venerdì 2 ottobre 2009

l’Unità 2.10.09
A piazza del Popolo attesa domani una grande folla, le adesioni della Cgil e delle associazioni
Sul palco. Un concerto dell’orchestra di piazza Vittorio e i rappresentanti della stampa mondiale
Giornalisti e cittadini per difendere l’articolo 21
Roberto Saviano e il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida sul palco di piazza del Popolo. Attesi 300 pullman da tutta Italia. Molta musica e l’omaggio a Anna Politkovskaja
di Jolanda Bufalini


Anti-italiani. «In piazza per difendere una cosa italianissima, la nostra Costituzione»

ROMA. Una protesta, una festa della libertà, «una cosa serissima dice Roberto Natali, presidente della Federazione della stampa e non una farsa», secondo la definizione denigratoria del presidente del consiglio.
Piazza del Popolo a Roma sarà invasa, domani, dalle 15 e 30, da tutti quelli che sentono messo in discussione e in pericolo il diritto alla libertà di stampa sancito dall’articolo 21 della Costituzione. I giornalisti delle testate sotto attacco, della Tv e della carta stampata, da “l’Unità” a “la Repubblica”, da “Annozero” a “Report” a “Che tempo che fa” ad “Avvenire”, con i loro cartelli, palloncini e striscioni, di fronte al palco allestito sotto il Pincio insieme alle migliaia di persone che si sono mobilitate e che da tutta Italia arriveranno con i trecento pullman organizzati per l’occasione. Perché, sottolinea la Federazione nazionale della stampa, lo slogan della manifestazione è «diritto di sapere dovere di informare». Non è quindi solo cosa che riguardi i professionisti poiché investe il diritto di tutti a sapere. Natali mostra di profilo la alta risma di fogli su cui sono indicate le adesioni delle associazioni come Articolo 21 e Libertà e Giustizia, Libera, Libera informazione e tante altre. Organizzazioni del Terzo settore come l’Arci. La Cgil (ci sarà Guglielmo Epifani) e le rappresentanze dei precari della scuola che, da tempo, avevano indetto per il 3 ottobre un giorno di protesta. L’Anpi, le Acli. I partiti di opposizione: «Noi non siamo antipolitici e ci fa piacere la loro adesione precisa Natali anche se il soggetto promotore siamo noi nella nostra autonomia, la manifestazione è aperta a tutti i cittadini».
Sul palco aprirà alle 15 e 30 l’Orchestra di Piazza Vittorio, poi dalle 16 l’intervento del segretario della Fnsi Franco Siddi. Subito dopo, fra i primi ad intervenire, ci sarà Roberto Saviano e poi il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida. Ed è annunciato un messaggio di Don Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana.
MUSICA E PAROLE
La conduzione degli interventi sul palco è affidata al giornalista di Rai 3 Andrea Vianello, per evitare l’effetto passerella. Ma non saranno solo parole. Tra un intervento e l'altro, saliranno sul palco i musicisti Teresa De Sio, Marina Rei, Tête de bois, Nicki Nicolai ed Enrico Capuano, secondo un programma ancora in fieri che «non esclude altre sorprese». Ci sarà un omaggio ad Anna Politkovskaja (in questi giorni ricorre l’anniversario della morte). Sarà l’attrice Jasmine Trinca a leggere alcuni testi della giornalista russa. E intanto prosegue a distanza la polemica con il governo. Anti-italiana la manifestazione rinviata per il lutto dei militari italiani morti in Afghanistan? «Noi difendiamo una cosa italianissima dice ancora Natali che è l’articolo 21 della nostra Costituzione». C’è il ringraziamento al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per l’attenzione con cui segue che riguardano il mondo dell’informazione. E c’è l’elenco dei motivi di preoccupazione per chi deve esercitare il diritto di cronaca, a cominciare dalle nuove norme sulle intercettazioni arrivate al Senato. La denuncia dell’aria pesante che si respira nel nostro paese, dall'operazione contro Avvenire che ha portato alle dimissioni del direttore Dino Boffo, all'appello del presidente del Consiglio agli imprenditori perchè non investano in pubblicità sui «giornali catastrofisti», fino agli interventi di censura nelle trasmissioni della televisione pubblica e agli insulti ai giornalisti.
Molte le emittenti che faranno la diretta da piazza del Popolo: Repubblica tv, Cgil.it, Radio Articolo 21 e Radio Città Futura. «Speriamo chiosa Roberto Natali di non dover fare formale richiesta al servizio pubblico per la copertura dell’evento».❖

l’Unità 2.10.09
«La museruola per chi fa informazione» titola il settimanale britannico
Dai tempi del Duce mai «un controllo così eclatante e preoccupante» sui media
Per Economist l’Italia è tornata ai tempi di Mussolini
Per il settimanale inglese, che parla della manifestazione per la libertà di stampa di domani, «è dai tempi di Mussolini che un governo italiano non interferiva sui media in maniera così eclatante e preoccupante».
di Massimo Solani


Che fosse «inadatto» a governare l’Italia, l’Economist lo ha scritto a chiare lettere e in più di una occasione. ma questa volta il settimanale inglese ha decisamente alzato il tiro e, dopo aver raccontato ai lettori d’Oltremanica e non solo dello scandaloso conflitto di interessi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e delle sue innumerevoli disavventure giudiziarie, non esita a paragonare l’Italia del 2009 a quella del Ventennio fascista. «È dai tempi di Mussolini spiega infatti l’autorevole settimanale che non si aveva un governo italiano che interferisse con i media in maniera così lampante e allarmante». Una analisi impietosa, sotto al titolo “La museruola per chi fa informazione”, che prende le mosse dalla manifestazione per la libertà di stampa in programma domani a Roma sottolineando che i giornalisti e tutti gli italiani «hanno ottime ragioni per essere preoccupati» e «per protestare». «Questo sabato 3 ottobre si terrà a Roma una manifestazione per difendere la libertà di stampa scrive l’Economist Non in una lontana dittatura, ma proprio in Italia. Ebbene, i giornalisti che l’hanno indetta hanno buone ragioni per preoccuparsi».
FREEDOM HOUSE
Del resto, è l’analisi del settimanale inglese, a testimonianza della gravità della situazione italiana sul fronte dell’informazione ci sono i risultati dell’ultimo rapporto sulla libertà d’informazione pubblicato dalla Freedom House, l’istituto di ricerca di Washington che si pone come obiettivo la promozione della democrazia liberale nel mondo. E nell’ultimo lavoro infatti l’Italia è stata declassata al 73 ̊ posto fra i 195 paesi analizzati. Uno stato «solo parzialmente libero» posizionato appena sopra la Bulgaria. «L’Italia si legge in quel documento è stata retrocessa nella categoria dei paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell’eccessiva concentrazione della proprietà dei media». Una fotografia a tinte fosche a cui l’Economist affianca le recenti querele mosse dal premier contro l’Unità e la Repubblica, «l’assalto senza precedenti lanciato alla Rai» e le polemiche piovute su Annozero per aver deciso di ospitare «una donna (Patrizia D’Addario) che sostiene di essere stata pagata per trascorrere una notte con il primo ministro». Una situazione che per il settimanale inglese dimostra come «l’Italia di Berlusconi si sta allontanando dall’Europa occidentale per somigliare alle più deboli democrazie dell’Est». ❖

Repubblica 2.10.09
Cosa vuol dire libertà di stampa
di Roberto Saviano


Molti si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento.
Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un´opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all´altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo.
Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: «Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?».
Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati. Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste. Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita.
In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l´incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l´informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale?
Chi ha votato per l´attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa?
Il paese sta diventando cattivo. Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell´Italia?
Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi. Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l´Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi. Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all´anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa. L´Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia. È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall´opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l´esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto.
Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva «sei alleato di una persona solo quando la ricatti». Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell´intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.
Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l´alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo?
Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.
Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un´informazione libera. In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell´Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency ©Riproduzione riservata
Questo articolo sarà pubblicato anche da El Paìs, The Times, Le Figaro, Die Zeit, dallo svedese Expressen e dal portoghese Espresso.

Repubblica 2.10.09
La manifestazione
Domani in piazza. Fnsi: "Libertà a rischio"
Organizzati 300 pullman. Sul palco Saviano, Marcorè e Dario Fo
Iniziative in tutta Europa "Sul sistema dell´informazione tira aria pesante"
di Andrea Gianni Irene Privitera


ROMA - Il testo dell´articolo 21 della Costituzione stampato sulle magliette, striscioni per dire "no all´informazione imbavagliata" e gli interventi sul palco di piazza del Popolo di Roberto Saviano e Dario Fo. A Roma tutto è pronto per la manifestazione a favore della libertà di stampa, domani alle 15.30. Un´iniziativa promossa dalla Fnsi (Federazione nazionale della stampa) e che, promette il suo presidente Roberto Natale «sarà serissima, altro che farsa», rispondendo così all´attacco di Silvio Berlusconi. «Sul sistema dell´informazione tira un´aria pesantissima». Per questo è lunga la lista dei motivi che hanno spinto il sindacato dei giornalisti a mobilitare i cittadini: il disegno di legge sulle intercettazioni, l´attacco del ministro Scajola ad Annozero, le dimissioni di Dino Boffo da Avvenire. E poi le richieste danni del premier nei confronti di Repubblica e Unità, «una Rai sempre più ridotta a una strettissima obbedienza governativa e il conseguente pericolo di un´omologazione delle fonti informative».
Sono 300 i pullman organizzati dalla Fnsi. Le adesioni sono giunte anche da associazioni, singoli cittadini, e dai partiti di opposizione. Ma la Fnsi chiede «che alla manifestazione non venga dato alcun significato politico». Sul palco, fra gli altri, il segretario nazionale Franco Siddi, il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida e l´attore Neri Marcorè. Ci sarà la musica dell´Orchestra di piazza Vittorio e degli artisti che hanno aderito, fra cui Samuele Bersani, Marina Rei, Enrico Capuano. All´evento presentato dal giornalista Andrea Vianello parteciperanno le associazioni Arci e Acli, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, la Cgil, la Fim-Cisl e l´Ordine dei Giornalisti. La diretta televisiva sarà seguita da Repubblica Tv, Youdem e dal sito della Cgil. Il segretario del Pd Dario Franceschini auspica «che ci saranno molti di colore diverso e di provenienza politica diversa». Passerà da piazza del Popolo il corteo nazionale dei precari della scuola. Ci saranno cortei e presidi in altre dodici città italiane ed europee: a Londra, davanti alla sede della Bbc, a Parigi, Torino, Barcellona. A Bruxelles si sfilerà con un bavaglio sulla bocca, nel capoluogo lombardo indossando magliette bianche con lo slogan "Milano difende la libera informazione". «Sull´Italia grava non solo il conflitto di interessi di Berlusconi - ha concluso Natale - ma anche l´intreccio dell´informazione con il potere economico e politico. Chiediamo solo che i cronisti possano continuare a fare il proprio lavoro».

Repubblica Firenze 2.10.09
Libertà di stampa, migliaia a Roma
Solo la Cgil ha già pronti 50 pullman per la manifestazione di domani


Saranno migliaia i toscani che parteciperanno domani alla manifestazione nazionale per la libertà di stampa e di informazione - «Informazione No al guinzaglio. Diritto di sapere, dovere di informare» - organizzata dalla Federazione nazionale della stampa inizialmente per il 19 settembre e poi rinviata a causa la strage di militari italiani in Afghanistan. L´appuntamento è dalle 15,30 alle 19 in piazza del Popolo, dove sarà fra gli altri Roberto Saviano. Una iniziativa decisa dopo il crescendo di attacchi «senza precedenti», sottolinea la Fnsi, rivolti agli organi di stampa negli ultimi mesi, e in particolare delle ultime settimane, con le citazioni per danni di Repubblica e Unità fatte da Berlusconi, e le dimissioni del direttore di Avvenire Dino Boffo per gli attacchi del Giornale, quotidiano della famiglia del presidente del consiglio diretto da Vittorio Feltri. Stando alle prenotazioni arrivate alla Cgil e ai tantissimi movimenti e associazioni di base che hanno aderito, - dall´Arci all´Anpi, da articolo 21 a Libertà e Giustizia, dall´Ucsi, dalle Acli alla Fiom, all´Associazione precari e a molti altri - oltre a quello che si legge nei blog e su Facebook, la Toscana confermerà la sua tradizionale capacità di mobilitazione in difesa della democrazia. Sono già 50 i pullman organizzati dalla sola Cgil, e molti altri ancora saranno quelli da partiti e associazioni, fra cui Assostampa, Arci, Associazione Sinistra Unita e Plurale, Comitato per la difesa della Costituzione, Carovana per la Costituzione. Hanno inoltre aderito varie istituzioni pubbliche toscane, fra cui il consiglio provinciale di Firenze e il presidente della Provincia Andrea Barducci, il consiglio regionale e il presidente della Regione Claudio Martini, la giunta e il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, il sindaco di Pisa Marco Filippeschi e il presidente della Provincia di Arezzo Roberto Vasai.

Repubblica 2.10.09
Cina, 60 anni di comunismo e Hu Jintao si veste da Mao
Pechino si ferma per la parata: "Il marxismo ci salverà"

di Giampaolo Visetti

Per celebrare i sessant´anni dalla nascita della Cina comunista, Hu Jintao si è travestito da Mao e ha rilanciato Marx. Il presidente della potenza capitalista che contende agli Stati Uniti la leadership del mondo nel nuovo secolo, di solito, ci tiene al suo aspetto da tecnocrate occidentale in giacca e cravatta. Ieri invece, a sorpresa, si è presentato sulla porta della Città Proibita con addosso la vecchia divisa in panno grigio di Sun Yatsen, padre della rivolta che pose fine alle dinastie imperiali. È l´uniforme adottata poi dai rivoluzionari rossi e indossata da Mao Zedong il primo ottobre 1949 sullo stesso loggiato della Pace Celeste. I vecchi funzionari del partito e i nuovi ricchi businessmen, soli invitati alla Grande Parata dell´Anniversario in piazza Tiananmen, hanno capito subito che questo travestimento a sorpresa anticipava il senso più profondo della decennale liturgia. Hu Jintao, esaurite le sessanta cannonate che hanno scosso una Pechino asserragliata in casa e incollata alla tivù, non ha indugiato a chiarire il messaggio.
Davanti ad una distesa muta di militari, volontari precettati, studenti, bambini e figuranti, ha passato in rassegna il nuovo arsenale atomico "made in China" a bordo di una limousine "Bandiera rossa" e gridando «forza compagni». In sette minuti di discorso, mentre la tempesta chimica dell´aeronautica scioglieva le ultime nuvole sopra la capitale, ha spiegato che «solo il socialismo può salvare la Cina» e che «le riforme e le aperture possono assicurare lo sviluppo del Paese, del socialismo e del marxismo». Alcuni diplomatici occidentali, forse frettolosi, l´hanno immediatamente soprannominato il Sessantesimo di "Mao Jintao". Proseguendo a leggere, Hu ha ricordato che il «socialismo alla cinese» è il «solo esempio di successo» per un mondo naufragato nel liberismo. In un crescendo di patriottismo nazionalista si è appellato all´unità etnica e alla riunificazione del Paese con Taiwan, promettendo che l´autoritarismo di mercato saprà «costruire una nazione ricca, forte, democratica, armoniosa e modernamente socialista». I cinesi hanno compreso l´indicazione interna: il potere non intende compiere alcuna apertura e semmai, sotto choc per il declino americano, è pronto a cedere all´orgogliosa pressione delle frange più ortodosse. Anche la scenografia di Tiananmen, nuovamente percorsa dai carri armati dopo la strage degli studenti di vent´anni fa, ha lasciato pochi dubbi. Decine di slogan, composti da lettere dorate sostenute da bambini guidati via radio, esortavano di volta in volta a «ubbidire al partito», ad «amare il comunismo», a «essere fedeli al partito», a «essere eroi in battaglia» e hanno augurato «mille anni a Mao e al partito comunista». Retorica da anniversario, ma in nessun´altra potenza globale una dittatura del Novecento potrebbe essere oggi proposta quale modello ideologico contemporaneo, sottratto a qualsiasi controllo, critica e discussione. Chiaro anche il suggerimento per gli stranieri.
Quattro rapide parole: «Pace, cooperazione, prosperità e armonia». E immediatamente dopo, due ore in cui sono sfilati tank, anfibi, cannoni, radar, diecimila soldati con le nuove armi leggere, intercettori, missili mai mostrati, compresi gli intercontinentali con le testate nucleari capaci di colpire le portaerei Nato nel Pacifico. Sopra la Chang´An Jie, che taglia in due la capitale, hanno volato (ma non sfrecciato) caccia e ricognitori invisibili.
Sessant´anni fa l´armata di Mao era una massa di partigiani esausti, affamati, decimati e armati dall´Urss. Ieri la Cina ha voluto mostrare che il più numeroso esercito del pianeta è ormai tecnologicamente autonomo e avanzato. E che Pechino, nonostante due decenni di embargo ufficiale nelle armi, sarà presto nelle condizioni di contendere a Washington non solo la leadership monetaria, ma anche quella militare.
Stabilità del potere, contrasto violento del dissenso e delle aspirazioni democratiche, determinazione a incrementare la crescita economica e a conquistare la guida politica del mondo investendo sul rinnovamento dell´arsenale atomico, sono i segnali accuratamente confusi nello show patriottico da cui, misteriosamente, è risultata esclusa la popolazione. Per «ragioni di sicurezza» tutti quelli che contano ieri erano in posa fotografica in piazza Tiananmen. Tutta la Cina stava invece, impaurita, a guardare dal divano. Tra i due universi, apparsi ignari l´uno dell´altro, una distesa di strade deserte, palazzi sbarrati, tetti presidiati da telecamere e cecchini, quartieri inaccessibili da giorni. Tibet, Xinijang e dissidenti sono isolati da tempo: nessuno ha così compreso un tale «allarme terrorismo».
La tensione e l´assenza della gente hanno però tolto alle celebrazioni la "eroica commozione" di uno spettacolo costruito sul mito dei reduci della Lunga Marcia. Quattro soli brividi, leggeri. I plotoni di soldatesse, con gonna fucsia sopra il ginocchio e stivaloni bianchi, che hanno scosso un labbro di Hu Jintao. L´apparizione, al suo fianco, di un Jiang Zemin più che invecchiato. Gli insistiti stacchi tivù su Xi Jinping, dato come prossimo successore, e l´assenza del contendente Li Keqiang.
Infine l´oblìo su Zhao Ziyang, segretario nel sanguinoso `89, dimenticato dallo speaker che ha letto l´elenco dei leader. Solo i carri allegorici, simbolo di regioni, minoranze, emergenze della natura e aspirazioni sociali, hanno trasmesso non slogan, ma la sensazione di una consapevolezza seria dei problemi di oggi. Un lampo, in stile carnevalesco, prima del gran finale. Hanno sfilato in processione quattro ritratti giganteschi, svettanti tra i fiori, mentre migliaia di picconi e palloncini venivano finalmente mollati dai loro custodi: Mao Zedong, Deng Xiaping, Jian Zemin e lo stesso Hu Jintao, che ha applaudito la propria immagine, qui in versione occidentale. Gli invitati si affrettavano ai pullman, ma il presidente travestito da Mao si è fermato a guardare le quattro icone allontanarsi verso il mausoleo. E´ parso un congedo, personale e storico.

Repubblica 2.10.09
Nella giacca del Timoniere un messaggio al Politburo
di Renata Pisu


Hu Jintao si è messo la giacca alla Mao. Chissà quanto se ne è discusso in seno al Politburo del Comitato Centrale del Pcc. Niente va trascurato, figurarsi l´abito. Ma è stato Hu Jintao a pretendere di essere l´unico a indossarla? Sarebbe bello poter dire che "ognuno ha i suoi gusti", purtroppo non stanno ancora così le cose in Cina. Si trascura in una simile parata il particolare dell´abbigliamento? Via, quella giacca ha una storia troppo lunga. La lanciò nel primo decennio del secolo scorso il Padre della Cina moderna, il troppo spesso dimenticato Sun Yatsen che, per la foggia, si ispirò alle divise degli studenti giapponesi che si richiamavano a quelle dei militari tedeschi. Era un capo che rispondeva alle esigenze di modernità senza aderire alle fogge dell´Occidente e, durante gli anni della Repubblica del Guomindang, la giacca venne adottata da tutti i funzionari civili. Poi anche i comunisti vestirono la "giacca nazionale" e non la abbandonarono più. Negli anni sono state apportate modifiche non di poco conto. Per esempio, le tasche esterne erano tre, diventarono quattro per aderire al principio cinese di equilibrio e simmetria: i bottoni erano sette, si ridussero a cinque così da rappresentare i cinque rami del Governo come stabiliva la Costituzione della Repubblica nazionalista; e i tre bottoni del colletto erano, si disse, il simbolo dei Tre Principi del Popolo, la dottrina di Sun Yatsen, e cioè indipendenza, sovranità e benessere del popolo. La Cina ha raggiunto i primi due obiettivi, ma il terzo? Se dovessimo credere alla simbologia dei tre bottoncini, quella giacca Hu l´ha indossata a proposito, come a dire "E il terzo principio, compagni?" I "compagni" attorno a lui, sugli spalti di Tiananmen, erano tutti in giacca e cravatta. Cravatta rossa comunque, di ordinanza.

Corriere della Sera 2.10.09
L’anniversario. Gigantesca parata militare fra passato e futuro
«Comunisti e capitalisti» I 60 anni della Cina di Mao
Hu sul palco con la divisa del Grande Timoniere
di Paolo Salom


Divise immacolate, passi scanditi con studiata precisio­ne, ogni particolare controlla­to e riprovato fino a risultare perfetto. La parata per il ses­santesimo anniversario della Repubblica popolare cinese ha mostrato ieri, 1˚ ottobre, il presente e il futuro della Ci­na nell’immenso scenario che da secoli cadenza le ere imperiali: piazza Tienanmen, a Pechino. Soldati, missili, an­cora soldati, poi carrarmati, jet ed elicotteri nel cielo. E il presidente Hu Jintao, vestito — scelta inconsueta ma sicu­ramente meditata — non in giacca e cravatta ma con la di­visa di Mao Zedong, ad arrin­gare il popolo per otto minu­ti. Otto minuti in cui il nome del Grande Timoniere non è mai stato pronunciato: il «grande innovatore» Deng Xiaoping sì, Mao no. «Oggi una Cina socialista che guar­da al futuro si staglia alta e ferma in Oriente — ha detto Hu —. Lo sviluppo e il pro­gresso degli ultimi sessant’an­ni hanno ampiamente dimo­strato che solo il socialismo può salvare la Cina e solo le riforme e l’apertura possono assicurare lo sviluppo del Pae­se, e del marxismo».
Lo spettacolo della gigante­sca sfilata — 8 mila soldati dell’Esercito popolare di libe­razione, i mezzi più moderni dell’industria bellica naziona­le, e centomila civili (compre­si tre italiani in un totale di 181 stranieri) — è tornato in quest’occasione così partico­lare, un cinquantennio più dieci anni dal giorno (1˚ otto­bre 1949) in cui Mao si affac­ciò sulla Porta della pace cele­ste (Tienanmen) per procla­mare che «La Cina è di nuovo in piedi». E ha ristabilito il pri­mato del potere del Partito co­munista, «unica guida legitti­ma » in un Paese che vuole rinnovare il marxismo con gli strumenti del capitalismo. Un ossimoro politico? Non è un caso, appunto, che Hu Jin­tao abbia evitato di pronun­ciare il nome del fondatore della Repubblica popolare, per vestirne tuttavia i panni. Davanti a sé le falangi festan­ti — le ultime, da quelle par­ti, sventolavano 40 anni fa il Libretto rosso e volevano spa­rare sul quartier generale — portavano in parata i ritratti di Mao, Deng, Jiang Zemin e lo stesso Hu Jintao: i quattro ultimi imperatori di una Cina che vuole ancora essere ros­sa. A ribadire il legame con la Rivoluzione comunista, poi, ecco carri allegorici che ripor­tano al realismo socialista esi­bito con eroi alla Lei Feng, il soldatino che sacrificò la sua vita per i compagni, e bandie­re rosse a sfidare il vento del­l’avvenire. Hu Jintao ha esor­tato i concittadini: la Cina è entrata «in una nuova era di sviluppo e progresso»; è ve­nuto il momento di costruire «un Paese ricco, forte, demo­cratico, civilizzato, armonio­so e socialista moderno». Un messaggio destinato anche ol­tre frontiera: i missili inter­continentali che sono transi­tati per piazza Tienanmen so­no interamente costruiti in Patria e hanno, ovviamente, capacità nucleare.
Ma la parata di ieri, spetta­colare, maestosa, chiusa da un crepuscolo illuminato da fuochi artificiali ancora più grandiosi di quelli sparati per le Olimpiadi dell’anno scor­so, non è stata solo un’esibi­zione di muscoli. È stata an­che una festa popolare come piace da quelle parti: con i campioni dello sport e i vo­lontari del terremoto in Si­chuan a ricevere la loro parte di applausi.

Corriere della Sera 2.10.09
Come siamo. Un gruppo di scienziati spiega che la nostra retina funziona (per difesa) come quella dei predatori
Quello sguardo più veloce della mente
Il segreto degli occhi: fanno da sentinella verso tutto ciò che si avvicina
di Margherita De Bac


ROMA — Capita spesso di percepire la presenza di un oggetto o di una persona che si muove verso di noi prima ancora di vederla. Succede all’uomo nelle mil­le situazioni vissute ogni giorno come al topo che de­ve sfuggire al gatto.
Capacità condivisa da tut­ti i mammiferi. Si pensava dipendesse esclusivamente dalla aree visive del cervel­lo. Adesso sappiamo che non è solo così. Il segreto è nella retina, la sottile lami­na nervosa situata sul fon­do dell’occhio e sensibile al­la luce. Qui abitano cellule nervose super specializzate che svolgono una funzione equiparabile a quella di una sentinella. Avvertono imme­diatamente il movimento di cose e persone in avvicina­mento e restano del tutto in­sensibili a tutto ciò che si al­lontana o si sposta lateral­mente.
La scoperta è stata pubbli­cata sulla prestigiosa rivista Nature Neuroscience e por­ta la firma di una squadra in­ternazionale di neuroscien­ziati appartenenti a quattro centri, università di Tubin­gen, Scuola normale supe­riore di Parigi, Friedrich Miescher Institute di Basi­lea e università canadese di Dalhousie. Parliamo di isti­tuzioni di grande prestigio. Quella svizzera ad esempio, diretta dal poco più che 42enne Botond Roska, può contare su un parco biotec­nologico modernissimo cre­ato dall’università e dal­l’azienda Novartis. Geneti­ca, microscopia, elettrofisio­logia.
Enrica Strettoi, primo ri­cercatore dell’Istituto di neu­roscienze del Cnr di Pisa, an­drà il prossimo mese da Ro­ska per stabilire un rappor­to di collaborazione proprio in questo specifico settore.
«E’ uno studio molto inte­ressante — lo commenta con entusiasmo la neurobio­loga —. Combinando una serie di tecniche sofisticate i colleghi sono riusciti a isola­re nei topi una nuova cate­goria di neuroni già noti per una funzione diversa ma non per questa che oltretut­to non si immaginava fosse propria della retina». Si trat­ta appunto di cellule senti­nella che si allertano all’avvi­cinarsi di un oggetto e resta­no invece inattive se si allon­tana o si muove lateralmen­te ». Pensiamo a quanto sia utile una capacità del gene­re agli animali che devono difendersi dai predatori.
«La retina spesso viene considerata solo un sempli­ce filtro che colleziona im­magini e invia segnali desti­nati alla corteccia cerebrale cui spetta elaborarli — spie­ga la Strettoi —.
Invece si è capito che è una vera e propria sezione di cervello situata nella peri­feria del corpo e possiede straordinarie capacità di adattamento e elaborazio­ne. La rete di questi neuro­ni- sentinella era stata de­scritta in parte anche da noi a Pisa in collaborazione col professor Elio Raviola di Harvard. Avevamo dimo­strato che lavorano per tra­smettere segnali in basse condizioni luce».
I quattro gruppi interna­zionali sono andati oltre, scoprendo una seconda mo­dalità di funzionamento del circuito in presenza luce. La stessa «squadra» di neuroni viene riconvertita in modo economico. Come un abito che può essere indossato in inverno o in estate semplice­mente togliendo le mani­che.
Ricadute terapeutiche? Per ora non si intravedono applicazioni immediate per la cura di patologie dell’oc­chio. Dal punto di vista del­la conoscenza invece sono state rivelate qualità igno­te di organo che è forse la parte più conosciuta del sistema nervoso cen­trale. In prospettiva si potrebbe arrivare a correg­gere difetti della percezione del movimento.

Corriere della Sera 2.10.09
Anticipazioni Nel saggio, in uscita in Francia, il pensatore esplora le radici dell’esistenzialismo e il suo impatto sulla nostra epoca
Glucksmann: compito del filosofo scavare il vuoto sotto le certezze
Socrate giganteggia sull’Occidente. Anche sul suo erede Heidegger
di André Gluksmann



Come si comincia a «filosofare»? Consumando i jeans sui banchi del liceo? Pendendo dalla bocca dei professori all’università? Me­ditando sui grandi testi? Frequentando gli autori giusti? Poi cimentandosi da soli nel­la dissertazione? Why not? Solo che questi utili sostegni non garantiscono le menti stracolme contro il vuoto delle lezioni ap­prese. Nessuno può insegnarmi a giudica­re, poiché devo prima giudicare se i consi­gli e i consiglieri sono buoni o cattivi. Se vuoi filosofare, nessuno può pensare al tuo posto. Se vuoi cominciare a pensare, decidi di pensare da te. Questo modo inso­lente di mettere fra parentesi il ricorso alle opinioni già confezionate viene facilmente considerato presuntuoso e soggettivo: per­ché sarei un giudice migliore di altri?
La risposta socratica capovolge la do­manda: perché gli altri, per numero o per età, si sbaglierebbero meno di me? Non si entra nel pensare affermando d’essere il migliore. Non cerchiamo la saggezza per eccellenza, ma per difetto. Scopriamoci sbigottiti come chiunque altro davanti a ciò che sbalordisce e disarma. Per comin­ciare a filosofare, bisogna osare stupirsi, «questo sentimento ( pathos ), cioè il fatto di stupirsi, di meravigliarsi, è caratteristica principale del filosofo, poiché per la filoso­fia non esiste altra origine ( arché , princi­pio), per cui chi ha detto che Iris è figlia di Thaumas non è privo di abilità nel pratica­re la genealogia» (...).
In meno di un secolo, lo sconvolgimen­to europeo si è propagato nell’intero piane­ta in preda all’evaporarsi delle tradizioni, all’incertezza dell’avvenire e alla precarietà accertata dell’esistenza umana. Gli antichi hanno battezzato «peste» un cataclisma fi­sico, politico e mentale che affligge l’insie­me di una società. Questa malattia mortale inaugura l’ Iliade di Omero, riappare nella Tebe di Eschilo, nell’Atene di Tucidide e nell’Italia di Lucrezio. Il Rinascimento, con Boccaccio, Margherita di Navarra e infine Shakespeare, la evoca di nuovo come ele­mento fondatore in cui la letteratura esplo­ra nuovi modi di esistere e di resistere, mentre il vecchio universo crolla senza spe­ranza di ritorno. Kafka, Beckett, Solzheni­tsyn e qualche altro hanno testimoniato si­smi materiali e spirituali altrettanto note­voli. Il merito del giovane Heidegger fu, ne­gli anni Venti, di meditare filosoficamente sull’angoscia che sommergeva l’incipiente XX secolo.
Alla rivoluzione mentale che il nuovo pensiero invocava fu affibbiato un vocabo­lo divenuto ben presto alla moda e come tutte le mode destinato a propagarsi abusi­vamente: «esistenzialismo». Così fu desi­gnata la volontà di staccarsi dai dogmi rite­nuti intangibili di una Belle époque che le grandi potenze europee, nazionaliste e co­loniali, imponevano attraverso le armi e gli animi. Finita la sollecitudine divina che guidava le anime pie e cullava il concerto delle nazioni cristiane! Finita la moda dei determinismi scientifici e laici che inqua­dravano rigidamente l’Universo con leggi chiare e definitive, sottoponendo i cittadi­ni alle regole della ragione e le speranze di ognuno alla saggezza collettiva. Religiosi o liberi pensatori, gli europei perdevano la testa nello stesso momento in cui smarri­vano i propri amuleti. Senza accanirsi nel conservare o ripristinare catechismi in di­suso, l’offensiva esistenzialista si accinse a proprio rischio e pericolo a scavare il gran­de vuoto. In qual modo le opinioni di un pensatore toccano il destino di un’epoca? Solo nella misura in cui esse diventano filo­sofiche, e non più strettamente familiari, sentimentali, corporativistiche o comunita­rie. Nella misura in cui non si limitano a subire la crisi generale, ma si mettono a pensarla. Per cominciare, come dicono i re­ligiosi, bisogna spogliare il vecchio uomo. Demolire, distruggere l’orizzonte di confor­mismo che impedisce di fronteggiare la crisi. Demolire e distruggere diventa ben presto un tema ricorrente nel giovane Hei­degger.
L’idealismo, spesso «neokantia­no », che fino a Heidegger dominava l’uni­versità tedesca, che a sua volta dettava leg­ge in Europa, non escludeva bruscamente eventuali difficoltà, ostacoli, e anche crisi. Il pensiero dominante tuttavia concepiva le contrarietà solo seguendo un ordine su­periore che dava senso a questi ostacoli. Ottimista, esso adottava con imperturbabi­le serietà la promessa, sebbene ironica, del Mefistofele di Goethe: «Sono parte di quel­la forza che vuole sempre il male e sempre fa il bene». Sereno, esso prendeva alla let­tera «l’astuzia della ragione» immaginata da Hegel, secondo cui dal peggio nasce il meglio, o sognata da Marx, secondo cui la storia progredisce «attraverso i suoi aspet­ti negativi» (...).
Il XX secolo diagnostica una crisi delle fondamenta, quando studiosi o semplici cittadini finiscono per vagabondare di qua e di là. La filosofia che nasce e rinasce sce­glie come dimora la crisi più violenta, quel­la che minaccia di sradicare le civiltà. Fede­le a questo scuotimento iniziale, il socrati­smo non prodiga cure palliative o farmaco­pee corroboranti, promette di pensare fi­no in fondo, costi quel che costi, la scossa mentale e di soggiornare in essa senza illu­sioni. Atteggiamento minoritario, questo rifiuto di «vivere nella menzogna» è il filo conduttore di una dissidenza polimorfa che da 2.500 anni anima meditazioni, lette­rature e iniziative il più delle volte solita­rie.
Crisi di ogni genere — sociali, economi­che, istituzionali, internazionali, morali— punteggiano l’attualità. Lo storico le enu­mera. Saggi e specialisti propongono rime­di. Il filosofo socratico le analizza. Non im­putategli la sua diffidenza. Se necessario, egli coopererà — come Montaigne fu sin­daco di Bordeaux e consigliere del futuro Enrico IV — per colmare le lacune immi­nenti. Ma come Montaigne, autore dei Sag­gi , primo filosofo francese, il filosofo socratico non accetta mai di voltare pagina in fretta e furia, occultando i buchi neri che la crisi mette in luce: lavora sulla lun­ga, sulla lunghissima durata.
La peste immaginata da Albert Camus nella sua città, Orano, può pure simboleg­giare la «peste bruna» che sommerge la Germania nazista, ma resta comunque un incidente delimitato da invalicabili barrie­re spaziali e temporali. La città (Orano), il Paese (la Germania dal 1933 al 1945) attra­versano uno stato d’eccezione; il mondo tutt’intorno sfugge a questo cammino ex­tra- ordinario ( Sonderweg ), il pericolo rima­ne all’esterno, fermamente contenuto, co­sì come fu domata nel 1820 l’ultima grande peste, questa sì schiettamente fisiologica, dalle parti di Marsiglia (fucili e batterie di cannoni, un cordone sanitario inviolabile cingevano la regione contaminata). L’opi­nione pubblica costruisce troppo facilmen­te una linea Maginot mentale e considera la crisi un’eccezione alla regola. Ecco come rassicurare senza tanti sforzi. La filosofia, invece, tenta di sondare lo sconvolgimen­to in profondità, nella sua lunga durata, e l’ausculta come crisi della regola stessa. Heidegger, seguendo una simile direzio­ne, si serve abilmente di Kant contro Kant per condurre la propria lotta contro l’ange­lismo neokantiano, e fa un taglio netto con un’adolescenza teologica e cattolica. Infatti, quali che siano le credenze intime di ciascuno, la filosofia lavora senza reti e «senza dio».
(Traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera 2.10.09
Difficoltà per chi studia le atrocità commesse dagli italiani nei Balcani
«Sbloccate il fondo sui crimini di guerra»
In riordino da tre anni le carte all’archivio dell’esercito
di Antonio Carioti



La fredda sigla H-8 cela materiale scot­tante. Così è denominato un fondo, depositato presso l’archivio dell’Uffi­cio storico dello stato maggiore dell’esercito (Ussme), in cui si trovano le carte riguardan­ti i crimini commessi dalle forze d’occupa­zione italiane (soprattutto nei Balcani, ma anche altrove) durante la Seconda guerra mondiale. C’è la documentazione prodotta dai Paesi che chiesero la consegna dei nostri militari accusati di aver compiuto gravi delit­ti e ci sono i dossier raccolti sull’argomento da parte italiana. Alla fine tutto si arenò e nessuno fu punito, ma ovviamente per gli studiosi quel fondo è di estremo interesse.
Solo che al momento non si può consul­tarlo, come ha fatto notare sulla rivista «Ita­lia Contemporanea» lo storico Filippo Focar­di: «Il fondo H-8 è stato utilizzato da Costan­tino Di Sante, per un libro, Italiani senza onore , edito nel 2005 da Ombre Corte. Poi è stato esaminato dalla Commissione parla­mentare che si occupava dell’insabbiamento delle indagini sulle stragi naziste. Quindi è stato messo in riordino e risulta tuttora inac­cessibile. Io dovrei lavorare su quelle carte per una ricerca europea sulla punizione dei criminali di guerra, ma anche altri colleghi sono interessati. Sarebbe molto utile sbloc­care presto la situazione».
Il capo dell’Ussme, colonnello Antonino Zarcone, conferma la circostanza, ma nega recisamente che l’esercito voglia nasconde­re alcunché: «Il nostro scopo principale è agevolare l’attività degli studiosi, tant’è vero che negli ultimi due anni abbiamo raddop­piato gli accessi all’archivio. Il fondo H­8 non aveva inventario e occorreva dargli una logica secondo i canoni della scienza archivi­stica, anche per rispettare le leggi più recen­ti, compresa la normativa per la tutela della privacy. Abbiamo completato l’elenco analiti­co dei documenti e stiamo procedendo al riordino vero e proprio, ma non siamo in grado di fare previsioni sulla data di conclu­sione del lavoro».
Sono circa tre anni che gli storici aspetta­no, come testimonia Costantino Di Sante: «Utilizzai quelle carte per il libro uscito nel 2005 e poi tornai l’anno dopo all’Ussme, per­ché avevo bisogno di consultare l’H-8 per un lavoro successivo, Nei campi di Tito (Ombre Corte): il fondo contiene anche materiale sul­la sorte dei soldati italiani catturati dai parti­giani jugoslavi. Ma l’H-8 era già in riordino e non ho potuto visionarlo. Eppure la docu­mentazione non mi pareva in disordine».
Su questo concorda un’altra studiosa, Ma­ria Teresa Giusti, che ha fotocopiato parte del fondo H-8 nel 2004 per un lavoro che sta preparando, con Elena Aga Rossi, sui milita­ri italiani nei Balcani dopo l’8 settembre: «I fascicoli mi sono sembrati abbastanza ordi­nati, in particolare le relazioni presentate da­gli jugoslavi, suddivise per territorio e tradot­te in italiano: all’Ussme ho visto fondi con­sultabili, ma assai più caotici dell’H-8. Natu­ralmente si tratta di materiale da utilizzare con cautela, inserendo il comportamento delle nostre truppe nel contesto di una guer­riglia particolarmente feroce».
Viene comunque da chiedersi come mai il riordino si prolunghi tanto. Zarcone ri­sponde che i mezzi scarseggiano e gli impe­gni abbondano: «Ci sono fondi ben più vec­chi che sono ancora da riordinare. E dobbia­mo dare la priorità al materiale del periodo 1859-61, in vista delle pubblicazioni ufficiali per il centocinquantenario dell’unità d’Ita­lia. Inoltre mancano le risorse: abbiamo un solo archivista che deve sobbarcarsi tutto il lavoro e non può fare miracoli». L’archivio dell’Ussme merita dunque risorse aggiunti­ve in vista dei 150 anni dello Stato unitario: le forze armate sono un pezzo molto impor­tante della memoria nazionale.



il Riformista 2.10.09
Cgil, chi sta con chi prima del congresso Ds
Epifani muove e vince. Poi lascia a settembre
di Marco Ferrante


Il congresso della Cgil si terrà in primavera. L'organizzazione è mobilitata. Si discute degli scenari congressuali anche alla luce di quello che sta succedendo nel Pd, che sta andando a congresso. La mappa della situazione è più o meno questa. Il segretario Guglielmo Epifani ha una maggioranza sopra il 50 per cento. Salvo eventi imprevedibili, sarà riconfermato per poi gestire la successione che avverrà a settembre.

Epifani in cerca di unità mappa. L'asse Podda-Rinaldini, cioè Fiom e Funzione pubblica, che pensano a un documento comune. Il ruolo della Rocchi e quello della Camusso. Una difficile successione.

Punta a un congresso unitario, ma non è detto che sarà così. Formalmente finora non si è manifestata un'opposizione a Epifani. Nei fatti c'è un asse tra funzione pubblica e metalmeccanici, a cui potrebbero aggiungersi un altro paio di categorie e spezzoni di varia provenienza. Partiamo dalla composizione della segreteria confederale, l'organo esecutivo eletto dal direttivo. In segreteria sono tutti con Epifani, con l'eccezione di Nicoletta Rocchi, origine socialista, lunga storia riformista, iscritta al Pd, capo dei bancari, critica.
Poi ci sono Agostino Megale e Fabrizio Solari, piddini, stanno con il segretario - Solari più tiepidamente - ma sostengono posizioni riformiste inespresse: cioè vorrebbero essere più riformisti, ma sono cauti. Con il segretario anche Paola Aniello, di una componente di sinistra interna della Cgil, "Lavoro e società", attualmente guidata da Nicola Nicolosi - lontana erede di "Essere sindacato", area ex Fausto Bertinotti, ex Gianpaolo Patta - che sostiene Epifani da sinistra. E' una componente che non si riconosce nel Pd, il riferimento esterno è quel che resta di Rifondazione.
I più epifaniani sono Morena Piccinini, non iscritta ad alcun partito, e poi Fulvio Fammoni, e Susanna Camusso, recentemente iscritti al Pd pro-Bersani. Camusso è stata considerata da molti l'erede designata da Epifani, adesso meno.
Se si guarda la composizione per categorie, la situazione è più complicata. C'è un'area di malcontento che contesta alla segreteria di non aver preso una strada precisa, di non aver definito la linea dell'organizzazione e che considera oggi la Cgil incapace di rompere, ma anche incapace di gestire gli accordi. Quest'area di dissenso è organizzata intorno all'asse costituito da Funzione pubblica, guidata da Carlo Podda (iscritto al Pd, sostiene Franceschini perché gli dà maggiori garanzie di cambiamento), e Fiom guidata da Gianni Rinaldini non iscritto ad alcun partito (tra i metalmeccanici c'è anche una piccola minoranza interna epifaniana guidata da Fausto Durante).
Che cosa tiene insieme quest'asse? «A parte la pazienza di Podda», come dice una persona vicina alle parti, c'è una convergenza su tre temi: il primo è quello della semplificazione contrattuale (tre contratti, uno per i servizi, uno l'industria e uno per il pubblico impiego, una idea che risale a Bruno Trentin), il secondo punto è quello della cosiddetta unificazione dei rapporti di lavoro (cioè sostanzialmente il tema del contratto unico, posto dal Riformista con un'inchiesta di Tonia Mastrobuoni) e, infine, la questione democrazia e rappresentanza, resa particolarmente sentita dopo la discussione sull'accordo con Confindustria e governo sottoscritto da tutte le sigle ma non dalla Cgil.
La maggioranza epifaniana crede che al dunque Fiom e Funzione pubblica - su cui già gravano le diffidenze, sull'una perché viziata di aristocratismo operaio, sull'altra accusata di aver malgestito le relazioni con Brunetta - avranno difficoltà a stendere un documento comune. Si vedrà, intanto per il momento la base di proposta di Fiom e Funzione pubblica potrebbe attrarre anche i bancari guidati da Nicoletta Rocchi, qualcuno dice - forse - pezzi dei trasporti, e alcune camere del lavoro, cioè le strutture provinciali della Cgil. Il resto degli organismi locali sta con Epifani. Nell'area del dissenso rispetto alla segreteria bisogna contare anche i cosiddetti ex-cofferatiani - area Marigia Maolucci e Mauro Guzzonato - che tali sono rimasti e che fanno riferimento a Franceschini nella battaglia per il Pd.
Dicono alcuni osservatori che questo gruppo di forze ritiene che Epifani difficilmente potrebbe accettare di condividerne l'impostazione sostanzialmente per due ragioni. La prima: c'è un gruppo dirigente che di base la pensa in un altro modo (da Panini, a Megale a Camusso), è più cauto sul confronto, ritiene che sarebbe più prudente evitare questi temi nel dibattito sindacale. La seconda ragione: una parte della maggioranza epifaniana, dopotutto, vorrebbe fare la conta, ma restando all'ombra del segretario e senza scendere su un terreno politico. Del resto, anche qualcuno degli epifaniani ritiene che Podda e gli altri vorrebbero contarsi per condizionare la corsa alla segreteria.
In tutto ciò, se non altro per una questione di tempistica - il congresso del partito precede quello del sindacato - giocherà un suo ruolo anche la vicenda Pd. La questione del rapporto tra Cgil e partiti è interessante. Un tempo nella Cgil c'era un'area socialista e una comunista. Questo semplificava le cose. Negli ultimi anni, dal 2001 con la sconfitta elettorale del centrosinistra e il congresso di Pesaro da cui partì la trasformazione dei Ds, la gente non si è più iscritta ai partiti della scomposizione a sinistra. Adesso hanno ripreso: c'è una piccola area di Rifondazione; la Fiom che sta tra Rifondazione e Sinistra e libertà; il resto, la maggioranza, che sta con il Pd, quasi tutti con Bersani. Epifani non si è ancora pronunciato. Dei leader, con Franceschini c'è solo Podda, che alcuni giudicano la mente più politica dell'organizzazione, e poi Maolucci e Guzzonato. Questa piccola pattuglia cgiellina si ritrova dalla parte di Franceschini assieme con tutta la Cisl, tutta la Uil, e tutti gli uomini che hanno lasciato il sindacato, Cgil compresa. Perché una spaccatura così netta? Alcuni in Cgil pensano che il fallimento del tentativo di Walter Veltroni, cioè l'idea di un partito democratico fondativo - che avrebbe dato un peso maggiore all'unità del lavoro e dei sindacati - ha riaperto la questione della divisione sindacale nel Pd. Anche per questo Cisl e Uil sono con Franceschini e la maggior parte degli uomini Cgil stanno con Bersani.
Piccola osservazione aggiuntiva: quasi tutti gli ex sindacalisti passati nel Pd sono con Franceschini, ma non è detto che se fossero ancora in Cgil, sarebbero contro Epifani. Paolo Nerozzi starebe contro, per esempio, ma probabilmente Achille Passoni no. Difficile dire quanto gli ex pesino ancora nell'organizzazione, ma l'impossibilità di fotocopiare la posizione nel Pd su quella Cgil, va tenuta in considerazione.
Accanto alle reciproche influenze con il congresso cugino, nella partita conteranno - dicono gli insider - altre due questioni: la complessa catena dei rapporti con il governo e Confindustria, e lo svolgimento di un paio di trattative per gli accordi di categoria.
Da una parte c'è un'area del governo e della maggioranza culturalmente guidata da Maurizio Sacconi che punta a isolare la Cgil e che preferisce l'interlocuzione con la Cisl. La ragione di questa preferenza è storica. E affonda le sue radici nello scontro tra il governo riformista di Bettino Craxi e la Cgil sul punto unico di scala mobile, scontro vinto dai socialisti.
Posizione diversa è quella del più politico dei ministri del governo Berlusconi, del leader che punta a darsi una fisionomia da leader, Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia cerca il dialogo con la Cgil innanzitutto perché ritiene che il principale sindacato italiano non debba essere escluso dal tavolo con le parti sociali in un anno in cui lo strascico della crisi economica morderà l'occupazione; in secondo luogo, da molti mesi Tremonti cerca il dialogo a sinistra. Siccome Epifani ha interesse a uscire dall'angolo ha invitato Tremonti alla conferenza programmatica della Cgil e successivamente ha visto Emma Marcegaglia a Cernobbio. Subito dopo lo scioglimento del ghiaccio con il capo degli industriali c'è stata la conclusione positiva della trattativa per il rinnovo del contratto degli alimentaristi, unitario, considerato la prova generale per rientare al tavolo della riforma della contrattazione, perché di fatto applica le regole dell'accordo di gennaio.
L'organizzazione è divisa sulle prospettive del dialogo. I contratti in discussione nei prossimi giorni potrebbero contribuire a orientare il congresso. Il contratto dei meccanici può influenzare il rapporto con Confindustria, Cisl e Uil, perché c'è la posizione radicale della Fiom, cioè la classe operaia in purezza. Di contro potrebbe avere un peso in direzione unitaria il contratto delle tlc, e in seguito quello dei tessili di Valeria Fedeli e dei chimici di Alberto Morselli, storicamente le due categorie più riformiste.
La casa madre terrà conto delle indicazioni che arriveranno. Da qui al congresso il capo della Cgil cercherà di giocare le sue carte per dare un segno alla sua segreteria. Ha rinunciato al grande accordo generale alla riforma dei contratti che lui stesso aveva avviato nel 2008, ora cercherà di spingere verso contratti unitari, e aggiornare l'accordo separato. Dovrà circoscrivere - ma accettare - la sfida che arriva dalla minoranza e ricostruire un rapporto con il governo dal quale si aspetterebbe però un segnale, sul fisco da Tremonti per esempio, ma certo lo scudo lo ha deluso. L'obiettivo di Epifani - che deve anche trovare un successore, in assenza di grandi personalità - è duplice: difendere una linea culturale e politica di sindacato unitario e proteggere il sindacato dal rischio di una spaccatura degli apparati in una fase di crisi economica e sociale, che allargherebbe il divario tra l'organizzazione e il mondo del lavoro.


il Riformista 2.10.09
Suad Amiry: «Se non ce la fa neanche Obama, addio Palestina»
A colloquio con la scrittrice-architetto di Damasco. Il dramma del muro di Israele ha ispirato il suo ultimo "Murad Murad" (Feltrinelli). «Così ora le donne del mio Paese hanno meno libertà».
di Antonello Guerrera


Il muro, ieri ed oggi. Se vent'anni fa cadeva quello berlinese, oggi quello innalzato sui confini di Israele miete ancora vittime. Fisiche, ma anche di carattere mentale e culturale tra israeliani e palestinesi. Che, con questa nuova barriera, dialogano sempre meno. Parte da questa profonda lacerazione Murad Murad (pp. 178, euro 14,50), il nuovo libro di Suad Amiry, architetto, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, ma soprattutto scrittrice palestinese che già con Sharon e mia suocera e Niente sesso in città aveva spopolato in Italia grazie a Feltrinelli, oltre ad aver vinto nel 2004 il premio Viareggio. E se nei precendenti lavori i leitmotiv erano l'occupazione militare e gli stereotipi delle donne a Ramallah e dintorni, oggi è il muro a scatenare un diario di bordo tragico, ma dall'immancabile humor, nero e tagliente. In Murad Murad, l'Amiry si traveste da uomo e descrive l'odissea dei palestinesi che lavorano clandestinamente in Israele per guadagnare qualche spicciolo in più. Ma per farlo, bisogna superare il confine di notte, evitando i posti di blocco israeliani. Rischiando così la morte, nonostante supportino, anche se in nero, l'economia israeliana. Suad ha iniziato con la tappa di ieri a Roma un tour italiano per presentare Murad Murad. Il Riformista ha colto l'occasione per conversare con la scrittrice. Sul libro e, ovviamente, sul terribile limbo nel quale israeliani e palestinesi galleggiano da troppo tempo.
Suad, lei era già un famoso architetto, ma da diversi anni pubblica anche libri di successo internazionale. Qual'è stata la scintilla della sua ultima opera?
Il muro prima di tutto. Se la memoria comune palestinese era rappresentata nel 1948 da altre turpi figure, come le espulsioni o gli infiniti coprifuoco, oggi l'incubo di massa è il muro. Una scelta drammatica e assolutamente illogica: Israele dice che è per la sicurezza, ma in realtà copre solo il 20 per cento dei suoi confini. Le conseguenze sono tremende, soprattutto a livello mentale. Così gli israeliani si separano da noi palestinesi e da tutto il Medio Oriente: da una parte dicono di volerne essere parte, ma dall'altra attuano mosse simili, del genere "non vogliamo vedervi". Questo mi ha spinto a scrivere Murad Murad. All'inizio avevo pensato a rendere protagonisti del libro gli animali, perché nessuno si rende conto di quanto questo muro faccia male, oltre che alle persone, agli animali, alla natura e all'ambiente. Ma sarebbe stato troppo difficile.
Quanta verità e quanta fiction c'è nel libro?
Murad Murad si compone quasi esclusivamente di storie vere. Tanto che le ho vissute in prima persona, le abbiamo anche filmate. Tutto parte da una sera nella quale Murad (personaggio del libro, ndr) ha cominciato a raccontarmi la tragedia dei lavoratori palestinesi clandestini in Israele. Storie incredibili che riflettono il dramma di molti altri immigrati che vedono l'Eldorado nell'Occidente.
A questo proposito, lei è un'attivista per i diritti civili dei palestinesi e dal 1991 al 1993 è stata anche membro della delegazione di pace a Washington. Alla luce dei recenti negoziati falliti tra Israele e Palestina, ha rivisto il brutto film di circa venti anni fa? Non pensa che lo stallo dei negoziati sia colpa anche dei palestinesi?
Il problema è che Israele non vuole fermarsi ed occupa sempre più terra. Il cuore, per tutto quello che i palestinesi hanno subito sinora, mi direbbe di non scendere a patti. Ma in queste faccende bisogna anestetizzare il cuore. Solo così si può dire: «Ok, facciamo due stati e finiamola qui». Ma gli israeliani vogliono avere la botte piena e la moglie ubriaca e vanno avanti per la loro strada. Ma ho speranza, perché, prima o poi, ogni occupazione finisce su questo pianeta. E i palestinesi hanno più supporto oggi nel mondo che 20 anni fa.
Supporto che però troppo spesso sfocia in azioni di boicottaggio nei confronti di Israele, anche nell'ambito di manifestazioni culturali - come le recenti Toronto ed Edinburgo, o la precedente Fiera del Libro di Torino - che, anzi, dovrebbero aprire al dialogo.
Le cose non stanno proprio così. A Torino, e io c'ero, si celebravano i 60 anni di Israele, ossia 60 anni che io sono stata cacciata fuori di casa. La stessa cosa è accaduta a Toronto. Il problema sono i titoli o i motti di certe manifestazioni, non lo scambio culturale, ci mancherebbe. E poi i più grandi registi israeliani sono a favore della causa palestinese. I boicottaggi, al contrario, nascono perché Israele non rispetta le leggi internazionali e non ascolta l'altro punto di vista, ultimo il rapporto Goldstone. Se l'Onu non si muove, tocca a noi smuovere le acque.
Nemmeno l'Obama post discorso al Cairo può nulla, secondo lei?
Obama è il mondo che dovrebbe esistere, la sua biografia dimostra che lui è la rappresentazione della complessità delle identità. È quello che ci vuole, in teoria. Ma in pratica non basta. Lo rispetto molto, ma purtroppo si deve scontrare con altri poteri troppo forti. Come ha incontrato difficoltà per la riforma sanitaria, sarà lo stesso per la questione palestinese. Vedremo. Certo, per noi palestinesi Obama è l'ultima speranza. Se fallisce anche lui, potremo dire definitivamente addio alle speranze di avere uno Stato tutto nostro.
Con "Niente sesso in città", lei è stata l'autrice del "Sex and the City" palestinese. Come giudica la condizione delle donne oggi nel suo Paese?
Diciamo che, sfortunatamente, le donne non hanno ancora il giusto spazio neanche nei paesi occidentali, vedi la penuria femminile al G8. Ma quando c'è povertà, come oggi in Palestina, è sempre la donna che soffre, perché l'uomo diventa automaticamente l'unica fonte di guadagno, come Murad nel mio libro. Oggi in Palestina la condizione delle donne è a tratti più difficile che in passato, perché tra checkpoint e rappresaglie le famiglie hanno paura di far affrontare il mondo alle proprie ragazze. Così non le mandano più a scuola, l'età matrimoniale scende sempre di più e si ritorna al passato. Poi, va beh, con Hamas è altra storia. Sono fondamentalisti, vogliono stabilire un modello islamico che penalizza la donna. Ma la popolazione di Gaza si è già ribellata a tutto questo e gli estremisti hanno, per ora, ceduto.
Ha saputo delle polemiche italiane sull'immagine della donna in tv e non solo?
Sì e guardi...preferisco sbrigare la questione con un bel "no comment".

l’Unità 2.10.09
Macché Lucy, e Ardi la nostra antenata
di Cristiana Pulcinelli


Scoperte Era una femmina di Ardipithecus ramidus, nata un milione di anni prima di Lucy e viveva in Africa grosso modo 4,4 milioni di anni fa: di lei è stato rinvenuto uno scheletro abbastanza completo

La caratteristica. È una sorta di mosaico con tratti sia dei primati che degli ominidi
Ardi era una femmina. Era alta 120 centimetri e pesava circa 50 chili. Viveva in quella che oggi chiamiamo Etiopia grosso modo 4,4 milioni di anni fa. Oggi di lei resta uno scheletro quasi completo e ben conservato: c’è una buona parte del cranio, i denti, le mani, i piedi, gli arti e il bacino. Il ritrovamento dei suoi resti fossili ha permesso agli scienziati di fornire la prima descrizione accurata della specie cui apparteneva, l’Ardipithecus ramidus. «Erano stati trovati altri resti di ominini (la sottofamiglia zoologica che comprende tutti i nostri antenati dopo la separazione della linea evolutiva umana dallo scimpanzé, ndr) anche più antichi di questo spiega Olga Rickards, docente di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma comprese alcune parti di un Ardipithecus kadabba risalente a oltre 5 milioni di anni fa. Ma finora si trattava di pochi pezzi, frammentati e molto mal conservati». Invece di Ardi si è trovato molto e, soprattutto, parti anatomiche importanti: «Il bacino, ad esempio, permette di capire l’andatura e la stazione dell’ominino», spiega Rickards. Così la sua scoperta è un passo importante per la ricostruzione della storia evolutiva dell’uomo. Tanto che la rivista Science le dedica la copertina del numero che esce oggi e uno speciale con 11 articoli. Il principale autore della scoperta è Tim White dell’università della California, ma nel complesso allo studio dei fossili (che è durato ben 17 anni) hanno partecipato 47 scienziati provenienti da diverse parti del mondo.
La cosa che rende Ardi tanto interessante è la sua veneranda età: è più vecchia di Lucy, l’esemplare di Australopithecus afarensis scoperto nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso e famosa in tutto il mondo. Anche Lucy veniva dall’Etiopia e anche Lucy era una femmina. Più piccola di Ardi: era alta poco più di un metro e pesava tra i 29 e i 45 chili. Anche il suo scheletro era quasi completo: se ne trovò il 40%, un fatto eccezionale che permise ai paleoantropologi di scoprire molte cose sull’evoluzione umana. Finora Lucy era considerata l’essere più vicino a quello che si sta cercando da
anni: l’antenato comune tra noi e lo scimpanzé. Ma ora è arrivata Ardi a contenderle il posto. Già, perché la ragazza ha, rispetto a Lucy, un milione di primavere
in più sulle spalle. Per la verità, Ardi non è l’unico esemplare di Ardipithecus su cui hanno potuto lavorare i ricercatori. Insieme al suo scheletro sono stati trovati i resti di almeno altri 36 individui tra maschi, femmine e bambini. Anche se l’Ardipithecus ramidus non è l’antenato comune tra esseri umani e scimpanzé, avvertono gli scienziati, ci siamo molto vicini. Si ritiene infatti che la specie da cui si sono evoluti gli ominidi ma anche le scimmie antropomorfe a noi più vicine sia vissuto all’incirca 6 milioni di anni fa. L’Ardipithecus è arrivato un milione e mezzo di anni dopo, un tempo abbastanza corto dal punto di vista dell’evoluzione, per mantenere ancora alcune caratteristiche del predecessore comune. Ardi, dicono i paleoantropologi, è una sorta di mosaico con tratti primitivi, simili a quelli dei primati del miocene, e tratti simili a quelli che si trovano negli ominidi successivi.
«L’Ardipithecus è così pieno di sorprese anatomiche scrivono gli autori di uno degli articoli che nessuno avrebbe potuto immaginarlo». Un particolare che ha stupito i ricercatori è il fatto che questo nostro antenato sia diventato bipede modificando la struttura del bacino ma senza abbandonare l’alluce prensile che veniva utilizzato dai primati per arrampicarsi sugli alberi. L’interessante è che l’Ardipithecus sembra smentire un’ipotesi finora molto diffusa secondo cui le attuali scimmie antropomorfe avrebbero mantenuto molti tratti che si pensa appartenessero all’antenato comune. Ardi non era simile alle scimmie antropomorfe attuali. Viveva in un ambiente arboricolo e sapeva arrampicarsi sugli alberi usando tutti e quattro gli arti, ma sapeva anche deambulare su due gambe. Non camminava appoggiandosi sulle nocche delle mani né passava molto tempo dondolandosi dai rami come fanno oggi gli scimpanzé. Anche se il suo cervello era piccolo, più piccolo di quello di Lucy, il cammino verso la nascita dell’uomo si era già avviato.

Liberazione 1.9.09
Operazione-verità della Cgil. Roma, sabato in piazza con i precari anche SdL e RdB
La scuola della Gelmini: niente fondi e 57mila posti di lavoro tagliati
di Roberto Farneti


Altro che semplice «razionalizzazione», come è stata provocatoriamente definita da Mariastella Gelmini. I tagli alla scuola pubblica decisi dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti e avallati dal ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca sono la causa dello "tsunami" che si è abbattuto su tutti gli istituti di ordine e grado con il recente avvio del nuovo anno scolastico e che sta già provocando seri danni in parecchie zone del Paese, soprattutto in quelle situazioni dove la mancanza di risorse è tale da imporre risparmi a scapito della qualità degli studi.
A ristabilire la verità sulla condizione «deformata» della scuola italiana, contraddicendo le «mistificazioni» della ministra, è la Flc Cgil, che ieri a Roma ha presentato un dossier ricco di numeri e di esempi concreti. La prima questione, la più spinosa, è quella dell'occupazione. Mentre gli studenti iscritti sono in continua crescita (a settembre erano quasi 8mila in più rispetto all'anno scorso ) «nell'anno scolastico appena iniziato sono stati tagliati 42.104 docenti e 15.167 Ata per un totale di 57.271 unità: è il taglio di personale più pesante mai realizzato», sottolinea con voce ferma Mimmo Pantaleo, segretario nazionale Flc-Cgil.
Inoltre saranno oltre 18 mila i docenti e 7mila gli ausiliari precari che non avranno più lavoro: 25mila licenziamenti contro i 12mila di cui parla Gelmini. Iinfatti, ai fini del calcolo, non si può utilizzare - come fa la ministra - il semplice saldo tra i tagli e i pensionamenti, perché di fatto il personale di ruolo in sovrappiù verrà utilizzato per coprire i posti fino all'anno scorso coperti dai precari. Questo quindi comporterà una riduzione dei posti disponibili. «Il governo non può dire di voler risolvere il problema dei precari se tramite i suoi provvedimenti li ha licenziati», osserva Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil.
C'è poi il problema delle risorse. «I bilanci delle scuole - accusa la Cgil - sono stati privati dei fondi per il funzionamento didattico e amministrativo, cioè per i bisogni quotidiani, dal materiale didattico per i laboratori e le biblioteche al materiale per le pulizie». Nelle scuole non ci sono i soldi per pagare i supplenti, mentre la mancanza di collaboratori scolastici ha costretto tre istituti della provincia di Pisa a ridurre l'orario delle lezioni. Le famiglie che hanno richiesto il tempo pieno o saranno costrette a rinunciarvi («a Bologna è rimasta inevasa la richiesta di 57 classi di tempo pieno in più rispetto all'anno scorso») o dovranno accontentarsi di "parcheggiare" i figli in classi private delle attività formative tipiche del tempo pieno. «La mancanza di fondi - si legge nel dossier - impedisce anche la messa in sicurezza dell'edilizia scolastica».
Per tutte queste ragioni la Flc Cgil sta preparando nuove iniziative di contrasto alla politica del governo e parteciperà al corteo dei precari di sabato prossimo a Roma, con partenza alle ore 15.00 da Piazza dei Cinquecento e arrivo a viale Trastevere davanti alla sede del MIUR.
In piazza con i precari ci saranno anche i sindacati SdL Intercategoriale e RdB, impegnati nella costruzione dello sciopero generale nazionale indetto dal Patto di Base per il 23 ottobre. Secondo SdL e RdB, quella del governo sulla scuola «è un'operazione che, oltre ad offendere la dignità e la professionalità dei docenti, lede gli stessi principi costituzionali che garantiscono ai cittadini tutti un'istruzione pubblica di qualità».

Liberazione 1.9.09
Sun Yuxi Rappresentante della Repubblica popolare cinese in Italia
«La Cina non sarà una superpotenza. Crescita unica arma contro la povertà»
di Simonetta Cossu


1 ottobre 2009, sono passati 60 anni dalla nascita della Repubblica popolare. Quali sono stati, secondo lei, i passaggi fondamentali di questa storia?
Oggi celebriamo la fondazione della Repubblica popolare cinese ed è, anche per noi, una occasione per esaminare questi 60 anni di storia e il processo che ci ha portato dove siamo. Come lei sa prima della fondazione della Repubblica popolare la Cina è stata vittima di un lungo periodo, quasi cent'anni, di guerre. Proprio per questo credo che bisogna dividere gli ultimi 60 anni in due grandi periodi. Nei primi trent'anni la principale preoccupazione della Cina fu di come conservare l'indipendenza e la sovranità dello Stato. Eravamo in un periodo ostile: c'era la guerra fredda, assistemmo al deterioramento dei rapporti con l'Unione Sovietica, la presenza degli Stati Uniti nell'area asiatica era massiccia, in Corea e in Indocina. Eravamo circondati da problemi politici. L'obiettivo fu quindi quello di trovare un modo sostenibile per permettere alla Cina di svilupparsi. La seconda parte, o sarebbe meglio dire gli ultimi 30 anni, si possono meglio descrivere con le parole d'ordine che ci demmo: apertura e riforme. Nei primi trent'anni il leader principale fu Mao, negli ultimi trent'anni è stato Deng che prese il commando ed avviò quella politica di apertura e di riforme che poi i leader che lo hanno seguito hanno proseguito. L'obiettivo era ed è quello di proteggere gli interessi base della maggioranza della popolazione. Il mondo è cambiato parecchio e oggi uno dei nostri obiettivi principali è lo sviluppo economico. E' questo l'unico modo per migliorare le condizioni di vita delle persone e anche per inalzare la Cina da una condizione di povertà e arretratezza in una nazione, non posso dire ricca, ma in una condizione di benessere. In questi ultimi 30 anni inoltre abbiamo investito molto in una migliore integrazione e cooperazione con il resto del mondo, non solo politicamente ma anche a livello economico.

All'Onu si è tenuto recentemente un importate vertice sul clima. Come pensate di coniugare la crescita economica cinese con la crisi ambientale?
Il governo cinese dà molta importanza al tema dei cambiamenti climatici. La Terra è una sola e tutti noi dipendiamo da essa e va protetta. Il governo cinese ha per questo un ministero per la protezione ambientale. L'assemblea popolare ha recentemente votato molte normative. Numerose imprese che non rispettavano le leggi sono state chiuse e le nuove devono rispettare rigidamente le norme. La crescita economica deve tenere conto dell'ambiente per garantire migliori condizioni di vita per tutti. Per questo il governo cinese ritiene determinante la collaborazione globale sul tema. Sebbene ci siano i confini tra le nazioni, l'atmosfera e l'aria che respiriamo non li rispettano, è la stessa per tutti. Noi facciamo il nostro sforzo, ma i paesi già sviluppati, come gli Stati Uniti, che è il principale produttore di gas serra del mondo, devono dare sostegno ai paesi in via di sviluppo. Lo possono fare in due modi: fornendo aiuti finanziari o tecnologie nuove a basso costo, se non gratis. Se non viene permesso ai paesi in via sviluppo di crescere e migliorare le loro condizioni di vita, la questione ambientale per loro diventa irrilevante.

Viviamo in un tempo di crisi. La crescita cinese, pur restando in positivo (+8%), non permette però al sistema economico di svilupparsi sufficientemente per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. Anche la Cina rischia una crisi sociale esplosiva. Come intende il governo di Pechino affrontare questo problema?
Questa crisi sta avendo nel nostro paese un forte impatto nel settori dell'export. Numerose imprese sono fallite e le ripercussione sul mondo del lavoro sono state forti. Per affrontare questa crisi il governo ha varato numerosi programmi di aiuti e finanziamenti per stimolare la domanda interna, ma c'è un limite a questa. Per adesso la situazione è abbastanza tranquilla. La crisi finanziaria nei paesi occidentali si potrebbe definire una crisi di fiducia e questa sicuramente non manca in Cina. Grazie alle manovre anticrisi del governo oggi la domanda interna è di nuovo in crescita e la fiducia nel sistema finanziario cinese resta alto anche grazie alle grandi riserve monetarie dello Stato. Questo però non significa che non ci siano problemi. Noi contiamo su una ripresa mondiale da metà del 2010, se non ci sarà anche la nostra economia potrebbe subire delle conseguenze. La Cina ha avanzato numerose proposte ai diversi incontri internazionali dove non solo abbiamo avanzato delle idee. Essendo anche molto pragmatici abbiamo inviato numerose delegazioni nel mondo con lo scopo di fare acquisizioni per risollevare l'economia locale e così di conseguenza stimolare quella mondiale perchè se oggi in Cina non ci sono problemi, per il futuro i rischi di una crisi sociale sono evidenti.

Recentemente Pechino ha dato il via ad una serie di iniziative monetarie al fine di avviare scambi in remimbi (moneta cinese ndr) con i vostri partner commerciali regionali, Non temete che questa decisione deprima ulteriormente il dollaro, al quale la vostra moneta è agganciata?
Non sono un esperto in materia ma credo che il nostro obiettivo è rendere il remimbi una moneta al pari delle altre e per ottenere questo ci vorrà tempo. Credo che però che siamo più interessati alla stabilità delle monete, sia del remimbi che delle altre, non posso dare un tempo per il libero scambio ma credo che va realizzato tenendo presente le condizioni globali.

Se ne parla poco, soprattutto in occidente, ma la Shanghai cooperation organization, meglio nota come Sco sta crescendo e moltiplicando i suoi membri. Come definirebbe gli scopi e gli obbiettivi di questa organizzazione?
Lo Sco è nata come organizzazione degli Stati limitrofi alla Cina per garantire sicurezza e cooperazione tra di loro. La cooperazione dentro lo Sco è in espansione ed interessa il livello economico e culturale dei paesi membri. E' una organizzazione aperta....

Qualcuno dice che sta assomigliando ad una organizzazione che farebbe da contraltare alla Nato...
Questa è disinformazione e sbagliano. L'obiettivo principale dello Sco oggi è la cooperazione economica. E' una organizzazione aperta e trasparente, tra i membri non è prevista una alleanza militare. Altri paesi confinanti con i paesi già membri dello Sco hanno deciso di inviare osservatori ai summit dei paesi membri, tra questi c'è anche l'Afghanistan e l'Iran...

E' di questi giorni la chiusura del Tibet ai turisti, una decisione presa in concomitanza con le celebrazioni del 1° ottobre. Crede che sia possibile trovare un via di dialogo per risolvere il caso?
Voglio ricordare che il Dalai Lama non è un rappresentante del popolo tibetano, ma è il rappresentante di forze separatiste. La posizione del governo cinese rispetto alla questione tibetana è chiara: lo sviluppo del Tibet fa parte di quello della Cina e in Tibet non esiste un problema Tibet. Quindi esiste solo un problema Dalai Lama nel caso in cui lui e i suoi seguaci abbandonino la causa separatista e decidano di tornare. Questo è il problema che dobbiamo affrontare. Non c'è nessun bisogno di discutere l'attualità del Tibet: è parte integrante della Cina e questo non può essere messo in discussione. Le manovre di sicurezza di oggi sono state prese in considerazione del fatto che sono attesi molti ospiti e visitatori in occasione delle celebrazioni. Le misure sono state adottate onde evitare che elementi estremisti entrassero in Tibet per fomentare la rivolta. E' una decisione assolutamente temporanea per garantire la sicurezza.

Come vede la Cina fra trent'anni?
La Cina deve mantenere il suo ritmo di sviluppo e non diverrà una superpotenza. Nel passato le superpotenze lavoravano a mantenere il loro potere ma la nostra opinione è quella che bisogna convivere con tutte le altre nazioni. La nostra prima missione è aiutare gli altri paesi in via di sviluppo a crescere ed arricchirsi insieme a noi. Non ripeteremo quello che è accaduto in passato. l'obiettivo cinese è costruire un solido rapporto di cooperazione con i paesi dell'Asia, del Sud America e dell'Africa al fine di costruire un equilibrio globale, un mondo armonioso.

il Riformista 2.9.09
Verso la piazza
Escalation. Di Pietro e De Magistris si contendono la guida della formazione giustizialista e per questo non si fermano neanche davanti al presidente della Repubblica.
di Sonia Oranges
«Era dai tempi di Mussolini che un governo italiano non interferiva con i media in maniera così lampante e allarmante. I giornalisti, e gli altri italiani, hanno tutte le ragioni per protestare»: è l'"endorsement" dell'"Economist", oggi in edicola, per la manifestazione indetta dalla Fnsi per domani in difesa della libertà d'informazione. E che ieri è stata spiegata in una conferenza stampa dai vertici della Federazione nazionale della Stampa. Di certo, dal palco di piazza del Popolo interverranno il segretario Fnsi Franco Siddi, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, lo scrittore Roberto Saviano, un rappresentante di Articolo 21, una voce della Cgil, una precaria della scuola (visto che domani mattina in strada ci saranno anche i cortei di protesta della scuola), guidati dal conduttore Andrea Vianello di Raitre. E, almeno secondo quanto deciso sin qui, non ci saranno i politici. «Abbiamo chiesto ai partiti di rispettare il carattere di manifestazione autonoma, anche se non ci appartiene il qualunquismo antipartiti - ha spiegato il presidente Fnsi Roberto Natale - Sarà una manifestazione serissima, altro che farsa! E piazza del Popolo darà una risposta anche al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e alla maniera offensiva con la quale ha giudicato questa iniziativa e ha parlato dei giornalisti in termini di troppi farabutti».
Certo, c'è chi fa i distinguo. La Cisl non andrà in piazza, e nemmeno i radicali. Pure Cesare Salvi non ci sarà, ma perché «si sposa la figlia di un amico». Ma altrimenti ci sarebbe andato? Risponde ni: «La libertà di stampa necessita di una battaglia più ampia, non basta portare in piazza gli striscioni per garantire Raitre come appannaggio del Pd. Perché anche in quella rete alcuni punti di vista non trovano spazio. Insomma, la piattaforma andrebbe estesa». Eppure la piattaforma della protesta è lunga come una quaresima, a dimostrazione dell'«aria pesante per l'informazione» denunciata da Natale: «Dal ddl sulle intercettazioni, ai giornali chiamati davanti al magistrato a rispondere di ciò che scrivono, all'operazione contro "Avvenire" che ha portato alle dimissioni del direttore Dino Boffo, all'appello del presidente del Consiglio agli imprenditori affinché non investino in pubblicità nei giornali "catastrofisti"». E poi c'è chi, come la pattuglia di "Left", il settimanale diretto da Donatella Coccoli, che al contrario ritiene che in piazza ci si doveva andare addirittura prima (e che domani distribuirà un numero speciale), «anche se l'importante ora è manifestare».


giovedì 1 ottobre 2009

Repubblica 1.10.09
La manifestazione
Saviano in piazza a Roma. La Fnsi: il premier ci offende
di Vladimiro Polchi


L´Express: Berlusconi divorzia dalla Chiesa

ROMA - Roberto Saviano in piazza per la libertà di stampa. Anche l´autore di "Gomorra" sarà presente alla manifestazione indetta dalla Fnsi (Federazione nazionale della stampa) per sabato alle 15.30 in piazza del Popolo a Roma. E con lui, molte sono le adesioni arrivate nelle ultime ore: l´ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, il cantautore Samuele Bersani, la Fim-Cisl di Torino, il Sindacato nazionale dei giornalisti cinematografici, la redazione di Internazionale, il Pcl di Marco Ferrando, l´Osservatorio sulla legalità e sui diritti, il Cdr del Nuovo Quotidiano di Puglia, Donne in nero e i Cristiano-sociali. Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza sarà in piazza perché «è necessario che cittadini e organizzazioni della società civile si mobilitino: la libertà di stampa è davvero a rischio». Continua poi l´impegno in prima fila di Articolo 21 in vista della manifestazione di sabato. Non solo. Il corteo nazionale dei precari della scuola, che partirà alle 14.30 da piazza Esedra, confluirà alla fine in piazza del Popolo. E ancora: sono già cinquanta i pullman toscani organizzati dalla Cgil, che andranno a Roma per partecipare alla manifestazione.
La Fnsi replica intanto alle recenti dichiarazioni del premier: «Quando parla dell´informazione, il presidente del Consiglio troppo spesso non riesce a trattenersi dall´offendere. Dopo aver dato dei "farabutti" a gran parte dei giornalisti, oggi liquida come una "farsa" la manifestazione. La risposta gliela daranno sabato le decine di migliaia di cittadini che riempiranno piazza del Popolo e gli altri che si mobiliteranno in contemporanea in altre città italiane ed europee per iniziative analoghe. Nessuno di loro pensa che ci sia da scherzare sugli attacchi che vengono portati all´articolo 21 della Costituzione». Le modalità della manifestazione e i nomi degli esponenti del giornalismo, della cultura, dello spettacolo, della società civile che saliranno sul palco saranno dati in una conferenza stampa oggi nella sede della Fnsi.
La stampa estera continua ad occuparsi del premier italiano. Il settimanale francese L´Express dedica un lungo articolo ai rapporti tra governo di centrodestra e Vaticano. Il servizio, intitolato "Berlusconi e la Chiesa: divorzio all´italiana", sostiene che «dopo le scappatelle del Cavaliere, le relazioni tra presidente del Consiglio e gerarchia cattolica si sono deteriorate». Quindi passa ad analizzare le strategie della Santa Sede in vista del dopo Berlusconi.

il Riformista 1.10.09
Libertà di stampa in piazza. E la Cgil ne porta 50mila
Mobilitazione. Pullman, treni e navi del sindacato per la manifestazione del 3 ottobre sull'informazione. Ci saranno anche i precari anti-Gelmini. Berlusconi: «È una farsa».
di Giacomo Russo Spena



Lo sforzo organizzativo è quello per i grandi eventi. I numeri parlano chiaro: centinaia di pullman in arrivo da tutta Italia, cinque treni e persino "consistenti" delegazioni in nave dalla Sardegna. La Cgil non scherza. E in vista della manifestazione di sabato sulla libertà di informazione ha messo in moto il suo apparato. Non saranno certo i tre milioni del corteo cofferatiano in difesa dell'articolo 18 del 23 marzo 2002, e non si sfioreranno nemmeno le cifre toccate nello sciopero generale contro la riforma Gelmini (10 ottobre 2008) e nella manifestazione contro la crisi ("Io c'ero" del 4 aprile scorso), ma di lavoratori con bandiere e berretti del sindacato a piazza del Popolo se ne vedranno tanti. Tantissimi. Insieme all'Fnsi che organizza, a Pd e Italia dei valori, più pezzi di società civile e molta gente "comune".
«È una farsa assoluta, in Italia c'è più libertà di stampa che in qualsiasi altro paese», ha commentato ieri Silvio Berlusconi, che vede atteggiamenti «antitaliani» alla base delle posizioni di alcuni giornali. Un attacco che ha suscitato reazioni e, di fatto, aumentato la mobilitazione.
A due giorni dall'evento già 25mila persone iscritte alla Cgil hanno prenotato il posto per raggiungere la capitale. Poi si spera nella partecipazione dei romani e di tutto il Lazio. «Non c'è il pericolo di una dittatura in Italia ma abbiamo aderito per contrastare il tentativo di Berlusconi di imbavagliare l'informazione. Non si possono accettare minacce di togliere la pubblicità, querele, insulti e risse mediatiche», spiega Marco Di Luccio, coordinatore del dipartimento Organizzazione della Cgil, l'uomo che dietro le quinte ha gestito la parte logistica per sabato. «Non so esattamente quante persone verranno da fuori - aggiunge - di sicuro saranno tante perché l'appuntamento è più che sentito».
«Non avevamo dubbi, la nostra gente ha ben chiaro il nesso fra diritti dei lavoratori e quello all'informazione che fa parte integrante del patrimonio fondamentale di ogni stato democratico, ci vuole una reazione adeguata ed immediata di tutti i sinceri democratici», dice invece Mauro Fuso, segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze. Dalla Toscana partiranno almeno 50 pullman che «per nostra fortuna si sono riempiti in pochissimo tempo». Ma oltre lo sforzo organizzativo la Cgil non va. Insomma porterà la gente, riempirà la piazza ma non vuole metter bocca sulla gestione della manifestazione. «Abbiamo solo aderito, come tante altre organizzazioni, associazioni e partiti», si ripete a Corso Italia. E chi interverrà dal palco? «Non abbiamo ancora deciso - spiega il sindacato - sicuramente non Epifani». Certo invece l'ordine che viene dall'alto: affollare la piazza antiberlusconiana.
Non a caso tra i più agguerriti ci saranno i lavoratori della funzione pubblica (Flp). «I telegiornali - aggiunge Di Luccio - parlano di 3,4 miliardi per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici, poi leggi la Finanziaria e ti accorgi che è un falso. Solo propaganda governativa e chi non si allinea viene colpito». Sempre il 3 ottobre a Roma sfileranno i precari della scuola contro i tagli voluti dalla Gelmini. Corteo che, una volta finito, si sposterà a piazza del Popolo. «Non vi è stata - sentenzia il responsabile Mimmo Pantaleo - alcuna disponibilità ad aprire una seria discussione che partisse dalla messa in discussione dei processi di stabilizzazione».
E poi ci saranno loro. Gli "ever green" pensionati dello Spi. Tra i più attivi a ogni mobilitazione nazionale e di massa. Proverà a dare un contributo anche la Fiom, sebbene impegnata a realizzare lo sciopero dei metalmeccanici del prossimo 9 ottobre.

Liberazione 30.9.09
Tre ottobre e non solo, ecco la posta in gioco
di Dino Greco


Quando i posteri - riappropriatisi della capacità di esercitare un pensiero critico oggi latitante - commenteranno il tempo presente, la miserabile performance della politica nostrana, la riduzione del confronto politico a insulto gossipparo; quando un'Italia ricivilizzata giudicherà impietosamente le macchiette che infestano il proscenio mediatico; quando - e se - sarà possibile ridare una chance alla ripresa del cammino democratico di questo declinante Paese, il tempo in cui viviamo sarà archiviato fra quelli più oscuri della storia patria. Ieri l'altro, a Milano, alla festa del partito di cui è proprietario, il caudillo di Arcore si è incoronato re, senza neppure attendere che qualche cortigiano gli porgesse la corona d'alloro. «Governerò per sempre», ha tuonato, dando libero sfogo alla consueta, incontenibile logorrea, mentre i suoi sudditi, rapiti dal delirio, in visibilio, inneggiavano il refrain propiziatorio: «menomale che Silvio c'è».
L'uomo, per quanto avviato verso un fatale crepuscolo, è pericoloso, molto pericoloso. Lo abbiamo detto sin dall'inizio di questa legislatura, quando vi era chi discettava in punta di fioretto su una possibile evoluzione di stampo liberale della sua leadership. L'uomo è pericoloso. Lo è nel suo avvitamento totalitario, reso possibile dall'inconsistenza dell'opposizione parlamentare, recitata da quel sedicente riformismo che si è fatto complice dell'annientamento del modesto pluralismo esistente e dell'articolazione della rappresentanza istituzionale. Senza il minimo ripensamento, la conventio ad excludendum pianificata da Pdl e Pd - Di Pietro consenziente - per cacciare la sinistra dai parlamenti nazionale e poi europeo sta per riproporsi nelle prossime elezioni regionali. Si vuole nuovamente fare scattare la tagliola della soglia di sbarramento e chiudere definitivamente il cerchio, riducendo tutta la politica ad un minuetto fra schieramenti omologhi: una maggioranza satrapa ed un'opposizione di "sua maestà". Non soltanto al centro, ma in ogni articolazione, anche la più periferica, del potere politico e amministrativo.
Se si conviene che questo è il rischio e questa la posta in gioco, converrà, senza perdere un solo istante, promuovere un'iniziativa ad ampio raggio, capace di coinvolgere tutte le forze politiche, sociali, culturali interessate ad ostacolare una così grave implosione democratica. Quanto sta avvenendo sul terreno dell'informazione, massimamente in quella televisiva (artefice prima del processo di decerebrazione di massa che affligge il Paese), dovrebbe rendere avvertiti che non ce ne sarà per nessuno.
Non dico per un'informazione libera e indipendente, alla quale è in radice negata ogni benché minima cittadinanza, ma anche, semplicemente, per qualche sia pur labile elemento di pluralismo.
Lo dimostrano la surreale sortita di Scajola, autoelettosi a censore di un programma sgradito al monarca, o la proposta dell'ineffabile Mariastella Gelmini, inconsapevole riesumatrice di una mentalità da Min. Cul. Pop., quando vorrebbe introdurre a beneficio (sic!) degli anestetizzati telespettatori segnalazioni di merito e di demerito sui programmi messi in onda dalla tv pubblica: se non siamo al regime, è certo che vi stiamo correndo incontro con gli stivali delle sette leghe.
Da oggi riprendiamo la campagna a sostegno della manifestazione indetta dalla Federazione della Stampa per il 19 settembre, poi improvvidamente rinviata a sabato prossimo, a seguito dell'attentato ai militari italiani in Afghanistan. Lo facciamo con la determinazione con cui sosteniamo ogni sussulto di quel pezzo di società che in vario modo manifesta la propria attiva opposizione alla totale devastazione di ciò che resta dell'edificio costituzionale. Il calendario delle mobilitazioni si fa ogni giorno più denso. Del 3 ottobre abbiamo già detto. Il 9 ottobre scenderanno in campo i metalmeccanici, con uno sciopero nazionale di otto ore. Il giorno dopo a Roma, sarà la volta della manifestazione indetta dal movimento Lgbt. Il 17 toccherà ai migranti riempire le strade della capitale per contestare la politica di apartheid del governo. Mentre crescono un po' dovunque le iniziative di quanti contrastano il depauperamento della scuola pubblica. Dare un senso unitario a queste lotte, farle crescere, uscire dalla rassegnata passività è il compito al quale merita dedicarsi. In queste settimane. In queste ore.

l’Unità 1.10.09
Aborto, via libera dell’Aifa alla Ru-486. Ma il diktat del Senato blocca la pillola
L’Aifa approva ma rinvia la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. In attesa che oggi con l’audizione di Sacconi prenda avvio l’indagine del Senato, I radicali: «Tempistica è ultima goccia di una vicenda vergognosa».
di Ma. Ge.


Rinvio dell’agenzia del farmaco «In omaggio» a Palazzo Madama e all’avvio dell’indagine conoscitiva
Sacconi «Nel frattempo il Parlamento, se lo riterrà, potrà esprimere le proprie indicazioni»

L’ok in realtà era arrivato nella seduta del 30 luglio scorso, ma solo ieri sera l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), dopo una seduta fiume del cda, ha sbloccato il via libera all’uso ospedaliero della pillola abortiva, attraverso un atto formale, ovvero l’approvazione del verbale di quella riunione che risale ormai a due mesi fa. La commercializzazione della Ru486 però di fatto è rinviata. Un rinvio deciso anche «in omaggio» delle richieste formulate dalla Commissione Sanità e dell’avvio dell’indagine conoscitiva del Senato, spiega l’Aifa, che aggiorna alla prossima seduta, 19 ottobre, la «formulazione del mandato da assegnare al Direttore Generale per i successivi adempimenti». E rimanda a dopo il 19 ottobre la pubblicazione in gazzetta ufficiale della data di arrivo del farmaco negli ospedali italiani.
«La commercializzazione è stata approvata solo in via di principio ma la sua effettività era e rimane rinviata alla determina tecnica nella quale dovranno specificarsi tutte le modalità di impiego affinchè sia compiutamente rispettata la legislazione vigente in materia di interruzione volontaria di gravidanza e nel frattempo anche il Parlamento avrà modo, se lo riterrà, di esprimere proprie indicazioni», si precipita a spiegare Sacconi.
«Non capisco cosa sia successo all’Aifa: il 30 luglio approva una delibera che non viene pubblicata in g.u., oggi riapprova la stessa delibera», commenta perplessa Donatella Poretti, senatrice Radicale del Pd. «Rimandare ad un ulteriore appuntamento collegato all’indagine conoscitiva del Senato è l’ultima goccia di una vicenda vergognosa, la procedura di mutuo riconoscimento è un atto dovuto, la tempistica, rapida in tutti gli altri Stati, in Italia viene stravolta per questioni politiche». E mentre Livia Turco incassa come «buona notizia» il via libera, il Pdl Gaetano Quagliariello spiega che la vera decisione è stata il rinvio «in ossequio al Senato e per consentire che la pillola non giunga a violare quanto previsto dalla legge 194». ❖

Repubblica 1.10.09
Aborto, ancora battaglia sulla Ru486
L´Aifa: via libera al farmaco negli ospedali. Poi precisa: aspettiamo l´indagine parlamentare
Il Pdl: "Una pagina nera per l´Italia e le donne". E il sì definitivo slitta al 19 ottobre
di Michele Bocci


Un rinvio di alcuni giorni per permettere ai suoi vertici di partecipare all´audizione in Senato, poi l´Aifa dovrebbe dare il via libera alla Ru486. Dopo una riunione di ben 7 ore e mezzo, ieri il cda dell´agenzia del farmaco è giunto ad una decisione che salvaguarda il suo ruolo tecnico ma cerca di non rompere definitivamente i rapporti con il centrodestra. Sono dunque stati approvati il verbale e la delibera della riunione del 30 luglio, durante la quale si votò a favore dell´ingresso della pillola abortiva nel nostro sistema sanitario, ma ci si è dati appuntamento al 19 ottobre, subito dopo l´audizione in Senato del presidente del Cda Pecorelli e del direttore generale Rasi, per quelli che vengono definiti in un comunicato dell´Aifa «gli adempimenti successivi». Si tratta dell´incarico al dg di fare la determina, l´atto da trasmettere alla Gazzetta Ufficiale per la pubblicazione. Sarebbe stato sgradevole per i vertici dell´agenzia andare dai senatori a Gazzetta già uscita. Sta di fatto che non si è deciso uno stop fino al termine dei lavori della commissione parlamentare, che andranno avanti due mesi. Comunque sia un rinvio del genere a delibera approvata è del tutto nuovo nella storia dell´agenzia.
Nel tardo pomeriggio di ieri la decisione del cda, inizialmente interpretata come l´ok finale all´utilizzo della pillola negli ospedali, ha scatenato polemiche furiose tra favorevoli e contrari. Ci si è scontrati anche sulla stessa interpretazione di ciò che l´Aifa aveva deciso. Finché su questo tema si è mosso anche il ministero della Salute, per dire che ieri la delibera non c´è stata: «Il cda si è limitato ad approvare il verbale della seduta precedente quando la commercializzazione è stata approvata in via di principio ma la sua effettività era, come rimane oggi, rinviata all´approvazione non solo della delibera formale ma anche della determina tecnica nella quale dovranno specificarsi tutte le modalità di impiego affinché sia compiutamente rispettata la legislazione sull´interruzione volontaria di gravidanza. Nel frattempo anche il Parlamento avrà modo, se lo riterrà, di esprimere proprie indicazioni».
Da una parte Luca Volontè (Udc) che parla di «olocausto silenzioso» e Enrico La Loggia (Pdl) di «pagina nera per l´Italia e le donne», dall´altra Livia Turco che elogia il lavoro l´Aifa e vede una sconfitta politica del centrodestra: le polemiche sono andate avanti fino a tardi. Antonio Tomassini, presidente della commissione sanità del Senato si è detto certo che l´agenzia attenderà la fine dell´indagine conoscitiva, che lui stesso aveva annunciato di 60 giorni, a partire dal primo ottobre.
L´Aifa ha confermato il tetto massimo di utilizzo della pillola entro la settima settimana di gestazione. Nessun cenno ai 3 giorni di ricovero, di cui si era parlato a luglio. La delibera indica la somministrazione in ambiente ospedaliero e la presa in carico della donna da parte dell´ospedale fino alla verifica dell´espulsione del materiale abortivo. Il punto sarà chiarito da Regioni e ministero.

l’Unità 1.10.09
Salva-precari, le bugie della Gelmini La Cgil: «Noi non abbiamo firmato»
di Ma Ier.


La ministra unica dell’Istruzione è davvero unica. Un comunicato di viale Trastevere recita: «Precari, il Miur e sindacati firmano il decreto applicativo». Ma è una balla. Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil: «Il ministro Gelmini è una bugiarda. Noi non abbiamo condiviso alcuna intesa. I contratti di dispo-
nibilità sono una vera presa in giro per i precari. Diffidiamo il ministro a fornire notizie false». La giustificazione del Miur: «Un refuso... ». Il decreto applicativo è stato dunque firmato, ma senza il principale sindacato della scuola. Un provvedimento che lascia per strada oltre 30 mila persone. Dunque, la protesta dei docenti e
bidelli precari non cessa. Sabato tutti a Roma per la grande manifestazione che coinfluirà con quella sulla libertà di stampa. Alcuni docenti precari parleranno dal palco della Fnsi.
Ed ecco il famigerato decreto applicativo tanto sbandierato dal governo. Riguarderà solo 18mila supplenti precari e non tutta la platea dei 250mila. Garantita la precedenza assoluta nel conferimento delle supplenze temporanee al personale docente e Ata a cui non è stato rinnovato l’incarico quest’anno. Solo dieci giorni di tempo per presentare la domanda.
Gli insegnanti e i tecnici amministrativi che presenteranno richiesta di supplenza potranno indicare una sede provinciale a scelta tra quella che ha gestito la graduatoria ad esaurimento e quella nella cui graduatoria di circolo o di istituto si è inseriti per questo anno scolastico.

l’Unità 1.10.09
Italia-razzismo
Il voto agli immigrati non favorirà certo la sinistra


Al solito, è stato Silvio Berlusconi a dire chiaramente ciò che altri si limitavano a sottintendere: col voto agli immigrati si vuole rovesciare la scelta elettorale degli italiani. L’argomento è suggestivo ed ha una indubbia efficacia. Non solo: c’è da pensare che Berlusconi e migliaia di militanti del Pdl e della Lega ci credano davvero. Credono, cioè, che l’eventuale voto amministrativo (di questo si tratta) riconosciuto ai regolari possa alterare i risultati elettorali e assegnare al centro sinistra i consensi che i cittadini italiani, quelli nati qui, non sono più disposti ad attribuirgli. Le cose non stanno così e, se è sempre sbagliato dare dell’ignorante all’avversario, in questo caso la tentazione è irresistibile. Basta infatti disaggregare i dati della presenza straniera in Italia per accorgersi che il probabile orientamento di voto potrebbe riservare molte sorprese. Dai dati statistici emerge che la religione di gran lunga prevalente è quella cristiana, nelle sue varie confessioni: e a professarla sono, per il 74.7%, fedeli provenienti dall’Europa e i musulmani sono un po’ più della metà. La combinazione tra i due dati (paese d’origine e confessione religiosa) indica che gran parte degli stranieri non ha in alcun modo per tradizione culturale e valori di riferimento una «propensione per la sinistra». Ovviamente, non c’è nulla di automatico, ma è probabile che oggi un generalizzato voto politico degli stranieri riprodurrebbe, grosso modo, quello degli italiani, a favore del centro destra. Al massimo si può dire, a consolazione della sinistra, che la partita si potrebbe riaprire. In ogni caso, il riconoscimento del diritto di voto agli stranieri è così cruciale che vale la pena correre un simile
rischio.
ITALIA-RAZZISMO è promossa da Laura Balbo, Rita Bernardini, Andrea Boraschi, Valentina Brinis, Valentina Calderone, Silvio Di Francia, Francesco Gentiloni, Betti Guetta, Pap Khouma, Luigi Manconi, Ernesto M. Ruffini, Iman Sabbah, Romana Sansa, Saleh Zaghloul, Tobia Zevi

l’Unità 1.10.09
La sinistra è morta a Tienanmen
di Loretta Napoleoni


La Cina celebra i 60 anni della Repubblica Popolare, ma dopo la strage dell’89 nessuno ha più osato guardare alle sue riforme

Il socialismo nasce in Europa, ha un’infanzia difficile in Russia e raggiunge la maturità in Cina. Nel sessantenario della fondazione della Repubblica popolare cinese, a Pechino si celebra in gran pompa il successo di un’ideologia agonizzante in casa nostra. Ma il Sol dell’Avvenire in Europa sta calando da vent’anni e a contribuire a questo lunghissimo tramonto è stato, paradossalmente, proprio il partito comunista cinese.
Più che il crollo del muro di Berlino sono i fatti di Tienanmen ha mettere in moto un processo inarrestabile, che porta alla disintegrazione della sinistra europea. Nell’immaginario collettivo occidentale il sangue degli studenti trasforma la Cina nel nuovo nemico dell’umanità. Sommersi dalle macerie sovietiche i partiti socialisti non hanno più un punto di riferimento reale. Nessuno osa guardare alle riforme di Den Xiaoping e al modello cinese infinitamente più flessibile rispetto a quello sovietico ed anche a quello nostrano come un esempio di marxismo che si adatta alla globalizzazione prendendo in prestito dall’economia di mercato ciò che serve per mantenere in vita il socialismo. Piuttosto osservano le metamorfosi del partito laburista britannico.
Tony Blair lo reinventa abbracciando il nuovo dogma: il neo liberismo. E così sposta l’asse completamente al centro e s’impossessa della retorica della signora Thatcher. Trasforma l’Inghilterra nel paradiso fiscale dell’alta finanza e si allea con i neo-conservatori di Bush in una guerra ingiusta. Attira voti grazie ad un benessere economico fittizio, che poggia sull’indebitamento. Oggi tutti lo sanno e il Regno Unito paga lo scotto di questa politica più degli altri. È infatti tra i pochi paesi occidentali dove non si intravede alcuna ripresa economica, con una contrazione del PIL del 5.5%.
Eppure è il modello edonistico di «New Labour» che gran parte della sinistra storica europea abbraccia. Blair è infinitamente popolare tra quella classe media allargata che si pensa sia ormai il nocciolo duro dell’elettorato del vecchio continente. Così il socialismo si spoglia delle sue origini operaie. In Germania e Italia, dove un tempo esisteva una sinistra operaia, va a braccetto con i «venture capital», le banche d’affari e gli «hedge funds». L’operazione funziona per qualche anno, fintantoché la bolla finanziaria distribuisce ricchezza a tutti. Uniche voci fuori dal coro la Spagna, la Norvegia e il Portogallo, dove ancora oggi il socialismo resiste, ma il club degli amici di Blair le snobba. Poi tutto improvvisamente cambia.
Alla fine del 2006 l’economia mondiale inizia a rallentare per entrare in recessione l’anno dopo. Il socialismo «alla Blair» è la prima vittima. In Inghilterra tornano alla ribalta i conservatori che nel 2009 sconfiggono «New Labour» nelle elezioni amministrative. In Francia e in Italia sale la destra che si accaparra la maggioranza anche alle elezioni europee. L’Europa torna conservatrice, titolano i giornali questa settimana quando riportano la vittoria della Merkel in Germania, come sempre nei momenti di crisi, pensano tutti. Ma in realtà a rivitalizzare la destra non è la crisi quanto l’essersi appropriata di quei valori che il socialismo, quello vero, ha sempre difeso: la protezione del cittadino, il suo benessere, la cura dell’ambiente in cui lavora e vive e così via.
Forse è vero che la lotta di classe è «passé» ma le classi esistono e sono più che mai distanti tra di loro. E la destra lo sa bene. Il reddito reale di quella media è oggi più basso che negli anni 70, ed è di questo che la Lega parla, non certo degli indici di borsa, quando fa propaganda politica nelle ex zone rosse dell’Italia. Dall’altra parte del mondo il socialismo cinese trionfa perché ha mantenuto il contatto con la propria base e ne ha fatto gli interessi. Il partito ha decentralizzato il proprio potere economico facilitando la crescita economica e il benessere. Mentre ai paesi del blocco sovietico era applicata la terapia d’urto, e cioè la trasformazione da un giorno all’altro in economie di mercato, la Cina comunista faceva piccoli passettini e li faceva da sola. Ed ecco i risultati in poche cifre: negli ultimi 60 anni la popolazione è crescita da 542 milioni ad un miliardo e 300 milioni, l’età media è salita da 35 a 73 anni, il PIL per capita è passato da 51 a 2770 dollari, le riserve bancarie da quasi zero a 2 mila miliardi di dollari (le più alte al mondo), gli studenti universitari da 117 mila a 20 milioni, la mortalità per parto da 1.500 ogni 100 mila nascite a 34. La democrazia è solo dietro l’angolo. Il socialismo in Europa sarà anche morto ma l’ideologia vive. Se vogliamo vedere la sua versione moderna possiamo andarla a cercare in Cina dove ancora sorge il sol dell’avvenir.❖

Repubblica 1.10.09
I sessant’anni della rivoluzione vengono celebrati oggi con la mobilitazione di un milione e mezzo di persone Ma il clima è da coprifuoco: popolazione obbligata a restare in casa e divieto di affacciarsi alle finestre
Pechino deserta e blindata al via lo show per Mao
di Giampaolo Visetti


Hu Jintao parlerà dopo la parata militare: sfileranno nuovi carri armati e armi mai viste
E a New York l´Empire State Building sarà tutto illuminato di rosso e di giallo

PECHINO. Quando le autorità chiudono piazza Tiananmen, la Città proibita e il mausoleo di Mao, i cinesi non si aspettano nulla di buono e sanno che è meglio restare in casa. Succede raramente. Ogni dieci anni, per la parata militare. Nell´89 per la repressione di chi chiedeva libertà e democrazia. Anche oggi: e l´occasione, pur ufficialmente festosa, non ha precedenti. La Cina celebra i 60 anni dalla nascita della Repubblica popolare. Il primo ottobre del 1949 Mao Zedong si affacciò dalla Porta della Pace celeste per annunciare la vittoria della rivoluzione comunista. Oggi alle 10 Hu Jintao parlerà dallo stesso balcone imperiale per sancire il successo globale dell´autoritarismo di mercato.
Nell´astrologia cinese il sei e il sessanta sono numeri speciali. Il primo significa continuità, il secondo il compimento di un ciclo della vita. Il grande anniversario di oggi sintetizza entrambi i concetti: ma questa Pechino blindata e deserta, invasa da funzionari di partito, generali e missili atomici, testimonia che da Mao a Hu in realtà tutto è cambiato. Il Grande Timoniere parlò davanti ad una folla povera e in festa. L´attuale leader terrà un discorso in una piazza da cui un popolo spaventato, in parte oggettivamente arricchito, è escluso.
Dopo sessant´anni il Partito comunista cinese è il solo, in una super potenza da 1,3 miliardi di persone, ad essere sopravvissuto immutato al Novecento. Oggi festeggia la sua vittoria, completa al punto che a New York l´Empire State Building, in onore dei suoi soldi, sarà illuminato di rosso e giallo. Il modo di celebrarsi, e di segnalare al mondo l´avvio irrefrenabile del «secolo cinese», tradisce però un´inquietudine misteriosa. I preparativi della parata militare, dell´impressionante show nazionalista e dei fuochi artificiali della sera, sono iniziati da oltre un anno. L´evento, tra soldati, «volontari», figuranti e polizia, coinvolge un milione e mezzo di persone. Solo poche autorità però, assieme ai protagonisti del business, alle stelle dello sport e dello spettacolo, possono vivere l´anniversario dal cuore del Paese. La popolazione deve assistere alla rappresentazione da lontano, davanti alla tivù. La capitale vive nell´incubo ossessivo di attentati. Contro il pericolo di «estremisti, separatisti e terroristi», è sigillata da giorni. Chiusi negozi, ristoranti e alberghi del centro. Quartieri sbarrati. Divieto di uscire sui balconi, o di affacciarsi alle finestre, pur traboccanti di bandiere. Fermata una linea del metrò. Sospesi per alcune ore i voli dell´aeroporto internazionale. Bloccati decine di siti internet. Più che una festa, l´atmosfera ricorda un assedio.
Negli ultimi due mesi sono stati arrestati 6500 dissidenti e attivisti. Centinaia gli oppositori spariti e migliaia gli abitanti dei villaggi bloccati prima che potessero raggiungere Pechino per protestare. Vietati i pochi libri che cercavano di sollevare qualche dubbio. Così oggi la Cina ricorda la sua drammatica storia contemporanea, che negli ultimi due anni ha visto le sanguinose repressioni in Tibet e nello Xinjiang, senza che all´interno si alzi una sola voce critica, o si avvii la minima riflessione pubblica sugli errori commessi. Costretto a isolarsi dalla gente, il potere ha affidato a immagini, simboli e scenografie hollywoodiane la glorificazione del proprio mito fondativo. Decine di film e sceneggiati gratuiti sugli eroi della rivoluzione gremiscono i cinema della nazione. Le tivù, da settimane, sono occupate da documentari rievocativi, interviste a reduci e a nuovi «lavoratori modello». Inni, slogan e brani musicali maoisti, dalle radio, sono approdati all´improvviso anche nelle suonerie dei cellulari stranieri. Un crescendo propagandistico maniacale, costruito anche sull´ordine e sulla pulizia, su fiori e giardini perfetti, sul taglio dei prezzi, benzina compresa.
In tale esaltazione collettiva, tutta mediatica, Hu Jintao chiuderà oggi l´era dei leader nati prima della rivoluzione. Per tre ore, lungo Chang´An Avenue, sfileranno 52 tipi di missili nucleari e carri armati mai mostrati prima, 150 aerei da guerra, 56 reggimenti dell´Armata popolare di liberazione, diecimila soldati dotati di nuove e segrete armi leggere. È l´esibizione più aspra, minacciosa e avanzata della crescita economica cinese. Tutto resta però aggrappato ai simboli di un´epoca irrimediabilmente conclusa, ad un linguaggio vecchio. Il messaggio resta quello di Mao: «Esercito potente, nazione ricca». Sessant´anni dopo, alle stesse autorità, è chiaro però che la Cina del miracolo industriale è ormai l´opposto del fantasma ideologico che viene oggi messo in scena a Tiananmen. È, in effetti, migliore e pronta ad essere assai più moderna. I giornali annunciano un «fondamentale» discorso presidenziale, che «stupirà il pianeta e chiarirà il suo futuro». Ma si sente che un ciclo si chiude. Gli eredi del maoismo, sull´ingresso della Città Proibita, sono circondati da un sesto della popolazione globale storicamente ignaro di un solo giorno di libertà.

il Riformista 1.10.09
La Cina rossa fa 60 anni
Compleanno schizofrenico
di Andrea Pira


Huaxi e Nanjie. Sono il villaggio più ricco e l'ultima comunità maoista della Repubblica. Metafore della contraddizione su cui riposa Pechino.

Oggi è il giorno del grande evento. La parata dell'Esercito popolare di Liberazione celebrerà il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). Almeno 5000 i soldati che sfileranno lungo Viale Chang'an, con avanzatissime armi tutte made-in China. Un modo per mostrare al mondo la crescente forza del paese e, come sottolinea in una nota il ministro della Difesa, Liang Guanglie, un «risultato straordinario», che simboleggia «l'enorme avanzamento delle capacità tecnologiche del paese». Ci saranno missili balistici intercontinentali, carri armati da battaglia e armi d'assalto, e 150 aerei sorvoleranno il cielo di Pechino. E per impedire che qualcosa possa disturbare le evoluzioni dei piloti, aquiloni e palloncini sono stati messi al bando, mentre i falchi addestrati dalla polizia cinese penseranno a scacciare via gli uccelli.
Quella di oggi, tuttavia, non è solo una parata militare. Almeno 200 mila persone sfileranno davanti al presidente Hu Jintao e ai leader del Partito, che assisteranno all'evento dal rostro della Città Proibita, lo stesso dal quale il 1 ottobre del 1949 Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese. A sessant'anni di distanza il mito del Grande Timoniere appare un po' offuscato. Meno di un mese fa, il 9 settembre, ricorreva l'anniversario della sua morte, un evento passato ufficialmente in sordina, anche se a livello popolare il suo ricordo è ancora molto forte, basti pensare ai santini che molti tassisti di Pechino tengono appesi nelle loro auto.
La Cina maoista vive ancora a Nanjie, un villaggio nella provincia dell'Henan, considerato una delle poche comuni maoiste rimaste nel paese. Una statua del presidente Mao, affiancata dai poster di Lenin e Stalin, domina la piazza del villaggio, che, ironia della sorte, ha ispirato il nome di uno dei locali più alla moda della movida pechinese. Come racconta la BBC i circa 4000 abitanti devono fare i conti con salari bassissimi, ma possono contare sui servizi forniti dalla comune. «Guadagno circa 400 yuan al mese (circa 50 euro) - spiega all'emittente britannica il signor Hu, uno degli abitanti - ma abbiamo un buon sistema di welfare. Ho l'assistenza medica e gas, acqua ed elettricità sono gratis». Un privilegio non da poco in un paese dove il processo di riforma ha visto un rapido ridursi dello stato sociale. L'economia di Nanjie si basa sulle coltivazioni di mais, ma sono attive anche piccole fabbriche alimentari che producono soprattutto spaghetti, salse e cioccolato, la proprietà delle quali è collettiva. Il villaggio sembra non voler seguire il percorso di riforme intrapreso dal resto del paese dopo il 1978 e non ha abbandonato la forma della comune popolare, che ha fatto la sua comparsa in Cina alla fine degli anni Cinquanta, anche se con esisti economici disastrosi che hanno condotto alla morte milioni di persone. Gli abitanti di Nanjie, nonostante alcune voci critiche, sembrano essere contenti e credere nel progetto.
Così come hanno motivo di gioire gli abitanti di Huaxi, il villaggio più ricco della Cina. La media dei guadagni per famiglia è di 150 mila dollari all'anno, non male in un paese dove il salario medio pro capite è di 2000 dollari. Nel 2008, la più grande industria del villaggio, di proprietà del Huaxi group, ha guadagnato 50 miliardi di yuan (circa 7,5 miliardi di euro). E come Nanjie, questa piccola enclave di 30 mila abitanti, che il Washington Post definisce un «esempio emblematico» di come sia cambiata la Cina in questi sessant'anni, è essenzialmente una comune, dove la ricchezza viene suddivisa tra tutti i cittadini. A indicare la spirito che anima Huaxi è l'ottantaduenne Wu Renbao. «Cos'è il socialismo? Cos'è il capitalismo?- si chiede il vecchio Wu - Noi chiediamo solo ciò che è buono per il popolo. Vogliamo che la gente diventi ricca».
L'attesa per il primo ottobre è stata alta in tutto il Paese. Nei cinema ha spopolato "The Founding of a Republic", l'epico racconto degli anni a cavallo tra il 1945 ed il 1949 quando il Partito comunista affrontò il Partito nazionalista di Chang Kai-shek per il controllo del paese. L'anniversario è anche propaganda. Se Amnesty International denuncia un aumento delle intimidazioni e degli arresti di attivisti per i diritti umani alla vigilia dell'anniversario; il China Media Project dell'Università di Hong Kong spiega le direttive date alla stampa, che dovrà enfatizzare: il ruolo guida del Pcc, la forza del sistema socialista, l'importanza delle riforme, il patriottismo e l'unità nazionale. Un'unità che comprende anche il Tibet e lo Xinjiang, regioni che rivendicano un forte sentimento di autonomia, mal digerito da Pechino.

Repubblica 1.10.09
Il carismatico sindaco-premier di Berlino già governa con i radicali della Linke
La Spd guarda a Wowereit per preparare la svolta a sinistra
E c’è già chi vede una Germania divisa fra due poli guidati entrambi da leader gay
di Andrea Tarquini


BERLINO - Un cancelliere gay sarebbe possibile, ha detto una volta a Stern. Un borgomastro socialdemocratico di Berlino, l´ex città del Muro e dell´eroe pacifista ma filo-occidentale Willy Brandt, che governa con la Linke, la sinistra radicale ostracizzata a livello nazionale, c´è già. È lui, dinamico, spregiudicato, omosessuale dichiarato: Klaus Wowereit, il sindaco-premier della capitale, sente scoccare la sua ora. Spira, favorito anche delle sue scelte, un vento di caduta del Muro a sinistra, di fine del tabù che impedisce ancora di sdoganare la Linke. «Non si può dire no per principio ad alleanze con loro», ha detto ieri un ministro uscente, Olaf Scholz, pure cresciuto all´ombra di Gerhard Schroeder. «Gettiamo a mare i tabù», ha incalzato Hartmut Meine, capo del potente sindacato metalmeccanico IgMetall nella Bassa Sassonia, lo Stato della Volkswagen.
Sarà dunque "Wowi" l´uomo della rinascita e della speranza della Spd, nel segno di convergenze e unità a sinistra? Protagonista, "Wowi" lo sa essere da tempo. Almeno fin dal suo famoso coming out a un congresso del partito. «Ich bin schwul, und das ist gut so», cioè «Sono gay ed è bene così». Decise di reagire a voci malevole di rivali e avversari politici, e fu un suo trionfo personale oltre i confini tra i partiti. Da allora «das ist gut so» è espressione corrente e trendy. Il suo compagno Joern Kubicki, «la mia àncora, il mio migliore amico, il mio consigliere», gli è sempre accanto in pubblico. Evidente l´analogia con Guido Westerwelle, leader liberale, gay e nuova star del centrodestra dopo il trionfo di domenica.
«Non voglio essere gentile per forza, sono gentile, quando si può», confessa spesso. Ma è anche un politico di grosso calibro, ambizioso, deciso a vincere. E pragmatico. Kurt Beck, governatore della Renania-Palatinato, si prese diversi schiaffi verbali in pubblico da "Wowi" per aver criticato la sua alleanza con la Linke nel governare la città. Alleanza che fa politica sociale, ma anche tagli duri ai conti pubblici. «È presto a livello nazionale, ma i "miei rossi" a Berlino sono gente con cui si può lavorare», ha detto l´altra sera a un talkshow.
Cinquantacinque anni ben portati, onnipresente nei party berlinesi, stakanovista, Klaus Wowereit ha dalla sua l´età, e un´immagine che ha saputo crearsi e che agli altri leader della Spd in crisi manca. Restituire fiducia nella politica, combattere il disincanto, è il suo tema. Lo spiega spesso citando Willy Brandt. Non a caso: molti dicono che sogni la sua stessa carriera, borgomastro, ministro degli Esteri e poi cancelliere della pace in piena guerra fredda. Oggi Berlino è unita, e la pace di Wowereit potrebbe essere una pace interna, tra le anime della sinistra.
Brandt era chiamato "Brandy" per la sua passione per il bere e le donne. "Guido", Westerwelle, è il nuovo eroe del centrodestra, "Angie", citando i Rolling Stones, la cancelliera. Brandy, Wowi, Angie, Guido. La Germania si fa sempre più spregiudicata, e la fantapolitica prevede un possibile futuro con due dinamici leader gay a guidare i due poli. Non male, in un´Europa dove contro le minoranze si diffondono intolleranza e odio.

Liberazione 30.9.09
Dopo la catastrofe elettorale di domenica, dimissioni eccellenti ai vertici della Spd Berlino, Resa dei conti tra i socialdemocratici
di Matteo Alviti


Berlino. Passata la tempesta, oggi è il giorno della riflessione e dell'inizio della resa dei conti interna, a sinistra come a destra. Sì perché non è solo la Spd a dover raccogliere quel che resta del partito e tentare di analizzare la scena del crimine - le urne - per capire da dove è arrivato quel treno rosso che l'ha polverizzata, e sul quale sarebbe invece dovuta salire, tempo prima.
Anche nel partito della cancelliera Merkel, la Cdu, e soprattutto nella sorella bavarese, la Csu, si apriranno presto lotte intestine combattute a bassa intensità, facendo il meno rumore possibile per non attirare l'attenzione della stampa. A tutto vantaggio della già forte Fdp, grazie alla quale la Germania si è evitata una seconda edizione del povero spettacolo di grande coalizione.
Al partito di Westerwelle è riuscito il miracolo: guadagnare più di tutti gli altri concorrenti, nonostante l'ideologia di riferimento dei liberali sia alla base della crisi economica mondiale. La sua è una vittoria personale, non c'è dubbio. Da anni Westerwelle è il leader poco discusso del partito. Carismatico, pieno di sé fino all'eccesso, ieri è stato rieletto capogruppo quasi all'unanimità. E' rimasto però circondato dalla vecchia guardia - che non ne è stata sempre entusiasta -, senza presentare alternative di peso. Ora gli toccheranno verosimilmente gli incarichi di vicecancelliere e ministro degli esteri, per cui dovrà dimostrare di sapere andare oltre la rivendicazione di "meno tasse per tutti". Del resto, scriveva la Süddeutsche Zeitung , «le tasse, con centinaia di miliardi di euro di debito, nella speranza di far partire così una vigorosa ripresa, sarebbe come giocare alla roulette russa con la società tedesca».
In casa socialdemocratica, dopo il catastrofico 23% raccolto nelle elezioni di domenica, il peggior risultato del dopoguerra, le acque sono oltremodo agitate. I vertici del partito si sono riuniti ieri pomeriggio per eleggere il capogruppo al Bundestag, il parlamento nazionale, e per fare un primo punto sulla situazione. Scontata, è arrivata la nomina del candidato cancelliere sconfitto Steinmeier. Il ministro degli esteri uscente già lunedì - inusualmente, visto che quella posizione è elettiva - aveva annunciato di non volere rinunciare a guidare l'opposizione dei 146 parlamentari rimasti - erano 221. Ieri la conferma, con l'88% dei consensi, quasi troppo plebiscitaria per non destare sospetti. Il fatto è che nel partito non sembrano esserci personalità abbastanza pesanti per sostituirlo. Alcuni candidati - almeno dalla stampa -, come il sindaco di Berlino Wowereit, o la testa della sinistra e attuale vicepresidente Spd Nahles, sembrano non riscuotere sufficienti consensi. E la generazione dei giovani è troppo giovane e troppo di sinistra per salire nel partito con il placet dei grandi vecchi. Ci vorrebbe un colpo di mano, che però, in una situazione tanto delicata, potrebbe far saltare quel poco che rimane di buono per ricostruire la socialdemocrazia - tutta da reinventare - del terzo millennio.
Nonostante la fragilità conclamata della Spd, ieri alcuni pezzi della sinistra del partito avevano già iniziato a strepitare, mettendo in discussione l'intera leadership. Si è gridato forte soprattutto a Berlino, il Land che ha incassato il risultato peggiore di tutto il paese, -14%, e in Nordreno-Vestfalia, che andrà al voto tra pochi mesi, nel maggio del 2010. Intanto dopo l'annuncio, lunedì, da parte del presidente Müntefering, che presto lascerà la direzione del partito - sostituito forse dal ministro dell'ambiente uscente Gabiel - ieri sono cadute altre teste: si sono dimessi sia l'ex ministro delle finanzie Steinbrück dal ruolo di vicepresidente che il segretario Heil.
L'ipotesi forse più probabile per il prossimo futuro è quella di una Spd ancora guidata da Steinmeier ma con una dirigenza completamente rinnovata. Si dovrà presto fare i conti con l'era schröderiana - lo chiedeva ieri la giovane capo degli Jusos Franziska Drohsel - e i suoi figli, quell'Agenda 2010 che non solo ha snellito lo stato civile e tolto vincoli al mercato del lavoro, ma ha anche allontanato milioni di elettori dalla Spd. Il congresso di novembre sarà interessante.
Nel centrodestra la Cdu, che ieri ha riconfermato ai loro posti i vertici del partito, aprirà presto un delicato dibattito interno. Si cercano i responsabili del peggior risultato elettorale dal 1953 e dell'emorragia di voti verso i Liberali della Fdp, con i quali, intanto, è iniziata la partita a poker per la stesura del programma del secondo governo Merkel. Anche la Csu ha riconfermato ieri i suoi uomini di punta, ma il partito bavarese è fortemente critico nei confronti del leader Seehofer, reo di aver attaccato troppo veementemente i liberali in campagna elettorale, provocando una fuga di voti verso il partito di Westerwelle.
Intanto già si annuncia la fine dell'epoca d'oro della cancelliera, che finora aveva saputo sfruttare al meglio il lavoro dei ministri socialdemocratici per la sua immagine. Merkel dovrà presto scegliere: o proseguire il suo corso "sociale" e mettersi contro il partito e gli alleati o, com'è più probabile vista la sua indole di politica camaleontica, assecondare le richieste della destra della sua unione e dei Liberali, perdendo il credito conquistato con l'atteggiamento bonario da mamma della nazione - e di dura sulla scena internazionale - che le ha procurato tanto successo. Una prima risposta emergerà dalle trattative con i liberali per la stesura del programma di governo.

Repubblica 1.10.09
L’azienda dei suicidi che sconvolge la Francia
Impiegati modello nel tunnel della crisi
di Michela Marzano


Sono ormai ventiquattro i suicidi a France Télécom. Ventiquattro in diciotto mesi, l´ultimo dei quali il 28 settembre. Un macabro bilancio per un´azienda che, appena una decina di anni fa, prometteva mare e monti ai propri lavoratori. Ma anche un vero e proprio trauma per tutto un Paese che non riesce a capire come sia possibile morire a causa del proprio lavoro. Tanto più che il dramma di France Télécom non affatto è un caso isolato. Anche se le statistiche non sono ufficiali, sarebbero in media 400 l´anno i lavoratori che, in Francia, si danno la morte sul luogo di lavoro. Perché suicidarsi? E perché farlo proprio sul luogo di lavoro?
Le dichiarazioni rilasciate dagli amministratori delegati delle aziende colpite da questo flagello non soddisfano più nessuno. Come pensare ancora che si tratti solo di persone particolarmente fragili e piene di problemi personali, la cui morte non ha un legame diretto con quello che possono vivere al lavoro? Non è più un segreto per nessuno: coloro che soffrono a causa del proprio lavoro sono sempre più numerosi. Anche se le condizioni lavorative non hanno niente a che vedere con quelle del Diciannovesimo secolo, il nuovo management crea un malessere psicofisico (dal semplice stress al burning out, passando per la depressione) che svuota progressivamente gli individui.
Perché non interrogarsi allora una buona volta sulle reali conseguenze di questo management contemporaneo che, arrivato in Europa negli anni Ottanta, esorta gli individui a credere che esista un legame di causa-effetto tra la realizzazione professionale e il benessere personale, come affermano i codici etici di alcune aziende?
Tra la fine degli anni Ottanta e l´inizio degli anni Novanta, i metodi di management adottati per il buon funzionamento delle aziende si irrigidiscono. Le decisioni di riassetto, declassamento, accantonamento o licenziamento si moltiplicano, mentre coloro che conservano il posto di lavoro vengono sottoposti a oneri sempre più impegnativi. Le scadenze si ravvicinano. Le valutazioni si moltiplicano. Le analisi dei risultati si intensificano. Al tempo stesso, il linguaggio evolve e spinge i lavoratori a un coinvolgimento personale sempre più grande. Qualunque sia il settore di attività, si sente sempre più parlare di «autonomia» e «responsabilità». L´azienda cambia look e ostenta la volontà di farsi carico della piena realizzazione dei suoi dipendenti: ognuno deve sentirsi libero di agire come vuole, di portare alla propria azienda idee nuove e di trovare al suo interno il proprio benessere. Consegnati alla loro creatività e alla loro inventiva, i lavoratori - si sostiene - devono saper creare le condizioni del loro successo. Prendendo atto delle competenze di cui dispongono, devono essere polivalenti e flessibili. Mostrando di avere fiducia in se stessi, devono essere in grado di superare ogni difficoltà.
Al tempo stesso, però, gli obiettivi da raggiungere restano fissati dalla direzione, e i margini di manovra di cui dispone il lavoratore sono sempre più ristretti. La competizione e la globalizzazione non transigono: chi non si adatta non sopravvive. Come illustra l´americano Stephen Covey, autorevole consulente aziendale, «la nuova era esige la grandeur, pretende che ognuno abbia la certezza di realizzarsi lavorando con passione e che sia pronto a pagare in prima persona». Per dirla più semplicemente, ognuno di noi deve ormai credere alla propria mission. Tutto dipende da noi. Basta volerlo. Anche se, in questa corsa forsennata verso il successo, si deve essere pronti al sacrificio estremo: pagare in prima persona.
Non è forse quello che sta accadendo proprio oggi? Se tutto dipende dalla propria volontà, quando qualcosa va storto o si commette un errore si pensa di trovarsi di fronte alla prova irrefutabile che non si è stati all´altezza delle aspettative. In un universo in cui ognuno può (e deve) diventare «imprenditore della propria vita», la mutazione forzata viene vissuta come una sanzione alla propria mancanza di impegno. A forza di pretendere che i lavoratori siano «autonomi» e «responsabili» senza dar loro i mezzi per diventarlo realmente, il risultato più efficace che si ottiene è quello di colpevolizzarli. È il loro «saper essere» che è direttamente in causa e non più solo il caro e vecchio «saper fare». Errori, sviste, stanchezza… tutto diventa inaccettabile; tutto rinvia all´incapacità del singolo di adattarsi alle esigenze del Mercato. È allora che il senso di colpa aumenta e, talvolta, diventa insopportabile. Per non parlare poi di quanto sta succedendo in questi ultimi mesi, a causa della crisi economica. Ormai i licenziamenti e le mutazioni forzate sono il pane quotidiano di molte aziende. Per alcune si tratta di una necessità. Ma, per i lavoratori, questa necessità si trasforma in un incubo. Come sopportare una mutazione forzata o un licenziamento quando ci si è dati corpo e anima alla propria azienda? Come accettare il fatto di non essere più «utili» all´azienda, quando si è sempre stati pronti a lavorare con «passione», fino al limite estremo della propria resistenza fisica e psichica?
Le inchieste in corso mostrano che molte delle persone che si sono suicidate in questi ultimi mesi erano lavoratori particolarmente impegnati e meticolosi e non individui depressi, fragili e incapaci di adattarsi alle trasformazioni delle aziende. Tutto il contrario, quindi, di quello che si sarebbe potuto pensare. Tutto il contrario, soprattutto, di quello che alcuni dirigenti non smettono di ripetere. Ma i fatti parlano chiaro: le vittime erano impiegati modello, che avevano assunto un certo numero di responsabilità, che non avevano mai esitato a lavorare più del dovuto, senza riposarsi e senza prendere tutte le ferie a loro disposizione. Erano persone che avevano talmente aderito alla «cultura manageriale» delle proprie aziende da non rendersi nemmeno più conto che la propria vita dipendeva dal proprio lavoro e dalle soddisfazioni che potevano trarne. Ma, a partire dal momento in cui tutto dipende dal lavoro, le difficoltà lavorative che si possono incontrare (e che tutti, prima o poi, incontriamo) diventano ostacoli insormontabili. Dopo essersi dati a fondo sul lavoro, come uscire indenni da un declassamento o un licenziamento?
Il management contemporaneo ha fatto di tutto perché l´uomo diventasse la principale fonte degli utili della produttività. È forse venuto il momento di riconoscere che mettere l´uomo al centro delle preoccupazioni dell´azienda non significa ridurlo a una semplice «risorsa umana».

Repubblica 1.10.09
La fabbrica dei suicidi mistero France Télécom
di Giampiero Martinotti


Ventiquattro dipendenti si sono tolti la vita negli ultimi diciotto mesi
Sotto accusa il gruppo dirigente e la feroce politica di ristrutturazione

Un palazzo anti-suicidi, un posto di lavoro con finestre chiuse e parapetti alti, come se bastassero pochi accorgimenti tecnici per mettere fine a un disastro sociale con pochi precedenti. A prima vista, la notizia che France Télécom occuperà da gennaio quell´immobile potrebbe sembrare farsesca, se non s´inserisse in un contesto tragico: ventiquattro suicidi in appena diciotto mesi, decine di migliaia di dipendenti in stato di shock, un management sotto accusa per aver trasformato un´azienda gloriosa in una fabbrica di depressi comandati a bacchetta. La sinistra chiede le dimissioni del presidente e amministratore delegato, Didier Lombard, ma lo Stato, primo azionista della società, forse si limiterà a chiedere la testa del suo vice.
Il palazzo di Saint-Denis, alle porte della capitale, dove in gennaio andranno a lavorare duemila dipendenti dell´operatore telefonico, è diventato così il simbolo di un´azienda terrorizzata: finestre chiuse, terrazze e passerelle inaccessibili, parapetti rialzati. La paura paralizza un po´ tutti: negli ultimi tempi si è visto un dirigente pugnalarsi davanti ai suoi colleghi durante una riunione, una giovane donna si è lanciata giù dalla finestra del suo ufficio al quarto piano. E chi tra i suicidi ha lasciato qualche spiegazione ha implacabilmente accusato France Télécom, i suoi dirigenti e i loro metodi brutali.
Il messaggio inviato al padre via mail da Stéphanie, 32 anni, è terribile: «Il mio capo non lo sa, ovviamente, ma sarò la ventitreesima dipendente a suicidarmi. Non accetto la nuova riorganizzazione del servizio. Cambio di capo e per avere quel che avrò preferisco morire. Lascio in ufficio la borsa con le chiavi e il telefonino. Porto con me la mia carta di donatrice di organi, non si sa mai. Mi dispiace che tu riceva un messaggio di questo genere, ma sono più che persa. Ti voglio bene, papà». Pochi minuti dopo la ragazza si è buttata dalla finestra del suo ufficio.
Lunedì, a Annecy, un altro dipendente si è lanciato giù da un viadotto. Nella lettera alla moglie si è detto disperato per le condizioni di lavoro. Lombard, arrivato sul posto, ha dovuto affrontare la collera di trecento dipendenti.
France Télécom ha deciso di bloccare la mobilità interna dei dipendenti, considerata una delle radici dello stress. Ma si tratta solo di un elemento. Un libro appena uscito (Orange stressé, di Ivan du Roy, che si riferisce al marchio commerciale della società e gioca sull´assonanza con l´arancia spremuta) punta il dito contro metodi che hanno un solo obiettivo: spaventare il personale per spingerlo ad andarsene. Ieri sotto tiro c´era soprattutto Louis-Pierre Wenes, il numero due del gruppo, l´uomo incaricato di tagliare i costi: «Una volta ci ha detto: sottomissione o dimissioni», racconta una sindacalista.
Il malessere va però al di là dei metodi di un uomo. France Télécom è passata dal mondo ovattato di una società pubblica monopolista a quella di un´azienda costretta a battersi in uno dei settori più concorrenziali di oggi. La transizione era oggettivamente difficile e nessuno dei dirigenti che si sono susseguiti negli ultimi dodici anni ha saputo guardare al di là del rosso e nero dei conti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con la paura che la lunga lista dei suicidi possa ancora allungarsi.

Corriere della Sera 1.10.09
Dialoghi. I Caraibi e la creolizzazione: sintesi di civiltà che si mescolano senza perdersi
Simboli I muri: cercano di fermare i nemici, ma impediscono a chi sta dentro di uscire
Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione
Incontro con Édouard Glissant, scrittore discendente di schiavi «Bisogna amare l’uomo, accettando di non capirlo fino in fondo»
conversazione di Claudio Magris con Édouard Glissant


È soltanto nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ci sono molte radici: se una si proclama unica, o esclusiva, distrugge tutto

Le radici — ha scritto Édouard Glissant — non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pian­ta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani. Con tale immagine forse ispirata dalla ve­getazione tropicale della sua Martinica e svilup­pata in splendidi saggi, Glissant — questo di­scendente di schiavi che è oggi uno dei grandi scrittori del mondo — fornisce la giusta rispo­sta all’equivoco e lacerante dilemma tra la pau­ra della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e l’esasperazione delle diversità stes­se, ognuna delle quali si chiude regressivamen­te alle altre in un gretto micro-nazionalismo.
Nato nella Martinica nel 1928, amico di Cèsai­re e attivo nella difesa della propria e di ogni cultura minacciata, Glissant afferma che ogni identità e il mondo stesso si costruiscono nella relazione, in un processo creativo e armonioso che egli definisce «creolizzazione», ispirandosi al creolo, la lingua nata dal francese o meglio dai dialetti francesi (per esempio, il norman­no) dei padroni di schiavi e dalla parlata di que­sti ultimi. Essa è divenuta una «lingua franca» dei Caraibi — arcipelago di civiltà differenti, Mediterraneo oceanico e tropicale — e anzi lin­gua franca per eccellenza, crogiolo e fusione di culture che si incontrano, si mescolano e si tra­sformano senza perdersi. Così, nella letteratura e nella stessa persona di Glissant si amalgama­no i neri strappati all’Africa dalla tratta e porta­ti a coltivare la canna da zucchero nelle Antille, i francesi un tempo loro padroni e gli altri grup­pi, dagli antichi e quasi estinti caraibi agli india­ni, ai cinesi, ai siriani giunti in diversi momenti in quello straordinario caleidoscopio antillese di diversità, che ha pure espresso una notevolis­sima letteratura, scevra di ogni folclore locale e di ogni fissazione identitaria.
Allo stesso modo, nell’opera di Glissant vivo­no il conteur , il narratore orale anonimo che nella stiva delle navi negriere e nelle piantagio­ni trasmetteva la memoria dell’Africa perduta, e i classici francesi, di cui la sua prosa — cele­brata e premiata — è geniale e organica erede, in una continuità perpetuata nell’ardita innova­zione strutturale delle forme narrative.
Durissimo nella denuncia di quei genocidi che sono stati la tratta, la schiavitù e la segrega­zione razziale, Glissant si riconosce nel «bian­co » antillano Saint John Perse altrettanto che nel «nero» Cèsaire ed è — caso rarissimo — del tutto immune, pur nella spietata rappresen­tazione dell’orrore, da quel risentimento, da quella viscerale concentrazione su se stessi e sul proprio dolore che sono umanamente com­prensibili e spesso quasi inevitabili in chi ap­partiene a un gruppo o a un popolo che hanno subito (e talora subiscono ancora) oppressio­ne, ma tolgono fatalmente libertà interiore e si­gnorilità.
Autore di romanzi, saggi e testi teatrali noto internazionalmente, Glissant non lo è ancora al­trettanto in Italia, dove ha pubblicato, presso le Edizioni del Lavoro, il romanzo Il quarto seco­lo, il saggio Poetica del diverso e lo sconcertan­te Tutto-mondo , nella forte versione di Geraldi­na Colotti e Marie-Josè Hoyet. Dai suoi libri, in Francia, sono nati originali filoni e istituti di ri­cerca.
Il quarto secolo , assai felicemente tradotto da Elena Pessini, è un vero capolavoro di genia­le costruzione narrativa e trascinante poesia umana; un’epopea di quei quattro secoli in cui l’umanità ancora indistinta degli schiavi nella stiva delle navi negriere, ventri che solcano le immense acque gravidi di esistenze quasi anco­ra embrionali e quasi già stroncate, si affaccia alla vita e alla storia. In questo epos costruito con originale e rivoluzionaria tecnica struttura­le e ribollente di destini, epifanie, estreme rive­lazioni dell’umano, Glissant riesce a rendere giustizia poetica anche alle figure della barbarie schiavista, come la storia di Laroche, l’ultimo accanito negriero, ritratto in una torva e abietta grandezza che è un’altissima pagina di letteratura.
È una festa incontrare quest’uomo anziano e massiccio, paterno e fraterno, gran signore e ca­pace di picaresca amicizia, che va subito al dun­que della vita col quale si crea un’istintiva affini­tà. Lo incontro prima a Parigi e poi a Schio, in un convegno, accompagnato dalla moglie, Syl­vie — che fa capire cosa significhi essere una compagna nella traversata dell’esistenza — e da una parte della sua numerosa famiglia, un figlio e una figlia col marito e tre adorabili nipo­ti, vivacissimi e di un’innata gentilezza d’animo nel senso antico del termine, attenti a che il nonno riottoso non si affatichi troppo. È la feli­cità. Mi dice indicandomeli. Ci sono — gli dico — quasi alcune parole chiave nel tuo discorso: erranza, relazione...
Glissant — L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere si­gnifica errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella rela­zione; è solo nel rapporto con l’altro che cre­sco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. La sorgen­te del tuo Danubio è diversa da quella del Mis­sissippi, di un piccolo ruscello o della mia Lé­zarde (il fiume della Martinica cui si intitola un suo romanzo), ma acquista il suo senso nel ri­mando ad esse, nell’arricchimento che dà loro e che ne riceve. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universa­le reclamata dal colonialismo.
Magris — Infatti tu hai celebrato, come dice il titolo di un saggio, la Poetica del diverso , ma di un diverso che non si isola, non alza il ponte levatoio né si trincera dietro una muraglia cine­se per escludere gli altri, «i barbari»...
Glissant — L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; quella cinese è stata co­struita non solo per impedire agli invasori di entrare, ma anche per impedire ai cinesi di uscire, come dice quella mirabile storia del ge­nerale cinese che sorveglia la frontiera e, veden­do un’apertura fra due alte montagne lontane, dice ai suoi ufficiali: «là c’è il mondo e noi non ci andiamo». Chiudersi in se stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conqui­starlo.
Per fortuna nella mia Martinica ci sono anche i cinesi e pure essi fanno parte del mio «mondo-relazione», del mio Tutto-mondo.
Magris — Questa relazione diviene, nei tuoi libri, racconto, cronaca e invenzione di destini, personaggi, anche e forse soprattutto paesaggi, paesaggi viventi. I paesaggi si possono leggere, hai scritto.
Glissant — Sì, e questa è un’altra affinità tra noi, perché in Danubio o in Microcosmi il pae­saggio non è, come di solito in letteratura, cor­nice e sfondo della vicenda, bensì creatura vi­vente. Ciò che adoro in Danubio è che è un fiu­me ma anche un personaggio, che si trasfor­ma, ha i suoi capricci, le sue sventure, il suo inconscio... Il paesaggio è storia, è umanità, è immaginario. Gli schiavi africani portati nelle Americhe recavano con se la memoria oscura di un paesaggio africano, obliato ma sedimen­tato nel profondo; ad esso si è sovrapposto il nuovo paesaggio, che è diventato il loro e che essi hanno contribuito a costruire, lavorando nelle piantagioni o fuggendo — i marrons, i ri­belli — sulla morne, sulla collina, che così ha acquistato una nuova fisionomia, un nuovo si­gnificato nell’immaginario. Se ne è ricordato, inconsciamente o no, Castro quando si è rifu­giato sulle colline, simbolo di quella che era sta­ta a Haiti la prima rivoluzione vittoriosa degli schiavi.
Magris — La memoria è un grande valore quando è pietas , coralità, salvezza dalla violen­za dell’oblio, ma può degenerare in ossessione astiosa e vendicativa. Anche per tuo impulso, ora si sta raccogliendo metodicamente la me­moria della tratta e della schiavitù.
Glissant — Questa memoria è stata spesso oscurata per tanti motivi: difficoltà di docu­mentazione, rinuncia, vergogna, spirito di ri­vendicazione, e ora si sta cercando di recuperar­la. Ma senza le ambiguità e le regressioni spes­so connesse alle richieste di «pentimento». Il discendente di schiavi che ingiunge al discen­dente di schiavisti di chiedere perdono, con ta­le richiesta regredisce e si fa piccolo, si pone in una condizione di minorità. Altrettanto picci­no è il discendente di schiavisti che rifiuta di prendere coscienza della sua storia, mentre egli cresce interiormente se, considerandosi giustamente non responsabile di ciò che han­no fatto i suoi antenati, assume consapevolezza di quella barbarie.
Magris — Un’altra passione che ci accomu­na è Faulkner, su cui hai scritto un saggio che è un vero capolavoro, Faulkner, Mississippi.
Glissant — Faulkner, uno dei grandissimi del secolo scorso, sapeva di appartenere a una casta o classe di piantatori bianchi del Sud, di cui condivideva i pregiudizi, fortemente radica­ti. Ma ha avuto il genio di capire che quella clas­se — la sua — portava in sé la perdizione ossia la schiavitù dei neri, peccato originale e danna­zione del suo mondo. E ne ha fatto un simbolo universale, con la sua straordinaria forza epica e con quella scrittura che io chiamo la rivelazio­ne differita, in cui l’esistenza, la verità, la morte si annunciano per venire rinviati sino alla fine. Così un uomo legato al vecchio Sud ha scritto la più grande epopea della schiavitù dei neri e ne ha fatto una parabola universale dell’uma­no.
Magris — L’hai fatto pure tu con Il quarto secolo , storia di neri che diviene storia di tutti. Spesso fai l’elogio dell’«opacità». In che senso?
Glissant — Come ho detto una volta a Città del Messico, suscitando scandalo, rivendico il diritto di ognuno all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere total­mente l’altro. Ogni esistenza ha un fondo com­plesso e oscuro, che non può e non deve essere attraversato dai raggi X di una pretesa cono­scenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amar­lo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui.
Magris — Anche la letteratura, è stato detto (per esempio, da Goffredo Fofi), ha un metafo­rico «Nord» (per esempio, Kafka, Musil, Bec­kett) e un metaforico «Sud» (Faulkner, Gui­marães Rosa, Mo Yan)...
Glissant — L’immensa letteratura del «Nord» è stata straordinaria nella ricerca del­l’individuazione, nella psicologia dell’Io, e su questa strada ho incontrato il negativo della vi­ta e della storia moderna. Se Joyce ha scritto con l’ Ulysses un epos dell’individuazione, la let­teratura del «Sud» (un sud che può essere ovunque) narra piuttosto la storia di Ulisse che diventa Nessuno, e su questa strada incontra l’epica, la totalità, la coralità — il Tutto-Mondo, come dico io. Ma questa autentica epica viene spesso contraffatta da tanta falsa letteratura, an­che di successo, che simula e dunque falsifica la calda vita, come se essa fosse facile e a porta­ta di mano...

Liberazione 30.9.09
"Il grande silenzio", un libro-intervista di Alberto Asor Rosa sulla crisi della cultura
L'intellettuale è finito. Ora c'è il mostro mite
di Pasquale Voza


Stimolata lucidamente dalle domande dell'intervistatrice, Simonetta Fiori, l'autobiografia politico-intellettuale di Asor Rosa ( Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali , a cura di Simonetta Fiori, Laterza, pp. 181, euro 12) si snoda lungo un asse privilegiato, vale a dire la storia degli intellettuali e dei processi culturali dagli anni Cinquanta sino all'oggi: sino cioè al «grande silenzio» degli intellettuali, dovuto alla loro ormai irreversibile estinzione, paragonabile - osserva con "drammatica" ironia lo studioso - alla estinzione dei brontosauri. La ricostruzione di questo percorso e del ruolo in esso giocato dall'autore è complessa e ricca anche di tanti episodi e momenti particolari, che spesso valgono ad illuminare efficacemente il quadro d'insieme.
Si possono individuare alcuni nodi essenziali. Il primo è quello di fondo: il decadimento dell'intellettuale occidentale, o - come viene detto spesso - del maître à penser , di una figura contraddistinta dall'intreccio di tre componenti, «pensiero forte, pensiero critico, valori». Asor Rosa mostra di non condividere la lettura che Bauman dà di tale decadimento, visto dallo studioso di origine polacca come il passaggio dalla figura dell'intellettuale «legislatore» a quella dell'intellettuale «interprete», dagli anni del secondo dopoguerra sino agli anni Settanta e alla crisi dello Stato sociale: vale a dire, come il passaggio da chi, in chiave universalistica, si riconosceva nella funzione di elaboratore di idee di promozione e di direzione di un ordine sociale "progressivo", a chi, abbandonate o dismesse le ambizioni universalistiche, mette le proprie competenze professionali al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani e plurali, in un mix di specialismo corporativo e di cultura-spettacolo. Egli preferisce parlare, più propriamente (lungo un arco di riflessione che va da Max Weber a Bobbio), piuttosto che di intellettuale legislatore, di un intellettuale specialista, che «traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e usa queste ultime come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l'antropologia circostante».
In ogni caso, va detto che questo decadimento chiama in causa anche processi di riclassificazione dei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato, di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale, e pur ancora ricca di contraddizioni, dilatazione "totalitaria" del capitalismo post-fordista. Asor Rosa parla dell'esito attuale in termini di nuova «civiltà montante» ovvero, riprendendo una suggestiva espressione di Raffaele Simone, di «mostro mite», in cui la televisione di massa svolge il ruolo di un «potentissimo e gigantesco intellettuale collettivo». Qui, a mio avviso, andrebbe richiamata l'attenzione su due categorie "classiche" - autonomia e impegno - presenti da sempre nella riflessione asorrosiana sulla storia degli intellettuali. Secondo lo studioso, se nella realtà dell'Occidente la pratica dell'autonomia intellettuale «è stata consentita storicamente solo all'interno di una società borghese» ed è stata la più fertile di risultati, il cosiddetto impegno della cultura si è rivelato, di volta in volta, sostanzialmente povero e fallimentare e in Italia si è legato alla «anomalia» della storia italiana e, in particolare, alla «rivoluzione passiva» del Risorgimento italiano (in cui - osservava Gramsci - in assenza di una solida rivoluzione economica borghese, la rivoluzione è avvenuta nelle «superstrutture», con un impegno e un primato patologico degli intellettuali). Ora in Asor Rosa queste due categorie, pur collocate in una durata storicamente determinata, tendono sempre poi, in qualche modo, a slittare in una pronunzia (vagamente) prescrittiva e normativa: un libro classico, in questo senso, è Scrittori e popolo del 1965. A ciò si collega quella che lo studioso, nell'intervista, chiama la sua «estraneità all'autore dei Quaderni »: estraneità che lo ha portato a non interrogare fino in fondo nozioni come intellettuale organico, nazionale-popolare o popolare-nazionale (si pensi che nel libro circola, sia per mano di Simonetta Fiori che dello stesso Asor Rosa l'espressione vulgata nazional-popolare, del tutto estranea a Gramsci: e la differenza non è, ovviamente, solo grafica). Ma sarebbe anche da riflettere sull'esperienza operaista di Asor Rosa, troppo rapidamente consumatasi: egli, autodefinitosi «un trontiano critico», ripensa oggi all'operaismo come a qualcosa che ha rappresentato anche «l'idea che la classe operaia fosse il nuovo ceto dirigente, dotato di caratteristiche intellettuali più forti e più innovative rispetto alla classe sociale contro cui il movimento operaio combatteva».
Ma torniamo a quello che egli chiama «l'assoluto presente», ovvero «l'ideologia onnivora del presente», che è il punto di vista generale da cui si diparte l'intera intervista-autobiografia. Qui Asor Rosa dà vita a notazioni e spunti analitico-descrittivi assai efficaci, che mettono a fuoco, con una pronunzia sapientemente e icasticamente antropologico-letteraria, i processi, in corso da decenni, di ristrutturazione oligarchica dei poteri e di proliferazione e frammentazione corporativa e atomistica della società; e, per quanto riguarda l'Italia, riprendendo un suo articolo, Più del fascismo , uscito la scorsa estate sul manifesto , delinea i caratteri della «dittatura politico-mediatica» di Berlusconi, della «democrazia totalitaria», presente, a suo avviso, oggi in Italia.
E' interessante osservare come, ad onta dell'apparenza data dalle sue formule "estreme", Asor Rosa inviti perentoriamente a non indulgere ad alcuna forma di catastrofismo e a cercare invece le «zone di resistenza» ancora presenti, che in Italia egli vede soprattutto nel mondo della scuola e della magistratura: più in generale, egli delinea il compito grandioso di «traghettare» il nucleo fondativo, il nucleo «buono» dell'Occidente («quel mix di libertà e di socialismo, di progresso e di solidarietà sociale, di rispetto delle regole e di rinnovamento politico e culturale») in un «altro Occidente». Un compito, questo del traghettamento, che si colora di forti accenti etico-antropologici: manca la politica, si sarebbe detto una volta, e forse - vincendo il pudore - varrebbe la pena riuscire a dirlo ancora, se non si vuole essere né catastrofisti né brontosauri.

Repubblica 1.10.09
Tutte le escort della letteratura latina
risponde Corrado Augias


Caro Augias, è consentito un piccolo divertimento su un dibattuto tema d'attualità? Vorrei proporre un'etimologia fantasiosa del famigerato termine "escort". Esercizio pericoloso per me che insegno latino; però suggestivo in quanto si può far scherzosamente derivare "escort" dal latino scortum , un sostantivo piuttosto frequente nella commedia latina, attestato a partire da Plauto, che può riferirsi ad una cortigiana di alto bordo come Frine (in Valerio Massimo IV, 3, 3) o di un certo tono come quella dell'unico passo di Giovenale in cui il termine è presente. Si tratta di Sat. III, 134 ss. dove allo schiavo del ricco, che può pagarsi qualsiasi capriccio, è contrapposto l'uomo di nascita libera ma di limitati mezzi che, quando vede una prostituta distinta (è vestita e sta a cavallo; il nome - Chione - indica il candore niveo della sua pelle), esita a lungo perché teme che sia troppo cara per lui: «At tu, / cum tibi vestiti facies scorti placet, haeres / et dubitas alta Chionen deducere sella». Per chiudere in bellezza, Catilina, quando cercava di legare a sé i suoi uomini secondandone passioni e desideri, ad alcuni procurava donne (Sallustio Catil . 14, 6 scorta praebere).
Franca Ela Consolino

Azzardo una traduzione dei due versi di Giovenale, mia personale bestia nera fin dagli anni del liceo: «Ma tu, se ti eccita il musetto di una puttana in ghingheri, ti blocchi ed esiti a far scendere Chione dal trono». Più o meno. In compenso ho trovato altre citazioni dove ricorre la suggestiva parola scortum . Per esempio in Cicerone ( Phil . 2, 105): «Scorta inter matres familias versabuntur», le puttane si aggiravano tra le madri di famiglia. O un'altra di intenso significato in un lettera di Eloisa all'amato Abelardo. Scrive l'indomita fanciulla: «Non miravo al matrimonio né alla ricchezza; e tu sai bene che ho sempre cercato di soddisfare non i miei piaceri e la mia volontà, ma solo i tuoi. E se il nome di moglie appare più sacro e più valido, per me è sempre stato più dolce quello di amica, o, se non ti scandalizzi, di concubina e di prostituta («dulcius mihi semper exstitit amicae vocabulum aut, si non indigneris, concubinae vel scorti»). Ma la prof. Consolino mi segnala anche un breve e ironico componimento del poeta Lussorio, attivo in Africa nel VI secolo, dal titolo «Colui che non volendo essere chiamato vecchio, si procurava molte amanti». Vi si legge tra l'altro: «Perché con tante amanti sfoggi il tuo nerbo/ ogni volta che cerchi di celare/ la tua tarda vecchiaia? Invano credi/ con questo inganno di ringiovanire:/ ti rende solo greve, vecchio qual sei,/ la lascivia che ostenti con costoro». Ovvero: «Incassum reparare putas hac fraude iuventam Harum luxus agit sis gravis ut senior». Si può scuotere sconsolati il capo: Nihil sub sole novi.

Repubblica 1.10.09
Così Pompei muore di nuovo
"Si creano luoghi-spot governati con poteri straordinari"
di Francesco Erbani


Degrado, restauri e manutenzione L’allarme di Piero Giovanni Guzzo, che ha appena lasciato la Soprintendenza

«I cani randagi? Sono ancora lì e scorrazzano». Ma un anno e mezzo fa è stato istituito un commissario per gli scavi di Pompei che doveva fare tante cose, e anche mandare via i cani. «Invece sono ancora lì», insiste Piero Giovanni Guzzo, che fino ai primi di settembre a Pompei era soprintendente. E il commissario? «Il commissario ha realizzato un impianto di illuminazione, ha installato qualche fontanella e ha sottoscritto un accordo per acquistare i biglietti su Internet». Molti turisti se ne saranno serviti. «Credo siano stati venduti nove o dieci biglietti».
Dopo quindici anni Guzzo, archeologo di grande fama, ha lasciato la Soprintendenza di Pompei (nel frattempo unificata con quella di Napoli). Non sono serviti gli appelli sottoscritti: Guzzo ha compiuto 65 anni e 40 di servizio e, nonostante ci fosse la possibilità che il ministro lo trattenesse al lavoro, questa possibilità Sandro Bondi non l´ha neanche considerata. «Il ministero si sta orientando su programmi per i quali noi vecchietti non siamo affatto funzionali».
Quali programmi?
«Quello della valorizzazione, per la quale è stato chiamato un manager come Mario Resca. E quello dei commissariamenti. Mi sembra che il primo programma sia più soft. Molto più hard il secondo».
Vale a dire?
«I commissari tendono a sostituirsi alle soprintendenze, le quali, contemporaneamente, vengono svuotate».
Nominando soprintendenti ad interim, accorpando uffici...
«Sì, ma soprattutto non assumendo nuovo personale, con concorsi sempre più rari e sempre più lenti. Nei nostri uffici la media d´età supera i cinquant´anni».
E con i commissari che cosa succede?
«Le procedure vengono semplificate. Si introducono criteri discrezionali nella distribuzione di appalti e consulenze, in deroga alle norme vigenti. Insomma si creano postazioni che godono di maggior fiducia e politicamente molto utili».
Lei ha vissuto il commissariamento di Pompei.
«Si era detto che Pompei era in condizioni di degrado assoluto. E si è nominato un commissario. Il quale però non aveva fondi propri e per ogni iniziativa ha attinto da quelli della Soprintendenza. Il primo commissario, Renato Profili, ha in buona parte adottato il programma di lavori già avviato dalla Soprintendenza, che dunque non è stato considerato tanto sballato. Per esempio, si è completata la ristrutturazione dell´Antiquarium. Poi però, con 100 mila euro della Soprintendenza, il commissario ha potenziato l´illuminazione su via di Villa dei Misteri, per evitare, si è detto, che fosse affollata di prostitute. Il fatto è che quella strada è fuori dell´area archeologica. Dunque, con i soldi della Soprintendenza abbiamo finanziato il Comune di Pompei».
Dopo Profili è arrivato Marcello Fiori, dirigente della Protezione civile, già impegnato per il termovalorizzatore di Acerra e poi per la ricostruzione a L´Aquila.
«Fiori l´ho visto tre, quattro volte».
Si dice che gli portassero la posta di Pompei a L´Aquila, che lui la firmava e poi tornava a Pompei. Inoltre con Profili collaboravano cinque persone, lo staff di Fiori arriva a dodici unità.
«È così».
Ma i cani continuano a scorrazzare.
«La competenza sui cani randagi è regionale. Poi trasferita al Comune. Noi abbiamo proposto di costruire un canile, ma non si è andati avanti perché la legge impedisce di costruire un canile se non in un luogo sgombro per un raggio di 500 metri. E a Pompei non c´era nessun luogo simile».
Mi scusi, ma di fronte a questa e ad altre forme di degrado, lei non si è mai sentito responsabile?
«Quando è stata istituita la Soprintendenza autonoma, a me è stata lasciata la competenza scientifica. Ed è stata istituita la figura del city manager cui erano affidati i compiti di gestione dell´area archeologica. Questa duplicazione delle responsabilità ha prodotto molti problemi: sono arrivato anche a presentare le dimissioni all´allora ministro Francesco Rutelli».
Poi però le ha ritirate.
«Fu il ministro a chiedermelo. Promise di risolvere la questione, ma poi non se ne fece nulla».
Con il Comune di Pompei avete avuto rapporti molto tesi. Come con il Santuario della Madonna.
«Continuano a essere tesi. Noi avevamo avviato lo sfratto per morosità di chi aveva in concessione il ristorante. Ma non eravamo riusciti a ottenerlo. Profili ci è riuscito con i carabinieri. Ma il concessionario ha fatto ricorso. E sa chi lo difende? Un avvocato che tutela il Santuario e l´attuale sindaco di Pompei».
E da questa vicenda che considerazioni trae?
«Sono arrivato a Pompei nel 1994. Da allora gli scavi sono tornati a essere un luogo di fruttuose ricerche, sono arrivati archeologi da tutto il mondo, abbiamo ricostruito la storia più antica della città. Ma il sito vive in una realtà fra le più difficili del paese. È uno dei principali datori di lavoro e scatena interessi e appetiti. I dipendenti sono settecento, tre quarti dei quali sono custodi, che però non sono assunti dalla Soprintendenza, bensì vengono dai ranghi del ministero. I criteri di selezione sono spesso clientelari o di tipo familistico. Se il commissario riesce a rompere questi meccanismi, ben venga. Ma mi pare che si sia fatto ben poco. A Pompei sono arrivati consulenti del commissario del tutto estranei alla tutela di un bene culturale, come l´architetto che aveva proposto di realizzare dei percorsi pedonali in tek. Ma siamo all´aperto, abbiamo replicato, e poi striderebbero con il contesto. Lui, per la verità, ha cambiato opinione. Però non è questo il contributo che ci si aspetta dal commissario».
Ma quali sono le priorità per Pompei?
«Restauro e manutenzione. Andrea Carandini ha denunciato che ogni giorno si perdono 10 centimetri di Pompei. Non so se sia così, ma è comunque la salvaguardia il nostro compito fondamentale. Per il quale, però, ci scontriamo con una farragine di norme che prevede decine e decine di passaggi e con la sproporzione assoluta tra le risorse finanziarie e professionali e le necessità che abbiamo».
Servono finanziamenti e nuove procedure. A Pompei come altrove. È così?
«Soldi e il tempo necessario per programmare gli interventi. Poi quale sia il soggetto appaltante è secondario, l´importante è che ci siano competenze tecniche e standard da rispettare. Invece il ministero procede isolando una serie di luoghi-spot, da governare con i commissari, lasciando senza una linea precisa tutto il resto del patrimonio».
Sulla valorizzazione, però, il ministero ha investito.
«A Pompei hanno proposto un accordo con Google per realizzare una "street view": si monta una telecamera su un mezzo che cammina per le strade della città e così chiunque, si dice, può fare il suo viaggio virtuale a Pompei».
Serve a diffondere le bellezze degli scavi. O no?
«Ma le bellezze di Pompei sono gli interni. La Casa del Fauno vista da fuori sembra una casa come le altre. Insisto: la valorizzazione di Pompei comincia con la messa in sicurezza di tutta l´area archeologica».

l’Unità 1.10.09
«Uno stupro è uno stupro Polanski non deve pagare?»
«Assistiamo a una ripresa spudorata dell’offesa al corpo femminile. Quasi una sorta di autorizzazione alla violenza. Vorrei sapere dai firmatari dell’appello per Polanski perché hanno dato la loro solidarietà».
di Gabriella Gallozzi


La femminista Alessandra Bocchetti: «La solidarietà al regista scorda il perché dell’arresto»
L’abisso «Momenti come questo svelano una distanza enorme degli uomini dalle donne»
Il problema «La violenza sulle donne è l’atto fondativo della nostra cultura»

«Solidarietà in nome di cosa? Dell’arte? Si è trattato dello stupro di una bambina di 13 anni, come si può dire che non debba pagare?». Alessandra Bocchetti, figura storica del nostro femminismo, autrice tra l’altro del libro Cosa vuole una donna, interviene sull’«affaire Polanski»: l’arresto del regista a seguito del mandato di cattura statunitense per un processo per stupro risalente al ‘77. Un fulmine a ciel sereno che ha scatenato polemiche, ma soprattutto la solidarietà «compatta» del gotha internazionale del cinema e della cultura. Composto nella quasi totalità di uomini. Scarseggiano, infatti, le firme «solidali» delle donne a parte quelle di Jeanne Moreau, Fanny Ardant, Tilda Swinton e Monica Bellucci. Mentre da Woody Allen a David Lynch, da Martin Scorsese al nostro Marco Bellocchio la richiesta di scarcerazione per l’autore de Il pianista è arriva-
ta istantanea di fronte alla notizia del suo arresto a Zurigo.
ATTACCO AL CORPO FEMMINILE
«Ecco prosegue Alessandra Bocchetti mi fa una certa impressione la levata di scudi, così immediata e compatta da parte di questa enormità di persone contro l’arresto di Polanski. Come se tutti avessero dimenticato il perché. Qui stiamo parlando di una tredicenne drogata e stuprata. Il fatto che sia stato un artista cosa cambia? Che dicono che sia stata la madre a spingerla o che si tratti di un fatto di 30 anni fa, cosa cambia? Lo stupro c’è stato e va punito». Il problema, per lei che è stata una delle fondatrici del circolo Virginia Woolf, è come la violenza sulle donne sia radicata nella nostra cultura: «Lo stupro è l’atto fondativo della nostra cultura. Giove è uno stupratore. Per non parlare di quello che sta accadendo in Italia in cui c’è una ripresa pubblica e spudorata dell’attacco al corpo delle donne. Quasi una sorta di autorizzazione alla violenza». Come dire, esplicita Bocchetti, «alla fine questa cultura sopporta bene lo stupro. Del resto il corpo della donna è il corpo martire per eccellenza, quello destinato alla sofferenza. Lo abbiamo visto anche con le polemiche legate alla questione della pillola del giorno dopo».
«A BELLOCCHIO VORREI CHIEDERE...»
Poco conta, secondo Alessandra Bocchetti, che la vittima dello stupro Samantha Gailey, abbia chiesto la «chiusura del caso». Questo è legittimo per le solite drammatiche modalità con le quali vengono trasformati i processi per violenza sessuale, in cui i riflettori dei giudici e dei media sono impietosi nei confronti della vittima. «Uno stupro prosegue va al di là della persona, ma riguarda tutti». Il fatto è che, conclude, «ci sono dei momenti, e questo è uno di quelli, in cui gli uomini svelano una distanza enorme dalle donne: un abisso. Anche i più colti, anche i più simpatici. Questo abisso esiste sempre e in quel momento rende gli uomini nemici delle donne. E questo le donne devono saperlo. Per questo vorrei chiedere a Bellocchio, tra i firmatari dell’appello per Polanski, perché ha firmato. Perché ha dato la sua solidarietà a un uomo che ha drogato e stuprato una bambina di 13 anni».❖

il Riformista 1.10.09
Rifugi rassicuranti
Polanski e la Svizzera "terra d'asilo"
di Franco Debenedetti



Caro direttore, nella vicenda Polanski, ciò su cui ci si divide è se egli debba pagare per il suo delitto, o se invece, vuoi per il tempo trascorso, vuoi per i suoi meriti artistici, gli debbano essere risparmiati processo e possibile pena.
Ma così non si coglie il punto, che non riguarda né la morale né l'estetica, ma il diritto, l'applicazione degli accordi internazionali in materia di estradizione. Quasi tutti i Paesi hanno accordi bilaterali in materia, certamente Inghilterra e Francia, evidentemente la Svizzera.
Polanski vive da trent'anni in Europa, ha cittadinanza francese, ha una casa in Svizzera.
Perché in trent'anni nessuno di questi Paesi ha attivato la procedura di estradizione? Nessuno li accuserà di essere permissivi sui delitti di cui è accusato Polanski, e di chiudere un occhio su chi li compie. E allora: che cosa è capitato per far cambiare atteggiamento alla Confederazione?
C'è stato un altro cambiamento avvenuto in Svizzera. Un cambiamento rivoluzionario, che ha sostanzialmente modificato la Costituzione, con la pratica abolizione del segreto bancario. Con l'Ubs in ginocchio per la crisi finanziaria, di fronte alla minaccia di bandire la banca dal mercato statunitense, e di danneggiare la piazza finanziaria di Zurigo, gli svizzeri hanno piegato la testa e hanno accettato di aprire i conti intestati a un cospicuo numero di cittadini americani. Gli svizzeri negano di avere subito pressioni nel caso Polanski, ma non pare azzardato pensare che la paura a Berna induce automatismi pavloviani. Due inversioni di rotta repentine, entrambi aventi per controparte la giustizia Usa, nello spazio di poche settimane: è evidente il filo rosso tra l'eliminazione dei paradisi fiscali a quella di enclave garantiste. E questa, dato che i "perdonisti" stanno soprattutto nell'élite degli intellettuali di sinistra, è già una constatazione interessante.
La guerra ai paradisi fiscali non è solo per stanare evasori e bloccare il riciclaggio: l'obbiettivo a lungo - anche da noi esplicitamente e autorevolmente affermato - sono sistemi fiscali uniformi, l'eliminazione della concorrenza fiscale tra Paesi, ultimo impedimento a far crescere il prelievo a piacere (dei governi).
Aderire a una richiesta di estradizione va, in un campo diverso, nella stessa direzione: anche i sistemi giudiziari non sono uniformi. La Francia non ha estradato cittadini italiani condannati per reati comuni, ritenendoli associati a motivi politici: giudicando che il principio di libertà sia talmente fondante per l'identità francese, da non poter tollerare neppure il rischio di una scalfittura. L'Italia nega l'estradizione per imputati che rischiano nel loro Paese la pena di morte (Polanski in Usa rischia 50 anni, da noi massimo 14 e dopo 10 la prescrizione): il Paese di Beccaria e Verri non può lavarsi le mani di ciò che succede dopo. Troviamo assurdo che in Usa si possano acquistare armi da guerra suIinternet, ci lascia perplesso un sistema giudiziario che tiene in carcere l'1 per cento della popolazione.
Il fatto è che l'identità nazionale è un sistema complesso di tradizioni, cultura, istituzioni, di rapporto tra le persone e con lo Stato, di cui i sistemi giuridico e fiscale sono i pilastri fondamentali. In Svizzera, in poche settimane, entrambi hanno subito una scossa violenta. Ci sono stati tempi in cui è stato di vitale importanza sapere che si poteva avere fiducia in "Svizzera terra d'asilo", per le famiglie e per i loro patrimoni. Questa fiducia è anch'essa un patrimonio, risultato di comportamenti tenuti da generazioni di cittadini. Sembra che si dimentichi troppo in fretta che inferno può essere il mondo. Sapere che non esiste più nessun rifugio non è un pensiero rassicurante. Nella vicenda Polanski sono in gioco valori più importanti di quelli che riguardano i peccati dell'uomo e i meriti del regista. Sono valori che riguardano tutti noi.

il Riformista 1.10.09
Monicelli: «Polanski non è Papi»
di Luca Mastrantonio



Ieri alcuni giornalisti hanno accusato di schizofrenia morale chi ha firmato l'appello in difesa di Repubblica, querelata dall'avvocato Ghedini per le dieci domande su Papi & Noemi, cioè su Berlusconi che, secondo Veronica Lario, frequenta minorenni, e allo stesso tempo ha firmato l'appello a sostegno di Roman Polanski, reo confesso di uno stupro ai danni di una minorenne. Andrea Morigi, per esempio, su Libero. In realtà, più che sputare c'era sconcerto per una presunta contraddizione, che pure, sul piano moral-politrica è evidente, come ha già scritto sul nostro giornale il vicedirettore Ubaldo Casotto. Tra i registi del doppio appello, Paolo Sorrentino, raggiunto al telefono, non vuole commentare. «Posso solo dire che ho firmato io, consapevolmente, entrambi gli appelli, ma non voglio commentare».
Monicelli invece, raggiunto nella sua casa di Monti, a Roma, non si sottrae al confronto tra i due casi. «Chiariamo che le condizioni di rispetto della legge non vanno sovvertite. Questo signore si è dichiarato colpevole, eppure reputo che sia giusto ottenere indulgenza, per lui, anche per le circostanze di ciò che ha commesso. Le leggi vanno rispettate, ma non posso non augurami che un artista di valore, anziano, esca da questa faccenda». Monicelli, come altri suoi colleghi, ha personali motivi di indulgenza verso Polanski. «Ho fatto il primo film di sua moglie, lo conoscevo da Los Angeles, e abbiamo sempre avuto il sospetto che quella vicenda fosse anche un tranello, essendo lui noto come regista, amante di fanciulle che si davano con facilità. Questa ragazza aveva assicurato di essere maggiorenne, poi ci sarebbero state richieste di denaro, ricatti per ottenere lavoro».
Monicelli ammette che «questa motivazione non risolve niente, ma visto che mi si chiede conto di una decisione, la riferisco. Come l'altra motivazione. L'ho conosciuto come persona di grande intelligenza e qualità artistica e umana, ha questa, come dire, sensibilità infantile, per la sua storia personale, per quei nodi che lui ha affrontato durante tutta la sua vita, in film come Il coltello nell'acqua, Rosemary's baby, Il pianista, Oliver Twist, e allora penso che questa trappola, con questa ragazza, può essere riscattata dalla sua grande e ossessiva sensibilità, dalla profondità con cui non ha eluso i suoi drammi».
Eppure, proprio la dinamica, l'abuso sessuale di una persona, per giunta minorenne, in cambio di favori lavorativi nel mondo dello spettacolo, potrebbe avvicinare il crimine di Polanski e le presunte frequentazioni minorili di Berlusconi? Come si può sostenere le ragioni di un reo confesso e dare torto a un presunto colpevole? «Sono due tipi di persone, pubbliche, completamente diverse. E anche come persone umane. Berlusconi non ha le qualità di sensibilità di Polanski, non si rivolge a uonmini e donne, ai loro animi, ai sentimenti, come il regista. Il Cavalieri ha rapporti di potere con la società». Perché Berlusconi non può godere del dubbio della trappola? «Perché il presidente del Consiglio - conclude Monicelli - dovrebbe essere immune a queste trappole e dovrebbe tenerci alla sua immagine pubblica».

Corriere della Sera 1.10.09
L’ex di «Liberazione»
Lite all’«Altro» su Sansonetti «No al dialogo con i fascisti»


ROMA — Battaglia ideologica nella redazione dell’ Altro . Due giornalisti del quotidiano, Luciano Ummarino e Claudio Marotta, danno del fascista al direttore Piero Sansonetti: «Ci vergogniamo», scrivono in prima pagina, di far parte del giornale, dato che «strizza l’occhio ai fascisti del nuovo millennio».
Perché ha ospitato un’intervista a Giampaolo Pansa, «un articolo del sempre simpatetico Tassinari sulle aggressioni a Casa Pound» e vari altri interventi considerati eterodossi rispetto a quella che dovrebbe essere la linea di un giornale vicino a Sinistra e Libertà di Nichi Vendola.
Risponde, sempre in prima pagina, Sansonetti: «L’Altro è lo straniero, il diverso, il povero, il dissidente, il ribelle, l’isolato». Ma anche «il nero», cioè «il nemico con il quale ci interessa parlare, del quale vogliamo sapere le ragioni, gli umori i sentimenti». E così via, in un’inedita querelle , perché interna alla redazione dell’ Altro , ma giocata tutta pubblicamente, davanti ai suoi lettori.
E così intervengono anche altri giornali per segnalare il caos, a partire dal Secolo d’Italia . Se ne interessa anche il Foglio che ieri raccoglie questa confessione di Sansonetti: «Credo che l’antifascismo, così come è stato in Italia dagli anni Sessanta in poi, sia stato una palla al piede per la sinistra italiana.
Quando non avevi nient’altro da dire, dicevi che eri antifascista, e questo funzionava da Taviani a Renato Curcio: se è solo retorica per la retorica è un danno».
Convinzioni che fanno prevedere nuove polemiche e nuovi scontri redazionali ed extraredazionali.

Repubblica Lettere 1.10.09
La caccia agli immigrati nell'autobus milanese
di Flore Murard-Yovanovitch


La notizia del bus blindato a Milano dove si rastrellano immigrati riporta d'attualità la violenza razziale. Guardiamo il dilagare di quest'orrore, sotto i nostri occhi passivi: respingimenti, bus separati, immigrate insultate senza possibilità di denuncia. L'immigrazione è inarrestabile, è un processo millenario e quando non è per mare è per terra, e quando non sarà attraverso deserti sarà attraverso montagne. Voi che avete paura, osate guardare, oltre il barcone, le vittime di guerre civili, fame e colonizzazione dei loro sogni con la nostra tv e il nostro modello di vita. Calpestando gli immigrati rischiamo di perderla, questa nostra umanità. L'immigrazione è la nostra chance di rivoluzione non violenta per una società diversa, davvero uguale e ugualitaria.