essi imparano la moderazione.●

l’Unità Firenze 25.9.09
Congresso Pd, a Firenze l’exploit dei «mariniani»
I primi risultati
Soddisfatti i sostenitori del chirurgo che nel capoluogo «sfondano» il 20%. I franceschiniani confidano nei non iscritti, il sindaco di Piombino Anselmi si schiera con Bersani
di T.Gal.


I mariniani esultano a Firenze. I franceschiniani stanno alla finestra, in attesa delle primarie in cui voteranno anche i non iscritti al partito. I bersaniani incassano l’appoggio esplicito del sindaco di Piombino Gianni Anselmi e ricordano che, per ora, in Toscana sono oltre il 50%. È il bilancio, consuntivo e provvisorio, dei congressi del Pd ultimati nella regione.
A Firenze, svolti i primi dodici congressi in provincia, i sostenitori della mozione per Ignazio Marino segretario nazionale si dicono soddisfatti, attestandosi sul 20% dei voti (23% a Firenze città). Nei circoli della città, Marino va bene a Oltrarno (42%), Isolotto (28%), San Lorenzo (32%). Simone Siliani, candidato mariniano alla segreteria regionale, prende il 60% a San Bartolo-Firesole, il 43% a Oltrarno e San Lorenzo. «È stato capito il progetto rappresentato dalla nostra mozione. Emerge un bisogno di rinnovamento, per collegare il futuro della Toscana a politiche più avanzate», commentano questi primi risultati Siliani e Daniela Lastri, coordinatrice regionale della mozione.
Intanto, esce allo scoperto il sindaco di Piombino Gianni Anselmi. Che in una lettera dice la sua sul partito che vorrebbe, annunciando di sostenere Bersani a segretario nazionale ed Andrea Manciulli a segretario regionale. «Serve un partito forte e diffuso, sintonizzato con la società intera e non con segmenti di essa; un partito organizzato su livelli territoriali e responsabilizzato nei suoi gruppi dirigenti; circoli, tessere, militanza vera, presenza nei luoghi dove la società vive. Chi pensa di sostituire tutto questo con internet, un sorriso da starlette o il proprio supposto carisma sbaglia di grosso. Serve infine un partito aperto, che fa contare la società senza esserne subalterno e valorizzando il ruolo dei propri iscritti, senza confinarli al montaggio di feste e gazebo», spiega Anselmi. Secondo cui «un partito non organizzato non sopravvive al leader, ipotesi che consiglierei di lasciare al Pdl; ma ha comunque bisogno di una leadership solida. Per questo mi piace pensare a Pierluigi Bersani segretario del Pd, portatore di un’idea di partito radicato e popolare. Con la medesima convinzione non vedo soluzione migliore per la guida del partito toscano della conferma di Andrea Manciulli».❖

l’Unità Firenze 25.9.09
Legge clandestini. La Procura pronta a sollevare l’incostituzionalità
di Maria Vittoria Giannotti


Il procuratore: «Proporremo l'incostituzionalità dell'articolo 10 bis»
Presto contatti con i giudici togati e i giudici di pace
Contro la nuova legge si sono già pronunciati il tribunale di Pesaro, la procura di Bologna e i pm di Agrigento. Poi è stata la volta di Torino. Nei giorni scorsi si è tenuta una riunione negli uffici fiorentini di piazza Strozzi.
Dopo Bologna, Torino e Agrigento, è la volta di Firenze. Per ora è solo un’ipotesi di lavoro. Ma si tratta comunque di un’ipotesi piuttosto concreta. «Penso che ci sia spazio per sollevare una questione di legittimità costituzionale sulla nuova normativa relativa all'immigrazione. È un'ipotesi di lavoro che abbiamo in cantiere. Eventualmente, se decideremo di muoverci in questa direzione, solleveremo la questione in ordine agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione». L’annuncio arriva dal procuratore di Firenze, Giuseppe Quattrocchi. Nei giorni scorsi, negli uffici di via Strozzi, si è tenuta una riunione con il personale nel corso della quale sono state avviate alcune valutazioni sul testo unico sull'immigrazione alla luce degli aggiornamenti apportati con il cosiddetto pacchetto-sicurezza.
NEL MIRINO L’ARTICOLO 10 BIS
La procura di Firenze ipotizza di proporre al giudice l'incostituzionalità dell'articolo 10 bis sull'ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cittadini stranieri. «Prenderemo contatti di tipo informativo con i giudici togati e coi giudici di pace ha spiegato Quattrocchi cercando di rendere loro noto l'orientamento della nostra procura».La questione potrebbe essere sollevata davanti ai giudici togati in merito agli obblighi del soggiornante e all'ingresso e al soggiorno illegale in Italia; davanti ai giudici di pace rispetto al solo profilo della clandestinità.
I PRECEDENTI
Contro la nuova legge si sono già pronunciati il tribunale di Pesaro, la procura di Bologna e i pm di Agrigento. Poi è stata la volta di Torino. Anche qui, nei giorni scorsi, la Procura, dopo aver valutato a lungo la nuova normativa finendo per concentrare l’attenzione sull' articolo 10bis della legge che punisce con ammende sino a 10mila euro chi si trova senza permesso sul territorio nazionale è approdata alla conclusione che si configura un contrasto con il dettato della Costituzione. ❖

Repubblica 25.9.09
Sulla laicità il Pd dovrebbe imitare la Dc"
D’Alema ricorda De Gasperi e Moro: "i valori non si impongono per legge"
di Si. Bu.


ROMA - Massimo D´Alema vorrebbe che il Pd sulla laicità si comportasse come la vecchia Democrazia cristiana. Un auspicio rivelato ieri sera a Buonconvento, nel senese, durante un dibattito dal titolo "Ribelli di oggi e di ieri: c´è ancora voglia di cambiare il mondo?". «Un partito come il nostro deve essere l´erede della migliore tradizione democristiana in materia di difesa della laicità della politica e dello Stato», ha detto l´ex premier.
D´Alema ha spiegato di credere «nella laicità della politica, un convincimento che non deriva dalla tradizione comunista ma da quella democristiana. Non si può pretendere di imporre i propri valori con la forza delle leggi». E per chiarire meglio il concetto ha ricordato due democristiani del dopoguerra: Alcide De Gasperi e Aldo Moro.
Il primo, ha ricordato, nel 1952 disse no all´operazione Sturzo: una lista guidata dal fondatore del Partito popolare alleata con fascisti e monarchici per contrastare la lista socialcomunista alle elezioni comunali a Roma. Il secondo, aggiunge l´ex ministro degli Esteri, subito dopo il voto referendario sul divorzio del 1974, disse al Consiglio nazionale della Dc che «lo spirito del tempo ci invita a testimoniare con la forza dell´esempio piuttosto che con la forza delle leggi».
D´Alema ha anche detto che oggi il centrosinistra ha «bisogno di un partito vero, capace di formare e selezionare la nuova classe dirigente. Un partito che sappia mettere alla prova innanzitutto i giovani, facendoli crescere e sia in grado di formare la nuova classe dirigente». Dario Franceschini sembra quasi rispondere a D´Alema: «In tutta Italia ho trovato iscritti ed elettori, già mescolati tra loro, che sono tornati ad avvicinarsi a noi perché hanno capito che di mezzo non c´è solo il Pd ma anche la necessità di fare dura opposizione e di prepararsi a vincere. Tutti però hanno paura di una cosa: di essere fregati perché torniamo indietro. Se qualcuna delle vecchie identità prevalesse, qualcuno potrebbe non sentirsi più a casa».

Repubblica 25.9.09
Al Festival della Salute il senatore-chirurgo Marino con esperti di Usa, Gb e Svizzera
"Morte cerebrale, rivedere i criteri" l´appello dei medici dei trapianti
"Nella pratica i requisiti per gli espianti sono impossibili da applicare"
di Elena Dusi


VIAREGGIO - Nelle liste d´attesa per un trapianto ci sono quasi 100mila persone in Europa. Un panel internazionale di medici, riunito dal senatore-chirurgo del Pd Ignazio Marino nella giornata inaugurale del Festival della Salute di Viareggio, ha chiesto di rivedere i criteri della donazione. «Bisogna riconsiderare i requisiti per l´espianto degli organi. Applicarli nella pratica quotidiana è impossibile» si legge nella Carta di Viareggio, il documento approvato ieri dopo una giornata di discussioni sul quesito fondamentale cui nessuna legge nel mondo riesce a rispondere con chiarezza: come riconoscere il momento chiave in cui il medico può dichiarare lo stato di morte cerebrale e autorizzare l´espianto degli organi?
«Dobbiamo conciliare l´interesse di chi è arrivato alla fine della sua vita con quello di chi è in lista d´attesa per un trapianto» ha spiegato Marino, presentando il workshop internazionale "Morte cerebrale e donazione degli organi. Etica e scienza a confronto". Accanto a lui, esperti arrivati da Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera.
«Le linee guida degli ospedali sono troppo arbitrarie. La tecnologia medica è in costante evoluzione. Di fronte alla decisione di dichiarare la morte di un paziente mi ritrovo sempre in solitudine. E non sono mancati i casi in cui una persona che avevo data per spacciata abbia ripreso le funzioni vitali». Parole di Howard Doyle, direttore della Terapia intensiva del Montefiore Medical Center di New York.
Tutti i medici al lavoro sul sottile crinale tra vita e morte hanno raccontato i dilemmi di fronte a decisioni rapide e definitive. «Le definizioni che ci guidano oggi sono troppo rigide, non riusciamo ad applicarle» si legge ancora nella Carta di Viareggio. «Così com´è, la normativa che abbiamo è una finzione morale. Il nostro comportamento non riesce a essere coerente con le leggi» ammette Robert Truog, docente ad Harvard.
Il documento finale di Viareggio non si spinge fino a incorporare le posizioni del bioeticista britannico John Harris ("Bisognerebbe effettuare gli espianti senza bisogno di chiedere il consenso e incentivare le donazioni da persone sane con un contributo economico pubblico di almeno 50mila euro»). È però Marino a ricordare come i progressi della medicina finiscano con lo spostare le regole etiche cui i medici si devono attenere: «Un tempo si aveva paura di essere sepolti troppo presto, quando si era ancora vivi. Oggi abbiamo il timore opposto, quello di restare imprigionati in un corpo che vive solo in modo artificiale».
Sul testamento biologico, intanto, sono stati diffusi dati dell´Osservatorio Observa per la scienza e la società, coordinato da Massimiano Bucchi, docente dell´Università di Trento. L´interesse degli italiani per l´argomento è sorprendentemente alto: il 66% sa cos´è il testamento. Il 52% ritiene che le indicazioni scritte sul documento debbano essere vincolanti. E tra questi, 6 su 10 vorrebbero poter indicare in anticipo se ricevere un farmaco che ponga fine alla loro vita, in caso di malattia grave e perdita di coscienza. Otto su 10 chiedono che venga rispettata la loro decisione di ricevere o meno trattamenti e medicine salvavita.

Repubblica 25.9.09
Chi difende l’ora di religione così com’è
risponde Corrado Augias


I llustrissimo dr Augias, lei si è occupato in questa rubrica dell'ora di religione nelle scuole. Come genitore vorrei ricordarle che a me, come al 91% delle famiglie italiane, l'ora di religione sta bene cosi com'è, con insegnanti scelti dai Vescovi come da accordi concordatari. Se avessimo insegnanti di religione come il prof Pierri (suo corrispondente) non credo che mio figlio conoscerebbe la religione cattolica ufficiale, forse solo un surrogato secondo le convinzioni personali di qualcuno. Lei sa bene che anche un 10% di alunni extracomunitari e di fedi diverse sceglie l'ora di religione perché utile a conoscere meglio la storia e la cultura italiana. Le piaccia o no è così. Dispiace che giornalisti come lei che si sono prefissi di dare battaglia alla Chiesa facciano un brutto servizio alla sinistra e portino voti al centrodestra. Ostacolare l'ora di religione è un modo per far votare Berlusconi magari tappandosi il naso. Vorrei infine ricordarle che durante i secoli la Chiesa si è sempre rafforzata ogni qualvolta è stata perseguitata.
Loris Bianchi celoris@tiscali. it
P arlare di persecuzione della Chiesa in Italia mi pare diciamo così eccessivo. La prof Ilaria Gonfiotti (ilariagonfiotti@yahoo.it) mi ha scritto: «Sono un'insegnante colpita dalla rivoluzione che investe la scuola. Non credo che la religione abbia niente da rivendicare; a tale materia vengono dedicate due ore settimanali contro le appena 6-7 della lingua italiana. Che dire del reclutamento dei docenti di religione? Sono "scelti e assunti" dalla Curia e pagati dallo Stato». Qui è il punto. Il signor Bianchi forte delle sue convinzioni trascura il fatto che l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole contraddice la Costituzione secondo la quale l'insegnamento dev'essere libero, non vincolato cioè né da una fede politica né da un credo religioso. Tanto meno dalla vita privata degli insegnanti, a meno che non violi il codice penale. Molti ricorderanno il caso della insegnante mandata a casa perché, non sposata, aveva avuto un bambino. Il vescovo le ritirò subito la fiducia, fine dell'insegnamento. Posso dire che queste cose di gusto vagamente medievale sono comunque indegne di una Repubblica che stabilisce nella sua legge fondamentale l'eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, razza, religione, censo? Secondo il signor Bianchi scrivere questo dà voti a Berlusconi. Non toccherei questo tasto. E' più 'immorale' una ragazza che ha un bambino senza essere sposata o un anziano signore che, distratto da ragazze a pagamento, trascura i suoi doveri pubblici? A occhio e croce mi sembra una questione di peso.

Repubblica 25.9.09
Nostalgia
Condividere i ricordi previene infarto e demenze Uno studio inglese: meglio delle pillole anti-età
Se ricordare il passato regala un futuro in salute
di Sara Ficocelli


Nel film "Big fish" Edward Bloom è un uomo che ama raccontare al figlio storie incredibili sul proprio passato. Vere o no, quelle storie rendono uniche le loro vite e aiutano ad affrontare il dolore. Chi si aggrappa ai ricordi e ama raccontarli è in realtà il miglior medico di se stesso, e l´effetto benefico raddoppia se lo scambio di memorie avviene in gruppo. Lo dice una ricerca della Exeter University, nel Devon, che riabilita il ricordo come strumento di cura, specie se condiviso.
«La medicina siamo noi - spiega il ricercatore e docente di psicologia sociale Alex Haslam, coautore dello studio - la stessa terapia, se sperimentata in gruppo o da soli, ha effetti molto diversi». Ricordare il passato, dunque,fa bene alla salute e aiuta a combattere demenza senile e infarto molto più di integratori e farmaci. Per dimostrarlo i ricercatori, in collaborazione con i colleghi dell´università del Queensland, in Australia, hanno seguito per cinque anni 650 pazienti malati di cuore, riscontrando che quelli inseriti in una terapia di gruppo miglioravano molto più velocemente di quelli curati singolarmente.
«Condividere un´esperienza - continua Haslam - aiuta molto più di un farmaco. Anzi, possiamo dire che non esiste una medicina efficace quanto lo stare in compagnia». Una dimostrazione ancora più evidente i ricercatori l´hanno avuta con la seconda parte dello studio, che si è concentrato su 73 pazienti di età compresa tra i 70 e i 90 anni, ospiti delle case di cura di Cornwall e Somerset. Raggruppati a gruppi di cinque e costretti a vedersi una volta alla settimana per sei settimane di fila per chiacchierare mezz´ora, i pensionati hanno mostrato effetti sorprendenti, con un incremento del 12% delle facoltà cognitive e dell´8% di quelle mnemoniche. Non solo: i medici hanno riscontrato, in tutti, un miglioramento delle condizioni di salute, dalla normalizzazione della pressione arteriosa al rafforzamento delle difese immunitarie.
«Il deterioramento del cervello non può essere arrestato, ma vengono recuperate capacità dimenticate - spiega Catherine Haslam, coautrice dello studio - Gli effetti benefici però si verificano solo quando i ricordi vengono raccontati in gruppo. Senza socialità, del resto, a cosa serve la memoria?». Dell´importanza dell´effetto-gruppo ha scritto anche il professor Antonio Lo Iacono, presidente della Società italiana di psicologia (Sips), nel libro "La sala degli specchi". «La condivisione di un ricordo ha un potere terapeutico enorme. La memoria emotiva rappresenta la nostra identità e ci rende, a seconda dei casi, più o meno forti». È addirittura possibile capire, con la palpazione del diaframma, se la cattiva somatizzazione dei ricordi può portare a disturbi della respirazione, fino ad arrivare all´infarto. «Condividere il passato è importante proprio perché serve a riappropriarsi di una parte di sé», osserva. Persino il fenomeno Facebook, conclude l´esperto, è lo specchio di questo bisogno di "auto-terapia". «È un social network nato per recuperare i contatti con persone che non si vedono da tempo, e quindi con il passato. Ludwig Feuerbach diceva che l´uomo è quel che mangia e noi ci nutriamo di ricordi, siamo fatti di memoria». È questo, a quanto pare, l´ingrediente fondamentale della nostra sopravvivenza.

Repubblica 25.9.09
Un articolo di Daniel Dennett sul rapporto tra evoluzione e teologia
Noi atei irrispettosi dei grandi interrogativi
di Daniel Dennett


Ecco come il filosofo ha contestato la sessione "sostenuta" dalla Templeton Foundation durante la Settimana Darwiniana indetta dall´Università di Cambridge

to assistendo e partecipando alle grandi e rumorose celebrazioni della Settimana Darwiniana indetta dall´Università di Cambridge, quando mi accorgo che una delle due sessioni del primo giorno, programmate in contemporanea, verte su evoluzione e teologia, «con il sostegno della Templeton Foundation» (sebbene di quest´ultima non vi sia traccia nell´elenco dei benefattori e degli sponsor della manifestazione). Così sono venuto a sentire, sfilandomi a malincuore da una promettente sessione sulla speciazione. Ottima decisione. Assolutamente formidabile.
Ci hanno parlato di Grandi Interrogativi (un´espressione usata spesso) e qualcuno ha opinato che, secondo i nuovi atei - ingenui come sono - «non esistono domande significative alle quali la scienza non possa dare risposta». Philip Clayton, Professore alla Claremont School of Theology, in California, ha letto con gusto quel grandissimo passo in cui Richard Dawkins spiega come sia meschino il Dio del Vecchio Testamento; a quanto pare, l´intento era di illustrare l´ignoranza e la presunzione di questi atei (...).
In generale vi era un senso di rammarico per l´atteggiamento degli atei, «poco rispettoso nei confronti dei Grandi Interrogativi»; più in particolare, si rimpiangeva che Dawkins non avesse consultato i teologi. (...) Clayton mi ha poi sorpreso elencando gli attributi di Dio: secondo la sua teologia, così generosamente naturalistica, Dio non è onnipotente, e non è nemmeno sovrannaturale, e… per farla breve, Clayton è un ateo che non ha alcuna intenzione di ammetterlo.
Il secondo relatore era J. Wentzel van Huyssteen, professore di teologia al Princeton Theological Seminary, e il suo intervento è stato un esempio di «antropologia teologica», letteralmente ripieno di serissimi paroloni su menti incarnate e infarcito di chicche evoluzioniste attinte da Frans de Waal, Steven Mithen e altri. Nella discussione che è seguita non ho potuto resistere un minuto di più, e ho contestato i relatori: «Sono Dan Dennett, uno dei quattro dell´Apocalisse; ci continuano a dire, da sempre, che dovremmo fare i bravi e consultarci con i migliori teologi. Adesso qui abbiamo sentito parlare due di voi, e avete ribadito che questa è un´impresa interdisciplinare - intendo la teologia evoluzionista - ma io sto ancora aspettando che qualcuno mi dica qual è il contributo che la teologia ha da offrire all´impresa. È chiaro che, sulla scia di Darwin, avete sottoposto la vostra teologia a considerevoli adeguamenti - tanto di cappello - ma di che natura è lo scambio nell´altra direzione? E poi: esiste uno scambio nell´altra direzione? Mi sto perdendo qualcosa? Quali sono le domande che la teologia si pone, o a cui la teologia risponde, e che non sono già state affrontate dalla scienza o dalla filosofia secolare? Quali chiarimenti potete offrire a questo progetto interdisciplinare?» (Il senso delle mie parole era questo.) Sebbene né l´uno né l´altro dei due relatori avesse nulla da offrire, van Huyssteen ha cincischiato a vanvera per un po´ senza peraltro produrre il benché minimo esempio di quella saggezza teologica di cui ogni scienziato interessato ai Grandi Interrogativi dovrebbe poter disporre tra i suoi ferri del mestiere.
Ad ogni modo, io ho imparato una parola nuova, «chenotico»: viene dal greco kenosis, «che si svuota da sé», ed è usata per esempio nell´espressione «teologia chenotica». Già, proprio così. Posso dedurre che in certi ambienti questa nuova teologia chenotica fa furore, e che è «più profondamente cristiana in quanto più adattata al darwinismo». (Non me lo sto inventando). Ho detto che ero proprio felice di imparare questa nuova parola e che dovevo ammettere di trovare intrigante l´idea che la teologia chenotica sia effettivamente all´altezza del suo nome.
(...) Dopo altre due relazioni - a cui non mi sono potuto sottrarre, giacché il moderatore aveva promesso ulteriori risposte alla mia «contestazione», e quindi sono dovuto restare nei paraggi per ascoltarle - c´è stata un´altra mezz´ora di discussione. Io ho fatto il mio dovere: ho ascoltato con attenzione e ho fatto delle domande; i teologi erano a corto di risposte, in un modo proprio imbarazzante, anche se uno ha raccomandato di leggere David Chalmers sul panpsichismo. Ora, Chalmers è un filosofo, non un teologo; e poi, per quel che ne so, nessuno - nemmeno lo stesso Chalmers - prende sul serio il panpsichismo. O forse i teologi sì?
(Traduzione di Isabella C. Blum)

Corriere della Sera 25.9.09
La ricerca Ipsos
Sondaggio, Pd in calo tra i cattolici E l’ala teodem: è ora di invertire la rotta


ROMA — Gli elettori cattolici sono in fuga dal Pd, reo di «inseguire la bandiera ideologica della laicità». All’indomani delle polemiche sulla Ru486, l’ala rutelliana lancia l’allarme. Luigi Bobba, uno dei big dell’area teodem, avverte: «Il rischio è che la distanza» tra Pd ed elettorato cattolico «cresca ancora di più». Bobba lo desume dal sondaggio Ipsos «I cattolici dopo le elezioni del 2009», da cui emerge che i cattolici si stanno allontanando in generale dalla politica: nell’ultimo anno è aumentato del 14,6% l’astensionismo dei praticanti di tutti gli schieramenti. E il Pd tra le Politiche 2008 e le Europee 2009 registra un meno 3,9% tra i credenti. Gli elettori che pensano il partito capace di rappresentare i valori cattolici erano 64 su 100, oggi sono 58. Il 30% di elettori democratici (contro il 21% di un anno fa) vedono un Pd «egemonizzato dalla sinistra laica». Bobba chiede al partito di invertire la rotta e punta i riflettori sul voto cattolico «in uscita». Ma nel sondaggio si registra anche la fine della luna di miele con il Pdl, e l’aumento, tra i cattolici, del voto per Idv e Udc.

Corriere della Sera 25.9.09
Il mancato rinvio sulla Ru486. L’indagine conoscitiva votata al Senato riapre le fratture nel Pd
Finocchiaro e quell’errore sul «tranello» pdl
Gasparri: nessuna truffa, mai parlato con lei. Tomassini: se è un equivoco mi scuso
di Alessandro Trocino



ROMA — Anna Finocchiaro lo avreb­be ammesso ai suoi a mezza bocca, e chi la conosce sa quanto deve esserle costato: «Mi sono fidata di lui e ho sba­gliato ». Lui è Antonio Tomassini, presi­dente della commissione Sanità del Se­nato che, con la complicità del capo­gruppo Pdl Maurizio Gasparri, avrebbe diabolicamente ingannato il Pd, provo­cando una delle giornate peggiori de­gli ultimi tempi e facendo riemergere antiche e mai sopite fratture tra cattoli­ci e laici. Ma se è stata costretta a una mezza autocritica, sia pure di sola inge­nuità e mitigata con le accuse di stru­mentalizzazioni al Pdl, la Finocchiaro non ha rinunciato a duellare con la ca­pogruppo in commissione Sanità Dori­na Bianchi, accusata di aver giocato una partita personale e costretta a di­mettersi da relatrice della commissio­ne di indagine.
Il giorno dopo nel Pd si cerca di al­leggerire il clima. Ma è stata una gior­nata tremenda, con l’ira di Francesco Rutelli, gli attacchi di Anna Serafini e frenetiche telefonate per cercare di fer­mare il disastro di una spaccatura. Disa­stro evitato grazie al passo indietro del­la Bianchi, avvenuto obtorto collo, co­me conferma lei stessa: «È vero, nel po­meriggio avevo escluso le mie dimis­sioni. Non c’era nessun motivo per far­lo. Ma poi ci sono state le strumentaliz­zazioni del Pd e si rischiava una spacca­tura nel partito. Mi hanno chiamato in molti per convincermi. Così ho deci­so ». Lasciando l’incarico di relatrice, ac­compagnata da un coro di plauso del Pdl, che la giudica una vittima del «le­ninismo » imperante, come lo chiama Roberto Formigoni. Del resto le versio­ni del Pdl sono molto diverse. Tomassi­ni respinge le accuse: «Un tranello? Ma no, era risaputo che l’indagine durasse 60 giorni e si dovesse concludere il 25 novembre. Capisco benissimo le preoc­cupazioni del Pd, che vuole evitare ri­percussioni nel congresso in corso, ma la questione era chiara. Se c’è stato un fraintendimento me ne scuso, ma non mi pare proprio». Anche Gasparri, tira­to in ballo nella vicenda, esclude qua­lunque tranello: «Trasecolo, noi non truffiamo nessuno. Io non ho mai par­lato con la Finocchiaro, ci ha parlato Tomassini. Ma voglio che sia chiaro che l’indagine è stata votata all’unani­mità, dopo che la Turco mi aveva insul­tato e accusato di oscurantismo. Il pro­blema vero è del Pd: se la Bianchi, es­sendo cattolica, condivide la nostra ini­ziativa, non è un problema nostro. Mi sembra che siano in totale confusio­ne » .
Sensazione che nel Pd ha attraversa­to molti, l’altro giorno. Roberto Di Gio­van Paolo, che in passato si è autodefi­nito un «cattogodurioso», non fa scon­ti a nessuno: «C’era un clima di irrita­zione, perché è evidente che stavamo facendo una figuraccia. Ma come si fa a fidarsi di uno come Gasparri? Con lui non ci berrei neanche un caffè, politica­mente. E poi non capisco perché certe cose si debbano discutere ex post. Han­no sbagliato sia Finocchiaro sia Bian­chi: tra l’altro parlano troppo spesso a titolo personale». «Vicenda gestita mol­to male — conferma Stefano Ceccanti, che non vede però pericoli per i cattoli­ci —. Non mi pare che questo caso spo­sti i voti dei cattolici praticanti».
Non tutti sono d’accordo con lui. Pa­ola Binetti è furibonda. Per il «proces­so » a Dorina Bianchi, ma anche per l’in­tervento del leader della sua mozione, Dario Franceschini, che ha invocato un voto di linea nel partito, escludendo, nel caso specifico, la libertà di coscien­za: «È successa una cosa gravissima. Ar­chiviare la libertà di coscienza è pro­fondamente antidemocratico, è una delle ferite più grosse che si possano fare a un partito. Se finisce così, allora che differenza c’è con Berlusconi che vuole far votare solo i capigruppo?». Sulla Bianchi è perentoria: «È stata co­stretta a dimettersi, l’hanno messa sul­la graticola, una cosa sgradevolissima. La verità è che ormai c’è una rincorsa totale e assoluta alla laicità, che è di­ventato ormai l’unico motore del parti­to ». Il rutelliano Luigi Lusi è più paca­to, ma non troppo: «Militarizzazione nel Pd? Misuro le parole: diciamo che c’è il desiderio di qualcuno, non dei di­rigenti, di mettere qualcun’altro nel­l’angolo. Una volontà di contarsi a tutti i costi che è deleteria e pericolosa. Se si pensa che la politica è solo votare e mettere in minoranza gli altri, allora non capisco il senso del Pd. Così perde la sua funzione storica». Motivo suffi­ciente per pensare a un esodo? «Ho scelto di stare nel Pd due anni fa e com­batto in Abruzzo al fianco di France­schini: non ci penso neanche ad andar­mene. Non faccio a nessuno questo re­galo, se lo vogliono mi devono caccia­re ». Non pare esserci questo pericolo, se è vero, come diceva ieri Dario Fran­ceschini, che «il Pd deve essere plura­le » e che «non è possibile che alla pri­ma difficoltà si pensi di ricominciare daccapo». Una soluzione alle continue tensioni laici-cattolici prova a enun­ciarla Massimo D’Alema: «Un partito come il nostro deve essere l’erede della migliore tradizione democristiana in materia di difesa della laicità della poli­tica e dello Stato» 


Corriere della Sera 25.9.09
Un sindaco su dieci, meno di un amministratore su cinque. La presenza femminile nelle amministrazioni locali resta bassa.
Emma Bonino: «Ma le quote sono sbagliate Non viviamo a Kabul»
intervista di G. Fre.



ROMA — Emma Bonino, radicale e vicepresidente del Senato, contraria alla quote femminili da sempre: servirà questa sentenza a favore delle donne?

«Se servisse a smuovere le acque, magari. Ma non credo. La si butterà in politica».

In che senso?
«La questione delle donne tornerà nell’assordante silenzio in cui è stata finora».
Dopo tante critiche al Pdl sulle donne, questa volta è il centrosinistra a dimenticarle.
«Destra e sinistra, basta guardare altre giunte come quella di Ascoli Piceno che non ha neppure una donna. Con l’eccezione dei radicali che sono quasi un matriarcato, la situazione delle donne in Italia è patetica. Ci sono situazioni più volgari e altre meno, certo, ma il risultato è deprimente».

Sicura che le quote non servano?
«Non siamo in Afghanistan ma in Italia».
Florido deve pensarla così, visto che se ne è scordato.
«Non scherziamo. Le regole vanno rispettate: o si cambiano o si rispettano. E finché ci sono, facesse il favore di non considerarle un optional. Resto contraria alle quote perché non mi piace il tipo di società che prefigurano: tot donne, tot immigrati gialli, tot immigrate nere... No».

Le donne sono vittime incolpevoli?

«Ma la mia più grande frustrazione è che le donne non reagiscono.

Io direi: proteggetemi di meno ma rispettatemi di più. E il rispetto uno/a se lo prende. L’unico movimento di protesta, non organizzato, anzi forse inconscio, è che le donne hanno smesso di fare figli, quasi dicessero: abbiamo già troppo da fare.

Risultato: non lavorano e non fanno figli.
 Perché? Si curano dei vecchi e, nel caso abbiano un figlio, di lui, perché in assenza di un welfare efficiente lo devono sostituire. Poi, se avanza tempo, lavorano. Non succede in nessun altro Paese europeo».

E non si lamentano.
«Qualche mugugno, ma poi mi trovo da sola. Come sull’equiparazione dell’età pensionabile, che alla fine ha fatto Brunetta».

Perché le donne devono lavorare di più?
«Intanto perché è un obbligo europeo, e almeno non dobbiamo pagare la multa. Poi perché l’idea di conservare l’esistente è patetica e con la logica del benaltrismo, del 'ah, ci vorrebbe ben altro', si finisce per non far nulla. E infine perché i soldi risparmiati andranno a un fondo ad hoc». 


Corriere della Sera 25.9.09
L’evoluzione «centrista» dei Verdi Un partito che piace ai borghesi
di Danilo Taino



BERLINO — La strada di Jo­schka Fischer da tassista a ministro degli Esteri e ora a consulente della Bmw (l’annuncio è di quattro gior­ni fa) è lunga ma non tortuosa co­me si potrebbe pensare. L’esponen­te più conosciuto nella storia dei Verdi è semplicemente il testimo­nial dell’evoluzione della Germa­nia, sempre più attenta ai temi am­bientali, e dell’evoluzione del suo partito d’origine, non più movi­mento di protesta e nemmeno trop­po di sinistra. È che la società tede­sca tende al verde, comprese le grandi case automobilistiche, e i Verdi alla normalizzazione. Un in­contro scritto nelle stelle.
È un’evoluzione che potrebbe as­sumere un peso politico dopo le elezioni di domenica prossima, se la cancelliera Angela Merkel non ot­terrà — come è possibile — un mandato chiaro a governare con i Liberali. In quel caso, la situazione si farebbe complicata, inizierebbe­ro trattative tra leader e partiti, si discuterebbe di formule. Tra que­ste, una maggioranza Giamaica (bandiera) — i neri cristiano-de­mocratici, i gialli Liberali e i Verdi — è data per improbabile ma nes­suno la esclude a priori. Se Fischer collabora con la Bmw per aiutarla a diventare più rispettosa dell’am­biente, i Grünen possono collabora­re con Frau Merkel per formare un governo più ecologico. D’altra par­te, Cdu e Verdi sono già assieme al governo di città importanti come Amburgo e Francoforte e lo sono stati a Colonia.
I Grünen partito di centro? Qual­che volta è già così. In questi gior­ni, per esempio, in Germania si par­la molto di Bad Homburg, non lon­tano da Francoforte, un tempo resi­denza estiva del Kaiser Guglielmo II, oggi stazione termale e casa del­la famiglia Quandt, proprietaria del­la Bmw. Cittadina ricca di tradizio­ne conservatrice. Qui, è appena sta­to eletto un sindaco verde, Michael Korwisi: segno di come il partito non spaventi più gli elettori bene­stanti. Casi simili si sono verificati in altre città dell’Assia ma anche in Baviera e Baden-Württemberg, zo­ne forti dell’economia e della finan­za tedesche. C’è un po’ di snobi­smo radical-chic, forse, in questo voto. Ma c’è soprattutto il deside­rio della borghesia tedesca di garan­tirsi un ambiente piacevole e dei Verdi di non fare più la faccia fero­ce e rivoluzionaria.
La tendenza è per ora più eviden­te al livello locale, soprattutto per­ché le tasse rimangono un cuneo tra Grünen e ricchi. «Nella politica locale, che non ha un impatto sulle tasse — ha commentato un edito­riale del settimanale Die Zeit — i ricchi votano i Grünen probabil­mente per dimostrare a se stessi quanto sono aperti e tolleranti. Vo­tare per un sindaco Verde è un po’ come avere una Toyota ibrida come terza auto». In realtà, il fenomeno non è solo locale: i poveri sono in generale restii a votare i Grünen, i quali, se non fosse per un elettorato senza problemi economici, racco­glierebbero meno consensi. Men­tre, per dire, a livello nazionale i sondaggi li danno all’11%, nei Län­der dell’Est, decisamente meno ric­chi, arrivano solo al sette per cento. I problemi politici e programma­tici sarebbero molti, a cominciare dal nucleare, ma alla signora Me­rkel probabilmente non spiacereb­be portarsi i Verdi al governo. E in­chiodarli al centro. Lontani dalla Spd. Un passo che nemmeno Jo­schka Fischer ha ancora fatto. 


Corriere della Sera 25.9.09

Accoltella i figli poi si uccide «Sono stanca, li porto con me»
La psicologa: «Quel gesto che rivela un grande odio di sé»
di Elvira Serra


MILANO — Medea uccide Mermero e Ferete, i suoi figli. Il mito che diventa cronaca.
«Gli elementi a nostra disposizione sono pochi. È una premessa indispensabile: lanciarsi in qualunque considerazione è difficile».
Detto questo, la psicologa Gianna Schelotto fa una prima inquadratura: «Sembrerebbe quasi una depressione legata a un profondo senso di indegnità. La mamma di Castenaso si sentiva inadeguata, aveva maturato un enorme odio di sé». Perché allora sgozzare i bambini? «Io non so perché ha preso il coltello. Ma certamente mentre colpiva i suoi figli, pugnalava se stessa. L’odio di sé ha armato la mano della madre e le ha dato una forza straordinaria. Non le sarebbe bastato uccidersi. Doveva eliminare ogni traccia di se stessa. In quegli indumenti bagnati che i piccoli avevano indosso ci leggo un ultimo gesto di estrema cura, come se dopo avesse voluto lavarli». In apparenza Erika Mingotti conduceva una vita normale, da donna separata. Mai un segno di squilibrio. Forse un’eccessiva magrezza negli ultimi mesi. Nessun segno premonitore. «È possibile? Sì, è possibile. Se noi guardassimo i nostri vicini in un’ottica persecutoria, troveremmo molti segnali. In genere lo facciamo a posteriori. Ricordo un professore di mia figlia che faceva i disegni al posto degli studenti e poi, per quei lavori, dava voti altissimi. Tempo dopo ha preso sua moglie nel sonno e l’ha buttata dal balcone. Ecco, io l’ho sempre considerato uno strambo, ma è stato facile fare il collegamento dopo: prima non sarebbe stato possibile. Mi viene in mente quel film con Tom Cruise, Minority Report , nel quale si riescono a leggere le intenzioni delle persone. Fantascienza, appunto. Pericolosa». È impossibile, però, che nessuno abbia notato un cambiamento di umore, qualcosa che lasciasse presagire la tragedia.
Tantopiù che la madre di Castenaso ha affidato a una lettera la sua frustrazione, dunque la covava dentro.
«Queste persone che soffrono così lanciano appelli e segnali, ma è difficile in un mondo convulso come il nostro cogliere certe sfumature. La donna della quale stiamo parlando oggi ha coltivato i suoi pensieri nella solitudine, nell’angoscia, nell’odio di sé.
La sua autostima e la sfiducia nella vita e nel mondo l’hanno spinta al gesto estremo, quando ormai si sentiva senza speranza».

Corriere della Sera 25.9.09
Nel nostro Paese vivono 35 mila donne che hanno subito l’intervento, oltre mille hanno meno di 17 anni. La Lombardia in testa tra le regioni
In Italia centinaia di bambine sono vittime dell’infibulazione
Immigrate e mutilazioni femminili. Carfagna: «Basta barbarie»
di Alessandra Arachi


ROMA — Non è stato un son­daggio standard. Perché per far di­re ad una donna «si è vero, ho su­bito mutilazioni ai genitali», non bastava certo un esperto di statisti­ca. C’è voluta un’équipe, per ogni donna: psicologi, medici, mediato­ri culturali, esponenti di associa­zioni femminili. Ed ecco un nume­ro, alla fine. Il primo ufficiale nel nostro Paese: in Italia vivono 110 mila donne provenienti da paesi dove si praticano le mutilazioni ai genitali e tra queste quelle che i ge­nitali li hanno effettivamente muti­lati sono 35 mila. Almeno.
Almeno è d’obbligo: all’Istituto Piepoli sono convinti che fin trop­pe donne abbiano mentito ai son­daggisti. Che questo numero sia soltanto una stima approssimata per difetto. Come del resto l’altro numero: 1.100 di queste donne hanno meno di 17 anni. Bambine, cioè. Ovvero le principali vittime di questa barbarie. Che è destinata ad aumentare, proprio dentro il nostro Paese. C’è un numero del­­l’Istituto Piepoli, infatti, che più di tutti gela il sangue a leggerlo: so­no almeno qualche centinaio l’an­no le bambine alle quali vengono mutilati i genitali, in qualche po­sto del nostro Paese. È illegale ol­tre che tremendo.
Mara Carfagna, ministro per le Pari Opportunità, ne è consapevo­le: «Vogliamo fermare questa deri­va barbara. Per questo stiamo ap­prontando un piano: oltre alla rico­stituzione di una commissione di studio per la prevenzione e il con­trasto, vogliamo prevedere il finan­ziamento di progetti di assistenza ai genitori di bambine immigrate che frequentano le scuole».
È stato proprio il ministero del­le Pari Opportunità a finanziare questo studio dell’Istituto Piepoli, il primo che al di là di stime generi­che è andato a prendere ad una ad una le donne che arrivano dai Pae­si dove vengono praticate le muti­lazioni ai genitali femminili. Ovve­ro: l’escissione della clitoride, se non addirittura l’infibulazione. Pratiche che soltanto a nominarle vengono i brividi.
In tanti paesi (26 soltanto quelli africani) li praticano per lo più alle bambine piccole. Ma anche alle donne che hanno appena partori­to o che si sono appena sposate. Parliamo di Paesi come Egitto, Eri­trea, Gibuti, Guinea, India, Mali, Sierra Leone, Iraq, Malesia, Israele, Etiopia, Mauritania. Per citarne qualcuno. Questi sono i Paesi che hanno attraversato le nostre fron­tiere ed hanno portato qui da noi queste abitudini.
La regione dove ci sono più don­ne con i genitali mutilati è la Lom­bardia: il 35% del totale. Ovvia­mente è la regione dove vivono più donne provenienti dai Paesi che hanno questa tradizione: sono circa 14 mila su quasi 40 mila che ci abitano. Segue il Veneto (14%): 4 mila e 600 mutilate su oltre 15 mila. Poi l’Emilia Romagna (13%, ovvero 4 mila 245 su oltre 14 mila) e il Lazio (10%, ovvero quasi 4 mi­la su oltre 11 mila). Ultimi il Pie­monte (8%, ovvero 2 mila e 600 su oltre 8 mila e 600) e la Toscana (5%, ovvero oltre millecinquecen­to su 5 mila). In tutte le altre regio­ni d’Italia se ne contano poco più di 4 mila su quasi 16 mila 500 (ov­vero il 15% del totale).
«Abbiamo voluto commissiona­re questo studio perché in Italia si­no ad oggi non c’era un’idea chia­ra delle dimensioni e della rilevan­za di questo fenomeno», spiega il ministro Carfagna. Poi commenta: «La verità è che questi risultati so­no decisamente superiori alle atte­se che avevamo. Vuol dire che at­traverso l’immigrazione questa pratica barbara e inaccettabile è ar­rivata fin dentro i nostri quartie­ri ».
Dentro i nostri quartieri ci sono arrivate che avevano già subito la barbara mutilazione? Oppure è proprio nel nostro Paese che si so­no fatte operare? All’Istituto Piepo­li sono convinti che molte tra le in­tervistate che hanno negato un’operazione in Italia possano aver mentito.
Per tradizione, infatti, le mutila­zioni genitali vengono praticate su soggetti molto giovani, in media che non abbiano compiuto i 15 an­ni, preferibilmente però bambine piccoline. Da qui i dubbi: così pic­coline sono tornate nel loro paese soltanto per farsi praticare l’infibu­lazione?

Corriere della Sera 25.9.09
Viareggio. Il documento: limiti rigidi. Firma anche Marino. Costa: il punto di non ritorno esiste
«Morte cerebrale, rivedere i criteri»
Trapianti, scienziati di tutto il mondo riaprono il dibattito
di Margherita De Bac Simona Ravizza


L’attimo. Secondo il gruppo di esperti è indefinibile la fine precisa delle funzioni del cervello

MILANO — In gioco c’è la decisione su quale sia il mo­mento che segna il passaggio tra la vita e la morte. Una scelta cruciale anche per dare il via al trapianto d’organi. Ora sei scienziati di livello internazio­nale sostengono una tesi desti­nata a fare discutere: «I criteri attualmente in uso per stabili­re la morte cerebrale sono trop­po rigidi — dicono —. Bisogna rivederli in modo da tener con­to della pratica clinica».
La sollecitazione arriva da Viareggio, dove fino a domeni­ca è in corso il Festival della Sa­lute, un appuntamento curato per la parte scientifica dalla Fondazione Italianieuropei. «Si dovrebbe evitare di ispirar­si a una rigida ortodossia, man­tenendo invece un’apertura mentale su un tema così com­plesso e controverso — è la po­sizione dei medici riuniti in Versilia —. Vanno riconsidera­te definizioni troppo rigide co­me la cessazione 'irreversibi­le' 'di tutte le funzioni', 'del­l’intero cervello', perché è con­vinzione comune l’inapplicabi­lità di tali criteri nella pratica clinica». Capofila dell’appello è il chirurgo dei trapianti Igna­zio Marino (Pd), presidente della Commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale al Senato. Di fianco a lui Gio­vanni Boniolo (Fondazione Ifom e facoltà di Medicina di Milano); Bernardino Fantini (Università di Ginevra); John Harris (Università di Manche­ster); Robert Truog (Harvard Medical school) e Stuart Youn­gner (Case Western Reserve University). «Si stanno ancora scoprendo molti aspetti clini­ci, legali, sociali della morte ce­rebrale — sottolineano i sei esperti —. Il concetto evolve in relazione alle differenze cul­turali e religiose. È necessario mantenere aperta la discussio­ne con il mondo non scientifi­co ». Gli scienziati spiegano le loro convinzioni in un docu­mento che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista Nature . È messo in discussio­ne il protocollo internazionale utilizzato per stabilire la morte cerebrale negli ultimi 41 anni. I criteri oggi in uso — coma, perdita irreversibile di qualsia­si funzionalità cerebrale e im­possibilità di una respirazione autonoma — sono, infatti, quelli definiti nel 1968 dall’Har­vard Medical School che aveva cambiato la definizione di mor­te basandosi non più sull’arre­sto cardiocircolatorio, ma sul­l’encefalogramma piatto. La presa di posizione partita dalla Versilia ha già sollevato le prime obiezioni. «Il punto di non ritorno, ovvero l’irreversi­bilità, esiste ed è determinabi­le — ribatte sempre da Viareg­gio Alessandro Nanni Costa, di­rettore del Centro nazionale trapianti (Cet) —. Sappiamo che ciò che viene perso è la ca­pacità complessiva del cervel­lo e la sua capacità di recupe­ro ». Quello della morte cere­brale, del resto, è un argomen­to sempre più attuale nel dibat­tito scientifico italiano. I bioeti­cisti sono in fermento. Oggi è all’ordine del giorno una riu­nione del Comitato nazionale di bioetica: al centro, ancora una volta l’attualità o meno dei criteri stabiliti da Harward. Il tema era stato trattato già l’anno scorso anche da L’Osser­vatore Romano : per la storica Lucetta Scaraffia la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre «nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accetta­zione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente mor­ti» si regge «soltanto sulla pre­sunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cada­veri». Il dibattito, insomma, è aperto.



Corriere della Sera 25.9.09
Gli italiani a rischio di abuso sono 8 milioni e mezzo; tra questi, 750 mila sono adolescenti
I ragazzini soli che bevono in casa
L’allarme del Centro disagio di Milano: i genitori escono, pomeriggi di studio e alcol
di Gianni Santucci



Il direttore del Centro, Luca Bernardo: in alcuni casi a 13 anni si notano già i segni dell’alcolismo La quindicenne «Quando la madre della mia amica usciva, bevevamo quello che si trovava in casa»


MILANO — «Aspettavamo che la mamma della mia amica andasse ad accompagnare il fratello piccolo in palestra». Compagne di scuola, due ra­gazzine milanesi, una 15 anni e mezzo, l’altra sedici, studiava­no insieme due volte a settima­na. «Quando sua madre usci­va, bevevamo quello che si tro­vava in casa. Altre volte porta­vo la vodka in una piccola bot­tiglia ». Amari, liquori, rum. Con i libri aperti sulla scriva­nia. Alle 5 del pomeriggio. «Una volta la mia amica si è ad­dormentata, io sono tornata a casa ubriaca. Andavo giù pe­sante col profumo per evitare che i miei se ne accorgessero». Il racconto è di una studen­tessa di una scuola superiore milanese. L’hanno raccolto i medici del Centro per il disa­gio dell’adolescente dell’ospe­dale Fatebenefratelli, unica struttura pubblica in Italia che fa un lavoro specifico sull’abu­so di alcol tra i giovani sotto i 16 anni. Le statistiche disegna­no il contesto: 8 milioni e mez­zo di italiani a rischio abuso; tra questi, 750 mila adolescen­ti; l’età media del primo bic­chiere è 12 anni e mezzo; il 54,6 per cento dei ragazzi tra 15 e 19 anni ha già provato al­meno una sbornia pesante (da­ti dell’Istituto superiore di Sani­tà e di una ricerca del Comune di Milano).
Nelle pieghe dei numeri pe­rò ci sono le storie: «Ragazzini delle medie che bevono nei ba­gni di scuola — elenca Luca Bernardo, direttore del centro del Fatebenefratelli — o appe­na escono di casa al mattino. In alcuni casi, a 13 anni si nota­no già i segni dell’alcolismo. È un tema sul quale non ci sono ancora ricerche approfondite, ma che di sicuro è molto più ampio di quel che si percepi­sce ».
Alcol per adolescenti. Come rito di passaggio, sballo a buon mercato del sabato pome­riggio, benzina per superare la timidezza. Questa è solo una parte dell’abuso, su cui il mon­do adulto ha comunque re­sponsabilità pesanti: «Pensia­mo al marketing degli alcolici — spiega Giovanni Greco, vice presidente della Società italia­na di alcologia e responsabile dello stesso settore all’Usl di Ravenna —, è tutto giocato sul­la catena trasgressione, sesso, festa, conquista. È il modello affermato: consumo di alcol le­gato all’effetto, non al gusto». Primo obiettivo per chi si occu­pa di campagne sul «bere con consapevolezza»: «Disinnesca­re il sillogismo alcol uguale be­nessere ». Sbronza innocua e sbronza pericolosa: si può distinguere? È una questione di frequenza. E di contesto: «Un conto è che un adolescente, per una volta, si presenti a casa ubriaco dopo una festa — continua Greco— un altro è che faccia la stessa cosa alle sei del pomeriggio. In questo caso sta rifiutando tutti gli obiettivi e i progetti di vita che dovrebbe avere una ragaz­zo della sua età». Sbornia soli­taria a 15 anni: ai padri sembra impossibile, ma basta fare un giro il sabato pomeriggio nel centro di Milano. «Ogni tanto troviamo un ragazzo che si ubriaca da solo, seduto su una panchina», racconta uno dei re­sponsabili del Nucleo centro della polizia locale. Qualche settimana fa, uno studente ave­va avvolto la bottiglia di birra in un sacchetto di carta. Per­ché? «L’ho visto fare nei film americani», s’è giustificato con gli agenti.
Bere fino a crollare, a 13 an­ni. È successo a una ragazzina bresciana in piazza Vetra, ritro­vo dei giovani milanesi: era a un passo dal coma etilico, è ca­duta a terra spaccando la botti­glia, ha continuato a bere e col vetro rotto s’è tagliata le lab­bra. Era un sabato pomeriggio, con i vigili di pattuglia per ap­plicare l’ordinanza che vieta vendita e consumo di alcol sot­to i sedici anni (pena: 450 eu­ro). Un provvedimento che ha sollevato polemiche. «Nessu­no pensa di risolvere tutto con le multe — dice il vice sindaco di Milano, Riccardo De Corato —, ma se oggi questo proble­ma è al centro del dibattito na­zionale, ancora una volta il me­rito è di Milano». Aggiunge l’assessore alla Salute, Giampa­olo Landi di Chiavenna: «È mio dovere fare tutto il possibi­le perché la salute, soprattutto dei ragazzi, venga salvaguarda­ta ». Durante i controlli, spesso i vigili si trovano di fronte ra­gazzini che barcollano e urla­no: «Perché non andate a pren­dere chi spaccia? Cosa volete, che andiamo a drogarci?».
Il saggio di Loreto Di Nucci su genesi, evoluzione e crisi del fascismo

Corriere della Sera 25.9.09
Mussolini tra partito e monarchia
di Aurelio Lepre



Come ha osservato ironicamente Lucia­no Cafagna, il fascismo è uno dei po­chi argomenti storici (con Garibaldi, la mafia, il Rinascimento e il Pci) che attirano la costante attenzione degli studiosi del resto del mondo. È anche uno dei non numerosi temi che interessano i lettori italiani.
Per quale ragione? Credo che alla base di questo interesse ci sia una motivazione diffici­le da ammettere: si è trattato di un’esperienza che, a distanza di quasi un secolo, non è stata ancora rielaborata a fondo e collocata definiti­vamente nella storia. Rifiutata sì, e ormai qua­si da tutti, ma non è la stessa cosa. Negli al­bum delle famiglie e della nazione foto ormai ingiallite e sbiaditi documentari in bianco e ne­ro ricordano, accanto ai sacrifici di chi si oppo­neva, entusiasmi e passioni di una parte note­vole della popolazione che non è facile com­prendere e tanto meno lo sarà quanto più pic­colo diventerà, per ragioni anagrafiche, il nu­mero di chi ha vissuto quegli anni e può rico­struirli anche con la memoria. I documenti non dicono tutto.
Sul piano storiografico, ovviamente, la ricer­ca va avanti e un ottimo contributo le viene ora arrecato da Loreto Di Nucci con il suo accura­tissimo studio Lo Stato-partito. Genesi, evolu­zione e crisi (Il Mulino, pp. 628, e 40). Tentan­do di fondere Stato e partito, Mussolini seguì le orme di Lenin e anticipò Hitler, ma non riu­scì a forgiare lo strumento che gli era indispen­sabile per raggiungere l’azzardato obiettivo del­la costruzione dell’Uomo Nuovo fascista. Co­me mostra Di Nucci, all’inizio il partito fascista era indisciplinato, oltre che diviso in «satra­pie », e alcuni dei suoi uomini più rappresenta­tivi, per esempio Farinacci, coltivavano l’idea di una diarchia tra partito e Stato, che Mussoli­ni respinse sempre: non voleva essere il segre­tario del partito, cosa che gli avrebbe impedito di porsi come il rappresentante di tutti gli ita­liani. D’altra parte non poteva essere nemme­no il capo dello stato, perché ce n’era già uno, Vittorio Emanuele III. Fu perciò il Duce, una fi­gura giuridicamente indefinibile ma che occu­pava prepotentemente l’immaginario colletti­vo.
Di Nucci si ferma soprattutto sugli anni fino al 1931, in cui i segretari del partito Giovanni Giuriati e Augusto Turati cercarono di attivare nel regime dinamiche di carattere dualistico, «patria fascista» e «nazione di tutti gli italia­ni », contrapponendo i federali ai prefetti. Lo studio di queste dinamiche, che ha richiesto diversi livelli di analisi, perché esse riguardava­no i piani ideologico, politico e amministrati­vo, è condotto da Loreto Di Nucci sulla base di una vasta documentazione. Ne esce un quadro variegato e complesso, che si andò lentamente e faticosamente modificando.
Alla fine Mussolini normalizzò e subordinò il partito, ma non riuscì a raggiungere l’obietti­vo di unificare Stato e Pnf.
Nella ponderosa opera di Loreto Di Nucci c’è però un aspetto che non viene esaminato a fondo e che finora sembra aver poco interessa­to gli storici: la funzione e il peso di Vittorio Emanuele III e della monarchia in quella che non era una partita a due ma a tre, fra monar­chia, Pnf e Duce. Anche se i poteri effettivi del re erano piuttosto limitati, egli restava pur sempre il capo dello Stato. A Vittorio Emanue­le III facevano riferimento settori consistenti delle forze armate e della burocrazia. Anche una parte dell’opinione pubblica guardava al re, soprattutto nei momenti in cui la politica di Mussolini appariva troppo azzardata. Gli stessi contrasti interni al fascismo — tra i Fari­nacci, i Giuriati, gli Starace, i Bottai, i Federzo­ni — che Di Nucci ricostruisce minuziosamen­te appaiono più comprensibili se si tiene con­to dell’atteggiamento che essi avevano verso la monarchia.
L’istituzione che non solo collegava il pre­sente al passato, ma, come credeva Bottai, che sarebbe rimasta anche in futuro, quando al po­sto di Mussolini e di Vittorio Emanuele III ci sarebbe stata «un’altra coppia di persone» e sa­rebbe stato necessario «un Re di stato totalita­rio », che adunasse nella sua persona «i compi­ti e i poteri del Duce».

Corriere della Sera 25.9.09
Risponde Sergio Romano
Le carceri sovraffollate e le pene alternative


Un lettore ha sollevato il problema dell’affollamento delle carceri. Il piano Ionta prevederebbe di aumentare la disponibilità carceraria di 17-18 mila posti entro il 2012, costruendo nuove carceri e ristrutturando parte delle esistenti. Tempo addietro si era parlato di un altro piano modificando la destinazione delle aree dove sono le vecchie carceri cittadine, ormai tutte in pieno centro città. Dopo la loro demolizione il 50% dell’area sarebbe stato destinato a verde pubblico e l’altro 50% a edilizia residenziale. Il ricavato permetterebbe di costruire nuove carceri da affidare in gestione ai privati come accade già in altri Paesi.
Domenico Capussela 

Caro Capussela, 
Ho dovuto abbreviare la sua lunga lettera e rin­viare a un’altra occasio­ne alcuni dei suoi quesiti per concentrare la mia risposta sulla questione dell’affollamento. Il problema è particolarmente gra­ve in Italia dove i detenuti sono 64 mila (i posti regolamentari sa­rebbero 40 mila), ma il fenome­no è mondiale. Negli Stati Uniti, dove gli abitanti sono 300 milio­ni, i detenuti sono 2 milioni. In California, dove gli abitanti so­no meno di 40 milioni, i detenu­ti sono 55 mila. In Francia, con una popolazione pari a quella dell’Italia, sono 62.252. Non vi è Paese sviluppato che non debba affrontare il problema dei dete­nuti e decidere quali misure adottare per impedire che il mondo carcerario divenga ingo­vernabile. Esiste un piano Ionta (dal nome del direttore del Di­partimento per l’amministrazio­ne penitenziaria Franco Ionta) di cui ha parlato Dino Martirano sul Corriere del 15 maggio e che dovrebbe giungere in Consiglio dei Ministri entro la fine di set­tembre. Sembra che il piano pre­veda tra l’altro la creazione di prigioni sull’acqua, da realizzar­si in alcune grandi aree portuali: Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Gioia Tauro, Palermo, Bari, Ravenna. Anche questo pia­no, come la sua lettera, muove dalla convinzione che il miglior modo per fare fronte al proble­ma sia quello di costruire nuove carceri.
Non è questa tuttavia la politi­ca adottata da un certo numero di Paesi europei e Stati della Fe­derazione americana. Come ha scritto Donatella Stasio nel Sole 24 Ore del 12 settembre, la solu­zione migliore consisterebbe nell’aumento delle pene alterna­tive, fra cui quella del braccialet­to elettronico a cui hanno fatto ricorso recentemente i francesi. Ma occorre, beninteso, adattare a questo scopo le norme del co­dice penale. L’Italia sembrava es­sersi orientata in questa direzio­ne con una commissione per la riforma del codice che fu presie­duta per alcuni anni dal procura­tore di Venezia Carlo Nordio e, durante l’ultimo governo Prodi, dall’onorevole Giuliano Pisapia. Benché nominati da governi di­versi, i due presidenti hanno da­to prova di una straordinaria sin­tonia e si preparano a pubblica­re insieme un libro che darà con­to del loro lavoro. Ma questo la­voro rimane per il momento let­tera morta. Aggiungo che la ri­forma del codice penale è parti­colarmente urgente in un Paese dove i troppi reati puniti con il carcere e le ingarbugliate proce­dure imposte ai magistrati dalla legge hanno conferito all’Italia, come ricorda Donatella Stasio, il record dei detenuti in attesa di giudizio: un quarto dei 130 mila che attendono un processo nel­le carceri dei 27 Paesi dell’Unio­ne europea.
Un’ultima parola, caro Capus­sela, sulla gestione privata delle carceri. Dopo i molti danni, fi­nanziari e morali, provocati da­gli appalti americani in Iraq, do­ve molte funzioni pubbliche so­no state affidate ai privati, sarà meglio pensarci due volte.

il Riformista 25.9.09
Come t'insabbio il biotestamento
Fini non ha fretta, il Pd figurarsi
di Alessandro De Angelis


Pidiellini. II presidente della Camera ha incassato il primo risultato: il dibattito da lui voluto, di fatto, ha già insabbiato il ddl Calabrò sul bitestamento licenziato dal Senato. E senza rompere la tregua con Berlusconi.

Per Fini, non c'è fretta sul biotestamento. Anche perché il presidente della Camera un primo risultato lo ha incassato: l'ampio dibattito da lui voluto, di fatto, ha già insabbiato il ddl Calabrò, licenziato dal Senato. Il tutto senza rompere la tregua con Berlusconi siglata, a casa Letta, su governo e Pdl. Anzi. Spiega un finiano di rango: «Nessuno ha notato che l'appello sul Foglio di una ventina di parlamentari sul disarmo ideologico in materia di biotestamento non è stato indirizzato a Berlusconi in quanto premier. Il che lo avrebbe messo in difficoltà visto che non è materia di governo. Ma a lui come leader del Pdl. Perché il punto, che Giuliano Ferrara ha capito, è cercare una via d'uscita dal pantano, anche per Berlusconi».
La via d'uscita passa, appunto, per l'insabbiamento del ddl Calabrò. A guardare il calendario, l'operazione è già in atto, se non compiuta. Ieri infatti è terminata la discussione generale in commissione Affari sociali della Camera. Ora, sempre in commissione, verrà dato spazio alla discussione, alle audizioni, alla presentazione degli emendamenti. E così via. Prima di dicembre, calendario alla mano, non si finisce. Fatto questo che rappresenta anche un segnale di distensione dato da Fini al Pd, che per quel tempo avrà finito il congresso e potrà vivere il dibattito con meno nervosismo. Poi sarà la volta dell'Aula, compatibilmente con il calendario. E soprattutto con le regionali. Che c'entrano e non poco. Dal momento che nessuno, nel Pdl, vuole imbattersi nel voto segreto in piena trattativa sulle candidature con Udc e Lega. Il timore, anche degli uomini del premier, è che «chi, come la Lega, in questi giorni si sta accreditando con il Vaticano come interlocutore affidabile e chi come l'Udc fa il paladino dei cattolici potrebbe avere la tentazione di affossare il provvedimento nel voto segreto, scaricando un minuto dopo la responsabilità sul Pdl». Dunque, la discussione andrà per le lunghe. Difficile, nel gioco degli emendamenti, che il testo del Senato, non subisca cambiamenti. Difficile anche che possa essere fatto un blitz sul lodo Sacconi (una leggina su alimentazione e idratazione, senza parlare di testamento biologico). Fini pensa che sia controverso dal punto di vista costituzionale e confida nel fatto che di questi tempi Berlusconi non vuole contrasti col Colle.
Il presidente della Camera però non punta solo sul fattore tempo. A dispetto di chi lo dipinge come un mangiapreti, negli ultimi giorni sta cercando un dialogo con i cattolici moderati dei due schieramenti. E con chi nel Pdl, per dirla con la sua cerchia ristretta, «pensa che per compensare qualche trasgressione di Berlusconi o gli strascichi del caso Boffo serve una legge senza senso sul biotestamento». Non sono pochi i parlamentari che stanno mostrando segnali di insofferenza, e che negli ultimi giorni sono stati richiamati a un po' di disciplina dal capogruppo Fabrizio Cicchitto. Per questo Fini ha messo in campo più iniziative, politiche, per dare segnali ai cattolici. Fabio Granata proprio due giorni fa ha presentato una legge sulla cittadinanza agli immigrati con il deputato del Pd Andrea Sarubbi, assai sensibile alle posizioni della Cei. Poi, sempre Granata, sul biotestamento, ha presentato un emendamento bipartisan con Eugenio Mazzarella in perfetta continuità con la lettera dei venti. Viene cioè riconosciuto che «alimentazione e idratazione sono forme di sostegno vitale» (quindi non terapie) ma che le scelte in ultima istanza sono ricondotte al rapporto medico-paziente.
Come se non bastasse Fini si sta muovendo - nella consapevolezza che alla Camera c'è un forte trasversalismo - anche nell'ottica di dare sponda a tutto ciò che può migliorare la legge attuale. Da qualunque parte arrivi. Dopo gli stati generali dell'Udc ha mantenuto un dialogo con il partito di Casini. Affidandolo, nel merito, alla fedelissima Giulia Bongiorno. È lei che ha avuto più di uno scambio di idee con Rocco Buttiglione per trovare terreni di convergenza. E ieri intervenendo in commissione il filosofo dell'Udc ha proposto una serie di interventi particolarmente graditi ai finiani, come il diritto alla protezione contro il dolore: «È opportuno - ha affermato Buttiglione - scrivere chiaramente che il paziente ha il diritto alla protezione contro il dolore, anche quando la conseguenza, non intenzionale ma prevedibile, sia il decesso».
Segnali, di un dialogo in corso. Difficile conciliarlo su altri punti con l'impostazione con cui Fini ha eccitato le aspettative del fronte laico. Ma, per il presidente della Camera, non è questo il punto. Il ddl Calabrò è ormai entrato nel frullatore parlamentare e rispetto all'impostazione dei capigruppo Gasparri, Quagliariello e Cicchitto l'equilibrio si è già spostato. Non solo. Ormai è dato per acquisito che, quando si arriverà alla fine della discussione, ci sarà il voto segreto. E nemmeno Berlusconi può concedersi una roulette russa a ridosso delle regionali. Un po' la via d'uscita deve cercarsela anche lui. Ma c'è tempo.

il Riformista 25.9.09
Andrini, dai nazi all'Ama Servizi
Per Alemanno è «il più idoneo» campidoglio. Il sindaco di Roma difende la sua nomina a capo dell'azienda: «Ha i requisiti, e poi è completamente riabilitato». Era stato condannato per tentato omicidio. In aula ieri una delle vittime: «Non si è mai scusato».
di Giacomo Russo Spena



«Non risulta niente, ciò vuol dire che c'è stata riabilitazione». Gianni Alemanno si presenta in aula Giulio Cesare mostrando il certificato penale del casellario giudiziario di Stefano Andrini, l'ex naziskin messo a capo dell'azienda Ama servizi. E l'opposizione insorge. «Come Pd chiediamo la revoca della norma richiamando al rispetto delle regole e delle delibere comunali» afferma il capogruppo democratico Umberto Marroni che sperava in una marcia indietro del sindaco data la storia del personaggio. Andrini, infatti, nel 1988 viene fermato nella cittadina tedesca di Wunsiedel ad una commemorazione del nazista Rudolf Hess. L'anno successivo, insieme al gemello Germano e altri «camerati» aggredisce fuori al cinema Capranica due ragazzi. Andrea Sesti, una delle due vittime, è presente in Aula. Si scaglia contro l'arringa difensiva di Alemanno: «Andrini non si è mai scusato con la famiglia (ieri per la prima volta ha detto di volerlo fare, ndr) e ha continuato la sua carriera. C'è una questione di moralità pubblica». «A me nessuno ha chiesto scusa per i due amici personali, Di Nella e Cecchin, che sono stati uccisi. Capisco il dramma ma noi dobbiamo seguire la legge», è la replica del sindaco.
Intanto la situazione si surriscalda. Fuori al Campidoglio alcune persone alzano cartelli con sopra scritto «Alemanno vergogna, ecco il meglio che sai offrire ai romani: un picchiatore condannato come dirigente. Roma merita di più». Mentre i giovani del Pd protestano in Aula esponendo uno striscione con la gigantografia di un biglietto «solo andata» per Stoccolma. Perché dopo l'aggressione al Capranica Andrini si rifugia in Svezia. Viene estradato dopo 3 mesi e condannato a 4 anni e 8 mesi per tentato omicidio e lesioni aggravate. Ma il suo curriculum è ancora più ricco. Nel '94 durante una perquisizione della polizia nella sua abitazione, dopo alcuni scontri alla Sapienza, viene ritrovata una pistola calibro 22. Da quel momento in poi, convolato a nozze con una brasiliana, sparisce dalla scena politica, riciclandosi nel 2000 prima come delfino di Mirko Tremaglia e poi di Luigi Pallaro. Nel 2008 si candida anche nelle liste del senatore argentino.
Ora la nomina a capo dell'Ama servizi, su cui Alemanno giura di essere estraneo. «I suoi requisiti tecnici sono stati verificati dal responsabile dell'Ama Panzironi, che l'ha ritenuta la persona più idonea a risanare questa società. Se ad aprile 2010 la gestione Ama servizi non avrà raggiunto un risanamento, Andrini sarà destituito: ma il giudizio su di lui deve essere dato in base ai fatti, non in base ad una discriminazione politica». «Non ha i requisiti per ricoprire quella carica», urla invece l'opposizione che si chiede per «quali meriti» sia stato voluto amministratore delegato. Tra i presenti in consiglio comunale uno sconcertato Piero Terracina, ex deportato ad Auschwitz, a testimoniare la contrarietà degli ebrei sulla nomina di Andrini.
«Non ci sono tribunali speciali né qui né sui giornali e sono stanco di questo linciaggio verso un lavoratore e verso un sindaco democraticamente eletto: questo dibattito è incostituzionale» ribatte il primo cittadino, difeso a spada tratta da Francesco Storace. Il consigliere Paolo Masini vede tra i due «uno scellerato patto di ferro» nemico del futuro. «Il sindaco sbaglia - sentenzia invece il segretario Pd Lazio Roberto Morassut - Non è in discussione il diritto al lavoro di Andrini, ma l'inopportunità di un incarico a uno privo di requisiti professionali e che, per le sue obiettive vicende, colpisce fortemente la sensibilità di tanti romani".

CORRIERE 10/08/2009
Fede e storia La negazione di Dio al centro dell’Angelus. «L’ateismo non distingue tra bene e male»
«Il nichilismo come il nazismo»
Il Papa: i lager sono il simbolo dell’inferno che si è aperto sulla terra
di Bruno Bartoloni

CASTELGANDOLFO — I la­ger nazisti sono i simboli dell’in­ferno che si apre sulla terra, ha det­to Benedetto XVI. Neppure ad Au­schwitz tre anni fa aveva parlato d’inferno. Aveva bollato Au­schwitz come luogo d’orrore e di crimini contro Dio e gli uomini senza precedenti nella storia. Ave­va gridato: «Perché Signore hai ta­ciuto, perché hai potuto tollerare tutto questo?». Ieri ha ricordato ai fedeli venuti a Castelgandolfo due martiri uccisi ad Auschwitz, il po­lacco Massimiliano Kolbe e la tede­sca Edith Stein, un’ebrea converti­ta che però secondo gli ebrei finì in un campo di sterminio a causa delle sue origini e non della sua nuova fede. «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio — ha commentato — possono essere considerati simboli estremi del male, dell’inferno che si apre sulla terra quando l’uomo dimentica Dio e a lui si sostituisce, usurpan­dogli il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male, di dare la vita e la morte».
Il Papa, senza anello pastorale a causa di un gonfiore alle dita se­guito alla caduta, non si è fermato qui. È andato oltre non per dire di più sul nazismo e l’antisemitismo che furono le chiavi delle porte di quell’inferno, ma per insinuare i pericoli che minacciano la vita quando, appunto, l’uomo si sosti­tuisce a Dio. «Purtroppo però que­sto triste fenomeno non è circo­scritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti » .
Il Papa ha denunciato il «punto cruciale» al quale sono giunte alla fine del secondo millennio, a cau­sa del «nichilismo contempora­neo », le «profonde divergenze che esistono tra l’umanesimo ateo e l’umanesimo cristiano, un’antite­si che attraversa tutta quanta la sto­ria ». E chiamando in causa implici­tamente quanti ritengono di poter abusivamente intervenire sulla vi­ta, ha affermato: «Ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell’uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l’uomo in un dio, che fa dell’arbi­trarietà il proprio sistema di com­portamento ». In risposta c’è l’esempio dei santi, testimoni del «volto autentico dell’uomo, creato a immagine e somiglianza divi­na ». L’altra risposta «credibile ed esaustiva», di fronte «alla crisi pro­fonda del mondo contempora­neo » è, secondo Ratzinger, la cari­tà nella verità e una dedizione dei sacerdoti «sino al martirio».

giovedì 24 settembre 2009

l’Unità 24.9.09
Pd, spaccatura sulla Ru486 Bianchi costretta a lasciare
di Maria Zegarelli


Franceschini con la capogruppo Finocchiaro: «Su questioni etiche si decide a maggioranza»
La senatrice cattolica non sarà più la relatrice dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortivaSi è capito dove si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?».

Numeri
Già oltre tremila i documenti raccolti
3300 Sono i testamenti biologici ricevuti dai Radicali e di questi 2.758 sono stati elaborati.
56,4% è la percentuale di uomini «testatori», contro il 43,6% di donne. Fasce di età: il 6,3% fino a 30 anni; 8,5% 31-40 anni; 13,2% 41-50; 23,1% 51-60; 30,1% 61-70; 18,7% over 70.
95,4% dice no al ricorso alla respirazione meccanica. Di contro il 4,6% si è espresso per il «sì».

La mina innescata da Maurizio Gasparri e Antonio Tommassini, del Pdl, nel fragile equilibrio del partito democratico è puntualmente esplosa, dicono oggi i senatori democratici sconfortati dall’ennesima lacerazione. Dorina Bianchi, capogruppo Pd in Commissione, ha creato un caso, come sul testamento biologico, votando «sì» all’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva e accettando di fare la relatrice. Dopo una gioranta convulsa ha dovuto rimettere il mandato.
LA LETTERA DEL SEGRETARIO
Quel «sì» più che una mina è stata una bomba, disinnescata soltanto all’ultimo minuto. Lo stesso segretario, Dario Franceschini, ha appreso i fatti dai giornali di ieri mattina. Ha subito telefonato ad Anna Finocchiaro e poi inviato una lettera: «Cara Anna concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla Ru 486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Decisione alla quale «tutti devono attenersi». Ma ormai la frittata era fatta.
Così tutti i senatori sono stati chiamati a riunirsi. Bianchi ripeteva che lei di quel voto aveva parlato con la capogruppo, Finocchiaro a ribattere che le cose non erano andate così. Conclusione di una giornata tormentata: Dorina Bianchi si è dimessa da relatrice e si è impegnata a chiedere che sia la Commissione a decidere con un voto sulla modalità e i tempi di svolgimento dell’indagine conoscitiva. Solo così è stato possibile evitare la spaccatura del gruppo, che avrebbe provocato un terremoto in tutto il partito.
Due i livelli di scontro nel Pd. Uno sul merito, uno sul metodo. Da una parte chi è contrario all’indagine, perché «è strumentale, visto che sulla pillola si è già pronunciata l’Aifa, l’agenzia per il farmaco»; dall’altra chi invece non ci trova niente di strano «non si capisce perché non dovremmo conoscere più a fondo l’argomento». Tra i primi ci sono Finocchiaro, Latorre, Passoni, Marino, Soliani, Pinotti, Franco, Chiaromonte, solo per citarne alcuni tra le varie mozioni. Tra i secondi i teodem, Rutelli, alcuni cattolici anche di area Fioroni. Sul metodo si è scatenata la guerra delle mozioni: «Dorina ha fatto bene», «Dorina ha fatto male», con scambio reciproco di accuse. Alla fine, la mediazione. Si è capito che ci si stava arrivando quando Maria Pia Garavaglia, ha fermato la senatrice cattolica alla buvette e le ha chiesto a bruciapelo: «Ma non ti conviene dimetterti prima che ti distruggono?». «Non ci penso neanche», la risposta a caldo. Poi, la retromarcia, nella stanza di Finocchiaro. Con la Bianchi Anna Serafini (che durante la riunione del gruppo ha attaccato Finocchiaro) e Garavaglia (entrambe pro-Franceschini), dall’altra parte Latorre e Finocchiaro 8pro-Bersani). «Dobbiamo trovare una soluzione che non laceri ulteriormente il partito». Bersaniani e i mariniani erano pronti a votare compatti per il no, mentre i franceschiniani era divisi. I rutelliani, sul piede di guerra. Luigi Lusi, tesoriere Margherita, solo per citarne uno, era fuori di sé: «Un suicidio di massa, ecco cos’è. Ma che ci stiamo a fare in questo partito? Siamo più bolscevichi dei siberiani, vogliono rifare il Pci? Lo facciano, restiamo altri 15 anni all’opposizione». Di Giovan Paolo (mozione Franceschini) rivolto a Cosentino: «Vedrai, ci faranno votare anche per l’eutanasia, dopo il congresso».
Una guerra di nervi andata avanti tutto il giorno, raccontata dalle facce scure che entravano nel «conclave» dei senatori, e da quelle che uscivano dall’incontro a palazzo Madama tra i supporter della mozione Franceschini svoltosi poco prima. «Il giorno in cui votano lo scudo fiscale noi finiamo sui giornali per la spaccatura sulla pillola», il commento più frequente.
In mezzo le due versioni dei fatti. Quella di Bianchi: «Non ho agito a titolo personale, ne avevo parlato con Anna». Finocchiaro: «Io sono contraria all’indagine, ma sapendo che è un tema delicato nei giorni scorsi ho convocato una riunione con i membri Pd della Commissione». Attorno al tavolo c’erano Bianchi, Bosone, Chiaromonte, Bassoli e Zanda. «Si è deciso che saremmo stati disponibili a parlare di una indagine tecnica per estrarre le migliori pratiche mediche della pillola e che comunque tutto sarebbe dovuto accadere dopo il congresso, con una decisione votata dalla Commissione e non dall’ufficio di presidenza. Mai si era parlato del relatore di minoranza». Il trappolone lo ha teso Tommasini, «è stata una mia iniziativa», ha detto. E la Bianchi ci è cascata. ❖

Repubblica 24.9.09
Concitata assemblea di gruppo. La Finocchiaro: ingenuità aver trattato con la maggioranza sui tempi dell´indagine
Ma l´area Rutelli si sente emarginata "Metodi bolscevichi, è dura restare"
Giaretta sbotta all´indirizzo dei compagni di partito laici: "Mi hanno davvero rotto i c..."
di Giovanna Casadio


La rabbia di Latorre: "Dorina gioca in proprio, però Anna ha fatto una stupidata"

ROMA - «Ma che ci stiamo a fare? Qui siamo più bolscevichi dei siberiani. Vogliono fare il Pci? Ma lo facciano...». Luigi Lusi, che della ex Margherita è tuttora il tesoriere, lascia la frase in sospeso. Fa capire però che Rutelli e i "suoi" possono andare altrove, che dietro l´angolo c´è il possibile divorzio dal Pd verso altri lidi, si chiamino Nuovo grande Centro o qualcos´altro. È una delle giornate nere dei Democratici e ruota attorno a un "casus belli": il sì di Dorina Bianchi - la cattolica capogruppo in commissione Sanità del Senato - all´indagine conoscitiva sulla RU486. Il Pd rischia la conta più insidiosa della sua breve storia, a quindici giorni dal primo congresso. Alla fine la Bianchi fa un passo indietro - si dimette da relatrice - e Anna Finocchiaro, la capogruppo, ammette l´ingenuità politica di avere chiesto ad Antonio Tomassini, fedelissimo di Berlusconi e amico personale di Bossi, nonché presidente della commissione Sanità, di togliere le castagne dal fuoco a loro Democratici spostando più in là l´indagine sulla pillola abortiva: «A dopo il congresso, per evitare polemiche».
Fino alle sette di sera, Dorina Bianchi non accetta di passare per il "caso Dorina", per quella cioè che ha già mandato il Pd sull´orlo di una crisi di nervi sul testamento biologico quando si schierò con il Pdl e che ora con il "sì" all´indagine conoscitiva ha spaccato gruppo, partito e persino la "mozione Franceschini", la sua. Poi si convince: Nicola Latorre, Anna Senafini, Maria Pia Garavaglia fanno da pontieri. Accetta quindi di dimettersi: «C´erano stati accordi che non sono stati rispettati, nell´accelerazione e perciò la commissione va riconvocata, discuta le modalità dell´indagine, e io rassegno le dimissioni da relatrice», dirà nell´ultima assemblea serale del gruppo che chiude la discussione.
Incassa Dorina la solidarietà interessata di tutto il centrodestra che gongola per avere creato l´occasione di un autogol del Pd. Lo va dicendo Rutelli uscendo dalla prima delle riunioni che scandiscono la giornata in un tutto contro tutti. Tensione altissima, stracci che volano. I rutelliani protestano: «È un suicidio in diretta». Il fronte laico, i supporter cioè di Pierluigi Bersani e di Ignazio Marino - sfidanti del segretario uscente e ricandidato, Dario Franceschini - ritengono «inopportuna» quell´indagine parlamentare e perciò bisognava dire semplicemente "no". Il segretario al mattino si attacca al telefono con Finocchiaro. Invia una lettera concordata: «Cara Anna, condivido con te che sulla scelta di avviare un´indagine parlamentare sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione». Bisogna insomma fare chiarezza, qui «la questione di coscienza non c´entra» perché si tratta di votare un atto parlamentare. Franceschini è un cattolico democratico, a passare per il clericale che si presta a combriccole con il centrodestra dopo l´invito del cardinale Bagnasco a non commercializzare la pillola abortiva in Italia, non ci sta. «In fatto di laicità non ho nulla da imparare né da Bersani, né da Marino». Sulla RU486, ha detto in tempi non sospetti: «Se c´è un modo meno invasivo per una donna di un intervento chirurgico, perché opporsi? Bisogna certo evitare che venga vissuta come un contraccettivo, e c´è una legge sull´aborto che nessuno mette in discussione».
Errori si sommano a errori. I senatori della mozione Franceschini si incontrano prima dell´assemblea di gruppo dell´ora di pranzo; arriva anche Rutelli. Riunione concitata. L´assemblea poi, è aperta dalla Finocchiaro che ammette di avere sbagliato la prima mossa, la richiesta a Tomassini. «E perché mai Tomassini avrebbe dovuto farci questo favore fino al 25 ottobre? Ho votato per il sì a nome del Pd, come hanno fatto tutti anche l´Idv», si difende la Bianchi. «Dorina ha giocato una partita in proprio e Anna ha fatto una stupidata», s´arrabbia Nicola Latorre. «Mi hanno rotto», si sfoga Paolo Giaretta, mite d´abitudine. La pillola abortiva diventa il punto di caduta della battaglia congressuale, e la bioetica uno dei banchi di prova del Pd. Albertina Soliani, sconsolata: «Siamo in una fase dissennata».

Corriere della Sera 24.9.09
Il passo indietro di Dorina Bianchi
Indagine sulla Ru486 Scontro aperto nel Pd Si dimette la relatrice
di Alessandro Trocino


ROMA — Dopo la tregua esti­va, il Pd torna esattamente a do­ve era rimasto, alle polemiche sui temi etici, alle accuse di lai­cismo e clericalismo, ai risenti­menti e ai sospetti. A dividere, questa volta, è la commissione di indagine sulla Ru486. Il via libera, dato l’altro ieri per il Pd dalla capogruppo in commis­sione Sanità del Senato Dorina Bianchi, nominata anche corre­latrice, suscita un putiferio. Ieri il partito si lacera in una giorna­ta di trattative, cominciate con la richiesta di un voto da parte del segretario in carica Dario Franceschini. Il voto, con la conseguente spaccatura, viene evitato in extremis grazie alle dimissioni della Bianchi da re­latrice.
Il primo round nel partito è mattutino. Sfidanti Dorina Bianchi, cattolica e per mesi ri­vale del laico Ignazio Marino, e la capogruppo Pd al Senato An­na Finocchiaro. La prima chiari­sce che non c’è stata alcuna ini­ziativa autonoma da parte sua: «Il via libera era stato deciso con la Finocchiaro». In effetti, una settimana fa si era tenuta una riunione, presenti Finoc­chiaro e Luigi Zanda, con Mari­no collegato via telefono. I pri­mi due avevano espresso una contrarietà a titolo personale al­la commissione d’indagine. La Bianchi aveva obiettato: «C’è il rischio che se la faccia il Pdl da solo la commissione». Così, do­po una consultazione più am­pia, la Finocchiaro aveva accon­sentito a dire sì alla Commissio­ne, ma solo dopo aver ottenuto dal presidente di Commissione (Pdl) Antonio Tomassini una garanzia: «Diremo di sì alla commissione, a patto che si fac­cia dopo il nostro Congresso».
Il timore, confermato dagli eventi, era quello di spaccature interne. L’altro ieri le agenzie di stampa informano che il Pd (ovvero la Bianchi) ha dato il via libera. Con due particolari che fanno imbufalire la Finoc­chiaro e non solo: l’avvio imme­diato della commissione e l’in­carico di correlatore, mai con­cordato con il partito, alla stes­sa Bianchi. Insomma, una trap­pola del Pdl e una fuga in avan­ti della Bianchi.
A quel punto riesplodono le tensioni. Eugenia Roccella, sot­tosegretario pdl, accusa il Pd di lapidare la Bianchi. Paola Binet­ti è in scia: «Quella di Dorina è una presa di posizione quasi eroica. I tre candidati fanno a gara a chi è più laico». Dario Franceschini, nella cui mozio­ne stanno la Bianchi e i rutellia­ni, è il primo a chiedere il voto. Spiegando (all’ Espresso ) di es­sere a favore della Ru486 ed escludendo che ci possa essere in questo voto sulla Commis­sione un’obiezione di coscien­za. Quanto basta per allarmare i cattolici. E se Tomassini, alla fine, accetta il rinvio dell’inda­gine al 1 ottobre, il Pd continua a lacerarsi. Il rutelliano Claudio Gustavino dice sì alla Commis­sione: «È necessaria».
Ma parte la controffensiva dei franceschiniani, preoccupa­ti da una spaccatura che finireb­be per dare armi ai rivali «lai­ci » Bersani e Marino. Paola Concia è già all’attacco: «La Bianchi ci ha fatto perdere mi­lioni di voti». Si cerca di con­vincerla a dimettersi. Lei non ci pensa nemmeno e più volte ripete: «Sto al mio posto. Non sarà Marino a farmi andare via». Alla fine, però, anche gra­zie alle pressioni di Giuseppe Fioroni, capitola: «Rimetto il mio mandato, i tempi e le finali­tà dell’indagine non sono chia­ri e c’è una strumentalizzazio­ne della vicenda da parte del centrodestra. Non era assoluta­mente mia intenzione prende­re decisioni in solitudine su questo argomento». Anna Fi­nocchiaro è soddisfatta: «Gra­zie alla Bianchi, è una persona seria. E questo è un partito. Il Pd parteciperà all’indagine ma chiedendo alla maggioranza di definire la mission di questa in­dagine, a partire dai tempi e dai modi».

il Riformista 24.9.09
Chi ha preso la pillola del giorno dopo?
Scene di ordinaria follia al Senato
di Tommaso Labate


Pasticci.L’assemblea al Senato sulla RU486. La Bianchi lascerà il ruolo di relatrice della commissione di indagine, Finocchiaro ammette di essere stata «truffata» da Gasparri. La truppa di palazzo Madama è allibita: Rutelli s'indigna, Serafini attacca, Latorre lascia la sala.

A rompere il silenzio del plotone di una cinquanta senatori democrat, divisi a metà tra chi sorrideva sotto i baffi e chi si scuoteva il capo amaramente, è stato Francesco Rutelli, mozione Franceschini. «Ma che cosa rappresenta questa riunione? Di che cosa stiamo discutendo? Qual è l'ordine del giorno? E soprattutto, a che ora finisce questa cosa?». Al contrario Nicola Latorre, dalemiano vicepresidente del gruppo, mozione Bersani, aveva preferito lasciare la saletta dopo pochi minuti dall'inizio della riunione: «Non ce la faccio proprio. Non posso assistere a certe scene». Più o meno lo stesso canovaccio recitato da Ignazio Marino, mozione (ça va sans dire) Marino, che preferiva assistere allibito a un dibattito «surreale».
L'ultimo caso che si è (ri)aperto dentro il Pd, lo stesso che potrebbe portare la capogruppo in commissione Salute Dorina Bianchi ad abbandonare il ruolo di relatrice nell'indagine conoscitiva sulla RU486, è in realtà il frutto di un «grande boh». Una piccola grande commedia degli equivoci suddivisa in tre atti. Con tre protagonisti (i piddini Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e, appunto Dorina Bianchi), due antagonisti (i pidiellini Maurizio Gasparri e Antonio Tomassini) e il pubblico non pagante, composto dalla ciurma di senatori democrat che ieri ha assistito a quella che più testimoni considerano «una tra le assemblee più allucinanti degli ultimi due anni».
Il capitolo pubblico della commedia è quello che va in scena ieri l'altro, quando Dorina Bianchi - in ordine sparso: sostenitrice di Franceschini, anima teodem, ex uddiccì, oggi rutelliana, domani chissà - dà il via libera «a nome del Pd» all'indagine parlamentare sulla pillola abortiva. La RU486, appunto. La bionda senatrice calabrese, la stessa che (non senza polemiche) aveva ereditato da Ignazio Marino i galloni di capogruppo in commissione Sanità, finisce nel delle due mozioni concorrenti. Che rivendicano, con l'ex ministro delle Attività produttive e il chirurgo-senatore, «un'altra linea sui temi etici». A questo punto, e siamo a ieri mattina, Franceschini chiama il capogruppo Finocchiaro. Quindi, per non vedersi scalvalcato dai due competitor alle primarie sul terreno della laicità, rovescia il tavolo: «Cara Anna - scrive il segretario del Pd al presidente dei senatori del suo partito - a seguito del nostro colloquio telefonico di stamattina, concordo con te che sulla scelta di avviare una indagine conoscitiva sulla RU486 è necessaria una decisione del gruppo, anche attraverso una votazione».
Ma chi aveva dato il via libera all'indagine? Di chi la colpa di aver preso una decisione che verosimilmente il gruppo, esprimendosi a maggioranza, avrebbe respinto? Di Dorina Bianchi?
E qui si arriva all'atto secondo, all'assemblea dei senatori democrat di ieri mattina. Quella dell'affondo di Rutelli, delle perplessità di Latorre, dell'incredulità di Marino. Bianchi, finita nel mirino anche del fuoco amico, si difende davanti agli onorevoli colleghi: «Io ho agito secondo mandato». Quindi, rivolta ai vertici del gruppo, incalza: «Mi avete detto voi di dare il via libera all'indagine sulla RU486». L'ora della verità scatta quando prima Finocchiaro (brevemente) e poi il vicario Zanda (più diffusamente), raccontano il retroscena. E ammettono, chiamando il correità i due antagonisti pidiellini: «Noi abbiamo detto sì all'indagine sulla pillola abortiva - è il loro ragionamento - chiedendo prima a Gasparri e poi a Tomassini che il dossier venisse aperto dopo il congresso del Partito democratico. Proprio perché sapevamo che la RU486 avrebbe aperto un altro caso...». Il retroscena diventa scena. E l'antefatto, fatto. I numeri uno e due del gruppo pd a Palazzo Madama ammettono quindi di essere stati truffati "dal gatto e dalla volpe" berlusconiani. Come a dire, «ci avevano garantito che l'indagine sarebbe partita tra due mesi e invece deve partire subito». Il capo d'accusa che pende sul capo della Bianchi diventa di conseguenza una specie di concorso in truffa aggravata: «Hai consentito che il loro inganno andasse a buon fine».
Bianchi continua a difendersi («Ma siete stati voi a...»), Finocchiaro&Zanda a replicare. Finché Anna Serafini non dà voce al pensiero che aleggia su praticamente tutta la sala incalzando capogruppo&vice: «Ma come avete potuto tirare in ballo il congresso di un partito in una questione istituzionale? Perché abbiamo prestato il fianco - prosegue il ragionamento della senatrice "in Fassino" - alla strumentalizzazione del Pdl?».
Il tira e molla va avanti fino alla seconda convocazione dell'assemblea, chiamata stavolta a votare su un provvedimento già approvato (ma, nel momento in cui il Riformista va in stampa, il summit sembra destinato al rinvio). L'indagine conoscitiva sulla pillola non ha la maggioranza dei consensi nel Pd. La Bianchi si prepara a lasciare il ruolo di relatrice di minoranza. Il resto è tutto un «boh», piccola grande commedia degli equivoci all'interno di un gruppo in preda a una crisi d'ilarità. O d'amarezza.

il Riformista 24.9.09
Quando si dice le coincidenze


Quando si dice le coincidenze. Ieri mattina il segretario del Pd ha scritto al suo capogruppo al Senato per dirle che, in materia di indagini parlamentari sulla Ru486, non è ammessa libertà di coscienza. Bisognerà dunque che i parlamentari votino secondo le indicazioni del gruppo, o ne traggano le conseguenze. La minaccia è rivolta a Dorina Bianchi, che su questa materia si era schierata in commissione dalla parte del governo. Sempre ieri, il presidente della Camera Fini, incontrando una delegazione di parlamentari radicali, ha invece confermato il suo auspicio: nel dibattito sul biotestamento ogni parlamentare ha diritto a esprimersi secondo coscienza. Il che, tradotto in politichese, vuol dire che i deputati del Pdl che non vogliono seguire la linea del Pdl al Senato, devono essere liberi di farlo.
Si potrebbe notare che la libertà di coscienza viene in questo caso invocata quando è a favore dei laici e negata quando è a favore dei cattolici. Ma non è questo il punto. Il punto è che parlare di libertà di coscienza dei parlamentari, per concederla o per contestarla, è insensato. È infatti la Costituzione che garantisce quella libertà ai parlamentari, stabilendo che agiscono «senza vincolo di mandato»: poi ci sono i parlamentari che la loro libertà se la prendono, e quelli che non osano. Tutto qui.

Repubblica 24.9.09
"Non toccate la legge sul biotestamento"
Monito del cardinale Bertone a Bossi. Fini: impegno per la libertà di coscienza
di Marco Politi


All´incontro con il segretario di Stato presente anche il figlio del Senatur Renzo

ROMA - Grandi manovre in vista del dibattito sul testamento biologico. Mentre il presidente della Camera Fini si impegna a garantire a ogni deputato l´esercizio della massima libertà di coscienza, il Segretario di Stato vaticano Bertone - in un incontro tenuto segreto sino all´ultimo momento - preme sul leader della Lega Bossi perché il testo non venga stravolto rispetto a come è stato votato al Senato. Cioè senza l´autodeterminazione del paziente.
E´ appena passato un mese dalle violente polemiche della Lega nei confronti di esponenti vaticani (il presidente del Consiglio per i migranti mons. Vegliò e il segretario mons. Marchetto) e Umberto Bossi porta a segno due risultati nel suo tentativo di costruirsi un rapporto diretto con la gerarchia ecclesiastica. Il 4 settembre ha incontrato per un´ora di colloquio il presidente della Cei Bagnasco. E ieri si è recato in Vaticano in udienza con il cardinale Bertone. Il porporato, nell´ampio giro di orizzonte, ha chiesto che sia mantenuto nelle sue linee portanti il testo del Senato sul testamento biologico. Bossi, a quanto trapela, avrebbe garantito che vi saranno miglioramenti tecnici ma che l´impianto di fondo rimarrebbe intatto.
Esattamente l´opposto di quanto hanno appena chiesto venti parlamentari del Pdl e di quanto auspicato da una delegazione radicale, recatasi ieri dal presidente della Camera portando tremila dichiarazioni di volontà anticipate raccolte on line nei mesi scorsi. La volontà di autodecisione dei pazienti è stata illustrata da Marco Cappato e Mina Welby per l´associazione «Luca Coscioni» e Luigi Manconi per l´associazione «A buon diritto».
Fini - hanno poi dichiarato i radicali - ha auspicato che l´imminente dibattito in aula avvenga in un «clima pacato e scevro da ogni pregiudizio» e ha espresso il suo personale impegno perché la discussione si svolga «nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza».
Per il presidente della commissione Affari sociali della Camera, Domenico Di Virgilio (Pdl), il testo è «migliorabile» e si sta lavorando in un clima di «maggiore serenità». La maggioranza del Pdl, tuttavia, su input di Berlusconi e seguendo la linea del ministro Sacconi e del sottosegretario Eugenia Roccella (su cui il Vaticano fa grande affidamento) è per riaffermare che la nutrizione e l´idratazione artificiali siano «obbligatori». Lo stesso Di Virgilio è peraltro contrario a una legge morbida e la vuole «completa» come al Senato.
Sull´incontro Bossi-Bertone bocche cucite sia alla Lega che in Vaticano. Il Senatur annette all´udienza la massima importanza anche per mostrare a Berlusconi di avere un proprio filo diretto con la Santa Sede. Bertone prosegue la sua diplomazia parallela a quella della Cei, mentre l´episcopato sta preparando un´iniziativa per commemorare l´Unità d´Italia. Il Vaticano si è limitato a confermare che all´«udienza privata» hanno partecipato anche Renzo Bossi, la vicepresidente del Senato Rosi Mauro e i capigruppo di Camera e Senato Cota e Bricolo.

l’Unità 24.9.09
Biotestamento, Fini «Rispettare la libertà di coscienza dei deputati»
L’impegno preso in un incontro con i Radicali che gli hanno consegnato i numeri dei biotestamenti compilati online. I moduli sono sui siti della Consulta di Bioetica e Fondazione Veronesi. Alternativa: ricorrere al notaio.
di Federica Fantozzi


Il presidente della Camera Fini ha preso «l’impegno che il dibattito a Montecitorio sul testamento biologico si svolga con la massima serenità e pacatezza in un clima scevro da pregiudizi e nel doveroso rispetto del diritto di ogni deputato di esprimersi secondo coscienza». Una promessa fatta durante l’incontro, nel suo studio ieri mattina, con una delegazione dei Radicali che gli hanno consegnato i dati relativi a 3300 biotestamenti compilati online dai cittadini.
Al colloquio hanno partecipato Luigi Manconi e Marco Cappato, presidente e segretario dell’associazione «A buon diritto», Mina Welby e Rocco Berardo, dell’associazione Luca Coscioni, e l’avvocato Ernesto Ruffini. Dall’indagine dei Radicali (relativa a 2750 moduli di testamento biologico) emerge una tendenza generale a essere informati sui trattamenti sanitari e a rifiutare quelli più invasivi. Il desiderio di esprimere la propria volontà su questo tema riguarda soprattutto persone con un discreto grado di istruzione (l’80% è diplomata o laureata), in maggioranza donne (56,4% contro 43,6%), concentrate in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna. Il 93,3% dei testatori ha nominato un fiduciario che si occupi di eseguire le loro ultime volontà. Ma il dato politicamente più rilevante riguarda il consenso a nutrizione e idratazione forzate, il punto in discussione parlamentare adesso: solo l’1,4% ha detto sì. Significa 38 persone su 2750.
Cappato ha sottolineato come questi documenti siano già ora «validi e vincolanti, espressione di volontà scritta e controfirmata, e ora consegnata alla terza carica dello Stato». Quasi un’esortazione, per chi è interessato, a redigere il proprio biotestamento tramite i moduli presenti su Internet (anche della Consulta di Bioetica e della Fondazione Vero-
nesi) o servendosi dell’intermediazione di un notaio, prima che un’eventuale legge più restrittiva entri in vigore.
L’ESEMPIO DI WELBY
Mina Welby ha consegnato a Fini il libro di suo marito Piergiorgio «Lasciatemi morire», in concomitanza con il terzo anniversario della commovente lettera al presidente della Repubblica. Ed ha sottolineato come l’apertura di un registro comunale per il biotestamento (a Roma applicata dal Municipio X dove si recano una ventina di persone a settimana) si stia allargando: «Ricordiamoci che serve per diminuire e non protrarre il dolore». Manconi ha citato il caso di un vedovo, residente in un Comune del Nord, la cui moglie ha inserito nel biotestamento la volontà di essere cremata: «In Italia c’è la legge ma non i regolamenti applicativi. Così il vedovo chiede alla nostra associazione di testimoniare sull’effettiva volontà della moglie. È un piccolo esempio che segnala la presenza, su questi temi, di desideri elementari e bisogni primari e autentici che no possono essere ignorati». Infine, Cappato ha fatto presente a Fini l’illegittimità del fatto che dal febbraio 2008 alle associazioni non sono garantiti in Rai gli spazi cui avrebbero diritto. Il motivo? «Poltrone e sottopoltrone».❖

Liberazione 23.9.09
Gregor Gysi copresidente e fondatore
del partito “Linke”: «Più veniamo discriminati più la gente vuole votarci»
intervista Matteo Alviti


Berlino. E’ un bel pomeriggio assolato. L'ultimo dell'estate, lunedì 21 settembre. I cartelli rossi annunciano il comizio del candidato locale dalla Linke, il partito della sinistra d'opposizione. Gregor Gysi, copresidente e fondatore del partito aspetta il suo momento sotto il palco. Nella piazza del castello di Köpenick - profondo est di Berlino, dove la neonazista Npd ha il suo quartier generale nazionale - la gente aspetta tra palloncini colorati e il jazz melodico dell'orchestrina di Tin Alley. Non sono tanti, forse cinquecento, ma bastano a dare l'impressione che la piazzetta sia piena.
L'aria non è proprio fresca: la stragrande maggioranza dei sostenitori avrà più di 60 anni. «Cosa ha contro le persone anziane?», accusa Gysi. Niente. «I giovani si raggiungono in altri modi, con internet, con il computer. Lo faccio anche io. C'è sempre una grande differenza tra est e ovest. Qui ci sono persone più anziane, mentre a ovest sono in maggioranza giovani. E' una cosa interessante». Già, interessante.
La Linke, come il resto del paese, a essere un po' schematici è ancora divisa tra le anime del partito, la Pds, e del movimento, Wasg, dalla cui fusione è nato. A est i governisti che vedrebbero di buon occhio un'avvicinamento alla Spd, a ovest i radicali, oppositori di ogni diaologo. La Linke, che domenica sicuramente andrà oltre il 10%, conta almeno due correnti ufficiali e altre tre ufficiose. Ma ora non è il momento di stare a sottilizzare. C'è molto in gioco e l'unità conta. Fuori dall'Afghanistan, "no" all'energia atomica. E poi salario minimo, lavoro, pensioni minime da 800 euro e abbassamento dell'età pensionabile, nuovi posti di lavoro pubblico, anche nella polizia, per la sicurezza. Gysi sa come prendere la piazza e con le critiche ai manager e al sistema fiscale che li protegge si fa sommergere di applausi. Il copresidente e capogruppo della Linke è un oratore brillante. La battuta efficace, piazzata al momento giusto. Gysi sa però essere anche irritante, la sua retorica pungente: ne sanno qualcosa giornalisti e avversari. Tra questi c'è chi cerca di tirarlo giù con mezzi poco puliti. Ne è convinto, Gysi. Questa settimana lo Spiegel ha pubblicato un articolo che lo accusava di essersi impegnato, come avvocato, a riportare nella Ddr una persona che era riuscita a saltare il muro. «Una storia ridicola. Cercano in ogni modo di screditarci. Lo sapevo che avrebbero tirato fuori qualcosa»
Il muro. Torna sempre nei comizi. Specialmente qui all'est, dove la stragrande maggioranza degli elettori ha avuto modo di conoscerlo bene. La candidata Petra Pau ha parlato dal palco prima di Gysi del «muro nella testa», che ancora divide in due il paese. «Da un punto di vista del pensiero la questione potrà essere superata solo dalla prossima generazione», ci dice Gysi. «Oggi sarebbe importante che agli uomini e alle donne dell'ovest si dica che la loro vita è migliorata perché sono state prese delle misure sul modello di stato dell'est. Non si è fatto nel 1990. Si può fare adesso. Per esempio con i policlinici dell'est, che oggi si chiamano centri medici».

Che vantaggi ci sono a portare avanti una campagna elettorale sapendo che nessuno degli altri partiti - Spd, Verdi, Cdu/Csu, Liberali - vi vuole come alleati? Siete più liberi?
«Non ci rende più liberi, ma ci dà un valore aggiunto. Quando tutti gli altri dicono che possono coalizzarsi tra loro ma non con noi, gli elettori sono meno portati a notare le loro differenze. E la Linke ne guadagna in attenzione: la gente si chiede che cosa ci sia mai di sbagliato in noi. Ciò ci rende più interessanti. Penso che dal punto di vista tattico stiano facendo un errore. Beh, se la Cdu dicesse di volersi coalizzare con noi, questo cambierebbe le cose in peggio»,

Rispetto alle posizioni di qualche mese fa le vostre proposte per l'innalzamento del sussidio di disoccupazione Hart IV sono aumentate da 435 a 500 euro. Lo stesso per l'introduzione del salario minimo, da 8 a 10 euro. Perché questa radicalizzazione?
«Una incredibile radicalizzazione! In Francia il salario minimo è sopra gli 8 euro, in Gran Bretagna anche, in Lussemburgo sopra i 9 euro e per gli specializzati di 11 euro. E ora i nostri 10 euro sono terribilmente radicali. Dai francesi dovremmo imparare a fare un po' più di resistenza. A volte esagerano, ma noi esageriamo nell'altra direzione».

La questione è un'altra: alzare il tiro delle richieste non danneggia l'eventuale apertura di un dialogo con la Spd?
«No, non danneggia il dialogo. Non c'è un dialogo vero: solo ai livelli più bassi magari, ma ai vertici è bloccato. Il presidente della Spd Müntefering e il candidato cancelliere Steinmeier sono persone legate a doppio filo all'ex cancelliere Schröder. Dovrà venire la prossima generazione di politici, e poi vedremo che succede. Bisogna avere pazienza. Se ci mettiamo a strisciare ora e a chiedere favori allora salta tutto. La sicurezza, la consapevolezza nei nostri mezzi è il nostro punto di forza e li porterà a noi, passo dopo passo. Sono in politica dal 1990 e ora me ne intendo un pochino. So a quali errori si può andare incontro».

Ma la forza della Linke non è anche nella debolezza della Spd?
«Il fatto che noi siamo potuti crescere così in fretta dopo la caduta del socialismo reale, a differenza di altri partiti socialisti in altri paesi europei, dipende dal fatto che la Spd non è più socialdemocratica. La gente ha bisogno di una forza sociale a sinistra della Spd».

Il passo indietro del candidato governatore della Linke in Turingia, Bodo Ramelow, che la settimana scorsa aveva detto di essere pronto a rinunciare al posto per facilitare la nascita della prima coalizione rosso-rosso-verde, è stato osteggiato da lei e dal suo partito. Perché? Non sarebbe un risultato importante?
«Cosa sarebbe importante? Che il risultato elettorale non venga più tenuto in debito conto? Anche se avessimo il 40% e la Spd il 5% vorrebbero decidere comunque chi fa il governatore. Così diremmo agli elettori: "Non c'è bisogno che ci eleggiate, votate direttamente la Spd". Con il 10% ce lo prendiamo lo stesso un ministro. Non deve pensare al singolo caso, ma a cosa significa per il futuro: per le prossime elezioni la gente non sarebbe più interessata al nostro candidato, perché tanto non verrebbe eletto. Comunque trovo quel che è accaduto interessante: il candidato della Spd Matschie ha detto di non essere interessato alla proposta di Ramelow, perché vuole governare. Ora a lui la scelta: non sarà governatore né con noi né con la Cdu, ma con la Linke potrà realizzare l'80% del suo programma, con la Cdu il 20%. Io prevedo che correrà dalla Cdu. E in questo senso nonostante tutto è una buona cosa che Ramelow abbia fatto quella mossa, così vi rendete conto che nemmeno la rinuncia serve a niente».

Liberazione 23.9.09
Processi sospesi. Immigrati, 3,5 milioni di residenti ma la crisi fa crescere l'intolleranza I pm: Nessuno è clandestino la norma è incostituzionale
di Stefano Galieni


Si chiama Ritai, è nata a Coassolo in provincia di Torino, da madre proveniente dal Marocco e padre egiziano. Ancora non se ne rende conto ma per le leggi italiane, in particolar modo per il pacchetto sicurezza (legge 94) è una pericolosa clandestina, meritevole di sanzione amministrativa ed immediatamente espellibile. Poco importa che Ritai compia il suo primo anno di vita il 23 gennaio prossimo e poco conta che la madre sia perfettamente regolare mentre il padre, psicologo che si è rassegnato a fare il giardiniere, lavori in Italia da 2 anni. Il suo è un percorso di quelli che stanno intasando le aule dei tribunali italiani, ha operato come assistente sociale presso la casa dello studente di Alessandria, si è sposato regolarmente in municipio ma quando ha provato a chiedere il permesso di soggiorno alla questura per motivi familiari, i funzionari, obbedendo alle nuove norme lo hanno dovuto denunciare. Durante l'udienza il Pm Paola Bellone, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale della norma che incrimina il soggiorno illegale degli immigrati, per Ritai questa eccezione è accompagnata da una aperta violazione della Convenzione Onu per i diritti del fanciullo, ratificata dall'Italia nel 1989.
Dall'altra parte della penisola, al tribunale di Agrigento, è accaduto qualcosa di ancora più eclatante. Di fronte ad un processo che vede imputati 21 immigrati "rei" di essere sbarcati illegalmente, l'intera procura ha ritenuto di dover sospendere il procedimento demandando tutto alla Corte costituzionale. Numerose le perplessità sollevate dai magistrati: intanto "la scelta legislativa ha comportato la criminalizzazione di una condizione che fino all'entrata in vigore della norma era di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa". A detta del giudice il mancato rispetto delle norme sull'ingresso e sulla permanenza nel territorio dello Stato, non può essere di per se indice di "pericolosità sociale", la norma poi viola i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità. Del resto è opinione condivisa che in questo caso si è di fronte ad un palese mancato rispetto degli obblighi internazionali assunti dall'Italia in materia di immigrazione come il Protocollo dell'Onu sottoscritto a Palermo nel dicembre del 2000. «Si ritiene -a detta della procura agrigentina - che la norma impugnata, comportando l'incriminazione di persone che si trovano in una condizione in relazione alla quale si è assunto l'impegno di assisterle e proteggerle, versi in una contraddizione vistosa e insanabile». Le decisioni assunte ieri a Torino e ad Agrigento si aggiungono a quelle di procure che hanno ritenuto opportuno sollevare simili eccezioni. È il caso di Bologna ma è soprattutto il caso di Pesaro, primo tribunale che ha sollevato la questione riprendendo le stesse perplessità che avevano portato ad una lettera del Capo dello Stato che accompagnava la ratifica della legge 94. Il procedimento di Pesaro, a carico del cittadino senegalese Diouf Hibraima, è degno di essere raccontato per la sua carica di surrealismo giuridico. Arrestato il 18 giugno, prima dell'entrata in vigore del pacchetto, non poteva né essere espulso - non aveva con se documenti validi - né trattenuto in un Cie - non c'erano posti liberi. In prima istanza al signor Diouf veniva chiesto l'impossibile: tornare nel proprio paese con i mezzi propri senza avere i documenti per poter rientrare, in un contesto in cui neanche la forza pubblica poteva procedere, per le stesse ragioni al rimpatrio. Il signor Diouf, raccogliendo anche tutti gli elementi di criticità espressi da ampi settori del mondo giuridico nonché dell'associazionismo, è stato assolto da ogni reato per tutto il periodo di permanenza irregolare che va dal giorno dell'arresto a quello dell'entrata in vigore del reato di clandestinità, 8/8/2009. Per il resto, ritenendo recepibili le eccezioni sollevate dalla difesa la procura ha anche in questo caso rinviato gli atti alla Corte costituzionale, in attesa di un parere di costituzionalità. E se da una parte il sottosegretario al ministero dell'interno Alfredo Mantovano spara a zero contro quei settori della magistratura che si rifiutano di applicare la legge, considerandolo un problema squisitamente politico (le solite toghe rosse) dall'altra si va verificando quello che tutti temevano. I tribunali si stanno intasando di "procedimenti fantasma". Solo in un mese e mezzo i fascicoli relativi al reato di clandestinità, si sono decuplicati e si tratta di processi che quando verranno celebrati difficilmente vedranno gli imputati presenti, una mole inutile di lavoro che non porterà neanche ai decantati risultati promessi rispetto alla lotta alla clandestinità.
Nel frattempo da un rapporto dell'Ocse emerge un quadro della situazione dei migranti sempre più sfavorevole. Schiacciati dalla crisi, raramente regolarizzati dai datori di lavoro, in paesi in cui cresce il razzismo e il conflitto sociale orizzontale, sono i primi a pagare e gli ultimi a poter sperare.

l’Unità Firenze 24.9.09
Sollicciano sfiora quota mille: digiunano garante e radicali
di Silvia Casagrande


Sciopero della fame e della sete anche per una detenuta bisognosa di cure mediche
Corleone scrive a Ionta: «Mantenere gli impegni presi con i detenuti quest’estate»
Delle promesse fatte il mese scorso dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per sedare la rivolta dei detenuti, si sono viste finora solo la doccia domenicale e la possibilità di comprare un gelato al giorno.
SILVIA CASAGRANDE
FIRENZE fircro@unita.it
L’aveva annunciato prima dell’estate e ora, purtroppo, sarà costretto a farlo. Sollicciano ha (quasi) toccato quota mille detenuti (siamo a 993) e il loro garante Franco Corleone ha iniziato lo sciopero della fame: «Digiunerò per protestare contro il sovraffollamento della struttura, che a regime dovrebbe ospitare 483 reclusi». Con lui, ma solo per oggi, anche i senatori radicali Poretti e Perduca: «Da tragica la situazione si fa disperata e non ci sarebbe da stupirsi se assisteremo ad azioni che non dovrebbero accadere in un paese civile».
PRIVI DI DIRITTI
Anche dentro le mura del carcere fiorentino c’è qualcuno costretto ad intraprendere lo sciopero della fame e della sete per far sentire la sua voce. È il caso di una quarantenne che 10 mesi fa ha subito un intervento per un carcinoma alla gola e da allora è completamente afona, anche perché «all’interno del penitenziario non riceve le cure adeguate», spiega il consigliere di Sinistra per Firenze Eros Cruccolini che ha raccolto il suo appello: «Chi è privato della libertà perché ha commesso un reato, non può e non deve essere privato del diritto alla salute. Mi sembra anacronistico aggiunge che nel 2009 si debba ricorrere ad azioni come queste per ottenere un diritto sacrosanto».
LE RICHIESTE DEI DETENUTI
Le storie personali fanno solo da cornice a una situazione generale preoccupante, che quest’estate fece scoppiare la protesta dei detenuti, allora sedata con una serie di promesse da parte del capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Promesse realizzate in minima parte: «È offensivo pensare di aver risolto la questione con una doccia in più e la possibilità di acquistare un gelato al giorno», spiega il garante, che con una lettera ha ricordato a Ionta gli impegni presi: «Servono una nuova cucina, l’allargamento dei passeggi e la chiusura della Casa di cura e custodia femminile, dove su 15 solo 2 detenute sono toscane, oltre al permesso di chiamare i familiari ai telefoni cellulari».
LE REGIONI DEL SOVRAFFOLLAMENTO
E a chi invoca la costruzione di nuove carceri, Corleone risponde
Le richieste
Servono una nuova cucina e l’allargamento dei passeggi
come sempre ricordando la composizione della popolazione carceraria: «A Sollicciano il 38% dei detenuti sono tossicodipendenti, di cui 253 donne. Per loro la legge prevede un percorso alternativo alla detenzione attualmente inesistente». Da qui il progetto pilota, già sottoposto alla Regione e in attesa di finanziamenti, di trasferire cento detenuti tossicodipendenti da Sollicciano a comunità di recupero specializzate.❖

Liberazione 23.9.09
Presentata ieri la ricerca sul campo di Ristretti orizzonti
Carcere, fabbrica di suicidi, detenuti orfani della politica
di Paolo Persichetti


«Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica», scriveva Jean Baudrillard. Forse è per questo che in carcere ci si toglie la vita con tanta frequenza. Perché è rimasto uno dei luoghi dove permane ancora l'osceno, dove il sesso è vietato e la morte fa compagnia. Come si conciliano i decessi in carcere dovuti alla malasanità, all'alto numero di suicidi, oppure le migliaia di atti di autolesionismo e scioperi della fame col dettato costituzionale che cita espressamente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e le finalità rieducative della pena? Per chi conosce il mondo opaco degli universi concentrazionari: carceri, centri d'identificazione ed espulsione, Opg e sezioni psichiatriche dove si praticano Tso senza controllo e sono tornati in auge i letti di contenzione in spregio della riforma Basaglia, la domanda può apparire fin troppo logora, un esercizio di svogliata retorica. Il volume edito da Ristretti orizzonti, In carcere: del suicidio e altre fughe , scritto a due mani da Laura Baccaro e Francesco Morelli (lei, psicologa e criminologa, lui, animatore del sito www. Ristretti orizzonti.it ), ha il merito di restituire appieno la capacità di scandalo, l'indignazione della prima volta. Corredato con una serie di appendici storiche, normative e statistiche, il volume affronta il tema del suicidio seguendo un approccio socio-psicologico accompagnato da una ricca documentazione e una folta serie di testimonianze pescate dall'archivio di Ristretti orizzonti . Se ne è discusso ieri in occasione di una conferenza stampa tenutasi presso la Camera dei deputati, presenti Ornella Favero responsabile di Ristretti Orizzonti , Rita Bernardini, deputato radicale-Pd, Luigi Manconi ex sottosegretario alla Giustizia, Luigia Pulla, direttrice dell'ufficio studi dell'amministrazione penitenziaria e altri. Assenti, nonostante fossero i padroni di casa, i poco onorevoli deputati. L'argomento ha già perso d'interesse per il ceto politico-istituzionale (ammesso che l'abbia mai avuto) nonostante lo scorso Ferragosto ci sia stata la più grossa visita parlamentare negli istituti di pena dal dopoguerra. Proprio quella visita aveva consentito di aggiornare i dati sui decessi all'interno delle carceri, 53 (di cui 33 suicidi) dall'inizio dell'anno e almeno 4 mila gli atti di autolesionismo segnalati dall'inizio del 2008. Ultimo l'episodio, che ha avuto una certa eco sui quotidiani nazionali, quello di Sami Mbarka Ben Gargi, il 41enne tunisino morto alla fine di un lungo sciopero della fame avviato per protestare contro una condanna che riteneva infondata. Il fatto che all'interno delle carceri ci si tolga la vita con più frequenza che nella società esterna è un dato abbastanza intuitivo, non ci vuole molto per capirlo. Esistono tuttavia studi scientifici che fin dalla fine dell'Ottocento ne comprovano la fondatezza. Da allora la domanda rimane più o meno la stessa: quali sono le cause che favoriscono lo scatenamento del comportamento suicidario o autolesionista, di fronte ai mutamenti architettonici e normativi che hanno modificato la vita carceraria? Quanto può incidere il sovraffollamento attuale? Il degrado delle condizioni dirette e indirette, la riduzione degli spazi di vita, 3 metri a testa (anche meno in alcune situazioni) invece dei 6-7 abituali, le minori opportunità di lavoro, di spazi di socialità, di colloqui, l'assistenza sanitaria già carente che va in tilt, l'impossibilità per gli operatori (educatori e psicologi ridotti al lumicino) di seguire il trattamento e quindi di presentare dossier che reggano al vaglio di magistrati di sorveglianza sempre più maldisposti a concedere benefici, quanto pesa? Molto moltissimo. Ma c'è un dato che più d'ogni altro sorprende: l'esplosione dei suicidi segue il varo della riforma carceraria. Un terzo in meno prima della riforma e un numero di tentati suicidi e gesti di autolesionismo 14 volte superiore dopo. Gli autori trovano una spiegazione nei mutamenti sociologici intervenuti nella popolazione detenuta, oggi più fragile (alto numero di tossicodipendenti e stranieri); i mutamenti culturali (suicidarsi è meno disonorevole); la frantumazione della coesione; la struttura monocellulare che ha sostituito le camerate e quindi introdotto più solitudine. Rilievi socio-culturali importanti che ricordano in parte le modificazioni che hanno travolto la classe operaia. Ora questi cambiamenti, sovrapposti alle innovazioni normative, delineano un qualcosa che sa molto di politico. La Gozzini (1986) ha spezzato lo sviluppo di rivendicazioni collettive, rendendo la detenzione una vicenda fondamentalmente singola, "privata", legata a una logica premiale, paternalistico-inquisitoriale. L'aggressività o il conflitto hanno così mutato di segno rivolgendosi contro degli attori, i detenuti, divenuti soggetti nel senso di assoggettati. La fine della parola politica, della stagione delle lotte carcerarie ha lasciato come unica via l'impolitica dei corpi.

Repubblica 24.9.09
L´intervento di Stefano Rodotà oggi al Festival del diritto di Piacenza
La frontiere incerta tra pubblico e privato
di Stefano Rodotà


Dalla condivisione dell´intimità su Facebook alla più ridotta aspettativa di privacy per i politici la sfera personale e quella collettiva non sono più in un´alternativa secca

Più mobile che in passato, e ancora più incerta, appare oggi la frontiera tra pubblico e privato, fino a far dubitare che questa distinzione possa ancora essere proposta. La sfera dei media sembra sfuggire alla presa di queste categorie, contiene tutto e il contrario di tutto, e tutto proietta in una dimensione di crescente visibilità. La sfera globale, dove scompaiono o diventano opachi i poteri dei grandi soggetti pubblici, degli Stati nazionali, annuncia la privatizzazione del mondo. Ma una alternativa secca appare spesso improponibile. Nascono nuove formule - "privato sociale", "pubblico non statuale" - che scardinano gli assetti tradizionali. E, sempre più impetuosa, compare la "ragionevole follia" dei beni comuni. Né pubblico, né privato, allora?
Oggi non si possono seguire gli itinerari di Riesman o Sennett, che disegnavano processi lineari, con il prevalere ora dell´una, ora dell´altra logica. Se pure è vero che il privato invade il pubblico, che nella sfera pubblica il personale sostituisce l´impersonale, non si può poi concludere che il privato rimane sempre identico a se stesso. Un altro "privato" è davanti a noi, conosce il bisogno imperioso dell´apparire, si fa governo. E questo impone di ridefinire l´intero quadro di riferimento.
Si va su Facebook per essere visti, per conquistare una identità pubblica permanente. Si alimenta il "pubblico" per dare senso al "privato". Viviamo continui passaggi dall´intimité a quella che Lacan ha chiamato l´extimité: una intimità "esteriorizzata" che non connota soltanto il bisogno di guadagnare una ribalta costi quel che costi, ma rende possibili nuove forme di comunicazione sociale o politica.
In presenza di una sfera pubblica nutrita di spettacolo, di personalizzazione, le figure pubbliche accettano questa logica come una via obbligata per "promuovere" la propria immagine, per guadagnare consenso. Ma, imboccata questa strada, non si può pretendere un diritto all´autorappresentazione, che farebbe nascere una contraddizione tra la scelta di chiedere il consenso attraverso la spettacolarizzazione del privato e la pretesa di fornire un´immagine di sé costruita attraverso selezioni delle informazioni. Se chiedo di essere legittimato e giudicato per quel che sono, non posso poi proporre una immagine falsificata, che inquinerebbe quel giudizio su chi ha funzioni pubbliche che costituisce un elemento essenziale del processo democratico.
Si fa così più impegnativa la definizione della democrazia come "governo in pubblico". Non soltanto il passaggio da figura privata a figura pubblica determina una più ridotta aspettativa di privacy per i politici, per chi ricopre cariche pubbliche, ma si costruisce un nuovo circuito per il controllo del potere, fondato sulla trasparenza, sulla luce del sole come "miglior disinfettante", che attribuisce alla conoscenza dei cittadini una funzione essenziale, e così accentua il ruolo "pubblico" del sistema dell´informazione.
Ma, appunto, non siamo di fronte a processi lineari. Mentre la società della comunicazione presenta il suo conto, poteri vecchi e nuovi elaborano strategie di difesa, si trasferiscono in luoghi sottratti all´occhio del pubblico. Ricompaiono gli arcana imperii, che possono assumere la forma di un modello matematico, di un algoritmo che governa le attività finanziarie. Di questo mondo, privato e opaco, abbiamo avuto diretta nozione con l´esplodere della crisi economica, che ha rivelato la distruttiva privatizzazione di un potere che, esteso sull´intero pianeta, si è sostituito ad ogni altro. E così il pubblico è dovuto correre in soccorso del privato, con un ritorno ad una "privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite". La tardiva riscoperta di un bisogno di regole pubbliche obbliga a ridisegnare un territorio che si riteneva definitivamente assegnato a poteri privati.
Proprio qui s´innesta la questione dei beni comuni, dell´acqua e dell´aria, dell´ambiente nel suo complesso. "Il grande campo di battaglia sarà la proprietà" - aveva scritto, con parole presaghe, Alexis de Tocqueville, svelando la fragilità di un assetto il cui equilibrio era stato fondato su una divisione di compiti: "al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l´impero". Quel conflitto continua, e si è trasferito al mondo dei beni immateriali, alla conoscenza. L´oggetto della contesa non sono più soltanto beni scarsi (la terra, in primo luogo), ma l´ininterrotta produzione di conoscenza che ha in Internet il suo luogo di elezione. Qui la scarsità non è più naturale, ma prodotta da tecniche che limitano la libertà di accesso, determinando processi impropri di privatizzazione. Le regole pubbliche non possono limitarsi ad affermare che l´accesso alla conoscenza è un diritto fondamentale della persona se, poi, troppi contenuti non sono liberamente accessibili. Il centro dell´attenzione, allora, diviene appunto quello dei beni comuni. Non si può consegnare ai cittadini una chiave che apre una stanza vuota.
Continui conflitti di potere accompagnano la ridefinizione del rapporto tra pubblico e privato. Molti sono i protagonisti di questa vicenda, ma è bene ricordare la radicalità con la quale le implicazioni profonde del tema sono state svelate dal pensiero delle donne. Non è solo una formula perentoria - "il personale è politico" - che torna alla memoria. Sono le molte vicende di questi tempi a inquietare, con la pretesa di ridisegnare il privato e il pubblico delle donne in forme che prospettano il primo come una prigione e l´altro come una subordinazione.

Corriere della Sera 24.9.09
L’indagine Identikit di 15 mila insegnanti appena assunti in otto regioni fatto dalla Fondazione Agnelli
La paura di insegnare dei nuovi professori
Temono il rapporto con gli alunni stranieri e con i genitori E alle elementari il 66,9% dei maestri non è laureato
di Gabriela Jacomella


I risultati L’80% ha scelto di fare questo mestiere «per passione», solo l’11% ritiene soddisfacente lo stipendio. Ma il 95% non tornerebbe indietro

Hanno appena firmato un con­tratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — so­prattutto di questi tempi — dovreb­be aiutare a mettere da parte una buo­na dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella.
Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragaz­zi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’ade­guata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppican­te con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecno­logie: alle scuole superiori, addirittu­ra il 49% riconosce di avere un rap­porto non facile con computer e Web.
Ritratto di insegnanti in un inter­no, quello della scuola italiana ai tem­pi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritrat­to accurato, perché le pennellate so­no davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al nu­mero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al que­stionario di 223 domande diffuso dal­la Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e an­cora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Com­plessivamente, 16.000 insegnanti ne­oassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalis­simo tocco di pennello.
Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intor­no alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compi­lati — ammette con un certo orgo­glio Stefano Molina, dirigente di ricer­ca della Fondazione e tra i coordinato­ri del lavoro — significa di gran lun­ga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeter­minato se ne sentono poche. Qui, in­vece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stia­mo parlando del più grande fenome­no italiano di immissione a tempo in­determinato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sape­va bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne co­nosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...».
I titoli di studio, ecco. Quella lau­rea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamen­te, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuo­vi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fon­do del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoas­sunti arrivano, per la metà, dalle gra­duatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, ne­gli anni, moltissimi altri colleghi. L’al­tra metà, invece, viene dalle gradua­torie ad esaurimento, in questo mo­mento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diver­se, con regolamenti diversi». Inse­gnanti del futuro, ma già da rottama­re? Certo che no, anzi: «Stiamo par­lando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, han­no una buona esperienza e un’anzia­nità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inade­guata ».
Perché poi, in questo quadro a for­ti chiaroscuri che ritrae l’ultimo batta­glione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — con­ferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice in­sieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rap­presentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfa­zione agli insegnanti. Nonostante al­cuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di preca­riato ».
E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfa­zione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il rico­noscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Pu­glia.
Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi»
E va sotto il nome di «difficoltà nel­l’insegnare ». Una sensazione «in au­mento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Ga­vosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italia­ni inizino a sentirsi fortemente inade­guati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un diva­rio generazionale, tecnologico, di vi­ta e di apprendimento, e loro non sen­tono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuova­mente) alla mano, nelle scuole supe­riori: il 63% degli intervistati confes­sa problemi nel gestire la multicultu­ralità in classe, il 55% non sa interagi­re come vorrebbe con i genitori. Per­sino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso.
«Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di og­gi ». E in questo senso, la programma­zione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiet­tivo per il Paese dovrebbe essere inve­stire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella peda­gogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicen­do esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto.

il Riformista 24.9.09
«Senza l'Islam l'Europa perde un po' d'anima»
Mohammed Bennis intervistato da Antonello Guerrera


MOHAMMED BENNIS. Intervista con lo scrittore marocchino, appena ripubblicato in Italia da Donzelli. Dai danni della globalizzazione al futuro del Vecchio Continente. «L'Ue accentua l'odio nel Mediterraneo». E ancora: «Chi ha paura della Turchia nell'Unione ha paura di se stesso». Considera la mancata elezione di Hosni all'Unesco «un'occasione persa».

Cristiani ed islamici, uniamoci per vivere meglio. È l'appello di Mohammed Bennis, 61enne scrittore e poeta marocchino tra i più famosi del suo continente, ora riedito in Italia grazie a Donzelli editore con Il Mediterraneo e la parola (128 pp., euro 14). Bennis ha pubblicato oltre venti opere, tradotte in tutta Europa, è stato l'ideatore della Giornata della Poesia dell'Unesco, che si celebra ogni anno il 21 marzo, con lo scopo di stimolare il dialogo attraverso la poesia. Proprio il dialogo e la tolleranza tra i popoli del Mediterraneo - sempre più divisi e lacerati secondo l'autore - oltre ogni differenza etnica e religiosa, è uno dei punti cardini dell'opera ultima pubblicata da Donzelli. In questi giorni, Mohammed Bennis è in Italia e il Riformista ha colto l'occasione per intervistarlo.
Lei ha vinto numerosi premi, è uno dei poeti più famosi d'Africa. Ha cominciato a scrivere giovanissimo a 17 anni. Cosa rappresenta per lei la poesia e a chi si è ispirato per i suoi libri?
Per me la poesia è sempre stata attaccamento alla vita, sin da giovane, attraverso i versi ho trovato la forza di resistere a tutte le forme della morte. Non posso separarmene, per lei ho abbandonato tutto e mi hanno considerato pazzo per questo. I grandi poeti sono la mia famiglia, non mi tradiscono mai. Di questa mia personalissima cerchia fanno parte diversi scrittori africani come Chabbi, Gibran Khalin e Al Moutanabi. Mentre per quanto riguarda gli scrittori occidentali potrei citare Nietzsche: Così parlò Zarathustra mi ha insegnato il senso della libertà, da quel momento sono diventato un ribelle, ma allo stesso tempo cosciente della responsabilità della poesia. E poi altri classici: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Mallarmé, Hölderlin, Rilke, Lorca. E, sempre da giovane, ho scoperto anche Dante, che considero uno dei più grandi maestri per visione della vita e senso vitale della poesia, perché quest'ultima, come ha fatto con me, ha salvato la vita anche al più grande autore italiano. I poeti sono molto rari, ma per fortuna hanno un popolo che li ascolta.
A questo proposito, oggigiorno da più parti la poesia viene considerata morta o, perlomeno, in stato comatoso. Secondo lei cosa può ancora comunicare la poesia, che in "Il Mediterraneo e la parola", lei difende strenuamente? Lei scrive addirittura di «resistenza» in tal senso e di rischio, altrimenti, di «mutismo collettivo».
Quelli che dicono che la poesia è morta sono i nemici della letteratura. Oggi domina la letteratura mediatica, che segue la politica del mercato. Non c'è che dire, siamo molto lontani dalle grandi avventure letterarie degli ultimi secoli, quando la poesia ancora si ritagliava il suo legittimo spazio. Perché è un genere letterario che agisce segretamente, non sappiamo veramente cosa fa, come agisce. E poi è grazie alle poesia che le lingue esistono. Se sparisse, la parola umana, quella quotidiana, si dileguerebbe perché unidimensionale. È la poesia che veglia sul senso della parola, solo nella poesia si ritrova il senso infinito della parola.
Dal suo punto di vista, qual è la più grande differenza tra poesia occidentale e quella araba?
Le grandi esperienze versificatorie si rifanno allo stesso livello di qualità, non c'è comparazione tra i grandi di culture diverse. L'importante in queste tradizioni è di avere sempre un rapporto col corpo e col pensiero. Se proprio vogliamo trovare una differenza, una caratteristica della poesia arabo-orientale è il marcato rapporto con il corpo, che è una relazione sempre viva, sempre presente. Mentre invece nella tradizione occidentale il pensiero è spesso al centro di tutto. Personalmente credo che la poesia sia la lingua del corpo, perciò mi ritrovo nella tradizione sensibile e corporea.
Nella sua opera si scaglia contro la globalizzazione, secondo lei deleteria per la cultura. Perché tanto astio?
Il problema della globalizzazione è che vuole sottomettere tutta l'umanità ai regimi dell'economia e dell'informazione. Vuole sopprimere l'essenziale della vita umana, vuole fare di ciascuno di noi una sola persona affinché risponda alla domanda del mercato. L'essere umano invece è molto più grande e la sua immaginazione lo eleva dal piattume. La globalizzazione genera la chiusura in noi stessi. È la parola che non parla più.
Nel suo libro definisce «ignorante» chi afferma che le radici dell'Europa non si possono ritrovare solo nei valori giudaico-cristiani. Perché?
No, mi faccia chiarire bene questo punto. È vero che prima del Medioevo l'Europa poteva definirsi giudaico-cristiana, ma l'Europa moderna, nata dal Rinascimento italiano, era un continente in serrato dialogo con la cultura arabo-islamica. Lo stesso Dante è figlio di questo rapporto interculturale ed è assolutamente incomprensibile che si continui ad ignorare la storica e decisiva influenza islamica in Europa. Tutti i malesseri della nostra società nascono da questa incomprensione. Se invece avesse luogo il riconoscimento di questa commistione culturale, il rapporto tra cristiani e islamici potrebbe avviarsi verso la normalità e la tolleranza. Perché la cultura è lo spazio della verità.
Quindi immagino che lei veda di buon occhio l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea...
Ma certo, perché no? Per me la Turchia è già europea. Per come conosco i turchi, il loro stile di vita è molto simile a quello degli europei. Chi ha paura di far entrare la Turchia nell'Ue ha paura di se stesso. In alcune zone, per quello che ho visto, Roma somiglia a Pechino. Oggi ero a Piazza Navona e (agita le braccia verso l'alto, ndr) c'erano esclusivamente stranieri. Quindi perché sbarrare la strada ai turchi? I politici non hanno più immaginazione, solo gli artisti possono darci un'idea vera e moderna dell'Europa e dell'area mediterranea. Ben venga Obama che, al contrario di molti altri, dà grande spazio all'immaginazione e alla cultura.
In questo senso, che ne pensa delle politiche migratorie dell'Ue?
L'approccio europeo nei confronti dei paesi arabi del Mediterraneo non ha coscienza del futuro, non fa altro che accentuare l'odio e favorisce gli spiriti deboli. Invece, il Mediterraneo è lo spazio della nostra vita comune, lo è stato e dovrebbe esserlo sempre di più, senza timori di lingue o etnie differenti. Per questo difendo la sua dimensione culturale.
Lei è stato l'ideatore della Giornata della poesia dell'Unesco. Che ne pensa delle accuse di antisemitismo rivolte al ministro della Cultura egiziano Farouk Hosni e della sua mancata elezione alla presidenza del massimo organismo culturale a livello mondiale?
Sia ben chiara una cosa. Non sono favorevole a Hosni come persona in se per sé, ma la dura opposizione contro di lui nascondeva anche l'astio nei confronti del mondo arabo, perché questo aspetto è stato sottolineato più volte. Ad ogni modo, penso che purtroppo abbiamo perso un'occasione unica: un egiziano a capo dell'Unesco avrebbe giovato a tutte le culture per un riavvicinamento tra popoli che oggi sono in conflitto, almeno ideologico.
Ma non pensa che forse Hosni non fosse la persona giusta, visto il suo background e ultima la rivelazione sull'Achille Lauro...
A volte si accettano tutte le sconfitte per ottenere una sola importante vittoria. Qui non si trattava della vittoria di Hosni ma, al contrario, della concessione del diritto di parola al cosiddetto "Altro". Che così rimane sconosciuto e, ancora una volta, dimenticato.

l’Unità 24.9.09
Com’era colorata e meticcia la pittura romana


Non era un mondo di immagini in bianco. Dal voluttuoso abbraccio tra Polifemo e la nuda Galatea agli enigmatici ritratti di uomini e donne dall’oasi del Fayyum in Egitto, nell’impero romano esteso dalla Spagna alla Siria dipingevano molto e bene e con una varietà di colori e una fantasia oggi ignorate: pensiamo infatti la cultura classica come una infinita sequenza di statue in marmo bianco e non era affatto così. Lo prova «Roma. La pittura di un impero», mostra aperta da oggi al 17 gennaio alle Scuderie del Quirinale a Roma, curata da Eugenio La Rocca e allestita da Luca Ronconi e Margherita Palli. Dove un centinaio di pitture murali dal III secolo a. C. al II d.C. dispiega superfici dipinte a rosso cinabro, azzurri, scene di amplessi e riti sacri, fantasie architettoniche e nature morte. Quest’arte suggerisce il direttore dei Musei Vaticani Paolucci è solo l’eco della straordinaria ma irrimediabilmente scomparsa pittura greca del V e IV secolo a. C. e nasceva dalle genti dell’impero: «tra facce mediorientali, negre, egizie, germane, da quel meticciato che ha fatto l’Europa moderna». STE. MI.

Repubblica 24.9.09
Ma come mai qui sono tutti bianchi?



Caro Direttore, i miei figli hanno 12 e 9 anni. Vivono a Milano da due mesi. Tutti, bambini e genitori, li vogliono come compagni di classe, di giochi, di compiti. Eppure avevo sentito che i bambini stranieri sono considerati un "problema" nelle scuole italiane. I miei figli parlano un italiano approssimativo. I loro compagni di classe cinesi o arabi non suscitano tanto entusiasmo. Dimenticavo, i miei figli si esprimono in inglese. Sono cresciuti a Toronto. Di fronte a loro, a noi in generale, come famiglia, ogni barriera si abbatte, gli italiani si mettono in ginocchio pur di scambiare quattro parole.
Hanno la cittadinanza italiana perché io, la madre, sono italiana naturalizzata canadese. Ma il loro passaporto diventa un dettaglio per gli ammiratori che ignorano e non si curano della loro italianità anagrafica. Parlano in inglese, fra loro e con noi, quindi sono degli dei.
Dovrebbe farmi piacere, tutto questo interesse, e sono molto contenta che questo elemento stia di fatto facilitando la loro integrazione. Eppure mi fa anche tristezza constatare il provincialismo di cui è frutto.
Immersa in una società davvero multietnica, dove la diversità è un pregio da esibire, sono abituata ad apprezzare ogni seconda lingua, ogni seconda cultura. Invece constato qui che i miei figli sono accolti meglio di bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri, che per i miei parametri sono italianissimi, ma che hanno occhi a mandorla o la pelle scura.
Parlando con un bambino italiano è emerso che sua madre è marocchina. «Sei fortunato – gli ho detto – puoi imparare l´arabo. Cerca di non dimenticarlo mai ed esercitati perché sarà una competenza molto richiesta in un mondo del lavoro che darà l´inglese per scontato». Il padre, italiano, del ragazzino, mi ha guardato come fossi un´aliena, al punto che ho pensato di aver toccato un tasto doloroso: forse la madre era deceduta o divorziata e lontana. «Non gliel´ha mai detto nessuno - mi ha spiegato riferendosi al figlio che, ha aggiunto - non solo non esibisce mai questa capacità linguistica , ma addirittura la tiene nascosta».
Spingere la gente o peggio, i bambini, a vergognarsi della propria identità non porterà a nulla di buono. A Toronto è esattamente l´opposto. L´esaltazione della diversità è tale che sono i ragazzi "solo" anglosassoni a sentirsi obbligati, per apparire "cool", a fingere di avere una parentela italiana, portoghese o giamaicana. Il Canada è ben lontano dall´essere il paradiso sulla terra che molti pensano, ma in termini di politiche per l´integrazione dovrebbe essere una scuola obbligatoria per ogni amministratore e politico italiano che abbia a cuore il conseguimento di una società pacificata e più vivibile per tutti.
Mentre mi cimento a spiegare ai miei figli l´analisi grammaticale e l´educazione tecnica, mi chiedo anche quando la scuola italiana entrerà nel terzo millennio. Dov´è l´educazione ambientale, l´esposizione al multiculturalismo, la valorizzazione per esempio delle lingue e delle culture rappresentate in ogni classe? A Toronto non so nemmeno quanti fossero i figli di immigrati tra i compagni di scuola dei miei figli. Prima di tutto i bambini erano tutti considerati canadesi. Ogni giorno, inoltre, i programmi offrivano loro decine di occasioni per essere fieri della loro lingua polacca, o farsi, portoghese o italiana.
Una domanda molto frequente che i bambini canadesi si rivolgono quando si incontrano in un parco non è «come ti chiami?», ma semmai «e tu che lingua parli a casa?». In un clima di questo genere l´essere straniero non può essere un problema.
Sono certa che i miei figli acquisiranno una cultura più solida, dal punto di vista umanistico, nella scuola dell´obbligo piuttosto che in una nordamericana. Ma l´esposizione alla diversità e l´insegnamento che hanno ricevuto dalla scuola canadese, è ineguagliabile. Al punto che , ricorderò sempre una vacanza in Italia di cinque anni fa, quando scoprii che per mio figlio, allora di otto anni, una società omogenea era una menomazione, un´anomalia che ovviamente non poteva essere naturale. «Mamma – mi disse – non vorrei offenderti, ma mi sembra che siano tutti bianchi qui… Cosa avete fatto agli altri?».
Irene Zerbini