sabato 3 ottobre 2009

l’Unità 3.10.09
270 a 250: mancavano 22 parlamentari del Pd, uno dell’Idv e sei dell’Udc
Era già successo Alcuni erano in malattia, altri no. I gruppi pensano a sanzioni
Lo Scudo passa per le assenze dei deputati di opposizione
Lo scudo fiscale diventa legge grazie a uno scarto di 20 voti tra centrodestra e centrosinistra. Esplode la polemica sulle assenze nelle file dell’opposizione. Soro e Casini minacciano sanzioni.
di Bianca Di Giovanni


Lo scudo fiscale diventa legge tra pesanti accuse in Aula (l’Idv definisce mafioso il premier), e profonda amarezza nelle stanze del gruppo Pd. L’ennesima amnistia per i furbi passa con 20 voti di vantaggie (270 contro 250), e proprio nelle file dei Democratici risultano 22 assenti. Per i parlamentari che sono intervenuti in massa (208 interventi su 216 deputati) per tentare di far decadere il testo è un colpo al cuore. Sette assenti risultano anche tra i banchi dell’Udc e uno nell’Idv.
RABBIA
Nelle file dell’opposizione si scatena una conta rabbiosa. Più tardi la presidenza del gruppo Pd fa sapere che 11 parlamentari erano assenti per malattia, con tanto di certificato medico inviato. Un altro (Sergio D’Antoni) era stato ricoverato urgentemente per accertamenti all’ospedale di Bologna. Altri tre (Giovanna Melandri, Lapo Pistelli e Linda Lanzillotta) erano a Madrid in missione per il partito. Ma tra i peones di Antonello Soro la rabbia aumenta. Tutti erano stati chiamati, uno per uno, dall’ufficio di presidenza. Prima telefonicamente, poi via sms. «Presenza obbligatoria, senza eccezione alcuna» era stato il tam-tam. Lo stesso Soro aveva firmato l’ordine. Eppure qualcuno non si è fatto vedere. Quanto basta per far prendere carta e penna al presidente e scrivere una lunga nota di richiamo. Martedì alle 12 si riunirà il direttivo del gruppo per decidere le sanzioni per gli assenti ingiustificati, che «comunque non sarebbero stati determinanti si legge nella nota ai fini del risultato». Stessa linea dura sceglie Pier Ferdinando Casini, che annuncia sanzioni pecuniarie verso i sei assenti ingiustificati dell’Udc. Oltre alle multe, le sanzioni possono essere un richiamo verbale o la sospensione dal gruppo.
Per il Pd è un duro colpo politico sul profilo dell’opposizione: ma certo anche la presenza al completo non avrebbe evitato il varo. La maggioranza infatti riesce a modulare le sue presenze in base a quelle dell’opposizione: se fossero stati tutti in Aula, anche il centrodestra avrebbe rimpinguato le sue presenze. Ieri la maggioranza è andata sotto su un ordine del giorno, ha rischiato per altre tre volte, vincendo con pochi voti di scarto, ha subito un voto in parità (245-245). Dopodiché il centrodestra ha messo in sicurezza il voto con presenze costanti a quota 250.
L’Idv cavalca il j’accuse all’opposizione «debole» del Pd. E non solo. In Aula Francesco Barbato, illustrando un suo emendamento e' tornato ad attaccare arrivando ad accusare il premier di essere '«mafioso». Dai banchi del centrodestra si sono alzate le urla: «Vergogna! Vergogna!», mentre la presidente di turno Rosy
Bindi gli toglieva la parola e lo riprendeva. Il vice capogruppo del Pdl, Italo Bocchino, ha chiesto alla Bindi di espellerlo. Per tutta risposta i deputati di Antonio Di Pietro hanno alzato dei quaderni rossi a rappresentare l'agenda rossa di Borsellino. Sull’episodio è intervenuto il presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha definito «oggettivamente gravi» le affermazioni di Barbato. Le sue parole «saranno oggetto di valutazione da parte dell'Ufficio di presidenza» che deciderà gli eventuali provvedimenti disciplinari da prendere». ❖

l’Unità 3.10.09
TUTTI IN PIAZZA
La manifestazione per la libertà d’informazione oggi pomeriggio in piazza del Popolo
Proteste gemelle nelle principali città europee: da Londra a Madrid, da Parigi a Berlino
Appuntamento a Roma per difendere la democrazia
Sono attese decine di migliaia di persone alla manifestazione «per una stampa che non vuol farsi mettere il guinzaglio». La Fnsi ha rivolto a tutti i cittadini un appello a ritrovarsi oggi a Roma in Piazza del Popolo.


Roma, ma anche Londra, Madrid, Parigi, Berlino, Barcellona e Monaco. Sarà la più grande manifestazione per la libertà di informazione nella storia dell’Occidente democratico quella che, dalle 15,30 di oggi, avrà il suo centro in Piazza del Popolo. Altre manifestazioni si svolgeranno contemporaneamente in tutt’Italia.Una protesta, una festa. Sarà aperta dall’Orchestra di piazza Vittorio, la band multietnica nata a Roma e conosciuta ormai in tutto il mondo. In questo modo, l’avvio della manifestazione sarà un modo per sottolineare che quello alla libertà di informazione non è il solo diritto oggi in pericolo nel nostro paese. Sono in discussione i valori fondamentali della nostra Costituzione. A partire dal principio di eguaglianza, colpito dal lodo Alfano (che rende il presidente del Consiglio più uguale di tutti gli altri) e dal cosiddetto «pacchetto sicurezza» (che fa di alcuni uomini, gli immigrati irregolari, dei criminali per status).
RIBELLARSI FA BENE
Alla protesta promossa dalla Federazione nazionale della stampa italiana hanno aderito centinaia di organizzazioni territoriali e nazionali tra le quali l’Ordine dei giornalisti, la Cgil, l’Arci, le Acli, la Fim Cisl, la Federazione italiana associazioni partigiane. Ieri è giunta anche l’ade-
sione del presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani. Tra gli interventi previsti, oltre a quello del presidente della Fnsi Franco Siddi che illustrerà le ragioni dell’iniziativa, quelli di Dario Fo e Roberto Saviano, del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida e dell’attore Neri Marcorè. È anche previsto un messaggio di don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana. Tra gli artisti, oltre all’Orchestra di piazza Vittorio saliranno sul palco di Piazza del Popolo Samuele Bersani, Marina Rei, Enrico Capuano e Teresa De Sio.
Come è noto il presidente del Consiglio ha definito la protesta di oggi «una farsa» e ha sostenuto che l’Italia è il paese dell’Occidente dove la libertà di stampa è più garantita. Qualche giorno fa, d’altra parte, era arrivato a sostenere di aver portato
L’adesione dei partigiani
La Fiap: «La difesa di questo diritto è alla base della democrazia»
«la moralità della politica». Di certo Silvio Berlusconi è stato il maggior sponsor anche se involontario della protesta odierna. I suoi attacchi sistematici ai quotidiani scomodi (accompagnati dall’invito agli imprenditori a punirli negando le inserzioni pubblicitarie), le intimidazioni individuali a giornalisti colpevoli solo di avergli rivolto domande non gradite e, infine, le richieste di risarcimento danni a l’Unità e a La Repubblica, hanno reso chiaro al mondo, e a una crescente parte del Paese, che la cosiddetta «anomalia italiana» rischia di colpire le basi
della democrazia.

l’Unità 3.10.09
TUTTI IN PIAZZA
Reporters sans frontieres: i giornalisti «affrontano la peggiore condizione» in tutta la Ue
Controllo sui media: Berlusconi «si avvicina alla lista del predatori della libertà»
Libertà di stampa, Italia all’ultimo posto in Europa
In una lettera l’organizzazione internazionale chiede un incontro al premier. Invito ai senatori per riflettere sulla legge sulle intercettazioni. Le vecchie norme hanno fatto «venire a galla fatti gravi di corruzione».
di Jolanda Bufalini


ROMA. C’è un capitolo sull’Italia nel monitoraggio di Reporters sans frontieres dedicato allo stato di salute della libertà di stampa nel mondo. Inizia con queste parole: «I giornalisti in Italia affrontano la peggiore condizione lavorativa di tutta l’Unione Europea». Le principali difficoltà, si spiega «sono di carattere giuridoco-legale e di sicurezza personale».
Queste cose, però, nessun telegiornale italiano le ha mai riportate. Chiosa il deputato Giuseppe Giulietti esponente di Articolo 21: «Eppure è lo stesso rapporto ampiamente citato in Italia quendo è venuto Chavez». Insomma, gli italiani «sanno tutto dei problemi della libertà di stampa in Cina, a Cuba o in Venezuela ma non sanno niente di ciò che un osservatorio indipendente e internazionale dice dell’Italia».
Guardiamoci, allora, attraverso lo specchio dell’associazione di cui è attualmente segretario generale Jean-François Julliard e presidente per l’Italia è una grande firma del nostro giornalismo, Mimmo Càndito. Il titolo del rapporto è “i predatori della libertà di stampa” e, in un documento presentato alla vigilia della manifestazione di piazza del Popolo si dice «Berlusconi si avvicina alla lista dei predatori».
«L’Italia è l’unico paese al mondo nel quale il premier controlla direttamente la quasi totalità delle reti televisive nazionali: i canali di Stato in quanto primo ministro e il più grande network privato». Ma il rapporto va oltre la fotografia ormai nota di quell’immenso potere: «La tv è la principale fonte di informazione per l’80 % della popolazione e, in molti casi, addirittura l’unica. Attira altissime percentuali degli introiti pubblicitari e la legge Gasparri ha di fatto annullato qualsiasi limite anti-trust». Aggiungono i reporter senza frontiere che, il nostro premier, non contento di ciò che controlla se la prende anche con le testate indipendenti e con quelle estere come El Pais e Nouvel Observateur.
Ma non è finita, gruppi economici e istituzioni in Italia: «Si rifiutano di fornire informazioni ai giornalisti, facendosi scudo con la privacy».
Reporters sans frontier ci critica anche per l’accesso corporativo alla professione che impone l’esame di Stato e l’iscrizione all’ordine.
C’è poi grande preoccupazione per la nuova legge sulle intercettazioni che deve essere esaminata al Senato: «Il nuovo disegno di legge vieta di pubblicare qualsiasi atto, fino alla chiusura delle indagini ». Ed è sempre vietata «la pubblicazione di conversazioni o flussi di comunicazione di cui sia stata ordinata la distruzione». Le pene denuncia l’organizzazione internazionale sono molto pesanti: il carcere fino a sei mesi e pesanti sanzioni che colpiscono anche gli editori: multe fino a quasi mezzo milione di euro, un’ammenda 18 volte superiore a quanto previsto per i reati finanziari. Con il rischio di un’ulteriore pressione sui giornalisti da parte dell’editore.
LA SICUREZZA PERSONALE
L’allarme di Reporters sans Frontieres è anche per la sicurezza personale dei giornalisti che si occupano di criminalità organizzata. Cita i casi di Roberto Saviano, Lino Abbate, Rosanna Capacchione. Ma queste persone costrette a vivere sotto scorta non sono le sole ad aver subito minacce. Vi sono decine di casi di minacce o attacchi come l’incendio della porta di casa o danni all’auto, anche verso i giornalisti sportivi da parte di frange ultra delle tifoserie.
Preoccupazioni che hanno portato Reporters sans frontieres a scrivere al premier. La lettera è firmata da Jean-François Julliard e Mimmo Candito e chiede un incontro, citando le querele contro l’Unità e la Repubblica e gli interventi «sulla programmazione televisiva». Un’altra lettera è indirizzata ai senatori a proposito del Ddl sulle intercettazioni. Vi si sottolinea che «L’utilizzo di svariate registrazioni ha permesso ai media italiani di portare a galla gravi vicende di corruzione». «Per conoscere i nomi dei responsabili del crack della Parmalat commenta Roberto Natale della Fnsi gli italiani avrebbero dovuto aspettare anni».❖

l’Unità 3.10.09
La libertà di noi tutti
di Moni Ovadia


La libertà di stampa è la libertà di noi tutti. Lo sa molto bene chi come noi collabora a questo giornale per dignità verso le proprie idee e per responsabilità verso il paese e i cittadini tutti. Il potere che orienta l’Italia da quindici anni, ovvero dalla “discesa in campo”, e che ha condizionato la vita nazionale anche quando era all’opposizione grazie allo strapotere mediatico di un solo uomo, ci ha riempiti di insulti, di calunnie, ha scagliato contro di noi le accuse più strampalate ed infamanti, perché? Perché non rinunciamo né mai rinunceremo al diritto di pensare. Questa semplice verità che è il fondamento di ogni libertà e di ogni democrazia è intollerabile per una forza politica che si sostiene sugli interessi di un solo uomo ostile ad ogni dissenso. Il cavaliere e i suoi coristi irridereranno la manifestazione con l’affermazione che l’esistenza in vita di giornali indipendenti e di qualche rara voce critica in televisione sono la prova evidente della libertà di stampa. La libertà di stampa non è l’esistenza in vita di organi che criticano l’operato del governo, ma è la possibilità di esercitare la critica nel pieno rispetto del diritto di farlo senza censure, senza intimidazioni, senza minacce e senza leggi costruite apposta per condizionare pesantemente i giornalisti con la spada di Damocle di durissime conseguenze penali. Purtroppo in Italia la progressiva corrosione della libertà di stampa e della democrazia è iniziata da molto tempo con il varo della infame legge Mammì che ha dato l’abbrivio al più abnorme conflitto di interessi del mondo occidentale. Da quel momento in avanti la deriva è stata inarrestabile. Avere permesso questo obbrobrio giuridico e morale in futuro verrà imputato a quasi tutta la nostra generazione per i reati di superficialità, omissione, pavidità, ingiustificabile miopia e stupidità.❖

Repubblica 3.10.09
Un’anomalia per l’Occidente
di Ezio Mauro


Il cittadino europeo conosce il caso Berlusconi meglio di quello italiano e può farsi un giudizio autonomo C´è un problema di libertà se i giornalisti devono pensare alla loro sorte quando si mettono a scrivere

Se è ancora possibile, nel mezzo dello scontro politico che divide l´Italia, vorrei provare ad uscire dagli slogan per ragionare su qualcosa che non è di destra o di sinistra e fa parte dei fondamentali di ogni normale democrazia, così come tutti noi la intendiamo: il diritto dei cittadini di sapere, cui corrisponde il dovere dei giornali di informare.
Questo diritto nella democrazia italiana di ogni giorno è a mio parere fortemente indebolito. Il controllo dell´intero universo televisivo da parte di un solo soggetto – che è anche capo di un partito, della maggioranza parlamentare e del governo – è un´anomalia in tutto l´Occidente.
Già questo dovrebbe farci riflettere come cittadini, così com´è anomalo il silenzio che ormai circonda il conflitto di interessi, quasi fosse un male incurabile, con cui convivere finché qualcuno inventerà il vaccino.
Stiamo parlando di lui, del cittadino. Non dei giornali o dei telegiornali, che sono soltanto strumenti della cittadinanza, in quanto libere imprese dell´informazione. Quel cittadino - in nome del quale si svolge oggi a Roma la manifestazione per la libertà di stampa - se esposto soltanto alla luce berlusconiana dei telegiornali pubblici e privati, sa solo ciò che vuole il potere. Ad esempio, non sa nulla dello scandalo che da sei mesi circonda il Capo del governo, lo ossessiona portandolo ad insultare i giornali che ne parlano, e gli impedisce di far politica liberamente, ostaggio com´è delle sue contraddizioni e delle sue bugie. Qualunque medio lettore di qualsiasi giornale europeo ne sa molto di più. Soprattutto, essendo informato, è in condizione di formulare un´opinione consapevole sulla rilevanza o meno di questo scandalo, e di esprimere un giudizio avvertito e autonomo.
Nei grandi scandali sollevati dalla libera stampa in altri Paesi, infatti, il concerto spontaneo tra i giornali che indagavano e i grandi network televisivi che rilanciavano le notizie ha reso coscienti e partecipi i cittadini, finché i leader politici coinvolti nelle vicende - tra tutti, Richard Nixon - hanno dovuto rispondere e rendere conto non solo alle domande di un´inchiesta giornalistica permanente, ma alla pubblica opinione, il cui peso è stato determinante. Da noi, è successo il contrario. Quando Repubblica ha notato contraddizioni e bugie nel racconto affannato e affannoso che Berlusconi ha via via fatto della vicenda, gli ha chiesto un´intervista e non avendola ottenuta gli ha rivolto in pubblico dieci domande, quelle bugie e quelle contraddizioni sono rimaste un problema di Repubblica e dei giornali stranieri. Eppure la menzogna del potere è un problema della democrazia, dunque di tutti e principalmente del cittadino elettore: oltre che uno spazio naturale e obbligatorio per ogni libero giornalismo.
Abbiamo dunque avuto di fronte - noi e i grandi giornali europei - una chiara e semplice questione di verità. Non so chiamarla altrimenti. Il silenzio del Premier, riempito da urla e insulti come non accade altrove, ingigantiva infatti un´ultima, definitiva domanda: signor Presidente, qual è la ragione oscura ma a lei ben nota, che le impedisce di dire la verità al suo stesso Paese, e la costringe a mentire ai suoi concittadini?
Sarebbe sufficiente tutto questo, e cioè l´incapacità-impossibilità del potere di spiegare i suoi abusi, per chiedere pubblicamente che il diritto-dovere d´informazione venga rispettato. Ma c´è molto di più. Costretto da se stesso al silenzio su ciò che non può chiarire, il Presidente del Consiglio ha cercato nel crescendo degli ultimi mesi di costringere al silenzio chi indaga su di lui. Prima ha parlato di complotto della stampa, come se esistesse un´internazionale del giornalismo ispirata dalle cancellerie. Poi di una manovra eversiva per farlo cadere, come se le critiche fossero un golpe. Quindi ha insultato i giornalisti di Repubblica («delinquenti») che tentavano di rivolgergli una domanda, le poche volte in cui non sfugge ai cronisti. Dalla tribuna di un convegno di Confindustria ha ufficialmente invitato gli imprenditori a non far pubblicità sui giornali che lo criticano e cioè ha tentato di sovvertire il libero mercato per soffocare economicamente Repubblica, come ha spiegato la sera stessa ai cronisti. Al corrispondente del Paìs colpevole di chiedergli conto del danno provocato all´Italia da questi scandali ha augurato il fallimento del suo giornale. In tre occasioni ha invitato gli italiani a non leggere i quotidiani, denigrandoli, in una quarta ha spiegato che la televisione è la parte buona dell´informazione e la stampa quella cattiva. Sulla sua poltrona più comoda, quella di Porta a Porta, ha proclamato che ci sono troppi «farabutti» nei giornali e in televisione, ovviamente al riparo dalle querele grazie allo scudo che si è costruito con le sue mani. Davanti alle telecamere della Rai ha definito «inaccettabile» che il servizio pubblico possa criticare il governo, indicando poi per nome le trasmissioni colpevoli. Ha annunciato che risponderà solo a domande di suo gradimento. E ha certificato, definitivamente, che chi lo critica è anti-italiano: come se fosse italiano, e patriottico, registrare in silenzio tutto questo, e far finta di niente.
Veniamo poi all´ultimo atto. Non potendo rispondere alle dieci domande di Repubblica, il Premier le ha portate in tribunale, chiedendo al giudice di farle tacere, cancellandole. Ha denunciato i grandi giornali europei e Repubblica per aver ripreso le loro inchieste, quasi fosse possibile alzare un muro alla libera circolazione in Europa delle idee, delle opinioni e del giornalismo, purché gli italiani non sappiano, rimangano all´oscuro e non possano giudicare. Ha querelato l´Unità per aver riportato sullo scandalo giudizi del senatore Guzzanti che invece non è mai stato querelato, forse perché ha annunciato di avere molte cose da raccontare ai magistrati.
Infine, il killeraggio attraverso i giornali. Ad agosto il direttore del Giornale - di proprietà della famiglia Berlusconi - viene licenziato e spiega nel suo ultimo articolo il perché: ha fatto tutte le battaglie, ma si è rifiutato di rovistare «nei letti di direttori ed editori» di altri quotidiani. Ecco la concezione della stampa e del giornalismo del Presidente editore ed imprenditore. Infatti, col nuovo corso quel giornale colpisce a tutte colonne il direttore di Avvenire (il giornale dei vescovi) colpevole di aver criticato il Premier, rilanciando una vecchia vicenda già pubblicata un anno prima e spacciando per documento paragiudiziario una velina anonima che parla di omosessualità, scritta nel linguaggio dei servizi. È un ammonimento alla Chiesa, perché non dia giudizi sullo scandalo berlusconiano, e ai direttori di giornale, perché girino al largo, se non vogliono finire nel mirino. Poco dopo, lo stesso giornale lancia un avvertimento con minaccia preventiva a Fini, perché si rimetta in riga se non vuole che si ripeschino vecchie vicende che si fanno balenare con esplicite allusioni sessuali.
Fermiamoci un momento, visto che discutiamo di informazione. Tutti hanno parlato di character assassination, ma nessun giornale ha illuminato la figura gigantesca del mandante. Eppure in ogni criminal story che si rispetti chi preme il grilletto merita poche righe, conta l´ispiratore e il movente. Allora diciamo le cose come stanno. Si è cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato, e lo si è fatto non solo per ciò che Fini ha detto fin qui, ma soprattutto per ciò che potrebbe dire e fare. Colpendo lui, si lavora già per l´agonia berlusconiana, sparando nel buio del futuro per spaventare tutti.
La questione di verità, così, è diventata per forza di cose una questione di libertà. Perché è un vero e proprio problema di libertà - anche se molti fingono di non accorgersene - doversi domandare se il Presidente del Consiglio stia usando i servizi e le polizie contro le ragazze che testimoniano dopo gli incontri con lui, i magistrati che indagano, i giornalisti che fanno le domande. È un problema di libertà il fatto che un gruppo di cittadini in questo Paese usi nelle telefonate, negli incontri, negli spostamenti le stesse cautele che si usavano in altri tempi e in altri Paesi non liberi. C´è un problema di libertà se i giornalisti intimiditi a mezzo stampa devono pensare alla loro sorte personale quando accendono il computer per scrivere un articolo che contenga qualche critica, magari timida, al Presidente del Consiglio.
In ogni Paese, un leader che si sente attaccato ha il diritto di difendersi. Negli altri Paesi, ci si difende usando le armi delle idee, della politica, del ruolo straordinario che una grande leadership ha davanti all´opinione pubblica quando si presenta a dire la sua verità su una questione controversa, e sa assumersene la responsabilità: come ha suggerito più volte a Berlusconi Giuliano Ferrara. In nessun Paese libero si colpisce personalmente o si minaccia esplicitamente di colpire chi critica il potere, riducendo la stampa di proprietà ad arma impropria: salvo dissociarsi alle cinque del pomeriggio, ad esequie della vittima avvenute.
Resta dunque l´ultima questione: si può governare una grande democrazia, nel cuore dell´Europa e del 2009, a colpi di dossier? Che immagine dà di sé un potere spaventato e spaventoso che sostituisce la leadership con l´intimidazione? Che futuro può avere un Premier che annulla la politica con le minacce? E fin dove arriverà, fin dove arriva già oggi, la rete dei ricatti e dei veleni che si allarga sotto il doppiopetto presidenziale?
Insomma, a furia di non rispondere restano solo le domande. E non finiscono mai.

Repubblica 3.10.09
La manifestazione
Oggi la protesta arriva in piazza giornalisti, sindacati e opposizione per difendere la libertà di stampa
E il Pdl vuol cambiare l´art.21 della Costituzione
di Vladimiro Polchi


Per Reporters sans Frontières, premier "predatore". E lui: Da noi più libertà che ovunque
Mancino: quando le maggioranze non sono moderate è polemica sulla libertà di stampa

ROMA - Lo scrittore di "Gomorra" Roberto Saviano accanto all´ex presidente della Corte costituzionale, Valerio Onida. Un precario della scuola, assieme all´attore Neri Marcorè. In tanti si alterneranno sul palco di piazza del Popolo. Il conto alla rovescia è finito: l´appuntamento è per oggi alle 15.30 a Roma. La Federazione nazionale della stampa ha chiamato a raccolta cittadini, associazioni, sindacati, politici. E mentre cresce il numero delle adesioni, Reporter sans Frontieres fa sapere che Silvio Berlusconi potrebbe essere presto inserito nella «lista dei predatori della libertà di stampa».
Non solo. Alla vigilia della manifestazione, l´associazione Libertà e Giustizia denuncia «l´ultima mossa del partito di Berlusconi». Sul tavolo degli imputati «un disegno di legge per modificare l´articolo 21 della Costituzione, a firma del senatore Andrea Pastore (Pdl). Presentato il 9 settembre scorso ma rilanciato il 30 settembre con l´aggiunta delle firme di 40 senatori, compresa quella del capogruppo Pdl Maurizio Gasparri e del presidente emerito Francesco Cossiga, il ddl modifica l´articolo 21, nell´ultimo comma: "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume» dovrebbe ora essere integrato con «o lesive della dignità della persona o del diritto alla riservatezza"».
Alla manifestazione di oggi - prevista inizialmente per il 19 settembre e rinviata dopo la strage dei militari italiani a Kabul - partecipano tra gli altri, la Cgil, la Fim-Cisl e i partiti d´opposizione: dal Pd all´Idv, da Sinistra e Libertà a Rifondazione Comunista, dai Comunisti italiani a Bruno Tabacci dell´Udc, oltre ad Antonio Satta dell´Unione popolare cristiana. Si allunga di ora in ora anche la lista delle associazioni aderenti: Acli, Libera, Legambiente, Arci (in piazza con le bandiere listate a lutto e due corone funebri «per la morte della libertà d´informazione»), la Federazione Italiana Associazioni Partigiane, Reporters sans Frontieres e la Società Pannunzio per la libertà di informazione. Per il direttore del Sir, l´agenzia stampa dei vescovi, «la piazza ha un suo indubbio grande significato, tuttavia - aggiunge - è un luogo che non viene mai prima dello spazio intimo della coscienza». In piazza ci saranno comunque i giornalisti di Famiglia cristiana. In uno stand della Repubblica con otto postazioni pc si potranno spedire messaggi al sito internet del quotidiano.
Manifestazioni parallele si terranno in dodici città italiane ed europee, da Barcellona a Londra, da Berlino a Parigi (dove la rivista Focus organizza una manifestazione in place d´Italie). «In Europa siamo tutti farabutti» è invece lo slogan sui cartelli esposti durante un sit-in ieri a Bruxelles. In vista dell´appuntamento di piazza del Popolo, si fa sempre più acceso lo scontro politico sulla libertà di stampa. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, parla di «una manifestazione inutile. Chiunque compri i giornali o vede la tv capisce che c´è una totale libertà di informazione». Replica Livia Turco (Pd): «Per dire no alla rassegnazione all´informazione adulterata è importante partecipare alla manifestazione». Il vice presidente del Csm, Nicola Mancino, ricorda che «quando le maggioranze non sono moderate è inevitabile che ci siano polemiche anche sulla libertà di stampa». E anche per Claudia Mori, giudice di X-factor "non c´è una grande libertà di poter dire ciò che si vuole"

La Repubblica Firenze 3.10.09
Stampa sotto attacco, i partigiani alla manifestazione di oggi
"Non ci toglierete la libertà per cui abbiamo lottato"
di Maria Cristina Carratù


«Questa, sia chiaro, non è una battaglia dei giornalisti, è una battaglia di tutti. Perché la libertà di informazione è alla base di tutto il castello della democrazia, e se è in pericolo l´informazione è in pericolo l´intero paese». Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia, una delle tante associazioni che insieme a partiti, sindacati, movimenti, singoli cittadini, hanno aderito massicciamente alla manifestazione «Informazione No al guinzaglio» organizzata per oggi a Roma dalla Fnsi, sarà sul palco di piazza del Popolo dove, dalle 15,30 alle 19, si susseguiranno interventi e spettacoli. Dalla Toscana, in particolare, a giudicare dalle prenotazioni e dagli scambi di informazioni su web, saranno in migliaia a muoversi con i mezzi più vari, dai pullman al treno all´auto. Una mobilitazione più che comprensibile: «Mai come in questo momento nella storia repubblicana» sottolinea Bonsanti, «la stampa è stata mortificata da ritorsioni e minacce».

Corriere della Sera 3.10.09
Sconfitta in Germania, Francia, Svezia e probabilmente Gran Bretagna
L’addio degli europei alla socialdemocrazia
di Piero Ostellino



Dopo la sconfitta dei socialisti francesi, quella dei socialdemocratici tedeschi — per non parlare della prospettiva che anche i laburisti inglesi per­dano le elezioni e che persino in Svezia governa­no i conservatori — dimostra che la socialdemo­crazia non ha più nulla da dire. Fino a ieri, ciò che essa faceva — spesa pubblica elevata, forte imposizione fiscale, presenza massiccia dello Stato — oggi lo fa la destra con la conserva­zione dello statu quo. A far le veci dei socialdemocratici è rimasta l’estrema sinistra. I liberali — i veri vincitori delle ele­zioni tedesche — invocano più iniziativa individuale, meno assistenzialismo, una riforma fiscale che lasci più soldi in ta­sca al cittadino senza annullare certe conquiste dell’econo­mia sociale di mercato. A Londra ci si chiede se una spesa pubblica attorno al 50 per cento del Prodotto nazionale sia sostenibile e si propone un «dimagrimento dello Stato». Che piaccia o no, le scelte elettorali della gente riflettono una co­noscenza empirica della realtà migliore di quella ideologica degli intellettuali e di certi politici. È la democrazia.
In Italia, la confusione è totale. Berlusconi progetterebbe di allearsi ai «poteri forti». Che sono, poi, il debolissimo esta­blishment economico, industriale e finanziario; l’«economia di relazioni» (io do una cosa a te, tu ne dai una a me, compre­se le direzioni dei giornali) affin­ché nulla cambi; il capitalismo non contendibile al cui interno le azioni si pesano, non si conta­no, refrattario alla concorrenza. Se il progetto andasse in porto, il Cavaliere avrebbe edificato il Mausoleo del proprio fallimen­to come politico, con la mum­mia imbalsamata della rivolu­zione liberale promessa e mai fatta, lui stesso e l’establish­ment sulla balconata ad assiste­re alla paralisi del Paese. I giornali di centrodestra invitano i telespettatori a non pagare il canone, per non finanziare «An­nozero »; ma l’intero quadro politico, compreso il centrode­stra, vi si oppone. L’abolizione del canone avrebbe, come logi­ca conseguenza, quella del tetto pubblicitario della Rai — che oggi ne avvantaggia i concorrenti privati — e la sua pro­babile privatizzazione. Che nessuno vuole perché è terreno di pascolo della politica.
Una battaglia di principio, di libertà — il canone è una sor­ta di «patrimoniale» sulla proprietà di un televisore — è di­ventata una guerra di parte, cui persino quella per la quale quei giornali si battono è contraria ! Una trasmissione Tv pro­gressista accusa il Cavaliere di aver corrotto il Paese. La Tv commerciale incoraggerebbe «la mercificazione del corpo della donna». Ma rimproverare la donna di fare, in piena li­bertà, ciò che più le piace, o le conviene, non è, forse, un modo peggiore di considerarla un «oggetto» invece che un «soggetto»? A gridare «il corpo è mio e me lo gestisco io» non erano, forse, ieri, quelle stesse femministe che, invec­chiate, oggi si scandalizzano, e ne danno colpa a Berlusconi (!?), se qualche ragazzotta se lo gestisce come crede? Mah.

il Riformista 3.10.09
Diliberto è impaziente: «Ferrero, più coraggio»
Sinistra. Il segretario Pdci invoca l'unità. Essere divisi «è follia».
di A.C.


Oliviero Diliberto chiede «più coraggio» a Rifondazione comunista sulla strada della riunificazione con i Comunisti italiani. «Ci sono momenti - dice - nei quali i gruppi dirigenti si valutano dalla capacità di essere all'altezza delle sfide». E questo, insiste, è uno di quei momenti. La vittoria della Linke in Germania, però, non c'entra. Quella - spiega il segretario del Pdci - è un'altra storia. E comunque non c'è bisogno di andare lontano per cercare le ragioni della riunificazione. Basta guardare in casa nostra dove «ci sono tante urgenze da affrontare» e presentarsi con una voce sola è controproducente. «Io - dice Diliberto - non ho nessuna voglia di tornare a fare il cespuglio».
La Linke vince in Germania, i comunisti in Italia sono divisi e fuori da tutto.
Guardi, io analizzo le cose per come sono e non per quello che vorrei che fossero e la Linke e la Germania hanno una loro specificità che non consente paragoni. E, comunque, per trovare le ragioni di una unificazione tra noi e il Prc basta guardare in casa nostra senza andare troppo lontano. Abbiamo di fronte a noi una crisi economica devastante che pagano i lavoratori, una crisi istituzionale che sta deteriorando le regole democratiche, c'è un degrado morale con in più il pericolo di cancellazione di qualunque voce critica non soltanto dal Parlamento ma anche dai media. Ecco, di fronte a tutto ciò, ci ritroviamo con due partiti piccoli che si chiamano comunisti. Mi pare una follia.
E però a sinistra del Pd rimanete ancora separati in casa.
Il rischio di un processo lento e che non suscita passioni c'è. Io ho proposto un anno fa il partito unico tra Prc e Pdci, mi sembrava la cosa più di buon senso. È passato un anno e stiamo ancora discutendo di federazione. Siamo già in ritardo, però, perché l'urgenza delle cose dovrebbe essere più forte anche della volontà dei singoli dirigenti.
Dica la verità: cosa rimprovera a Ferrero?
Gli chiedo più coraggio. Ci sono momenti nei quali i gruppi dirigenti si valutano dalla capacità di essere all'altezza delle sfide. Vorrei evitare che certe discussioni bizantine ci allontanassero di più dalla nostra gente. A volte sembra esserci una scarsa consapevolezza delle urgenze sociali delle quali ho detto prima.
Ferrero dice che il bipolarismo serve solo a Berlusconi e che serve una legislatura di garanzia costituzionale con all'ordine del giorno la riforma elettorale proporzionale e la legge sul conflitto di interesse.
Sono d'accordo. Aggiungerei che sarebbe bene stabilire regole anche nel campo della informazione e restituire efficienza alla giustizia, soprattutto per i cittadini normali.
Pensa anche lei come Rutelli a un governo del presidente?
No. Penso a un accordo tra le forze che si ispirano alla Costituzione repubblicana. Poi, però, fatte le regole si torna a votare.
A proposito di Rutelli, dice che il Pd è troppo a sinistra.
Almeno lo fosse, di sinistra! Invece ha una vocazione centrista. Sui contenuti sono tutti d'accordo su un liberismo ben temperato. Differenze, tra i tre candidati, ci sono soltanto sul piano delle alleanze.
Lei per chi fa il tifo tra i tre?
Io sto dalla parte di chi viene dalla mia storia, peraltro senza averla rinnegata come hanno fatto altri.
Proprio da lì verrebbe il pericolo individuato da Rutelli.
Tra i principali sponsor di Bersani c'è Letta: non credo che ci siano i pericoli immaginati da Rutelli. E me ne dispiace.

Liberazione 2.9.09
Altro stop del Governo Pillola Ru 486,
Sacconi: «Non in vendita dal 19 ottobre»


Non sarà nemmeno il 19 ottobre il giorno in cui la RU 486 entrerà in commercio. Ne è sicuro il ministro del wellfare Maurizio Sacconi, protagonista ieri di un'audizione in Commissione sanità. Dopo aver di fatto bloccato l'Aifa, l'agenzia indipendente che ha il compito di decidere sulla legittimità a meno della pillola, con l'invito ad aspettare l'esito dell'indagine conoscitiva parlamentare, adesso il ministro Sacconi pone un altro paletto all'orizzonte: la determina tecnica. Cos'è? «E' quella che contiene nel dettaglio il percorso secondo il quale si dovrebbe svolgere l'aborto farmacologico. E' molto importante» ha puntualizzato Sacconi. Sulle stesse posizioni si è messo anche il sottosegretario alla Salute, Ferruccio Fazio: «È giusta la decisione dell'Aifa di aspettare l'indagine conoscitiva del Senato prima di deliberare le modalità di vendita della RU 486. Mi sembra corretto che in presenza di un'inchiesta parlamentare si arrivi quanto meno a una pausa di riflessione, perchè una cosa sono le decisioni tecniche una cosa l'implementazione, una decisione politica».
Di tutto altro avviso l'Idv: «Ancora una volta, il Governo e la sua maggioranza tentano di intimidire un'agenzia indipendente come l'Aifa - ha commentato il senatore dell'Italia Giuseppe Astore, che ha abbandonato per protesta la commissione Sanità al termine dell'audizione di Sacconi - L'indagine conoscitiva doveva avere altri obiettivi. Certamente non quello di bloccare l'iter autorizzativo della RU 486, ruolo che non spetta ad un' indagine conoscitiva». Ma Sacconi insiste: «L'assunzione della pillola abortiva Ru486 potrebbe comportare dei rischi per la salute della donna, se non vengono rispettate tutte le regole di sicurezza. Se la donna si sottrae al ricovero ospedaliero, se gestisce da sola le possibili complicanze o addirittura il momento dell'espulsione, ci saranno problemi.Mi sembra che il Parlamento non abbia nessuna intenzione di prendere tempo, e nemmeno lo vuole fare il Governo». Non contento, Sacconi ha rincarato: «Ci sono dubbi che il servizio sanitario nazionale sia in grado di garantire la compatibilità tra il processo farmacologico e la 194». La radicale Donatella Poretti ha sottolineato che la legge «stabilisce che l'approvazione del farmaco spetti all'Aifa. Il ruolo del Parlamento è quello di fare le leggi e non di interferire con il lavoro di organismi che dovrebbero essere autonomi». In tutto questo, ieri mattina l'Aduc ha inviato alla Commissione Ue una denuncia contro l'Italia «per inadempienza del diritto comunitario sulla questione della commercializzazione della pillola abortiva Ru486». Una direttiva europea del 2001 prevede infatti che un farmaco autorizzato in uno Stato membro, qualora altro Stato membro faccia altrettanta richiesta di autorizzazione, quest'ultima debba rendere operativa la stessa entro 90 giorni.

Liberazione 2.9.09
A proposito di "Figli della società, carcere, devianza e conflitti sociali", un libro di Paolo Pisu In cella, stretti in pochi metri, quasi tutti poveracci
di Giovanni Russo Spena


P aolo Pisu ha scritto un libro che a me pare importante ( Figli della società, carcere, devianza e conflitti sociali Cuec Editore) perché ci parla soprattutto di un tema forte, controcorrente: il carcere è uno dei parametri più importanti della civiltà di un Paese. E' una lettura che condivido, che non nasce solo da riflessioni accademiche ma da una pratica fitta, quotidiana, densa di azioni di "buona politica" condotte da Pisu dentro e fuori le istituzioni. La sacrosanta denunzia dei mali, infatti, si collega a costruzione positiva di momenti ed esperienze di socializzazione, che a me appaiono difficili ma stupende, emotivamente forti. Sono esperienze che ho vissuto personalmente. Chi frequenta il carcere sa che ci troviamo di fronte, sempre più, a dolorose narrazioni di una umanità sofferente. L'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo perché un detenuto è costretto a vivere, a Rebibbia, in soli 2,7 metri quadri. Ma quei metri quadri stanno diminuendo sempre più; e ogni cella sta diventando una gabbia soffocante. Il governo, per cultura autoritaria e popolusimo elettoralistico, svolgendo azione grave di diseducazione di massa e di organizzazione sistematica dei rancori sociali, adotta la strategia del securitarismo, anzi della bulimia carceraria. Noi, a questa ipertrofia, con un lavoro paziente, capillare, diffuso, dobbiamo saper opporre il "diritto penale minimo" come paradigma alternativo, come punto di vista diverso. Occorre cioè ribaltare una logica che ha portato alla bancarotta delle sinistre e alla loro subalternità alle logiche securitarie. Al governo contrapponiamo la necessità della certezza dei tempi del processo e della pena (il 51% dei detenuti è in attesa di giudizio); un'ampia depenalizzazione; infine è decisiva la previsione di pene diverse dal carcere. Il carcere deve essere l'ultima istanza, non l'unica. Anche perché sta diventando una struttura in cui si viene rinchiusi in base al censo e alla classe. Basta analizzare la composizione della popolazione carceraria (migranti, tossicodipendenti, "poveracci", senza fissa dimora): la povertà è diventata una colpa da punire.
Ma poi: non vi è la previsione costituzionale sul reinserimento del reo nella società? I dati ufficiali parlano chiaro: la recidiva (il rientro in carcere per aver commesso di nuovi reati) coinvolge il 60% di chi ha scontato la pena in carcere; solo il 15% di chi ha usufruito di pene alternative. Il carcere è, quindi, incostituzionale ma anche inefficace. Esso è metafora del passaggio dallo stato sociale, che deperisce, allo stato penale globale, che vive dello "stato di eccezione" permanente. Muta anche il rapporto tra carcere e territorio: il carcere oggi inonda, come un fiume in piena, il territorio; ed il territorio ingabbia le sue contraddizioni sociali dentro le mura del penitenziario. Esso diventa struttura di controllo penale sul territorio, per reprimere comportamenti che fuoriescono dalla società disciplinare e proibizionista che il razzismo di Stato sta forgiando. L'emergenza carceraria, quindi, parla di noi, di come proiettiamo noi stessi nella società futura; ci parla di un mutamento di paradigma, nei confronti di un carcere che è diventato "discarica sociale", altra faccia della medaglia delle precarietà delle metropoli contemporanee. Vogliamo evitare il grande "internamento" di tipo statunitense; il baricentro di ogni iniziativa democratica va posto nella "decarcerizzazione", nella "depenalizzazione". Per i tossicodipendenti, per i migranti (chiudendo le vergognose galere etniche, frutto avvelenato, in verità, anche della Turco-Napolitano). Ristabilendo, in tal modo, l'equilibrio virtuoso tra il penale e il sociale. Non dimentichiamo, infatti, che l'area della cosiddetta "detenzione sociale" costituisce i due terzi della popolazione carceraria. Dovremo agire, quindi, anche sulle norme: abrogando la Bossi-Fini; abrogrando la Fini-Giovanardi; ponendo mano alla cosiddetta ex Cirielli per quanto riguarda la recidiva. Occorre che il Parlamento discuta il progetto di nuovo codice penale, frutto del lavoro preparatorio della Commisione presieduta da Pisapia. Sono in esso previste sanzioni detentive non carcerarie; ma anche, e soprattutto, pene non detentive. La sicurezza è un "bene comune" da garantire; ma il securitarismo è il male oscuro, la metafora di una democrazia sempre più degradata.

Liberazione 2.9.09
Si è svolto a Roma un incontro promosso da Rifondazione sull'attualità politica del filosofo berlinese
La memoria delle lotte. Benjamin e il futuro
di Guido Caldiron



«Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui s'impone imprevista al soggetto storico nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari (...) In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla».
Con il linguaggio metaforico e a tratti enigmatico, a metà strada tra le intuizioni illuministiche e l'eco dell'eredità religiosa che gli era proprio, Walter Benjamin scriveva così nella VI delle sue "tesi" Sul concetto di storia redatte tra il 1939 e il 1940 (l'ultima edizione è stata pubblicata da Einaudi nel 1997). Si tratta dell'ultima opera del filosofo e critico letterario berlinese, ebreo e militante comunista che, in fuga dalla Germania, avrebbe deciso di suicidarsi il 26 settembre del 1940, a Port Bou in Catalogna, di fronte alla prospettiva di essere consegnato dalle autorità franchiste ai nazisti.
"L'attimo di pericolo" in cui Benjamin scrisse le "tesi" era rappresentato concretamente dalla vittoria di Hitler e dall'affermazione del fascismo in Europa, ma anche dagli esiti del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 che lasciavano intravedere tutta l'ampiezza della sanguinosa deriva staliniana dell'Urss. Quanto alla "minaccia" che pesava "sull'esistenza stessa della tradizione", vale a dire sull'idea di una possibile trasformazione radicale delle forme della produzione e dei rapporti sociali, per Benjamin non vi erano dubbi: la responsabilità della sconfitta che si stava consumando in tutta Europa andava ricercata anche nella linea della socialdemocrazia che aveva convinto i lavoratori che diritti e liberazione sarebbero arrivati per così dire naturalmente, coltivando "il mito del progresso" e continuando a "nuotare nella corrente", senza alcuno strappo e senza alcun atto che cercasse di imporre quella trasformazione. Di fronte a questo quadro - vittoria dei fascismi e normalizzazione del movimento operaio - Benjamin proponeva invece di riattivare la memoria della lotta di classe, certo che la storia non segua un processo lineare e sia invece il risultato di quanto è stato conquistato dai lavoratori. Solo sottraendo questa memoria "al conformismo", spiegava il filofoso, si potrà invertire la tendenza e riproporre l'attualità della possibile liberazione.
Basterebbe questa breve e sommaria ricostruzione delle tesi di filosofia della storia proposte poco meno di settant'anni fa dall'intellettuale berlinese, per spiegare le ragioni dell'incontro promosso da Rifondazione mercoledì pomeriggio a Roma, presso la Facoltà Valdese di Teologia, con il titolo di "L'attualità politica di Walter Benjamin". Incontro che apre una nuova fase del dibattito pubblico proposto intorno al tema della "rifondazione comunista": un altro appuntamento è già fissato a Torino nell'anniversario dell'autunno caldo del 1969.
A Roma, Mario Tronti, Paolo Virno, Massimiliano Tomba e Paolo Ferrero hanno costruito, in oltre tre ore di confronto ricco di spunti critici e appassionati, un percorso che dalla lezione di Benjamin è giunto fino all'impasse dell'attuale situazione italiana. Se infatti è alla riflessione dell'autore di Angelus Novus sulla storia che era dedicato l'incontro, è a quelle che si potrebbero definire come le sue caratteristiche di "intellettuale della crisi" che si è guardato richiamando tutta l'attualità della ricerca benjaminiana. «Ci interroghiamo su Benjamin quasi come fossimo suoi contemporanei - spiega infatti Paolo Ferrero - Nel senso che stiamo attraversando una temperie, certo molto meno drammatica di quella che visse lui, ma con più di un punto di similitudine in particolare con gli anni Venti. Credo infatti che ci troviamo in una specie di Weimar al rallentatore. Faccio riferimento a Weimar per indicare la fase in cui è cresciuta la Rivoluzione conservatrice. Ci troviamo in un periodo in cui il capitale si mostra con il suo volto "rivoluzionario", frutto di continue e rapide trasformazioni produttive. E questo si accompagna allo sviluppo di ideologie reazionarie, razziste che evocano il peggio della storia e che stanno progressivamente colonizzando l'intero spazio pubblico. In questo senso la destra rappresenta oggi una sorta di cocktail ultramoderno esattamente come lo fu in quell'epoca. Si assiste inoltre alla dissoluzione di molte cose che erano state fin qui certe e alla liquidità dei passaggi di campo - quanti intellettuali della destra vengono ad esempio dal campo della sinistra? -. Vecchie identità si dissolvono rapidamente mentre se ne formano rapidamente di nuove. In questo contesto anche la sconfitta della sinistra sembra assumere le proporzioni di quella del periodo tra le due guerre mondiali». 
E' in questa prospettiva che liberare la Storia dal mito del progresso e "rammemorare", per dirla con Benjamin, come nulla, a partire dai diritti civili e dalla stessa democrazia, sia stato ottenuto in passato se non con la lotta e l'insorgenza sociale, acquista il ruolo di strumento decisivo per invertire la tendenza attuale, per trasformare "l'attimo di pericolo" in una possibilità di ripresa dell'agire politico. Per Benjamin attualità e possibilita "della rivoluzione" si fondano infatti sulla memoria di quanti, sconfitti, hanno cercato di realizzarla in passato. Il nodo della "momoria delle lotte" assume così tutta la sua rilevanza in una stagione dominata nel nostro paese dalla riscrittura della Storia da parte sia delle "classi dominanti" che della "parte maggioritaria della sinistra italiana", nelle sue componenti moderate come anche in parte delle sue componenti radicali: uno sforzo convergente nell'obiettivo di espellere la parte ribelle e di classe della storia italiana, dalla Resistenza al Settantasette.
Il passaggio non è però così facile. Si tratta infatti di comprendere con quali strumenti si possa attuare questa ripresa della memoria e soprattutto quali siano i contorni e i confini, i "materiali" in ultima analisi, da utilizzare in questa prospettiva.
«Benjamin sottolinea come l'adesione del movimento operaio all'idea di progresso ne abbia sancito la sconfitta sul piano teorico prima ancora che nella pratica», spiega Massimiliano Tomba. Questo perché «l'atomizzazione sociale e la negazione dei diritti» non rappresentano un'eccezione, bensì la normalità del capitalismo, cui solo l'assunzione della forza da parte della classe operaia può porre un argine. La prospettiva dell'etica benjaminiana mette però in guardia dal fatto che gli esiti delle lotte siano un processo che si verificherà solo alla fine del percorso: al contrario: «Per l'autore delle "tesi" sulla storia, il Messia ti giudica per quello che stai facendo in quel determinato momento. Tutti i rapporti esistenti all'interno della società - dal lavoro alla famiglia al genere - devono essere compresi nel processo di liberazione, non affrontati solo dopo il suo compimento».
Per Paolo Virno da Benjamin arriva un'indicazione chiara: quella per cui «il repertorio delle nostre possibilità è nel nostro passato», ma in primo luogo non nelle realizzazioni concrete, bensì in «un passato potenziale, un pasato irrealizzato». Così oggi, dopo la crisi degli Stati-nazione, lo stesso riferimento al messianesimo che torna sovente nei testi del filosofo berlinese, può essere letto principalmente in una «prospettiva di autogoverno, lontano da ipotesi statuali» e nello sviluppo di «una sfera pubblica post-statale». 
«Dagli anni Ottanta stiamo assistendo a una sorta di racconto "ideologico" della fine delle grandi narrazioni ideologiche collettive», osserva ironico Mario Tronti, sottolineando come ci sia bisogno in questa situazione di utilizzare gli strumenti proposti da Benjamin non solo rispetto alla memoria ma anche all'analisi dell'oggi: «Illuminando ad esempio il XX secolo attraverso il presente». Ci si renderà così conto, sostiene ancora il filosofo dell'operaismo, che «non solo la socialdemocrazia ma anche parti importanti del movimento comunista hanno creduto a un processo lineare della storia e si sono identificati con una visione del moderno che prevedeva ad esempio la prospettiva "occidentale" di portare lo sviluppo nelle società e nei paesi "arretrati"». Quanto alla necessità di utilizzare la memoria per l'agire odierno, Tronti è netto e spiega: «Dobbiamo ricordarci che non siamo solo un esercito di sconfitti: dobbiamo ricordare anche le nostre vittorie». 
«Credo che il nostro maggiore problema sia proprio questo - gli fa eco Paolo Ferrero concludendo l'incontro - Le nostre vittorie sono un problema per la nostra memoria. Perché sulle nostre sconfitte - che so la Comune di Parigi - problemi non ce ne sono. Mentre invece è evidente come ci siano molti problemi sulle purghe staliniane. Dove abbiamo vinto, siamo stati vittime e carnefici. Su questo nodo dobbiamo fare un passo in avanti perché abitualmente si arriva a un bivio: da un lato chi dice "quelle cose lì non hanno nulla a che fare con noi e quindi non mi dichiaro più comunista", dall'altro chi afferma "sono comunista, quella è la nostra storia e come tale va difesa". Per uscire da questo impasse propongo di modificare radicalmente lo schema di ragionamento assumendo a pieno due affermazioni: che tutta la storia del movimento comunista è nella sua contraddittorietà "la nostra storia" e che nella nostra storia ci sono stati errori ed orrori che sono la negazione totale del comunismo. A partire dalla consapevolezza di questa contraddizione proponiamo la rifondazione comunista, cioè l'impietosa individuazione nella nostra storia dei nostri errori al fine di non ripeterli. Padroneggiare il carattere contraddittorio della storia del comunismo è necessario, oppure non saremo più in grado di pensare la nostra storia e di capire quali elementi del passato possiamo utilizzare oggi per dare forza al nostro agire politico, come ci invitava a fare Walter Benjamin».

Repubblica 3.10.09
Nel 1943 guidò la rivolta della comunità ebraica contro i nazisti
Addio a Marek Edelman eroe del ghetto di Varsavia
È morto a 90 anni l´uomo che guidò la comunità ebraica di Varsavia contro i nazisti
di Andrea Tarquini


L´Europa, la cultura ebraica e mondiale tout court e l´èra contemporanea hanno perso uno degli ultimi grandi testimoni dell´Olocausto, della Resistenza e della Storia. Marek Edelman, il leggendario comandante dell´insurrezione del Ghetto di Varsavia contro l´esercito occupante della Germania nazista, è morto nella sua casa nella capitale polacca. Da almeno due settimane la sua salute si era deteriorata. A 90 anni, si è spento sereno nel suo letto, con a fianco a confortarlo fino all´ultimo le persone che più amava. Alla notizia, radio e tv polacca hanno subito interrotto le trasmissioni per dare l´annuncio.
Con Marek Edelman viene a mancare uno dei protagonisti più eccezionali del nostro tempo, "il guardiano", come s´intitola la sua biografia trascritta da Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn. Nato nel 1919 a Homel, oggi in Bielorussia, studente in medicina nel vivace clima della numerosa, colta e attivissima borghesia ebraica della Polonia di prima della guerra e di Hitler, scelse presto l´impegno politico. Si iscrisse da giovane al Bund, cioè il partito socialista ebraico (Allgemeiner Jidischer Arbeiter-Bund in Russland, Lite un Poiln, Partito unito ebraico dei lavoratori in Russia, Lituania e Polonia). Era non lontano dalla capitale il 1° settembre 1939, quando gli Stukas della Luftwaffe e le Panzerdivisionen della Wehrmacht, lanciarono la brutale aggressione alla Polonia che avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale.
Proprio il 1°settembre scorso, nell´ultima intervista che concesse a Repubblica, ricordò quei giorni tremendi, lucida e serena voce della memoria. «Rammento gli Stukas in picchiata, città e villaggi distrutti, l´accanimento bestiale sui civili…tornai a Varsavia, non trovai più i miei amici e compagni di studi. Misi in salvo i miei pochi averi, fuggii, mi detti alla macchia, mi unii alla Resistenza».
Furono momenti tragici, ci narrava la sua voce. «O noi o loro, la cosa più terribile non erano nemmeno i bombardamenti e i massacri, era la sensazione, anche se per il momento sopravvivevi, di essere degradati a Untermenschen, a subumani. E anche loro, i soldati tedeschi, erano ridotti a bestie. Non c´era tempo per pensare alle loro anime: o noi o loro, ogni giorno sopravvivevi e non sapevi fino a quando saresti sopravvissuto».
Nella Resistenza europea ed ebraica, Marek Edelman ebbe un ruolo anche politico di primo piano. Convinse il Bund a unirsi alla Zydowska organizacja bojowa, l´organizzazione combattente ebraica. Quando cominciò nel 1943 l´insurrezione del Ghetto di Varsavia, ne fu il vicecomandante, e il primo sul campo, secondo solo al massimo responsabile politico Anjelewicz. Anjelewicz si tolse la vita per sfuggire alla Gestapo, Edelman al comando di gruppi di partigiani ebraici riuscì a fuggire attraverso le fogne e si unì ai partigiani polacchi. Costituì gruppi armati del Bund e nell´agosto 1944 combatté di nuovo, questa volta nell´insurrezione dell´Armia Krajowa, l´esercito partigiano conservatore che schierava a fianco degli Alleati più soldati di quelli di de Gaulle.
Nel dopoguerra, decise di restare in Polonia nonostante la nuova oppressione imposta da Stalin e l´antisemitismo spesso incoraggiato dalla dittatura. Fu un medico straordinario a Lodz, la Manchester polacca, antico centro della rivoluzione industriale, e scrisse numerosi libri sulla Resistenza e l´Olocausto. Molti lo odiavano: antisemiti d´ogni sorta, e antisemiti al potere a Varsavia. Come il potente ministro dell´Interno del dittatore Wladyslaw Gomulka, Mieczyslaw Moczar, che quando scoppiò nel 1968 (a marzo, due mesi prima che a Parigi) la rivolta studentesca polacca, reagì con una spietata purga, cacciando gli ultimi ebrei dal paese. Edelman fu licenziato, per la seconda volta, dall´ospedale. Quando poi, nel 1976, il dissenso guidato da Jacek Kuron, Adam Michnik e altri fondò contro la repressione antioperaia il Comitato di difesa dei lavoratori (Kor) lui si impegnò al loro fianco. Dopo il golpe di Jaruzelski fu più volte arrestato. Divenne poi uno dei più ascoltati consiglieri di Solidarnosc, una delle massime menti laiche dell´opposizione democratica, e partecipò alla Tavola rotonda, il negoziato del 1989 tra Solidarnosc e la giunta militare-comunista del generale Wojciech Jaruzelski. Fu uno degli artefici dell´idea che scaturì da quel Tavolo: la trattativa per una transizione non violenta dal socialismo reale alla democrazia, sull´esempio della Spagna dopo la morte di Franco.
Dal 1989, l´anno della svolta in cui si tennero in Polonia le prime elezioni semilibere dell´allora blocco sovietico, al 1993, fu anche deputato alla Dieta. Quando Helmut Kohl visitò Varsavia tornata democratica, lui lo guidò in visita nell´ex Ghetto: «Vede, cancelliere, là affrontammo la Wehrmacht». Nel 1998 il presidente Aleskander Kwasniewski, ex comunista e quindi sua ex controparte alla Tavola rotonda, lo insignì dell´ordine dell´Aquila, la massima onorificenza polacca. Il breve periodo del nazionalpopulismo dei gemelli Kaczynski fu pesante anche per lui, ma "il comandante", come chi lo conosceva lo chiamava con affetto rispettoso e riverente, non si scoraggiava mai. Continuava a dire la sua, e sopravvisse (con la vittoria del liberal Donald Tusk) al loro potere. Fino all´ultimo, fu un uomo del dialogo. Anche verso la Germania: «Hanno saputo cambiare, sono un altro paese», ci disse tante volte, l´ultima volta proprio il 1° settembre, commosso dal discorso-mea culpa di Angela Merkel. La sua ultima gioia è stata pubblicare un libro sull´amore e l´erotismo, "E c´era l´amore nel ghetto". Tra poche settimane uscirà da Sellerio in italiano.

venerdì 2 ottobre 2009

l’Unità 2.10.09
A piazza del Popolo attesa domani una grande folla, le adesioni della Cgil e delle associazioni
Sul palco. Un concerto dell’orchestra di piazza Vittorio e i rappresentanti della stampa mondiale
Giornalisti e cittadini per difendere l’articolo 21
Roberto Saviano e il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida sul palco di piazza del Popolo. Attesi 300 pullman da tutta Italia. Molta musica e l’omaggio a Anna Politkovskaja
di Jolanda Bufalini


Anti-italiani. «In piazza per difendere una cosa italianissima, la nostra Costituzione»

ROMA. Una protesta, una festa della libertà, «una cosa serissima dice Roberto Natali, presidente della Federazione della stampa e non una farsa», secondo la definizione denigratoria del presidente del consiglio.
Piazza del Popolo a Roma sarà invasa, domani, dalle 15 e 30, da tutti quelli che sentono messo in discussione e in pericolo il diritto alla libertà di stampa sancito dall’articolo 21 della Costituzione. I giornalisti delle testate sotto attacco, della Tv e della carta stampata, da “l’Unità” a “la Repubblica”, da “Annozero” a “Report” a “Che tempo che fa” ad “Avvenire”, con i loro cartelli, palloncini e striscioni, di fronte al palco allestito sotto il Pincio insieme alle migliaia di persone che si sono mobilitate e che da tutta Italia arriveranno con i trecento pullman organizzati per l’occasione. Perché, sottolinea la Federazione nazionale della stampa, lo slogan della manifestazione è «diritto di sapere dovere di informare». Non è quindi solo cosa che riguardi i professionisti poiché investe il diritto di tutti a sapere. Natali mostra di profilo la alta risma di fogli su cui sono indicate le adesioni delle associazioni come Articolo 21 e Libertà e Giustizia, Libera, Libera informazione e tante altre. Organizzazioni del Terzo settore come l’Arci. La Cgil (ci sarà Guglielmo Epifani) e le rappresentanze dei precari della scuola che, da tempo, avevano indetto per il 3 ottobre un giorno di protesta. L’Anpi, le Acli. I partiti di opposizione: «Noi non siamo antipolitici e ci fa piacere la loro adesione precisa Natali anche se il soggetto promotore siamo noi nella nostra autonomia, la manifestazione è aperta a tutti i cittadini».
Sul palco aprirà alle 15 e 30 l’Orchestra di Piazza Vittorio, poi dalle 16 l’intervento del segretario della Fnsi Franco Siddi. Subito dopo, fra i primi ad intervenire, ci sarà Roberto Saviano e poi il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida. Ed è annunciato un messaggio di Don Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana.
MUSICA E PAROLE
La conduzione degli interventi sul palco è affidata al giornalista di Rai 3 Andrea Vianello, per evitare l’effetto passerella. Ma non saranno solo parole. Tra un intervento e l'altro, saliranno sul palco i musicisti Teresa De Sio, Marina Rei, Tête de bois, Nicki Nicolai ed Enrico Capuano, secondo un programma ancora in fieri che «non esclude altre sorprese». Ci sarà un omaggio ad Anna Politkovskaja (in questi giorni ricorre l’anniversario della morte). Sarà l’attrice Jasmine Trinca a leggere alcuni testi della giornalista russa. E intanto prosegue a distanza la polemica con il governo. Anti-italiana la manifestazione rinviata per il lutto dei militari italiani morti in Afghanistan? «Noi difendiamo una cosa italianissima dice ancora Natali che è l’articolo 21 della nostra Costituzione». C’è il ringraziamento al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per l’attenzione con cui segue che riguardano il mondo dell’informazione. E c’è l’elenco dei motivi di preoccupazione per chi deve esercitare il diritto di cronaca, a cominciare dalle nuove norme sulle intercettazioni arrivate al Senato. La denuncia dell’aria pesante che si respira nel nostro paese, dall'operazione contro Avvenire che ha portato alle dimissioni del direttore Dino Boffo, all'appello del presidente del Consiglio agli imprenditori perchè non investano in pubblicità sui «giornali catastrofisti», fino agli interventi di censura nelle trasmissioni della televisione pubblica e agli insulti ai giornalisti.
Molte le emittenti che faranno la diretta da piazza del Popolo: Repubblica tv, Cgil.it, Radio Articolo 21 e Radio Città Futura. «Speriamo chiosa Roberto Natali di non dover fare formale richiesta al servizio pubblico per la copertura dell’evento».❖

l’Unità 2.10.09
«La museruola per chi fa informazione» titola il settimanale britannico
Dai tempi del Duce mai «un controllo così eclatante e preoccupante» sui media
Per Economist l’Italia è tornata ai tempi di Mussolini
Per il settimanale inglese, che parla della manifestazione per la libertà di stampa di domani, «è dai tempi di Mussolini che un governo italiano non interferiva sui media in maniera così eclatante e preoccupante».
di Massimo Solani


Che fosse «inadatto» a governare l’Italia, l’Economist lo ha scritto a chiare lettere e in più di una occasione. ma questa volta il settimanale inglese ha decisamente alzato il tiro e, dopo aver raccontato ai lettori d’Oltremanica e non solo dello scandaloso conflitto di interessi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e delle sue innumerevoli disavventure giudiziarie, non esita a paragonare l’Italia del 2009 a quella del Ventennio fascista. «È dai tempi di Mussolini spiega infatti l’autorevole settimanale che non si aveva un governo italiano che interferisse con i media in maniera così lampante e allarmante». Una analisi impietosa, sotto al titolo “La museruola per chi fa informazione”, che prende le mosse dalla manifestazione per la libertà di stampa in programma domani a Roma sottolineando che i giornalisti e tutti gli italiani «hanno ottime ragioni per essere preoccupati» e «per protestare». «Questo sabato 3 ottobre si terrà a Roma una manifestazione per difendere la libertà di stampa scrive l’Economist Non in una lontana dittatura, ma proprio in Italia. Ebbene, i giornalisti che l’hanno indetta hanno buone ragioni per preoccuparsi».
FREEDOM HOUSE
Del resto, è l’analisi del settimanale inglese, a testimonianza della gravità della situazione italiana sul fronte dell’informazione ci sono i risultati dell’ultimo rapporto sulla libertà d’informazione pubblicato dalla Freedom House, l’istituto di ricerca di Washington che si pone come obiettivo la promozione della democrazia liberale nel mondo. E nell’ultimo lavoro infatti l’Italia è stata declassata al 73 ̊ posto fra i 195 paesi analizzati. Uno stato «solo parzialmente libero» posizionato appena sopra la Bulgaria. «L’Italia si legge in quel documento è stata retrocessa nella categoria dei paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell’eccessiva concentrazione della proprietà dei media». Una fotografia a tinte fosche a cui l’Economist affianca le recenti querele mosse dal premier contro l’Unità e la Repubblica, «l’assalto senza precedenti lanciato alla Rai» e le polemiche piovute su Annozero per aver deciso di ospitare «una donna (Patrizia D’Addario) che sostiene di essere stata pagata per trascorrere una notte con il primo ministro». Una situazione che per il settimanale inglese dimostra come «l’Italia di Berlusconi si sta allontanando dall’Europa occidentale per somigliare alle più deboli democrazie dell’Est». ❖

Repubblica 2.10.09
Cosa vuol dire libertà di stampa
di Roberto Saviano


Molti si chiederanno come sia possibile che in Italia si manifesti per la libertà di stampa. Da noi non è compromessa come in Cina, a Cuba, in Birmania o in Iran. Ma oggi manifestare o alzare la propria voce in nome della libertà di stampa, vuol dire altro. Libertà di poter fare il proprio lavoro senza essere attaccati sul piano personale, senza un clima di minaccia. E persino senza che ogni opinione venga ridotta a semplice presa di parte, come fossimo in una guerra dove è impossibile ragionare oltre una logica di schieramento.
Oggi, chiunque decida di prendere una posizione sa che potrà avere contro non un´opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime. E persino coloro che hanno firmato un appello per la libertà di informazione devono mettere in conto che già soltanto questo gesto potrebbe avere ripercussioni. Qualsiasi voce critica sa di potersi aspettare ritorsioni. Libertà di stampa significa libertà di non avere la vita distrutta, di non dover dare le dimissioni, di non veder da un giorno all´altro troncato un percorso professionale per un atto di parola, come è accaduto a Dino Boffo.
Vorrei parlare apertamente con chi, riconoscendosi nel centrodestra, dirà: «Ma che volete? Che cosa vi mettete a sbraitare adesso, quando siete stati voi per primi ad aver trascinato lo scontro politico sul terreno delle faccende private erigendovi a giudici morali? Di cosa vi lamentate se ora vi trovate ripagati con la stessa moneta?».
Infatti la questione non è morale. La responsabilità chiesta alle istituzioni non è la stessa che deve avere chi scrive, pone domande, fa il suo mestiere. Non si fanno domande in nome della propria superiorità morale. Si fanno domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. Un giornalista rappresenta se stesso, un ministro rappresenta la Repubblica. La democrazia funziona nel momento in cui i ruoli di entrambi sono rispettati. Per un giornalista, fare delle domande o formulare delle opinioni non è altro che la sua funzione e il suo diritto. Ma un cittadino che svolge il suo lavoro non può essere esposto al ricatto di vedere trascinata nel fango la propria vita privata. E una persona che pone delle domande, non può essere tacitata e denunciata per averle poste. Non è sulla scelta di come vive che un politico deve rispondere al proprio paese. Però quando si hanno dei ruoli istituzionali, si diventa ricattabili, ed è su questo piano, sul piano delle garanzie per le azioni da compiere nel solo interesse dello Stato, che chi riveste una carica pubblica è chiamato a rendere conto della propria vita.
In questi anni ho avuto molta solidarietà da persone di centrodestra. Oggi mi chiedo: ma davvero gli elettori di centrodestra possono volere tutto questo? Possono ritenere giusto non solo il rifiuto di rispondere a delle domande, ma l´incriminazione delle domande stesse? Possono sentirsi a proprio agio quando gli attacchi contro i loro avversari prendono le mosse da chi viene mandato a rovistare nella loro sfera privata? Possono non vedere come la lotta fra l´informazione e chi cerca di imbavagliarla, sia impari e scorretta anche sul piano dei rapporti di potere formale?
Chi ha votato per l´attuale schieramento di governo considerandolo più vicino ai propri interessi o alle proprie convinzioni, può guardare con indifferenza o approvazione questa valanga che si abbatte sugli stessi meccanismi che rendono una democrazia funzionante? Non sente che si sta perdendo qualcosa?
Il paese sta diventando cattivo. Il nemico è chi ti è a fianco, chi riesce a realizzarsi: qualunque forma di piccola carriera, minimo successo, persino un lavoro stabile, crea invidia. E questo perché quelli che erano diritti sono stati ridotti quasi sempre a privilegi. È di questo, di una realtà così priva di prospettive da generare un clima incarognito di conflittualità che dovremmo chiedere conto: non solo a chi governa ma a tutta la nostra classe politica. Però se qualsiasi voce che disturba la versione ufficiale per cui va tutto bene, non può alzarsi che a proprio rischio e pericolo, che garanzie abbiamo di poter mai affrontare i problemi veri dell´Italia?
Il ricatto cui è sottoposto un politico è sempre pericoloso perché il paese avrebbe bisogno di altro, di attenzione su altre questioni urgenti, di altri interventi. Il peggio della crisi per quel che riguarda i posti di lavoro deve ancora arrivare. In più ci sono aspetti che rendono l´Italia da tempo anomala e più fragile di altre nazioni occidentali democratiche, aspetti che con un simile aumento della povertà e della disoccupazione divengono ancora più rischiosi. Nel 2003 John Kerry, allora candidato alla Casa Bianca, presentò al Congresso americano un documento dal titolo The New War, dove indicava le tre mafie italiane come tre dei cinque elementi che condizionano il libero mercato quantificando in 110 miliardi di dollari all´anno la montagna di danaro che le mafie riciclano in Europa. L´Italia è il secondo paese al mondo per uomini sotto protezione dopo la Colombia. È il paese europeo che nei soli ultimi tre anni ha avuto circa duecento giornalisti intimiditi e minacciati per i loro articoli. Molti di loro sono finiti sotto scorta. Ed è proprio in nome della libertà di informazione che il nostro Stato li protegge. Condivido il destino di queste persone in gran parte ignote o ignorate dall´opinione pubblica, vivendo la condizione di chi si trova fisicamente minacciato per ciò che ha scritto. E condivido con loro l´esperienza di chi sa quanto siano pericolosi i meccanismi della diffamazione e del ricatto.
Il capo del cartello di Calì, il narcos Rodriguez Orejuela, diceva «sei alleato di una persona solo quando la ricatti». Un potere ricattabile e ricattatore, un potere che si serve dell´intimidazione, non può rappresentare una democrazia fondata sullo stato di diritto.
Conosco una tradizione di conservatori che non avrebbero mai accettato una simile deriva dalle regole. In questi anni per me difficili molti elettori di centrodestra, molti elettori conservatori, mi hanno scritto e dato solidarietà. Ho visto nella mia terra l´alleanza di militanti di destra e di sinistra, uniti dal coraggio di voler combattere a viso aperto il potere dei clan. Sotto la bandiera della legalità e del diritto sentita profondamente come un valore condiviso e inalienabile. È con in mente i volti di queste persone e di tante altre che mi hanno testimoniato di riconoscersi in uno Stato fondato su alcuni principi fondamentali, che vi chiedo di nuovo: davvero, voi elettori di centrodestra, volete tutto questo?
Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, condizione che dovrebbe essere garantita a tutti.
Vorrei che ricordassimo sino in fondo qual è il valore della libertà di stampa. Vorrei che tutti coloro che scendono in piazza, lo facessero anche in nome di chi in Italia e nel mondo ha pagato con la vita stessa per ogni cosa che ha scritto e fatto a servizio di un´informazione libera. In nome di Christian Poveda, ucciso di recente in El Salvador per aver diretto un reportage sulle maras, le ferocissime gang centroamericane che fanno da cerniera del grande narcotraffico fra il Sud e il Nord del continente. In nome di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova, ammazzate in Russia per le loro battaglie di verità sulla Cecenia, e di tutti i giornalisti che rischiano la vita in mondi meno liberi. Loro guardano alla libertà di stampa dell´Occidente come un faro, un esempio, un sogno da conquistare. Facciamo in modo che in Italia quel sogno non sia sporcato.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency ©Riproduzione riservata
Questo articolo sarà pubblicato anche da El Paìs, The Times, Le Figaro, Die Zeit, dallo svedese Expressen e dal portoghese Espresso.

Repubblica 2.10.09
La manifestazione
Domani in piazza. Fnsi: "Libertà a rischio"
Organizzati 300 pullman. Sul palco Saviano, Marcorè e Dario Fo
Iniziative in tutta Europa "Sul sistema dell´informazione tira aria pesante"
di Andrea Gianni Irene Privitera


ROMA - Il testo dell´articolo 21 della Costituzione stampato sulle magliette, striscioni per dire "no all´informazione imbavagliata" e gli interventi sul palco di piazza del Popolo di Roberto Saviano e Dario Fo. A Roma tutto è pronto per la manifestazione a favore della libertà di stampa, domani alle 15.30. Un´iniziativa promossa dalla Fnsi (Federazione nazionale della stampa) e che, promette il suo presidente Roberto Natale «sarà serissima, altro che farsa», rispondendo così all´attacco di Silvio Berlusconi. «Sul sistema dell´informazione tira un´aria pesantissima». Per questo è lunga la lista dei motivi che hanno spinto il sindacato dei giornalisti a mobilitare i cittadini: il disegno di legge sulle intercettazioni, l´attacco del ministro Scajola ad Annozero, le dimissioni di Dino Boffo da Avvenire. E poi le richieste danni del premier nei confronti di Repubblica e Unità, «una Rai sempre più ridotta a una strettissima obbedienza governativa e il conseguente pericolo di un´omologazione delle fonti informative».
Sono 300 i pullman organizzati dalla Fnsi. Le adesioni sono giunte anche da associazioni, singoli cittadini, e dai partiti di opposizione. Ma la Fnsi chiede «che alla manifestazione non venga dato alcun significato politico». Sul palco, fra gli altri, il segretario nazionale Franco Siddi, il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida e l´attore Neri Marcorè. Ci sarà la musica dell´Orchestra di piazza Vittorio e degli artisti che hanno aderito, fra cui Samuele Bersani, Marina Rei, Enrico Capuano. All´evento presentato dal giornalista Andrea Vianello parteciperanno le associazioni Arci e Acli, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, la Cgil, la Fim-Cisl e l´Ordine dei Giornalisti. La diretta televisiva sarà seguita da Repubblica Tv, Youdem e dal sito della Cgil. Il segretario del Pd Dario Franceschini auspica «che ci saranno molti di colore diverso e di provenienza politica diversa». Passerà da piazza del Popolo il corteo nazionale dei precari della scuola. Ci saranno cortei e presidi in altre dodici città italiane ed europee: a Londra, davanti alla sede della Bbc, a Parigi, Torino, Barcellona. A Bruxelles si sfilerà con un bavaglio sulla bocca, nel capoluogo lombardo indossando magliette bianche con lo slogan "Milano difende la libera informazione". «Sull´Italia grava non solo il conflitto di interessi di Berlusconi - ha concluso Natale - ma anche l´intreccio dell´informazione con il potere economico e politico. Chiediamo solo che i cronisti possano continuare a fare il proprio lavoro».

Repubblica Firenze 2.10.09
Libertà di stampa, migliaia a Roma
Solo la Cgil ha già pronti 50 pullman per la manifestazione di domani


Saranno migliaia i toscani che parteciperanno domani alla manifestazione nazionale per la libertà di stampa e di informazione - «Informazione No al guinzaglio. Diritto di sapere, dovere di informare» - organizzata dalla Federazione nazionale della stampa inizialmente per il 19 settembre e poi rinviata a causa la strage di militari italiani in Afghanistan. L´appuntamento è dalle 15,30 alle 19 in piazza del Popolo, dove sarà fra gli altri Roberto Saviano. Una iniziativa decisa dopo il crescendo di attacchi «senza precedenti», sottolinea la Fnsi, rivolti agli organi di stampa negli ultimi mesi, e in particolare delle ultime settimane, con le citazioni per danni di Repubblica e Unità fatte da Berlusconi, e le dimissioni del direttore di Avvenire Dino Boffo per gli attacchi del Giornale, quotidiano della famiglia del presidente del consiglio diretto da Vittorio Feltri. Stando alle prenotazioni arrivate alla Cgil e ai tantissimi movimenti e associazioni di base che hanno aderito, - dall´Arci all´Anpi, da articolo 21 a Libertà e Giustizia, dall´Ucsi, dalle Acli alla Fiom, all´Associazione precari e a molti altri - oltre a quello che si legge nei blog e su Facebook, la Toscana confermerà la sua tradizionale capacità di mobilitazione in difesa della democrazia. Sono già 50 i pullman organizzati dalla sola Cgil, e molti altri ancora saranno quelli da partiti e associazioni, fra cui Assostampa, Arci, Associazione Sinistra Unita e Plurale, Comitato per la difesa della Costituzione, Carovana per la Costituzione. Hanno inoltre aderito varie istituzioni pubbliche toscane, fra cui il consiglio provinciale di Firenze e il presidente della Provincia Andrea Barducci, il consiglio regionale e il presidente della Regione Claudio Martini, la giunta e il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, il sindaco di Pisa Marco Filippeschi e il presidente della Provincia di Arezzo Roberto Vasai.

Repubblica 2.10.09
Cina, 60 anni di comunismo e Hu Jintao si veste da Mao
Pechino si ferma per la parata: "Il marxismo ci salverà"

di Giampaolo Visetti

Per celebrare i sessant´anni dalla nascita della Cina comunista, Hu Jintao si è travestito da Mao e ha rilanciato Marx. Il presidente della potenza capitalista che contende agli Stati Uniti la leadership del mondo nel nuovo secolo, di solito, ci tiene al suo aspetto da tecnocrate occidentale in giacca e cravatta. Ieri invece, a sorpresa, si è presentato sulla porta della Città Proibita con addosso la vecchia divisa in panno grigio di Sun Yatsen, padre della rivolta che pose fine alle dinastie imperiali. È l´uniforme adottata poi dai rivoluzionari rossi e indossata da Mao Zedong il primo ottobre 1949 sullo stesso loggiato della Pace Celeste. I vecchi funzionari del partito e i nuovi ricchi businessmen, soli invitati alla Grande Parata dell´Anniversario in piazza Tiananmen, hanno capito subito che questo travestimento a sorpresa anticipava il senso più profondo della decennale liturgia. Hu Jintao, esaurite le sessanta cannonate che hanno scosso una Pechino asserragliata in casa e incollata alla tivù, non ha indugiato a chiarire il messaggio.
Davanti ad una distesa muta di militari, volontari precettati, studenti, bambini e figuranti, ha passato in rassegna il nuovo arsenale atomico "made in China" a bordo di una limousine "Bandiera rossa" e gridando «forza compagni». In sette minuti di discorso, mentre la tempesta chimica dell´aeronautica scioglieva le ultime nuvole sopra la capitale, ha spiegato che «solo il socialismo può salvare la Cina» e che «le riforme e le aperture possono assicurare lo sviluppo del Paese, del socialismo e del marxismo». Alcuni diplomatici occidentali, forse frettolosi, l´hanno immediatamente soprannominato il Sessantesimo di "Mao Jintao". Proseguendo a leggere, Hu ha ricordato che il «socialismo alla cinese» è il «solo esempio di successo» per un mondo naufragato nel liberismo. In un crescendo di patriottismo nazionalista si è appellato all´unità etnica e alla riunificazione del Paese con Taiwan, promettendo che l´autoritarismo di mercato saprà «costruire una nazione ricca, forte, democratica, armoniosa e modernamente socialista». I cinesi hanno compreso l´indicazione interna: il potere non intende compiere alcuna apertura e semmai, sotto choc per il declino americano, è pronto a cedere all´orgogliosa pressione delle frange più ortodosse. Anche la scenografia di Tiananmen, nuovamente percorsa dai carri armati dopo la strage degli studenti di vent´anni fa, ha lasciato pochi dubbi. Decine di slogan, composti da lettere dorate sostenute da bambini guidati via radio, esortavano di volta in volta a «ubbidire al partito», ad «amare il comunismo», a «essere fedeli al partito», a «essere eroi in battaglia» e hanno augurato «mille anni a Mao e al partito comunista». Retorica da anniversario, ma in nessun´altra potenza globale una dittatura del Novecento potrebbe essere oggi proposta quale modello ideologico contemporaneo, sottratto a qualsiasi controllo, critica e discussione. Chiaro anche il suggerimento per gli stranieri.
Quattro rapide parole: «Pace, cooperazione, prosperità e armonia». E immediatamente dopo, due ore in cui sono sfilati tank, anfibi, cannoni, radar, diecimila soldati con le nuove armi leggere, intercettori, missili mai mostrati, compresi gli intercontinentali con le testate nucleari capaci di colpire le portaerei Nato nel Pacifico. Sopra la Chang´An Jie, che taglia in due la capitale, hanno volato (ma non sfrecciato) caccia e ricognitori invisibili.
Sessant´anni fa l´armata di Mao era una massa di partigiani esausti, affamati, decimati e armati dall´Urss. Ieri la Cina ha voluto mostrare che il più numeroso esercito del pianeta è ormai tecnologicamente autonomo e avanzato. E che Pechino, nonostante due decenni di embargo ufficiale nelle armi, sarà presto nelle condizioni di contendere a Washington non solo la leadership monetaria, ma anche quella militare.
Stabilità del potere, contrasto violento del dissenso e delle aspirazioni democratiche, determinazione a incrementare la crescita economica e a conquistare la guida politica del mondo investendo sul rinnovamento dell´arsenale atomico, sono i segnali accuratamente confusi nello show patriottico da cui, misteriosamente, è risultata esclusa la popolazione. Per «ragioni di sicurezza» tutti quelli che contano ieri erano in posa fotografica in piazza Tiananmen. Tutta la Cina stava invece, impaurita, a guardare dal divano. Tra i due universi, apparsi ignari l´uno dell´altro, una distesa di strade deserte, palazzi sbarrati, tetti presidiati da telecamere e cecchini, quartieri inaccessibili da giorni. Tibet, Xinijang e dissidenti sono isolati da tempo: nessuno ha così compreso un tale «allarme terrorismo».
La tensione e l´assenza della gente hanno però tolto alle celebrazioni la "eroica commozione" di uno spettacolo costruito sul mito dei reduci della Lunga Marcia. Quattro soli brividi, leggeri. I plotoni di soldatesse, con gonna fucsia sopra il ginocchio e stivaloni bianchi, che hanno scosso un labbro di Hu Jintao. L´apparizione, al suo fianco, di un Jiang Zemin più che invecchiato. Gli insistiti stacchi tivù su Xi Jinping, dato come prossimo successore, e l´assenza del contendente Li Keqiang.
Infine l´oblìo su Zhao Ziyang, segretario nel sanguinoso `89, dimenticato dallo speaker che ha letto l´elenco dei leader. Solo i carri allegorici, simbolo di regioni, minoranze, emergenze della natura e aspirazioni sociali, hanno trasmesso non slogan, ma la sensazione di una consapevolezza seria dei problemi di oggi. Un lampo, in stile carnevalesco, prima del gran finale. Hanno sfilato in processione quattro ritratti giganteschi, svettanti tra i fiori, mentre migliaia di picconi e palloncini venivano finalmente mollati dai loro custodi: Mao Zedong, Deng Xiaping, Jian Zemin e lo stesso Hu Jintao, che ha applaudito la propria immagine, qui in versione occidentale. Gli invitati si affrettavano ai pullman, ma il presidente travestito da Mao si è fermato a guardare le quattro icone allontanarsi verso il mausoleo. E´ parso un congedo, personale e storico.

Repubblica 2.10.09
Nella giacca del Timoniere un messaggio al Politburo
di Renata Pisu


Hu Jintao si è messo la giacca alla Mao. Chissà quanto se ne è discusso in seno al Politburo del Comitato Centrale del Pcc. Niente va trascurato, figurarsi l´abito. Ma è stato Hu Jintao a pretendere di essere l´unico a indossarla? Sarebbe bello poter dire che "ognuno ha i suoi gusti", purtroppo non stanno ancora così le cose in Cina. Si trascura in una simile parata il particolare dell´abbigliamento? Via, quella giacca ha una storia troppo lunga. La lanciò nel primo decennio del secolo scorso il Padre della Cina moderna, il troppo spesso dimenticato Sun Yatsen che, per la foggia, si ispirò alle divise degli studenti giapponesi che si richiamavano a quelle dei militari tedeschi. Era un capo che rispondeva alle esigenze di modernità senza aderire alle fogge dell´Occidente e, durante gli anni della Repubblica del Guomindang, la giacca venne adottata da tutti i funzionari civili. Poi anche i comunisti vestirono la "giacca nazionale" e non la abbandonarono più. Negli anni sono state apportate modifiche non di poco conto. Per esempio, le tasche esterne erano tre, diventarono quattro per aderire al principio cinese di equilibrio e simmetria: i bottoni erano sette, si ridussero a cinque così da rappresentare i cinque rami del Governo come stabiliva la Costituzione della Repubblica nazionalista; e i tre bottoni del colletto erano, si disse, il simbolo dei Tre Principi del Popolo, la dottrina di Sun Yatsen, e cioè indipendenza, sovranità e benessere del popolo. La Cina ha raggiunto i primi due obiettivi, ma il terzo? Se dovessimo credere alla simbologia dei tre bottoncini, quella giacca Hu l´ha indossata a proposito, come a dire "E il terzo principio, compagni?" I "compagni" attorno a lui, sugli spalti di Tiananmen, erano tutti in giacca e cravatta. Cravatta rossa comunque, di ordinanza.

Corriere della Sera 2.10.09
L’anniversario. Gigantesca parata militare fra passato e futuro
«Comunisti e capitalisti» I 60 anni della Cina di Mao
Hu sul palco con la divisa del Grande Timoniere
di Paolo Salom


Divise immacolate, passi scanditi con studiata precisio­ne, ogni particolare controlla­to e riprovato fino a risultare perfetto. La parata per il ses­santesimo anniversario della Repubblica popolare cinese ha mostrato ieri, 1˚ ottobre, il presente e il futuro della Ci­na nell’immenso scenario che da secoli cadenza le ere imperiali: piazza Tienanmen, a Pechino. Soldati, missili, an­cora soldati, poi carrarmati, jet ed elicotteri nel cielo. E il presidente Hu Jintao, vestito — scelta inconsueta ma sicu­ramente meditata — non in giacca e cravatta ma con la di­visa di Mao Zedong, ad arrin­gare il popolo per otto minu­ti. Otto minuti in cui il nome del Grande Timoniere non è mai stato pronunciato: il «grande innovatore» Deng Xiaoping sì, Mao no. «Oggi una Cina socialista che guar­da al futuro si staglia alta e ferma in Oriente — ha detto Hu —. Lo sviluppo e il pro­gresso degli ultimi sessant’an­ni hanno ampiamente dimo­strato che solo il socialismo può salvare la Cina e solo le riforme e l’apertura possono assicurare lo sviluppo del Pae­se, e del marxismo».
Lo spettacolo della gigante­sca sfilata — 8 mila soldati dell’Esercito popolare di libe­razione, i mezzi più moderni dell’industria bellica naziona­le, e centomila civili (compre­si tre italiani in un totale di 181 stranieri) — è tornato in quest’occasione così partico­lare, un cinquantennio più dieci anni dal giorno (1˚ otto­bre 1949) in cui Mao si affac­ciò sulla Porta della pace cele­ste (Tienanmen) per procla­mare che «La Cina è di nuovo in piedi». E ha ristabilito il pri­mato del potere del Partito co­munista, «unica guida legitti­ma » in un Paese che vuole rinnovare il marxismo con gli strumenti del capitalismo. Un ossimoro politico? Non è un caso, appunto, che Hu Jin­tao abbia evitato di pronun­ciare il nome del fondatore della Repubblica popolare, per vestirne tuttavia i panni. Davanti a sé le falangi festan­ti — le ultime, da quelle par­ti, sventolavano 40 anni fa il Libretto rosso e volevano spa­rare sul quartier generale — portavano in parata i ritratti di Mao, Deng, Jiang Zemin e lo stesso Hu Jintao: i quattro ultimi imperatori di una Cina che vuole ancora essere ros­sa. A ribadire il legame con la Rivoluzione comunista, poi, ecco carri allegorici che ripor­tano al realismo socialista esi­bito con eroi alla Lei Feng, il soldatino che sacrificò la sua vita per i compagni, e bandie­re rosse a sfidare il vento del­l’avvenire. Hu Jintao ha esor­tato i concittadini: la Cina è entrata «in una nuova era di sviluppo e progresso»; è ve­nuto il momento di costruire «un Paese ricco, forte, demo­cratico, civilizzato, armonio­so e socialista moderno». Un messaggio destinato anche ol­tre frontiera: i missili inter­continentali che sono transi­tati per piazza Tienanmen so­no interamente costruiti in Patria e hanno, ovviamente, capacità nucleare.
Ma la parata di ieri, spetta­colare, maestosa, chiusa da un crepuscolo illuminato da fuochi artificiali ancora più grandiosi di quelli sparati per le Olimpiadi dell’anno scor­so, non è stata solo un’esibi­zione di muscoli. È stata an­che una festa popolare come piace da quelle parti: con i campioni dello sport e i vo­lontari del terremoto in Si­chuan a ricevere la loro parte di applausi.

Corriere della Sera 2.10.09
Come siamo. Un gruppo di scienziati spiega che la nostra retina funziona (per difesa) come quella dei predatori
Quello sguardo più veloce della mente
Il segreto degli occhi: fanno da sentinella verso tutto ciò che si avvicina
di Margherita De Bac


ROMA — Capita spesso di percepire la presenza di un oggetto o di una persona che si muove verso di noi prima ancora di vederla. Succede all’uomo nelle mil­le situazioni vissute ogni giorno come al topo che de­ve sfuggire al gatto.
Capacità condivisa da tut­ti i mammiferi. Si pensava dipendesse esclusivamente dalla aree visive del cervel­lo. Adesso sappiamo che non è solo così. Il segreto è nella retina, la sottile lami­na nervosa situata sul fon­do dell’occhio e sensibile al­la luce. Qui abitano cellule nervose super specializzate che svolgono una funzione equiparabile a quella di una sentinella. Avvertono imme­diatamente il movimento di cose e persone in avvicina­mento e restano del tutto in­sensibili a tutto ciò che si al­lontana o si sposta lateral­mente.
La scoperta è stata pubbli­cata sulla prestigiosa rivista Nature Neuroscience e por­ta la firma di una squadra in­ternazionale di neuroscien­ziati appartenenti a quattro centri, università di Tubin­gen, Scuola normale supe­riore di Parigi, Friedrich Miescher Institute di Basi­lea e università canadese di Dalhousie. Parliamo di isti­tuzioni di grande prestigio. Quella svizzera ad esempio, diretta dal poco più che 42enne Botond Roska, può contare su un parco biotec­nologico modernissimo cre­ato dall’università e dal­l’azienda Novartis. Geneti­ca, microscopia, elettrofisio­logia.
Enrica Strettoi, primo ri­cercatore dell’Istituto di neu­roscienze del Cnr di Pisa, an­drà il prossimo mese da Ro­ska per stabilire un rappor­to di collaborazione proprio in questo specifico settore.
«E’ uno studio molto inte­ressante — lo commenta con entusiasmo la neurobio­loga —. Combinando una serie di tecniche sofisticate i colleghi sono riusciti a isola­re nei topi una nuova cate­goria di neuroni già noti per una funzione diversa ma non per questa che oltretut­to non si immaginava fosse propria della retina». Si trat­ta appunto di cellule senti­nella che si allertano all’avvi­cinarsi di un oggetto e resta­no invece inattive se si allon­tana o si muove lateralmen­te ». Pensiamo a quanto sia utile una capacità del gene­re agli animali che devono difendersi dai predatori.
«La retina spesso viene considerata solo un sempli­ce filtro che colleziona im­magini e invia segnali desti­nati alla corteccia cerebrale cui spetta elaborarli — spie­ga la Strettoi —.
Invece si è capito che è una vera e propria sezione di cervello situata nella peri­feria del corpo e possiede straordinarie capacità di adattamento e elaborazio­ne. La rete di questi neuro­ni- sentinella era stata de­scritta in parte anche da noi a Pisa in collaborazione col professor Elio Raviola di Harvard. Avevamo dimo­strato che lavorano per tra­smettere segnali in basse condizioni luce».
I quattro gruppi interna­zionali sono andati oltre, scoprendo una seconda mo­dalità di funzionamento del circuito in presenza luce. La stessa «squadra» di neuroni viene riconvertita in modo economico. Come un abito che può essere indossato in inverno o in estate semplice­mente togliendo le mani­che.
Ricadute terapeutiche? Per ora non si intravedono applicazioni immediate per la cura di patologie dell’oc­chio. Dal punto di vista del­la conoscenza invece sono state rivelate qualità igno­te di organo che è forse la parte più conosciuta del sistema nervoso cen­trale. In prospettiva si potrebbe arrivare a correg­gere difetti della percezione del movimento.

Corriere della Sera 2.10.09
Anticipazioni Nel saggio, in uscita in Francia, il pensatore esplora le radici dell’esistenzialismo e il suo impatto sulla nostra epoca
Glucksmann: compito del filosofo scavare il vuoto sotto le certezze
Socrate giganteggia sull’Occidente. Anche sul suo erede Heidegger
di André Gluksmann



Come si comincia a «filosofare»? Consumando i jeans sui banchi del liceo? Pendendo dalla bocca dei professori all’università? Me­ditando sui grandi testi? Frequentando gli autori giusti? Poi cimentandosi da soli nel­la dissertazione? Why not? Solo che questi utili sostegni non garantiscono le menti stracolme contro il vuoto delle lezioni ap­prese. Nessuno può insegnarmi a giudica­re, poiché devo prima giudicare se i consi­gli e i consiglieri sono buoni o cattivi. Se vuoi filosofare, nessuno può pensare al tuo posto. Se vuoi cominciare a pensare, decidi di pensare da te. Questo modo inso­lente di mettere fra parentesi il ricorso alle opinioni già confezionate viene facilmente considerato presuntuoso e soggettivo: per­ché sarei un giudice migliore di altri?
La risposta socratica capovolge la do­manda: perché gli altri, per numero o per età, si sbaglierebbero meno di me? Non si entra nel pensare affermando d’essere il migliore. Non cerchiamo la saggezza per eccellenza, ma per difetto. Scopriamoci sbigottiti come chiunque altro davanti a ciò che sbalordisce e disarma. Per comin­ciare a filosofare, bisogna osare stupirsi, «questo sentimento ( pathos ), cioè il fatto di stupirsi, di meravigliarsi, è caratteristica principale del filosofo, poiché per la filoso­fia non esiste altra origine ( arché , princi­pio), per cui chi ha detto che Iris è figlia di Thaumas non è privo di abilità nel pratica­re la genealogia» (...).
In meno di un secolo, lo sconvolgimen­to europeo si è propagato nell’intero piane­ta in preda all’evaporarsi delle tradizioni, all’incertezza dell’avvenire e alla precarietà accertata dell’esistenza umana. Gli antichi hanno battezzato «peste» un cataclisma fi­sico, politico e mentale che affligge l’insie­me di una società. Questa malattia mortale inaugura l’ Iliade di Omero, riappare nella Tebe di Eschilo, nell’Atene di Tucidide e nell’Italia di Lucrezio. Il Rinascimento, con Boccaccio, Margherita di Navarra e infine Shakespeare, la evoca di nuovo come ele­mento fondatore in cui la letteratura esplo­ra nuovi modi di esistere e di resistere, mentre il vecchio universo crolla senza spe­ranza di ritorno. Kafka, Beckett, Solzheni­tsyn e qualche altro hanno testimoniato si­smi materiali e spirituali altrettanto note­voli. Il merito del giovane Heidegger fu, ne­gli anni Venti, di meditare filosoficamente sull’angoscia che sommergeva l’incipiente XX secolo.
Alla rivoluzione mentale che il nuovo pensiero invocava fu affibbiato un vocabo­lo divenuto ben presto alla moda e come tutte le mode destinato a propagarsi abusi­vamente: «esistenzialismo». Così fu desi­gnata la volontà di staccarsi dai dogmi rite­nuti intangibili di una Belle époque che le grandi potenze europee, nazionaliste e co­loniali, imponevano attraverso le armi e gli animi. Finita la sollecitudine divina che guidava le anime pie e cullava il concerto delle nazioni cristiane! Finita la moda dei determinismi scientifici e laici che inqua­dravano rigidamente l’Universo con leggi chiare e definitive, sottoponendo i cittadi­ni alle regole della ragione e le speranze di ognuno alla saggezza collettiva. Religiosi o liberi pensatori, gli europei perdevano la testa nello stesso momento in cui smarri­vano i propri amuleti. Senza accanirsi nel conservare o ripristinare catechismi in di­suso, l’offensiva esistenzialista si accinse a proprio rischio e pericolo a scavare il gran­de vuoto. In qual modo le opinioni di un pensatore toccano il destino di un’epoca? Solo nella misura in cui esse diventano filo­sofiche, e non più strettamente familiari, sentimentali, corporativistiche o comunita­rie. Nella misura in cui non si limitano a subire la crisi generale, ma si mettono a pensarla. Per cominciare, come dicono i re­ligiosi, bisogna spogliare il vecchio uomo. Demolire, distruggere l’orizzonte di confor­mismo che impedisce di fronteggiare la crisi. Demolire e distruggere diventa ben presto un tema ricorrente nel giovane Hei­degger.
L’idealismo, spesso «neokantia­no », che fino a Heidegger dominava l’uni­versità tedesca, che a sua volta dettava leg­ge in Europa, non escludeva bruscamente eventuali difficoltà, ostacoli, e anche crisi. Il pensiero dominante tuttavia concepiva le contrarietà solo seguendo un ordine su­periore che dava senso a questi ostacoli. Ottimista, esso adottava con imperturbabi­le serietà la promessa, sebbene ironica, del Mefistofele di Goethe: «Sono parte di quel­la forza che vuole sempre il male e sempre fa il bene». Sereno, esso prendeva alla let­tera «l’astuzia della ragione» immaginata da Hegel, secondo cui dal peggio nasce il meglio, o sognata da Marx, secondo cui la storia progredisce «attraverso i suoi aspet­ti negativi» (...).
Il XX secolo diagnostica una crisi delle fondamenta, quando studiosi o semplici cittadini finiscono per vagabondare di qua e di là. La filosofia che nasce e rinasce sce­glie come dimora la crisi più violenta, quel­la che minaccia di sradicare le civiltà. Fede­le a questo scuotimento iniziale, il socrati­smo non prodiga cure palliative o farmaco­pee corroboranti, promette di pensare fi­no in fondo, costi quel che costi, la scossa mentale e di soggiornare in essa senza illu­sioni. Atteggiamento minoritario, questo rifiuto di «vivere nella menzogna» è il filo conduttore di una dissidenza polimorfa che da 2.500 anni anima meditazioni, lette­rature e iniziative il più delle volte solita­rie.
Crisi di ogni genere — sociali, economi­che, istituzionali, internazionali, morali— punteggiano l’attualità. Lo storico le enu­mera. Saggi e specialisti propongono rime­di. Il filosofo socratico le analizza. Non im­putategli la sua diffidenza. Se necessario, egli coopererà — come Montaigne fu sin­daco di Bordeaux e consigliere del futuro Enrico IV — per colmare le lacune immi­nenti. Ma come Montaigne, autore dei Sag­gi , primo filosofo francese, il filosofo socratico non accetta mai di voltare pagina in fretta e furia, occultando i buchi neri che la crisi mette in luce: lavora sulla lun­ga, sulla lunghissima durata.
La peste immaginata da Albert Camus nella sua città, Orano, può pure simboleg­giare la «peste bruna» che sommerge la Germania nazista, ma resta comunque un incidente delimitato da invalicabili barrie­re spaziali e temporali. La città (Orano), il Paese (la Germania dal 1933 al 1945) attra­versano uno stato d’eccezione; il mondo tutt’intorno sfugge a questo cammino ex­tra- ordinario ( Sonderweg ), il pericolo rima­ne all’esterno, fermamente contenuto, co­sì come fu domata nel 1820 l’ultima grande peste, questa sì schiettamente fisiologica, dalle parti di Marsiglia (fucili e batterie di cannoni, un cordone sanitario inviolabile cingevano la regione contaminata). L’opi­nione pubblica costruisce troppo facilmen­te una linea Maginot mentale e considera la crisi un’eccezione alla regola. Ecco come rassicurare senza tanti sforzi. La filosofia, invece, tenta di sondare lo sconvolgimen­to in profondità, nella sua lunga durata, e l’ausculta come crisi della regola stessa. Heidegger, seguendo una simile direzio­ne, si serve abilmente di Kant contro Kant per condurre la propria lotta contro l’ange­lismo neokantiano, e fa un taglio netto con un’adolescenza teologica e cattolica. Infatti, quali che siano le credenze intime di ciascuno, la filosofia lavora senza reti e «senza dio».
(Traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere della Sera 2.10.09
Difficoltà per chi studia le atrocità commesse dagli italiani nei Balcani
«Sbloccate il fondo sui crimini di guerra»
In riordino da tre anni le carte all’archivio dell’esercito
di Antonio Carioti



La fredda sigla H-8 cela materiale scot­tante. Così è denominato un fondo, depositato presso l’archivio dell’Uffi­cio storico dello stato maggiore dell’esercito (Ussme), in cui si trovano le carte riguardan­ti i crimini commessi dalle forze d’occupa­zione italiane (soprattutto nei Balcani, ma anche altrove) durante la Seconda guerra mondiale. C’è la documentazione prodotta dai Paesi che chiesero la consegna dei nostri militari accusati di aver compiuto gravi delit­ti e ci sono i dossier raccolti sull’argomento da parte italiana. Alla fine tutto si arenò e nessuno fu punito, ma ovviamente per gli studiosi quel fondo è di estremo interesse.
Solo che al momento non si può consul­tarlo, come ha fatto notare sulla rivista «Ita­lia Contemporanea» lo storico Filippo Focar­di: «Il fondo H-8 è stato utilizzato da Costan­tino Di Sante, per un libro, Italiani senza onore , edito nel 2005 da Ombre Corte. Poi è stato esaminato dalla Commissione parla­mentare che si occupava dell’insabbiamento delle indagini sulle stragi naziste. Quindi è stato messo in riordino e risulta tuttora inac­cessibile. Io dovrei lavorare su quelle carte per una ricerca europea sulla punizione dei criminali di guerra, ma anche altri colleghi sono interessati. Sarebbe molto utile sbloc­care presto la situazione».
Il capo dell’Ussme, colonnello Antonino Zarcone, conferma la circostanza, ma nega recisamente che l’esercito voglia nasconde­re alcunché: «Il nostro scopo principale è agevolare l’attività degli studiosi, tant’è vero che negli ultimi due anni abbiamo raddop­piato gli accessi all’archivio. Il fondo H­8 non aveva inventario e occorreva dargli una logica secondo i canoni della scienza archivi­stica, anche per rispettare le leggi più recen­ti, compresa la normativa per la tutela della privacy. Abbiamo completato l’elenco analiti­co dei documenti e stiamo procedendo al riordino vero e proprio, ma non siamo in grado di fare previsioni sulla data di conclu­sione del lavoro».
Sono circa tre anni che gli storici aspetta­no, come testimonia Costantino Di Sante: «Utilizzai quelle carte per il libro uscito nel 2005 e poi tornai l’anno dopo all’Ussme, per­ché avevo bisogno di consultare l’H-8 per un lavoro successivo, Nei campi di Tito (Ombre Corte): il fondo contiene anche materiale sul­la sorte dei soldati italiani catturati dai parti­giani jugoslavi. Ma l’H-8 era già in riordino e non ho potuto visionarlo. Eppure la docu­mentazione non mi pareva in disordine».
Su questo concorda un’altra studiosa, Ma­ria Teresa Giusti, che ha fotocopiato parte del fondo H-8 nel 2004 per un lavoro che sta preparando, con Elena Aga Rossi, sui milita­ri italiani nei Balcani dopo l’8 settembre: «I fascicoli mi sono sembrati abbastanza ordi­nati, in particolare le relazioni presentate da­gli jugoslavi, suddivise per territorio e tradot­te in italiano: all’Ussme ho visto fondi con­sultabili, ma assai più caotici dell’H-8. Natu­ralmente si tratta di materiale da utilizzare con cautela, inserendo il comportamento delle nostre truppe nel contesto di una guer­riglia particolarmente feroce».
Viene comunque da chiedersi come mai il riordino si prolunghi tanto. Zarcone ri­sponde che i mezzi scarseggiano e gli impe­gni abbondano: «Ci sono fondi ben più vec­chi che sono ancora da riordinare. E dobbia­mo dare la priorità al materiale del periodo 1859-61, in vista delle pubblicazioni ufficiali per il centocinquantenario dell’unità d’Ita­lia. Inoltre mancano le risorse: abbiamo un solo archivista che deve sobbarcarsi tutto il lavoro e non può fare miracoli». L’archivio dell’Ussme merita dunque risorse aggiunti­ve in vista dei 150 anni dello Stato unitario: le forze armate sono un pezzo molto impor­tante della memoria nazionale.



il Riformista 2.10.09
Cgil, chi sta con chi prima del congresso Ds
Epifani muove e vince. Poi lascia a settembre
di Marco Ferrante


Il congresso della Cgil si terrà in primavera. L'organizzazione è mobilitata. Si discute degli scenari congressuali anche alla luce di quello che sta succedendo nel Pd, che sta andando a congresso. La mappa della situazione è più o meno questa. Il segretario Guglielmo Epifani ha una maggioranza sopra il 50 per cento. Salvo eventi imprevedibili, sarà riconfermato per poi gestire la successione che avverrà a settembre.

Epifani in cerca di unità mappa. L'asse Podda-Rinaldini, cioè Fiom e Funzione pubblica, che pensano a un documento comune. Il ruolo della Rocchi e quello della Camusso. Una difficile successione.

Punta a un congresso unitario, ma non è detto che sarà così. Formalmente finora non si è manifestata un'opposizione a Epifani. Nei fatti c'è un asse tra funzione pubblica e metalmeccanici, a cui potrebbero aggiungersi un altro paio di categorie e spezzoni di varia provenienza. Partiamo dalla composizione della segreteria confederale, l'organo esecutivo eletto dal direttivo. In segreteria sono tutti con Epifani, con l'eccezione di Nicoletta Rocchi, origine socialista, lunga storia riformista, iscritta al Pd, capo dei bancari, critica.
Poi ci sono Agostino Megale e Fabrizio Solari, piddini, stanno con il segretario - Solari più tiepidamente - ma sostengono posizioni riformiste inespresse: cioè vorrebbero essere più riformisti, ma sono cauti. Con il segretario anche Paola Aniello, di una componente di sinistra interna della Cgil, "Lavoro e società", attualmente guidata da Nicola Nicolosi - lontana erede di "Essere sindacato", area ex Fausto Bertinotti, ex Gianpaolo Patta - che sostiene Epifani da sinistra. E' una componente che non si riconosce nel Pd, il riferimento esterno è quel che resta di Rifondazione.
I più epifaniani sono Morena Piccinini, non iscritta ad alcun partito, e poi Fulvio Fammoni, e Susanna Camusso, recentemente iscritti al Pd pro-Bersani. Camusso è stata considerata da molti l'erede designata da Epifani, adesso meno.
Se si guarda la composizione per categorie, la situazione è più complicata. C'è un'area di malcontento che contesta alla segreteria di non aver preso una strada precisa, di non aver definito la linea dell'organizzazione e che considera oggi la Cgil incapace di rompere, ma anche incapace di gestire gli accordi. Quest'area di dissenso è organizzata intorno all'asse costituito da Funzione pubblica, guidata da Carlo Podda (iscritto al Pd, sostiene Franceschini perché gli dà maggiori garanzie di cambiamento), e Fiom guidata da Gianni Rinaldini non iscritto ad alcun partito (tra i metalmeccanici c'è anche una piccola minoranza interna epifaniana guidata da Fausto Durante).
Che cosa tiene insieme quest'asse? «A parte la pazienza di Podda», come dice una persona vicina alle parti, c'è una convergenza su tre temi: il primo è quello della semplificazione contrattuale (tre contratti, uno per i servizi, uno l'industria e uno per il pubblico impiego, una idea che risale a Bruno Trentin), il secondo punto è quello della cosiddetta unificazione dei rapporti di lavoro (cioè sostanzialmente il tema del contratto unico, posto dal Riformista con un'inchiesta di Tonia Mastrobuoni) e, infine, la questione democrazia e rappresentanza, resa particolarmente sentita dopo la discussione sull'accordo con Confindustria e governo sottoscritto da tutte le sigle ma non dalla Cgil.
La maggioranza epifaniana crede che al dunque Fiom e Funzione pubblica - su cui già gravano le diffidenze, sull'una perché viziata di aristocratismo operaio, sull'altra accusata di aver malgestito le relazioni con Brunetta - avranno difficoltà a stendere un documento comune. Si vedrà, intanto per il momento la base di proposta di Fiom e Funzione pubblica potrebbe attrarre anche i bancari guidati da Nicoletta Rocchi, qualcuno dice - forse - pezzi dei trasporti, e alcune camere del lavoro, cioè le strutture provinciali della Cgil. Il resto degli organismi locali sta con Epifani. Nell'area del dissenso rispetto alla segreteria bisogna contare anche i cosiddetti ex-cofferatiani - area Marigia Maolucci e Mauro Guzzonato - che tali sono rimasti e che fanno riferimento a Franceschini nella battaglia per il Pd.
Dicono alcuni osservatori che questo gruppo di forze ritiene che Epifani difficilmente potrebbe accettare di condividerne l'impostazione sostanzialmente per due ragioni. La prima: c'è un gruppo dirigente che di base la pensa in un altro modo (da Panini, a Megale a Camusso), è più cauto sul confronto, ritiene che sarebbe più prudente evitare questi temi nel dibattito sindacale. La seconda ragione: una parte della maggioranza epifaniana, dopotutto, vorrebbe fare la conta, ma restando all'ombra del segretario e senza scendere su un terreno politico. Del resto, anche qualcuno degli epifaniani ritiene che Podda e gli altri vorrebbero contarsi per condizionare la corsa alla segreteria.
In tutto ciò, se non altro per una questione di tempistica - il congresso del partito precede quello del sindacato - giocherà un suo ruolo anche la vicenda Pd. La questione del rapporto tra Cgil e partiti è interessante. Un tempo nella Cgil c'era un'area socialista e una comunista. Questo semplificava le cose. Negli ultimi anni, dal 2001 con la sconfitta elettorale del centrosinistra e il congresso di Pesaro da cui partì la trasformazione dei Ds, la gente non si è più iscritta ai partiti della scomposizione a sinistra. Adesso hanno ripreso: c'è una piccola area di Rifondazione; la Fiom che sta tra Rifondazione e Sinistra e libertà; il resto, la maggioranza, che sta con il Pd, quasi tutti con Bersani. Epifani non si è ancora pronunciato. Dei leader, con Franceschini c'è solo Podda, che alcuni giudicano la mente più politica dell'organizzazione, e poi Maolucci e Guzzonato. Questa piccola pattuglia cgiellina si ritrova dalla parte di Franceschini assieme con tutta la Cisl, tutta la Uil, e tutti gli uomini che hanno lasciato il sindacato, Cgil compresa. Perché una spaccatura così netta? Alcuni in Cgil pensano che il fallimento del tentativo di Walter Veltroni, cioè l'idea di un partito democratico fondativo - che avrebbe dato un peso maggiore all'unità del lavoro e dei sindacati - ha riaperto la questione della divisione sindacale nel Pd. Anche per questo Cisl e Uil sono con Franceschini e la maggior parte degli uomini Cgil stanno con Bersani.
Piccola osservazione aggiuntiva: quasi tutti gli ex sindacalisti passati nel Pd sono con Franceschini, ma non è detto che se fossero ancora in Cgil, sarebbero contro Epifani. Paolo Nerozzi starebe contro, per esempio, ma probabilmente Achille Passoni no. Difficile dire quanto gli ex pesino ancora nell'organizzazione, ma l'impossibilità di fotocopiare la posizione nel Pd su quella Cgil, va tenuta in considerazione.
Accanto alle reciproche influenze con il congresso cugino, nella partita conteranno - dicono gli insider - altre due questioni: la complessa catena dei rapporti con il governo e Confindustria, e lo svolgimento di un paio di trattative per gli accordi di categoria.
Da una parte c'è un'area del governo e della maggioranza culturalmente guidata da Maurizio Sacconi che punta a isolare la Cgil e che preferisce l'interlocuzione con la Cisl. La ragione di questa preferenza è storica. E affonda le sue radici nello scontro tra il governo riformista di Bettino Craxi e la Cgil sul punto unico di scala mobile, scontro vinto dai socialisti.
Posizione diversa è quella del più politico dei ministri del governo Berlusconi, del leader che punta a darsi una fisionomia da leader, Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia cerca il dialogo con la Cgil innanzitutto perché ritiene che il principale sindacato italiano non debba essere escluso dal tavolo con le parti sociali in un anno in cui lo strascico della crisi economica morderà l'occupazione; in secondo luogo, da molti mesi Tremonti cerca il dialogo a sinistra. Siccome Epifani ha interesse a uscire dall'angolo ha invitato Tremonti alla conferenza programmatica della Cgil e successivamente ha visto Emma Marcegaglia a Cernobbio. Subito dopo lo scioglimento del ghiaccio con il capo degli industriali c'è stata la conclusione positiva della trattativa per il rinnovo del contratto degli alimentaristi, unitario, considerato la prova generale per rientare al tavolo della riforma della contrattazione, perché di fatto applica le regole dell'accordo di gennaio.
L'organizzazione è divisa sulle prospettive del dialogo. I contratti in discussione nei prossimi giorni potrebbero contribuire a orientare il congresso. Il contratto dei meccanici può influenzare il rapporto con Confindustria, Cisl e Uil, perché c'è la posizione radicale della Fiom, cioè la classe operaia in purezza. Di contro potrebbe avere un peso in direzione unitaria il contratto delle tlc, e in seguito quello dei tessili di Valeria Fedeli e dei chimici di Alberto Morselli, storicamente le due categorie più riformiste.
La casa madre terrà conto delle indicazioni che arriveranno. Da qui al congresso il capo della Cgil cercherà di giocare le sue carte per dare un segno alla sua segreteria. Ha rinunciato al grande accordo generale alla riforma dei contratti che lui stesso aveva avviato nel 2008, ora cercherà di spingere verso contratti unitari, e aggiornare l'accordo separato. Dovrà circoscrivere - ma accettare - la sfida che arriva dalla minoranza e ricostruire un rapporto con il governo dal quale si aspetterebbe però un segnale, sul fisco da Tremonti per esempio, ma certo lo scudo lo ha deluso. L'obiettivo di Epifani - che deve anche trovare un successore, in assenza di grandi personalità - è duplice: difendere una linea culturale e politica di sindacato unitario e proteggere il sindacato dal rischio di una spaccatura degli apparati in una fase di crisi economica e sociale, che allargherebbe il divario tra l'organizzazione e il mondo del lavoro.


il Riformista 2.10.09
Suad Amiry: «Se non ce la fa neanche Obama, addio Palestina»
A colloquio con la scrittrice-architetto di Damasco. Il dramma del muro di Israele ha ispirato il suo ultimo "Murad Murad" (Feltrinelli). «Così ora le donne del mio Paese hanno meno libertà».
di Antonello Guerrera


Il muro, ieri ed oggi. Se vent'anni fa cadeva quello berlinese, oggi quello innalzato sui confini di Israele miete ancora vittime. Fisiche, ma anche di carattere mentale e culturale tra israeliani e palestinesi. Che, con questa nuova barriera, dialogano sempre meno. Parte da questa profonda lacerazione Murad Murad (pp. 178, euro 14,50), il nuovo libro di Suad Amiry, architetto, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, ma soprattutto scrittrice palestinese che già con Sharon e mia suocera e Niente sesso in città aveva spopolato in Italia grazie a Feltrinelli, oltre ad aver vinto nel 2004 il premio Viareggio. E se nei precendenti lavori i leitmotiv erano l'occupazione militare e gli stereotipi delle donne a Ramallah e dintorni, oggi è il muro a scatenare un diario di bordo tragico, ma dall'immancabile humor, nero e tagliente. In Murad Murad, l'Amiry si traveste da uomo e descrive l'odissea dei palestinesi che lavorano clandestinamente in Israele per guadagnare qualche spicciolo in più. Ma per farlo, bisogna superare il confine di notte, evitando i posti di blocco israeliani. Rischiando così la morte, nonostante supportino, anche se in nero, l'economia israeliana. Suad ha iniziato con la tappa di ieri a Roma un tour italiano per presentare Murad Murad. Il Riformista ha colto l'occasione per conversare con la scrittrice. Sul libro e, ovviamente, sul terribile limbo nel quale israeliani e palestinesi galleggiano da troppo tempo.
Suad, lei era già un famoso architetto, ma da diversi anni pubblica anche libri di successo internazionale. Qual'è stata la scintilla della sua ultima opera?
Il muro prima di tutto. Se la memoria comune palestinese era rappresentata nel 1948 da altre turpi figure, come le espulsioni o gli infiniti coprifuoco, oggi l'incubo di massa è il muro. Una scelta drammatica e assolutamente illogica: Israele dice che è per la sicurezza, ma in realtà copre solo il 20 per cento dei suoi confini. Le conseguenze sono tremende, soprattutto a livello mentale. Così gli israeliani si separano da noi palestinesi e da tutto il Medio Oriente: da una parte dicono di volerne essere parte, ma dall'altra attuano mosse simili, del genere "non vogliamo vedervi". Questo mi ha spinto a scrivere Murad Murad. All'inizio avevo pensato a rendere protagonisti del libro gli animali, perché nessuno si rende conto di quanto questo muro faccia male, oltre che alle persone, agli animali, alla natura e all'ambiente. Ma sarebbe stato troppo difficile.
Quanta verità e quanta fiction c'è nel libro?
Murad Murad si compone quasi esclusivamente di storie vere. Tanto che le ho vissute in prima persona, le abbiamo anche filmate. Tutto parte da una sera nella quale Murad (personaggio del libro, ndr) ha cominciato a raccontarmi la tragedia dei lavoratori palestinesi clandestini in Israele. Storie incredibili che riflettono il dramma di molti altri immigrati che vedono l'Eldorado nell'Occidente.
A questo proposito, lei è un'attivista per i diritti civili dei palestinesi e dal 1991 al 1993 è stata anche membro della delegazione di pace a Washington. Alla luce dei recenti negoziati falliti tra Israele e Palestina, ha rivisto il brutto film di circa venti anni fa? Non pensa che lo stallo dei negoziati sia colpa anche dei palestinesi?
Il problema è che Israele non vuole fermarsi ed occupa sempre più terra. Il cuore, per tutto quello che i palestinesi hanno subito sinora, mi direbbe di non scendere a patti. Ma in queste faccende bisogna anestetizzare il cuore. Solo così si può dire: «Ok, facciamo due stati e finiamola qui». Ma gli israeliani vogliono avere la botte piena e la moglie ubriaca e vanno avanti per la loro strada. Ma ho speranza, perché, prima o poi, ogni occupazione finisce su questo pianeta. E i palestinesi hanno più supporto oggi nel mondo che 20 anni fa.
Supporto che però troppo spesso sfocia in azioni di boicottaggio nei confronti di Israele, anche nell'ambito di manifestazioni culturali - come le recenti Toronto ed Edinburgo, o la precedente Fiera del Libro di Torino - che, anzi, dovrebbero aprire al dialogo.
Le cose non stanno proprio così. A Torino, e io c'ero, si celebravano i 60 anni di Israele, ossia 60 anni che io sono stata cacciata fuori di casa. La stessa cosa è accaduta a Toronto. Il problema sono i titoli o i motti di certe manifestazioni, non lo scambio culturale, ci mancherebbe. E poi i più grandi registi israeliani sono a favore della causa palestinese. I boicottaggi, al contrario, nascono perché Israele non rispetta le leggi internazionali e non ascolta l'altro punto di vista, ultimo il rapporto Goldstone. Se l'Onu non si muove, tocca a noi smuovere le acque.
Nemmeno l'Obama post discorso al Cairo può nulla, secondo lei?
Obama è il mondo che dovrebbe esistere, la sua biografia dimostra che lui è la rappresentazione della complessità delle identità. È quello che ci vuole, in teoria. Ma in pratica non basta. Lo rispetto molto, ma purtroppo si deve scontrare con altri poteri troppo forti. Come ha incontrato difficoltà per la riforma sanitaria, sarà lo stesso per la questione palestinese. Vedremo. Certo, per noi palestinesi Obama è l'ultima speranza. Se fallisce anche lui, potremo dire definitivamente addio alle speranze di avere uno Stato tutto nostro.
Con "Niente sesso in città", lei è stata l'autrice del "Sex and the City" palestinese. Come giudica la condizione delle donne oggi nel suo Paese?
Diciamo che, sfortunatamente, le donne non hanno ancora il giusto spazio neanche nei paesi occidentali, vedi la penuria femminile al G8. Ma quando c'è povertà, come oggi in Palestina, è sempre la donna che soffre, perché l'uomo diventa automaticamente l'unica fonte di guadagno, come Murad nel mio libro. Oggi in Palestina la condizione delle donne è a tratti più difficile che in passato, perché tra checkpoint e rappresaglie le famiglie hanno paura di far affrontare il mondo alle proprie ragazze. Così non le mandano più a scuola, l'età matrimoniale scende sempre di più e si ritorna al passato. Poi, va beh, con Hamas è altra storia. Sono fondamentalisti, vogliono stabilire un modello islamico che penalizza la donna. Ma la popolazione di Gaza si è già ribellata a tutto questo e gli estremisti hanno, per ora, ceduto.
Ha saputo delle polemiche italiane sull'immagine della donna in tv e non solo?
Sì e guardi...preferisco sbrigare la questione con un bel "no comment".

l’Unità 2.10.09
Macché Lucy, e Ardi la nostra antenata
di Cristiana Pulcinelli


Scoperte Era una femmina di Ardipithecus ramidus, nata un milione di anni prima di Lucy e viveva in Africa grosso modo 4,4 milioni di anni fa: di lei è stato rinvenuto uno scheletro abbastanza completo

La caratteristica. È una sorta di mosaico con tratti sia dei primati che degli ominidi
Ardi era una femmina. Era alta 120 centimetri e pesava circa 50 chili. Viveva in quella che oggi chiamiamo Etiopia grosso modo 4,4 milioni di anni fa. Oggi di lei resta uno scheletro quasi completo e ben conservato: c’è una buona parte del cranio, i denti, le mani, i piedi, gli arti e il bacino. Il ritrovamento dei suoi resti fossili ha permesso agli scienziati di fornire la prima descrizione accurata della specie cui apparteneva, l’Ardipithecus ramidus. «Erano stati trovati altri resti di ominini (la sottofamiglia zoologica che comprende tutti i nostri antenati dopo la separazione della linea evolutiva umana dallo scimpanzé, ndr) anche più antichi di questo spiega Olga Rickards, docente di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata di Roma comprese alcune parti di un Ardipithecus kadabba risalente a oltre 5 milioni di anni fa. Ma finora si trattava di pochi pezzi, frammentati e molto mal conservati». Invece di Ardi si è trovato molto e, soprattutto, parti anatomiche importanti: «Il bacino, ad esempio, permette di capire l’andatura e la stazione dell’ominino», spiega Rickards. Così la sua scoperta è un passo importante per la ricostruzione della storia evolutiva dell’uomo. Tanto che la rivista Science le dedica la copertina del numero che esce oggi e uno speciale con 11 articoli. Il principale autore della scoperta è Tim White dell’università della California, ma nel complesso allo studio dei fossili (che è durato ben 17 anni) hanno partecipato 47 scienziati provenienti da diverse parti del mondo.
La cosa che rende Ardi tanto interessante è la sua veneranda età: è più vecchia di Lucy, l’esemplare di Australopithecus afarensis scoperto nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso e famosa in tutto il mondo. Anche Lucy veniva dall’Etiopia e anche Lucy era una femmina. Più piccola di Ardi: era alta poco più di un metro e pesava tra i 29 e i 45 chili. Anche il suo scheletro era quasi completo: se ne trovò il 40%, un fatto eccezionale che permise ai paleoantropologi di scoprire molte cose sull’evoluzione umana. Finora Lucy era considerata l’essere più vicino a quello che si sta cercando da
anni: l’antenato comune tra noi e lo scimpanzé. Ma ora è arrivata Ardi a contenderle il posto. Già, perché la ragazza ha, rispetto a Lucy, un milione di primavere
in più sulle spalle. Per la verità, Ardi non è l’unico esemplare di Ardipithecus su cui hanno potuto lavorare i ricercatori. Insieme al suo scheletro sono stati trovati i resti di almeno altri 36 individui tra maschi, femmine e bambini. Anche se l’Ardipithecus ramidus non è l’antenato comune tra esseri umani e scimpanzé, avvertono gli scienziati, ci siamo molto vicini. Si ritiene infatti che la specie da cui si sono evoluti gli ominidi ma anche le scimmie antropomorfe a noi più vicine sia vissuto all’incirca 6 milioni di anni fa. L’Ardipithecus è arrivato un milione e mezzo di anni dopo, un tempo abbastanza corto dal punto di vista dell’evoluzione, per mantenere ancora alcune caratteristiche del predecessore comune. Ardi, dicono i paleoantropologi, è una sorta di mosaico con tratti primitivi, simili a quelli dei primati del miocene, e tratti simili a quelli che si trovano negli ominidi successivi.
«L’Ardipithecus è così pieno di sorprese anatomiche scrivono gli autori di uno degli articoli che nessuno avrebbe potuto immaginarlo». Un particolare che ha stupito i ricercatori è il fatto che questo nostro antenato sia diventato bipede modificando la struttura del bacino ma senza abbandonare l’alluce prensile che veniva utilizzato dai primati per arrampicarsi sugli alberi. L’interessante è che l’Ardipithecus sembra smentire un’ipotesi finora molto diffusa secondo cui le attuali scimmie antropomorfe avrebbero mantenuto molti tratti che si pensa appartenessero all’antenato comune. Ardi non era simile alle scimmie antropomorfe attuali. Viveva in un ambiente arboricolo e sapeva arrampicarsi sugli alberi usando tutti e quattro gli arti, ma sapeva anche deambulare su due gambe. Non camminava appoggiandosi sulle nocche delle mani né passava molto tempo dondolandosi dai rami come fanno oggi gli scimpanzé. Anche se il suo cervello era piccolo, più piccolo di quello di Lucy, il cammino verso la nascita dell’uomo si era già avviato.

Liberazione 1.9.09
Operazione-verità della Cgil. Roma, sabato in piazza con i precari anche SdL e RdB
La scuola della Gelmini: niente fondi e 57mila posti di lavoro tagliati
di Roberto Farneti


Altro che semplice «razionalizzazione», come è stata provocatoriamente definita da Mariastella Gelmini. I tagli alla scuola pubblica decisi dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti e avallati dal ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca sono la causa dello "tsunami" che si è abbattuto su tutti gli istituti di ordine e grado con il recente avvio del nuovo anno scolastico e che sta già provocando seri danni in parecchie zone del Paese, soprattutto in quelle situazioni dove la mancanza di risorse è tale da imporre risparmi a scapito della qualità degli studi.
A ristabilire la verità sulla condizione «deformata» della scuola italiana, contraddicendo le «mistificazioni» della ministra, è la Flc Cgil, che ieri a Roma ha presentato un dossier ricco di numeri e di esempi concreti. La prima questione, la più spinosa, è quella dell'occupazione. Mentre gli studenti iscritti sono in continua crescita (a settembre erano quasi 8mila in più rispetto all'anno scorso ) «nell'anno scolastico appena iniziato sono stati tagliati 42.104 docenti e 15.167 Ata per un totale di 57.271 unità: è il taglio di personale più pesante mai realizzato», sottolinea con voce ferma Mimmo Pantaleo, segretario nazionale Flc-Cgil.
Inoltre saranno oltre 18 mila i docenti e 7mila gli ausiliari precari che non avranno più lavoro: 25mila licenziamenti contro i 12mila di cui parla Gelmini. Iinfatti, ai fini del calcolo, non si può utilizzare - come fa la ministra - il semplice saldo tra i tagli e i pensionamenti, perché di fatto il personale di ruolo in sovrappiù verrà utilizzato per coprire i posti fino all'anno scorso coperti dai precari. Questo quindi comporterà una riduzione dei posti disponibili. «Il governo non può dire di voler risolvere il problema dei precari se tramite i suoi provvedimenti li ha licenziati», osserva Fulvio Fammoni, segretario confederale Cgil.
C'è poi il problema delle risorse. «I bilanci delle scuole - accusa la Cgil - sono stati privati dei fondi per il funzionamento didattico e amministrativo, cioè per i bisogni quotidiani, dal materiale didattico per i laboratori e le biblioteche al materiale per le pulizie». Nelle scuole non ci sono i soldi per pagare i supplenti, mentre la mancanza di collaboratori scolastici ha costretto tre istituti della provincia di Pisa a ridurre l'orario delle lezioni. Le famiglie che hanno richiesto il tempo pieno o saranno costrette a rinunciarvi («a Bologna è rimasta inevasa la richiesta di 57 classi di tempo pieno in più rispetto all'anno scorso») o dovranno accontentarsi di "parcheggiare" i figli in classi private delle attività formative tipiche del tempo pieno. «La mancanza di fondi - si legge nel dossier - impedisce anche la messa in sicurezza dell'edilizia scolastica».
Per tutte queste ragioni la Flc Cgil sta preparando nuove iniziative di contrasto alla politica del governo e parteciperà al corteo dei precari di sabato prossimo a Roma, con partenza alle ore 15.00 da Piazza dei Cinquecento e arrivo a viale Trastevere davanti alla sede del MIUR.
In piazza con i precari ci saranno anche i sindacati SdL Intercategoriale e RdB, impegnati nella costruzione dello sciopero generale nazionale indetto dal Patto di Base per il 23 ottobre. Secondo SdL e RdB, quella del governo sulla scuola «è un'operazione che, oltre ad offendere la dignità e la professionalità dei docenti, lede gli stessi principi costituzionali che garantiscono ai cittadini tutti un'istruzione pubblica di qualità».

Liberazione 1.9.09
Sun Yuxi Rappresentante della Repubblica popolare cinese in Italia
«La Cina non sarà una superpotenza. Crescita unica arma contro la povertà»
di Simonetta Cossu


1 ottobre 2009, sono passati 60 anni dalla nascita della Repubblica popolare. Quali sono stati, secondo lei, i passaggi fondamentali di questa storia?
Oggi celebriamo la fondazione della Repubblica popolare cinese ed è, anche per noi, una occasione per esaminare questi 60 anni di storia e il processo che ci ha portato dove siamo. Come lei sa prima della fondazione della Repubblica popolare la Cina è stata vittima di un lungo periodo, quasi cent'anni, di guerre. Proprio per questo credo che bisogna dividere gli ultimi 60 anni in due grandi periodi. Nei primi trent'anni la principale preoccupazione della Cina fu di come conservare l'indipendenza e la sovranità dello Stato. Eravamo in un periodo ostile: c'era la guerra fredda, assistemmo al deterioramento dei rapporti con l'Unione Sovietica, la presenza degli Stati Uniti nell'area asiatica era massiccia, in Corea e in Indocina. Eravamo circondati da problemi politici. L'obiettivo fu quindi quello di trovare un modo sostenibile per permettere alla Cina di svilupparsi. La seconda parte, o sarebbe meglio dire gli ultimi 30 anni, si possono meglio descrivere con le parole d'ordine che ci demmo: apertura e riforme. Nei primi trent'anni il leader principale fu Mao, negli ultimi trent'anni è stato Deng che prese il commando ed avviò quella politica di apertura e di riforme che poi i leader che lo hanno seguito hanno proseguito. L'obiettivo era ed è quello di proteggere gli interessi base della maggioranza della popolazione. Il mondo è cambiato parecchio e oggi uno dei nostri obiettivi principali è lo sviluppo economico. E' questo l'unico modo per migliorare le condizioni di vita delle persone e anche per inalzare la Cina da una condizione di povertà e arretratezza in una nazione, non posso dire ricca, ma in una condizione di benessere. In questi ultimi 30 anni inoltre abbiamo investito molto in una migliore integrazione e cooperazione con il resto del mondo, non solo politicamente ma anche a livello economico.

All'Onu si è tenuto recentemente un importate vertice sul clima. Come pensate di coniugare la crescita economica cinese con la crisi ambientale?
Il governo cinese dà molta importanza al tema dei cambiamenti climatici. La Terra è una sola e tutti noi dipendiamo da essa e va protetta. Il governo cinese ha per questo un ministero per la protezione ambientale. L'assemblea popolare ha recentemente votato molte normative. Numerose imprese che non rispettavano le leggi sono state chiuse e le nuove devono rispettare rigidamente le norme. La crescita economica deve tenere conto dell'ambiente per garantire migliori condizioni di vita per tutti. Per questo il governo cinese ritiene determinante la collaborazione globale sul tema. Sebbene ci siano i confini tra le nazioni, l'atmosfera e l'aria che respiriamo non li rispettano, è la stessa per tutti. Noi facciamo il nostro sforzo, ma i paesi già sviluppati, come gli Stati Uniti, che è il principale produttore di gas serra del mondo, devono dare sostegno ai paesi in via di sviluppo. Lo possono fare in due modi: fornendo aiuti finanziari o tecnologie nuove a basso costo, se non gratis. Se non viene permesso ai paesi in via sviluppo di crescere e migliorare le loro condizioni di vita, la questione ambientale per loro diventa irrilevante.

Viviamo in un tempo di crisi. La crescita cinese, pur restando in positivo (+8%), non permette però al sistema economico di svilupparsi sufficientemente per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. Anche la Cina rischia una crisi sociale esplosiva. Come intende il governo di Pechino affrontare questo problema?
Questa crisi sta avendo nel nostro paese un forte impatto nel settori dell'export. Numerose imprese sono fallite e le ripercussione sul mondo del lavoro sono state forti. Per affrontare questa crisi il governo ha varato numerosi programmi di aiuti e finanziamenti per stimolare la domanda interna, ma c'è un limite a questa. Per adesso la situazione è abbastanza tranquilla. La crisi finanziaria nei paesi occidentali si potrebbe definire una crisi di fiducia e questa sicuramente non manca in Cina. Grazie alle manovre anticrisi del governo oggi la domanda interna è di nuovo in crescita e la fiducia nel sistema finanziario cinese resta alto anche grazie alle grandi riserve monetarie dello Stato. Questo però non significa che non ci siano problemi. Noi contiamo su una ripresa mondiale da metà del 2010, se non ci sarà anche la nostra economia potrebbe subire delle conseguenze. La Cina ha avanzato numerose proposte ai diversi incontri internazionali dove non solo abbiamo avanzato delle idee. Essendo anche molto pragmatici abbiamo inviato numerose delegazioni nel mondo con lo scopo di fare acquisizioni per risollevare l'economia locale e così di conseguenza stimolare quella mondiale perchè se oggi in Cina non ci sono problemi, per il futuro i rischi di una crisi sociale sono evidenti.

Recentemente Pechino ha dato il via ad una serie di iniziative monetarie al fine di avviare scambi in remimbi (moneta cinese ndr) con i vostri partner commerciali regionali, Non temete che questa decisione deprima ulteriormente il dollaro, al quale la vostra moneta è agganciata?
Non sono un esperto in materia ma credo che il nostro obiettivo è rendere il remimbi una moneta al pari delle altre e per ottenere questo ci vorrà tempo. Credo che però che siamo più interessati alla stabilità delle monete, sia del remimbi che delle altre, non posso dare un tempo per il libero scambio ma credo che va realizzato tenendo presente le condizioni globali.

Se ne parla poco, soprattutto in occidente, ma la Shanghai cooperation organization, meglio nota come Sco sta crescendo e moltiplicando i suoi membri. Come definirebbe gli scopi e gli obbiettivi di questa organizzazione?
Lo Sco è nata come organizzazione degli Stati limitrofi alla Cina per garantire sicurezza e cooperazione tra di loro. La cooperazione dentro lo Sco è in espansione ed interessa il livello economico e culturale dei paesi membri. E' una organizzazione aperta....

Qualcuno dice che sta assomigliando ad una organizzazione che farebbe da contraltare alla Nato...
Questa è disinformazione e sbagliano. L'obiettivo principale dello Sco oggi è la cooperazione economica. E' una organizzazione aperta e trasparente, tra i membri non è prevista una alleanza militare. Altri paesi confinanti con i paesi già membri dello Sco hanno deciso di inviare osservatori ai summit dei paesi membri, tra questi c'è anche l'Afghanistan e l'Iran...

E' di questi giorni la chiusura del Tibet ai turisti, una decisione presa in concomitanza con le celebrazioni del 1° ottobre. Crede che sia possibile trovare un via di dialogo per risolvere il caso?
Voglio ricordare che il Dalai Lama non è un rappresentante del popolo tibetano, ma è il rappresentante di forze separatiste. La posizione del governo cinese rispetto alla questione tibetana è chiara: lo sviluppo del Tibet fa parte di quello della Cina e in Tibet non esiste un problema Tibet. Quindi esiste solo un problema Dalai Lama nel caso in cui lui e i suoi seguaci abbandonino la causa separatista e decidano di tornare. Questo è il problema che dobbiamo affrontare. Non c'è nessun bisogno di discutere l'attualità del Tibet: è parte integrante della Cina e questo non può essere messo in discussione. Le manovre di sicurezza di oggi sono state prese in considerazione del fatto che sono attesi molti ospiti e visitatori in occasione delle celebrazioni. Le misure sono state adottate onde evitare che elementi estremisti entrassero in Tibet per fomentare la rivolta. E' una decisione assolutamente temporanea per garantire la sicurezza.

Come vede la Cina fra trent'anni?
La Cina deve mantenere il suo ritmo di sviluppo e non diverrà una superpotenza. Nel passato le superpotenze lavoravano a mantenere il loro potere ma la nostra opinione è quella che bisogna convivere con tutte le altre nazioni. La nostra prima missione è aiutare gli altri paesi in via di sviluppo a crescere ed arricchirsi insieme a noi. Non ripeteremo quello che è accaduto in passato. l'obiettivo cinese è costruire un solido rapporto di cooperazione con i paesi dell'Asia, del Sud America e dell'Africa al fine di costruire un equilibrio globale, un mondo armonioso.

il Riformista 2.9.09
Verso la piazza
Escalation. Di Pietro e De Magistris si contendono la guida della formazione giustizialista e per questo non si fermano neanche davanti al presidente della Repubblica.
di Sonia Oranges
«Era dai tempi di Mussolini che un governo italiano non interferiva con i media in maniera così lampante e allarmante. I giornalisti, e gli altri italiani, hanno tutte le ragioni per protestare»: è l'"endorsement" dell'"Economist", oggi in edicola, per la manifestazione indetta dalla Fnsi per domani in difesa della libertà d'informazione. E che ieri è stata spiegata in una conferenza stampa dai vertici della Federazione nazionale della Stampa. Di certo, dal palco di piazza del Popolo interverranno il segretario Fnsi Franco Siddi, il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, lo scrittore Roberto Saviano, un rappresentante di Articolo 21, una voce della Cgil, una precaria della scuola (visto che domani mattina in strada ci saranno anche i cortei di protesta della scuola), guidati dal conduttore Andrea Vianello di Raitre. E, almeno secondo quanto deciso sin qui, non ci saranno i politici. «Abbiamo chiesto ai partiti di rispettare il carattere di manifestazione autonoma, anche se non ci appartiene il qualunquismo antipartiti - ha spiegato il presidente Fnsi Roberto Natale - Sarà una manifestazione serissima, altro che farsa! E piazza del Popolo darà una risposta anche al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e alla maniera offensiva con la quale ha giudicato questa iniziativa e ha parlato dei giornalisti in termini di troppi farabutti».
Certo, c'è chi fa i distinguo. La Cisl non andrà in piazza, e nemmeno i radicali. Pure Cesare Salvi non ci sarà, ma perché «si sposa la figlia di un amico». Ma altrimenti ci sarebbe andato? Risponde ni: «La libertà di stampa necessita di una battaglia più ampia, non basta portare in piazza gli striscioni per garantire Raitre come appannaggio del Pd. Perché anche in quella rete alcuni punti di vista non trovano spazio. Insomma, la piattaforma andrebbe estesa». Eppure la piattaforma della protesta è lunga come una quaresima, a dimostrazione dell'«aria pesante per l'informazione» denunciata da Natale: «Dal ddl sulle intercettazioni, ai giornali chiamati davanti al magistrato a rispondere di ciò che scrivono, all'operazione contro "Avvenire" che ha portato alle dimissioni del direttore Dino Boffo, all'appello del presidente del Consiglio agli imprenditori affinché non investino in pubblicità nei giornali "catastrofisti"». E poi c'è chi, come la pattuglia di "Left", il settimanale diretto da Donatella Coccoli, che al contrario ritiene che in piazza ci si doveva andare addirittura prima (e che domani distribuirà un numero speciale), «anche se l'importante ora è manifestare».