domenica 27 settembre 2009

l’Unità 27.9.09
Einstein sulla guerra
di Gianni Zampieri


Da Tacito in poi sappiamo che nessuna guerra è fatta nell’interesse del popolo e che il popolo non ricava mai alcun beneficio dalle guerre, di cui al contrario paga tutti i costi in termini di morti e feriti, orfani e vedove, danni materiali e morali e perfino economici, pagandone le tasse. Ma allora come si spiega che si continuano a fare le guerre e soprattutto che queste vengono accettate se non sostenute dal popolo? Non avendo io alcuna autorevolezza in materia, ricorro a qualcuno più autorevole di me. Dalla Lettera di Einstein a Freud Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932: «...La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità. .... la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica». Ma lo sapeva e lo dichiarò perfino Hermann Goering, durante il processo di Norimberga (ottobre 1946): «Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né in Inghilterra, né in Germania ma che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. È facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, in quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi».

l’Unità 27.9.09
«Berlusconi? Ci ha narcotizzati con un’ideologia simil-comunista
Pensiero unico. Il suo progetto è quello di abolire le diversità
Elisabetta Ambrosi intervista Barbara Spinelli


Un Paese atrofizzato. Ha agito secondo schemi monolitici, come negli anni ‘70. E quando denuncia i poteri forti in realtà attacca i contrappesi democratici

La filosofia e la politica sono affascinate dall’idea dell’Uno, che si traduce nella ricerca di verità e consenso. Ma senza contraddittorio nessuna tesi può persuadere: è la chiave del libro di Barbara Spinelli, «Una parola ha detto Dio. Due ne ho udite. Lo splendore delle verità» (Laterza, pp. 86, euro 8).

Solo se la bolla scoppia usciremo da questo incantamento
L’autocensura preventiva. L’informazione oggi vive nel senso di pericolo e obbedisce con la fretta di arrivare prima ancora che giunga l’ordine

Un sogno sciagurato di unanimismo e di abolizione del conflitto, della diversità, delle opposizioni»: è l’Italia di Berlusconi, secondo Barbara Spinelli, scrittrice e autorevole voce del giornalismo italiano. Un’Italia che appare assai più vicina al suo vecchio avversario “comunista” di quanto il suo premier non voglia far credere. «La sinistra extraparlamentare era caratterizzata da sprezzo dello Stato, delle istituzioni, della maestà della legge, della costituzione. Bene, da questa atrofizzazione del pensiero non siamo ancora usciti, l’opera di distruzione continua pur essendosi spostata a destra. Ci vorrebbe una rottura di continuità, sia rispetto agli anni ‘70 sia rispetto agli anni Berlusconi, due fenomeni che sono facce apparentemente diverse della stessa medaglia». Il suo ultimo libro è un elogio del pluralismo, della verità che emerge per contrasto. Secondo lei anche un certo pensiero liberale è attratto dalla tentazione dell’unanimità? «Alla fine del comunismo, che era un’idea monolitica del mondo, non abbiamo risposto riscoprendo le verità diverse, ma cercandone ancora una volta una unica, intollerante verso le competizioni. L’idea che circolò di una “fine della Storia” pretendeva di rompere con l’ideologia della verità unica e inoppugnabile, ma in realtà la riproduceva tale e quale: la democrazia occidentale aveva vinto, altro spazio non c’era per qualsivoglia idea alternativa. L’Uno era la grande illusione di ieri e lì siamo restati: ancora non abbiamo iniziato a contare almeno fino a due». Di questa sorta di virus del pensiero unico sembra tuttavia essere affetta anche un’opinione pubblica che appare sempre più silente, assopita. Forse disincantata. «Più che di disincanto, parlerei di incantamento, di narcosi. E dalle bolle dell’ultimo ventennio non solo finanziarie ma soprattutto mentali, compresa quella di Berlusconi e della politica spettacolo solo il disincanto ci salverà, solo se la bolla scoppia apriremo gli occhi a quel che succede. La fedeltà alla Costituzione non produce incanto. È qualcosa di asciutto, di secco, ed è anche una passione, che tanti servitori dello Stato hanno pagato con la vita».
Anche le donne, a suo avviso, sono vittime di questo incanto, come dimostra il loro silenzio, nonostante siano sempre meno rappresentate e sempre più vilipese (come ha mostrato la «faccenda escort»?) «Non mi sembra che il silenzio femminile sia più accentuato rispetto a quello degli uomini, e in genere non mi piace l’idea di un gruppo – ̆tanto meno un genere ̆– dotato di speciali diritti o obblighi identitari. Mi sembra inoltre sbagliato giudicare i doveri e diritti della protesta con i criteri degli anni ‘70. Certo, rispetto a quell’epoca tutto appare affievolito, depotenziato, ma non dimentichiamo che le idee degli anni ‘70 sono state anche rovinose. Quanto a Berlusconi, infine, forse smetterei di parlare di “faccenda delle escort”. Lo scandalo non sono le escort, ma la natura ormai ibrida di palazzo Grazioli, abitazione privata e al contempo luogo pubblico; e l’idea che Berlusconi si fa delle donne in politica e della vocazione politica in sé: bellezza, seduzione fisica, e soprattutto estrema, incondizionata disponibilità nei confronti del capo».
Come usciamo, allora, dal sortilegio in cui siamo caduti?
«Ricordando Montesquieu: il potere necessariamente tende a dilatarsi abusivamente e per questo sono necessari contropoteri forti, autonomi, che lo frenino. Tende a dilatarsi abusivamente anche il potere della maggioranza e dell’opinione pubblica maggioritaria, che pure fondano la democrazia. Quando Berlusconi denuncia i poteri forti, denuncia in realtà la forza dei contropoteri».
Come la stampa. Che in realtà, più che forte, appare vulnerabile. «La stampa oggi è in pericolo non solo a causa di Berlusconi; è in pericolo se non fa il suo mestiere, se vive nel sentimento del pericolo. Spesso si ha l’impressione che i giornali italiani si censurino in anticipo, temendo chissà quali ritorsioni. I tedeschi chiamano questo atteggiamento, fortissimo durante il periodo nazista, vorauseilende Gehorsamkeit: l’obbedienza che corre con la fretta di arrivare prima ancora che giunga l’ordine. I giornali tuttavia sono in pericolo comunque, con o senza Berlusconi: ovunque siamo in crisi e perdiamo lettori perché non sappiamo più dare un’informazione diversa qualitativamente da internet e televisione. Non opponendoci ci rendiamo non solo vulnerabili, ma alla lunga anche poco credibili verso i lettori» ❖.

Repubblica 27.9.09
La memoria del passato la speranza del futuro
di Eugenio Scalfari


DOPO aver assistito all´anteprima di "Baarìa" che Giuseppe Tornatore ha fatto proiettare in esclusiva per i suoi concittadini, Francesco Merlo ha concluso il suo articolo facendo parlare Nina Campo, una signora di Bagheria che gli ha fatto da guida nella città di oggi e nei ricordi di quella di settant´anni fa.
Voglio qui riportare quelle parole perché hanno un senso estremamente attuale: «Vorrei che partisse da Bagheria una lotta di liberazione della memoria. Basta con c´era una volta. Sa Dio quanto la Sicilia ha bisogno di cambiare tempo alle favole: ci sarà una volta».
Solo per la Sicilia? O per tutta l´Italia dalla punta e dal tacco dello Stivale fino all´arco delle Alpi?
In un libro appena uscito che si intitola "Autobiografia di una Repubblica" lo storico Guido Crainz si chiede e ci chiede: «Che cos´è una patria se non un ambiente culturale, cioè conoscere e capire le cose?» e racconta come e perché l´Italia sia percorsa da un fiume carsico sotterraneo che nell´arco degli anni erompe alla superficie con il suo carico di demagogia, qualunquismo, populismo, vittimismo; un carico fangoso, gonfio di detriti e di frustrazioni, di ribellismo e di conformismo, di anarchia e di passiva obbedienza.
Un fiume carsico così denso e mefitico esiste in tutti i paesi d´Europa e d´America e alimenta minoranze xenofobe e antagoniste collocate ai bordi delle istituzioni. Ma la triste particolarità nostra consiste nel fatto che qui da noi quel fiume quando emerge esonda coinvolgendo ampi settori sociali e occupando le istituzioni.
Fa parte della storia nazionale e del suo costume. Quando eventi del genere si producono è un grave errore giudicarli incidenti di percorso. E se la nostra democrazia è fragile, se da noi il senso dello Stato è un sentimento larvale, se il rapporto tra la politica e l´affarismo, se le mafie, se le clientele, se la cultura, se gli intellettuali, se la libertà di stampa, se se se...; ebbene tutto ciò ha una spiegazione. Bisogna cercarla questa spiegazione e raccontarla affinché, come ha scritto Crainz, la parola patria acquisti finalmente un senso e la parola democrazia non si riduca ad una giaculatoria sulle labbra dei mascalzoni.
Qualche segnale che dà speranza ha cominciato a manifestarsi. Parlo di segnali culturali perché credo anch´io che un paese devastato non possa avere riscatto se non ricostruisce la memoria del suo passato per poter intravvedere il futuro.
Lotta di liberazione della memoria l´ha definita Nina Campo da Bagheria. Cominciamola dunque questa lotta e non allentiamo l´impegno fino a quando non avremo ripulito il fango e il loto che ha imbrattato l´animo delle persone e le strutture della nazione e dello Stato.
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I segnali provengono da tre eventi che possono sembrare a tutta prima di modesta portata: un film, un romanzo, un saggio. Il film è appunto quello di Tornatore, il romanzo si intitola «Noi» e l´ha scritto Walter Veltroni, il saggio è un libro-intervista di Alberto Asor Rosa ed ha per titolo «Il grande silenzio degli intellettuali».
Sono stati recensiti dai giornali e circolano nelle librerie e nelle sale cinematografiche. «Baarìa» insieme ad altri quattro film è sotto esame per la candidatura alle «nomination» degli Oscar. Non ho quindi alcun bisogno di esaminare l´estetica di questi tre prodotti artistici e letterari e infatti non è questo che mi sono proposto di fare.
Desidero invece capire il nesso che esiste tra di loro, l´impulso che ha mosso i loro autori, il significato della loro simultaneità. Sono stati prodotti tutti e tre nei mesi scorsi e sono stati messi in questi giorni a disposizione del pubblico. Coprono tutti e tre un arco di tempo che va dagli anni Trenta del Novecento ad oggi. Esaminano il percorso di tre generazioni da tre diverse angolazioni sociali. Tornatore rappresenta la saga d´una famiglia e di un ambiente di braccianti, piccoli artigiani, lavoratori senza prospettive di futuro. Veltroni un´altra saga familiare di piccolissima borghesia. Asor Rosa la società dei colti, degli intellettuali e del loro rapporto con la politica.
Abbiamo dunque contemporaneamente sotto gli occhi una società sezionata su tre diversi livelli che nel loro insieme producono una sorta di risonanza magnetica e fanno emergere i vizi le virtù e la forza di quel corpo sociale nel suo insieme.
Vedremo in che modo e con quali esiti.
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I pastori, i contadini e i poveri (sono tutti poveri e poverissimi) di Baarìa sono in stato di schiavitù, non solo degli agrari, dei fascisti e dei mafiosi, ma dei costumi del luogo e dell´epoca. Le donne in particolare. E i bambini.
Così li racconta Tornatore e così erano nella realtà. Chi ha avuto dimestichezza con i contadini del Sud conosce quella realtà che non era soltanto siciliana, era la stessa nelle Calabrie, in Basilicata, nelle Puglie.
Le malattie, la fame, la promiscuità, gli incesti, i tuguri, gli aborti delle mammane, i vermi nella pancia, il tracoma. I funerali con le nenie e i graffi sulle guance delle donne salmodianti, le processioni e l´attesa dei miracoli. I rapimenti delle ragazze e i matrimoni riparatori.
Durò fino alla guerra e oltre. Poi cominciò la grande fiumana dell´emigrazione. I giovani del Sud emigrarono in massa, l´Italia contadina diventò industriale, 5 milioni di ventenni spezzarono le radici che li legavano al Sud e scoprirono di esser cittadini titolari di diritti.
Ma molti l´avevano già scoperto nelle loro terre d´origine rispondendo al richiamo del sindacato e del Partito comunista.
Tornatore racconta questa lotta di liberazione, nella quale caddero sotto i colpi della mafia decine e decine di sindacalisti e di dirigenti del partito. C´è una scena del film in cui il protagonista racconta ad un giornalista come e dove avvennero queste mattanze che hanno costellato la storia di quegli anni.
Il film si chiude con la nuova Bagheria diventata una città «da bere» intasata di automobili e fitta di negozi firmati sull´esempio di Milano, di Roma e di tutto il mondo del consumismo. L´ultimo fotogramma è un poetico flash su un passato miserabile ma riscattato da una dignità che ormai, così racconta Tornatore, sembra un avanzo in disuso.
Sono stato all´anteprima dedicata a Giorgio Napolitano. La sala era gremita e gli onori di casa li facevano i dirigenti di Medusa e di Mediaset com´era giusto che fosse perché il film l´hanno prodotto loro. E chi altri avrebbe potuto in Italia? Un film di sinistra senza ammiccamenti.
Entrando ho visto al mio fianco Pippo Baudo. Mi ha detto: «C´è il regime al completo». Era vero, ma quando il regime è costretto ad applaudire il talento culturale di chi gli si oppone, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo.
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Il romanzo di Veltroni si muove sullo stesso piano del film di Tornatore, la trama copre lo stesso arco di tempo e scandisce l´evoluzione della società del bisogno e dei doveri a quella del benessere e dei diritti, fino all´ultima svolta e all´ultima metamorfosi in un consumismo stordito e schiacciato sull´attimo fuggente, senza più storia né progetto.
Nel romanzo c´è un elemento in più rispetto al film: la persecuzione contro gli ebrei nell´epoca del nazifascimo e la sostanziale indifferenza degli italiani.
Noi – questo è il titolo – non è un´operazione politica travestita da romanzo, ma un romanzo con un fondo morale, come sono tutti i romanzi veri. Un fondo morale non indicato in forma didascalica ma vissuto attraverso le avventure e i sentimenti dei personaggi, i loro conflitti, i loro affetti, la loro discendenza, i loro successi e le loro sconfitte.
La voglia dell´autore è quella di raccontare una vicenda collettiva attraverso una saga familiare. Il finale registra una società appiattita e ipnotizzata dentro alla quale cominciano a serpeggiare brividi e bagliori di speranza.
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Asor Rosa, intervistato da Simonetta Fiori, racconta il grande silenzio dei colti e una politica diventata spettrale da quando non ha più vissuto nella luce della cultura.
Il racconto ha la forma di una testimonianza in gran parte autobiografica e questo è il suo pregio perché Asor Rosa non ha la pretesa di mettersi fuori o addirittura al di sopra della mischia. Lui nella mischia c´è stato a partire da quando si iscrisse al Pci e ne condivise criticamente gli errori e le virtù. Storicizza la vicenda vissuta dal partito, che abbandonò nel 1956 per poi rientrarvi nella fase berlusconiana. Storicizza non per giustificare gli errori del partito e i suoi, ma per spiegare perché furono commessi. Per capire, arrivando alla conclusione d´una decadenza culturale che ha messo il nostro paese fuori dalla modernità.
Vede lucidamente il fiume carsico che scorre limaccioso nelle vene della società italiana e gli esiti che comporta ogni volta che emerge dal sottosuolo e identifica la debolezza degli argini con la presenza di quei colti che Prezzolini chiamò «apoti».
Prezzolini fu la figura più rappresentativa degli "apoti", quelli che si mettono appunto fuori e al di sopra della mischia in una posizione solo apparentemente neutrale che in realtà si risolve in un fiancheggiamento delle pulsioni disgreganti e anarchiche del carattere italiano.
La diagnosi è simile a quelle di Tornatore e di Veltroni. Manca anche in lui, nella sua testimonianza, una terapia e la ragione di questa mancanza è chiara: la sola terapia possibile sta nella diagnosi. Di lì bisogna partire; un compito che non spetta ad una persona, ad un leader mandato da una improbabile Provvidenza, ma spetta ad un popolo che decida di riappropriarsi della sua sovranità come deve avvenire nei tempi di decadenza e di crisi.
Un film, un romanzo, un saggio, animati tutti e tre dalla necessità di recuperare la memoria delle cadute e dei rinascimenti. Liberazione della memoria, questo è il loro pregio e per questo li ho qui segnalati.

Repubblica 27.9.09
Il Segretario di Stato vaticano: guai se strumentalizzate. Poi chiede "armonia per l´Italia"
E Bertone sollecita il premier "Attese forti su vita e famiglia"
di Marco Politi


PRAGA - «Relazioni serene e normali». Passa la linea Bertone nei rapporti tra Santa Sede e Governo italiano. Nell´entourage papale si sottolinea che il Vaticano vuole tenersi assolutamente fuori dalle polemiche che avvelenano la politica italiana, ma c´è anche una condizione che gli uomini del Palazzo apostolico hanno posto al blitz berlusconiano: che a sua volta il premier tenga il pontefice fuori da strumentalizzazioni politiche interne e dunque i temi strettamente «italiani» sono stati espunti dal breve colloquio di Benedetto XVI con Berlusconi.
La mossa di Berlusconi non si è concretizzata all´improvviso venerdì sera, come si tenta ufficialmente di far credere. Già giovedì dalla cerchia ristretta del Cavaliere sono partiti i primi riservatissimi segnali al cardinale Bertone e all´entourage papale: l´Appartamento, come viene chiamato nel gergo vaticano. Un ballon d´essai segretissimo al punto che nella stessa Segreteria di Stato gran parte dei monsignori era all´oscuro della richiesta berlusconiana.
Dopo mesi passati a inseguire invano un incontro con il pontefice, Berlusconi ha giocato il tutto per tutto puntando su questa piccola forzatura. Per il Vaticano era difficile rifiutare. Altre volte i presidenti del Consiglio si erano presentati a Ciampino ad accogliere i papi dai loro viaggi. Dunque venerdì quando in America era mattino (e in Italia mezzogiorno passato) e lo staff berlusconiano cercava di organizzare il piano di volo, dal Vaticano è venuto il disco verde. A due condizioni. Primo, silenzio assoluto per non «oscurare» l´attenzione dei media sul viaggio del pontefice. Secondo, nessun riferimento a fatti di politica interna nel colloquio con il Papa: per non dare l´impressione di quegli «scambi mercantili» che il presidente della Cei Bagnasco ha respinto nella sua relazione ai vescovi.
La regia dell´evento ha corrisposto alla prudenza vaticana. Bertone e Berlusconi non si sono seduti a conversare a tu per tu. Berlusconi e Benedetto XVI hanno parlato in piedi davanti all´auto del pontefice e hanno continuato camminando.
Ma pure in questa cornice il Segretario di Stato vaticano ha inserito temi che stanno a cuore alla Chiesa. Nel giro d´orizzonte su Pittsburgh il cardinale Bertone ha ricordato quanto sia cara alla Chiesa la «difesa della vita» e il «sostegno alle famiglie». Berlusconi ha capito al volo: testamento biologico e aiuti economici ai nuclei familiari. Insomma Bertone - come già aveva fatto con Bossi - ha sollecitato quei «fatti», cui la Chiesa annette la massima importanza.
Poi, sull´onda dei discorsi sulla concordia internazionale, Bertone ha colto l´occasione per suggerire al presidente del Consiglio di curare un clima di «armonia» anche sul piano interno. Per un incontro vero e proprio tra premier e pontefice, dicono in Vaticano, bisognerà tuttavia aspettare che le acque in Italia si siano calmate.

Repubblica 27.9.09
Ratzinger a Praga, 20 anni dopo "Comunismo basato su menzogne"
L´omaggio ad Havel nell´anniversario della caduta del Muro
di Marco Politi


Il Papa: la Rivoluzione di velluto ha liberato la Cechia dall´oppressione atea, ora i cristiani tornino a far sentire la loro voce

PRAGA - Distratta e indifferente Praga accoglie Benedetto XVI in un meriggio di weekend senza folle, senza bandiere, senza manifesti. Papa Ratzinger lo sa, è una sfida nel cuore dell´Europa secolarizzata. Ottanta per cento erano i cattolici cechi prima della guerra mondiale, 30 sono oggi e appena il cinque per cento dei fedeli va a messa. Per questo in aereo il Papa confida ai reporter che i cristiani devono comportarsi come le «minoranze creative che fanno la storia», sapendo di avere un´eredità di valori viva e attuale. Certamente, soggiunge, praticando il dialogo intellettuale tra agnostici e credenti: «Entrambi hanno bisogno dell´altro: l´agnostico non può esser mai contento di non sapere, ma deve essere in ricerca della grande verità della fede; il cattolico non può essere contento di avere la fede, ma deve essere in ricerca di Dio ancora di più».
Vent´anni dopo la scomparsa dell´impero comunista, Ratzinger pone in questo suo pellegrinaggio il problema del contenuto della libertà. Ne parla più volte durante la giornata. In aereo ricorda lo scrittore dissidente e poi primo presidente Vaclav Havel, quando ammoniva che la «dittatura è basata sulla menzogna». Il crollo del muro di Berlino, afferma il pontefice all´arrivo, è stato uno spartiacque della storia mondiale. La "Rivoluzione di velluto" ha liberato la Cechia dall´«oppressione atea». Ma ora che sono finiti i quarant´anni di repressione, il pontefice esorta tutti a riscoprire le radici cristiane della propria cultura e i «cristiani facciano sentire la loro voce».
Ricevuto dal presidente Klaus nel castello di Praga tra fanfare barocche e uno splendido Te Deum del compositore ottocentesco Dvorak, nello sfarzo del Salone Spagnolo tutto specchi e lampadari dorati, papa Ratzinger domanda all´uditorio composto dalle più altre autorità politiche e dal corpo diplomatico se la libertà riconquistata possa essere disgiunta dalla ricerca della verità e del «vero bene».
Poco dopo, sotto le volte gotiche dell´antica cattedrale di San Venceslao, Benedetto XVI proclama ciò che gli sta a cuore. Dopo il lungo «inverno comunista», in una società ancora segnata dalle ferite dell´ideologia atea, la sfida è di misurarsi con la «mentalità del consumismo edonista, la pericolosa crisi di valori umani e religiosi, la deriva di un dilagante relativismo etico e culturale». Allora, è bene che la religione «abbia un ruolo maggiore nel Paese», anche se la «Chiesa non domanda privilegi, ma solo di poter operare liberamente al servizio di tutti». Aggiunge Benedetto XVI, ben conoscendo lo spirito laico dei cechi: «È sempre utile ripeterlo». In ogni caso l´Europa riconosca il ruolo insostituibile del cristianesimo. Il presidente Klaus si dice d´accordo con lui: denuncia la dissoluzione dei valori, la manipolazione dei media, gli abusi della scienza, la degradazione del modello tradizionale di famiglia.
Le concordanze si dissolvono, invece, quando si toccano i temi pratici. La Chiesa chiede la restituzione dei beni nazionalizzati dai comunisti. Una commissione parlamentare aveva calcolato in 83 miliardi di corone (circa venti miliardi di euro) la somma da restituire in sessant´anni. I deputati si sono rifiutati di ratificare il progetto. Dichiara il primo ministro ceco Fischer uscendo dal colloquio con il cardinale Bertone al Castello: «In tempi di crisi economica mondiale la questione non è una priorità».
Il Papa con Klaus non è entrato in questi dettagli. Ai giornalisti racconta di essere contento che il polso fratturato ad Aosta va migliorando: «Ho ricominciato a scrivere. Con l´aiuto di Dio forse il libro su Gesù sarà pronto a primavera».

Corriere della Sera 27.9.09
Il Pd e i cattolici. Mentre il leader si schiera per le unioni civili, il rivale vuole incontrare il segretario di Stato dopo il congresso
E Bersani avvia i contatti con Bertone
Franceschini costretto alla svolta laica per rimontare, l’ex ministro coltiva i legami con Cl
di Maria Teresa Meli


ROMA — È tempo di con­gressi, per il Pd. E poi ci sono le primarie. Quindi non è il ca­so di dare troppa pubblicità al­l’offensiva diplomatica nei confronti della Chiesa che, sot­to traccia, stanno portando avanti sia Dario Franceschini che il suo sfidante Pierluigi Bersani.
Il segretario non è riuscito ancora a farsi ricevere dal se­gretario di stato vaticano Tar­cisio Bertone. Il leader del Par­tito democratico non ha gran­di addentellati con le gerar­chie d’Oltretevere. Ha incon­trato in passato Angelo Bagna­sco, presidente della Conferen­za episcopale, ma tra i suoi so­stenitori solo l’ex ministro del­l’Istruzione Beppe Fioroni ha relazioni strette con il Vatica­no e con Bertone. Ed è diffici­le che, almeno per il momen­to, Franceschini riesca a inten­sificare questi contatti.
Soprattutto ora che l’unica carta che può giocarsi per riu­scire a sconfiggere Bersani è quella di «sfondare» alle pri­marie nel popolo del Pd che ti­fa per Ignazio Marino. Per que­sta ragione il segretario dovrà far mostra di essere un laico a 360 gradi, il che, inevitabil­mente, allungherà la distanza che lo separa dalle gerarchie ecclesiastiche. E infatti dopo una dichiarazione vaga sul te­stamento biologico che gli è valsa il «plauso», l’altro ieri, di Avvenire , Franceschini ha dovuto poi fare un’esternazio­ne a favore delle unioni civili anche tra gli omosessuali da­vanti alle telecamere di Gayin.tv . «Io sono assoluta­mente favorevole — ha detto il segretario del Partito demo­cratico — al riconoscimento dei diritti alle coppie convi­venti. È una questione di civil­tà che non va in nessun modo in contrasto con le famiglie fondate sul matrimonio. Noi avevamo tentato con i Dico e credo che dovremmo ripren­dere questo percorso, anche stando all’opposizione». Del resto, Franceschini sa che se non riesce ad aggancia­re l’elettorato di Marino — un elettorato rigorosamente laico — per lui la partita della segre­teria è persa in partenza. Il suo avversario, Pierluigi Bersa­ni, non sembra fare niente, al­meno in apparenza, per ingra­ziarsi la Chiesa. Ma ultima­mente ci sono stati dei contat­ti con Bertone in vista di un possibile colloquio che, ovvia­mente, potrebbe avvenire so­lo dopo che le vicende del Pd si sono chiuse. L’ex ministro del governo Prodi, comun­que, vanta un buon rapporto con alcuni prelati, Achille Sil­vestrini in primis: il cardinale era in platea ad ascoltare Ber­sani al debutto della sua candi­datura alla segreteria del Parti­to democratico. E in quella pla­tea vi erano altri prelati ad ascoltare il probabile futuro segretario che viene dalle file del Pci. Ma Bersani coltiva an­che, e non da ora, un rapporto molto stretto con il vice presi­dente della Camera dei Depu­tati Maurizio Lupi, vicinissi­mo a Comunione e Liberazio­ne, l’uomo che più di ogni al­tro è stato accanto a Magdi Al­lam nel processo che lo ha por­tato alla conversione. D’altra parte Bersani ha con Cl una certa consuetudine. Spesso e volentieri viene invitato al Me­eting di Rimini e tre anni fa, proprio in quella sede, era tra i relatori cui spettava il compi­to di illustrare il pensiero del fondatore di Comunione e Li­berazione Don Luigi Giussani.

Repubblica 27.9.09
Rapporto sugli affari privati del signor Mussolini
Sesso e potere
di Filippo Ceccarelli


Da circa sei mesi è pazzamente innamorato di una giovane" "La donna gli provoca un fortissimo esaurimento fisico" "Ha una grave malattia all´occhio forse provocata dalla sifilide" "Ciò potrebbe influenzare le sue future decisioni". Con questa escalation di preoccupazione il Foreign Office aggiornava un dossier, ora desecretato, sulle abitudini intime del Duce

Esercitazioni di proto-gossip ad uso e consumo delle cancellerie, nel caso specifico del governo di Sua Maestà britannica in un momento cruciale della storia europea. E quindi: «Da circa sei mesi Mussolini è pazzamente innamorato di una giovane donna italiana»... È il 28 dicembre 1938 quando l´ambasciatore inglese a Parigi, Sir Eric Phipps, rivela per lettera al Foreign Office l´esistenza di «Madame Pertinacci». E anche se il cognome è sbagliato, e la notizia arriva a Londra in ritardo (la relazione con il Duce è iniziata nella seconda metà del 1936), si tratta effettivamente di Claretta Petacci: «Figlia di un medico del Vaticano e moglie di un ufficiale della Marina». Ma quella storpiatura che ammicca all´ostinazione amorosa è destinata a entrare nel lessico del carteggio, per cui da allora Claretta resterà per i diplomatici la «Pertinacious Lady», altrimenti indicata con la sigla «P. L.».
Di lei a Londra sanno già parecchio, «e in varie versioni. Nei circoli romani - risponde per il ministero degli Esteri E. M. B. Ingram - corre voce che Mussolini dedica troppo tempo alla signora, a scapito della sua dedizione agli affari di governo». Sotto si legge l´annotazione a penna: «Forse varrebbe la pena di inviare il tutto a Roma per commenti». Gli affari privati del signor Mussolini sono dunque racchiusi in due pesanti volumi di tela nera, e in particolare in una quindicina di cartelle dattiloscritte dal titolo quasi brechtiano: Mussolini´s Personal Affairs, 1938-1939; e chi avesse ancora qualche dubbio sul rilievo che le faccende di cuore, di letto e di salute esercitano nell´ambito del potere trova nei documenti scovati da Mario J. Cereghino una risposta che più netta non potrebbe essere.
Insiste dunque Sir Phibbs nel gennaio del 1939, sia pure spostando il tiro: da un giro di informatori francesi si segnala che «la "Pertinacious Lady" è stata ora messa da parte dal Duce per fare posto ad una placida tedesca. Sembra che la "P. L." - riferisce il funzionario - mettesse in grande ansia i medici di Mussolini, dal momento che la donna gli provocava un fortissimo esaurimento fisico. Di conseguenza, il Vaticano si è mosso per sostituirla con l´attuale dama, che è meno eccitante e la cui influenza fisica e mentale ha effetti più rilassanti». Ora, con tutto che in Inghilterra fiorisce da sempre il più strenuo anti-papismo, questo preteso ruolo della Santa Sede nel procacciare amanti al capo del fascismo suona abbastanza incredibile. Eppure, più di Pio XII e della stessa "P. L.", ciò che in quel momento sembra stare più a cuore al Foreign Office è lo stato fisico e mentale del Duce. In un documento classificato come «molto confidenziale», nel giugno 1939, ancora da Parigi, arriva al governo britannico la dritta che Mussolini si è recentemente recato di nascosto a Zurigo «per essere visitato da Vogt, il grande oculista». Sarebbe questa la sua quinta visita, soffrendo egli da tempo di una «qualche grave malattia all´occhio», non operabile e «forse provocata dalla sifilide contratta nel 1904». E insomma: «Se la capacità visiva del Duce fosse realmente in pericolo, ciò potrebbe influenzare le sue future decisioni». Pure su questo a Londra hanno notizie abbastanza precise, tali da essere girate all´ambasciata di Roma: potrebbe essere «un tipo di cataratta provocata da una sifilide terziaria». E in ogni caso: «Non vi sono ancora prove chiare che le capacità di Mussolini siano in declino, anche se il temperamento e il raziocinio del Duce non sono (forse) sereni come in passato».
L´Europa politica è in subbuglio e valutare le condizioni fisiche di uno dei protagonisti diventa una questione molto seria: «Ritengo che il signor Mussolini non sia più equilibrato come un tempo», annotano al Foreign Office accennando «all´avanzare degli anni» e a «uno stress fisico eccessivo» che sempre pare legato a eccessi sessuali. «In ogni modo - prosegue il funzionario, A. Noble - se la malattia dovesse interferire sulle sue capacità mentali, penso che potrebbe renderlo più incosciente. Nei fatti Mussolini non riceve più visitatori come un tempo e, in generale, sembra meno accessibile. Di recente sembra essere di cattivo umore (ma ciò, forse, è dovuto alle non poche preoccupazioni che egli nutre per l´Italia)». Il 23 settembre del 1939, tre settimane dopo l´entrata in guerra con la Germania nazista, il ministero degli Esteri di Sua Maestà trasmette a Roma un altro documento «segretissimo» che una volta letto chiedono di bruciare. Secondo alcuni rapporti le condizioni del Duce starebbero «sensibilmente peggiorando». Stavolta c´entrerebbe il cuore, «al punto che gli vengono fatte cinque iniezioni al giorno» e non gli resterebbero che «poche settimane di vita». In questo quadro da Londra chiedono di verificare come mai Mussolini «è diventato taciturno, fatto molto inusuale per lui». Da Roma risponde tre giorni dopo l´ambasciatore di Sua Maestà in Italia, Sir Percy Loraine, ridimensionando l´allarme. Non solo il Duce ha «rotto il silenzio» in pubblico, ma riguardo al suo presunto «declino», per quanto ne sa, «Mussolini è pienamente attivo». In modo implicito Loraine consiglia di non baloccarsi con la cataratta, la sifilide (che definisce con pudore «spiacevole malattia contratta in gioventù») o «la ferita d´arma da fuoco al braccio provocatagli da un generale durante manovre militari». Tantomeno vale illudersi a proposito della «debilitazione fisica dovuta a indulgenze extramatrimoniali per le quali non più sufficientemente giovane». Per Loraine la questione è eminentemente politica. «Ritengo che Mussolini si dibatta in una grande incertezza [...]. Egli sa che né l´esercito, né il popolo italiano desiderano combattere a fianco dei tedeschi, nemmeno il Re. Tuttavia Mussolini deve continuare a essere il Duce, e non è facilissimo». Starà pure invecchiando, incalza, ma il suo silenzio ha molte buone ragioni: «Forse capisce che molti suoi calcoli si stanno rivelando errati [...]. Deve cercare di dimostrare di aver sempre avuto ragione. Esercizio che richiede uno sforzo non indifferente».
Rispetto al riduzionismo sanitario a Londra restano male; se non offesi perché «i nostri rapporti non possono essere trattati come degli sciocchi pettegolezzi». E ancora una volta sulla figura del Duce torna a proiettarsi l´ombra della lussuria: «Malattie a parte - si legge nello spazio dedicato ai commenti - lo stress degli ultimi tre o quattro anni avrebbe messo al tappeto chiunque».
Così un eros tempestoso seguita a occupare gli sforzi della diplomazia britannica mentre l´Europa va incontro alla più immane catastrofe. L´ultimo documento, datato 6 ottobre 1939, conferma sulla base di confidenze che il Duce, se non proprio malato, è certamente esausto: «Le sue ultime due amanti lo hanno messo a durissima prova». Fuori da quelle stanze già tuona il cannone. Ma il cosiddetto gossip, come si è visto, lo anticipa e, se è per questo, lo sorpassa anche.

Repubblica 27.9.09
Il ritorno di Lombroso
Il museo della crudeltà
di Massimo Novelli


Il 19 ottobre del 1909 Cesare Lombroso moriva a Torino. A novembre avrebbe compiuto settantaquattro anni. Si chiudeva così una vita di eccessi intellettuali, di contraddizioni, di splendori e di cadute, ritagliata nel pieno fulgore del positivismo. Medico legale e fondatore della moderna criminologia, direttore di manicomi e studioso di scienze sociali (dalle cause delle malattie dei poveri alla questione femminile), socialista e conservatore, ammirato da Sigmund Freud e ritenuto da uno storico come George Mosse addirittura un precursore del nazismo, aveva goduto di una popolarità straordinaria. Successivamente venne ridicolizzato, e quindi abbandonato, soprattutto a causa delle sue teorie sull´atavismo criminale. Oltre ai libri tradotti in tutto il mondo, da L´uomo delinquente a Genio e follia, ai posteri e alle scienze lasciava il suo cranio, la sua stessa salma e un´incredibile collezione di materiali antropologici. Ebbe grandi e importanti intuizioni, perseguì molte teorie errate, ma tutto ciò va inquadrato, nel bene e nel male, nella sua epoca e nel quadro delle conoscenze che si avevano allora nei vari campi del sapere.
Lombroso cominciò a collezionare i reperti, i crani e gli scheletri nel 1859, quando prestava servizio medico nell´esercito piemontese. La raccolta crebbe a dismisura nel corso degli anni con l´accumulazione di centinaia di crani e di cervelli di autori di delitti, di cosiddetti sovversivi, di alienati e di banditi, ma pure attraverso l´acquisizione copiosa di scheletri, di maschere mortuarie, di teste essiccate, di anomalie anatomiche, modelli di penitenziari, ferri di contenzione, corpi di reato, impronte, tatuaggi, fotografie, oggetti costruiti e scolpiti in carcere dai detenuti. La presentazione avvenne nel 1884, durante l´Esposizione generale italiana di Torino. Fu una delle rare volte in cui si poté visitare. Sarebbe capitato in un´altra occasione, a Parigi, per il secondo Congresso internazionale di antropologia criminale. Trasferita nei locali nel nuovo istituto di Medicina legale di Torino alla fine dell´Ottocento, davanti al parco del Valentino, in quella che venne chiamata la "città della scienza", fu organizzata in un museo, destinato però agli accademici e agli studenti. Dopo altri spostamenti di sede, chiuso per anni, adesso il museo di antropologia criminale fondato da Lombroso, e a lui intitolato, sta per aprire al pubblico (si può dire davvero per la prima volta) nuovamente nell´edificio ottocentesco del Valentino, negli stessi locali degli istituti anatomici dove il medico e scienziato di origine veronese teneva le sue lezioni.
È prevista per novembre l´inaugurazione di questo eccezionale teatro della crudeltà e della colpa, del delitto e della devianza, della segregazione e di un sistema scientifico superato. Un´esposizione che Silvano Montaldo, storico, e Paolo Tappero, medico legale e direttore del museo, curatori del recente volume interdisciplinare Cesare Lombroso cento anni dopo, pubblicato dalla Utet, descrivono «unica al mondo», essendo formata «da materiali provenienti dall´Europa, dall´America settentrionale, centrale e meridionale, dall´Asia e dall´Australia».
Il riallestimento della vecchia collezione lombrosiana, oltre all´apporto dato da Montaldo e da Tappero, è stato reso possibile dalla collaborazione di studiosi e docenti del dipartimento di Anatomia, Farmacologia e Medicina legale dell´Università di Torino: tra di loro ci sono Giacomo Giacobini, Giancarla Malerba, Cristina Cilli. I contributi finanziari sono stati concessi dal Comune di Torino, dalla Regione Piemonte e dall´Università.
Non saranno esposti tutti i "pezzi" di Lombroso e dei suoi successori come Mario Carrara, uno dei pochi professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Accanto al suo studio ben ricostruito, nelle antiche vetrine restaurate, tra video e animazioni virtuali, troverà posto una selezione accurata degli oltre 4.500 oggetti e materiali, che è mirata a metterne in rilievo l´aspetto scientifico e a evitare di farne una sorta di mostra degli orrori. Il valore della raccolta, d´altronde, come hanno sottolineato Montaldo e Tappero, consiste intanto nella «visualizzazione di un sistema scientifico», che riflette «il posto centrale nella cultura positivistica di fine Ottocento e la straordinaria diffusione mondiale del sistema lombrosiano». Un´ulteriore caratteristica del museo è che, per la notevole varietà di quanto vi è custodito, si pone agli incroci di diversi rami del sapere. Coniuga dunque criminologia e anatomia, psichiatria e psicologia, sociologia, etnografia, antropologia, arte, linguistica, semiologia, diritto, cultura materiale, lavoro, igiene.
Il contesto in cui è collocata la raccolta è perfetto. Per questi scaloni neoclassici, in queste aule circolari di legno dove venivano eseguite le autopsie, a fianco dei già esistenti Museo della frutta Francesco Garnier Valletti e Museo di anatomia umana Luigi Rolando, Lombroso, i suoi assistenti, altri medici e scienziati di vaglia, si muovevano, insegnavano e ricercavano. È un vero Museo dell´uomo, in sostanza, tanto che così sarà chiamato quando verranno portate qui altre raccolte scientifiche di pregio. E l´uomo, del resto, era al centro degli studi del medico e antropologo che, come ha scritto Delia Frigessi nel libro di Montaldo e Tappero, «analizza anche il corpo sociale e agisce da protagonista di un nuovo orientamento culturale».

Repubblica 27.9.09
Un uomo normale e la sua ossessione
di Umberto Galimberti


Non è mai una bella cosa quando i pregiudizi popolari diventano giudizi scientifici. Una scienza particolarmente esposta a questo inconveniente è stata, nella sua storia, la psichiatria, a cui spesso si è affiancata la criminologia, di cui uno dei massimi esponenti, dalla fama e dai riconoscimenti non solo italiani ma europei, è stato Cesare Lombroso, di cui quest´anno si celebra il centenario della morte.
A metterci sull´avviso di questo rischio è stato per primo Kant che, nel suo Saggio sulle malattie della testa (1764) annotava che: «C´è un genere di medici, i medici della mente, che ritengono di aver scoperto una nuova malattia ogni volta che escogitano un nome nuovo». La psichiatria dell´Ottocento ne dà conferma a proposito di quanti abbandonano casa, lavoro e vita di tutti i giorni per lunghi viaggi a piedi in tutta Europa. Gli psichiatri di Parigi li qualificano «isterici», quelli di Bordeaux «epilettici». Alla fine si accordano inventando la sindrome «istero-epilettica». Non parliamo poi della specializzazione medica in "malattie respiratorie e masturbatorie", di cui massimo esponente fu lo psichiatra francese Simon Tissot che scrisse un libro sulle malattie mentali generate dalla masturbazione, seguito da Johann Zimmermann, medico personale di Federico II di Prussica, che sposò la teoria di Tissot, con l´unica variante che considerò l´onanismo femminile più gravido di conseguenze morbose di quello maschile.
Ma il contributo più significativo nel tradurre i pregiudizi popolari in giudizi scientifici lo dobbiamo proprio a Lombroso che ritiene individuabile il delinquente dall´osservazione dei tratti somatici (le mandibole voluminose, la barba scarsa, i seni frontali salienti, lo sguardo falso, il capello folto, l´orecchio ad ansa, la fronte sfuggente, il prognatismo) e, dalla diversa composizione di questi tratti somatici, ne discende una classificazione che prevede, con una denominazione tratta dal linguaggio popolare, il tipo scrofoloso, il tipo cretino, il tipo pazzesco, il tipo mattoide, e infine il tipo criminale. Così leggiamo ne L´uomo delinquente (1976-1978), subito tradotto in francese, tedesco e inglese, mentre ne La donna delinquente (1893), la prostituzione viene equiparata alla criminalità nell´uomo. Per Lombroso, infatti, la donna è «per natura monogama, per cui si comprende come l´adulterio della donna e non dell´uomo, sia condannato in tutti i popoli», è insensibile al dolore «e questo spiega perché facilmente ricada nella gravidanza nonostante i dolori del parto», è «fondamentalmente immorale, perché non conosce quell´equilibrio tra diritti e doveri ben noto all´uomo». Dove è evidente che la caratterizzazione riproduce i pregiudizi morali e gli stereotipi della cultura maschilista a tutt´oggi non estinta.
In questo scenario di luoghi comuni paludati di scienza non si salva neppure il genio equiparato, in Genio e follia (1864), al pazzo e al delinquente, perché rivoluzionario, poeta maledetto, mattoide, eterogeneo al corpo sociale a causa del suo comportamento abnorme dovuto a degenerazione e/o malattia epilettica. «Il genio è inutile e superfluo - scrive Lombroso - perché, se anche anticipa il futuro, precipita i tempi, e anche se gli dà ragione, il tempo non ha bisogno del genio, perché sa fare la sua strada anche senza di lui. […] Del resto il genio è un fenomeno eterogeneo, sorto al di fuori delle leggi di natura, una produzione di lusso superflua all´andamento delle cose umane».
Ne consegue che a salvarsi è solo l´uomo "normale" che per Lombroso è il ritratto dell´uomo borghese: «Privo di genialità, ma onesto, pieno di buon senso e acume critico, incapace di eccessi, anche se per niente creatore». Ma come abbiamo visto, per Lombroso, il progresso della storia non è garantito dai creatori, ma dagli uomini normali così definiti: «Il vero uomo normale non è colto e neppure erudito, esso non fa che lavorare grazie alla sua sanità biologica, al suo buon senso, al suo buon cuore e buon umore. Predilige sé o la famiglia alla patria, la patria all´umanità, ma senza oltrepassare le linee fissate dallo spirito pubblico dell´epoca, della casta, della razza».
Per una strana coincidenza di date, proprio in quegli anni Nietzsche definiva gli uomini, che Lombroso chiamava "normali", «piccoli uomini, caratterizzati da una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute. […] Essi compongono quell´umanità gregge che desidera solo l´animale capo». Non sappiamo se Gina, la figlia devota di Lombroso, abbia letto Nietzsche. Probabilmente no, e tuttavia ne I vantaggi della degenerazione (1923) scrive: «I degenerati, i malati, i deformi, i pazzi, i criminali sono insieme la zavorra e la molla dell´umanità: vivono sì a spese dell´aura mediocritas, ma ad essi è affidata la funzione innovatrice nel mondo, e sopprimendoli si sopprime l´evoluzione e il progresso».
Forse solo la figlia ha colto lo spirito che ha promosso le ricerche del padre, al quale va riconosciuto l´indiscusso merito di aver distinto il pazzo dal criminale e quindi la necessità di togliere i pazzi dal carcere per accoglierli in quelle strutture che saranno poi i manicomi. A questa separazione l´Italia arrivò ultima in Europa, ma settant´anni dopo la morte di Lombroso, fu la prima, con Basaglia, a sancire la chiusura dei manicomi, che l´Organizzazione mondiale della sanità, nel 2003, ha indicato come «uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale».

Repubblica 27.9.09
I risultati di uno studio Usa: anche i genitori che mentono a fin di bene perdono la fiducia dei figli
Le bugie innocenti fanno male ai bambini
di Sara Ficocelli


Studiosi nordamericani hanno scoperto che gli inganni infondono nei piccoli un profondo senso di sfiducia

Minacciose premonizioni («Continua a non lavare le orecchie e ci crescerà il prezzemolo») o avvertenze fantasmagoriche: «Metti via il ciuccio, così viene a prenderlo la fatina». Il mondo dei bambini nei primi anni di vita è popolato da creature immaginarie, elettrodomestici accecanti e piante che alla terra preferiscono il cerume.
È la realtà costruita dalle bugie dei genitori che, secondo una ricerca delle Università della California-San Diego e di Toronto, mentono anche più dei figli. Gli effetti di queste fandonie sulla psiche del bambino non sono da trascurare, anzi per la psicologa americana Gail Heyman, autrice dello studio pubblicato dal Journal of Moral Education, quando i bambini capiscono il meccanismo perdono fiducia in mamma e papà. «Ci sono in realtà anche dei risvolti positivi. Capire che i genitori mentono aiuta a sviluppare lo scetticismo, componente fondamentale dello spirito critico», spiega il coautore, Diem Luu. Lo studio è stato condotto esaminando un gruppo di studenti e uno di genitori. Ai primi è stato chiesto di ripensare alle menzogne raccontate loro durante l´infanzia e l´88% ricordava più di un episodio. «I bambini conservano nella mente le bugie poi smascherate - spiega Kang Lee, direttore dell´Istituto per gli studi sul bambino dell´università di Toronto - e i genitori non possono raccontarle con leggerezza». Il 79% dei ragazzi intervistati ha ammesso di aver sentito dire ai genitori che mentire è sbagliato e solo il 21% di aver avuto con loro un dialogo onesto, in cui si spiegava che qualche mezza verità è concessa. «Sentirsi dire che mentire è sbagliato e poi scoprire che sono i genitori i primi a farlo può creare confusione - spiega Lee - Ecco perché, prima di ricorrere a una menzogna, bisogna valutare le alternative».
Dei genitori intervistati, il 78% ha ammesso di aver raccontato bugie ai figli, la maggior parte delle quali, ed è questo il dato sorprendente, per fini egoistici. Dire a un bambino che se continua ad aprire il frigorifero lo farà esplodere è più semplice che spiegargli come funziona l´elettrodomestico. In questi casi la bugia, spiegano gli studiosi, non è detta per evitare un dolore o rendere il figlio più sereno, ma per ottenere le cose più in fretta. Se dunque, spiega la Heyman, è innocuo (anzi, opportuno) raccontare che Babbo Natale esiste, può invece essere rischioso mentire per modellare un comportamento. «Dire a un bambino che i suoi scarabocchi sono brutti sarebbe crudele - spiega la ricercatrice - Ma spesso i genitori mentono con leggerezza». La ricerca ha dimostrato che i più bugiardi da questo punto di vista sono gli asiatici. «Per loro l´educazione è fondamentale e per raggiungere un obiettivo sono disposti a mentire spesso», aggiunge. «Le bugie dell´adulto - osserva lo psicoterapeuta Orazio Caruso, esperto di psicologia infantile - vengono raccontate per superficialità, per aderire a un pensiero infantile o nascondere realtà imbarazzanti. La soluzione migliore è sempre la sincerità». Il genitore deve impegnarsi a trovare le parole giuste. «I bambini - conclude - hanno un´enorme capacità di adattamento a situazioni per noi strane o insolite ed è sbagliato sottovalutare questa loro forza». Dice un proverbio africano che per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio. E il coraggio al momento giusto.

Corriere della Sera 27.9.09
Una raccolta di saggi, curata da David El Kenz, rilegge la storia dell’umanità
Così il potere cancella i vinti
Dagli assiri al colonialismo: civiltà e imperi fondati sulle stragi
di Giuseppe Galasso


Funzioni simboliche. Per le società mesopotamiche lo sterminio era un’affermazione di sovranità, per i greci uno strumento eccezionale di dominio

Il massacro non è il tema storico più ameno. A studiarlo come un puro oggetto storico, fuori di ogni ideolo­gismo, mira il volume Il massacro nella storia , a cura di David El Kenz (Utet Libreria), e non per «una enciclopedia fat­tuale dei massacri», o analisi di tutti i fatti storici qualificabili come massacri, impre­sa irrealizzabile, bensì per chiarire come ogni storico, col proprio metodo, costrui­sca e racconti i massacri, anche in rappor­to con «le memorie sociali delle stragi». Vi prevalgono episodi dell’età moderna e contemporanea. Ma El Kenz spiega che «in effetti, il massacro assunse, a partire dal XVI secolo, un ruolo importante nel pensiero occidentale», e gli storici avver­tono «degli scrupoli e delle esitazioni a parlare di massacro», così come «i con­temporanei non sembrano averne avuto una piena e chiara consapevolezza».
Sulla renitenza degli storici moderni in fatto di stragi avrei più di una riserva. Qui emerge come per gli assiri il massacro «non fosse un tabù, ma che anzi fosse ri­prodotto sui monumenti come un simbo­lo della sovranità», sicché gli occidentali vi hanno visto «una prova della barbarie delle civiltà orientali». Per i greci, invece, sembra che «l’assassinio di massa resti un procedimento eccezionale utilizzato per consolidare un dominio politico». Per i ro­mani il massacro degli alessandrini da par­te di Caracalla serve come motivo di «di­scredito di uno stile politico». Il massacro dei francesi nel Vespro siciliano (30 marzo 1282) sarebbe all’origine di «un luogo di memoria fondatore di quella comunità». I massacri delle «guerre d’Italia» dal 1494 mettono in causa la «cesura accademica del Rinascimento», e diventano «il simbo­lo di una rottura irrimediabile tra un’età dell’oro», prima del 1494, e il dopo. Come per gli assiri, per il sultano turco «l’esecu­zione a catena dei prigionieri di guerra» è «una cerimonia di Stato», ed egli vi «può esercitare la sua autorità indiscussa».
Nelle «guerre di religione» europee tra Cinquecento e Seicento la spinta ad am­pliare il potere dei sovrani porta a forma­re «una soglia di tolleranza di fronte alle violenze estreme». I massacri francesi nel­l’Algeria conquistata sono occultati per esaltare «l’espansione coloniale» e gli «imperativi militari». Ma qui si va da un estremo all’altro. Nella guerra dei Trent’anni (1618-48) gli storici tedeschi sottolineano «la 'catastrofe nazionale' di un Paese diviso e impotente», mentre per i pellerossa c’è chi «ricusa una storia geno­cidaria » perché si è di fronte a «una preci­sa volontà di distruzione delle popolazio­ni solo localmente, senza preparazione d’insieme su scala statale». Così, il massa­cro turco degli armeni forma una parados­sale «nozione centrale» per gli stessi stori­ci che lo negano, e alimenta una tale «cari­ca polemica» da spingere «a una sorta di 'competizione' tra le vittime». Il massa­cro degli emigrati coreani in Giappone nel 1923 spinge «la storiografia neo-orien­talista » a riprodurre «una visione della crudeltà asiatica tipica degli occidentali». Gli Einsatzgruppen tedeschi in Russia nel 1941, dediti alla «caccia» di vittime nel Pae­se occupato, evocano un’animalità disu­mana, ma ancor più l’idea che «la disuma­nizzazione appartiene ancora all’umani­tà ». A loro volta, «i siti internet abbonda­no di immagini, ma deformano la realtà cronologica del massacro».
Come si vede, l’esemplificazione è larga e interessante. Ma essa e i saggi più genera­li o di metodo del volume valgono a costru­ire una prospettiva storica che, senza ideo­logismi, oltrepassi la constatazione della presenza originaria, costante e frequente del massacro, e la varietà dei modi di rac­contarlo e giustificarlo o di celarlo e trasfi­gurarlo, nelle storie degli uomini?
Una società, si dice, dovrebbe ridefinir­si riesaminando il suo rapporto con le for­me estreme di violenza. Decostruire, cioè, il massacro, decostruendo la sovranità e il sistema delle sovranità; e acquisire così «la risorsa di un pensiero possibile al di là del massacro». Nel nostro piccolo, anche questa ci pare ideologia. Decostruiamo e ricostruiamo tutto, ma senza illuderci o pretendere di andare oltre la storia, che è quella che è, e tale si annuncia «finché il sole — risplenderà sulle sciagure uma­ne » .
Sì, oltre la storia e il tappeto di teschi che essa distende, non c’è che la storia stessa, ossia tutto l’altro che la storia fa, e che suona nascita e vita e fioritura e nobil­tà della vita. Il pensiero che va oltre di es­sa è anch’esso nella storia, ne fa parte ed è una sua voce. Ed è per ciò che nella storia c’è stato il massacro, ma anche il suo rifiu­to e la condanna nelle stesse religioni ed etiche civili che per altro verso lo hanno voluto e giustificato, e nella storia dei mas­sacri non lo si può ignorare.
In fatto di massacri l’uomo ha, insom­ma, sempre saputo quel che doveva sape­re. Nel farne storia è già tanto stabilire «elementi di confronto tra i differenti rac­conti di massacro, pur rivelando delle logi­che tipiche di ciascun contesto», come ap­punto è merito della parte più persuasiva e riuscita di questa originale ricerca.

Corriere della Sera 27.9.09
L’omaggio dello scrittore Yves Bonnefoy al grande autore, mentre torna, arricchito, il Meridiano a lui dedicato
Ungaretti. Il poeta che diede senso al nulla
n’arte che coglie l’essenza, modello per Oriente e Occidente
di Yves Bonnefoy


«Lo incontrai nel 1967 a Londra. Mi fece pensare a un contadino, una parola che in saggezza e tenacia abbraccia tutte le contrade dell’umanità»

Nella storia della ricezione critica delle opere di Giuseppe Ungaretti, questo 2009 non passerà inosservato. Con il nuovo Meridiano delle sue poesie complete, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione, si offre infatti al lettore uno straordinario strumento di lavoro. E non solo di lavoro, naturalmente. La raccolta esaustiva di questa grande opera poetica è un dono per tutti quelli che amano Ungaretti o sono destinati ad amarlo. È un libro che molti metteranno in grande rilievo nella loro biblioteca, oppure si porteranno in viaggio — perché in valigia non occupa troppo spazio.
Di certo la prima e irresistibile reazione di chiunque si assuma il compito di segnalare questa definitiva Vita d’un uomo non potrà che essere di ammirazione: ammirazione per il lavoro critico che l’ha consentita, impresa di ampio respiro magistralmente condotta da Carlo Ossola, che ha scritto il saggio introduttivo e ha affidato a Francesca Corvi e Giulia Radin il compito di stabilire le varianti del testo, nonché di redigere insieme a lui il commento alle diverse raccolte di Ungaretti, commento affiancato dalle indicazioni e riflessioni del poeta stesso che occupano molte pagine appassionanti e insostituibili. Il volu­me è completato da cinque saggi su Giuseppe Ungaretti, ripresi dall’edi­zione del 1969: insomma, un lavoro monumentale. È certamente l’edizio­ne definitiva dell’aspetto più impor­tante nella multiforme produzione di questo poeta (di cui i Meridiani han­no peraltro pubblicato anche le altre parti, Saggi e interventi e Viaggi e le­zioni, e alle quali prossimamente si aggiungerà il corpus delle traduzio­ni).
Personalmente, non sono che un lettore straniero del grande italiano e non posso presumere di apprezzare da competente questo apporto criti­co, nutrito com’è da una conoscenza sconfinata della storia letteraria italia­na. Mi asterrò anche dall’entrare nei dettagli di tutto ciò che in queste no­te e commenti scopro su Ungaretti in Francia; Ungaretti, le cui poesie fran­cesi compaiono naturalmente nel vo­lume suggerendo accostamenti — e qualcosa da dire ci sarebbe anche a proposito di Reverdy — che vanno al di là delle amicizie e delle influenze note, da Apollinaire a Bergson, da Cendrars a Jean Paulhan o André Bre­ton. Mi limiterò a un’osservazione, ispirata dal notevolissimo saggio in­troduttivo di Carlo Ossola, e a una rie­vocazione, il ricordo di un incontro che questa edizione illumina di nuo­va luce.
L’osservazione riguarda la poesia stessa di Ungaretti, in quanto questa raccolta delle sue poesie e il loro com­mento mi mostrano con inedita evi­denza fino a che punto questo poeta sia nostro contemporaneo per il sem­plice fatto di essere poeta: poeta eter­no, poeta che vive la poesia in ciò che in essa permane di più essenziale e dunque di immutabile, che nessun abbaglio o confusione di opere di mi­nor portata potrà mai offuscare. In co­sa si manifesta tale modernità e atem­poralità? In un sentimento del nulla che soggiace a tutto ciò che per noi è, ed è importante, e subito dopo nella decisione, altrettanto spontanea e ir­revocabile, di trasformare quel nulla in poesia, essendo la parola poetica­mente rinnovata il luogo di uno scam­bio che possiamo concepire come l’es­sere stesso. Come suggerisce Carlo Os­sola, ci si deve soffermare sulla breve poesia che apre l’edizione definitiva di L’Allegria ; due soli versi, intitolati «Eterno»: «Tra un fiore colto e l’altro donato / l’inesprimibile nulla». Con il che si dice, nella più pura logica leo­pardiana, che tutto è nulla, ma che nella poesia che non rinnega se stes­sa il dono, lo scambio, il riconosci­mento dell’Altro sono in grado di trionfare sul nulla.
E quando leggo gli scritti di Unga­retti sull’arte barocca e su Michelange­lo (secondo lui — non a torto — in­ventore di quell’arte), quando vedo che per definirli egli ricorre a parole come «il sentimento dell’orrore del vuoto, cioè dell’orrore di un mondo privo di Dio», constato fino a che pun­to coloro che fanno poesia possano, ancora oggi, identificarsi con lui allor­ché si abbandonano all’esperienza fondamentale che costituisce la gran­dezza e l’azzardo della scrittura. Oggi, e in Occidente; non meno però che in Oriente. Perché, quando attinge così alla propria essenza, la poesia coinci­de con l’intuizione che si trova all’ori­gine del buddismo e del taoismo. Il che mi conduce alla rievocazione che annunciavo.
È la rievocazione di Ungaretti stes­so, così come mi apparve la prima vol­ta nei pochi e soli giorni in cui ebbi la possibilità, la fortuna e l’onore di in­contrarlo.
Era il 1967, a Londra, dove si svolgeva, per una settimana, il con­vegno «Poetry International», che per iniziativa di Ted Hughes riuniva quel­l’anno un gruppo particolarmente rap­presentativo di grandi poeti dell’epo­ca: c’erano infatti, tra gli altri, Pablo Neruda e Octavio Paz, John Berryman e Anne Sexton, Robert Graves, W.H. Auden, Hugh Mac Diarmid, Ingeborg Bachmann. E Ungaretti. Ricordo che un mattino eravamo più d’uno ad at­tendere lui, che arrivava dall’Italia, da­vanti alla porta di un ascensore. La porta si aprì e apparve il vecchio poe­ta, appoggiato a un bastone ma anche al braccio di Allen Ginsberg che dopo il loro recente incontro — a Roma, credo — si era improvvisato, con la gentilezza che gli era propria, soste­gno della sua vecchiaia. Guardai Unga­retti con l’interesse che si può immagi­nare. Colui che vedevo dinanzi a me non era forse il grande spirito che ave­va rifondato la poesia italiana, nonché il poeta bilingue che aveva lasciato la sua indelebile impronta su uno dei momenti decisivi dell’avanguardia francese? Non era forse un europeo come mi auguravo che ce ne fossero, in quel momento della storia in cui co­minciavamo a sperare che il nostro di­sgraziato continente provasse infine a mettere in comune le sue immense ri­sorse di pensiero e di poesia?
Eppure, di primo acchito, quel vec­chio che apparve sulla soglia del­l’ascensore più che a uno dei soliti in­tellettuali mi fece pensare a un conta­dino, nel senso più ampio di questa parola la quale in saggezza e tenacia abbraccia tutte le contrade dell’umani­tà. Un italiano, certo, Ungaretti, ma con in sé tutto ciò che la storia della penisola aveva mescolato nelle civiltà, pagane e poi cristiane, che in essa si erano succedute. Un viso che sembra­va risalire dal fondo dei tempi, porta­tore di un’evidente capacità di comu­nicare con potenze ctonie e di non sentirle come malefiche, purché con esse si sapesse parlare. In quel riso e in quelle rughe, la stessa generosità e malizia, lo stesso volto, la stessa ma­niera di essere nel mondo di certe ma­schere dell’arte contadina giapponese che raffigurano il vecchio saggio e be­nevolo, per sua natura guaritore.
Ungaretti: la prova, con la sua pre­senza, che la poesia non è anzitutto un testo bensì un soggetto, un ascol­to. Che la poesia è sì insostituibile, ma lo è in quanto esercizio che permette di rendere più intenso e perenne que­sto modo di porsi dinanzi agli altri, e dinanzi al nulla, e al mondo che l’uma­nità le contrappone. Di fronte a que­sto Meridiano, ringrazio i suoi curato­ri, che anch’essi, nelle poesie, ci fan vedere un volto. Che confermano che la parola è volto.
(Traduzione di Gabriella Mezzanotte)

Corriere della Sera 27.9.09
Due volumi nella collana di Giovanni Reale
Tutto Cartesio (con metodo)
di Armando Torno


Non capita tutti i giorni di vedere in libreria due grossi volumi con l’opera completa di René Descartes, il nostro Cartesio, il filosofo che Vico traduceva con calco­lata malignità «Renato delle carte». Ma, al di là degli anti­chi veleni, il corpus degli scritti del sommo francese conosce ora la prima tradu­zione integrale al mondo con testi a fronte nella colla­na «Il pensiero occidentale», pubblicata da Bompiani e di­retta da Giovanni Reale. Un lavoro costato anni di fatiche sotto la guida di Giulia Bel­gioioso dell’Università del Sa­lento.
In Italia non sono mancate in passato buone traduzioni di Cartesio. La prima raccolta che metteva a disposizione gran parte degli scritti, a cu­ra di Eugenio Garin, vide la luce in due tomi nel 1967 da Laterza; ad essa seguirono nel 1983, grazie al lavoro di Ettore Lojacono, due volumi di opere scientifiche nei «Classici Utet»; il medesimo curatore per la stessa editri­ce pubblicò nel 1994 due altri tomi con le opere filosofi­che. In quell’occasione egli ebbe una telefonata di com­plimenti proprio da Garin per il lavoro. Si commosse co­me non mai.
Giulia Belgioioso ne avreb­be ricevuta un’altra, ne sia­mo sicuri. Coordinando colla­boratori, consulenti scientifi­ci, traduttori, revisori di testi francesi e latini, è riuscita a compiere un miracolo edito­riale. Basandosi sull’edizione di Adam e Tannery (11 volu­mi, usciti da Vrin tra il 1964 e il 1974) e integrandola con le più recenti, ha riunito in due volumi quanto Cartesio ha pubblicato in vita e quello che di lui è uscito postumo. Si tratta di René Descartes Opere 1637-1649 (pp. 2.628, e 48), dedicato a Tullio Gre­gory, e di Opere postume (pp. 1.790, e 42), offerto ap­punto a Ettore Lojacono. C’è da segnalarne per completez­za un terzo di Lettere , che vi­de la luce nella stessa collana nel 2005, e che ora è ripropo­sto in seconda edizione con correzioni e aggiunte.
Cartesio non ha bisogno di soverchie presentazioni, giacché la sua influenza sul pensiero moderno e contem­poraneo è tra le più forti. Lo ricordiamo per il metodo e le questioni legate alla verità, per la crisi della metafisica e le intuizioni matematiche; è inevitabile — come ha inse­gnato Augusto Del Noce — nell’esame sulle origini del­l’ateismo o se si parla di ani­ma. Ma potremmo aggiunge­re: va consultato per musica, diottrica, meteore, generazio­ne degli animali, altro. Quan­do il 23 aprile 1649 annunciò con una lettera al segretario dell’ambasciata di Francia al­l’Aia la sua partenza per la corte di Svezia, avendo accet­tato l’invito della regina Cri­stina («Lei sola ha più cultu­ra, più intelligenza, più ragio­ne, di tutti i Paesi in cui sono vissuto»), chiedeva alla sovra­na «tranquillità e riposo» per riflettere serenamente, ma soprattutto si apprestava ad affrontare i problemi ne­cessari per realizzare la pace. E Cristina farà eseguire il 19 dicembre 1649, presente lo stesso Cartesio, l’ultima sua opera, il balletto in versi fran­cesi La naissance de la paix.
Si festeggiava, tra l’altro, la fi­ne della guerra dei Trent’an­ni.
Due volumi, dunque, col­mi di filosofia moderna e per­corsi da qualche dettaglio di corte; due tomi che offrono tutto il pensiero di Descar­tes. Con introduzioni, biblio­grafie e un prezioso lessico. Oltre le note, compilate con acribia e puntualità.

Corriere Salute 27.9.09
Psicoterapia Tre sole sedute per star meglio: è possibile?
Ansia e stress, adesso c’è anche la cura «istantanea»
di Daniela Natali


Non si curano patologie gravi, ma si può intervenire prima che l’ansia minacci salute psichica e fisica Dubbi «Terapia» in tre incontri: non è meglio parlare di un aiuto, tipo quello fornito da un «telefono amico»?

Per essere veloce, è veloce. Possono bastare tre sedute o perfino una. È infatti l’hanno chiama­ta «Instant therapy», versione ultrarapida delle psicoterapie brevi, per le quali solitamente si pre­vede una dozzina di sedute. Ma possibile che ba­stino uno, due, tre incontri con uno specialista per vedere schiarirsi l’orizzonte? Certo la propo­sta non passa inosservata. Crisi economica ugua­le più stress e maggior bisogno di aiuto, ma an­che meno denaro e tre incontri costano meno di quindici. A Roma, poi, l’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) propone tre sessioni gratuite. Spiega Paola Vinciguerra, presidente dell’associazione: «In tre sedute non pensiamo certo di curare patologie gravi, piutto­sto di fare prevenzione, di inter­venire prima che l’ansia mini la salute non solo psichica, ma an­che fisica. Durante il primo in­contro si vanno ad escludere pa­tologie gravi, si misura il livello di ansia con un test, si aiuta il paziente a capire che forse sta amplificando i suoi guai e che si può guardare al mondo an­che da un altro punto di vista.
Nel secondo appuntamento si utilizzano tecniche di bioener­getica perché l’ansia si ripercuo­te sul fisico e riuscire ad abbas­sare le spalle, a rilasciare i mu­scoli del collo, significa avere una percezione energetica di se stessi, comprendere che, se si può agire sul corpo, si può agire anche sulle pro­prie paure. Nel terzo incontro ci si concentra su­gli aspetti positivi della persona in maniera da rafforzare l’immagine che ha di sé».
E poi? «Se è necessario e, ovviamente, se il pa­ziente è d’accordo, si può decidere di continuare con altre sedute».
A pensare male, si potrebbe sospettare che i primi tre incontri gratuiti siano un modo per en­trare in contatto con futuri potenziali clienti... Obietta Francesco Rovetto, docente di psicologia clinica all’Università di Pavia che usa la psicotera­pia breve 'tradizionale': «Io non mi scandalizzo nel sentire parlare di tre soli incontri, possono bastare. Se una persona al primo attacco di pani­co si rivolge a uno specialista può essere suffi­ciente anche una sola seduta. Se, invece, si han­no alle spalle due anni di attacchi e si è instaura­to il disturbo di panico, la paura di aver paura, non bastano nè una, nè tre sedute. Quanto al pro­porre un approccio così rapido a chi soffre di ve­ri e propri disturbi della personalità, significhe­rebbe non aver rispetto delle sue sofferenze. Quando a partire dall’infanzia si è strutturata una personalità distorta è necessario un lavoro lungo, ma se fino a qualche tempo fa si ricorreva solo all’analisi, oggi sappiamo che la terapia co­gnitivo- comportamentale riesce, in un paio d'an­ni, a ottenere quel tanto di miglioramenti che rendono possibile una vita di relazione. Impor­tante, in ogni caso, è che la persona capisca che non è stato lo specialista a gua­rirlo, ma che lui stesso è riusci­to a guarirsi o a migliorare».
Uno psicoanalista non può che inorridire sentendo parlare di «terapia» istantanea, non sa­rebbe più corretto definirla una forma di 'counselling', o un aiuto simile a quello offerto da un «telefono amico»?
Ribatte Anna Zanardi, psico­loga e consulente «strategica» in molte aziende multinaziona­li: «La psicoterapia breve esiste dal 1930. Piuttosto è vero che al­cune associazioni di psicoanali­sti ora, visti i tempi, prevedono anche sessioni brevi. L’Instant therapy, in particolare, è usata da 4-5 anni nei Paesi anglosassoni dove la cultu­ra dei risultati è più diffusa e dove la fruibilità immediata è importante molto di più che nella nostra cultura, più affascinata dagli aspetti intel­lettuali. Vorrei poi sottolineare che l’Instant the­rapy può essere utile non solo al singolo che, an­che in una sola sessione di due ore, due ore e mezza, può focalizzarsi su un particolare aspetto della vita o su un specifico comportamento per acquisire nuove prospettive, ma anche in ambito aziendale, come intervento di 'coaching'. Que­sto però solo se il 'clima' nell’impresa già sup­porta la persona come risorsa strategica, altri­menti ha poca efficacia».

il Riformista 27.9.09
Parla uno dei giudici che ha sollevato il caso
«Perché ricorro alla Corte per il reato di clandestinità»
di Salvo Fallica



Al centro delle nuove polemiche sull'immigrazione vi è la decisione della Procura di Agrigento, che nell'ambito di un processo in corso davanti al giudice di Pace della città dei Templi, contro 21 migranti clandestini sbarcati a Lampedusa, ha sollevato l'eccezione di legittimità costituzionale chiedendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Il ministro dell'Interno Maroni (che ieri ha attaccato la Commissione europea: Ha agito poco e male, lasciando ai singoli Paesi l'onere di gestire per conto loro la questione») è intervenuto dicendo: «Il reato di immigrazione clandestina è chiarissimo. Non può esistere che un magistrato dica che è una legge incomprensibile e quindi la interpreti in un modo o nell'altro». Il ministro della Giustizia Alfano ha sostenuto: «Speriamo si limitino ad interpretare la legge e non ad eluderla». Il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo che assieme al Procuratore di Agrigento, Renato Di Natale, ha formulato l'eccezione di costituzionalità risponde così al Riformista: «La scelta legislativa ha comportato la criminalizzazione di una condizione che fino alla data di entrata in vigore della nuova norma era di competenza esclusiva dell'autorità amministrativa. A partire da tale data, invece, tutti gli stranieri che varcano i confini italiani senza rispettare le norme in materia di ingresso nello Stato, nonché tutti gli stranieri che sono presenti sul territorio nazionale senza essere autorizzati alla permanenza, non saranno più soltanto destinatari di provvedimenti amministrativi di espulsione o di respingimento, ma saranno altresì denunciati per la nuova ipotesi contravvenzionale». Fonzo argomenta: «Noi riteniamo che in tal modo vi sia una violazione dei principi costituzionali di materialità e offensività del diritto penale, nonché di quelli di proporzionalità, ragionevolezza ed uguaglianza, ricavabili dagli articoli 3, 25 e 27 della Costituzione, dai quali deriva che il ricorso alla sanzione penale nel nostro ordinamento si ammette esclusivamente per la protezione di beni giuridici di rilievo costituzionale e solo come extrema ratio, quando cioè lo scopo protettivo non possa essere raggiunto attraverso altri strumenti dell'ordinamento giuridico». Infine, sulle frasi polemiche dei ministri verso i giudici: «La separazione dei poteri deve valere per tutti, e ciascuno deve poter agire in serenità e indipendenza».


il Riformista 27.9.09
Vent’anni dopo troppi scheletri negli armadi dell'estrema sinistra
Gysi e compagni. L’ombra della Ddr nelle urne tedesche
di Paolo Petrillo


La forza del passato. "Der Spiegel" scova negli archivi le missioni del capo della Linke per conto del regime. E ricorda a tutti il peccato originale del partito, erede della famigerata Sed. Per questo l'alleanza "rosso-rosso-verde", che sulla carta raccoglierebbe metà dei consensi, rimane politicamente impraticabile.

Berlino. Chi è, o ad esser più esatti: chi è stato veramente Gregor Gysi - attuale copresidente insieme ad Oskar Lafontaine del nuovo partito della sinistra tedesca, die Linke - nei molti anni in cui lavorò come avvocato nell'ex Germania Orientale? Un legale senza paura che ha difeso due dei più noti dissidenti della Ddr, Rudolf Bahro e Robert Havemann - come certo è preferibile essere ricordati in questi tempi di dopo-Muro - oppure un fedele servitore del regime? Tanto affidabile da venir incaricato - siamo nel 1988 - del recupero di uno scienziato che, ottenuto un visto di viaggio, aveva poi preferito non tornare nella patria del socialismo reale ma piuttosto stabilirsi nei dintorni di Kudamm, la più occidentale delle zone di Berlino Ovest? Il tentativo andò buca, lo scienziato preferì rimanere dov'era e Gisy se ne tornò con le pive nel sacco, pare anche abbastanza mogiamente.
Ma non è questo il punto: il punto è che anche su una figura come Gysi - un beniamino della scena politica tedesca, oratore brillante trasversalmente apprezzato - pesa l'ombra del peccato originale della Linke. Essere in buona misura l'erede di quel Pds che è a sua volta erede del Sozialistiche Einheitspartei Deutschland, cioè di quella Sed che fu il "partito unico" (non sulla carta, ma nei fatti certamente) della vecchia Ddr. Il partito della Stasi e della repressione, della violazione dei diritti umani, il partito del regime. E con un erede di tanta schiatta Spd e, ancor più, i libertari Verdi non vogliono avere a che fare: mai a livello federale - hanno giurato - con molta prudenza e solo a precise condizioni a quello regionale.
A tirar fuori gli scheletri dall'armadio di Gysi è stato un recente servizio del settimanale der Spiegel, supportato da alcune centinaia di pagine provenienti dagli archivi del Comitato centrale della Sed. Ma quello di Gysi è solo uno dei tanti esempi di "peccato originale". Un altro - politicamente più interessante, perché le sue implicazioni guardano più al futuro che al passato - è dato dall'attuale situazione in Turingia.
I fatti, brevemente. Lo scorso 30 agosto si tengono in Turingia, ex land orientale, le elezioni regionali. Il primo partito è la Cdu, con il 31,2 per cento (un tonfo dell'11,8 rispetto al voto precedente) ma visto che l'Fdp - tradizionale partner di governo della Cdu - ha preso solo il 7,6 e mancano i numeri per una coalizione, allora il vero vincitore è la Linke, con il 27, 2. A patto però di convincere Spd (18,5) e Verdi (6,2) a tentare quello che in Germania non è ancora mai stato tentato ma che per molti, a sinistra, è il sogno della Bundesrepublik di domani. Un'alleanza rosso-rosso- verde, qualcosa che già oggi rappresenterebbe almeno metà dei cittadini.
Per riuscirci, per neutralizzare la prevedibile ostilità rosso-verde, il candidato della Linke in Turingia - Bodo Ramelow - fa un passo che pochi politici saprebbero di fare: si tira indietro. Si dice disposto - facendo tra l'altro infuriare il suddetto Gysi - a cedere il posto di capo di una simile coalizione, che gli spetterebbe, ad una donna capace di raccogliere l'assenso di tutti e tre i partner. Il pensiero corre subito a Gesine Schwan, una socialdemocratica talmente apprezzata da esser stata candidata alla presidenza della Repubblica. La signora gentilmente declina ma la mossa di Ramelow funziona e fra i tre iniziano trattative che ancora durano. Subito, però, rispunta, il fantasma.
Stavolta a incarnarlo è Ina Leukefeld, una deputata che la Linke porta al tavolo delle trattative. «Lei no», tuonano i Verdi. Sulla Leukefeld pende l'accusa d'esser stata una informatrice della Stasi (nome in codice, Sonya) e con lei i Verdi non siedono, piuttosto si manda tutto all'aria. La Linke fa un po' di resistenza poi cede: la Leukefeld, almeno per ora, rimane fuori gioco e così le trattative riprendono. Se dovessero andare a buon fine, se in Turingia dovesse nascere un esecutivo rosso-rosso-verde, allora la vicenda porterebbe scritta in cifra anche la soluzione del problema a livello federale.
Un simile patto di governo è possibile, a patto però che Spd e Linke si "liberino" degli errori del passato. Del passato recente, nel caso dell'Spd, reo agli occhi della Linke d'aver dimenticato - sotto la direzione di Gerhard Schroeder - d'essere un partito di sinistra. E di quello meno recente della Linke, il suo provenire da un partito di regime.
Non oggi quindi, quando i capi si chiamano ancora da una parte Gregor Gysi e Oskar Lafontaine (ancor più odiato dai socialdemocratici, in quanto ex leader del partito e quindi "traditore"), e dall'altra Franz Muentefering e Frank-Walter Steinmeier, gli "uomini" di Schroeder. Ma domani sì. Quando - mentre l'ombra del Muro, complice il tempo, inevitabilmente s'allontana - i due partiti potranno presentare dirigenti che con questi passati avranno sempre meno da spartire.

il Riformista 27.9.09
Meglio sanzioni costose per l'Europa
O due-tre giorni di bombardamenti?
di Giampiero Giacomello


Opzioni. Se la pressione economica si fa seria, il prezzo a carico delle nostre imprese sarà pesante. L'opzione militare per ora è lontana ma i piani per l'attacco aereo - gli Usa cercano compagnia - sono pronti. E Teheran oggi dà il via a esercitazioni militari che prevedono test missilistici.
Il nucleare iraniano continua a dominare la scena della sicurezza mondiale. Quello di Qom è l'ultimo dei siti scoperti dall'intelligence occidentale e serve all'arricchimento dell'uranio U-235. Pare sia scavato sotto una montagna (come quelli nord-coreani) e potrebbe ospitare 3mila centrifughe.
Qom si aggiunge alla lista dei centri di ricerca e produzione dell'Iran che comprende la centrale nucleare di Bushehr (dove nel 1974 è iniziato il programma nucleare con assistenza tedesca), Isfahan che è un impianto di conversione dell'uranio (principalmente in gas che può poi essere arricchito nelle centrifughe), Natanz, che è l'altro impianto di arricchimento e Arak che è un impianto di produzione per l'acqua pesante che serve (anche) a tenere sotto controllo la fissione, ma non nel tipo di reattori di cui dispone l'Iran (l'altro utilizzo è per la produzione di plutonio.
Quello che ha adottato la diplomazia occidentale è detto, in gergo, "two-track approach", ovvero da un lato la disponibilità a discutere e negoziare, dall'altro la minaccia di sanzioni (l'opzione militare è ancora lontana). Insomma, il solito bastone e carota. Ma quali carte ha in mano lo schieramento anti-nucleare in termini di sanzioni?
Le sanzioni in atto dal dicembre 2006 comprendono il divieto di esportare in Iran tecnologia missilistica e nucleare e, più in generale, quella definita "dual-use", ovvero che ha un utilizzo sia civile sia militare (quindi anche un lap top). Inoltre 40 alti funzionari iraniani hanno delle severe limitazioni nei viaggi internazionali, mentre 40 individui ed enti, come la Sepah Bank, hanno visto i loro beni all'estero congelati. Un inasprimento (serio) delle sanzioni dovrebbe inevitabilmente colpire il settore commerciale e, in questo ambito, Europa, Russia e Cina sarebbero più centrali degli Stati Uniti. In altre parole si tratterebbe di rescindere da contratti per la fornitura di beni e servizi.
Per la Russia, l'unico settore rilevante sarebbe quello dell'energia, quindi non ci sarebbero ostacoli insormontabili, specie se il presidente Medvedev ne è convinto. La Cina sarebbe un osso più duro, perché affamata di energia e desiderosa di vendere i suoi prodotti a chiunque, il "celeste impero" chiederebbe compensazioni molto alte all'occidente. E non è detto che quest'ultimo potrebbe soddisfare le sue richieste.
Ma il paradosso maggiore riguarda l'Europa, che è ancora il maggior partner commerciale iraniano. Solo nel 2008, l'Iran ha esportato quasi 17 mld di dollari di beni in Europa. Qui si tratterebbe dunque di imporre a banche e imprese, in primis quelle tedesche e italiane, di rompere contratti e accordi con notevoli perdite finanziarie, nelle attuali condizioni di recessione mondiale. Il sacrificio sarebbe quasi completamente a carico delle società e non dello stato.
Le nuove sanzioni dunque non sarebbero "limitate" a pochi individui e società, ma dovrebbero colpire tutto il settore commerciale-finanziario. In questo modo, l'Iran ne soffrirebbe senza dubbio. Ma, come sempre succede con le sanzioni, pure l'occidente pagherebbe un prezzo alto e l'Europa molto di più degli Usa. Se queste dure sanzioni fossero imposte e fallissero, l'unica alternativa rimasta sarebbe quella militare. Più esattamente quella dell'attacco aereo.
Tale attacco, diversamente da quello israeliano all'Iraq nel 1981, non potrebbe sfruttare l'effetto sorpresa. Gli Usa potrebbero farlo da soli, ma, per non passare per essere la solita "potenza imperialista", chiederebbero anche a Francia e Regno Unito un contributo. Israele, che è sempre in prima linea, non starebbe a guardare. Così, anche il costo (terrorismo?) delle reazioni successive all'attacco sarebbe condiviso. E Paesi come la Turchia e l'Iraq dovrebbero dare il loro assenso.
Tutti i siti nucleari iraniani sono pesantemente difesi da missili e artiglieria anti-aerea, che ora gli iraniani aumenteranno ancora. A ogni buon fine, Teheran oggi dà il via a esercitazioni militari che prevedono test missilistici per «mantenere e migliorare» la capacità di deterrenza nell'eventualità di attacchi.
Servirebbero molteplici sortite, forse per due/tre giorni. Non sarebbe una passeggiata. Per Qom inoltre, forse nemmeno i missili bunker-buster americani potrebbero bastare. Servirebbero comunque gli esplosivi più potenti e distruttivi. E qualcuno si ricorda che Qom è una città santa per gli iraniani?

il Riformista 27.9.09
Il diritto naturale si chiede ancora cosa sia la famiglia
di Mario Ricciardi


Contrariamente a quel che sembrano ritenere alcuni, la questione di quale sia l'ordinamento preferibile per la famiglia è ancora aperta tra i sostenitori del diritto naturale, e non è affatto detto che i conservatori abbiano formulato in materia le argomentazioni più convincenti.

Nel dibattito pubblico di questo paese l'espressione "diritto naturale" viene normalmente associata alla Chiesa Cattolica sulla base dell'implicita assunzione che solo i cattolici credano nell'esistenza di standard di valutazione del diritto positivo indipendenti dalla volontà del legislatore che si possono scoprire riflettendo sulla "natura delle cose". In realtà, l'assimilazione tra questa posizione filosofica e l'adesione alla Chiesa Cattolica è priva di fondamento. Se è vero che l'idea che c'è un diritto naturale fa parte degli insegnamenti tradizionali del cattolicesimo, è altrettanto da vero che ci sono stati e ci sono filosofi - anche contemporanei - che difendono l'esistenza di standard "naturali" di valutazione del diritto senza essere cattolici o cristiani.
L'esempio forse più significativo è quello di H.L.A. Hart, che ha sostenuto che c'è un "contenuto minimo" di diritto naturale che ciascun sistema giuridico dovrebbe includere per garantire la sopravvivenza della società cui esso appartiene. Per esempio, regole che difendono dalle aggressioni ingiustificate o che garantiscono l'adempimento delle promesse sono, per il filosofo britannico, necessarie per vivere insieme. Dato come sono fatti gli esseri umani, non sarebbe possibile per una società durare nel tempo senza regole di questo tipo. La stessa idea è stata ripresa da altri autori che hanno formulato i requisiti indicati da Hart in modo più esigente, sostenendo che essi andrebbero soddisfatti non tanto per garantire la sopravvivenza - che, come mostrano le specie animali non umane, è possibile anche senza diritto - ma piuttosto per mettere a disposizione di ciascuno l'opportunità di condurre un'esistenza almeno decente, e di tentare di realizzare le proprie potenzialità (la "fioritura" degli esseri umani di cui parla Aristotele).
Tra gli autori in questione c'è un dibattito molto vivace che riguarda l'estensione del diritto naturale, e il rapporto che esso dovrebbe avere con il diritto positivo. Un caso particolarmente controverso è quello delle regole che sostengono e tutelano la famiglia. Per alcuni, esse dovrebbero essere formulate in modo da difendere la famiglia tradizionale escludendo la possibilità di riconoscere e valorizzare forme di unione diverse da quella tra uomo e donna. Per altri, questa conclusione non è suffragata da argomenti che siano fino in fondo persuasivi, e dipende piuttosto da un pregiudizio. Chi sostiene questa versione più "liberale" della teoria del diritto naturale fa notare, infatti, che non c'è ragione di ritenere che il semplice riconoscimento di diritti per i conviventi dello stesso sesso avrebbe le conseguenze devastanti per la famiglia, e per la società nel suo complesso, che alcuni paventano. Che il valore del matrimonio, o la sopravvivenza della famiglia, siano messi in pericolo dal riconoscimento legale di altre forme di convivenza non è qualcosa che si possa stabilire attraverso l'intuizione delle essenze, ma è piuttosto un'ipotesi empirica che non può essere accettata senza argomenti persuasivi. Contrariamente a quel che sembrano ritenere alcuni, la questione di quale sia l'ordinamento preferibile per la famiglia è ancora aperta tra i sostenitori del diritto naturale, e non è affatto detto che i conservatori abbiano formulato in materia le argomentazioni più convincenti.
Comunque, anche se i conservatori avessero ragione, rimane aperto il problema di quale sia l'atteggiamento da tenere nei confronti di una legge incompatibile con le conclusioni cui si arriva ragionando sugli standard di valutazione del diritto naturale. Anche in questo caso, la discussione è aperta. Tuttavia, anche molti giusnaturalisti cattolici riconoscono che ci sono circostanze in cui una legge contraria al diritto naturale debba essere rispettata. Se, ad esempio, la decisione è stata presa, nel rispetto delle regole, da chi aveva il potere per farlo, è difficile negare che essa soddisfi i requisiti di legalità, e dunque debba essere osservata. Ciò non esclude, ovviamente, la possibilità di ricorrere a tutti i mezzi legittimi per manifestare il proprio dissenso e per proporne l'abolizione o la modifica. Credere nel diritto naturale non comporta, infatti, negare il valore delle istituzioni liberali e delle procedure di decisione democratica, per quanto imperfette.

Liberazione 26.9.09
Filosofo, comunista, amico di Adorno. Si tolse la vita il 26 settembre 1940 Walter Benjamin
la storia liberata dal mito del progresso
di Massimiliano Tomba



Walter Benjamin nato a Berlino il 15 luglio 1892, si è tolto la vita il 26 settembre 1940 presso Port Bou, nella Catalogna spagnola. Benjamin aveva solo 48 anni, era noto come saggista e critico letterario, anche se l'Università tedesca non volle mai concedergli la libera docenza. [...] Quando i nazisti presero il potere, Benjamin, ebreo e militante comunista, lasciò la Germania per trasferirsi a Parigi. Con l'invasione della Francia da parte dei tedeschi, decise, sollecitato dagli amici, di prendere la strada dell'esilio e di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Non giunse mai a destinazione perché, sulla frontiera franco-spagnola, gli fu negato il visto necessario per attraversare la Spagna e imbarcarsi. Decise di togliersi la vita ingerendo della morfina [...].
Benjamin scrive le sue celebri Tesi sul concetto di storia tra il 1939 e il 1940, nell'attimo di pericolo «che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari». Il contesto storico è la vittoria del nazionalsocialismo e lo spaesamento delle classi operaie europee all'indomani del patto di non-aggressione firmato da Stalin e Hitler nel 1939. Ma il quadro non sarebbe completo senza la corresponsabilità della socialdemocrazia: essa avrebbe infatti corrotto i lavoratori tedeschi con la persuasione di nuotare con la corrente. Ovverosia il progresso. Per quanto possa ancora suonare stridulo agli orecchi dei benpensanti, Benjamin mostrava come il nazionalsocialismo, la socialdemocrazia e lo stalinismo stavano lavorando di concerto alla liquidazione della tradizione della lotta di classe per il comunismo. L'idea di progresso è infatti direttamente contraria a quella di comunismo. Essa, da un lato suppone che la liberazione sarebbe giunta attraverso «il progresso del dominio della natura», mentre oggi è chiaro che il dominio della natura in forza dello sviluppo tecnico minaccia di distruggere il pianeta, svelando solo il carattere intrinsecamente distruttivo del modo di produzione capitalistico; dall'altro crea la falsa concezione che i diritti sociali e collettivi della classe operaia si diano come naturale evoluzione della civiltà giuridica. Cioè, che il modo di produzione capitalistico sia progressivamente addomesticabile e civilizzabile. Quelle conquiste, invece, si oppongono punto su punto alla guerra del capitale contro i diritti collettivi. Sono il prodotto di un'anomalia e perdurano solo fintanto che l'anomalia è mantenuta. Solo se la classe si presenta come soggetto collettivo titolare di un proprio diritto all'uso della forza, è possibile contrapporre diritti sociali e collettivi alla normalità dello Stato moderno e del modo di produzione capitalistico, ovvero all'atomizzazione dei diritti e dei contratti di lavoro. Ecco l'anomalia: la classe operaia è stato l'unico soggetto che riuscì a conquistare, con il diritto di sciopero, un diritto di esercitare la forza parallelamente e contro lo Stato. Ciò riuscì ad aprire spazi politici di agire collettivo che vengono oggi erosi in un processo di implosione dello Stato di diritto. Serve oggi recuperare il gesto benjaminiano, spostare il punto di osservazione e rovesciare ciò che sembra consolidato: l'anomalia fu la democratizzazione prodotta dalla lotta di classe, la normalità è l'atomizzazione e la depoliticizzazione del sociale. Cioè la rivoluzione conservatrice in corso non solo in Italia. 
Lo «stato di eccezione in cui viviamo è la regola», scriveva alla fine degli anni '30 Benjamin nelle sue Tesi , aggiungendo che «lo stupore perché le cose che noi viviamo sono ancora possibili nel ventesimo secolo non è filosofico». Così noi, oggi, dobbiamo trovare la forza per mostrare che l'implosione dello Stato di diritto e la distruzione dei contratti collettivi di lavoro non devono suscitare alcuno stupore, perché non rappresentano altro che il ritorno alla normalità del capitalismo. Per evitare il declino autoritario sarebbe stato sufficiente incoraggiare la lotta di classe invece di cercare improbabili pacificazioni sociali. Il corso normale può essere nuovamente spezzato e l'anomalia riprodotta. Ma questo è possibile solo considerando il conflitto una modalità della politica e abbandonando la concezione unilienare del tempo storico. 
Quest'ultima conquista, che Benjamin ricava dal pensiero ebraico, era condivisa anche da Ernst Bloch che, pensando a un tempo storico plurale, tentò un'ultima opposizione al fascismo cercando di recuperare alla lotta di classe operaia gli strati anacronistici della società, come contadini e ceti medi, prima che questi venissero completamente fagocitati dalla sincronizzazione nazionalsocialista. Lo spartiacque era netto: il marxismo ufficiale, considerando residuali alcuni strati della società non ancora proletarizzati, li abbandonò al fascismo; Bloch, in forza di una diversa concezione della storia che rifiuta la distinzione gerarchica tra punti avanzati e residui di una pretesa tendenza storica, indicò una possibilità politica di lotta al fascismo. Vinse la prima concezione. E con essa, una rappresentazione della storia. 
Nel nostro tempo globalizzato, invece di omaggiare un multiculturalismo che si riduce spesso a inefficace erogazione di riconoscimento giuridico, abbiamo bisogno di ripensare quell'idea di multiverso storico, affinché concezioni religiose e politiche diverse da quella occidentale non vengano incasellate tra i momenti arretrati o residuali della linea storica europea. Affinché la democrazia occidentale non venga considerata il fine ultimo del progresso storico, un valore talmente elevato da poterlo esportare. Anche con le bombe. Affinché le forme di produzione altamente tecnologiche di alcune parti dell'Occidente non siano presentate come i momenti trainanti dello sviluppo capitalistico, che è invece il prodotto della combinazione di elementi diversi, incluso lo schiavismo crescente in diverse parti del pianeta. Piace all'autorappresentazione liberale considerare lo schiavismo un orribile residuo dei tempi passati, mentre invece esso è il prodotto sempre ricombinato degli attuali rapporti di produzione capitalistici. 
Di fronte a questi problemi, abbiamo bisogno di una nuova pratica della politica. Ma questa non è possibile senza una diversa concezione della storia. Walter Benjamin torna qui d'attualità come pensatore politico.

Liberazione 26.9.09
La sua attualità
Un convegno organizzato dal Prc
di Tonino Bucci


La memoria è "sovversiva", spezza il dominio, è "inattuale" perché rompe con quella presunta normalità che governerebbe la storia verso il progresso. Quest'uso alternativo della storia capace di riassorbire e tradurre in politica la memoria di tutti coloro che hanno lottato contro il capitalismo sarà al centro del convegno "L'attualità politica di Walter Benjamin" con Massimiliano Tomba, Gianfranco Bonola, Mario Tronti, Paolo Virno e Paolo Ferrero (mercoledì 30 settembre, ore 17, aula magna facoltà valdese di teologia, via Pietro Cossa, 40, Roma). La politica deve farsi carico della «trasmissione del passato», sempre sul punto di essere soggiocata dal conformismo al presente. Basterebbe ricordare qualche aforisma: «nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso», «salvare la memoria dei vinti, dei senza nome», «riattizzare nel passato la scintilla della speranza».


Liberazione 26.9.09
Un pensatore della crisi Senza passato non c'è futuro per la politica
di Paolo Ferrero



Il convegno che abbiamo organizzato per il 3 ottobre vuole costruire un momento di riflessione sull'attualità politica di Walter Benjamin che nella quarta di copertina dei suoi libri editi da Einaudi viene definito come "intellettuale ebreo berlinese, critico letterario, filosofo e militante comunista". Nel convegno, che vuole anche essere un momento di ricordo, di "rammemorazione" come avrebbe detto Benjamin, non intendiamo muoverci su un piano accademico. Vogliamo suscitare una riflessione sui presupposti della cultura politica, di cui oggi sentiamo particolarmente il bisogno perché l'assenza di dibattito culturale o il piegare questo o quell'autore alla bisogna del momento rappresentano solo la testimonianza di una sinistra largamente nichilista.
Da questo punto di vista Benjamin mi interessa innanzitutto perché noi viviamo in una situazione che è simile alla sua. Meno drammatica, per carità, ma l'impressione che si ripresentino nella storia comportamenti e culture politiche che - a livello di massa - pensavamo sepolte una volta per tutte con la trasformazione in tabù dell'olocausto ci lascia sbigottiti. Benjamin si trova a confrontarsi con la barbarie nazista nel momento della sua vittoria. Noi ci troviamo in una sorta di repubblica di Weimar al rallentatore in cui l'insicurezza, la paura del futuro, la ricerca di capri espiatori, il dissolversi di solidarietà e identità consolidate, la fanno da padrone. Ci troviamo in un tempo in cui l'idea stessa di progresso è in crisi verticale. Da questo punto di vista Benjamin è un nostro contemporaneo, un maestro da cui abbiamo molto da imparare.
In questo contesto vorrei proporre un percorso della rifondazione comunista che sappia misurarsi con chi ha vissuto "nei" e riflettuto "sui" momenti di sconfitta. Quando pensiamo alla storia del movimento operaio e comunista abbiamo sovente in mente i punti alti: la rivoluzione russa, il biennio rosso, la lotta di liberazione, il '68/69. Propongo una ricerca teorica e di cultura politica che si confronti in modo particolare con chi ha vissuto e ha ragionato nelle fasi di crisi. In questo senso non solo Benjamin, ma anche il Gramsci dei Quaderni del carcere , Panzieri e molti altri, sono nostri contemporanei. Si trovarono ad analizzare problemi e situazioni diverse dalle nostre ma con lo stesso stato d'animo di chi, sconfitto collettivamente e sovente isolato individualmente, prova ad analizzare i propri errori e a capire come modificare la situazione. Noi questo percorso di riflessione non lo facciamo in quanto individui ma lo vogliamo fare come corpo collettivo, come partito. La rifondazione comunista non può essere l'adesione superficiale ad una serie di intuizioni estemporanee, ma piuttosto un percorso consapevole di modifica della nostra cultura politica. Il convegno su Benjamin vorrebbe dare un contributo in tal senso su un tema decisivo che è quello del nostro rapporto con la storia. In questi anni ci siamo scontrati contro il progressismo evoluzionista che porta all'ideologia della modernità come fine della storia, così come abbiamo subito il nichilismo che vuole tutto distruggere per poter tutto ricostruire. Questi due approcci portano agli stessi esiti disastrosi. Io penso che per poter correttamente impostare il tema della rifondazione comunista occorre chiarirci le idee su come costruire uno spazio dell'agire politico che tematizzi correttamente il rapporto tra la nostra storia, il nostro presente e il nostro futuro. Benjamin può darci una mano in questa riflessione. Di questo e di molto altro discuteremo al convegno.

Il Fatto 27.9.09
Il colloquio
Marco Bellocchio in corsa per l'Oscar
Io, l'Italia, l'America (e Tornatore)
di Malcom Pagani


I biglietti aerei sul tavolo, accanto ai libri. Brecht e Lucrezio. Marco Bellocchio è in partenza per New York. Lezioni americane per non arrivare impreparati al primo ottobre, quando i giurati dell'Academy decideranno il film italiano da candidare all'Oscar.
Non è un dogma che tra le cinque opzioni, a prevalere davvero sia lo sforzo produttivo di Medusa. Baaria è costato 25 milioni di euro, ma la vicenda misconosciuta di Ida Dasler e Benito Albino, moglie e figlio segreti di Mussolini, prima ripudiati e poi internati, ha impressionato il pubblico.
Proiezioni affollate a Toronto e inviti a sette differenti festival Usa. Nella famiglia di Bellocchio, l'uomo di Predappio era venerato. Sette fratelli, l'emiliana operosità, il focolare. La foto autografa del duce "con dedica a mia madre" è il passato incastonato a Bobbio. Il futuro, la sorpresa inattesa che illumini i suoi 70 anni, il regista la cerca oltre Oceano.
Si muove sulla sedia, tormenta un foglio, agita le mani. Gli occhi piccoli, fessure da interpretare. "In America l'Italia è stata sempre raccontata unidirezionalmente. Emigrazione e Mafia. I piroscafi con il loro carico di disperati alla conquista del nuovo mondo o 'i bravi ragazzi impegnati ad esportare una forma di affiliazione nella quale non conoscevamo rivali. Per glj statunitensi, la biografia di Mussolini rappresenta un terreno inesplorato e un'interpretazione del fascismo che si dipana a partire da una vicenda privata, li ha incuriositi".
L'autore di racconti in cui la ribellione è l'unico possibile terreno per far germogliare la libertà, sospetta che il seme sia cresciuto grazie alla protagonista di "Vincere". Una donna. "Ida è un'eroina caparbia che aspira all'emancipazione in un contesto bloccato. L'affermazione della passione per Benito non è funzionale al regime e la sua triste vicenda, in fondo, non è che la storia di un'equazione impossibile".
Quarantaquattro anni di cinema eterogeneo, hanno regalato a Bellocchio uno sguardo disincantato. Quello che osserva non gli piace ma anche di fronte alla considerazione più amara, il tono è lieve. Argomentato. La similitudine tra il ventennio berlusconiano e quello originale non lo convince:
"Non ho fatto un film sulla contemporaneità e tra i due ambiti non vedo analogie. Mussolini voleva cambiare l'Italia, Berlusconi no. Cosa ha fatto concretamente il premier per la nazione? Nulla di nulla. Ha forse risolto il problema della disoccupazione? Solo riforme accennate, spot, illusioni. È l'uomo più ricco d'Italia ma se c’era un progetto volto a mutare le strutture di base, devo essermi distratto”. L'ex studente dei Barnabiti (come Benito Albino) “di quel periodo non ho ricordi drammatici, solo noia, regole e ordine”, non ha fatto pace con le gerarchie ecclesiastiche. “L’ora di religione legata ai crediti scolastici è un’ignominia. Esprime una desolante violenza di fondo, di stampo medievale, contro cui è incredibile nessuno sente l’esigenza di reagire”.
Nell’argine mancante a un’istituzione secolare, Bellocchio individua responsabilità precise. “Non si fa niente per frenare il brutale razzismo della Lega ma al tempo stesso, si subisce l’imposizione di una minoranza fanatica e intollerante. La sinistra ha colpe gravi e l'assenza di coraggio, alla lunga, si paga”. La delusione per Il Pd è quasi tautologica: "Il caso di Dorina Bianchi è emblematico di un pavido immobilismo. A un'aggressività oscurantista, si risponde a mezza bocca. Il precedente esecutivo non è riuscito neanche a mettersi d'accordo su un provvedimento timido come i Dico, oggi balbetta sul testamento biologico ed è terrorizzato dai Teodem. Ma un partito atrofizzato dal pensiero debole di Paola Binetti, forse non merita di governare. Nel trionfo dell'antipolitica, Bellocchio intravede le crepe di un compromesso fatale. "La scuola cattolica e quella comunista. Due anime che tendono a riconfluire ciclicamente senza spogliarsi di due peccati inestinguibili. Revisionismo e opportunismo. Da ragazzo, quando già la dottrina del Pci mi pareva ipocrita, militai brevemente nei marxisti-leninisti.
Oltre la sigla, cercavo l’ideale. Con gli anni, senza smarrire trasporto per l’esistente, ho rielaborato le mie convinzioni. Quando posso, voto per i radicali. Anche in un quadro di feroci contraddizioni, hanno saputo tener ferma la barra dei diritti civili”
Il teatrino della contrapposizione aprioristica, però, lo annoia. "Il contraddittorio si è trasformato in palcoscenico per uno spettacolo che replica se stesso senza variazioni signifìcative. Non ci si ascolta e si recita un copione prestabilito. Ai miei tempi, le persone si dicevano vicendevolmente le cose più atroci ma alla base, c'era la comune convinzione che la propria, fosse la soluzione migliore. li presente è piatto. Uno parla, l'altro risponde con l'esatto contrario e la sintesi è che nulla sembra importante". Le urne disertate, a Bellocchio paiono il riflesso della mediocrità corrente: "Rimane l'impressione che qualunque sia il tema sul tavolo, esista un superiore livello di convergenza tra chi guida il gioco e chi all’amministrazione, si dovrebbe opporre. La percezione qualunquista, terribilmente diffusa è quasi manzoniana: il bene del popolo non conta e alla fine, comunque vada, gli oligarchi si metteranno d’accordo fra loro”.
In un contesto informativo feroce, viene in mente “Sbatti il mostro in prima pagina”, l’opera del ’72 in cui Ignazio La Russa, pizzetto e capelli da extraparlamentare, arringa camerati e monarchici davanti al castello Sforzesco.
Sesso, giornali, ricatti, depistaggi. Trentasette anni fa. “Linformazione è cambiata. A quei tempi il quotidiano indirizzava le opinioni. era simbolo e bandiera di un’inclinazione politica e antropologica. Adesso Internet e la tv hanno sperequato l’offerta e forse il giornale, al di là delle opinioni contenute, entro vent’anni sparirà. All’epoca di “Sbatti il mostro in prima pagina”, nell’aria si respiravano tensioni fortissime. Riprendemmo il funerale di Feltrinclli in un clima di tensione pazzesco. Allora, al tema della libertà di stampa si sovrapponeva quello della lotta politica usata come clava sugli avversari al fine di eliminarli. A quasi mezzo secolo di distanza, avverto sinistre similitudini". Impossibile non sfiorare con il ragionamento l'orgia del potere, l'antichissima fascinazione esercitata dall'autorità. "Mussolini con le donne faceva "ginnastica", aveva una segretaria che si occupava delle ragazze da reclutare allo scopo e riceveva trentamila lettere al mese. Un'ossessione compulsiva affrontata con l'attitudine del violentatore più che del conquistatore. Le donne andavano dal capo per una sorta di riflesso insopprimibile".
La seduzione obbligata, l'inganno di potersi sedere al tavolo del re. "Oggi le ragazze vanno da Berlusconi per conquistare un’identità attraverso la televisione, è una prostituzione di tipo diverso, un dato assolutamente nuovo". Alla fine i fili si riannodano. È l'estetica ad essere cambiata insieme alle coscienze. "Ho visto "Videocracy". Molto interessante, Cinismo, ipocrisia, orrore. Aspetti realI. ambitI dominantl