martedì 29 settembre 2009

Repubblica 29.9.09
Memorandum sulla libertà di stampa
di Piero Ottone


In Italia, la libertà di stampa è stata abrogata in modo formale solo una volta, nel 1925. Benito Mussolini lasciò la proprietà dei giornali, con grandi possibilità di guadagno, ai loro editori, ma nominava i direttori, e organi di governo davano ogni sera disposizioni precise e tassative, le stesse per tutti, sulla scelta e sulla titolazione delle notizie. Ma quella era una dittatura dichiarata. Se ne può dedurre che la stampa e, da quando ci sono, radio e televisione siano sempre state libere, prima e dopo la dittatura ? Purtroppo non è così.
Facciamo un po´ di storia, e cominciamo con un episodio. Il Giornale, quando lo comperò Silvio Berlusconi, era diretto da un giornalista illustre: Indro Montanelli. All´inizio il nuovo proprietario, gestore di stazioni televisive, era poco invadente. Diceva Montanelli: «È un buon editore. Io gli appalto la pagina degli spettacoli, e per il resto mi lascia fare quello che voglio». Già l´appalto di un settore del giornale, quello degli spettacoli, era foriero di disastri, e contrastava con la deontologia giornalistica. Ma tutto cambiò quando Berlusconi entrò in politica. Lui disse allora a Montanelli, chiaro e tondo, che si aspettava il pieno appoggio del giornale nella campagna elettorale, e dopo. Montanelli rifiutò: intendeva mantenere la sua libertà di giornalista, la sua indipendenza. Berlusconi convocò allora la redazione alle sue spalle, per prendere in mano la situazione. Montanelli non esitò a dimettersi, e si separò, facile immaginare con quanta tristezza, dalla sua creatura.
Molti, in quei giorni, pensarono forse che Berlusconi non avesse tutti i torti. Era il padrone del giornale. Poiché il giornale aveva un bilancio passivo, lui pagava il deficit. Non poteva dunque aspettarsi il suo appoggio incondizionato? In Italia, i giornali erano stati considerati attraverso il tempo, piuttosto che mezzi di informazione, strumenti di potere. All´estero, in paesi più fortunati del nostro, imprenditori di genio fondarono organi di stampa come imprese autonome, chi con fini ideali, per rendere un servizio alla comunità, chi per trarne un guadagno: «vendevano notizie», scriveva Luigi Einaudi, come altri vendevano automobili. Einaudi aggiungeva che coloro che vendevano notizie erano tutto sommato, come editori, i più affidabili: erano, nella terminologia che poi ha prevalso, "editori puri", cioè senza secondi fini. Ma da noi i grandi industriali come i fratelli Perrone, il primo degli Agnelli, i tessili della Lombardia, non comperarono o non fondarono il Messaggero, il Secolo XIX, la Stampa, il Corriere della Sera per trarne un profitto. Lo fecero per influire sull´opinione pubblica, a vantaggio della loro classe sociale quando andava bene, o a sostegno delle loro singole industrie. Il governo disponeva a sua volta di fondi segreti, nel periodo prefascista, per finanziare giornali e giornalisti: corruzione bella e buona.
Enrico Mattei, presidente dell´Eni, fondò in segreto nel 1956 il Giorno (la vera proprietà fu dichiarata solo dopo tre anni) per combattere ad armi pari contro il potere confindustriale, che disponeva di organi di stampa. Ed Eugenio Cefis, quando era presidente della Montedison, spiegava con candore perché facesse incetta di quotidiani: «Le grandi industrie – diceva – posseggono giornali per lo scambio di favori col potere politico. Per scambiare favori dobbiamo quindi avere giornali anche noi». Va da sé che ognuno di questi editori "impuri" esercitava il potere sui rispettivi mezzi di informazione a modo suo, secondo la sua indole e le sue maniere. Ma l´inquinamento dell´informazione era una costante. E per molto tempo fu accettato come un male inevitabile. Si credeva anzi che fosse la normalità. Il concetto di libertà di stampa, in Italia, fu travisato: non consisteva, si disse, nel dire le cose come stanno, ma nel presentarle in tanti modi diversi, ciascuno a modo suo. La somma di tante versioni, più o meno inquinate, doveva permettere al pubblico di farsi un´idea, più o meno approssimativa, della realtà: la verità come somma algebrica delle bugie. La lottizzazione della Rai, esercitata da tutti i partiti senza eccezione, era un esempio nefasto di questa perversa mentalità.
Solo attraverso il tempo ci si è resi conto che l´informazione deve essere autonoma: il giornalista svolge una funzione di pubblica utilità, e ha il dovere di svolgerla secondo scienza e coscienza, come il medico, come il magistrato, senza servire nessuno. La categoria ha rivendicato la sua indipendenza, con più vigore a partire dagli anni Settanta, e i comitati di redazione hanno combattuto le loro battaglie. Sono sorte nuove testate, in grado di dare al pubblico un´informazione non adulterata da interessi economici: la loro presenza ha avuto un effetto benefico in tutto il settore. Il concetto di indipendenza dell´informazione, ormai solidamente stabilito nelle democrazie moderne in America e in Europa, guadagnava forza anche da noi. Ma il progresso verso una libertà di stampa reale, non apparente, è stato interrotto e rovesciato in questi ultimi anni: ed è uno dei danni provocati dall´egemonia berlusconiana. Silvio Berlusconi, proprietario diretto di mezzi di informazione (canali televisivi, quotidiani, settimanali, case editrici), è in grado di dettare legge anche su giornali e televisioni che non sono di sua proprietà, come presidente del Consiglio e come titolare di un potentato economico. È difficile diventare senza il suo consenso direttore di un quotidiano la cui proprietà può giovarsi del favore politico, e teme il suo malumore. Insomma: oggi lui può esercitare su metà del paese le stesse imposizioni che cercò di esercitare su Montanelli, direttore del Giornale, quando decise di entrare in politica.
La resistenza alla nuova ondata di prepotere politico è compito, in primo luogo, della categoria giornalistica. È questione, è stato detto, di spina dorsale. Ma questa categoria non è mai stata unanime e compatta. A un Pannunzio, che dal Mondo combatteva le sue battaglie per la libertà, stava di fronte un Missiroli, che cinicamente diceva: «Un proprietario di giornale non perde mai soldi, anche se il bilancio del giornale è passivo, perché dal giornale trae altri benefici». È per queste ragioni che la critica del comportamento di Berlusconi di fronte all´informazione, più che da noi, è diffusa e severa nella stampa straniera, di paesi cioè che prima di noi hanno scoperto i princìpi della libera informazione: e non hanno ragione di temerlo.

il Riformista 29.9.09
Per i Radicali, Scajola deve insistere
«L'indagine sulla Rai sia più ampia»
di Edoardo Petti


Parla Beltrandi. Il deputato denuncia le altre violazioni degli obbligi di legge da parte di viale Mazzini: dalla scomparsa delle tribune politiche a quella dei programmi dell'accesso, fino alla mancata attuazione del sistema Qualitel.

«L'iniziativa del ministro Scajola, che ha convocato i vertici Rai per valutare il rispetto di Annozero verso gli obblighi del servizio pubblico, è legittima. Ma deve estendersi a un'indagine completa sulle innumerevoli violazioni degli obblighi di legge e del contratto di servizio da parte della tv di Stato». Sono parole di Marco Beltrandi, deputato radicale eletto nel Pd, da anni impegnato sul tema dell'informazione e nelle denunce contro le distorsioni e le carenze del sistema radiotelevisivo italiano. Il parlamentare enuclea i doveri e gli aspetti della convenzione con il ministero delle Comunicazioni, che sarebbero stati disattesi e infranti da viale Mazzini. E chiama in causa i partiti, il Governo, la commissione parlamentare di Vigilanza, e l'Autorità di garanzia sulle comunicazioni, che «dovrebbe sanzionare d'ufficio quelle violazioni anziché attendere di essere sollecitata da iniziative esterne, come quella dei Radicali sulla lesione del principio della "par condicio"». Una questione che Beltrandi lega alla battaglia per rompere il silenzio e la cancellazione delle iniziative radicali da parte dei media e per consentire ai cittadini l'einaudiano «conoscere per deliberare» anche sulle proposte del movimento di Pannella e Bonino. Ecco le principali violazioni secondo Beltrandi.
Organismo Rai sui diritti umani e sul sociale
«La Rai - osserva - è sempre stata inadeguata e in netto ritardo sull'informazione relativa alle emergenze relative alle libertà fondamentali e alle questioni umanitarie. In base all'articolo 8 del contratto di servizio, avrebbe dovuto dare vita a una struttura interamente dedicata a simili tematiche, dipendente dal direttore generale. Nulla di ciò è stato realizzato».
Accesso alla programmazione per i disabili
«Secondo il contratto di servizio - prosegue il deputato radicale - entro 3 anni l'azienda avrebbe dovuto dotare almeno il 60 per cento del proprio palinsesto degli strumenti indispensabili alle persone non vedenti e non udenti. Ad oggi la copertura raggiunge appena la metà di quella soglia, e la qualità dei sottotitoli è assai scadente. Poi non esiste l'edizione quotidiana dei tg regionali realizzata per gli utenti con disabilità».
Mancata attuazione del sistema Qualitel e scarsi progressi sulla rete
Beltrandi denuncia lo stallo nella realizzazione di "Qualitel", nuovo paramentro di valutazione qualitativa dei programmi da affiancare ai dati Auditel, concepito dall'ex titolare delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. «La Rai - continua Beltrandi - dopo avere creato il portale "Rai.it" è poi assai lontana dall'obiettivo di mettere in rete l'intero palinsesto».
Scomparse le tribune politiche e i messaggi autogestiti
Il parlamentare radicale denuncia «l'assenza assoluta, dal febbraio 2008, delle tribune di confronto tra partiti al di fuori del periodo di campagna elettorale, e dei messaggi autogestiti dei vari soggetti e schieramenti. Situazione imputabile alla volontà di viale Mazzini e di Palazzo San Macuto di non stabilire un calendario di trasmissioni, che peraltro vanno in onda in orari marginali e inconcepibili per una corretta informazione». Rivendicando la faticosa conquista del diritto alle tribune politiche grazie alle storiche campagne radicali degli anni Settanta, Beltrandi accusa le principali forze politiche di «non avere interesse verso forme di comunicazione fondate sul contraddittorio ad armi pari», e di «essere favorevoli esclusivamente ai talk show condotti in regime di monopolio». E rimarca «l'assenza di reazione a questa realtà da parte delle formazioni non presenti in Parlamento».
Aboliti gli spazi dell'accesso
«La legge sulla Rai del 1975, che aveva istituito, fra l'altro, la commissione parlamentare di Vigilanza - ricorda Beltrandi - aveva stabilito programmi riservati a soggetti socialmente rilevanti, espressione del cosiddetto "terzo settore", come è ad esempio l'associazione "Luca Coscioni". Anche questi spazi sono scomparsi dal servizio pubblico, e per ragioni tutte politiche. La Vigilanza dovrebbe designare gli ospiti delle trasmissioni dell'accesso attraverso una sottocommissione; ma quest'ultima si trova attualmente nell'identica situazione di stallo vissuta nei mesi scorsi a Palazzo San Macuto. E le domande arretrate sono oltre 200».

Corriere della Sera 29.9.09
Dopo le elezioni in Germania
Socialismo europeo tra cure e funerali
di Paolo Franchi


Il tracollo della Spd, caduta per la prima volta, cin­quant’anni dopo Bad Gode­sberg, sotto la soglia del 25 per cento, sembra inverare anche simbolicamente, con qual­che anno appena di ritardo, la tesi avanzata nel 1985 da Lord Dahren­dorf. Forse «il secolo socialdemo­cratico » è davvero finito. Forse non solo in Germania, ma in qua­si tutta l’Europa, i partiti socialisti e socialdemocratici sono davvero in via di estinzione, e abbisogna­no delle cure di un qualche Wwf della politica. Forse la sinistra, o come si chiama adesso, se non vuole che il morto abbranchi il vi­vo, deve davvero, per reinventarsi un futuro, lasciarsi senza troppi rimpianti alle spalle una lunga sto­ria che, quasi ovunque in Europa, soprattutto nel secondo dopo­guerra è, in larghissima misura, la sua storia. O, almeno, la sua storia più importante, e almeno sin qui politicamente e socialmente più produttiva.
Forse. Ma intanto, prima di mettersi a stilare frettolosi atti di morte, è bene stare ai fatti. E i fatti stanno lì a dire che, per quanto grave, e magari potenzialmente mortale, sia il male che li affligge, i partiti socialisti, socialdemocrati­ci e laburisti sono e restano in Eu­ropa, con l’eccezione non partico­larmente felice dell’Italia, la forza di gran lunga più importante e si­gnificativa della sinistra che esiste realmente, e non solo nelle ambi­zioni, o nei sogni, di chi ne vorreb­be una tutta nuova e diversa, ma­gari così nuova, e così diversa, da non potersi neanche più definire sinistra. Persino Oskar Lafontai­ne, salutando entusiasta il succes­so della sua Linke, ha badato bene a chiarire che considererebbe un disastro una crisi distruttiva e au­todistruttiva della Spd: non per una cortesia diplomatica che oltre­tutto proprio non gli appartiene, ma perché sa bene che a pagarne un prezzo terribile sarebbe tutta la sinistra tedesca ed europea, Linke naturalmente compresa. Ma proprio perché della sinistra che c’è le socialdemocrazie rap­presentano la seppur danneggia­tissima architrave, sulle loro spal­le pesa un compito immane. Il compito non solo di rinnovarsi in profondità, ma di ripensarsi radi­calmente, per ritrovare quello che hanno perduto, in primo luogo la fiducia di tanta parte della loro gente, e per avventurarsi su terre­ni sin qui sconosciuti. E di farlo avendo davanti a sé, nella grande maggioranza dei casi, una stagio­ne di opposizione che si annuncia lunga e difficile per partiti che hanno il governo, o almeno una prospettiva ravvicinata di gover­no, nel loro Dna.
Non è detto che ci riescano, an­zi, tutto (non solo il coro assordan­te dei conservatori) sembra parla­re contro di loro, a cominciare dal­la modestia delle leadership, tran­ne il fatto che il socialismo demo­cratico nella sua lunga vita di lea­der mediocri ne ha avuti molti, e di crisi considerate mortali ne ha già traversate più d’una, ma ogni volta, quando tutto sembrava per­duto, ha trovato il modo di lascia­re disoccupati i suoi aspiranti bec­chini, di destra, di centro e di sini­stra. Un ciclo politico, quello in­carnato dal New Labour di Blair e, seppure in misura minore, dalle Neue Mitte, il nuovo centro, di Schroeder si è chiuso, e a scrivere la parola fine ha provveduto una crisi economica e finanziaria che ha colto peggio che di sorpresa tutte o quasi le socialdemocrazie, lasciandole senza parole proprio quando tutte o quasi le loro criti­che di un tempo non tanto al capi­talismo in generale, quanto a un capitalismo senza regole e senza contraltari, sembravano trovare una clamorosa conferma. Ha po­co senso stupirsene, e stupirsi del­la disaffezione e della protesta del proprio elettorato tradizionale, se fino al giorno prima si sono canta­te, con l’ardore dei neofiti, le ma­gnifiche sorti e progressive del turbo capitalismo, dandosi come massimo obiettivo quello di dif­fonderne per quanto possibile i ri­sultati, in termini di ricchezza, nel­la società.
E adesso? La tentazione dell’in­dietro tutta, che andrebbe di pari passo con la caccia al tesoro del­l’identità perduta tra compromes­si e cedimenti, e con una più o me­no marcata radicalizzazione, è comprensibile e persino fisiologi­ca: ma di sicuro una simile svolta non porterebbe troppo lontano. Se è il futuro del socialismo in Eu­ropa che ormai appare radical­mente in discussione, è del sociali­smo europeo del futuro che biso­gnerebbe cominciare a discutere. Possibilmente subito, in ogni ca­so senza attendere passivamente il prossimo disastro annunciato. E iniziando con il chiedersi, senza troppi giri di parole, di che cosa esattamente si sta parlando: del­l’organizzazione del funerale di un illustre vegliardo, o delle tera­pie più indicate per rimettere in sesto un malato grave sì, ma vivo e magari persino più vitale di quanto si creda?

Repubblica 29.9.09
Socialismo in crisi nel nuovo millennio
di Anthony Giddens


La sconfitta del partito socialdemocratico in Germania è stata pesante, perfino peggiore del previsto, confermando una fase di difficoltà per tutti i partiti di centro-sinistra in Europa. Secondo previsioni e sondaggi, anche il Labour perderà il potere nelle elezioni previste per la primavera prossima in Gran Bretagna: il declino dei progressisti rappresenta dunque un trend ampio e prolungato. C´è molto da ragionare, da discutere e da ripensare, osservando questo fenomeno.
Una prima considerazione da fare è che, contrariamente a quanto molti si sarebbero aspettati, la crisi del sistema finanziario, il collasso delle banche e delle borse, la recessione globale che ha attraversato e in parte continua ad attraversare il mondo, non hanno prodotto maggiore consenso per i partiti di centro-sinistra europei, ossia per quei movimenti che potevano più facilmente prendere le distanze da un capitalismo apparso di colpo a tutti come troppo avido, non abbastanza regolato, non sufficientemente utile allo sviluppo della società. Questo mancato consenso per il centro-sinistra, di fronte alla crisi del capitalismo, ha a mio avviso due spiegazioni. Una è che tale crisi ha aumentato le divisioni all´interno della sinistra, rafforzando il radicalismo di coloro che rifiutavano la svolta riformatrice avviata da Tony Blair e Gerard Schroeder nel Regno Unito e in Germania negli anni ´90. In numerosi paesi questa divisione tra sinistra riformatrice e sinistra radicale si è accentuata a causa della crisi economica e ha contribuito a una serie di sconfitte elettorali. La seconda ragione è che i partiti di centro-destra, soprattutto in alcuni casi, hanno saputo dare una risposta valida alla crisi: la Merkel in Germania e Sarkozy in Francia, per esempio, sono stati trai più attivi nel chiedere un ripensamento dei meccanismi del mercato e un contenimento degli eccessi di banchieri e banche. I progressisti dicevano la stessa cosa, ma non erano i soli a dirla.
La seconda considerazione è che sarebbe sbagliato, nel giudicare l´equilibrio politico del pianeta, concentrarsi esclusivamente su quanto sta accadendo nei 27 paesi dell´Unione Europea. A livello globale, in effetti, non si può oggi parlare di un arretramento delle forze progressiste, ma al contrario occorre riconoscerne l´avanzamento. Ciò è evidente a tutti nel più potente e importante paese d´Occidente, gli Stati Uniti, dove la vittoria di Barack Obama ha messo in moto un completo ribaltamento delle politiche perseguite dal suo predecessore repubblicano. In America e altrove, alcuni opinionisti sono delusi da Obama, ma a mio parere sarebbe ridicolo attendersi che in pochi mesi il nuovo presidente potesse realizzare risultati concreti in materie delicate e complesse: ciò che conta è che Obama sta ridisegnando l´agenda globale, non solo degli Usa ma del mondo, dalle armi nucleari al clima, dalla finanza al welfare, fino al dialogo con blocchi alleati e avversari.
Partiti progressisti hanno raggiunto o conservato il potere anche in India e Brasile, ovvero in due delle tre maggiori nazioni emergenti, oltre che in Australia e Giappone, una conquista quest´ultima di significato storico. E risultati analoghi si sono verificati in altri paesi dell´America Latina. È dunque soltanto l´Europa, fino ad ora, il terreno dove la sinistra si trova in difficoltà. Qualche commentatore si chiede come mai l´effetto Obama non si è ancora riflesso sull´Europa, così come avvenne dopo la vittoria di Bill Clinton. Ma la vittoria di Clinton non fece sentire immediatamente il suo effetto in Europa: il presidente democratico fu eletto alla Casa Bianca nel ´92, Tony Blair prese il potere a Londra solo nel ´97. È troppo presto, quindi, per dire che l´effetto Obama da noi non si è fatto sentire. Aspettiamo: è verosimile che lo sentiremo tra qualche anno.
Una terza considerazione aiuta a comprendere quel che sta avvenendo nel vecchio continente. L´Europa si ritrova a confrontarsi con nuovi problemi che la mettono in ansia: l´immigrazione, il crimine, la ricerca di un´identità nazionale di fronte alla globalizzazione. Per affrontarli, il centro-sinistra sta cercando di elaborare una nuova politica liberal-riformatrice: ma non l´ha ancora definita del tutto. I progressisti capiscono che oggi è necessario ripensare la relazione tra stato e cittadino, tra stato e mercato: ma non hanno ancora completamente deciso come. La crisi finanziaria non è una crisi come le altre, così come la minaccia posta dal cambiamento climatico non è una normale minaccia: tutto ciò richiede un´analisi teorica approfondita e lo sforzo di capire che per certi problemi non esistono necessariamente soluzioni di destra o di sinistra, bensì la necessità di trovare alternative veramente nuove.
In conclusione, il centro-sinistra ha oggi bisogno di due elementi: l´elaborazione di un nuovo pensiero politico per affrontare i problemi posti da un mondo radicalmente mutato; e la capacità di unire tutte le sue forze, mettendo fine alle divisioni tra moderati e radicali. Diviso, si indebolisce e perde, come è stato dimostrato ad esempio in Italia. Ma unire le forze di sinistra non è un´operazione che si può fare solo in nome del pragmatismo, formando una coalizione eterogenea, magari in grado di cogliere la maggioranza alle urne ma non poi di governare e di fare le riforme necessarie: occorre invece riuscire a eliminare il sospetto che la sinistra tradizionale ha nei confronti di quella moderata, e al tempo stesso conquistare quegli elettori centristi senza dei quali sarebbe difficile vincere alle urne. Se non si riuscirà a fare questo, la sinistra è in pericolo. Ma le divisioni, a mio parere, non sono irreparabili. Anzi, la situazione attuale offre una sfida a creare un nuovo pensiero politico. Non penso che un risultato simile sia impossibile. Mi piacerebbe poter contribuire a realizzarlo.

il Riformista 29.9.09
Senza proposta. Vocazione minoritaria della Spd
di Umberto Ranieri


Una coalizione formata da Cdu/Csu e dai liberali della Fdp guiderà la Germania nei prossimi quattro anni. Gli elettori tedeschi hanno scelto di tornare alla formula di governo che consentì alla Germania di avviare la ricostruzione con Adenauer ed Erhard e riunificare il Paese, dopo la caduta del muro di Berlino, con Kohl.

La vocazione minoritaria della Spd Debacle. Il partito di Steinmeier non ha saputo avanzare una proposta di governo per il paese.
In verità, il risultato dell'Unione cristiano democratica non è lusinghiero: rimane il primo partito ma arretra rispetto agli esiti già deludenti del 2005 e la Csu subisce un vero tracollo in Baviera. Il trionfatore è il partito liberale di Guido Westerwelle che nel volgere di pochi anni ha trasformato la Fdp da un tradizionale partito conservatore ad una forza politica impegnata nella difesa dei diritti civili e nelle battaglie ecologiste capace di conquistare un elettorato giovane e di ceto medio.
La signora Merkel, la cui popolarità ha consentito alla Cdu di contenere la caduta di consensi, sarà ancora Cancelliere. Non sarà tuttavia un'impresa facile affrontare la difficile situazione economica in cui versa la Germania e la minacciosa ondata di disoccupazione attesa per l'autunno, con un governo in cui prevalesse un classico programma liberista come quello annunciato dai liberali. Le toccherà fare ancora una volta ricorso alla "sapienza democristiana" per attutire le spinte che potrebbero compromettere la pace sociale. In ogni caso non rinuncerà, la signora Merkel a introdurre alcune delle riforme da lei auspicate già quattro anni fa: dal mercato del lavoro alla previdenza alla riduzione delle tasse. La socialdemocrazia è la grande sconfitta. Sono molte le cause all'origine della perdita di oltre dieci punti rispetto al 2005.
Nel corso della campagna elettorale il partito di Steinmeier non è stato in grado di avanzare una proposta di governo per la Germania. La grande coalizione, che aveva reso la socialdemocrazia già troppo vulnerabile a sinistra, non era riproponibile; una coalizione con la Linke, che lo stesso Steinmeier aveva definito insensata, non sarebbe apparsa realistica o fattibile. In campo rimaneva solo la proposta del centrodestra che, non a caso, avrebbe vinto. Non essendo più un partito in grado di aspirare alla maggioranza (come era accaduto fino a Schroder), la Spd ha dimostrato di non essere centrale nemmeno nel gioco delle coalizioni: ecco il dramma della socialdemocrazia tedesca.
Occorrerà da parte dei dirigenti della Spd disporsi ad una seria ricerca delle ragioni di fondo di una simile sconfitta politica ed elettorale. È stata la scelta della grande coalizione l'errore che ha aperto una falla attraverso la quale sono defluiti consensi? O, in realtà, la Spd non è riuscita a portare avanti il difficile tentativo di ammodernamento programmatico e culturale avviato con Schroder alla fine degli anni Novanta, quando si provò a ridare vigore al progetto socialdemocratico rafforzando "l'aspirazione del partito a definirsi come Nuovo Centro"? Ricacciata all'opposizione e ridimensionata nella sua rappresentanza parlamentare la Spd, il rischio oggi è che a prevalere nello schieramento che si opporrà al centro destra in Germania sia l'estremismo della Linke dominata dall'antieuropeismo e dallo statalismo di Lafontaine, il Napoleone del Saarland.
Se così fosse tutto diventerebbe più difficile. È appena il caso di ricordare che circa il 20% degli elettori della Spd avrebbe votato per la Merkel piuttosto che allearsi con la Linke. Occorre guardare in faccia la realtà. Il risultato delle elezioni tedesche costituisce una ulteriore lezione per chi coltivava l'illusione che la crisi economica rilanciasse di per sé le ragioni del socialismo democratico o ribaltasse automaticamente gli equilibri politici. Le cose sono più difficili. La verità è che, collocati in numerosi e decisivi paesi europei all'opposizione, i socialisti devono ripensare il proprio progetto riformista alla luce delle sfide di portata storica con cui misurarsi. Da questo punto di vista, l'intuizione che portò in Italia al tentativo difficile e tormentato di costruzione del Partito democratico, quella di "coniugare insieme lo spirito di libertà con una ritrovata spinta a comprimere il ventaglio delle diseguaglianze sociali", potrebbe essere una pista di ricerca da non abbandonare.

il Riformista 29.9.09
«Chi insegue la Linke muore»
Sinistrati. Dopo la disfatta, ritorno all'opposizione. È un bene, dice un vecchio elettore. Ma il professor Stuermer spiega perché solo puntando al centro il partito può rinascere.
di Paolo Petrillo



Berlino. Così, alla fine, quel che doveva accadere è accaduto, in perfetto accordo con le stime avanzate dagli istituti demoscopici (solo un po' troppo ottimisti rispetto ai risultati dell'Spd). Vince e continua a governare Angela Merkel - che comunque con i numeri in campo avrebbe vinto lo stesso, il dubbio riguardava solo con quale partner di coalizione. Trionfa l'Fdp di Guido Westerwelle, portando a casa il miglior risultato della sua storia (14,6 per cento, in crescita di 4,8 punti rispetto al 2005) e assicurando alla Cdu un governo che, da sola, sarebbe stata ben lungi dal conquistare. E perde, drammaticamente, la Spd di Frank Walter Steinmeier.
Più che una sconfitta, una disfatta: in caduta libera di 11,2 punti, i socialdemocratici si fermano al 23 per cento. Nessun sondaggio si era spinto a tanto: l'Spd - è stata la prima domanda rimbalzata in tv domenica sera - può esser ancora considerato un Volkspartei, un grande partito popolare,? La giro al mio vicino, uno dei (non tantissimi) iscritti o simpatizzanti che sono venuti a seguire i risultati nella sede berlinese del partito, la Willy Brandt Haus.
«Se siamo ancora un partito popolare? - sorride il signore sulla cinquantina, barba brizzolata e trent'anni di voto socialdemocratico alle spalle - Non lo so. So che siamo diventati un partito d'opposizione, e forse questo è anche un bene. Da tempo nell'Spd circolano critiche e domande cui non è stato dato spazio anche per non destabilizzare un partito che aveva responsabilità di governo. Giusta motivazione, ma che col tempo rischiava di diventare un po' un alibi. Ben vengano dunque questi anni d'opposizione, forse è proprio questa la via lungo la quale l'Spd riuscirà a recuperare le proprie forze».
Non così ottimista è il professor Michael Stuermer, editorialista di Die Welt , forse uno dei più acuti commentatori della scena politica tedesca: «La Spd è un paziente per cui non c'è dottore. Materialmente gli va anche bene, soldi e potere non gli mancano. Ma ha perso metà dei voti e quel che è peggio, ha perso il contatto col centro della società. In Germania - prosegue Stuermer - valgono, da almeno sessanta anni, le parole pronunciate da Helmut Kohl: governa chi vince al centro. E questo non è più il caso della Spd». Professore, rischiamo una previsione?
«La Spd non può sperare di re-inglobare la Linke - risponde Stuermer - Non gli è riuscito, per così dire, durante la Repubblica di Weimar; non gli è riuscito in questi ultimi anni e non gli riuscirà in futuro. Per cui, molto dipenderà da come saprà muoversi Steinmeier. Se diventerà e lo lasceranno diventare un importante leader parlamentare - cosa che adesso non è - allora la Spd potrebbe anche tentare una lenta riconquista del centro.
Se invece la Spd deciderà d'inseguire la Linke, se il partito procederà ad un drastico ricambio generazionale della leadership dando il benservito a Steinmeier, Franz Muentefering etc. per lasciar spazio a "giovani" come Sigmar Gabriel, Andrea Nahles o Klaus Wowereit allora potremmo addirittura assistere alla fine dell'Spd. Nel senso: potremmo avere un unico partito della sinistra ma la Germania si ritroverebbe, dopo 150 anni, senza un partito socialdemocratico». Non sembra una prospettiva che le faccia piacere...
«Le dirò - risponde Stuermer - non mi sembra che a questi "uomini nuovi" della Spd importi molto del bene del Paese. Mi sembra puntino piuttosto a poltrone e potere. Cosa che un matrimonio con la Linke potrebbe certo portargli in dote. Ma a quale prezzo?».
A prescindere da quel che sarà domani, resta il fatto che oggi la Spd è l'unico vero perdente di queste elezioni. Oltre a Cdu e Fdp - che hanno promesso di formare un governo a tempo record, da presentarsi entro la data simbolica del prossimo 9 novembre, ventennale della caduta del Muro - hanno vinto i Verdi (+ 2,6) e soprattutto ha vinto la Linke: 11,9 per cento dei consensi, in crescita di 3,2 punti, il miglior risultato finora riportato alle elezioni federali. «Abbiamo cambiato il panorama politico del Paese» ha tuonato domenica sera in televisione Lothar Bisky, uno dei leader del partito, e certamente a ragione.
Resta così da presentare l'ultimo vincitore, anch'esso del resto ampiamente annunciato: il partito del non-voto. Domenica scorsa l'affluenza al voto è stata del 70,8 per cento; quasi il 7 per cento in meno rispetto al 2005. Quando, con una partecipazione del 77,7 per cento, la Bundesrepublik aveva toccato il suo record negativo in termini d'affluenza. Ora c'è un nuovo record, molto più impressionante. Non è chiaro cosa accadrà domani né come reagiranno a questo dato i vari partiti. Uno strano destino potrebbe però attendere questa nuova "forza": quello di venir ignorata, taciuta ma di essere in grado - proprio per questo - di scavare sempre più nella società e nella democrazia tedesca.


il Riformista 29.9.09
«Una federazione sul modello Gysi»
Paolo Ferrero. Il segretario di Rifondazione analizza il crollo socialista e rilancia il progetto di un cartello che raggruppi tutte le forze della sinistra (senza Pd).
di Giacomo Russo Spena


«Il successo della Linke e il contestuale crollo della Spd confermano non solo l'esigenza, ma la l'utilità del progetto di una sinistra di alternativa e pacifista»: il voto tedesco sembra dare nuova linfa a Paolo Ferrero e alla sua idea di creare una federazione di forze, autonoma e indipendente dal Pd

«Il successo della Linke e il contestuale crollo della Spd confermano non solo l'esigenza, ma la l'utilità del progetto di una sinistra di alternativa e pacifista»: il voto tedesco sembra dare nuova linfa a Paolo Ferrero e alla sua idea di creare una federazione di forze, autonoma e indipendente dal Pd. Anche perché - sentenzia il segretario del Prc - «non sarò mai la costola del partito democratico».
Sembra contento del fallimento della Spd.
Il logoramento e la frattura con la propria base socio-culturale, provocati inequivocabilmente da una stagione di subalternità alle politiche neoliberiste e di compromesso moderato sul piano sociale e civile l'hanno condotta verso un tracollo senza precedenti. Ciò significa il fallimento del progetto a lungo perseguito dalla sinistra moderata in gran parte d'Europa. Nel frattempo…
Nel frattempo?
Bisogna proseguire nella costruzione di una sinistra critica e di trasformazione che, in concorrenza reale e concreta con quella moderata, si dimostri capace di lanciare dal basso una moderna ed efficace sfida di alternativa, democratica e partecipata al dominio del neoliberismo. Il voto tedesco, ma anche quello portoghese, ci dicono questo.
In Italia però la situazione è completamente diversa, la sinistra radicale è quasi scomparsa. Come se lo spiega?
Il successo di Lafontaine è dovuto allo stesso motivo per cui è fallito il governo Prodi.
Si spieghi meglio.
I tempi sono sfalsati rispetto alla Germania. Nel 2000 anche Rifondazione era un partito in crescita. Ora, invece, paghiamo lo scotto di aver partecipato al governo Prodi. Nel 2008 la Sinistra Arcobaleno ha ottenuto la sconfitta più clamorosa perché gli elettori ci hanno fatto pagare una politica di mediazione su temi come l'Afghanistan. Quelle scelte ci hanno portato al disastro.
La federazione potrebbe risollevare le vostre sorti?
L'obiettivo è costruire uno spazio di sinistra, pubblico, anticapitalista e completamente autonomo dal Pd. Non metto paletti a nessuno, nemmeno a Sinistra e Libertà. Certo, nella federazione non ci deve essere pentitismo rispetto alla nostra storia: comunismo, socialismo, movimento operaio, siamo questo.
In Germania c'è un sistema elettorale che ha permesso lo sviluppo del Linke e dei Verdi. In Italia non le sembra difficile?
Il bipolarismo avvantaggia solo Berlusconi, ha la maggioranza in Parlamento pur essendo minoranza nel Paese; oltretutto con la lista bloccata si sceglie pure i singoli parlamentari fedeli. È un sistema pessimo ideato da Occhetto e peggiorato dal centrodestra con il porcellum. Serve una brevissima legislatura di garanzia costituzionale su due soli punti: la riforma elettorale proporzionale e la legge sul conflitto di interesse. Bastano tre mesi e per far questo sono disposto ad allearmi anche con il diavolo.
Ovvero con l'Udc di Cuffaro?
Se c'è un problema di democrazia si fa un'alleanza per ripristinare le regole democratiche e poi si vota. Ipotizzare invece un governo che va da Rifondazione all'Udc è impensabile e imbarazzante. Siamo troppo diversi. E poi sarebbe un esecutivo più a destra di quello di Prodi. Invece sono interessato a sconfiggere Berlusconi
In questa prospettiva chi tifa alle primarie del Pd?
Il trionfo di Bersani sarebbe un fatto positivo nella sfera politico-istituzionale. Non è bipartitico, è per il proporzionale ed è più attento all'articolazione. Con lui si potrebbe uscire finalmente dalla seconda Repubblica. Sugli altri temi, in realtà, non vedo grosse differenze tra Bersani e Franceschini.
In attesa della legislatura di garanzia costituzionale, l'anno prossimo si vota con questo sistema elettorale. Non farete nessun accordo con il Pd?
A oggi non c'è nessuna possibilità di governare insieme a livello nazionale. A livello locale le cose cambiano. Lì bisogna verificare nel concreto: ovvia la nostra partecipazione a coalizioni che si schierano apertamente a favore delle fasce deboli. Altrimenti non abbiamo paura di andare soli.

Repubblica 29.9.09
La protesta degli studenti. Ma Moussavi è contro le sanzioni: "Aumentano solo le nostre sofferenze"
Arresti, violenze e torture in carcere a Teheran la resistenza torna in piazza
Nascono comitati clandestini, la disobbedienza civile è la nuova parola d´ordine
di Vanna Vannuccini


Il rinvio dell´inizio dell´anno accademico, deciso dalle autorità iraniane per il timore di nuove proteste, non è servito. Ieri, non appena ricominciate le lezioni, gli studenti dell´università di Teheran hanno manifestato contro Kamran Daneshju, promosso da Ahmadinejad ministro dell´Università dopo che era stato il capo dell´ufficio del ministero dell´Interno responsabile per il conteggio dei voti. Alcune centinaia di studenti, con al polso nastrini verdi, hanno chiesto la liberazione delle persone arrestate e scandito slogan contro Ahmadinejad, hanno riferito le agenzie iraniane.
A quasi quattro mesi dalle elezioni del 12 giugno, il regime iraniano appare incapace di fiaccare l´opposizione e impedire le continue rivelazioni degli abusi sui giovani in carcere che indignano profondamente l´opinione pubblica, anche negli ambienti tradizionali e religiosi. Una madre, moglie di un pasdar, ha denunciato la morte in carcere della figlia che era stata prelevata mentre era sola in casa solo perché aveva gridato sul tetto delle propria casa Allah u Akbar, lo slogan della rivoluzione islamica fatto proprio dal movimento verde. Un´altra donna medico ha denunciato che al figlio sono state strappate le unghie. Le autorità non hanno potuto smentire l´uccisione in carcere di Mohsen Ruholamini, figlio di un politico conservatore: il fratello di Mohsen, medico, vedendo il cadavere all´obitorio aveva capito che Mohsen era stato appeso a un uncino a capo in giù e poi battuto con una barra di ferro fino a rompergli il collo.
L´opposizione continuerà, assicurano gli iraniani all´interno e all´estero. L´immensa manifestazione nel giorno di Qods è stata «un punto di non ritorno», dicono. Tre mesi fa la gente non sapeva che il regime avrebbe risposto con tanta violenza ma ora conosce i pericoli cui va incontro ed è scesa in piazza lo stesso, ha detto a Parigi il regista Makhmalbaf. La resistenza si sta organizzando in tanti piccoli comitati clandestini, la disobbedienza civile ha preso tante forme: su migliaia di biglietti di rials in circolazione è stata dipinta una V verde; la squadra di calcio di Isfahan è stata obbligata a cambiare il colore della maglia (verde appunto) perché lo stadio si riempiva a ogni partita di verde e la tv non poteva riprendere le partite. Se la resistenza continua, le fratture già visibili all´interno del regime non potranno che approfondirsi, dicono. La diaspora iraniana, finora divisa, ha trovato nel movimento verde l´unità: gli avversari della Repubblica islamica e coloro che vogliono mantenerla in vita pur riformandola lavorano per la prima volta uniti. L´hojatoleslam Mohsen Kadivar, per esempio, invita tutti gli iraniani all´estero a finanziare una radio e una tv per dare una piattaforma nazionale al movimento rifiutando soldi stranieri, «anche se si tratta di vendere i gioielli, come le donne iraniane fecero durante la rivoluzione costituzionale del 1906». «Se non arrestano Moussavi è perché la direzione del movimento passerebbe all´estero e inevitabilmente sarebbe meno moderata, anche se tutti sono d´accordo sul mantenere fermi i princìpi della democrazia: niente rivoluzioni e niente vendette», si sente dire. Alcuni parlano della possibilità di un futuro compromesso all´interno del regime, per il quale Rafsanjani giocherebbe un ruolo importante, e che potrebbe portare alle dimissioni di Ahmadinejad e alla sua sostituzione con un conservatore più aperto come Qalibaf, l´attuale sindaco di Teheran. L´occidente, implorano, dovrebbe intanto cercare di fare il meno danni possibile: non legittimando Ahmadinejad nella speranza di negoziati sul nucleare che non porteranno da nessuna parte, e non imponendo sanzioni che, come afferma Moussavi sul suo sito Internet, «aumenterebbe solo le sofferenze di una nazione che già soffre della miseria provocata dal suo governo».

l’Unità 29.9.09
Conversando con Mohammed Bennis, poeta e intellettuale marocchino
«Noi, voi e l’omicidio di Sanaa Né la fede né il Mediterraneo è l’ignoranza il mare che divide»
di Maria Serena Palieri


È l’ignoranza la radice dell’assassinio di Sanaa. È doloroso, è atroce, che un padre uccida una figlia perché era legata a un ragazzo, che questi fosse italiano o altro. Perché quello che dobbiamo dire ad alta voce è che una figlia non è proprietà di un padre. Figlie e figli hanno il diritto di tutti gli altri membri di un nucleo familiare: vivere in libertà. Ma è l’ignoranza appunto che limita la libertà, perché ti fa vedere solo ciò che è piccolo e mediocre ed è da lì che allora trai identità, per te stesso come per la tua famiglia. Mentre è la cultura ciò che l’accresce, perché dà visione, allarga gli orizzonti». Mohammed Bennis interpreta nella sua chiave originale la vicenda che ha coinvolto in Italia i suoi connazionali. Bennis, poeta, è uno dei più influenti intellettuali marocchini e, giunto da Rabat, alla cui università insegna, per accompagnare l’uscita di un suo libro per Donzelli, Il Mediterraneo e la parola, dove scrive, come dice il sottotitolo, di «viaggio, poesia, ospitalità», si è imbattuto nel controcanto delle prime pagine dei nostri giornali sulla diciottenne di Pordenone sgozzata e ritrovata in un bosco. Ora, Mohammed Bennis arriva da un paese dove la moglie del sovrano è ingegnere informatico e dove nel 2002 il «Mudawanna», un complesso normativo, ha sancito nuovi importanti diritti per le donne. Un paese del quale la sociologa Fatima Mernissi non si stanca di illustrare l’anima non oscurantista. Un paese dove, risponde alla nostra domanda Bennis, non è mai esistita l’attenuante per il «delitto d’onore», un onore inteso come dominio sul corpo femminile di figlie, mogli, sorelle, cioè come da noi si intendeva fino al 1981. E si è trovato in un’Italia dove ogni anno sono assai più di cento le donne ammazzate da chi voleva loro «bene». Però tutto questo non ha impedito che il delitto di Pordenone segnasse ancora di più a fuoco i «musulmani». Complice, certo, l’omertà familiare: l’avallo di Daphna Charuk, la madre di Sanaa, al crimine del marito.
Ora, Il Mediterraneo e la parola è un libro composto da alcuni saggi, da una scelta di poesie, una prefazione di Francesca Corrao, arabista, e una postfazione della traduttrice, Maria Donzelli che cerca appunto di restituire verità a ciò che il «Mare nostrum» è ed è stato. Se oggi il nome «Mediterraneo» evoca una dieta la cui saggezza popolare è osannata dai medici del pianeta, da un lato, dall’altro, nella cronaca, un cimitero d’acqua che inghiottisce a centinaia corpi di migranti, Bennis ci riporta a verità storiche. Ci ricorda che il Mediterraneo è stato per tutte le culture che vi affacciano il mare del viaggio e dello scambio, la mappa di Ulisse e di Sinbad. Che non ha sempre avuto due sole sponde contrapposte, com’è oggi, Nord e Sud, ma molte, quella europea e l’asiatica, la balcanica e la nordafricana, e che lungo le terre che vi si affacciano l’ibrido è stata norma. Lui stesso si definisce «arabo-andaluso».
Si definisce tale perché è quella della Spagna moresca l’età d’oro, l’epoca esemplare? «Io sono nato in Marocco nel 1948 e ho sperimentato il confronto e la convivenza tra culture. In Marocco ebrei e arabi sono sempre vissuti insieme, con gli stessi valori, la stessa musica, la stessa lingua, perché venivano dall’Andalusia dove avevano avuto una storia comune. Tuttora Mohammed VI, il nostro re, tra i suoi consiglieri ne annovera di ebrei, come Andre Azoulai ed Edmond El Maleh. Il nodo della convivenza è culturale. È tale anche nel conflitto tra ebrei israeliani e palestinesi». Ma non è utopico pensare di
resuscitare il modello andaluso di più di mezzo millennio fa? «Il Mediterraneo è un’idea che ha bisogno di una modernizzazione. I cittadini mediterranei hanno vissuto una storia comune, anche nei periodi più duri, quando fuoco e ferro, o ferro e sangue, trionfavano, ma intanto il canto, il pensiero, l’arte hanno dato a ciascuno di noi qualcosa che condividiamo. E questo è l’essenziale. Ora il Mediterraneo dovrebbe diventare un luogo comune per tutti noi, pieno di avvenire e speranza. Per ricostruire un avvenire che non è l’immagine del passato, ma un avvenire da noi inventato. Per me, quest’idea richiede di ascoltare scrittori, artisti, pensatori, i più preparati ad aprire nuove visioni. La crisi che attraversiamo deriva dal primato della visione economico-politica e dal primato del profitto. Da qui la trasformazione del Mediterraneo in una tomba di sogni e speranze. Una tomba per questi giovani che inseguono un orizzonte che è la libertà ad aver loro suggerito. La libertà è un’idea moderna, occidentale. Ma una volta che ci credono si sentono dire “No, non è per te”. C’è libertà per le merci, ma non per le persone. È questo che favorisce odio e guerre». Lei osserva che in tempi di globalizzazione e di appiattimento culturale, far leva sulla comune identità mediterranea è una risorsa. Sulla globalizzazione ha un giudizio completamente negativo? «Finora è stata dominata dalla logica pura del profitto. Chi la tocca viola le fondamenta stesse della globalizzazione. La crisi economica, però, di tutto questo ci ha mostrato il lato oscuro. Ma il potere economico, purtroppo, ha nelle mani anche l’informazione. Che occulta la verità. Ridurre la vita all’economia è una sciagura per tutti, sia per coloro che non hanno niente che per quelli che hanno tutto. Ecco perché ora, dalla crisi, nascono figure nuove come Barack Obama. È di intellettuali che il mondo ha bisogno per riscoprire umanità. E Barack Obama è colto: è abitato dalla cultura».
Sul Mediterraneo non manca la retorica: è un’insegna passepartout per un pullulare di convegni e accademie. Condivide? «Sì. Anche la Francia propugna l’Unione Mediterranea. Però a modo suo. Senza riconoscimento reciproco tra le realtà che su questo mare si affacciano».
Lei però ha combattuto in patria una battaglia per la distinzione tra colonialismo e cultura: della Francia, scrive, ha rifiutato il primo e accettato la seconda.
«Per me il francese nell’infanzia è stato, a scuola, la lingua di un mondo sconosciuto e della punizione, “non far questo”, “attento!”. L’arabo quella della vita quotidiana. Il francese poi era una lingua che mi imponeva di cibarmi di sottoprodotti, perché per noi francofoni la cultura vera non era considerata pane adatto. Mi sono liberato di questa servitù quando ho cominciato a frequentare la cultura francese moderna e critica di se stessa, leggendo Baudelaire e Rimbaud, Verlaine e Mallarmé».
Lei parla di Dante come di un poeta praticamente arabo. E rende omaggio a Nietzsche.
Sono i testi che dovremmo rileggere per capire cosa ci unisce? «Dante è un gigante che si basa sui viaggi nell’aldilà di altri due giganti, Ibn Arabi e Abou Alaa El Maari, ai cui inferno e paradiso aggiunge il terzo aldilà inventato dalla Chiesa, il purgatorio. Nietzsche è il filosofo che nell’Anticristo scrive: “Il cristianesimo ci ha defraudato del raccolto della civiltà antica; e più tardi ci ha defraudato di quello della civiltà islamica. Il meraviglioso mondo della civiltà moresca di Spagna... una civiltà rispetto alla quale persino il nostro secolo diciannovesimo potrebbe sembrare molto povero, molto ‘tardo’”».
C’è un colore, il blu, che punteggia molta della sua poesia. Cos’è per lei? «Un colore che amo, perché evoca pace e infinito. Sto scrivendo una raccolta di versi su tutti i blu del Mediterraneo. La poesia per me è un modo di conoscere ciò che non conosco. Ma anche di salvaguardare e lasciar vivere l’ignoto. Perché la poesia ha questo compito cruciale, lasciare che l’ignoto non soffochi e farlo durare nelle nostre vite».❖

l’Unità 29.9.09
Condizione di reciprocità
di Giancarlo De Cataldo


Un pericolo occulto si annida nella proposta di estensione della cittadinanza italiana agli immigrati «meritevoli». Non è l’idea in sé giustissima e condivisibile che lascia perplessi. Ma la «condizione di reciprocità» che, una volta approvata, potrebbe obbligare noi italiani ad adottare. Per intenderci: lo straniero, per ottenere la cittadinanza, deve cessare di essere tale e diventare, quanto più è possibile, un italiano. Uno di noi. Non c’è niente di sbagliato, in questo. Quando una persona si trasferisce armi e bagagli da un’altra parte del mondo, ci comincia a lavorare, si radica sul territorio, assume mentalità, usi e costumi del Paese che la ospita, è fatale che finisca per «sentirsi» parte di quella nuova collettività. La cittadinanza, per l’immigrato «integrato», diventa il riconoscimento formale che traduce nell’arida lingua della burocrazia un complesso percorso esistenziale. E qui cominciano i problemi. Una volta diventati tali, i nuovi italiani avranno tutto il diritto di chiedere a noi, vecchi italiani, la «reciprocità». Ossia, la dimostrazione di amare questo Paese, le sue tradizioni, la sua Storia, la sua lingua, i suoi costumi. Magari sottoponendoci a un esame come quello che loro hanno dovuto passare per conquistarsi l’agognato passaporto color cremisi. Lì se ne potrebbero vedere delle belle. Quanti «studenti» italiani sarebbero promossi, oggi, all’esame di «italianità»? Vogliamo parlare dell’affetto che circonda in certe zone l’eroe nazionale Garibaldi? Della conoscenza della lingua di Dante (lingua, attenzione, non dialetto valligiano)? Dell’afflato per l’inno nazionale? E questo è niente. C’è un’altra cosa che chiediamo agli immigrati, per diventare «dei nostri»: rispettare le leggi. Ma vi rendete conto che cosa succederà quando saranno loro a chiedere,
a noi, di farlo?❖

Corriere della Sera 29.9.09
Regole severe ma senso di giustizia
Lo straniero e il cittadino
di Ernesto Galli Della Loggia


Anche chi, come chi scrive, è favo­revole alla prati­ca dei respingi­menti e alla sanzione del­l’immigrazione clande­stina — respingimenti e sanzioni adottati di fatto oltre che dall'Italia an­che dalla Francia e dalla Spagna, cioè dai Paesi che rappresentano i 4/5 del confine mediterra­neo dell'Unione Europea — non può ovviamente pensare che sia solo con questi mezzi che vada af­frontato il fenomeno mi­gratorio. Insomma, è ne­cessario, sì, cercare di ar­ginare e legalizzare i flus­si degli arrivi, ma insie­me (sottolineo: insieme) è necessario sia accoglie­re civilmente chi viene in Italia sia promuover­ne al massimo l'integra­zione. Fino a dargli la possibilità, se vuole, di diventare italiano.
Per due ragioni fonda­mentali: da un lato per il forte calo demografico che incombe sulla peniso­la, con in prospettiva la conseguente perdita di vi­talità economica e non so­lo; dall'altro per la neces­sità di attenuare il più possibile il potenziale di anomia, di disordine e di vera e propria illegalità che si accompagna fisiolo­gicamente al fenomeno migratorio. La prospetti­va di diventare cittadino a pieno titolo del nuovo Paese costituisce un po­tente incentivo psicologi­co a osservarne le leggi, impararne la lingua, guar­darne con simpatia i co­stumi e la storia.
Finora, però, diventare italiano è stato, per uno straniero, difficilissimo. Noi, infatti, abbiamo una legge sulla cittadinanza che è quanto mai restritti­va nei confronti di chi non può vantare almeno un genitore o un coniuge italiano ma solo la sempli­ce residenza. Basti dire che in un anno tipo, co­me il 2005, non solo le concessioni della cittadi­nanza italiana sono state meno di ventimila contro le 154 mila della Francia e le 117 mila della Germa­nia, ma che circa i 4/5 di tali concessioni sono av­venute per matrimonio e non per residenza.
Dunque, chi vuole real­mente cercare di integra­re gli immigrati — e, ag­giungerei, chi crede dav­vero nei valori umani, cul­turali e politici dell'Italia, e dunque nella loro reale capacità di attrazione ver­so gli estranei — non può che mirare ad allargare la legge sulla cittadinanza. Ed è per l'appunto questo l’obiettivo meritorio della proposta di legge appena presentata alla Camera dai deputati da Andrea Sa­rubbi e Fabio Granata. Se­condo la quale, innanzi­tutto, d'ora in avanti po­tranno diventare automa­ticamente cittadini italia­ni due categorie di sogget­ti: a) chi nasce in Italia da un genitore ivi legalmen­te soggiornante da alme­no cinque anni; b) lo stra­niero nato in Italia o che vi è arrivato prima di aver compiuto i cinque anni di età e vi ha legalmente soggiornato fino alla mag­giore età. Può da ultimo diventare cittadino italia­no, su richiesta, anche qualunque minore stra­niero che abbia completa­to con successo un corso d’istruzione scolastico, anche primaria o di for­mazione professionale, presso un istituto italia­no. Si vuole favorire, in­somma, la possibilità per qualunque giovane stra­niero, immerso di fatto fin dall’inizio della sua vi­ta nella cultura italiana, di diventare italiano a tut­ti gli effetti, e dunque di non sentirsi diverso o ad­dirittura in una posizione d'inferiorità rispetto ai suoi coetanei.
Non basta. L’altra grande novità della proposta riguarda gli stranieri adulti. Essa consiste nella riduzione da dieci a cinque anni del periodo di tempo necessario per ottenere la cittadinanza. Ma a un’importante condizione: l’accertamento in un colloquio della conoscenza dell’italiano nonché della «vita civile dell’Italia e della Costituzione».
Questa, a grandi linee, la proposta di legge. Naturalmente alcuni aspetti andranno meglio messi a fuoco: per esempio, il livello A2 richiesto per la conoscenza dell’italiano è probabilmente un livello troppo elementare, così come bisognerebbe fare in modo, già nella lettera della legge, che l’accertamento della conoscenza anzidetta e quello della cultura e della Costituzione italiane non obbediscano all’andazzo permissivistico che l’ambiente politico-burocratico nostrano adotta troppo spesso in casi simili.
Ma l’importante è che si sia imboccata la strada giusta e nel modo giusto. Cioè con un testo frutto del lavoro congiunto di un rappresentante della maggioranza e di uno dell’opposizione, come sono per l’appunto Sarubbi e Granata.
E’ vero che proprio per questo l’inguaribile retroscenismo nazionale ha già battezzato la proposta in questione «la legge di Fini», considerandola una sorta di ballon d'essai del supposto trasversalismo politico del presidente della Camera.
A costo però di apparire fin troppo ingenui, a noi piace pensare che non sia così. Ci piace credere, più semplicemente, che, poiché circa il modo come si diventa cittadini della Repubblica è bene che siano d’accordo il maggior numero d’italiani, una volta tanto esponenti della destra e sinistra lo abbiano capito, e una volta tanto abbiano agito di conseguenza.

Repubblica 29.9.09
Frank Lloyd Wright
Le follie d'amore del grande architetto
di Natalia Aspesi


In tarda età, pieno di debiti, si invaghì di un´aristocratica serba che aveva 33 anni meno di lui
La sua vita intima raccontata in una biografia letteraria: passioni erotiche, donne e figli che svelano l´altra faccia del genio

Venerato architetto della prima metà del secolo scorso, inventore di quelle famose "Prairie houses", case della prateria, che celebravano una nuova idea del vivere nella natura, dell´abitazione singola come luogo di una protetta intimità familiare, Frank Lloyd Wright, come persona, era un tipo da cui le donne sarebbero dovute fuggire a gambe levate: figuriamoci gli otto figli (una adottiva, più altri vari di primo letto delle sue signore) che, tra un capolavoro architettonico e l´altro, mise al mondo del tutto casualmente con la prima e l´ultima delle sue tre mogli. Invece, le donne lo volevano a tutti i costi, pur con quel testone e i tacchi alti, e per lui mandavano all´aria i loro matrimoni e abbandonavano i figli avuti col marito cornificato. In tempi in cui gesti così coraggiosi e insensati escludevano le colpevoli dalla società come massime reiette. «Ecco l´ideale che propongo per l´architettura dell´era della macchina, per l´edificio americano ideale: lasciamo che si sviluppi nell´immagine dell´albero», scriveva poetico il geniale ideologo della casa per famiglie salde e felici.
Però, si osa dire che, al di là dei dotti testi, comprese almeno nove biografie, dedicate alle sue rivoluzionarie architetture organiche, la vita di questo genio si può definire, senza ironia: un romanzo. Infatti, uno dei suoi amori (con donna maritata) ispirò con magniloquenza quasi demente La fonte meravigliosa di Ayn Rand (ripubblicato da Corbaccio nel 2004), divenuto nel 1949 un film dallo stesso titolo con Gary Cooper e Patricia Neal e che è oggi insopportabile. La sanguinosa tragedia privata che nel 1914, lo lasciò stordito per alcuni mesi, è stata raccontata da Nora Horan nel romanzo Mio amato Frank (Einaudi, 2007). Quest´anno, invece, il suo ultimo capolavoro architettonico, ovvero il Guggenheim Museum di New York, gli ha dedicato una grande mostra nel cinquantenario della sua morte e dell´inaugurazione del museo stesso, e, con massimo tempismo, il prolifico scrittore T. C. Boyle (che ha il privilegio di vivere nella George G. Steward House, progettata da Wright nel 1909), ha pubblicato uno dei suoi spettacolari romanzi biografici.
Il titolo, Le donne (Feltrinelli, pagg. 448, euro 20), chiarisce che Frank Lloyd Wright e le sue famose architetture sono in ombra rispetto alle vere protagoniste: le quattro donne che con maggior frastuono occuparono la sua vita, o meglio, infestarono la propria con quella del genio americano.
La loro storia ci viene raccontata da un personaggio inventato, un ex allievo giapponese di Wright, che introduce ognuno dei tre capitoli, raffreddando sapientemente il casino sentimentale ed erotico di una vita apparentemente dedicata solo all´arte del costruire. L´autore, già biografo di altri eroi minori della modernità americana, come Will Keith Kellogg, il re dei fiocchi d´avena, e Alfred Kinsey, l´assatanato sessuologo, da principe dei best-seller, ribalta la cronologia della lunga vita di Wright (1867-1959), iniziando il romanzo con l´incontro a Chicago nel 1924 tra il grande narcisista e quella che sarebbe stata la sua terza e ultima moglie. Lui si avvicinava ai sessant´anni ed era pieno di fastidi: una moglie morfinomane momentaneamente lontana, un mucchio di debiti e l´affermarsi di rivali quali Le Corbusier e il Bauhaus, che lo facevano sentire antiquato.
Lei, 33 anni di meno e apparentemente soave, si chiamava Olgivanna Lazovich Milanoff Hinzeberg: aristocratica serba di origine montenegrina, dedita purtroppo alla danza sacra, sposata con un architetto russo e madre della piccola Svetlana. Senza por tempo in mezzo, la bella seduttrice, che nel tempo si sarebbe rivelata una dispotica virago (detta Iron lady) si stabilì a Taliesin, la comunità fondata e per ben tre volte ricostruita da Wright nel Wisconsin, dove gli studenti pagavano per vivere vicino al loro nume, pelando patate e zappando la terra. Per quanto assunta come governante per salvare le apparenze, il distratto architetto la mise incinta e, apriti cielo, la moglie Maude Miriam Noel si rifece viva in tutta la sua rancorosa follia.
Boyle costruisce scene magnifiche con questa matura signora che con profumi, vestaglie e scenate anni prima aveva travolto il pover´uomo, abbandonando un marito e tre figli e che, ora, si mette a farne di tutti i colori: insulta Olgivanna che ha appena partorito Jovanna, figlia del peccato, indice conferenze stampa contro i fedifraghi, li denuncia e li fa finire in prigione per aver violato il "Mann Act", legge che persegue, tuttora, sia il traffico di schiavi che «il trasporto di donne per propositi immorali da uno stato all´altro».
Miriam era stata la magica fata, la turbolenta strega, che si era materializzata, con tutti i suoi richiami carnali e intellettuali, tra le macerie in cui si era frantumata orribilmente la vita di Wright in poche ore, in un solo giorno: il 15 agosto del 1914. L´ultima parte di Le donne è dedicata alla donna che ne fu protagonista: Mamah Borthwick Cheney, il primo vero grande amore dell´appassionato Frank, tanto che per lei lasciò Kitty Tobin, la prima moglie, una classica casalinga devota che gli aveva dato sei figli in dieci anni.
Mamah era naturalmente sposata. Moglie di un ingegnere che aveva commissionato la loro casa all´architetto statunitense (oggi la Edwin H. Cheney House è un Bed and Breakfast) nel 1909: era una donna colta e aveva tradotto in inglese i testi della famosa femminista svedese Ellen Key. I due innamorati lasciarono le rispettive famiglie e viaggiarono in Europa. Al loro ritorno la stampa ne fece il centro di un continuo scandalo da prima pagina auspicandone l´arresto. Ma soprattutto Wright perse il lavoro. Solo anni dopo, nel 1916, ottenne un nuovo importante impegno: la costruzione dell´Imperial Hotel di Tokio. Mamah si era stabilita a Taliesin con i due figli di primo letto, John di 12 anni e Martha di 9. Quel giorno d´agosto, Frank era a Chicago a seguire i lavori dei Midway Gardens, un parco dei divertimenti poi abbattuto nel 1929. A mezzogiorno, il cameriere di colore Julian Carlton, assunto da poco insieme alla moglie Gertrude, con un´ascia spaccò la testa a Mamah e ai suoi figli, poi, chiuse la sala dove alcuni uomini della casa stavano pranzando e la incendiò: il calore fece scoppiare i vetri delle finestre e, man mano che gli uomini in fiamme uscivano, lui li aspettava per finirli con la scure. Il bilancio fu di sette morti. Il massacratore, scampato al linciaggio, si lasciò morire di fame e di sete senza spiegare la ragione del suo gesto.
E qui interviene Boyle il romanziere: Carlton uccise perché - mentre picchiava, come gli sembrava giusto, sua moglie - Mamah, che aveva dato da leggere un testo femminista alla donna, gli fece una scenata e lo licenziò. In tanto orrore sanguinario, nella disperazione muta di Wright, c´era chi da lontano tramava. Una certa bella signora dedita alla morfina e stufa della famiglia, scriveva un´accorata lettera di consolazione allo sconosciuto affranto: era solo dicembre e l´inconsolabile amante era già pronto per la peggiore delle sue avventure.

Corriere della Sera 29.9.09
Un saggio di Orlando Figes mette in rilievo caratteri comuni a giacobinismo e bolscevismo
Rivoluzioni sempre in cerca di nemici
Da Robespierre a Stalin: la «necessità storica» giustifica il terrore
di Lucano Canfora



Il ponderoso volume dello storico bri­tannico Orlando Figes Sospetto e silen­zio. Vite private nella Russia di Sta­lin , appena tradotto da Mondadori, è frutto di un’approfondita ricerca documen­taria. È un utile contributo alla conoscenza della società sovietica durante un periodo di tempo che prende le mosse ben prima della vittoria politica di Stalin sulle opposi­zioni e si conclude con il 1953, cioè con la morte di Stalin.
Al centro della ricostruzione vi è soprat­tutto un personaggio, scelto con acume tra i tanti possibili protagonisti: Konstantin Si­monov (1915-1979), «eroe tragico», come lo definisce l’autore, dell’intera epopea. «Nato in una famiglia nobile che subì la re­pressione da parte del regime sovietico, Si­monov negli anni Trenta si riciclò come scrittore proletario; anche se oggi è in lar­ga parte dimenticato, fu un personaggio di primo piano nell’ establishment letterario sovietico (sei premi Stalin, un premio Le­nin etc.)». Giornalista di vaglia, autore di romanzi sulla guerra (1941-1945) che ebbe­ro enorme successo, fu uno dei migliori corrispondenti di guerra, ma anche, più tardi, splendido e spietatamente autocriti­co memorialista. Già questo ritratto ci fa entrare nel vivo del libro.
L’altro tema che attraversa la ricerca di Figes riguarda i terribili effetti del «mar­chio di kulak »: l’essersi trovato, cioè, in quella scomoda posizione nel momento in cui una seconda rivoluzione «dall’alto» in­vestiva e travolgeva la classe dei contadini medi e ricchi ( kulaki ), che avevano prospe­rato durante i lunghi anni della Nep (nuo­va politica economica). Le storie personali di chi sopravvisse a quella bufera sono al­trettante facce di un unico problema che potremmo definire così: cos’è, in concreto e nella vita dei singoli, il fenomeno racchiu­so dentro la parola «rivoluzione».
Il tema non è nuovo. Honoré de Balzac nel celebre racconto Un episodio sotto il Terrore , Victor Hugo nel dialogo tra Gau­vain e Cimourdain posto al termine del li­bro Novantatré (1874), e Anatole France nel più noto forse dei suoi romanzi, Gli dei hanno sete (1912), possono ritenersi i pio­nieri di questa necessaria indagine. Essa tocca il problema doloroso e insolubile: co­me può un singolo, individualmente non colpevole di alcunché, rassegnarsi a capire la «necessità generale» onde l’ondata rivo­luzionaria (che falcidia per «generi» e per «tipologie umane») travolge anche lui, la sua individuale esistenza? C’è chi ne rima­ne schiacciato, chi non ha neanche il tem­po di riflettere sulle scelte da compiere, e c’è chi si adatta (Simonov): non semplice­mente per «opportunismo» ma in forza di ragionamenti, che a taluno possono appari­re sofismi. Anatole France scelse di polariz­zare i modi di essere possibili sotto il «Ter­rore » (robespierrista) nei due personaggi di Gamelin e di Brotteaux (l’osservatore di­sincantato, che non giustifica quanto gli ac­cade intorno e porta sempre con sé il poe­ma di Lucrezio in edizione tascabile).
Jean Jaurès, che fu ucciso (luglio 1914) da un fanatico di destra perché cercava di im­pedire lo scivolamento dei socialisti euro­pei nel gorgo dello sciovinismo e della fol­lia bellica, nella sua Storia socialista della rivoluzione francese approdò ad una tesi, che merita attenzione ma può non convincere affatto: per lui, il marchese di Condorcet (ghigliottinato nel ’94) e Maximilien Robespierre mirarono al medesimo scopo e anzi «la lama della ghigliottina non bastò a troncare l’inestricabile legame ideale che li unì». È una trovata che guarda in avanti, nel presupposto che la storia vada verso qualcosa, e che riduce a incidente di percorso il destino individuale. Jaurés era un socialista moderato, convinto riformista e pacifista: e colpisce molto l’audacia con cui ha affrontato e risolto la questione «perché il Terrore », alla cui base c’è il concetto, tipologico e non giuridico, di «nemico del popolo», creato appunto nel 1793-94.
France, che nel suo romanzo del 1912 sta piuttosto dalla parte di Brotteaux e che dunque non simpatizzava ormai più con la Rivoluzione, dopo il 1917 guardò invece con favore alla nuova tempesta rivoluzionaria, quella bolscevica, esplosa all’altro capo dell’Europa. Quando morì (nel 1924) una selva di bandiere rosse scortò il suo funerale e in Italia «L’Ordine Nuovo» di Antonio Gramsci gli dedicò pagine di grande simpatia.
Dopo quasi un secolo la voce ultra-pessimistica (quando non interessata) di chi predica da sempre che la rivoluzione in quan­to tale è una via errata si è fatta daccapo molto forte. È l’approdo politico princi­pale del «revisionismo sto­riografico »: lo scorso anno è uscito a Parigi un grosso, e grossolano, Libro nero della Rivoluzione francese . Non è detto che sif­fatto revisionismo abbia ragione. Oltre tut­to la «ragione», nella valutazione storica, è essa stessa un elemento storico, cioè sog­getto al mutamento.

Corriere della Sera 29.9.09
Incontri. Claude, terzo dei quattro figli dell’artista, racconta i giorni con lui, la genesi delle opere, i momenti felici e quelli dolorosi
Picasso, il gigante della mia infanzia
«Solo noi bambini potevamo entrare nell’atelier di papà. Guai a dire che Matisse era più bravo»
di Nuccio Ordine




«I figli hanno sempre tanto da raccontare sui padri. Ma io che cosa posso dire di Pablo Picasso? Tutta la sua vita, esplorata anche nei meandri più intimi, appartiene ormai alla storia. E, fatto sal­vo qualche piccolo segreto che conservo gelosamente, ho sempre avuto coscienza che la sua notorietà mi ha espropriato della gioia di parlare di lui, di rievocare passaggi importanti della sua esistenza, del nostro comune vissuto». Claude Pi­casso, sessantadue anni, non nasconde le sue resistenze a ricordare gli anni tra­scorsi assieme a Pablo. Nato nel 1947, dal­l’unione con la pittrice Françoise Gilot, è il terzo dei quattro figli del celebre pitto­re: il primo, Paul (nato nel 1921 dal matri­monio con Olga Kokhlova), è precoce­mente scomparso nel 1975, mentre Maya (nata nel 1935 da Marie-Thérèse Walter) e Paloma (nata nel 1949 dalla Gilot) rap­presentano l’ala femminile della fami­glia. Claude, nella sua veste di ammini­­stratore giudiziario degli eredi, è ormai da molti anni il responsabile della «Picas­so administration»: una società che si oc­cupa dei diritti legati all’utilizzo del no­me dell’artista e alle sue opere. Durante un incontro a Gstaad racconta: «All’ini­zio, vivevamo a Parigi in un appartamen­to- atelier sempre pieno di gente che vole­va vedere mio padre. Papà sapeva che molti erano lì soltanto per prendere. Così decise di stabilirsi al Sud, per difendere il suo lavoro. Per un vero artista, l’arte vie­ne prima di ogni cosa».
E il rapporto con i figli? «Io cercavo di essere molto discreto. Per fortuna lui consentiva soltanto a noi bambini di en­trare nel suo atelier. Era convinto, ribal­tando un luogo comune, che proprio gli adulti potessero provocare dei danni. Mi vedo ancora sulle sue gambe, intento a disegnare. E mentre lui parla con altre persone, senza distogliere lo sguardo dal foglio, segue con attenzione i miei movi­menti. Talvolta, amava giocare con noi. Paloma e io venivamo coinvolti nei ver­nissage , lui stesso ci tagliava figurine di carta che noi dovevamo colorare per ar­ricchire l’esposizione». Anche la differen­za di età ha rappresentato un elemento importante. «Quando io sono nato — spiega Claude — papà aveva sessantasei anni e mia madre, perfetta coetanea di mio fratello Paul, ne aveva appena venti­sei. Una volta, in un albergo, un portiere lo fece arrabbiare: pensava che mia ma­dre e mio fratello fossero i miei genitori e che Pablo fosse mio nonno».
Anche la quotidianità del piccolo Clau­de non poteva prescindere dal mestiere del padre. «I visitatori si presentavano sempre con un giocattolo per me. Io ama­vo rompere le automobili per vedere co­me erano fatte. Un giorno cercavo dispe­ratamente due carcasse per casa e scoprii che erano diventate la testa della scultura La scimmia e il suo piccolo. Quando le vi­di incastrate lì dentro, mi misi a urlare e mio padre mi disse: 'ma tu perché le hai rotte'? C’era in lui una straordinaria capa­cità di ridare vita a cose morte. Fui testi­mone a Vallauris di un altro piccolo mira­colo. Un giorno camminavamo in una stradina di campagna e lui vide per terra un cesto di vimini abbandonato in una discarica di rifiuti. Si fermò a guardarlo e poi mi disse: 'Questo è perfetto per una capra'. E così fu. La famosa Chèvre prese subito forma».
Il senso dell’umorismo, fino all’irrive­renza, era un tratto particolare del suo ca­rattere. «Ci sono tantissimi aneddoti che celebrano le risposte fulminanti di mio padre. Quello più famoso riguarda Guer­nica .
Alcuni ufficiali nazisti vedendo la ri­produzione del quadro gli chiesero se lo avesse fatto lui. E papà rispose: 'No, lo avete fatto voi'. Un altro putiferio scop­piò con la morte di Stalin: Pablo lo dipin­se giovane e mandò su tutte le furie i diri­genti del partito comunista. Ma per lui il vero Stalin ero quello degli ideali e delle speranze della prima giovinezza. Papà credeva veramente nella pace e nella li­bertà dei popoli».
Tra i ricordi, occupano un ruolo fonda­mentale gli incontri con grandi artisti e scrittori. «Ho avuto il privilegio di cono­scere poeti come Éluard — continua Claude — e quasi tutti i più grandi pittori dell’epoca. Con Matisse avevo un rappor­to speciale. Lo consideravo un nonno. Andavamo spesso a trovarlo. E quando lui era ammalato, io saltavo sul suo letto e lui mi mostrava i suoi quadri per avere il mio parere. Poi, ritornando a casa, tes­sevo l’elogio di Matisse. E mio padre mi chiedeva: 'e io?'. Si arrabbiava quando gli dicevo che Matisse era più bravo di lui». Non è sempre facile per un figlio es­sere giudice dei lavori del padre. «Una volta, potevo avere dodici anni, andai a trovarlo nel suo atelier. C’erano tantissi­mi nuovi quadri che non avevo ancora vi­sto. Lui mi chiese un parere e io espressi un giudizio negativo. Si arrabbiò, ma in fondo sapeva bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli la verità. Era an­che cosciente del fatto che i giovani, libe­ri da pregiudizi intellettuali, potevano es­sere i suoi migliori interlocutori. Poi, gra­zie anche ai consigli di mia madre, cam­biai strategia. Partivo dalle cose migliori per arrivare a quelle che non mi piaceva­no ».
Pur respirando l’arte ogni giorno, Clau­de non ha mai pensato di seguire le or­me del padre. «Non è facile trovare uno spazio per sé con una figura paterna gi­gantesca. Per tutta la vita Picasso ha so­stenuto che un vero artista non deve mai fare la stessa cosa. Perciò non aveva fidu­cia nella scuola, insegna soprattutto la ri­petizione passiva delle regole. E lui non aveva niente da insegnarmi. In questo, mio padre si differenziava da mio non­no, pittore anche lui, ma docente in una scuola d’arte. Pablo non amava la scuola e le sue prescrizioni. Il suo problema era sempre quello di superare l’esistente in un gioco al rilancio senza fine. Par­tire dai modelli, dai classici per disgregarli, dissezionar­li, farli esplodere».
I ricordi dei momenti feli­ci non cancellano però le sof­ferenze. «Ho vissuto con do­lore la separazione dei genito­ri. Avevo, credo, cinque anni. Mia sorella e io partimmo per Parigi con nostra madre. Vede­vo papà durante le vacanze e ogni incontro era una grande fe­sta. Lui lavorava soprattutto di notte, nei momenti di solitudi­ne. E talvolta lo aiutavo nelle scul­ture, quando aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse fermo il gesso. In quegli anni dipinse un quadro ( Claude mentre disegna, Françoise e Paloma) , in cui mia madre, figura triangolare, protegge i suoi due fi­gli. Io mi accingevo a disegnare un foglio bianco: la nuova storia della nostra fami­glia era ancora tutta da immaginare».
Buona parte della produzione artistica di Picasso è legata, direttamente o indi­rettamente, alla sua biografia. «Il tema del minotauro — spiega Claude — allu­de anche alla separazione dalla sua pri­ma moglie, Olga. Lui si vede come un mo­stro, riconoscendo che purtroppo l’altra metà dell’uomo è bestiale. Sono interes­santi pure le allegorie del pittore: gli ar­lecchini, i saltimbanchi, i ciechi, i poveri. In fondo, lui sentiva come autentica la so­litudine dell’artista, la sua emarginazio­ne. Un uomo celebrato da tutti, ma pro­fondamente cosciente delle tristezze del­la vita e delle angosce che comporta qual­siasi atto creativo». Claude Picasso deve andare. Tra qualche giorno raggiungerà il suo ufficio di New York dove centinaia di richieste lo attendono per mostre, pub­blicazioni, expertises , riproduzioni, aste. «Ogni giorno — dice sorridente — dalla mattina alla sera, mio padre è sempre con me».

Corriere fiorentino 29.9.09
A dieci anni dalla presentazione del documento è l’unico studioso ad aver analizzato i 206 vocaboli
Parola di etrusco
Pittau e i segreti della Tabula Cortonensis. «Una questione di eredità»
di Marco Massetani


Storia e misteri. I frammenti bronzei furono rinvenuti nel 1992, ma resi pubblici soltanto nel 1999. Da allora tante ipotesi

Dentro la sua esclusiva vetrina del Maec, raffinato Museo di Cortona, il prezioso documento dal millimetrico spessore è di una fragilità quasi com­movente. Sono 7 frammenti bronzei invecchiati di patina nobile per oltre 2000 anni: 40 righe disposte su due facciate, incise con la tecnica a cera perduta, contenenti 206 parole, delle quali 34 vocaboli «appellativi» già co­nosciuti ed altrettanti nuovi, oltre a un alto numero di nomi propri.
Stiamo parlando della Tabula Cor­tonensis , terzo testo etrusco più lun­go, dopo il Liber linteus della Mum­mia di Zagabria e la Tegola di Capua, che questo popolo ci ha lasciato in eredità.
La piccola Tabula fu scoperta nel 1992, da un carpentiere che aveva rin­venuto i 7 frammenti nei pressi di Ca­mucia, ai piedi di Cortona. Il ritardo della consegna e le confuse indicazio­ni sul luogo di ritro­vamento gettarono in seri guai lo scopri­tore (prima condan­nato, quindi assolto, infine privato della lauta ricompensa, un miliardo delle vec­chie lire).
Ricomposta nel suo assetto con il tra­dizionale andamento della scrittura da destra a sinistra, la Tabula fu resa pubblica nel 1999, esattamente 10 an­ni fa, scatenando l’entusiasmo di lin­guisti ed etruscologi per quella che fu definita la scoperta etrusca del secolo. Un entusiasmo durato qualche anno, cui seguì un silenzio «dogmatico», tanto comune ai reperti linguistici etruschi.
Ma veramente la lingua etrusca ri­mane un mistero tale da imporre ti­mori «accademici» reverenziali? Sem­brerebbe di sì, visto l’impasse degli specialisti, che nel caso della Tabula concordano su tre punti: la valenza di documento giuridico, la datazione tra il III e il II secolo a. C.; la cornice gene­rale del testo, con due famiglie del­l’ ager umbro-cortonese indaffarate a spartirsi beni terrieri.
Un conto è però discutere della Ta­bula, un altro è affrontarne scientifica­mente la traduzione letterale. A tal proposito è il glottologo sardo Massi­mo Pittau (allievo di Giacomo Devo­to, autore di circa 40 libri, fra cui l’uni­co dizionario etrusco in circolazione, e da tempo impegnato in importanti scoperte ermeneutiche riguardanti la Tabula) ed essersi spinto più avanti di tutti nel corso di questi 10 anni.
«È bene sgombrare il campo da un equivoco durato mezzo secolo — af­ferma Pittau — quello di credere che la lingua etrusca sia un mistero. Anco­ra non possiamo dire di tradurla alla perfezione, ma riusciamo a decifrare e a leggere l’etrusco, che presenta una ricca terminologia poi confluita nel la­tino. Rimango dell’idea che la Tabula non riferisca di un atto di compraven­dita basato sulla pratica romana dello in iure cessio — conti­nua Pittau — bensì che tratti piuttosto di un arbitrato circa un’eredità contesta­ta, essendo incisa su una comune tavola bronzea, che vide pro­tagoniste la famiglia dell’olivicoltore Petro­ne Scevas ( petrus sce­vas eliunts ), dall’altra i Cusoni (cusu­thur), due rami imparentati in quanto discendenti dalla progenitrice Tullia Telutia ( tl teltei sians ) ».
L’esatta redistribuzione dell’eredità sarebbe confermata dalla presenza dei numerali sar (dieci), sa («dal si­gnificato di sei o non di quattro», av­verte Pittau), e zal (due), tutti abbina­ti al termine monetario tenthur (talen­to): elementi che comproverebbero a loro volta le quantità territoriali ogget­to dell’arbitrato. All’atto presenziaro­no 15 periti, oltre 20 testimoni («un numero che non deve sorprendere se guardiamo anche la Tavola di Esterzil­li » garantisce Pittau) e una figura im­ponente quale lo zilath mechl rasnal (il pretore della Federazione Etrusca). L’accattivante versione proposta da Pittau non può che rimanere indige­sta agli etruscologi perché urta con­tro una precedente interpretazione «sociologica» del reperto, considera­to una testimonianza delle «pruden­ti » oligarchie locali, preoccupate di trasferire beni e terreni ai ceti emer­genti. Fenomeno, questo, che potreb­be aver caratterizzato il periodo elleni­stico della Curtun etrusca.
Resta il mistero, forse. Ma anche la constatazione che, a 10 anni dalla pub­blicazione della Tabula, nessun’altro studioso ha messo a setaccio i 206 vo­caboli del documento.
Ci piace quindi immagina­re l’olivicoltore Petrone Sce­vas che si vede riconoscere il vignale ( vinac ) e il filare albe­rato di accesso ( restmc , «che corrisponde al latino restis», spiega Pittau orgoglioso del­la nuova scoperta) valutati 10 talenti. Mentre la famiglia dei Cusoni riceve in eredità la terra situata nel «bacino» del Trasi­meno ( spante tarsminass , in latino Tarsumennus ) del valore di 6 talenti, beneficiando di un conguaglio di 2 ta­lenti in cibo e travi di legno ( zaginat priniserac ), in grado di riequilibrare alla perfezione il lascito.
Tutto sembra essersi concluso con un happy end. Eredi, periti, testimo­ni, notaio ( suthivena ) — dopo che l’atto fu ratificato («il vocabolo ratm significa proprio questo, perché si ri­scontra nel latino ratus , a, um», spie­ga ancora Pittau riguardo all’altra sua «scoperta») — avranno festeggiato la fine della contesa con un sontuoso pranzo in stile etrusco. E la Tabula avrà perso con gli anni il proprio valo­re di atto giuridico, finendo spezzata in otto parti (quello mancante conte­neva solo antroponimi), e dimentica­ta nella pianura della Valdichiana.
Un po’ come accade alla lingua etrusca, sostiene Massimo Pittau, che a 88 anni ha da poco pubblicato l’ennesimo lavoro: il Dizionario Com­parativo Latino-Etrusco (Edes, 228 pagg. € 25,00), composto da circa 2300 voci. «Adesso toccherà alle nuo­ve generazioni approfondire il cam­po — conclude — e c’è ancora tanto da scoprire grazie al metodo compa­rativo con il latino, che valuto vincen­te. E per favore, togliamo all’etrusco, una volta per tutte, l’etichetta di lin­gua misteriosa…». 


Corriere della Sera 29.9.09
Una lettera al Corriere
di Milena Gabanelli


Ho una trentina di cause. E non riesco ad avere una polizza per le spese legali

Luigi Ferrarella, sulle pagine di questo giornale, ha sollevato un problema che condivido e mi tocca da vicino: la pressione politica (che in Italia è particolarmente anomala) sul condizionamento della libertà d’informazione forse non è l’aspetto più importante, anche se ciclicamente emerge quando coinvolge personaggi noti. Per questo facciamo grandi battaglie di principio e ignoriamo gli aspetti «pratici». Premesso che chiunque si senta diffamato ha il diritto di querelare, che chi non fa bene il proprio mestiere deve pagare, parliamo ora di chi lavora con coscienza. Alla sottoscritta era stata manifestata l'intenzione di togliere la tutela legale. La direzione della terza rete ha fatto una battaglia affinché questa intenzione rientrasse, motivata dal dovere del servizio pubblico di esercitare il giornalismo d’inchiesta assumendosene rischi e responsabilità. Nell’incertezza sul come sarebbe andata a finire ho cercato un’assicurazione che coprisse le spese legali e l’eventuale danno in caso di soccombenza dovuta a fatti non dolosi. Intanto sul mercato italiano, di fatto, nessun operatore stipula polizze del genere, mentre su quello internazionale questa prassi è più diffusa. Bene, dopo aver compilato un questionario con l’elenco del numero di cause, l’ammontare dei danni richiesti e l’esito delle sentenze, una compagnia americana e una inglese, tenendo conto del comportamento giudicato fino a questo momento virtuoso, si sono dichiarate disponibili ad assicurare l’eventuale danno, ma non le spese legali. Sembra assurdo, ma il danno è un rischio che si può correre, mentre le spese legali in Italia sono una certezza: le cause possono durare fino a 10 anni e chiunque, impunemente, ti può trascinare in tribunale a prescindere dalla reale esistenza del fatto diffamatorio.
A chi ha il portafogli gonfio conviene chiedere risarcimenti miliardari in sede civile, perché tutto quello che rischia è il pagamento delle spese dell’avvocato. L’editore invece deve accantonare nel fondo rischi una percentuale dei danni richiesti per tutta la durata del procedimento e anticipare le spese ad una montagna di avvocati. Solo un editore molto solido può permettersi di resistere.
Quattro anni fa mi sono stati chiesti 130 milioni di euro di risarcimento per un fatto inesistente, e la sentenza è ancora di là da venire. Se alle mie spalle invece della Rai ci fosse stata un’emittente più piccola avrebbe dovuto dichiarare lo stato di crisi.
Visto che ad oggi le cause pendenti sulla mia testa sono una trentina, è facile capire che alla fine una pressione del genere può essere ben più potente di quella dei politici, e diventare fisicamente insostenibile.
Questo avviene perché non esiste uno strumento di tutela. L’art. 96 del codice di procedura civile punisce l’autore delle lite temeraria, ma in che modo? Con una sanzione blanda, quasi mai applicata, che si fonda su una valutazione tecnica «paghi questa multa perché hai disturbato il giudice per un fatto inesistente».
Nel diritto anglosassone invece la valutazione è «sociale», e il giudice ha il potere di condannare al pagamento di danni puntivi «chiedi 10 milioni di risarcimento per niente? Rischi di doverne pagare 20».
La sanzione è parametrata sul valore della libertà di stampa, che viene limitata da un comportamento intimidatorio. La condanna pertanto deve essere esemplare. Ecco, copiamo tante cose dall’America, potremmo importare questa norma. Sarebbe il primo passo verso una libertà tutelata prima di tutto dal diritto.
Al tiranno di turno puoi rispondere con uno strumento politico, quale la protesta, la manifestazione, ma se sei seppellito dalle cause, anche se infondate, alla fine soccombi.

Repubblica 29.9.09
Polanski, se l´arte cancella la colpa
di Natalia Aspesi


Non si era mai vista una simile mobilitazione di artisti e intellettuali in difesa di un intellettuale ed artista, purtroppo inseguito da trentun anni da un mandato di arresto per un reato dei meno artistici ed intellettuali: la violenza sessuale su una ragazzina tredicenne.
Lo scandalo non è quel lontano crimine confesso, ma l´attuale fermo del colpevole. Certo non un colpevole qualunque, ma un premio Oscar, un autore di genio, un regista venerato. Allora, secondo questi autorevoli sostenitori, il talento dovrebbe cancellare la violenza su una ragazzina? E valere di più un bel film di una giovane vita ferita? O al contrario, come pensa la maggior parte del popolo giovane dei blog, uno stupratore resta tale anche se è un grande artista e neppure trent´anni dopo l´offesa può essere mitigata, il reato prescritto, il colpevole assolto?
Roman Polanski è oggi un signore di 76 anni dall´aria fragile e bisognosa di protezione, sposo e padre pare esemplare, certo un´altra persona rispetto al frenetico quarantaquattrenne che non ci pensò su abbastanza e anziché darsela a gambe prima anziché dopo, o corteggiarne la madre, si trovò nel letto una ragazza eccessivamente minorenne. Ognuno allora disse la sua, compresa la giustizia, che accettando di cancellare le accuse di stupro, sodomia, sesso orale, droga, mantenne solo quella di corruzione di minore; ancora di più oggi ognuno giudica il passato e il presente polanskiano secondo i più classici o bizzarri punti di vista e soprattutto con una grande confusione di ruoli. E per esempio la maggior parte delle signore di estrazione femminista dovrebbe compiacersi che finalmente un violentatore di adolescenti pagherà il fio: invece no, anche in Italia sono fuori di sé per il drammatico evento e stanno raccogliendo milioni di firme per ottenere il rilascio del grande umanissimo regista di "Il pianista" e "Chinatown". E i polacchi? A parte un paio di ministri e il presidente della repubblica, gongolano, fanno i complimenti agli Stati Uniti dove la legge è uguale per tutti e attaccano i loro governanti che dovrebbero vergognarsi di difendere un pedofilo.
Arte e pedofilia si sono spesso intrecciate, suscitando più che altro dibatti fumosi e, nel dubbio, si è sempre preferito pensare che se l´artista era devoto alle adolescenti o addirittura alle bambine, era esclusivamente per ragioni intellettuali. Lewis Carroll fotografava piccine con camiciole discinte solo, secondo i suoi estimatori, per immortalarne l´innocenza, Balthus dipingeva bambine con le gambette spalancate, per pura passione grafica e senza un solo pensiero cattivo, Chaplin magari era più sincero, chiedeva alle mamme di certe decenni simili ad angeli di riportargliele qualche anno dopo, non si sa mai, potevano diventare dive.
Anche cinema e adolescenti si sono spesso appaiati, vedi le decine di bambinette massimo dodicenni erotizzate, come Brooke Shields in "Pretty baby" di Louis Malle (del 1978, l´anno in cui Polanski fuggiva in Europa per non finire in galera) o come Kirsten Dunst in "Intervista col vampiro" di Neil Jordan (1994). Dopo trentun anni quella assurda violenza di un uomo adulto e colto su un´adolescente forse non innocente ma certo poco accorta, appare nebulosa, confusa, persino incredibile persino al protagonista, cui nella memoria deve forse tuttora gravare soprattutto il massacro della moglie Sharon Tate avvenuto 40 anni fa. Li ha ricostruiti il giornalista Gerald Posner sul sito di Tina Brown, dailybeast. com: Polanski aveva chiesto alla mamma della bella Samantha Geimer il permesso di fotografarla per Vogue francese e già che c´era gliene aveva fatte in topless. Due settimane dopo invitò l´ambiziosa ragazzina nella casa vuota di Jack Nicholson e con champagne e Quaalude la convinse a fare l´amore, lei «consenziente» secondo le eleganti dichiarazioni del regista al magistrato. Per evitare una richiesta di condanna a 50 anni, il regista si dichiarò colpevole, mentre la famiglia di Samantha cercava di evitare il processo per tenere nascosta la sua identità. Anche i giudici volevano evitarlo ritenendolo per la ragazza un danno peggiore della violenza subita. Polanski scappò a Parigi, in seguito ci furono accordi tra le parti e da tempo Samantha, che ha 45 anni, è sposata con tre figli e vive alla Hawai, lo ha perdonato.
Un esercito di gente di cinema, compresa Bellucci e Ardant, vari ministri della cultura, compreso quello francese, Mitterand, che si è rivolto al presidente Sarkozy, pensano di chiedere l´intervento di Obama per ridare al cinema il grande Polanski. Del resto oggi le minorenni trionfano, sono loro l´immagine vincente delle donne, e hanno affollato le passerelle dell´ultima moda: in offerta speciale, disponibili, irresistibili, pericolose.

Corriere della Sera 29.9.09
Il diritto, l’America e le star
Evitateci il Lodo Roman Genio? Sì, ma stia dentro
di Maria Laura Rodotà




No, il Lodo Polanski no. Per favore. D’accordo, come regista è un genio. Ma è un adulto responsabile delle sue azio­ni; non può evitare una condanna per aver commesso un reato contro la perso­na perché a suo tempo ha diretto «Chi­natown ». O «Il pianista», o «Rosemary’s Baby», o «Luna di fiele» (va bene, quan­do il film uscì c’era chi lo voleva in gale­ra per Luna di fiele, ma è un’altra sto­ria). La mobilitazione dei suoi amici, del mondo del cinema, del ministro degli Esteri francese, dell’Ump, il partito altri­menti moderato di Nicolas Sarkozy, pa­re degna di miglior causa. Giusto in Francia, i moderati lettori (spesso eletto­ri di Sarko) del Figaro ieri votavano onli­ne; e a stragrande maggioranza erano fa­vorevoli a far giudicare il loro concittadi­no negli Stati Uniti. Intanto, sempre onli­ne, i lettori liberal del New York Times scrivevano cose durissime. Meraviglian­dosi per il «lassismo delle élites euro­pee », che in America è un tormentone conservatore, in genere. Ma tant’è: e in tanti non capiscono perché ci dovrebbe essere una certezza del diritto per i nor­mali e poi una certezza del diritto-Vip, meno certa. Specie se il Vip — 32 anni fa ma non è in prescrizione, con qualche probabile irregolarità processuale ma lui nel frattempo era scappato — ha dro­gato, fatto ubriacare e sodomizzato una tredicenne. Prenderne atto non è da for­caioli, forse.
Lo ha spiegato il ministro della Giusti­zia svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf­such: «Non avevamo altra scelta. La bio­grafia di una persona non deve definire un trattamento di favore davanti alla leg­ge ». Certo, Polanski aveva da anni una casa in Svizzera e nessuno lo aveva di­sturbato. Certo, il suo arresto è un’eccel­lente diversione mediatica per il pubbli­co americano in un momento di crisi economica affrontata con fatica e di ri­forma sanitaria che non decolla; e c’è chi si chiede «ma il governo federale non aveva niente di meglio da fare che incastrare un settantaseienne?». È possi­bile. Ma Polanski non è stato rintraccia­to per aver scordato di pagare un po’ di multe, tenuto droghe per uso personale o costruito un gazebo abusivo nella sua villa di Los Angeles. Aveva stordito una quasi bambina e le aveva fatto di tutto. È, e resta, un reato grave. E non, come si leggeva ieri su Libération , «une affaire de moeurs vieille de 30 ans». I moeurs, i costumi, sono liberi nell’occidente civi­le da decenni e si spera lo restino. Tra adulti consenzienti, magari. Il portavo­ce dell’Ump obietta — e il principio non è insensato — che «l’assenza di prescri­zione nel diritto americano rende gli Sta­ti Uniti una democrazia particolare». Pe­rò è una democrazia dove Polanski ave­va scelto di vivere. E i tempi di prescri­zione dovrebbero dipendere dal delitto commesso. E forse lo stupro di una tre­dicenne non dovrebbe andare mai in prescrizione. È un danno gravissimo al diritto di essere tredicenni, soprattutto. Insomma, non «tout le monde est der­rière Polanski», non tutti sono con lui. Ma non spieghiamolo ai registi, agli atto­ri e ai ministri francesi; spieghiamolo al­le ragazzine (per favore).

il Riformista 29.9.09
I giornali e Polanski. Moralismi alternati: per Repubblica lo stupro di una 13enne è un “eccesso”
Quando il pedofilo ci piace
di Ubaldo Casotto



Scrive Paolo Mereghetti sul Corriere della sera, commentando l'arresto di Roman Polanski, che il regista sembra caduto dentro un suo film, quei «film che non danno mai certezze... ma lungi dall'essere un difetto questo è il loro vero pregio, perché della realtà non ci si può mai fidare».
Reputo questa frase - «della realtà non ci si può mai fidare» - peggio di una bestemmia e non capisco perché dovrei fidarmi di Mereghetti che la enuncia con apodittica certezza. Ma nello stesso tempo, con queste parole, Mereghetti dà ragione della schizofrenia intellettuale e morale che affligge il dibattito pubblico nel nostro Paese, soprattutto per come è rappresentato dai giornali, e di cui il caso Polanski è un esempio lampante.
Se la realtà non dà certezze, la morale pubblica diventa una coperta stiracchiabile in base alle convenienze o ai soggetti cui si dedice di applicarla.
Ieri a leggere i giornali non sembrava di essere in Italia, né di avere tra le mani gli stessi quotidiani del giorno prima. In alcuni casi il semplice voltare pagina dava l'illusione che si trattasse di due testate diverse. «Ha frequentato o frequenta altre minorenni?» chiede Giuseppe D'Avanzo a pagina undici con un tono inquisitorio che dà per scontato ciò che scontato non è (che Silvio Berlusconi abbia avuto rapporti sessuali con l'allora diciassettenne Noemi Letizia) e che viene negato da entrambi gli ipotetici protagonisti del fatto. Alle pagine sedici e diciassette il fatto acclarato e confesso di una violenza sessuale di un adulto allora quarantacinquenne con una bambina di tredici anni, sul quale esiste un verdetto di un tribunale americano e un patteggiamento del reo, non sembra bastare come giustificazione per un arresto al quale Polanski si era sottratto fuggendo dagli Stati Uniti trent'anni fa.
L'esecuzione del mandato di un tribunale (ma non erano insindacabili?) viene anzi guardata con sospetto: «Resta da capire chi abbia impresso il giro di vite contro il regista che da anni girava indisturbato per il mondo». Certo, è molto più grave che un evasore fiscale giri indisturbato per l'Italia, dedurrà il lettore che da quelle stesse colonne viene quotidianamente invitato all'indignazione morale.
Lo strupro di una tredicenne («Dissi di no diverse volte, poi mi arresi» ha raccontato al giudice Samantha Gailey aggiungendo che Polanski le fece bere champagne e tranquillanti prima di sodomizzarla) può essere catalogato, come fa il titolo di Repubblica tra gli «eccessi» di un «artista esagerato»? Per di più dopo avergli concesso l'attenuante che «nell'ambiente si sapeva che il regista aveva quello che qualcuno scherzando chiamava "il morbo di Nabokov", una predilezione per le lolite?».
È utile ricordare che usciamo da campagne di stampa e inasprimenti legislativi bipartisan che giustamente considerano lo strupro un crimine indicibile, un reato contro la persona, e che l'età della vittima (a tredici anni si frequenta ancora la scuola media) e la sproporzione in anni con lo stupratore non permette di usare il termine "consenziente"?
Vi sembra deontologicamente corretto definire una bambina di tredici anni «un'aspirante fotomodella», in modo da insinuare la sua disponibilità? E che dire del fatto che sarebbe stata offerta al regista dalla madre? Questo non aumenterebbe la responsabilità di Polanski per il disprezzo che avrebbe manifestato nei confronti di quella persona che gli veniva consegnata come una cosa con cui trastullarsi? Se lo fanno le madri islamiche, consegnando le loro figlie minorenni in mano a trenta/quarantenni è uno scandalo, se "l'utilizzatore finale" è un raffinato regista dell'élite culturale europea si tratta di una trappola orchestrata da una mamma arrivista?
E vi sembra un ragionamento sostenuto dalla logica quello di Alberto Crespi sull'Unità, per il quale «nonostante siano passati trentadue anni Polanski è ancora un "latitante" per gli Usa»? Cosa significa quel nonostante, è cambiato qualcosa in questi trentadue anni? Forse le persone, forse in meglio forse in peggio, ma il semplice passare del tempo non muta la sostanza di quel reato e la posizione giuridica di chi, avendolo commesso, ne è stato ritenuto colpevole.
E perché sempre Crespi scrive di «presunto reato» quando tutti sanno che Polanski patteggiò una pena ammettendo un delitto che non può più essere definito "presunto"? Sarà anche questa una conseguenza (il)logica dell'assioma mereghettiano per cui «la realtà non dà mai certezze?».
Poi c'è la cocaina. «Che ci fosse anche la cocaina, - ancora Crespi - è altamente verosimile: nella Hollywood degli anni 70 era diffusissima». Se per questo anche nella Sardegna dei primi anni del Duemila, solo che quella sarda fino a ieri veniva considerata un'aggravante di rapporti mercenari tra adulti consenzienti, quella californiana è un'attenuante dello stupro di una bambina di tredici anni. (A me, sia chiaro non piacciono né i primi né il secondo, ma la disinvoltura di chi si fa giudice a moralità alterna è insopportabile.)
Inevitabile, a questo punto, per Crespi il ricorso alla "sfera morale". «Che il regista in questione fosse una preda abbastanza facile ("morbo di Nabokov", vedi sopra, ndr) è un discorso che riguarda più la sfera morale che quella giuridica»; con il che si sono definitivamente sottratti lo strupro e l'abuso sessuale pedofilo alla loro dimensione penale, per la felicità di molti.
C'è, infine, da notare la "repubblicana" riproposizione acritica delle ragioni per cui Polanski si è sempre rifiutato in questi anni di accettare il giudizio del tribunale, pur riconoscendo che «un processo sarebbe una soluzione». Fa sorridere, sul giornale che non perde occasione per ricordarci che ci si difende "nel" processo e non "dal" processo, leggere queste parole: «Il fatto è che i media americani ormai si sovrappongono alla giustizia. L'esito di un processo dipende da quello che mostra la televisione. Sarebbe un inferno, non per colpa del sistema giudiziario ma dei media». Altri la chiamerebbero "gogna mediatica", ma guai a dire che è un problema che riguardi la giustizia italiana.
P.S. Manca lo spazio per un commento, ma invito i lettori a compulsare con attenzione un'altra pagina di Repubblica di ieri, quella piena di ammirazione per «la particolare esuberanza sessuale» di Fidel Castro, per gli undici figli con sette donne diverse del "grande seduttore", «senza contare tutte le relazioni occasionali o clandestine che lo hanno reso padre». Deduzione: se Silvio Berlusconi vuole conquistare la benevolenza di certi giornali ha due strade: la regia cinematografica o la dittatura. Meglio la prima.

il Riformista 29.9.09
Galimberti star dei matti
di Sergio Buonadonna


«Se perdo te mi casca il mondo oppure se mi lasci si spegne il sole, si dicono due innamorati. Frasi da delirio. Dunque sono pazzi? No. È vero che per Freud l'amore era una malattia grave con l'unico pregio di essere breve, ma l'amore non è pazzo e la follia è solo parte della ragione». Così rassicura Umberto Galimberti, psicanalista e filosofo, basagliano doc, che dopo Mantova e Modena sarà a Venezia il 9 e 10 ottobre, per il Festival dei Matti numero zero. Che non è il titolo di una canzonetta ma la prova generale di un vero Festival della Follia. Lo hanno voluto fortemente una psicologa e due operatrici culturali veneziane, Anna Poma, Laura Barozzi e Alessia Vergolani, mettendo su la cooperativa Con-tatto e lavorando all'organizzazione di un vero Festival dalla parte delle persone con sofferenze mentali.
Dacia Maraini che riporta in scena Stravaganza, un testo del 1986 dedicato con coraggio e ironia alla fuoruscita dei matti dal manicomio, al ritorno a casa, all'illusione della normalità e al rifiuto con cui famiglie e amici che li avevano già sostituiti li riportano indietro ma senza i fare i conti con la loro ironica, irresponsabile, folle(?) originalità. Sulla scena andrà l'Accademia della Follia di Trieste che Claudio Misculin tiene in piedi da trent'anni lavorando con gli attori a rischio e mietendo ovunque elogi e consensi. (10 ottobre al teatro Goldoni).
Maraini spiega: «Scrissi Stravaganza perché i confini tra la malattia e la sanità sono estremamente fragili e vanno visti con più elasticità mentre la gente tende a dividere e ad isolare. Dice: quello è matto e una persona è condannata».
«Viviamo una libertà revocabile - aggiunge Galimberti - quella di coloro che dicono mi sposo tanto poi divorzio, sono incinta tanto poi abortisco e misurano la loro importanza col biglietto da visita, perché la libertà è vissuta come un ruolo». Irrevocabile è invece la tragedia di quel docente di matematica, spinto dai tagli alla scuola a reinventarsi come edìle. Non é stato così: s'è ucciso. Per Galimberti, «questo gesto dice chiaramente che quando non vedo un futuro e mi tocca fare ciò per cui non mi sono formato ed educato, vado in una crisi tale di identità che a questo punto la vita perde senso e l'ultimo gesto di affermazione della propria identità resta il suicidio». Completano il Festival dei Matti Elio e… (quello delle Storie tese), Carlo Antonelli, Franco Rotelli, Massimo Cirri e Alice Banfi.