lunedì 5 ottobre 2009

Liberazione 4.10.09
La manifestazione di Piazza del Popolo
Risorse della democrazia
di Dino Greco

Una folla enorme. Piazza del Popolo stipata sino all'inverosimile, come pure tutte le vie d'accesso. Del tutto superfluo ingaggiare il consueto duello sulla stima delle presenze. Forte - e incoraggiante - anche la mobilitazione dei precari della scuola. Una buona giornata, insomma. Per quanto era in noi, abbiamo lavorato per il successo delle manifestazioni di ieri e siamo soddisfatti di avervi portato un visibile contributo. Di partecipazione, innanzitutto, ma non solo. Dico di partecipazione perché, da quando mondo e mondo, è la presenza delle persone, sono i loro slogans, i messaggi impressi negli striscioni e nei cartelli, è il "tono" emotivo che attraversa la piazza a dare il segno, la cifra dell'evento, a decretarne il successo ed il significato. Spesso persino oltre le intenzioni dei promotori. Lì si esprime una creatività, un'autodeterminazione collettiva che diviene - immediatamente (nel senso letterale del termine: senza mediazioni) - un fatto politico. Dove la politica non è più amministrata dal ceto autistico che pretende di custodirla in esclusiva, ma diventa protagonismo, partecipazione attiva, l'esatto contrario del rapporto unilaterale che sovrappone chi ha il monopolio della parola, scritta o parlata, a chi invece può solo ascoltare. In piazza bisogna volerci venire. E' una libera scelta che implica un certo grado di consapevolezza. E, soprattutto, la voglia di contare. E' la democrazia che si organizza. C'è, in queste osservazioni, un sovraccarico retorico? Forse. C'è un eccesso di ottimismo? Forse. Ma nella situazione data bisogna pur cogliere - e sospingere - ogni sussulto di protesta, di opposizione al processo degenerativo che sta minando, sin nelle fondamenta, la Repubblica e la sua Costituzione. Gli avversari della mobilitazione di ieri hanno in questi giorni sollevato l'obiezione che dietro il pretesto della difesa della libertà di stampa e del pluralismo vi sia soltanto un complotto politico antiberlusconiano, ordito e guidato da un centro di potere politico e mediatico del tutto speculare a quello dominato dal caudillo di Arcore. Ora, che nel "partito di Repubblica" non si risolva affatto il tema di una informazione davvero libera e indipendente è chiaro come il sole. Ma lo è altrettanto che il reggimento totalitario di Berlusconi, la sua propensione ad eliminare qualsiasi pur tenue elemento di pluralismo, nell'informazione come nella dialettica politica, persino dentro il proprio genuflesso schieramento, fa sì che la costruzione di un tessuto democratico abbia come precondizione il tramonto di un potere personale che rappresenta un pericolo permanente. Che poi vi sia chi attende di raccogliere i frutti da questo scuotimento senza alterare ed anzi preservando i rapporti sociali e politici esistenti è del tutto evidente.
Lo dimostra il ben diverso peso che la "libera" stampa ha assegnato alle conpulsive patologie sessuali del premier rispetto ai contenuti della politica economica e sociale del suo governo, rivolta a fare a pezzi l'intero sistema dei diritti e il bilanciamento dei poteri fissato dalla carta costituzionale. Bisogna tenerne conto. E riflettere sul fatto che tutto ciò che si muove - socialmente e politicamente - fuori dall'universo bipolare, semplicemente non esiste. Sostenere dunque che in Italia c'è libertà di stampa per il sol fatto che una trasmissione - sia pure sotto schiaffo - ha potuto dire peste e corna di Berlusconi, non sta né in cielo né in terra. Un'ultima, credo fondamentale considerazione. Tutta la politica e, nondimeno, lo stesso oligopolistico mondo dell'informazione, si possono muovere dentro una bolla sospesa e autoreferente perché dentro la società langue, ristagna, o nella migliore delle ipotesi muove passi incerti e intermittenti, la mobilitazione sociale. E' tempo immemorabile che il mondo del lavoro è rinculato dentro una pura difesa corporativa (a dire il vero fragile anch'essa), incapace di rappresentare un punto di riferimento davvero alternativo per l'insieme della società, e per gli intellettuali (se mai ne esistono ancora) di questo Paese. Lo stesso si può dire per i movimenti. Finché queste soggettività non riusciranno a ritrovare parola, proposta e capacità di attrazione, l'anomia sociale continuerà a specchiarsi nel - e ad alimentarsi del - caravanserraglio mediatico, in primis quello televisivo. Che pare, sempre di più, un universo parallelo, dove i problemi della gente entrano - quando entrano - solo di striscio e senza lasciare traccia. Perché tutto il resto è un potente anestetico, propinato con martellante, metodica pervasività, attraverso la quasi totalità dei palinsesti televisivi. Un documentario ( Videocracy ) che circola quasi clandestino in poche sale cinematografiche mostra con rara efficacia come la passivizzazione di massa - scientificamente coltivata - possa diventare il terreno propizio per avventure reazionarie. Ricordate la vecchia (e quanto preveggente) canzone di Enzo Jannacci degli anni settanta che recitava: «la televisiun la ga na fôrza de liun, la televisiun la ta rent come 'n cujun»: «la televisione ha una forza da leone, la televisione fa di te un coglione»)? A questo punta - con luciferina consapevolezza - Silvio Berlusconi. Da oggi gli sarà più difficile.

Liberazione 4.10.09
Studenti, insegnanti e precari sotto il Ministero
La scuola invade Roma: 20mila in corteo
di Daniele Nalbone

Oltre ventimila tra docenti e studenti hanno manifestato ieri a Roma in due cortei. Il primo, indetto dal Coordinamento precari scuola e dalla Cgil, al quale hanno preso parte migliaia di studenti e una foltissima rappresentanza di militanti di Prc, Pdci, con la presenza dei segretari Ferrero e Diliberto, e una sparuta rappresentanza di sbandieratori dell'Italia dei Valori che si è subito dileguata dopo la visita di Di Pietro, è partito da piazza della Repubblica per arrivare, dopo una lunga e significativa tappa nella stracolma piazza del Popolo, al Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca, in viale Trastevere. Il secondo, invece, organizzato dai Cobas Scuola, ha sfilato da piazza dei Cinquecento direttamente al Miur.
Chi si aspettava polemiche fra i due cortei, però, si è dovuto ricredere perché, come ha spiegato Piero Bernocchi dei Cobas, «il motivo per cui non abbiamo deciso di prendere parte a un corteo unitario non riguarda nessun punto della piattaforma, che è e resta condivisa, ma solo la decisione di partecipare o meno alla manifestazione di piazza del Popolo sulla libertà di stampa». Nessuna spaccatura, quindi, come si è potuto constatare alla fine della giornata quando, i due cortei, si sono riuniti sotto al Miur per un' arrabbiata e decisa assemblea pubblica.
«Oggi (ier, ndr) è successo qualcosa di straordinario» commenta Francesco, del Coordinamento precario di Roma: «Abbiamo attraversato la città per protestare contro il progetto di distruzione della scuola pubblica messo in atto da Gelmini e Tremonti in qualità di esecutori di un ben preciso piano politico del Governo Berlusconi». L'anno scolastico 2009/2010 si è aperto all'insegna di 25mila lavoratori precari "cancellati", 37mila studenti in più e 57mila insegnanti in meno. «Il tutto» spiegano i portavoce del Coordinamento, «in un contesto più generale che vuole, in tre anni, una riduzione del 20% del bilancio della pubblica istruzione e un taglio di 150mila posti di lavoro». In poche parole, la distruzione della scuola pubblica. «Come non bastasse, il governo si permette anche di prenderci in giro con il cosiddetto decreto "salva-precari" che, attraverso contratti di disponibilità, dovrebbe garantire forme di reddito alternative a chi ha perso il posto di lavoro e non ha uno stipendio». Ma solo chi ha avuto una supplenza lunga un anno nel 2008/2009 può fare domanda. «E gli altri? Non possiamo accettare una divisione tra precari di seria A e precari di serie B».
Per il Governo Berlusconi, «quello servito ieri dai precari della scuola, è solo l'antipasto» spiega Antonella Vaccaro, docente precaria di Napoli, al microfono del furgone che apre il corteo, dopo essere intervenuta, salutata da un'ovazione della piazza, sul palco della manifestazione per la libertà di stampa. «Nei prossimi mesi serviremo al premier e al suo governo tutta la cena, che di certo non finirà come quelle di palazzo Grazioli ma in modo molto meno piacevole».
Ad aprire il corteo che da piazza della Repubblica ha raggiunto il Miur passando per piazza del Popolo sono stati i docenti precari al motto di "dignità e futuro per la scuola pubblica". Subito dopo gli studenti e quindi le organizzazioni sindacali e i partiti. In testa al corteo dei Cobas, invece, il coordinamento precari di Salerno dietro lo striscione "Dai tetti del sud fino al nord la mobilitazione è permanente". Più chiaro di così…
Non sono mancati, però, momenti di tensione: il primo corteo, al momento dell'ingresso a piazza del Popolo, è stato bloccato dalla gran folla presente. Quasi impossibile passare. Ci sono volute quasi due ore per uscire dall'imbuto che si era creato nella piazza prima di riprendere il cammino verso il Miur. Ma anche fuori da Porta del Popolo, in piazzale Flaminio, incredibilmente aperto al traffico, è stato il caos. Un involontario ma impermeabile blocco del traffico è stato messo in atto dalle oltre diecimila persone che cercavano di uscire senza nemmeno un vigile urbano o un qualsiasi segnale che indicasse il percorso, simbolo della confusione che regna fra Comune e Prefettura di Roma quando si deve gestire l'ordine pubblico per una manifestazione. «Qui le cose sono due» commenta Eleonora Forenza, membro della segreteria nazionale Prc : «O siamo davanti a incapaci che si ritrovano a gestire una città, oppure al cospetto di un comportamento doloso per giustificare ulteriori politiche repressive contro il diritto a manifestare».
Per questo una volta terminato l'intervento di Antonella Vaccaro dal palco di Piazza del Popolo, le forze dell'ordine hanno costretto il corteo a passare sull'argine del Tevere per raggiungere Ponte Garibaldi e quindi viale Trastevere. «E' incredibile» il commento degli insegnanti, «ci trattano come topi, ci fanno passare lungo l'argine del fiume. E' inaccettabile».
Alla fine, sotto al ministero dell'Istruzione, migliaia di persone hanno chiesto le dimissioni del ministro Gelmini, il ritiro dei tagli alla scuola pubblica, il ritiro della legge sul maestro unico e l'immissione in ruolo dei precari su tutti i posti vacanti.

Repubblica 5.10.09
È scoppiata la guerra civile televisiva
di Edmondo Berselli

Una volta alla Rai c´era la lottizzazione. Era il metodo più efficace per assicurare l´equilibrio fra i partiti. Un sistema matematico ferreo, una specie di inesorabile manuale Cencelli applicato alle assunzioni e alle nomine di appartenenza, agli spazi e ai tempi per i partiti. Non è il caso di rimpiangere i bilancini e gli equilibrismi di quella che fu definita da Pietro Scoppola la «Repubblica dei partiti».
Tuttavia non si può neppure apprezzare, e anzi è decisamente intollerabile, la guerra civile televisiva che si è aperta di recente, per decisione unilaterale: con il primo editoriale di Augusto Minzolini, il direttore neonominato che ritenne opportuno apparire in video per spiegare il silenzio del Tg1 sullo scandalo della prostituzione di regime (con la giustificazione che non c´erano elementi di rilievo giudiziario, e quindi si trattava semplicemente di "gossip", come ripetono all´unisono tutti gli esponenti della destra). E poi con il nuovo intervento del medesimo direttore del Tg1 contro la manifestazione di Piazza del Popolo per la libertà di stampa, qualificata come una iniziativa volta a instaurare «un inaccettabile regime mediatico».
Di quale regime mediatico si tratti, in un paese che vede il dominio diretto o indiretto del premier sul sistema televisivo e su un ampio settore dell´informazione stampata, è difficile dire. Tuttavia siamo abituati da tempo alle distorsioni e alle manipolazioni della maggioranza politica. È la tipica tecnica che si riassume nell´immagine popolare del "bue che dà del cornuto all´asino". Metodo infallibile se ripetuto e ribadito con regolarità, e senza possibilità di smentita. Mentre al contrario sarebbe il caso di parlare della combinazione nefasta fra l´apertura delle ostilità da posizioni di forza e la militarizzazione blindata delle funzioni di potere nella televisione pubblica: per intenderci quella che viene sostenuta in larga misura dal canone, pagato dalla generalità dei cittadini, e che in quanto tale, come ha rilevato ieri anche il comitato di redazione della Rai, deve rappresentare tutti, e qualsiasi posizione, anche quelle di coloro che vanno in piazza a protestare in nome della libertà dell´informazione.
Il Tg1, sempre nelle parole del Cdr, è un organo di informazione «istituzionale». È chiamato a dare voce a tutti. Figurarsi: dalla fine degli anni Sessanta in poi il nostro paese ha conosciuto una quantità impressionante di manifestazioni di massa. Partiti di opposizione e sindacati hanno trovato spesso nella piazza quelle possibilità di espressione che sembravano inibite da una politica bloccata. Se i direttori dei tg "di maggioranza" avessero dovuto intervenire a seguito di ogni protesta sociale o sindacale sgradita all´ispirazione politica del loro editore di riferimento, avremmo avuto un sistema televisivo brezneviano. Invece il regime cinquantennale e dolce della Dc e dei suoi alleati si preoccupava di filtrare la realtà sociale italiana in modo da farne emergere il "pluralismo": il sistema doveva essere eterno ma morbido, modellato sui numeri della proporzionale, infallibile nella sua capacità rappresentativa.
Non è una inutile nostalgia per le felpate scaltrezze del passato registrare che oggi stiamo assistendo a continue dichiarazioni di guerra dei potenti contro i più deboli, della maggioranza contro la minoranza, del governo contro l´opposizione, senza nemmeno le diplomazie lambiccate della lottizzazione. Non per nulla, Minzolini definisce «intolleranti» tutti coloro, a cominciare dal Cdr e dal sindacato della Rai, che criticano la sua sortita. Ciò significa semplicemente che anche la Rai si è trasformata nello strumento esplicito di un´offensiva politica. E questo avviene con i metodi ampiamente sperimentati dalla destra di casa nostra: individuando i "nemici", selezionandoli ed esponendoli alla gogna (come per esempio ha fatto il premier alla festa del Pdl, con il suo triplice «vergogna» verso presunte e impresentabili opposizioni che festeggerebbero gli attentati dei Taliban contro i nostri militari a Kabul).
Ora, va da sé che la Rai non è un santuario di virtù. È sempre stata la rappresentazione più completa e precisa del potere in Italia. Forse proprio per questo oggi rischia di divenire l´immagine allo specchio di una politica brutale, che non conosce più mediazioni, né nobili né ignobili, e che anzi usa l´informazione pubblica per alimentare strumentalmente i conflitti. È l´effetto di un sistema maggioritario interpretato in modo violento, di un conflitto d´interessi che non finisce di deformare la democrazia, di una manipolazione mediatica che alla fine umilia l´opinione pubblica.
Tutto ciò costituisce la conseguenza più clamorosa e invasiva del populismo berlusconiano, che si realizza nell´occupazione sistematica di ogni spazio politico e civile. La Rai e i suoi circuiti di potere interno tendono a rappresentare la politica nella sua identità più immediata. Se poi ci si mette la spregiudicatezza degli uomini del Cavaliere, altro che finzioni istituzionali, altro che servizio pubblico, sarà il trionfo dell´interesse privato.

Repubblica 5.10.09
Il corruttore difeso dalla politica
di Giuseppe D'Avanzo

La "discesa in campo" del ´94 è servita al Cavaliere per difendere il proprio interesse, come i partiti della prima repubblica lo avevano aiutato a sviluppare il suo business
Paradossalmente metà del Paese è chiamata a difendere un episodio di corruzione che ha assicurato al presidente del Consiglio il dominio nel campo pubblicitario

La politica, per Silvio Berlusconi, è nient´altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali – e qualche «assegno in bocca» – diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale.
La collusione con la politica – la corruzione d´un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari – gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d´urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell´economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest – 4000 miliardi di lire – superano l´utile operativo del gruppo). Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s´inventa "imprenditore della politica" convertendo l´azienda in partito. E´ ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all´impunità totale della «legge Alfano» che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).
Non c´è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E´ sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere – dietro le insegne dell´interesse pubblico – il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell´«aggressione politica al suo patrimonio», dell´«assedio ad orologeria». Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il «momento politico molto particolare». Piagnucola: «Se è così, chiudo». Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato.
Bisogna dunque dire se c´entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c´entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).
Ricapitoliamo. E´ il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l´avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L´udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E´ salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del «privato corruttore» aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il «magistrato corrotto». Correggono l´errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell´anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo. Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d´un ambiente giudiziario infetto e poi l´attuale suo stato «individuale e sociale» (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell´uomo che – è vero – è un «privato corruttore» perché è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l´Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un´assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di «privato corruttore» gli resta appiccicato alla pelle.
Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c´entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, «privato corruttore». Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell´«aggressione politica al patrimonio» di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: «Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti».
Occorre allora mettere mano alle sentenze. C´è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell´affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, «record assoluto nella storia della magistratura italiana». In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: «Da un terzo estraneo all´ambiente istituzionale», si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il «gruppo B very discreet») bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell´interesse di chi? «La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell´interesse e su incarico del corruttore» scrivono i giudici dell´Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del «privato corruttore» (Berlusconi). «E´ la Fininvest – conclude infine la Corte di Cassazione – la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris», del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.
Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un «privato corruttore». Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha «stabilmente a libro paga» Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene «almeno quattrocento milioni» da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.
Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia – da capo del governo e «privato corruttore» – a lanciare una "campagna" che spaccherà in due – ancora una volta – un´opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un´altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l´opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva. Ripete la solita filastrocca che si vuole «manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l´opportunità di una grande manifestazione popolare». In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell´informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L´Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell´uomo che la governa.

Repubblica 5.10.09
Sindone: "È un falso medievale. Ecco la prova"
di Laura Laurenzi

Una copia identica all´originale è stata realizzata in pochi giorni con strumenti e materiali disponibili nel 1300 Il risultato dell´esperimento sarà presentato la prossima settimana al convegno per i vent´anni del Cicap
Un dottorando fatto sdraiare sotto un telo di lino dalla speciale tessitura e macchiato d´ocra

Per la prima volta la Sindone è stata riprodotta uguale all´originale in ogni dettaglio, con tecniche e materie prime disponibili nel 1300. «Siamo finalmente riusciti a dimostrare che era fattibile con gli strumenti dell´epoca», spiega Luigi Garlaschelli, docente di chimica organica all´Università di Pavia e autore dell´esperimento. Il suo lenzuolo-copia (in realtà sono ben tre) sarà esposto e mostrato per la prima volta al pubblico durante il convegno con cui il Cicap - il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale - celebra i suoi vent´anni il 9, il 10 e l´11 ottobre ad Abano Terme.
Tempo tecnico per ottenere la Sindone: una settimana. Ma l´esperimento ha richiesto lunghi mesi ed è stato eseguito in parte all´Università di Pavia, per gli esami spettroscopici, ma sostanzialmente nel laboratorio dello stesso Garlaschelli, «la mia bat-caverna», scherza lo scienziato. La ricerca è stata finanziata dal Cicap e dall´Uaar (unione atei agnostici razionalisti) ed è costata «alcune migliaia di euro», non precisa meglio Garlaschelli. Solo 2.500 euro è il prezzo pagato per i 15 metri di lino intessuto a spina di pesce.
«L´implausibilità della Sindone, la cui prossima ostensione avverrà nel 2010, è stata già affermata da molti, e per varie ragioni - ricorda lo studioso - Una tessitura mai usata nel primo secolo, il modo in cui si sarebbe dovuto ricoprire il cadavere, contrario agli usi ebraici del tempo, la resa chiaramente artistica dei capelli, delle colature di sangue, degli arti, la mancanza delle deformazioni geometriche che ci aspetteremmo da un´impronta lasciata da un corpo umano su un telo avvolto. E soprattutto il fatto che la Sindone comparve in Francia solo verso il 1357».
Per il suo esperimento lo scienziato ha messo in pratica, estendendolo a tutto il corpo, il metodo suggerito dallo studioso americano Joe Nickell nel 1983. Questo il racconto delle varie fasi così come saranno rese note ad Abano: «Abbiamo fatto tessere un telo di lino a spina di pesce identico a quello della Sindone sia come filato che come peso. Il telo è stato disteso sopra un volontario, un nostro dottorando, e con un tampone sporcato di ocra rossiccia sono state sfregate solo le parti più in rilievo. L´immagine è stata poi rifinita a mano libera dopo avere steso il telo su una superficie piana».
Solo il volto è stato realizzato con l´aiuto di un bassorilievo di gesso, indispensabile per evitare una distorsione dei lineamenti. Con tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue. «Successivamente abbiamo aggiunto l´equivalente delle impurità che sarebbero state presenti nell´ocra usata dall´artista medievale. Dopo diversi tentativi con sali e acidi vari, abbiamo utilizzato acido solforico all´1,2 per cento circa in acqua, mescolato con alluminato di cobalto. Abbiamo ripetuto questo procedimento utilizzando una tela di lino preventivamente invecchiata scaldandola in una stufa a 215 gradi per tre ore, e poi lavandola in lavatrice con sola acqua». Segue un ultimo invecchiamento artificiale accelerato sul pigmento, che viene poi lavato via.
«Il risultato è, come speravamo, un´immagine tenue, sfumata, dovuta a un ingiallimento delle fibre superficiali del lino, e non fluorescente ai raggi ultravioletti - conclude emozionato Garlaschelli - Il negativo è somigliante a quello del volto sindonico e, se elaborato al computer, mostra analoghe proprietà tridimensionali». E tre, non una, saranno le Sindoni (per ora arrotolate in un armadio) che lo studioso porterà al convegno del Cicap e di fronte alla comunità scientifica. Una - completa - di 4 metri e 40 per un metro e 10, una lunga due metri e mezzo che è solo il davanti e una terza delle stesse misure con soltanto l´ocra: come doveva essere la Sindone appena fatta, senza le bruciature.

Corriere della Sera 5.10.09
I Radicali: pronti a uscire dai gruppi democratici

MILANO — Aria di divorzio tra i radicali e il Partito democratico. Il comitato nazionale del movimento di Marco Pannella ( nella foto con Emma Bonino ) ha infatti chiesto ai parlamentari eletti nelle liste del Pd «di valutare in piena autonomia se sia ancora compatibile la loro presenza nell’ambito dei gruppi parlamentari della Camera e del Senato». Il comitato ha anche chiesto di considerare se non sia invece il caso di «adeguare la struttura e la vita del gruppo, in modo da costituire un polo di attrazione e di arricchimento anziché di stanca resistenza passiva nella sua attuale inconsistenza politica e parlamentare». Insomma: «È del tutto evidente la necessità di un chiarimento politico dei rapporti fra Radicali e Pd». Le assise dei pannelliani hanno anche dato mandato ai dirigenti del partito di chiedere incontri urgenti sia al Pd che all’Italia dei valori per esplorare la possibilità di alleanze alle prossime elezioni regionali.
Senonché, viene posta una «condizione pregiudiziale» per l’alleanza: l’affrontare «senza più alibi né reticenze la cosiddetta 'questione morale', che non può essere ridotta a questione giudiziaria e penale». Sabato scorso, Marco Pannella non aveva aderito alla manifestazione per libertà di stampa indetta dalla Fnsi e a cui ha aderito anche il Pd: «Quelli che manifestano sono gli stessi contro cui ho lottato per decenni proprio per avere una informazione libera».

domenica 4 ottobre 2009

l’Unità 4.10.09
Straordinaria partecipazione alla manifestazione per l’informazione senza bavagli
Adesioni di moltissime redazioni dei sindacati. Piazza del Popolo così non si vedeva da anni
Per la libertà di parola Trecentomila modi per dirlo
Trecentomila persone per oltre cinque ore hanno riempito Piazza Del Popolo e il centro di Roma. Tra la folla delusione e rabbia dei militanti Pd per le assenze in aula che hanno fatto passare lo scudo fiscale.
di Natalia Lombardo


ROMA. Libertà e parola, libertà di parola. Libertà. Soprattutto. E che non sia «vigilata». La voglia di ascoltare altro che non sia la parola unica, di manifestare contro la «farsa», quella sì, di un Berlusconi che nega la crisi ai tanti cassintegrati presenti, o che non vuole sentire altro che un ripetitore di se stesso. E la voglia di sfogare la delusione per quei banchi vuoti del Pd alla Camera che hanno lasciato passare il decreto
sullo scudo fiscale. Ecco «la farsa», dice Andrea Vianello dal palco. Trecentomila persone hanno allagato per quasi sei ore piazza Del Popolo, intasato allegramente il centro di Roma in tanti rivoli arrampicati sul Pincio o ramificati nel Tridente. Non aspettavano altro che «esserci». Volti, segni e colori di tutte le età e condizioni sociali, un altro mondo che odia gli indifferenti, come Gramsci, e il velo d’omertà che ha strappato a sue spese Roberto Saviano, acclamato dalla folla.
Alle due del pomeriggio piazza del Popolo è già quasi piena. Per un minuto si spegne nel silenzio in ricordo delle vittime per il disastro di Messina. Poi tornano i colori. Un via vai ai gazebo dei giornali, l’Unità, La Repubblica, il manifesto e la galassia di carta della sinistra. Il sole è da luglio, le scuole di samba di tutta Italia fanno rintoccare corpi e tamburi, al folla «scioscia» (soffia) sul fuoco con la trascinante Teresa De Sio.
Dei partiti ci sono vari leader ma non le bandiere, tranne quelle dell’Idv e di Rifondazione. Però sbuffa come un geyser collettivo fra i tanti militanti Pd la rabbia per le assenze in aula che non hanno fermato lo «scudo» fiscale. Un paradosso. «Sarebbe saltato tutto», protesta un gruppo venuto da Pesaro: «Oggi sarebbe stata un festa» se quei deputati, dai big ai neoeletti, fossero stati al loro posto. «In Parlamento ci dovrebbero andare anche in barella!». Il malumore è diffuso, i dipietristi girano con la maglia «Giorgio non firmare», ma il presidente ha firmato ieri. Nanni Moretti in piazza recita di nuovo il suo mantra: «In questi ultimi 15 anni nei confronti del fenomeno Berlusconi, che è stato da loro sottovalutato, credo che la sinistra e il centro sinistra abbiano sbagliato tutto». Il conflitto d’interessi è la prima causa della retrocessione italiana in fondo alla lista europea di Reporters sens Frontières, dice il segretario Jean Françoise Julliard: hanno chiesto un incontro a Berlusconi, come sempre nessuna risposta. E per la libertà d’informazione in Italia si manifesta anche a Londra e Bruxelles e altrove.
La rabbia dei militanti Pd, e non solo, è l’unica ombra sulla manifestazione. Nell’aria tanti striscioni, nero quello dei «farabutti di RaiTre»; palloncini rossi e rosa della Cgil che ha organizzato pullman da fuori. Per contrasto la piazza copre di fischi la Cils e la Uil che non hanno aderito. Si aggirano maschere bianche del silenzio, ragazze sudano imbavagliate. C’è chi si fa la protesta in proprio: «siamo una famiglia di farabutti, compreso quel bastardo del coniglio». Reclama libertà d’informazione anche un grasso barboncino nero con maglietta rossa. Luigi, pensionato, è in prima fila con Dante sulla testa «”... “e più non dimandare” ma la gente non abbocca». «Lui pensava che non ci fosse nessuno in piazza», ride una donna. Rosso e tondo il Gabibbo saltella in giro elencando le «250 denunce» ricevute. Sfila la banda di Ciampino in uniforme. Coppie con passeggini incastrati tra la folla, impiegati che hanno «criptato il Tg1, Tg4 e Tg5. E Vespa? Vespa chi?», insegnanti precari rappresentati dalla denuncia dal palco di Antonella Baccaro, perché «mentre gli operai si arrampicano sui tetti per lottare i grandi giornali fanno i titoloni sulle escort». A proposito, «C’è una escort bionda targata Bari da spostare davanti a Palazzo Grazioliiii», scherza Cristicchi.
C’È UNA ESCORT DA SPOSTARE...
Alcuni volti Rai indossano le magliette Usigrai «Farabutti», sotto al palco c’è tutto il Tg3, molti di RaiTre, Federica Sciarelli e Riccardo Iacona; Santoro e Travaglio vengono accolti da una standing ovation, segno dei tempi. C’è anche Gad Lerner con l’Infederle. Tantissime le adesioni dei comitati di redazione, anche di Mediaset e di Striscia la Notizia. Don Sciortino di Famiglia Cristiana manda un messaggio: «La stampa non è lo zerbino del potere».❖

l’Unità 4.10.09
«Gelmini dimettiti» A Roma la rabbia di precari e studenti
Prof, studenti e bidelli in corteo. I precari della scuola manifestano a Roma. L' "abbraccio" con la piazza della libertà di stampa. Poi di nuovo sotto le finestre del Miur: “Gelmini dimettiti”. Nuove forme di lotta.
di Maristella Iervasi


ROMA. Esasperati, raggirati, sfiniti dalla precarietà. In piazza a Roma per la «Dignità e il futuro della scuola pubblica». Perché l’«istruzione è in catene» e insegnanti, bidelli con la maschera simbolo del precario senza voce sul volto, hanno lasciato le occupazioni per manifestare tutti insieme e gridare l’unico coro: «Gelmini dimettiti». Arrivano da Palermo e Milano, da tutte le città d’Italia, cantano slogan e srotolano striscioni. Una protesta che va avanti da fine agosto, quando gli studenti erano ancora in vacanza e i precari arrampicati sui tetti.
Pino La Fratta ha 36 anni, docente a Campobasso: «Non è possibile cancellare con un colpo di spugna otto anni di insegnamento spiega -. Specializzarsi, sostenere Master... e notare che l’interesse del governo è sempre quello: cancellarci». «Bisogna reagire» aggiunge Amalia Perfetti, 46 anni, di Frosinone, con accanto la figlia Beatrice al primo anno di liceo: «Più si taglia, più si raglia. Ribelliamoci. Il futuro dei giovani non è nelle politiche diseducative di questo governo».
Eccole le ragioni del corteo dei precari del Coordinamento nazionale, con al fianco il sindacato Flc-Cgil, gli studenti della Rete, dell’Udu e l’Uds. Oltre 20mila manifestanti (secondo gli organizzatori, 5mila per la questura). Una «marcia» allegra e battagliera partita da Piazza della Repubblica, un passaggio a Piazza del Popolo per amplificare dal palco della libertà di stampa la protesta che non cessa, nonostante la soluzione-tampone dei contratti di disponibilità della Gelmini. È una misura che «ammazza i precari» sottolinea Antonella Vaccaro, 38 anni, maestra precaria di Napoli, dal palco dell’Fnsi. E non sottrae critiche all’informazione: «Il vostro silenzio è stato assordante cari giornalisti dice al microfono -. L’informazione nazionale titolava sule escort mentre docenti e Ata in tutt’Italia si arrampicavano sui tetti e facevano lo sciopero della fame».
Nunzia Torretta, collaboratrice scolastica, la sua rabbia l’ha messa per iscritto: «Mamma Rai dei precari non parli mai/ Ordina Silvio di tacere/ e tu disattendi il tuo dovere». Antonino Geraci, 55 anni, insegnate di educazione fisica, diffonde la sua storia: «Da 27 anni precario e buttato sul lastrico». Mariella Tramontano di Napoli recita il verbo lavorare: «Io lavoravo bene e con passione/ tu ministro lavori male ma esegui bene/ egli lavorava con la escort e non alla Ford...».❖

Repubblica 4.10.09
La Fnsi: "Siamo in trecentomila". Il direttore del Tg1 attacca la manifestazione, è bufera Libertà di stampa, una piazza immensa Saviano: "L´indifferenza è pericolosa"
Onida, presidente emerito della Consulta: l´infor-mazione è il cane da guardia della democrazia
di Giovanna Casadio


ROMA - Non è stata una farsa, «con buona pace del presidente del Consiglio che così l´ha definita». Non è stato uno spettacolo, anche se di gente di spettacolo in piazza del Popolo ce n´era tanta, e di musica, di ragazzi a cui scappava voglia di ballare, di ritmare gli slogan, di famiglie, e cittadini. È stata «una giornata di aria buona», scandisce dal palco Franco Siddi, il segretario della Federazione della stampa, mentre arrivano i numeri dei manifestanti. Comincia il solito balletto di cifre: ci sono 300 mila persone per gli organizzatori, 60 mila secondo la questura. Comunque sia, Roma è bloccata per le migliaia e migliaia di persone che si sono riversate in piazza per la libertà d´informazione.
Sul palco l´Fnsi; il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, che tiene una lezione sui "fondamentali" della nostra Repubblica; le parole di Roberto Saviano che scuotono e emozionano: «Verità e potere non coincidono mai. La libertà di stampa che vogliamo difendere è la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni». Dietro il palco, i politici. Davanti la folla, su cui sventolano le bandiere dei partiti (Pd, Idv e la sinistra ora extraparlamentare), della Cgil, i palloni giganti con i colori dell´Italia ma che è soprattutto folla di cittadini, tanti giovani, «piazza della coscienza civile del paese», della società italiana «che non piega la testa e non china la schiena». A loro Onida rivolge un invito: «Il cittadino meno informato è meno libero; l´informazione è il cane da guardia della democrazia». E legge l´articolo 21 della Carta che i costituenti sapevano quanto fosse prezioso: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero... la stampa non può essere soggetta a autorizzazioni o censure».
Siddi chiede a Berlusconi di ritirare le due denunce: a Repubblica per le dieci domande sui suoi costumi irrispettosi del decoro istituzionale, a cui il premier non ha mai risposto; e all´Unità. «Ritiri inoltre il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni». Anche questo un modo per tenere «l´informazione al guinzaglio», che è lo slogan della manifestazione di ieri. È la piazza dei «farabutti», sempre per dirla con Berlusconi, che gridano «farabutti, farabutti» con autoironia e con convinzione affibbiando l´insulto a chi l´ha coniato.
I politici si offrono alle telecamere e ai microfoni; qualcuno fa anche un bagno di folla. Dario Franceschini, il segretario del Pd, ammette: «Dovevamo affrontare il conflitto d´interessi, questa è una grave responsabilità» del centrosinistra. «Oggi è una grande prova della società italiana». Pierluigi Bersani, lo sfidante alla segreteria Pd, avverte: «Solo Berlusconi pensa che il problema della libertà di stampa non c´è». E Ignazio Marino, terzo candidato alla leadership democratica nel prossimo congresso, attacca: «Anche il centrosinistra è colpevole», e ricorda il duopolio tv, il controllo dei media da parte del premier. Ci sono D´Alema («È di cattivo gusto insultare i cittadini soprattutto quando sono così numerosi, Berlusconi sbaglia a parlare di farsa»), Veltroni («Giusto oggi fare sentire tutti la nostra voce») e il leader di Idv, Di Pietro: «Il diritto all´informazione è diritto alla democrazia». Ecco, alla spicciolata Franco Giordano, Fabio Mussi, Nichi Vendola, Fausto Bertinotti, Gennaro Migliore, Paolo Ferrero la sinistra che fu di lotta e di governo. Fioccano le adesioni dei cdr, delle associazioni che Andrea Vianello, il conduttore, legge.

Repubblica 4.10.09
Saviano scalda la platea di giovani "È qui con noi l´onore del Paese"
di Alessandra Longo


La manifestazione colorata dei "farabutti"
Le bandiere di partito si confondono con quelle di Anpi, Arci e Emergency

Li guarda tutti dal palco, Roberto Saviano. Li abbraccia con lo sguardo: sono tanti, e soprattutto giovani, facce fresche, altro che farabutti. E alzano le mani, impugnano le bandiere, sollevano gli striscioni, fanno la ola. E gli gridano: «Roberto, sei tu il vero italiano!». Lui sente la vibrazione, il calore e restituisce come sa: con la parola, la sua parola.
Perché la parola è molto, quasi tutto, spiega. Forse anche i morti di Messina si sarebbero potuti evitare, raccontando le cose come stavano, denunciando quella natura aggredita dal cemento. Ma «verità e potere non coincidono mai». La parola salva, la parola uccide, quando «la si isola nell´indifferenza». Dice Saviano: «La libertà di stampa che vogliamo difendere è la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni. Ogni Paese ha bisogno del massimo della libertà di espressione. Penso ai giornalisti caduti per questo. Vedete, le mafie hanno infangato la parola "onore". Ma qui, in questa piazza, abbiamo dimostrato che il Paese tiene al suo onore».
Dov´è il «cieco furore», denunciato dal ministro della Cultura Sandro Bondi? Dove sono i «farabutti protagonisti della farsa» evocati da Berlusconi? Al contrario, la massa di piazza del Popolo è, nonostante tutto, solare, determinata, pochissimo rancorosa. Età media dei convenuti: bassa. Liceali, universitari, i precari della scuola, reduci da un corteo anti-Gelmini e accolti da un Guglielmo Epifani raggiante, i ragazzi che fanno informazione studentesca, quelli del Liceo Canova di Treviso, quelli che fanno il giornalino nelle scuole di Modica e Vittoria, quelli di Bolzano, dell´Aquila. No, niente «elite di merda», come bolla Brunetta. Mix anagrafico, saldature generazionali. I vessilli di partito (Pd, Sinistra e Libertà, Rifondazione, persino il partito marxista-leninista accanto all´Italia dei Valori), i palloncini rossi della Cgil, le insegne dell´Anpi, dell´Arci, di Emergency, lo striscione dei «farabutti di Raitre», mescolati al «fai da te» della protesta. Famiglie, bambini, cani. Slogan scritti a mano, portati dietro la schiena: «Papi ci rende schiavi»; «Io sono un farabutto già coglione» oppure:«Io sono il più gran farabutto degli ultimi 150 anni». Il vecchio militante si tiene al collo un «Sex and Senility». Più in là, un finto Obelix maneggia un pupazzo dalle sembianze berlusconiane («Ho risposto alle dieci domande di «Repubblica» e le ho sbagliate tutte»). Circolano citazioni su stoffa di Oscar Wilde, Neri Marcoré recita al microfono Tocqueville, i colleghi dell´Unità evocano Gramsci («Odio gli indifferenti»), i giornalisti del manifesto indossano la maglietta da «gattocomunisti», il «Gabibbo» di «Striscia la notizia» non rinuncia ai riflettori, accolto come una star.
Ecco il mare di «farabutti» che non sentono la sirena del premier, che fanno la fila al gazebo di «Repubblica», piantato al centro della piazza, per parlare con Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari, che quasi inghiottono Marco Travaglio e Michele Santoro (per il conduttore di «Annozero» anche un "santo subito"), che applaudono quell´omino esile, pallido, lassù sul palco. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida, mai avrebbe pensato di arringare in camicia la folla. «Un cittadino scorrettamente informato – spiega Onida - è meno libero». Lo ascoltano in silenzio, aggrappati alle rampe del Pincio, seduti per terra sotto l´obelisco, sventolando un grande arcobaleno della pace. Onida parla della «clamorosa anomalia» del premier, padrone di tutto. «Dobbiamo rassegnarci?» «Noooo!», gli urlano da sotto il palco. «Non dobbiamo, non dovete mollare», è il messaggio che arriva dalla piazza.
C´è musica, fra un intervento e l´altro, Teresa De Sio, Simone Cristicchi, c´è una confusione allegra. Serena Dandini fende gli estimatori, si riconoscono altri volti noti, Stefania Sandrelli, i fratelli Taviani, Monica Guerritore, Ettore Scola, Nanni Moretti, in guerra perenne con la sinistra. I fischi sono riservati agli assenti di Cisl e Uil, i buuh più forti partono al solo citare il nome di Vittorio Feltri. Tutta la politica rimane dietro le quinte. Alle spalle del palco, i leader: Franceschini, Bersani, D´Alema, Veltroni, anche un Ignazio Marino intrappolato dal solito finto Vespa. Di Pietro polemizza alla lontana con Fassino, Nichi Vendola e Fausto Bertinotti ragionano sulle sorti future della sinistra, sul significato della piazza. La giornata è bella ma qualche cartello che va di traverso all´opposizione in Parlamento c´è: «Dov´eravate ieri? Abbiamo lo scudo, grazie Pd».
Andrea Vianello legge le parole del direttore di «Famiglia Cristiana», Don Sciortino, non un pericoloso eversore: «E´ diabolico far credere che questa manifestazione sia una farsa: chi lo afferma è in malafede e lo sa. La legittimazione del voto popolare non autorizza nessuno a colonizzare lo Stato e a spalmare il Paese di un pensiero unico senza diritto di replica». Applaudono forte, i farabutti di piazza del Popolo.

Repubblica 4.10.09
Non era una folla ma era un popolo
di Eugenio Scalfari


QUESTO articolo è dedicato al tema del testamento biologico, che tornerà tra breve di stretta attualità e sul quale è da tempo in corso un ampio dibattito che coinvolge diverse concezioni del bene comune.
Sento tuttavia la necessità prima d´affrontare quel tema, di esprimere il mio pensiero sulla manifestazione che si è svolta ieri pomeriggio in Piazza del Popolo a Roma in nome della libertà d´informazione. Ne torno in questo momento e ne sono dunque mentre scrivo ancora caldi i sentimenti e le emozioni che essa ha suscitato.
Sul senso politico e soprattutto costituzionale di quell´imponente raduno di persone, di associazioni, di sindacati e di forze politiche, ha scritto ieri Ezio Mauro. La gente è andata in piazza per difendere la prima delle libertà, preliminare rispetto a tutte le altre, struttura portante della democrazia. Questo sentimento accomuna i cittadini al di là e al di sopra di tutte le differenze di parte e ieri infatti si è andati in piazza in nome della Costituzione repubblicana.
Non era una folla, era un popolo che gremiva fino all´inverosimile non solo la piazza ma l´adiacente piazzale Flaminio, le balconate e le terrazze del Pincio, la via di Ripetta, la via del Corso fino a piazza Augusto, la via del Babuino. Addensati come non mi era capitato mai di vedere in situazioni consimili.
Dico che non era una folla ma un popolo perché non erano lì per ascoltare e osannare un leader, un capo carismatico alle cui parole e al cui fascino avrebbero agganciato le loro pulsioni, i loro sogni, le loro attese.
Erano lì in nome di convinzioni maturate da tempo, d´una visione propria e condivisa del bene comune, del rifiuto della demagogia. Erano lì per solidarizzare con due giornali attaccati dal potere politico e con le poche trasmissioni televisive che non sono al guinzaglio del potere. Ed erano lì per testimoniare l´essenza democratica delle donne e degli uomini di buona volontà, di chi ricorda il passato e vuole costruire il futuro.
Tra le tante strette di mano e di abbracci dati e ricevuti, l´incoraggiamento che tutti ci hanno rivolto è stato di resistere, continuare, non mollare. M´è venuto in mente che «non mollare» fu il motto adottato sotto il fascismo da Ernesto Rossi e dai promotori di «Giustizia e Libertà». Le battaglie civili che si combattono oggi sono molto diverse da quelle di allora, ma il senso è il medesimo: in un´epoca appiattita e priva di ideali, occorre risvegliare un paese cloroformizzato, disinformato, indifferente e ricondurlo all´impegno civile.
Questo intendeva dirci il popolo di quella piazza. Non erano loro ad ascoltare noi, ma noi a sentirceli vicini e far nostre le loro indicazioni: resistete, continuate, non mollate. E noi, per il fatto stesso di fare correttamente il nostro mestiere, resisteremo, continueremo, non molleremo.
* * *
Il testamento biologico non è ancora calendarizzato nei lavori della Camera dei Deputati ma lo sarà tra breve. Il Senato l´ha già approvato in una versione che piace al centrodestra ed è invece ritenuta fondamentalista dal centrosinistra. I due opposti schieramenti non sono comunque compatti. Da molte parti si vorrebbe un rinvio di decantazione ma è improbabile che si ottenga poiché per il «premier» è preziosa merce di scambio con la Chiesa per riacquistare una credibilità, anzi una legittimità politica da parte della gerarchia ecclesiastica.
Le posizioni in campo si possono ridurre alle seguenti:
1. Un testamento redatto e firmato dall´interessato subito dopo l´approvazione della legge e periodicamente aggiornato, nel quale l´interessato disponga a piacimento del suo corpo quando si trovi in uno stadio terminale a causa d´una malattia giudicata dal medico incurabile. L´interessato designa anche l´esecutore testamentario chiamato a far valere la sua volontà in caso di sua incoscienza e quindi impossibilità di esprimersi. Il documento così redatto deve essere depositato presso un notaio. Dalle disposizioni del testatore è comunque esclusa per legge la somministrazione di nutrimento che non fa quindi parte della terapia.
2. Il ministro della Sanità propone in alternativa il ritiro della legge e lo stralcio per quanto riguarda la somministrazione dei nutrimenti. Lo stralcio dovrebbe stabilire secondo il ministro che il nutrimento deve essere in ogni caso somministrato fino a quando la morte non avvenga.
3. La legge di cui al punto 1 dovrebbe essere emendata e includere anche la somministrazione nella disponibilità del testatore.
4. Non si faccia nessuna legge lasciando all´interessato di decidere direttamente in accordo con i suoi familiari e con il suo medico di fiducia. Ma saranno comunque necessarie garanzie per i medici che eseguono la volontà del malato di interrompere terapia e nutrimento. In questo contesto si potranno anche inserire norme contro l´eutanasia e contro l´accanimento terapeutico.
Queste sono le quattro posizioni che si confronteranno alla Camera e al Senato se, come sembra probabile, la legge sarà modificata e quindi rinviata a Palazzo Madama per una seconda lettura.
La posizione numero 1 è appoggiata dalla maggior parte del centrodestra cui in questa occasione si aggiungeranno i voti dell´Udc. Quella numero 2 ne costituisce una variante. Quella numero 3 raccoglie la maggioranza del centrosinistra e probabilmente anche dei «liberali» di centrodestra. La numero 4 ne rappresenta una variante che tende a limitare al massimo l´intervento della politica in una questione eminentemente privata.
* * *
Decisioni su temi di questa complessità, che riguardano la concezione della vita e le modalità operative che implicano inevitabilmente l´intervento dei medici, non possono essere adottate senza un contributo determinante dell´opinione pubblica, non foss´altro per la ragione che resta possibile il ricorso ad un referendum abrogativo da parte di chi non fosse soddisfatto della normativa decisa nelle aule parlamentari.
Il pubblico dibattito è dunque oltremodo necessario, soprattutto per informare i cittadini della sostanza della questione e delle sue implicazioni rispetto ad una complessiva visione del bene comune. Si confrontano in un dibattito di questa natura posizioni diversamente ispirate ed anche specifiche deontologie, la prima delle quali si può definire «ippocratica» e riguarda l´intera classe medica, deontologicamente vincolata al cosiddetto giuramento di Ippocrate che pone la medicina al servizio della preservazione della vita. Può un medico contravvenire a quel giuramento per dare esecuzione alla volontà di un malato?
La questione non è di poco conto ed infatti è ampiamente utilizzata da quanti si oppongono alla tesi dell´interruzione delle terapie nel caso di malattie incurabili giunte allo stadio terminale.
La constatazione dell´incurabilità e dello stadio terminale è di pertinenza dell´équipe medica che segue l´ammalato in questione. I medici dunque non vengono espropriati del loro ruolo essenziale, anzi esso ne risulta ulteriormente rafforzato come è giusto che sia. Il giuramento di Ippocrate può dunque essere razionalmente superato sulla base di tre considerazioni.
La prima riguarda il progresso delle tecnologie curative che hanno fortemente modificato il momento della morte, non più identificato nella cessazione del battito cardiaco ma nella morte cerebrale. Questa nuova concezione del momento della morte, sulla quale si basa la tecnica degli espianti e trapianti di organi ancora vivi, conferisce alla tesi ippocratica una flessibilità ed una relatività prima sconosciuta, che fanno appello alla coscienza responsabile del medico e al rapporto tra il giuramento di Ippocrate e il caso specifico di quel malato.
La seconda considerazione riguarda l´accanimento terapeutico il cui divieto è ormai universalmente accettato.
La terza riguarda la cura del dolore, anch´essa accettata da tutti, comprese le varie chiese cristiane.
Ma accanto e al di sopra della tesi ippocratica che ha natura essenzialmente deontologica, si staglia la concezione religiosa che assegna non già alla libera volontà individuale ma soltanto a Dio la potestà sulla vita e sulla morte delle sue creature. Qui sta il nocciolo dell´intera questione. Come si supera l´obiezione del «pro vita»? E le obiezioni di coscienza che da questa tesi derivano?
* * *
Va detto innanzitutto che l´obiezione «pro vita» motivata da un´autonoma decisione individuale e/o dal richiamo religioso alla potestà non discutibile del Creatore, ha pieno diritto di essere sostenuta nello spazio pubblico dove tutte le opinioni hanno diritto di esprimersi cimentandosi con opposti modi di pensare e di comportarsi. Del resto il testamento non è obbligatorio, si muore anche senza di esso. Parlo qui del testamento civile, in assenza del quale l´eredità viene assegnata «ope legis» secondo le normative del codice.
In caso di testamento biologico però, l´assenza di esso crea non pochi problemi che tuttavia vengono superati dall´esistenza d´un parente di strettissimo grado di parentela: coniuge, figlio, genitore. Oltre questa cerchia non si può andare. Su questa base del resto la Corte di Cassazione decise il caso Englaro riconoscendo al padre il potere decisionale in rappresentanza della figlia Eluana. Infine, in mancanza di parenti di strettissimo grado, il magistrato può nominare un curatore a tutela del malato incurabile e terminale.
Ma torniamo all´obiezione religiosa e dal canto nostra obiettiamo: la tesi «pro vita» ha pieno diritto d´essere pubblicamente e fortemente sostenuta ma essa non può essere imposta a chi non la condivide; lo Stato democratico non può far propria la tesi «pro vita» (intesa nel senso di impedire le libere decisioni individuali che comprendano la cessazione delle terapie e della nutrizione) senza con ciò trasformarsi in uno Stato etico, portatore di concezioni etiche e religiose, che rappresenterebbero una deformazione non solo autoritaria ma totalitaria in aperto contrasto con lo spirito e con la lettera della Costituzione repubblicana.
Queste del resto furono le motivazioni che portarono alla legislazione sul divorzio, sull´aborto, sulla procreazione medicalmente assistita: istituti che non impongono nulla a nessuno limitandosi a riconoscere diritti, anzi facoltà per chi voglia avvalersene e soltanto per lui.
Neppure la Chiesa, comunque, è monolitica su temi di questa delicatezza e complessità. Recentemente il cardinal Martini si è espresso con molta chiarezza sul significato profondo del «pro vita» cattolico e dal suo punto di vista va sostenuto e affermato mettendolo tuttavia in rapporto con la dignità della persona. Due valori che vanno entrambi rispettati e dei quali, in certe circostanze, il secondo può addirittura prevalere sul primo come del resto attesta la considerazione in cui il martirologio è ricordato e venerato dalla Chiesa. La dignità del martire è connessa alla testimonianza della sua fede e per essa una persona sana si immola anziché abiurare. La persona ammalata chiede di affrettare una ormai inevitabile morte per rispetto verso l´opera del Creatore. Non è in tutte e due i casi un problema di dignità?
Il testamento biologico rientra tra quei grandi temi morali e culturali che possono rafforzare la tempra democratica d´un paese. Avvilirlo in uno scambio lobbistico sarebbe quanto di peggio possa accadere. È purtroppo vero che al peggio ci stiamo abituando, ma questo è appunto il pericolo che sta correndo la democrazia ed anche la religione. Il popolo di Dio dovrebbe preoccuparsene quanto noi e più ancora di noi.

Repubblica 4.10.09
Crolla il muro della finzione
di Curzio Maltese


C´era un solo Paese, fino a ieri, dove si potesse definire una «farsa» una manifestazione per la libertà di stampa in Italia. Indovinate un pò, il nostro. Nel resto d´Europa e dell´universo democratico, l´anomalia italiana è ormai evidente a tutti. Bene, da oggi diventa più difficile per il potere negarla. La folla di cittadini che ha riempito all´inverosimile Piazza del Popolo e dintorni ha avuto l´effetto di far crollare un muro di finzione.
Una concezione di democrazia dove i media devono astenersi dal criticare il potere politico evitando perfino domande non previste dal protocollo
Il direttore del Tg1 dimentica di essere un dipendente del servizio pubblico, pagato con i soldi del canone versato anche da chi manifestava
Ha portato un pezzo di realtà sulla scena pubblica, restituito un senso alle parole rubate dal marketing politico, come popolo e libertà, segnalato l´esistenza e la resistenza di un´Italia aperta al mondo, allegra e pronta a scendere in piazza per i propri diritti. Ed è un segnale del paradosso orwelliano in cui ci tocca vivere che proprio questa Italia si presenti in piazza al grido: «Siamo tutti farabutti».
È crollata in un pomeriggio una finzione costruita da mesi e anni di propaganda. Quella per cui la questione della libertà d´informazione in Italia è soltanto una lotta di èlites nemiche, di qui Berlusconi e i suoi media, di là Repubblica e un pugno di giornalisti di tv e carta stampata, spalleggiati dalla fantomatica Spectre internazionale del giornalismo di sinistra. Se così fosse, aggiungiamo, avremmo già perso da un pezzo, visto i rapporti di forza. Ma la questione è altra ed è quella che vede benissimo l´opinione pubblica internazionale. Da un lato c´è una concezione classica delle libertà democratiche, per cui il governo e l´informazione fanno ciascuno il proprio mestiere. Dall´altro, il fronte berlusconiano, dove è affermata ormai a chiare lettere una concezione di democrazia mutilata in cui i media debbono astenersi dal criticare il potere politico, perfino dal porre domande non previste dal protocollo. Altrimenti rischiano ritorsioni economiche, politiche, giudiziarie. Sullo sfondo di un irrisolto e monumentale conflitto d´interessi, il progetto di Berlusconi è di costringere l´intero campo dell´informazione a due sole possibilità. Una metà militante a favore del padrone, cioè servile. E l´altra metà comunque deferente.
Nei quindici anni di carriera politica, Berlusconi non era mai giunto tanto vicino a raggiungere questo obiettivo come al principio del suo terzo mandato. Una televisione e una stampa prone ai voleri del governo, in molti casi liete di fare da semplici megafoni, hanno scortato il premier fra infinite passerelle nella luna di miele con l´elettorato. Poi qualcosa si è rotto. Le voci non servili o non deferenti rimangono poche, ma suonano forte e soprattutto sono sostenute da un crescente sostegno popolare. Perfino il pubblico televisivo, il «popolo» di Berlusconi, ha cominciato a ribellarsi a una rassegnata deriva. Per il re delle antenne, abituato a riferire dell´azione di governo prima (o solo) in tv piuttosto che in Parlamento, far segnare record negativi di ascolti, quando il «nemico» Santoro polverizza un primato dopo l´altro, è davvero un brutto segno di declino. La risposta di massa in piazza all´appello del sindacato giornalisti è un altro pessimo segnale. Pessimo, s´intende, per l´egemone. Magnifico per chi continua a pensare all´Italia come a una grande democrazia occidentale.
Non sappiamo se l´opinione pubblica è davvero e ancora «una forza superiore a quella dei governi», come scriveva Saint Simon agli albori della democrazia. Nell´Italia di oggi è in ogni caso una forza superiore a quella di un´opposizione politica divisa, confusa e a giudicare dagli ultimi voti parlamentari anche distratta. Il potere ne è consapevole e infatti gli attacchi agli organi d´informazione in questi mesi hanno raggiunto toni mai toccati dalla polemica politica.
Per finire con una nota grottesca, parliamo del Tg1, ormai scaduto a bollettino governativo. Ieri sera il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale nel quale, dopo aver esordito definendo una manifestazione di cittadini in favore della libertà di stampa «incomprensibile per me» (nel suo caso, si capisce), ha ripetuto parola per parola gli slogan appena usati nel pastone politico dagli esponenti del Pdl. Minzolini, che è quello senza occhiali – per distinguerlo da Capezzone – non è l´ennesimo portavoce del premier, ma un dipendente del servizio pubblico, pagato coi soldi del canone versato anche dai manifestanti. Anzi, forse più da loro che da altri. Dovrebbe tenerne conto e dare qualche notizia in più, invece di propinarci per la seconda volta il Berlusconi-pensiero mascherato da editoriale.

Repubblica 4.10.09
Bocca: il rischio di nuovo fascismo in Italia è attuale


ROMA - «Il rischio di un nuovo fascismo è attuale in Italia. E penso che, come avvenuto per il delitto Matteotti, arriverà il momento in cui questo governo si troverà nella necessità di sopprimere davvero la libertà di stampa». È l´allarme lanciato da Giorgio Bocca a proposito della manifestazione di Roma. Che il giornalista ha definito «necessaria, perché la libertà di stampa è in pericolo». «Ma che sia efficace - ha aggiunto - ho qualche dubbio, perché ormai il potere del presidente del consiglio di intervenire sui mezzi di comunicazione è evidente».

Repubblica 4.10.09
Bagnasco (Cei)
"Gli anticlericali vorrebbero una Chiesa muta"


PARIGI - «Vorrebbero la Chiesa muta». Lo ha detto, nel giorno della manifestazione di Roma sulla libertà di stampa, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, nell´intervento su "Media e il Papa" all´assemblea plenaria dell´episcopato europeo a Parigi. «Si vorrebbe forse da parte di taluni ambienti una Chiesa o supinamente allineata sull´opinione che si autoproclama prevalente e progressista, o semplicemente muta. Ma partecipare in nome del Vangelo al dibattito pubblico, non può essere scambiato per una minaccia alla laicità dello Stato».

il Riformista 4.10.09
Libertà di stampa, scudo, Idv irresponsabile. Gli autogol dell'opposizione
L'anno zero della sinistra
di Sonia Oranges


Palco e retropalco. Ovazioni ai nomi di Ezio Mauro, Santoro e Travaglio. Dietro le quinte lo show di Di Pietro che attacca a testa bassa il capo dello Stato: «Vile».

Arriva in piazza del Popolo con al seguito uno striscione dell'Italia dei valori. S'è fatto pure un pezzo di strada con i precari della scuola, Antonio Di Pietro, per non perdere l'ennesimo bagno di folla. E conquistato il backstage del palco della manifestazione convocata dalla Fnsi per la libertà di stampa, approfitta di ogni telecamera disponibile per fare il suo show. Che con l'informazione ha poco a che fare. Spara ad altezza uomo e non salva nessuno, autoincoronandosi unico oppositore del Governo e accusando il Capo dello Stato di essere un novello Ponzio Pilato.
«Noi al voto sullo scudo fiscale eravamo presenti in modo pressoché totale e lamentiamo che l'opposizione nel suo complesso non abbia saputo fare quadrato almeno per respingere quella legge sbraita Tonino - Ma si sa, in Italia ci sono due opposizioni: quella dell'Idv, che è ferma e fa sentire la sua voce, perché ritiene che il Governo Berlusconi faccia male al Paese, e poi c'è l'opposizione del giorno dopo, quella che dice che Berlusconi sta al governo per colpa di Di Pietro. Io dico che ci sta per colpa di una opposizione cialtronesca, che rinuncia a fare il suo dovere». E poi se la prende con Giorgio Napolitano che ha firmato la legge: «Un gesto pilatesco, oggettivamente vile perché rinuncia alle sue prerogative costituzionali». In serata, il Quirinale gli risponderà con una nota: «La Costituzione non attribuisce al capo dello Stato alcun potere di veto, come invece si tende a far credere».
Nel frattempo, la piazza che teme il bavaglio di Palazzo Chigi è stracolma e colorata. Ci sono i giovani e gli anziani, la Cgil e i giornalisti. E tanti cittadini, il popolo che legge i giornali e teme davvero che gli spazi di libertà dell'informazione siano messi a rischio dalla difesa degli interessi del Palazzo. Gli slogan parlano dei "farabutti", della censura, di Silvio Berlusconi sulla scia di Vladimir Putin. Ma anche della precarietà degli operatori dell'informazione, non tanto dissimile da quella degli insegnanti con il posto a rischio che raggiungeranno in corteo piazza del Popolo nel corso della manifestazione e proseguiranno verso viale Trastevere.
Dietro al palco, però, l'aria è diversa. Ci sono più telecamere che giornalisti e, soprattutto, ci sono i politici di ogni sfumatura della sinistra. Si abbracciano e si baciano, ma son l'un contro l'altro armati a contendersi qualsiasi microfono. Il palco non è per loro, e lo sanno, ma la passerella è comunque garantita. A destra del palco arriva Gavino Angius che chiacchera con Franco Giordano, Paolo Gentiloni che abbraccia Vincenzo Vita. Gente che la Rai l'ha frequentata molto e che, meglio tardi che mai, pare abbia scoperto ora che il servizio pubblico non si cura come dovrebbe degli interessi pubblici. C'è Roberto Cuillo che aspetta Dario Franceschini, mentre dalla sinistra del palco arrivano Nichi Vendola, Gennaro Migliore, Paolo Ferrero e Massimo D'Alema, l'unico a dire il vero che con un po' di classe se ne resta defilato ai margini del Circo Barnum. Tanto le telecamere lo cercano da sé. «È sempre di cattivo gusto insultare i cittadini, soprattutto quando si mobilitano così numerosi. Semmai, occorrerebbe capire perché sono qui e che cosa chiedono», si limita a dire, riferendosi al premier che ha definito la manifestazione una «farsa».
Sul palco, il segretario della Fnsi Franco Siddi spiega che «i giornalisti non vogliono e non cercano nemici, gli unici nemici sono quelli che attentano alla libertà». La piazza lo ascolta, i politici meno. Anche perché nel frattempo sono arrivati Fausto Bertinotti e poi Dario Franceschini che annuncia «sanzioni molto severe nei confronti di quei deputati che non hanno una giustificazione incontestabile» per la propria assenza in Aula al momento del voto sullo scudo fiscale. È un attimo e le telecamere sono già puntate altrove, verso Roberto Saviano letteralmente trascinato dalla scorta e barricano in un pullmino da diretta. Dal nulla si materializza sorridente Walter Veltroni che tra una pacca e una battuta a Sky, conquista con Franceschini dieci minuti a tu per tu con lo scrittore sotto protezione. Visite di cortesia, insomma.
Sul palco, intanto, è salito Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, a ricordare che «la libertà di informazione, è fondamentale per la vita democratica. Una libera informazione è presupposto per una società libera». La piazza applaude, i politici sono impegnati nelle interviste. C'è pure qualche rappresentante del mondo dello spettacolo: Gianni Minà e Stefania Sandrelli. I veri protegonisti della protesta, da Marco Travaglio a Michele Santoro e persino Serena Dandini, qui non si fanno vedere, preferiscono stare tra la gente.
E se Ignazio Marino è timido quasi come Luigi De Magistris al cospetto dei cronisti, Pierluigi Bersani arriva subito al nocciolo delle due questioni sul piatto: «La piazza di oggi ci conferma che il problema dell'informazione c'è». E c'è pure Di Pietro che le ha sparate grosse: «Non sono accettabili questi modi di rivolgersi al presidente della Repubblica e di criticarlo».
Il sole sta calando quando il microfono è affidato a Saviano: «Quello che sta accadendo in questi giorni dimostra che verità e potere non coincidono mai» dice con semplicità. Gli applausi si sprecano, la piazza è tutta con lui. E anche con la precaria della scuola che riporta tutti con i piedi per terra: «Mentre noi venivamo licenziati in massa, voi titolavate sulle escort. Fate il vostro mestiere, raccontate il Paese reale».

il Riformista 4.10.09
Così è nato il partito di Mauro e Santoro
Il popolo c'era. Però ha delegato la politica ai media.
di Rina Gagliardi


Io amo le manifestazioni, ma le trovo (forse è un fatto di età) sempre un po' faticose. Ieri, per dire, farsi largo a piazza del Popolo, dopo aver superato a forza di gomitate e spintoni il groppo umano accalcato sulla porta Flaminia, richiedeva una tenuta atletica che, personalmente, non avevo nemmeno a vent'anni. Inoltre, c'era uno splendido sole, che ti picchiava in testa e ti faceva sospirare un alito di vento. Tutte cose che, dal punto di vista politico e civile, non potevano che rallegrare e consolare. D'accordo, la manifestazione era stata più che preparata, pubblicizzata, "montata" - e le poche macchine organizzative ancora esistenti, dalla Cgil in giù, ci hanno messo il massimo d'impegno. Ma chi può esser sicuro, di questi tempi, della riuscita di una giornata di protesta? Invece, la riuscita è stata piena, e come.
Una piazza straripante, piena di ragazzini e di persone normali, normalissime, allegre, le bandiere che ti incartavano la faccia a ogni minuto, i mille cartelli spiritosi (mi ha colpito un piccolo striscione bianco dove stava scritto, semplicemente, "Imola c'è"), i giornali distribuiti a mazzi, come si usava tanti anni fa, il palco discreto, senza nemmeno un professionista della politica…che cosa si vuole di più? No, la manifestazione era proprio bella proprio per il suo carattere autentico di "moltitudine" in fieri, in progress, in costruzione. Società civile (per usare un'espressione che non condivido), in cerca di identità - disperatamente bisognosa non soltanto di dire tutto quello che pensa di Berlusconi e del suo governo, ma di uscire da quella specie di nero, nerissimo tunnel in cui si è cacciato questo Paese. Un'umanità gentile che non si rassegna, insomma, a fare da comparsa della storia - una storia che ci sovrasta, uno scandalo che dura da diecimila anni, come scrisse Elsa Morante. Ecco, forse il punto è proprio questo: chi raccoglierà lo "spirito civico" di questa giornata, le speranze, la voglia di combattimento e - perfino - qualche domanda di trasformazione? Chi offrirà a questo meritevole popolo la certezza di un continuum, o di una sponda adeguata?
Cerco di capire. Quando dal palco Andrea Vianello annuncia alcune presenze illustri, come quella del direttore di Repubblica, il boato è oceanico. Quando, poco dopo, annuncia la presenza al gran completo della redazione di Annozero, da Santoro a Ruotolo, l'entusiasmo sale alle stelle. Quando tocca a Roberto Saviano, si va ancora oltre - l'emozione, la connessione sentimentale con la folla, è altissima, anche e proprio perché il celebre scrittore usa una retorica piana, quasi un understatement molto efficace. Sì, è in queste persone che la manifestazione trova il suo acme, chiamiamolo così, di rappresentanza. I giornalisti e i giornali di opposizione. Gli spazi alternativi della Tv pubblica - "Annozero" e "Parla con me", Santoro e la Dandini, il Tg3 e le poche altre sacche di resistenza. Logico per una giornata indetta a difesa della libertà di stampa? Logico, forse, se questa non fosse, fino in fondo, una manifestazione generale. Se, qua e là, non ci fossero anche un mucchio di cartelli critici contro i leader della sinistra - ce n'è uno che invita non Silvio Berlusconi, ma Massimo D'Alema ad andarsene (ad andarsene dove? Da dove?), ce n'è un altro, a poca distanza dal gazebo ufficiale del Pd, che stila un elenco di dirigenti del Partito e quasi grida, "dove eravate fino a ieri?". Se non fosse chiaro, insomma,anche da brandelli di conversazione che percorrono l'aria, che l'umore dominante è quello di una protesta che non risparmia nessuno - tra le forze politiche e i gruppi dirigenti attuali. No, non è la cronista curiosa a vivere, insieme, contentezza e disincanto - il disincanto, mi pare, sta qui dentro, tra queste decine di migliaia di manifestanti, che hanno alle spalle una nottata in treno, in pullmann e ora si sobbarcavano questa giornata densa di fatiche e di eccitazione.
Ma si può davvero pensare che la direzione politica - strategica - di questo straordinario moto democratico sia affidata, pressoché in toto, ad alcuni giornali, ai pur più brillanti spazi televisivi, agli anchorman più capaci e sagaci? Qui, la cronista curiosa - e anche assetata di innovazione - si ferma. Può darsi che la manifestazione di ieri segni uno spartiacque a suo modo storico: la politica in crisi che consegna le sue bandiere (il suo ruolo naturale) ad un'altra soggettività, il giornalismo in crisi che fa politica a tutto campo - a tutta piazza. Può darsi che un tale mutamento corrisponda davvero alla natura profonda di questa manifestazione, tante opposizioni sociali che non fanno un movimento sociale, tanta insofferenza politica che non fa, a sua volta, un'opposizione politica, nel senso che a questa parola è stato dato. Può darsi, anzi ne sono certa, che c'è ancora molto da capire. Ma, appunto, qui mi fermo.

il Riformista 4.10.09
Ma il Pd ha ancora ragion d'essere?
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità


Mentre in questo Paese accade di tutto, escort in tv, nubifragi, opposizione che si squaglia in Parlamento, continua imperterrita la battaglia interna al Pd in vista dell'elezione del nuovo segretario. Non c'è niente che li distragga da questo esercizio autolesionistico. Ormai nessuno più bada alle dichiarazioni di guerra che i capicorrente si scambiano l'uno contro l'altro. Tuttavia il segnale che si è superato il limite di guardia è venuto da una intervista di Massimo D'Alema a "Repubblica". L'ex premier ha accusato Franceschini di aver impostato una campagna congressuale autodistruttiva fondata più sulla denigrazione di Bersani e dei suoi sostenitori che sulle proposte. Capita talvolta di essere d'accordo con D'Alema e questa è una di quelle volte. Siamo di fronte a una situazione paradossale. C'è un congresso di partito che sfiducia il suo segretario e un segretario che sfiducia il congresso del partito. Se le primarie andranno nella direzione dei congressi, Franceschini dovrà farsi una ragione e da buon ex dc tratterà un posto di rilievo nella nomenklatura. Se dovesse vincere lui, dopo aver insultato la maggioranza degli iscritti al Pd, questi che cosa dovranno fare? Qui siamo ben oltre l'amalgama malriuscito. Siamo di fronte alla messa in discussione delle ragioni stesse di esistenza di un partito. Fra qualche anno leggeremo severe autocritiche su queste pagine oscure della storia della sinistra. Fra qualche anno. Mai qualcuno che parli in tempo.

il Riformista 4.10.09
La casta dei cattivi maestri
Quando i cattivi maestri sbroccano
Ad esempio Eugenio Scalfari
di Giampaolo Pansa


Quando il nostro sistema politico si schianterà nel marasma, ci chiederemo perché è successo. Ma nessuno saprà trovare la risposta. Accadrà quello che avvenne quando Benito Mussolini prese il potere, nell'ottobre 1922. Da allora molti cominciarono a interrogarsi sul perché e sul percome. E dopo novant'anni non hanno ancora finito di farlo.
Era colpa soltanto del capitalismo nostrano che aveva trovato in Mussolini e nelle sue squadre armate il mezzo per imporre il regime dei padroni? Oppure il terreno era stato preparato dalle follie violente delle sinistre di allora, il Partito socialista e il nuovo Partito comunista? O la colpa era di entrambe le parti in conflitto?
Nella mia ingenuità di cittadino pacifico, non pensavo di essere costretto a farmi le stesse domande a proposito dell'Italia di oggi. Confesso di osservare il nostro caos politico con un timore sempre più forte. Ogni giorno che passa, la mia paura raddoppia. E mi obbliga a chiedermi in quale baratro cadremo.
Ormai viviamo dentro una continua guerra civile di parole.
Il bipolarismo si sta trasformando in un mostro. I due blocchi non si limitano a combattersi, com'è normale che accada. Ormai si odiano. E si odieranno con rabbia crescente. Senza preoccuparsi del veleno che spargono. Senza domandarsi quali effetti perversi avrà nel corpo di un Paese sempre più intossicato.
Su questo sfascio campeggiano i cattivi maestri. Nella lunga stagione del terrorismo, venivano chiamati così gli intellettuali e i politici che alimentavano la violenza. Spiegando che la Prima Repubblica era un regime perverso, da combattere con le armi. Questi santoni, rossi e neri, mandarono a morire o in galera decine e decine di giovani discepoli. E contribuirono a spedire all'altro mondo centinaia di italiani per bene.
Al posto dei cattivi maestri di allora, oggi ne sono emersi altri. Insieme formano una vera casta, dotata di un potere persino più grande. Siamo una società mediatica dove qualunque messaggio ha un'amplificazione terribile. Non penso soltanto a Internet, un pianeta dove accade di tutto. Penso alla televisione, alla radio, alla carta stampata. Un pacchia per i tanti dottor Stranamore. Qualunque bestialità dicano arriva subito a milioni di allievi, che le diffondono. Mettendo in circolo slogan che possono avere conseguenze tragiche.
I cattivi maestri stanno su entrambi i fronti. Sul centrodestra, il più illustre è Silvio Berlusconi. A parole il Cavaliere combatte il disordine, ma nei fatti lo alimenta. Oggi vivremmo in clima meno intossicato se il premier fosse stato tanto saggio da controllare meglio la propria vita privata. Senza circondarsi di veline e di prostitute. Tutti possono chiamare a raccolta squadre di ragazze per le proprie serate allegre. Ma non tutti fanno il premier. Chi guida un Paese deve onorare i milioni di elettori che lo hanno votato. E non comportarsi come un satrapo malato di sesso.
Ma pure sul centrosinistra i cattivi maestri guidano le danze. È una pessima lezione politica gridare che l'Italia non è più una democrazia. Che il Cavaliere è un sosia abominevole di Mussolini e di Hitler. Che la stampa non è libera perché imbavagliata da Silvio il Dittatore. Che quanti dissentono dal verbo dei maestri sono sicari prezzolati. Che il Parlamento è in mano ai mafiosi, ormai in grado di fare le leggi.
Quest'ultima assurda lezione ha trovato la sua icona: un capo partito, Antonio Di Pietro, si è fatto fotografare davanti a Montecitorio con la coppola in testa e le smorfie da boss di Cosa Nostra. Una vergogna, ma per Di Pietro. Tanto ignorante da non sapere che la coppola non la portavano i mafiosi. Bensì i contadini siciliani e i sindacalisti che combattevano la mafia.
Un altro cattivo maestro si è rivelato un grande del nostro mestiere: Eugenio Scalfari. Mi costa dirlo, perché ho lavorato al suo fianco per quattordici anni, nella direzione di Repubblica. Ma che cosa sta facendo di tanto grave "Barbapapà", per conquistarsi un posto di prima fila tra quanti montano in cattedra per combinare disastri? La risposta è negli articoli che scrive su giornali un tempo suoi, Repubblica e l'Espresso. Dove racconta che la democrazia italiana sta tirando le cuoia. E che occorre una nuova Resistenza.
Ma in questi giorni, Scalfari ha dimostrato quanto possa essere ignorante anche un primario cattivo maestro. Nel senso che non sa nulla di ciò che scrive. "Barbapapà" si è fatto intervistare dal settimanale di casa, l'Espresso. E ha dato il calcio del mulo a un editore concorrente, sia pure più piccolo del suo padrone, l'ingegner De Benedetti.
È la famiglia Angelucci, imprenditori privati e proprietari del Riformista e di Libero. Scalfari li ha dipinti come servi di Berlusconi, per aver «accettato di nominare come direttore di Libero Maurizio Belpietro, emissario del Cavaliere, una specie di commissario politico», naturalmente agli ordini del Caimano.
Quando dirigeva Repubblica, Scalfari ci raccomandava: «Non siate schiavi dei vostri pregiudizi. Prima di scrivere un articolo, cercate di capire come è andata per davvero». Oggi è lui il primo a tradire la propria lezione.
Non sa un bene amato cavolo di come è emersa la direzione di Belpietro. Eppure insulta un collega. E offende un editore soltanto perché non appartiene al giro dell'Ingegnere. Ma danneggia anche se stesso. Quando i cattivi maestri sbroccano, mostrano tutte le piaghe della vecchiezza intellettuale. A volte la casta può diventare un ospizio, sia pure di lusso.

l’Unità 4.10.09
Biotestamento: il vuoto e la bagarre
di Andrea Boraschi


La sentenza 8650/09 del Tar del Lazio, ancorché non produca giurisdizione, è stata capace di scontentare molti esponenti della maggioranza. Essa è stata emessa in riferimento al ricorso presentato da Gianluigi Pellegrino, legale del Movimento difesa dei Cittadini, dopo l’indirizzo col quale, lo scorso di-cembre, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi diffidava le strutture del sistema sanitario pubblico dall’interrompere idratazione e nutrizione a pazienti in stato vegetativo permanente. Quell’atto, lo si ricorderà, era volto a tenere in vita Eluana Englaro contro la sua volontà e nella persistenza di un quadro clinico irrecuperabile.
Il Tar, pochi giorni addietro, si è detto non competente ad esprimersi sul ricorso; e, tuttavia, nelle motivazioni della sentenza ha formulato un parere che proietta molte ombre sul disegno di legge del centrodestra in materia di Testamento biologico, approvato dal Senato e che sta per tornare in discussione alla Camera. Vi si legge, infatti, che «i pazienti in Stato Vegetativo Permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso, possono, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti». La bagarre è facile a immaginarsi: il PdL si fa forza del difetto di giurisdizione ammesso dal Tar per confermare la validità dell’indirizzo voluto da Sacconi, fino a proporlo quale base di discussione in sede legislativa; altri ricordano, invece, come quel provvedimento sia severamente criticato dal Tar, che ne evidenzia infondatezza e ambiguità (si tratta di un atto meramente ricognitivo che, così si legge, finisce con l’essere «un atto prescrittivo ... che trasforma in obbligo di comportamento il contenuto di pareri e di proposte di disposizioni non ancora entrate nel quadro normativo»).
Il Tar riconosce una cosa semplicissima: che c’è un vuoto legislativo. E che la misura del Governo con cui si intendeva tenere in vita la Englaro non poggia, pertanto, su alcuna normativa; piuttosto essa viola il dettato costituzionale e molte convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese. Per alcuni – e ti pareva! si tratta di «uso politico dell’attività giurisdizionale». Per noi appare sempre più evidente come l’obbligo alla cura – nato come principio di tutela, ma che si fa crudele quando la cura diventa ostinazione e accanimento – possa risultare incompatibile con la liberalità del diritto e con i fondamenti di una società democratica.

Repubblica 4.10.09
Oggi la Grecia alle urne, socialisti favoriti


ATENE - Quasi dieci milioni di greci vanno oggi alle urne per eleggere il nuovo Parlamento e scegliere ancora una volta fra una delle due famiglie politiche che da sempre governano la Grecia democratica. La prima possibilità è confermare il premier uscente Costas Karamanlis, erede della famiglia che ha creato i conservatori di Nuova Democrazia. L´alternativa si chiama Giorgio Papandreou, capo del Pasok, il partito socialista, figlio e nipote di due ex primi ministri.
Karamanlis, 53 anni, premier uscente, è nipote di Costantino, il "padre della patria" che ripristinò la democrazia in Grecia dopo la dittatura dei colonnelli: governa il paese dal 2004, grazie a una vittoria su Papandreou che riuscì poi a ripetere nel 2007. Dopo le ultime elezioni però Nuova Democrazia ha potuto contare solo su 151 deputati su 300, un solo voto di maggioranza sull´opposizione. Troppo poco per governare a lungo un paese che è in profonda crisi economica. Per questo un mese fa Karamanlis ha deciso di tornare alle urne, promettendo «ancora due anni difficili» per fare uscire il paese dalla crisi entro il 2011.
Papandreou, sconfitto due volte dal leader conservatore, si prepara per la prima volta alla vittoria: secondo i sondaggi che ormai da 15 giorni sono vietati, i socialisti sarebbero in vantaggio di 6-8 punti; il sistema greco offre 40 deputati di maggioranza al partito che raggiunge la prima posizione, per cui il Pasok potrebbe farcela a governare da solo. Giorgio è figlio di Andreas Papandreou, il professore universitario fondatore del Pasok che portò il partito alla vittoria nel 1981, sconfiggendo il vecchio Karamanlis. Ed è nipote del Giorgio Papandreou che guidò il paese prima del colpo di stato del ‘67.

Corriere della Sera 4.10.09
Elezioni politiche Oggi il voto, dopo le dimissioni del premier Karamanlis
La Grecia tra scandali e crisi tentata dalla svolta socialista
La sinistra europea in declino si affida a Papandreu
di Antonio Ferrari


ATENE — Si può moltipli­care una certezza per un dubbio? Impresa ardita, pe­rò la Grecia che si avvia al voto anticipato di oggi ci ha abituato alle sorprese: quel­le positive, come l’ingresso nell’Ue, nell’area dell’euro, come l’organizzazione della splendida Olimpiade 2004; e quelle negative: i recenti scandali che hanno mac­chiato l’immagine liberale del partito conservatore Nuova Democrazia, la cre­scenti e incontrollate tensio­ni sociali, i sussulti del ter­rorismo e i tentennamenti di una classe politica legata agli interessi di alcune gran­di famiglie.
La certezza è che stasera, rispettando le regole di un bipolarismo quasi compiu­to, il centrodestra di Kostas Karamanlis passerà il testi­mone al Pasok socialista di George Papandreu, chiama­to anche a difendere l’orgo­glio della sinistra moderata europea. Il dubbio è che ora risulta praticamente im­possibile determinare se i vincitori della maggioran­za relativa saranno in gra­do o meno di conquistare quella assoluta: almeno 151 seggi su 300.
Si dirà: perché non pensa­re ad una coalizione? La ri­sposta è no, perché in Gre­cia non la vuole nessuno. Il centrodestra non è disponi­bile ad alleanze con l’estre­ma destra, osservata specia­le in un Paese che dal 1967 al ’74 è stato costretto a su­bire un’umiliante dittatura militare; e perché il centro­sinistra non accetta patti con i comunisti neo-stalini­sti del Kke di Aleka Papari­ga, e non riesce a trovare ac­cordi con la coalizione «Syriza», che sembra lo specchio delle divisioni e della debolezza della sini­stra radicale europea.
Quindi, l’incognita vera di queste elezioni non è chi vincerà ma quanti partiti en­treranno in parlamento, con­siderando che la barriera da superare per garantirsi l’in­gresso è il 3 per cento. Il si­stema elettorale è un propor­zionale corretto, e occorrerà quindi vedere due cose: qua­le sarà la percentuale del pri­mo partito, e appunto se var­cheranno la soglia 2, 3 o 4 delle formazioni minori: il comunista Kke, l’ultranazio­nalista Laos, la sinistra del Syriza e i verdi. Questi ulti­mi rischiano di non farcela. In questo caso, al Pasok ba­sterebbe il 41-42% dei con­sensi per ottenere la maggio­ranza assoluta. Laos potrebbe essere la vera sorpresa, perché ha puntato tutto sulla conser­vazione più spinta e soprat­tutto contro gli immigrati, che in Grecia sono oltre il 12 per cento. Vellicando il fastidio della destra con una campagna elettorale ru­vida e intransigente, il par­tito di Jorgos Karazaferis ha saputo calamitare con­sensi trasversali, e ha le possibilità di raddoppiare i voti ottenuti precedente­mente, assestandosi al quarto posto.
Papandreu vincerà, ma a turbare l’attesa di quello che quasi sicuramente sarà il terzo premier della fami­glia, dopo il nonno Jorgos e il padre Andreas, non è sol­tanto il risultato del voto, ma il rischio di una forte astensione. I sondaggi uffi­ciali sono ovviamente vieta­ti, ma quelli paralleli assicu­rano al Pasok la conquista di almeno 152-153 seggi. Se non fosse così, e se il vinci­tore non riuscisse a forma­re il governo, si dovrebbe tornare, in tempi brevissi­mi, alle urne. In questo ca­so, al partito che risultasse in testa andrebbe un «pre­mio » di dieci deputati.
È una tentazione, d’accor­do, ma George Papandreu non è tipo da fare questi cal­coli e pensa già a realizzare la sua voglia di rinnovare. Anche ascoltando una can­zone italiana di Zucchero Fornaciari, la sua preferita. Quasi una promessa: «I tem­pi cambieranno».

Corriere della Sera 4.10.09
Cisgiordania Parla una delle 20 palestinesi scarcerate in cambio del video con il soldato israeliano
Lenan torna libera grazie a Shalit: «Stanca di guerra, non di vendetta»
Vedova di un terrorista, senza velo, era in prigione da quattro anni
di Francesco Battistini


BEIT FOREEK (Cisgiordania) — Che festa. I datteri, le bibite, il caf­fè. I vassoi che traboccano di «mansaf», il riso con la carne. I fio­ri di stoffa mandati dal presidente Abu Mazen. È tornata Lenan: «Vi­va Lenan!».
Duemila persone che chiama­no, abbracciano, invitano. La casa di Lenan non c'è più, l'hanno but­tata giù i bulldozer israeliani. Il pa­ese gliela trova subito, da una cugi­na: il letto sfatto, le pareti verdine, i ritratti dell'intifada, una kefiah biancorossa del Fplp, il Fronte po­polare per la liberazione della Pale­stina. Entra un gruppo di donne.
Lenan si alza con un gridolino. Loro ridono, lei fuma. Loro osten­tano indifferenza all'ospite ma­schio, lei lo presenta. Loro sono tutte velate. Lei è in una maglietta strizzata nera con la scritta a perli­ne, i jeans attillati. Loro dicono «a Dio piacendo», lei cita Arafat: «Sa perché mi chiamo Lenan? In ono­re di Lenin. Noi siamo comunisti». Lei non se lo mette, il velo. E for­se è per questo che la sua foto fuo­ri cella è finita su tutti i giornali: un bel sorriso, gli occhi accesi. Pic­chietta l'indice sui capelli lunghi, neri, liberi di cadere: «Conta quel­lo che sta dentro la testa, non so­pra...».
Dentro la testa di Lenan Yousef Abu Ghalmeh dovrebbe esserci un pensiero di gratitudine per Gilad Shalit, il caporale israeliano seque­strato da Hamas. Pur d'avere un suo video, la prova che sta bene, il governo Netanyahu ha accettato di scarcerare lei e altre 19 palesti­nesi. Destini barattati.
«Gratitudine? Il mondo si com­muove per Shalit e se ne frega del­le migliaia di nostri compagni in carcere. Shalit è un soldato sioni­sta che sapeva cosa stava facen­do ».
Lenan ha sei anni più di Gilad, ma ha vissuto molte più vite. Ba­sta guardarli. Lui in quel dvd, pri­gioniero da 1.200 giorni, ragazzo­ne alto che ricorda le gite coi geni­tori e fa qualche passo ciondolan­te e si vede che ha giocato tanto a basket, soldato per caso.
Lei che passeggia per Beit Fo­reek, dieci chilometri da Nablus, e il suo primo giorno di libertà va a passarlo al cimitero, a baciare la tomba del marito, una voglia di vendicarlo che non le è ancora pas­sata. «L'ho gridato quando gl'israe­liani me l'hanno ammazzato. Lo griderò sempre: la pagheranno».
Avevano detto che le detenute rilasciate erano di basso profilo, condannate a meno di due anni. Non è vero: la Lenin palestinese doveva scontarne cinque e ha un elenco così, di vendette da consu­mare. Vedova d'un terrorista che uccise in un'imboscata cinque sol­dati israeliani. Sorella d'un ergasto­lano che assassinò il ministro del Turismo israeliano, Rahvaam Ze­vi. Lavare quel sangue, riscattare il fratello è un suo chiodo fisso: con altre due donne, nel 2004, era sta­ta reclutata per farsi esplodere.
Il suo capocellula mandò a pren­dere il plastico in una grotta, era tutto pronto. Poi, un informatore spifferò. E arrivò l'esercito, il capo fu ammazzato. «L'esplosivo non l'ho mai avuto — racconta —. Ma evidentemente ero sulla lista nera. Un giorno mi bloccano al check point di Hawawa. Mi fanno appog­giare la borsa, la prendono a mitra­gliate. Mi ammanettano. E mi con­dannano a tre anni, più due extra per essere moglie e sorella di terro­risti ».
Arrestata per conto terzi, scarce­rata per conti più grandi di lei.
Lenan ripete come una giacula­toria che «l'unico modo per tratta­re coi sionisti è combatterli». An­cora a mano armata? Stare in una cella tre per tre assieme ad altre sei, il cesso in comune e il lavandi­no fuori, «una cosa che somiglia più a una stalla», un po' le ha fatto cambiare idea: «No, di coinvolgi­menti militari non voglio più sa­perne».
In Palestina una vedova di 29 an­ni, senza lavoro, impegnata nella lotta, non ha molte scelte... «Sarà dura. Difficile. Però è venuto a tro­varmi anche il segretario del Fron­te di Nablus. Mi ha detto: hai già fatto molto. Lascia che ci pensia­mo noi». Picchietta l'indice sui ca­pelli lunghi, neri, liberi di cadere: «Intanto, mi godo la libertà. La vendetta è un pensiero...».

il Riformista 4.10.09
Accadde nell’89
In piazza Tienanmen io c’ero
I ragazzi per le strade gridavano "perestrojika, perestrojika!" mentre Deng Xiaoping incontrava Mikhail Gorbaciov a Pechino
L'illusione uccisa nel sangue
di Pio Mastrobuoni


Racconto di un massacro. Avvenne il 3 giugno del 1989. Ancora oggi non si sa in quanti morirono, forse più di tremila. Quegli studenti e quegli operai credevano che la visita del segretario del Partico comunista di Mosca significasse una nuova stagione anche per il loro Paese. Ma non fu così. E la caduta del Muro era ancora molto di là da venire.

All'inizio erano duemila, poi diventarono centinaia di migliaia, alla fine superavano il milione
All'inizio erano duemila, poi diventarono centinaia di migliaia, alla fine superavano il milione. La protesta di piazza Tienanmen aveva unito i lavoratori agli studenti, creato una saldatura tra movimento studentesco e movimento operaio.Una miscela esplosiva che finì per provocare la dura reazione della dirigenza cinese, nella quale i "falchi" avevano finito per prendere il sopravvento sulle "colombe", anche in conseguenza delle agitazioni che si erano estese in molte zone rurali dove gli studenti avevano trovato la solidarietà dei contadini. Tuttora si ignora l'effettivo numero dei morti lasciati sul terreno dai carri armati dell'esercito. Le stime oscillano tra i tremila e i diecimila, ma nelle cancellerie occidentali c'è chi considera tali stime largamente in difetto.Ma andiamo per ordine nella ricostruzione di un evento che scosse il mondo tra il maggio e il giugno di 20 anni fa. Mi trovai a vivere quelle tumultuose giornate, che precedettero il d-day del massacro, essendo stato inviato dall'Ansa, per cui allora lavoravo, a seguire a Pechino l'incontro dei leader cinese Deng Xiaoping e sovietico Mikhail Gorbaciov, un evento storico che segnava la riconciliazione dei due giganti comunisti di quel tempo dopo gli anni di gelo seguiti alla pubblicazione del rapporto di Nikita Crushev al XX congresso del Pcus. Tentativo fallito in precedenza da Zhou Enlai con due viaggi a Mosca, l'ultimo dei quali per incontrare il primo ministro Kosygin. In attesa del vertice, era impossibile restare indifferenti di fronte a quei duemila studenti che ti accoglievano al grido di "abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina". Stavano raggruppati attorno ad una finta Statua della Libertà costruita nel centro della Tienanmen con materiali di fortuna, polistirolo e cartapesta. Biascicando qualche parola di inglese, ti spiegavano che lo scopo dell'iniziativa era di incoraggiare il loro governo ad approfittare del vento riformista che spirava sull'Europa dell'Est per imprimere una svolta liberista anche al sistema comunista cinese. Non avevano alcuna mira rivoluzionaria, in senso stretto, che era poi l'accusa esplicita che invece gli muoveva il primo ministro Li Peng. In molti si preoccupavano addirittura dell'immagine negativa che la loro protesta poteva trasmettere in Occidente. E per questo ripetevano ossessivamente che il loro sogno era di vedere arrivare in Cina una stagione propizia all'instaurazione della democrazia, una "primavera di Pechino", alla stregua di ciò ch'era avvenuto a Praga e Budapest. Sembravano convinti che se tutto ciò era stato possibile all'interno del ferreo Patto di Varsavia, ai confini della potentissima Unione Sovietica, non vedevano perchè la Cina si rifiutasse di imboccare quella strada. Si sentivano incoraggiati nella loro lotta dalla politica di Gorbaciov, al quale, al suo arrivo a Pechino, avevano tributato un'accoglienza calorosissima, salutandolo durante una sosta del corteo, nel percorso verso l'Assemblea Popolare, con ripetute invocazioni di "perestrojika, perestrojika". Tutto era cominciato alla morte Hu Yaobang, uno tra i più influenti riformisti del Pcc, allontanato dalla scena politica nel 1986. Intenzionati ad ottenere un risarcimento morale per l'emarginazione del leader da loro più stimato, gli studenti avevano chiesto un incontro al primo ministro Li Peng che però glielo lo rifiutò, accusandoli di essere manovrati da potenze straniere. La reazione de gli studenti fu immediata: dapprima con la proclamazione di uno sciopero generale nell'Università di Pechino, che non si era del tutto ripresa dall'amara esperienza toccatale durante la "rivoluzione culturale proletaria" voluta da Mao Tse Tung per scatenare gli studenti di allora contro il rischio di degenerazione borghese del comunismo; poi con la decisione di passare all'azione, scegliendo la sterminata piazza Tienanmen, circondata dal mausoleo di Mao, dalla Città Proibita e dall'Assemblea del Popolo, come luogo della loro protesta. Come doveva alla massa di protestanti apparire lontano il tempo in cui erano nati i primi gruppi di guardie rosse che si ergevano a difensori della politica tracciata dal Grande Timoniere, pubblicizzata quotidianamente mediante l'affissione di tazebao. Tanti professori e anche tanti studenti erano stati accusati di tradimento del comunismo e processati sulla pubblica piazza. Ma ora non c'era più Mao, e neppure la "banda dei quattro". Nessuno in piazza Tienanmen sospettava che il cinico innovatore Deng Xiaoping si lasciasse macchiare dal quel passato. Previsione purtroppo errata.
La data del 13 maggio per l'inizio della protesta era stata scelta con cura. Stavano arrivando a Pechino centinaia di giornalisti televisivi e della carta stampata per il vertice politico cino-sovietico, convocato nella sede dell'Assemblea del Popolo, il gigantesco edificio che si affaccia proprio sulla piazza Tienamen, e dunque non sarebbe stato un problema trasformarli in preziosi testimoni stranieri dell'imponente manifestazione. Il primo risultato che ottennero fu che il protocollo del vertice, fissato per il 16 e 17 maggio, finisse per risultare totalmente sconvolto. Non fu, infatti, possibile accogliere la delegazione sovietica con lo sfarzo abituale che la Cina riserva agli ospiti di riguardo. Gorbaciov e il suo seguito furono introdotti nell'Assemblea sfruttando un sottopassaggio segreto, così ci venne spiegato. Un'ultima disperata carta per indurre i manifestanti a recedere dalla protesta l'aveva tentata l'allora segretario del Pcc, Zhao Ziyang, recandosi di persona nella piazza. Arrivò a definire gli studenti dei patrioti. Ma fu tutto inutile e la conseguenza del suo estremo tentativo fallito fu l'introduzione della legge marziale e la estromissione del segretario dal vertice del partito. Ebbe allora mano libera il primo ministro Li Peng che fece tutto in fretta. Appena la delegazione sovietica lasciò Pechino propose ed ottenne la promulgazione della legge marziale e quindi tentò subito una prova di forza, ma l'esercito si trovò di fronte ad un muro di folla, con milioni di persone che sfilarono per ore ed ore nelle strade della capitale. Lo feci anch'io, accompagnandomi ai colleghi della Nuova Cina che avevano sfidato il divieto tassativo del governo, unendosi ai rivoltosi. Intanto, a seguito della legge marziale, erano stati chiusi gli aeroporti e così, in attesa di un primo volo per Hong Kong, allora ancora protettorato britannico, restai in forza all'ufficio dell'Ansa. Furono giorni di continua altalena tra la speranza di assistere ad una soluzione pacifica del conflitto e i persistenti segnali di un'imminente azione repressiva. Poi arrivò il 3 giugno e quel giorno caddero tutte le illusioni, perché la situazione precipitò. Quello fu il d-day del massacro, con i carri armati che spararono sulla folla di studenti e lavoratori, gli stessi che in quelle due settimane del mio soggiorno a Pechino avevano cullato il sogno, non facendone mistero, di vedere il loro Paese, di oltre un miliardo di anime, aprirsi democraticamente al mondo.
Lasciai Pechino con negli occhi l'immagine di quei ragazzi trucidati, con i quali avevo trascorso ore di vicinanza muta, accontentandomi di un sorriso e una pacca sulle spalle. Né avrei potuto mai dimenticare il gesto eroico di quel ragazzo, trasformato dall'istantanea di un fotografo d'agenzia, prima che dalle riprese televisive, in simbolo di fierezza, che con un pacco nella mano destra e la giacca nella sinistra, aveva bloccato la colonna di carri armati in avvicinamento alla Tienanmen. Continuo tuttora a chiedermi che fine abbia fatto. Sentivo nell'animo una rabbia crescente per quella prova di forza decisa dalle autorità di Pechino contro tanti giovani inermi e non avrei mai creduto possibile che qualche anno dopo, nella mia nuova veste di portavoce del governo, avrei dovuto accogliere a Roma, il principale artefice del massacro, quel signor Li Peng invitato in Italia dal presidente del consiglio Andreotti, che volle per primo in Europa rompere il ghiaccio con la Cina, spinto dalla convinzione che fosse irragionevole lasciare isolata una nazione di oltre un miliardo di persone e per di più membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con diritto di veto. Una decisione apparsa col passare degli anni e lo straordinario progresso raggiunto dalla Cina una prova di lungimirante realpolitik.

Corriere della Sera 4.10.09
L’antisemitismo cristiano ha origini pagane
Ai tempi di Adriano i seguaci di Gesù disprezzarono gli ebrei per piacere ai romani
di Paolo Mieli


La tesi Lo scontro tra Roma e Gerusalemme nel I secolo d.C. avrebbe indotto alla presa di distanza dalle radici semitiche
L’analisi Martin Goodman ha studiato questo fenomeno ribaltando alcune considerazioni sull’antigiudaismo nell’antichità
Il bilancio delle vittime. La resa dei conti fu tanto spietata che, secondo le stime contenute nella «Guerra giudaica» di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti
Nabucodonosor bruciò il tempio di Gerusalemme, deportò tutto il nostro popolo al completo e lo trasferì a Babilonia; avvenne così che la città restò deserta per settant’anni fino a Ciro re dei Persiani

La Storia dell’antisemi­tismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei senti­menti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana — scris­se Poliakov — quelle reazioni passionali collet­tive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria». Riconosceva, Po­liakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comu­nità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popola­zione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di col­lera popolare contro gli ebrei». Ma, aggiunge­va, «come regola generale l’Impero romano del­l’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemiti­smo di Stato». E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che trovia­mo in abbondanza negli scritti di Diodoro Sicu­lo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Taci­to, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giu­deofobia. L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato — in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi con­siglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportu­no «estirpare completamente la razza dei giu­dei ». A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigo­glio «ben prima dell’avvento del cristianesi­mo ». Ne è nato un dibattito dalle evidenti im­plicazioni. E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer. Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il qua­le (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si pro­iettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristia­ni, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esa­me lo scontro che oppose Roma a Gerusa­lemme tra la fine del primo e l’inizio del secon­do secolo dopo Cristo. Una resa dei conti spieta­ta che, secondo le stime contenute nella Guer­ra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti. Cifra sbalorditi­va per l’epoca. Era inevitabile, si chiede l’auto­re, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esi­to, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? As­solutamente no. Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusa­lemme. Lo scontro delle civiltà antiche , che La­terza sta per mandare in libreria nell’impeccabi­le traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesi­stere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe. In che senso? L’occupazione romana della re­gione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni. Dapprima per effet­to della repressione messa in atto da Erode; suc­cessivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu biso­gno neanche di quella.
Ma alla fine del regno di Nerone le cose cam­biarono. Nel maggio del 66 con un banale pre­testo — gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’impe­ratore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocan­do in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini. Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitan­ti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi. La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile. A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distin­to vent’anni prima nella conquista della Britan­nia, colse l’occasione derivatagli dall’essere co­mandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scala­ta al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Oto­ne e Vitellio. Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sa­cerdote gerosolimitano che, dopo aver coman­dato le truppe ribelli in Galilea, era stato cattura­to dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico. Giuseppe avrebbe poi spie­gato nei sette magnifici libri della Guerra giu­daica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correli­gionari si erano fatti sopraffare. Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73). E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
Il Tempio di Gerusalemme era già stato di­strutto seicentocinquanta anni prima, nel 586 a.C., quando la città era stata conquistata dai babilonesi di Nabucodonosor e gli ebrei erano stati mandati in esilio. Ma nel 539 l’impero ba­bilonese era stato travolto a sua volta dal re per­siano Ciro che aveva consentito ai giudei di rientrare a Gerusalemme e riedificare il Tem­pio. E adesso nel 70 i loro discendenti pensava­no che la storia potesse ripetersi. Aspettavano la comparsa sulla scena di un «nuovo Ciro» in grado di sgominare i romani come l’imperato­re persiano aveva fatto con i babilonesi. Per qualche tempo si pensò che il nuovo Ciro po­tesse essere addirittura un redivivo Nerone. Si è soffermato su questa circostanza Giulio Fir­po in un gran bel libro — Le rivolte giudaiche (Laterza) — nel quale racconta di come in quel periodo avessero cominciato a circolare a Ro­ma strane voci secondo cui Nerone non era morto e anzi stava apprestandosi a tornare dal­l’Oriente per riprendere il potere; in seguito tre personaggi cercarono di accreditarsi come Nerone, in Grecia, in Asia Minore e in Mesopo­tamia. Riferimenti a queste notizie sono rin­tracciabili in un testo di oltre dieci anni dopo la distruzione del Tempio, gli Oracoli sibillini giudaici, dove l’annunciato e imminente ritor­no di Nerone dalle regioni al di là dell’Eufrate o dalla provincia d’Asia viene finalizzato all’ab­battimento della potenza romana; «nella pro­spettiva giudaica — scrive Firpo — la figura di Nerone redivivo assumeva involontariamente un ruolo positivo, quello cioè di vendicatore in­consapevole delle offese arrecate dai romani al popolo giudaico, dal momento che, colpendo i propri connazionali, Nerone li avrebbe puniti anche per aver distrutto il tempio e perseguita­to Israele». Il che ci dice molto della radicale ostilità nei confronti di Roma che in quel perio­do andò formandosi in ambito giudaico.
Roma non fu da meno. Tra l’era di Vespasia­no (regnò dal 69 al 79), gli anni di suo figlio Tito (79-81) e quelli del loro erede Domiziano (81-96), i tre imperatori Flavii, per i giudei furo­no tempi tragici. I Flavii erano in costante ri­cerca di una conferma della loro legittimità nella «grande vittoria» contro quel popolo e nella enfatizzazione del rischio di trovar­selo nuovamente nemico sul campo di bat­taglia. «La necessità dell’imperatore di ma­nipolare la sua immagine pubblica per assi­curare il sostegno al suo regime», sostiene Goodman, va individuata come la causa prin­cipale del particolare «maltrattamento dei giu­dei » durato oltre due decenni. Così Roma non concesse agli ebrei quel che aveva sempre per­messo ai suoi sudditi di religione diversa: co­struire o, in caso di distruzione, ricostruire i lo­ro santuari. Il Tempio di Gerusalemme non sa­rebbe più stato riedificato. Domiziano, il più ti­rannico di questi tre imperatori (fu ai suoi tem­pi che Quintiliano definì i giudei una «nazione funesta»), mise addirittura a morte il console Flavio Clemente, accusandolo di essersi «lascia­to trasportare verso le usanze giudaiche». Poi, quando Domiziano fu ucciso nel settembre del 96 e il suo successore, l’anziano aristocratico Marco Cocceio Nerva, fece abbattere la statue e abradere le iscrizioni dedicate all’ultimo dei Fla­vii, i giudei sperarono che fossero finiti i tempi della persecuzione e si prospettasse un’età del­la tolleranza. Ma già nell’autunno del 97 la guar­dia pretoriana si ammutinò, chiedendo che fos­sero mandati a morte gli assassini di Domizia­no e, dalla lotta per il potere che ne seguì, uscì vincitore Marco Ulpio Traiano. E furo­no ancora lutti. Il nuovo imperatore aveva un padre che si era guadagnato lustro (as­sai modesto per la verità) nella guerra contro i giudei: «Era dunque interesse di Traiano che la visione flavia della guer­ra giudaica come un grande trionfo di Roma e dei giudei come i naturali nemici dello Stato romano venisse tranquilla­mente ripresa», scrive Goodman. E a questo punto si riaccese il conflitto.
Tra il 115 e il 116 ci fu una grande in­surrezione giudaica contro i romani ed è lì che cominciano a diffondersi giudizi demonizzanti nei loro con­fronti: riferisce Cassio Dione che i giudei «mangiavano la carne delle loro vittime, si facevano delle ten­de con i loro intestini, si aspergevano con il loro sangue e indossavano la loro pelle come vesti­ti... li segavano in due, dalla testa in giù... li dava­no in pasto alle bestie feroci». È in margine a questo conflitto che nei documenti romani co­mincia a comparire l’espressione «empi giu­dei ». Traiano morì nell’agosto del 117, mentre era impegnato in una campagna militare in Me­sopotamia, e la decisione del suo successore, Adriano, di ritirare le truppe proprio da quella regione fu interpretata dai giudei come l’apertu­ra di uno spiraglio. In realtà si trattava di una scelta tattica e presto Adriano riprese una politi­ca di ostilità contro i giudei che era diventata or­mai usuale. Si spinse a proibire la circoncisione e questo provocò l’ultima grande rivolta giudai­ca tra il 132 e il 135, guidata da Shimon bar Kosi­ba. Adriano in persona assunse il comando del­le operazioni militari per fronteggiare quella ri­volta, lo spargimento di sangue fu spaventoso, Gerusalemme cessò di esistere (si chiamò Aelia Capitolina) e il nome dell’intera provincia fu cambiato in Syria Palaestina. Che una provincia cambiasse nome per ragioni amministrative non era insolito, nota Goodman, mai invece era accaduto che il cambiamento fosse deciso come punizione dei nativi per la loro ribellione, né in Pannonia, né in Germania, né in Britannia, «so­lo i giudei cessarono di avere una patria a causa di quello che avevano fatto». Lo stesso Poliakov del resto aveva riconosciuto che gli editti antie­braici promulgati da Adriano nel 135 e ripresi dal successore Antonino tre anni dopo vanno considerati come una «eccezione» a quel discor­so sull’assenza di tracce di antisemitismo nell’an­tichità pagana di cui s’è detto all’inizio. E sulla base di questa ricostruzione Goodman può spin­gersi a definire la comparsa del­l’antisemitismo cristiano come un «sottoprodotto dell’ostilità di Roma nei confronti dei Giu­dei ».
In seguito, sostiene Good­man, per guadagnare credibili­tà nel mondo romano i cristia­ni avvertirono la necessità non soltanto di negare la loro ascen­denza ebraica ma di attaccare il giudaismo nel suo insieme: «Sarebbe stato del tutto possibile per i primi cristiani mantenere una visione del giudaismo come un’altra, più an­tica, relazione con Dio, come avevano fatto a vol­te Paolo e come è diventato più comune tra i mo­derni teologi cristiani; ma se volevano difendere la propria buona fama e cercare convertiti in un mondo romano in cui, dopo il 70, il nome degli ebrei suscitava disprezzo, era più facile per i cri­stiani unirsi all’attacco e concordare con i paga­ni che la sconfitta dei giudei e la distruzione del Tempio dovevano essere celebrati come espres­sione della volontà di Dio». In altre parole, l’anti­semitismo cristiano fu, se non un «sottoprodot­to », una conseguenza di quello dell’età pagana. Che è, se non da ristudiare, quantomeno da ap­profondire.

Ragioni storiche, conflitti teologici: il dibattito tra gli studiosi 
S’intitola Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, pp. 752, € 35) il libro di Martin Goodman, storico inglese e docente a Oxford, che sarà in libreria dal 15 ottobre. Esso riapre la discussione sulle radici precristiane dell’odio antiebraico, appena sondate da Léon Poliakov nel primo volume della sua classica e ponderosa Storia dell’antisemitismo (Sansoni) e invece ampiamente trattate da Peter Schäfer, uno studioso tedesco che insegna all’università americana di Princeton, nel saggio Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci). Le tesi di Schäfer, che attribuisce grande rilievo all’antisemitismo pagano, sono state criticate da Jasper Griffin, docente di Letteratura classica a Oxford, mentre la vicenda delle ripetute sommosse degli ebrei contro il dominio dei regni ellenistici e dell’impero romano è sintetizzata nel saggio di Giulio Firpo Le rivolte giudaiche (Laterza). Inoltre in Italia è appena uscito il volume Le radici storiche dell’antisemitismo (Viella editore, pp. 288, € 30), curato da Marina Caffiero (docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma), che raccoglie gli atti di un convegno tenuto nel dicembre del 2007.

Corriere della Sera 4.10.09
Oggi giornata nazionale del nuovo movimento Scence for Peace
La scienza scende in campo per la pace
di Luc Montagner


Il sapere è vita, benessere, pa­ce. Ricordo spesso lo slogan del­la campagna londinese contro l’Aids: «Don’t die of ignoran­ce », non morite d’ignoranza.

«Science for Peace» è il nome del nuovo movimento lanciato dalla Fondazione Veronesi che, con l’adesione di venti Premi Nobel e di esponenti del mondo della scienza e della cultura, si propone di diffondere una cultura di pace e di arrivare alla progressiva riduzione delle spese militari e al disarmo nucleare. Aderiscono all’iniziativa anche le 70 associazioni riunite nella Coalizione italiana contro la povertà, Emergency, Croce Rossa, Unicef, Medecins sans frontières, Save the Children e la Robert Kennedy Foundation. Il debutto del movimento è previsto per il 20 e 21 novembre con la prima conferenza mondiale a Milano, di cui è presidente Umberto Veronesi e vice presidente Kathleen Kennedy Townsend. Oggi, invece, è la Giornata nazionale di Science for Peace e l’obiettivo è quello di raccogliere adesioni da parte dei cittadini, cliccando l’area Science for Peace sul sito www.fondazioneveronesi.it.

Il rapporto fra scienza e pace è stato spesso offuscato, in passato, agli occhi della gen­te. Serpeggia ancora la convin­zione che la guerra favorisca le innovazioni scientifiche. In real­tà le grandi scoperte sono avve­nute in tempo di pace e sono state sviluppate per la pace. En­rico Fermi ha realizzato la pila atomica come fonte di energia per l’umanità e certo non imma­ginava che sarebbe stata utilizza­ta per costruire la bomba atomi­ca. Einstein ha scoperto la teo­ria della relatività in tempo di pace; la penicillina è stata sco­perta nel 1928, in assenza di con­flitti; la molecola del Dna, la struttura della vita, venne identi­ficata dopo la fine dei conflitti mondiali. È innegabile che la creatività scientifica nasce e vi­ve per il benessere dell’umani­tà. Purtroppo può accadere, ed è accaduto, che quando l’uomo la utilizza, non rispetti il suo fi­ne; ed ecco che le applicazioni della scienza appaiono al servi­zio di scopi tutt’altro che umani­tari, come la guerra.
La pace è la condizione idea­le e la spinta più forte per la scienza e per lo sviluppo econo­mico, due componenti stretta­mente legati l’uno all’altra. Ba­sta guardare i Paesi ancora in balia dei conflitti armati, come quelli del Medio Oriente: sen­za pace non possono avere svi­luppo economico e non posso­no far fiorire lo studio e la ri­cerca scientifica, e così non hanno alcuna possibilità di adeguarsi al progresso del re­sto del mondo pacifico.
Che fare allora? Io penso che la risoluzione dei conflitti attra­verso la guerra è anacronistica. I conflitti si risolvono con la cul­tura: con l’informazione, la for­mazione e la presa di coscienza. In particolare la cultura scientifi­ca rende l’uomo consapevole di quella che io chiamo la doppia sua natura. La conoscenza dei geni ha svelato da un lato la sua fragilità: la sua struttura biologi­ca è comune, o molto simile, a quella di tutti gli altri esseri vi­venti, dalle piante agli animali; dall’altro ha rivelato la sua for­za, che sta nella cultura, intesa come capacità di sviluppare il pensiero e utilizzarlo per il suo bene. Questo carica l’uomo di una responsabilità maggiore in confronto agli altri esseri viven­ti; ci fa pensare che la nostra esi­stenza merita una considerazio­ne diversa e ci impone il princi­pio che ogni vita umana è da ri­spettare. Più le singole persone saranno informate e consapevo­li della propria natura, più sa­ranno contro la violenza. La vio­lenza non è innata nelle popola­zioni. Ne è un esempio l’Euro­pa: la Francia, la Germania, l’Ita­lia sono oggi Paesi di pace, an­che se fino a metà del secolo scorso hanno guerreggiato uno contro l’altro. Maggiore è l’edu­cazione dei popoli, minore è il rischio di guerra. Chi è evoluto non prende in mano un fucile.
Ciò che noi, gli scienziati e gli uomini di pensiero, possiamo fare concretamente per la pace è fare in modo che le nuove ge­nerazioni, che non conoscono la guerra, non considerino nep­pure l’idea di impugnare una pi­stola. Il rischio che questo av­venga c’è, ed è legato anche al mondo dell’immagine e dei me­dia. La circolazione delle imma­gini di violenza su web o sulle televisioni può trascinare i più giovani in un circuito infernale di reazioni che porta ancora alla violenza. A meno che non sia mediato dalla ragione, che è ap­punto lo strumento di lavoro della scienza.
Per questo gli scienziati han­no il dovere morale di comuni­care, di parlare delle loro sco­perte e dei loro progressi, an­che quando le loro conoscenze sono incomplete. La gente ha molte paure e un tempo solo le religioni davano delle risposte. Ora è tempo che anche la scien­za prenda la parola. Ho scritto un libro che uscirà il 12 novem­bre in Francia, «Le Nobel et le moine» («Il Nobel e il mona­co »), dove affronto proprio que­sto tema. La fede ha avuto (e può continuare ad avere) un ruolo importante nel risponde­re alle paure, ma le sue risposte sono dogmi assoluti. La scien­za, invece, dà risposte spesso parziali, che provocano altre do­mande, ma che hanno il pregio di stimolare in questo modo l’ar­ticolarsi del pensiero e lo svilup­po della riflessione.

Corriere della Sera 4.10.09
La pillola che cancella i traumi e azzera la memoria di se stessi
di Mario Maj


La nostra vita ci pone di fronte ad una varietà di piccoli e gran­di traumi. Di alcuni conserviamo un ri­cordo consapevole; di molti altri rimane comunque traccia nella nostra mente, una traccia che a volte si riattiva a segui­to di altri eventi, lasciandoci sconcertati. La pubblicità di un farmaco che sareb­be capace di cancellare la memoria dei traumi subiti (sedativo me­moriale) rischia di azzerare la funzione di questi eventi psichici.
Le ferite della mente causano dolore, esatta­mente come quelle fisiche e il dolore ci aiuta a cresce­re e a costruire la nostra identità personale. Il bam­bino impara scottandosi che il fuoco brucia e va evitato. Il ricor­do, consapevole o inconsapevole, del dolore psichico ci accompagna e orien­ta le nostre azioni.
Il dolore conseguente ai gradi traumi può avere un impatto positivo sulla vita di una persona. L’evento traumatico può diventare il centro intorno al quale la persona riorganizza una vita prima disor­ganizzata, riorientando i suoi valori e i suoi obiettivi. Il trauma diventa una spe­cie di «organizzatore psichico». Ne ha esperienza qualsiasi psicologo o psichia­tra, ma lo sa bene soprattutto chi si è oc­cupato degli effetti psichici dei grandi di­sastri naturali o provocati dall’uomo.
A questa «forza» che alcune persone sono in grado di mettere in atto trasfor­mando un trauma in un’occasione di cre­scita viene dato il nome di «resilience», praticamente intraducibile in italiano.
Sopprimere, reprimere il ricordo di un trauma non è, in generale, considerato una risposta desiderabile e positiva. Anche nelle perso­ne con gravi malattie fisi­che, la «negazione» della realtà non è tra le difese che si associano ad un miglior esito a lungo termine. Dare un significato al trauma e integrarlo nella propria esi­stenza e nella propria identità è ciò che molti interventi psicoterapeutici cerca­no di ottenere.
Con risultati che, almeno per ora, nes­suna «pillola» può dare.

Corriere Salute 4.10.09
Ricerca Come nel film Minority Report, un software è in grado di anticipare gli abusi domestici
Il computer prevede chi subirà violenza
di Roberta Villa


I ricercatori di Boston hanno esaminato i dati di 500 mila adulti: ora le violenze potrebbe essere individuate dai 10 ai 30 mesi prima

Ricordate Minority Report , il film in cui, su un touch screen a grandezza d'uomo, Tom Cruise individuava i cri­mini prima che venissero commessi? Qualcosa del genere potrebbe accade­re presto negli ospedali e negli ambula­tori, dove i medici, grazie alle nuove tecnologie informatiche, potrebbero individuare con molto anticipo le vitti­me di una violenza domestica. Il tutto grazie alla rielaborazione dei dati pro­venienti dai fascicoli sanitari elettroni­ci, che rendono disponibili sullo scher­mo del computer tutte le informazioni riguardanti la salute di una persona. Ben Reis, dell'Informatics Program al Children's Hospital Boston, e i suoi col­leghi dell'Harvard Medical School han­no messo a punto un metodo che li sfrutta per scoprire più precocemente i casi di violenza domestica.
«Il modello è stato messo a punto dagli esperti statunitensi esaminando i fascicoli sanitari elettronici di oltre 500.000 adulti», spiega Eugenio Santo­ro, responsabile del Laboratorio di in­formatica medica dell'Istituto Mario Negri di Milano, 'che includevano i da­ti relativi ad almeno quattro anni di ri­coveri e accessi in pronto soccorso. In questa popolazione sono state indivi­duate le oltre 5.000 persone in cui, alla fin fine, i medici hanno scoperto una storia di abuso in famiglia: ma a que­sta conclusione sono arrivati solo do­po una media di 88 visite o ricoveri in quattro anni! Se fosse stato applicato il nuovo metodo, il fascicolo sanitario elettronico della persona in cura, aper­to sul computer dello studio medico, avrebbe potuto mettere in guardia i sa­nitari da 10 a 30 mesi prima, metten­doli in condizione di proteggere la vit­tima ». Non sempre infatti i medici hanno il tempo e la capacità di indaga­re con delicatezza sulla storia passata di chi chiede le loro cure, magari per ferite o traumi apparentemente bana­li. Ma è sempre in agguato anche il ri­schio di affidarsi a un algoritmo per in­dagare persone che alla fine si posso­no rivelare innocenti.

il Riformista 4.10.09
Ardipithecus, la scimmia che più ci assomiglia
di Giorgio Manzi


EVOLUZIONE. A 150 anni dal manifesto di Darwin, ritrovato in Etiopia il più antico ominide della storia. Una scoperta eccezionale per il genere umano.

Non era mai successo. È la prima volta che una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali dedica un intero fascicolo - con tanto di copertina, seguita da un dettagliato focus sull'argomento, da 11 articoli specialistici consecutivi e da molti altri inserti - a un singolo rinvenimento paleo-antropologico, a un ominide. È successo questa settimana e, in effetti, l'occasione è davvero eccezionale, unica: si tratta del più antico (4 milioni e mezzo di anni fa circa) e del più completo (uno scheletro frammentario) fra i nostri antenati. Intorno c'è un turbinio di notizie e commenti che da un paio di giorni rimbalzano dal web (date un'occhiata su Youtube, per farvene un'idea) alle televisioni e alla carta stampata di tutto il mondo.
Il rinvenimento risale alla prima metà degli anni Novanta, ma era rimasto segreto fino ad oggi. In realtà qualcosa era trapelato da tempo fra gli addetti ai lavori, ma molti avevano iniziato a pensare che potesse trattarsi di una boutade o, quantomeno, di un passo falso dell'équipe interdisciplinare diretta da Tim White, dell'università di Berkeley, California, che da trent'anni lavora nel Middle Awash, in Etiopia: uno dei più ricchi giacimenti di evidenze fossili relative agli ultimi milioni di anni. Ma ora quel reperto è lì, sulla copertina di Science, a documentare un passaggio cruciale e antichissimo della nostra evoluzione. Adesso possiamo dire che questi quindici anni non sono passati invano: sono stati necessari per portare a termine il pazientissimo lavoro di restauro, le sofisticate ricostruzioni tridimensionali e le ricerche meticolose a cui quei denti e quelle ossa sono stati sottoposti, insieme al loro contesto paleo-ecologico. Il risultato di questi quindici anni è ora davanti ai nostri occhi: sono le immagini, le tabelle e i testi che da un paio di giorni stiamo studiando attentamente, sfogliando e risfogliando le pagine di Science del 2 ottobre 2009.
Neanche la data sembra casuale. Siamo esattamente 150 anni dopo la pubblicazione del libro fondativo della moderna teoria dell'evoluzione, quell'Origine delle Specie per Selezione Naturale del 1859, nel quale Darwin aveva anche fatto una promessa: «Luce si farà sull'origine dell'uomo e la sua storia», aveva scritto alla fine del libro. Se luce, molta luce è stata fatta da allora, quest'ultimo scheletro è qualcosa di più di una singola candela accesa, di una semplice tessera del mosaico. Forse è l'anello fondamentale.
Si tratta del tanto atteso "anello mancante"? Per la verità, molti miei colleghi sono critici - e non hanno tutti i torti - sull'espressione e sul concetto di anello mancante. L'evoluzione umana non è certo stata una catena, fatta di anelli che si susseguono uno all'altro. Proprio le scoperte paleoantropologiche dei 150 anni che sono trascorsi dalla predizione di Charles Darwin ci hanno insegnato che il percorso che ha portato alla comparsa della nostra specie non è stata una sequenza lineare. Siamo molto lontani dalla pur consueta rappresentazione di scimmie, scimmioni e ominidi sempre più umani che si susseguono come in una fila ordinata. Sappiamo invece che la storia evolutiva che ci ha preceduto è stata piuttosto un albero assai frondoso (alcuni dicono un "cespuglio") e che le numerose specie di nostri antenati, gli ominidi, si sono spesso accavallate e affiancate l'una all'altra, protagoniste di storie e destini assai differenti: le cosiddette australopitecine, poi i parantropi e ancora le tante varietà del genere Homo, tra cui quella ben nota dei Neanderthal. Tutte estinte tranne una, la nostra: Homo sapiens.
Ma con il nuovo scheletro siamo in un'altra dimensione. Siamo prima, siamo cioè alle radici del nostro albero genealogico. Siamo al punto di contatto con la diramazione fondamentale che, da un lato, ha portato all'evoluzione delle attuali scimmie antropomorfe africane e, dall'altro, ha intrapreso l'intricata traiettoria che arriva fino a noi. In questo senso, solo in questo senso, il nuovo scheletro sembra rappresentare davvero l'anello mancante. Non l'anello in una catena di antenati, ma quel raccordo che ancora mancava fra l'uomo e i suoi parenti più prossimi fra i primati viventi. Da questo punto di vista questo fossile può dirci molto su ciò che siamo noi oggi e su come lo siamo diventati, distaccandosi dagli scimpanzé che tuttora sopravvivono nelle foreste dell'Africa equatoriale e che con noi condividono più del 98% del patrimonio genetico.
È per questo che il nuovo ominide è importante. Lo è anche perché di resti fossili così completi non se ne trovano facilmente. Per incontrare qualcosa di paragonabile, un milione d'anni dopo, dobbiamo fare riferimento al più celebrato fra gli ominidi: l'australopitecina scoperta nell'ormai lontano 1974 e soprannominata Lucy, a sua volta quasi contemporanea alle impronte lasciate da alcuni individui bipedi, e di certo non ancora umani, sulle ceneri vulcaniche di un sito in Tanzania. È importante anche perché uno scheletro completo ci mette di fronte a un mosaico di caratteri anatomici che, solo nel loro insieme, fanno la differenza.
Guardiamolo un attimo questo fossile. Molto ci dice che siamo di fronte a una scimmia: il cranio neurale piccolo rispetto alla faccia, le lunghe braccia robuste, le grandi mani con le falangi ricurve, le gambe corte e i piedi con l'alluce divaricato. Se avessimo trovato solo questi elementi, o parte di essi (come spesso capita), penseremmo di avere semplicemente scoperto una scimmia antropomorfa estinta. Ma guardando bene i denti, soprattutto nei dettagli, si scopre che hanno caratteristiche intermedie tra uno scimpanzé e un australopiteco. Oppure, e soprattutto, esaminiamo attentamente le ossa del cinto pelvico e la postura corporea che ne consegue. Possiamo allora convincerci di essere di fronte al più antico e più arcaico degli ominidi: un bipede, non esattamente come noi e nemmeno come Lucy, ma comunque un ominide bipede. Il più antico e più arcaico ominide bipede.
Che dire poi del contesto paleo-ecologico? Gli studi interdisciplinari appena pubblicati mostrano con chiarezza e con dovizia di particolari che questi primissimi rappresentanti della nostra ramificata storia evolutiva vivevano ancora in foresta, ben prima della progressiva conquista delle boscaglie più aperte da parte di australopitecine come Lucy e, in seguito, delle grandi distese di savana da parte dei successivi loro discendenti, parantropi o primordiali forme umane che siano stati. D'altra parte, il nome in latino del nuovo fossile - Ardipithecus ramidus, attribuito ai primi frammentari reperti del 1994 - già diceva molto, sapendo che deriva da due parole della lingua degli Afar (la gente del Middle Awash, lì in Etiopia) che rispettivamente significano "terreno" (ardi) e "radice" (ramid). Pensiamo allora a una scimmia antropomorfa, che ormai si muove agevolmente sul terreno e che si trova alle radici del nostro albero genealogico.

Repubblica 4.10.09
Incontro con Bernardo Bertolucci
di Stefano Malatesta


Conosco bene Parigi, ci sono tornato infinite volte. Eppure, quando ci cammino, ho sempre la sensazione di essere finito in un luogo remoto
Il grande regista, premiato per il suo cinema "viaggiante", racconta tutti i suoi "altrove": il "marchio a fuoco" della prima visita in Oriente; la Cina de "L´ultimo imperatore"; il Marocco di Bowles e del "Tè nel deserto" "Il viaggio – spiega – può avere una misura terrificante e tragica e il viaggiatore, a differenza del turista, non torna a casa calamitato dal fascino dell´ignoto"
Qualche giorno fa ero seduto sul divano nella casa romana di Bernardo Bertolucci, ascoltando il regista che con voce soave diceva che da ragazzo, e anche da grandicello, non era mai stato un viaggiatore. «Non erano viaggiatori mio padre e mia madre, non lo ero io. Ho letto da qualche parte, in uno dei libri di Paul Bowles, che la differenza tra il turista e il viaggiatore sta nel ritorno a casa. Il turista arriva sul posto, ma dopo qualche tempo sente lo stimolo della nostalgia e si affretta a riprendere la strada del paesello natio. Il viaggiatore, invece, vuole andare avanti e sempre più avanti, perché il fascino dell´ignoto è più forte del ricordo della home».
«Conosco bene Parigi, una città che quelli nati, come me, a Parma considerano la loro capitale, e alcuni miei film sono stati girati tra i magnifici caffè all´aperto, le brasserie, le uscite della metropolitana, i viali alberati e i piccoli alberghi incantevoli e un po´ sudici. La prima volta che ci sono andato avevo diciannove anni e il viaggio era un premio per aver passato la maturità. Guidavo una Cinquecento, ero in compagnia di mio cugino Giovanni e allora - ma anche adesso - questa trasferta da Parma a Parigi aveva assunto le dimensioni di un´impresa epica, paragonabile a un canto omerico. Da allora sono tornato un´infinità di volte in questa città avendo sempre la sensazione di essere finito in un luogo remoto. Eppure, quando passeggio per Rue du Bac o lungo il Boulevard Saint-Germain, riconosco anche le pietre e potrei indicare quali sono le brasserie dove vendono i migliori croissant».
Non vedevo Bernardo da qualche anno, da quando ci eravamo trovati in due casali confinanti in un angolo splendido della Val d´Orcia. La sera, se l´elegante e bella padrona di casa di cui ero ospite acconsentiva a trasformarsi in una cuoca provetta, si cenava insieme, con sua moglie Claire e qualcuno dei suoi collaboratori, che costituivano una piccola e allegra corte. Le conversazioni spaziavano fino ai consueti brevi cenni sull´universo, anche se non ricordo che si parlasse di viaggi. E avevo dato per acquisito che uno della cultura del regista - con moglie inglese, con aiutanti poliglotti, intimo amico di Alberto Moravia e di Pier Paolo Pasolini, che adorava Conrad e che avrebbe voluto girare un film sulla Shanghai del 1927 ululante di rivoluzionari professionisti e di aristocratiche russe bianche in fuga dal regime sovietico che servivano molto scollate nei locali notturni - non poteva che essere stato un grande viaggiatore.
Ma quel giorno in casa sua mi accorsi che una certa perplessità, molto simile allo sgomento, trapelava dalla faccia di chi mi aveva accompagnato da Bertolucci. La Società Geografica Italiana gli aveva appena conferito il premio alla carriera "La Navicella d´Oro" per il suo cinema viaggiante, diciamo così, e noi eravamo lì esattamente perché illustrasse tutte le sue trasferte in modo da arricchirle con particolari eccitanti o spiritosi e con coloriture che solo lui era in grado di dare. Ed ora Bernardo stava spiegando che il suo viaggio preferito, da ragazzo, era stato quello intorno a una sedia o a una stanza. E si era messo a ripetere che sapeva assai poco della letteratura di viaggio, che confondeva gli autori e che, in fondo, non era poi molto interessato.
Poi aggiunse: «Ma certo con Conrad uno si accorge che il viaggio può avere una dimensione terrificante, anche tragica». Era l´occasione che stavo aspettando. Sullo scrittore polacco l´intervista poteva essere raddrizzata e chiesi a Bernardo se, leggendo Lord Jim, aveva capito nelle prime trenta pagine del libro cosa stesse veramente succedendo. Lui rispose che Conrad scriveva in inglese ma il suo genere letterario rispondeva a misteriosi itinerari barocchi molto polacchi e molto più complicati e oscuri di quelli che avrebbe seguito un anglosassone. Lord Jim era stato pensato come la tragedia dell´inadeguatezza - il protagonista era un capitano incapace di affrontare situazioni d´emergenza - ma tutto era detto in modo indiretto, attraverso volute e passaggi tenebrosi che facevano l´originalità del testo.
Finalmente avevo ritrovato il viaggiatore. Nel 1973 sua moglie Claire riesce a convincerlo a partire per un glorioso viaggio in Estremo Oriente: Singapore, Bali, Bangkok e poi anche Katmandu, in Nepal. «Erano contrade non ancora contagiate dal turismo di massa. Lì ho scoperto che viaggiare mi piaceva moltissimo. È stata un´esperienza simile a quella che si prova entrando per la prima volta nel deserto e che i francesi hanno chiamato le bapteme de la solitude. O fuggivi via e non tornavi mai più o venivi affascinato da quelle lande desolate. Il viaggio s´impresse su di me con la forza di un imprint, quello di cui parla il famoso etologo Lorenz: un marchio a fuoco che rimane per sempre. Qualche tempo dopo, a metà degli anni Ottanta fu la volta della Cina, dove andai con i due sceneggiatori del film L´ultimo imperatore. Questo primo viaggio fu sconvolgente. Mi innamorai dei cinesi, di quello che vedevo. Prima di partire avevo incontrato Michelangelo Antonioni il regista che aveva girato Chunkuo, il primo grande documentario occidentale sulla Cina chiusa ancora agli stranieri. Le riprese non erano molto piaciute ai cinesi e Antonioni fu messo all´indice, insieme alla musica di Beethoven e alle opere di Confucio. Antonioni era molto orgoglioso di quella illustre compagnia e si congedò con una battuta di cui mi sarei ricordato solo più tardi: «La Cina più la conosci e meno la capisci».
«Ma all´inizio a Pechino ero tutto preso dalla mia nuova esperienza e facevo a tutti le stesse domande: se sapevano qualcosa del "Figlio del cielo" che era diventato giardiniere all´Orto botanico di Pechino, e che cosa gli avevano fatto, come si erano comportati durante la Rivoluzione culturale. Andando a cena con dei giovani registi poteva succedere che le nostre conversazioni si trasformassero di colpo in una serie di psicodrammi, con pianti e mea culpa recitati senza ritegno. Il regista di Addio mia concubina raccontò che a quindici anni era una fanatica Guardia rossa che aveva denunciato suo padre, capo dell´associazione dei registi cinesi».
«Per il film ho girato molto non solo in Cina ma anche in Manciuria, dove l´ultimo imperatore era stato incoronato per la seconda volta dai giapponesi, come fantoccio. Al museo di Chan Chi mi è capitato di vedere una piccola decorazione che riuniva il simbolo di quattro paesi: il fascio, la svastica, il sol levante, l´orchidea del Manchukuo. Alcune scene sono ambientate nelle sale deco del Centro sperimentale di cinematografia, nella periferia romana, più manciuriane di quelle vere. Non ho mai amato girare nei teatri di posa come faceva Kubrick, ho sempre scelto non di copiare dal vero ma di inventare dal vero. Fellini ha girato a Ostia tutte le scene de I Vitelloni che si dovrebbero svolgere a Rimini, e che sembrano più reali e credibili di quelle vere».
«Ai cinesi avevo proposto non una, ma due pellicole, e avevo anche fatto tradurre la sceneggiatura della seconda, tratta da La condition humaine di Malraux. Malraux, oltre ad avere un indubbio genio che si mostrava solo a tratti, presentava una personalità a più facce: era un fenomenale raccontatore di balle e da giovane era stato arrestato per aver portato via alcune sculture da Angkor Wat. Ma era riuscito a incantare una quantità di uomini illustri tra cui Charles De Gaulle. E il libro, anche se ondeggiava in qualche contraddizione, descriveva in maniera impareggiabile la rivolta del ‘27 dei giovani comunisti di Shanghai. La rivolta era stata schiacciata dalle truppe del Kuomintang guidate da Chang Kai-shek, ma prima di essere fucilati i capi rivoluzionari, tutti giovani molto attraenti per ingegno e coraggio, avevano fatto in tempo a farsi ammirare e a diventare un mito per tutta la sinistra europea occidentale. Ma i dirigenti cinesi non avevano nessuna voglia di mettere in discussione o più semplicemente di mettere mano alla storia ufficiale e il film naturalmente non si fece».
Parlammo successivamente del Nord Africa e di Paul Bowles ed eravamo d´accordo sul fatto che abitava in uno dei posti più squallidi e tristi che avessimo mai visto. Ma, quando io avevo chiesto allo scrittore perché non fosse andato a abitare nella più confortevole Medina, lui era diventato di colpo gelido: «Alla Medina ci abitano gli antiquari svizzeri». Bernardo si mise a ridere: «In effetti Paul era un tremendo snob, un dandy come se ne incontravano solo negli anni Trenta. Sempre curato nella persona e nei vestiti come se stesse in un ufficio di New York. E tu eri andato a sfruculiarlo su un tema delicato. Era arrivato in Europa al seguito di Harold Copland e poi era andato a stabilirsi a Tangeri su consiglio di Gertrude Stein. Si era sposato con una scrittrice dotata e fino a un certo punto il matrimonio funzionò: lui aveva sposato una lesbica per liberarsi delle donne e lei un omosessuale per liberarsi degli uomini». Nel suo film Il tè nel deserto Bernardo era riuscito a cogliere con esattezza le chiavi di lettura del libro di Bowles: inaudite atrocità svolte in luoghi dove non esisteva nessuna possibilità di aiuto e dove la pietà era sconosciuta, raccontate in modo impersonale, quasi freddo, da anatomo-patologo.
L´intervista a Bernardo era stata preparata come sostitutiva della sua presenza al Festival della Letteratura di Viaggio. Il regista non usciva quasi più di casa e ci aveva dato poche speranze di vederlo alla premiazione al Palazzo delle Esposizioni. Poi quella sera vidi qualcuno che entrava nella sala affollata e buia e si sistemava sotto al palcoscenico. Dopo pochi secondi la luce si accese e gli spettatori si trovarono di fronte Bertolucci seduto su una sedia a rotelle, piuttosto emozionato. Ci fu un attimo di totale silenzio, poi tutti si alzarono battendo le mani. Non per una standing ovation, ma per un affettuosissimo, sentito e anche commovente ringraziamento.

Liberazione 3.10.09
All'Eliseo un dibattito sull'ultimo film di Citto Maselli, impietosa denuncia dei fallimenti di un ceto politico
Le ombre rosse, la sinistra al limite dell'angoscia
di Ettore Lante



"Le ombre rosse" di Citto Maselli non è un film facile. Non dà appigli allo spettatore: non una trama, non una storia convenzionale, non un personaggio in cui immedesimarsi. Non c'è modo di distrarsi. Non c'è un intreccio da sciogliere, né attesa per un finale risolutivo e tantomeno per un deus ex machina . Più che a identificarsi con i protagonisti, il film di Maselli costringe lo spettatore di sinistra a distanziarsi dallo schermo e a guardarsi dall'esterno. Ecco perché la prima volta Le ombre rosse può lasciarti spiazzato, freddo, in stato di anaffettività, al limite dell'angoscia - come hanno ammesso un po' tutti gli ospiti al dibattito organizzato l'altro ieri a Roma, all'Eliseo, dopo la proiezione del film, con la presenza, oltre al regista, del segretario del Prc Paolo Ferrero, Luciana Castellina, Vittorio Agnoletto, Stefano Rodotà, Giulia Rodano, Livia Turco, Vincenzo Vita e il giornalista dell' Unità Bruno Gravagnuolo.
La prima impressione è di trovarsi davanti a un film di "testa", un film cerebrale nel quale personaggi e storie messe in scena contano più per quel che possono significare e rappresentare che non per quel che sono. Una metafora, per l'appunto. Perché se così non fosse, se si scambiasse il lavoro di Maselli per un'inchiesta sociologica sui centri sociali - di cui si narra - ne verrebbe fuori una galleria di personaggi caricaturali. La vicenda che il film tratta è quella di un gruppo di giovani che ha costruito un centro sociale e di un contorno di figure istituzionali (fallimentari) della sinistra radicale al tempo del governo Prodi. Sennonché visti per quel che sono, i personaggi del film ricalcherebbero clichè troppo stilizzati: da un lato, per dirla con le parole di Luciana Castellina, i centri sociali con la loro idea di una sinistra «millenaristica», «religiosa», anche un po' ingenua, e dall'altro, la sinistra istituzionale, attaccata alle poltrone e al successo. Allora sì che avrebbe senso dire come Castellina che «in mezzo a queste due anime, una religiosa, l'altra opportunista, non c'è più niente». Avrebbe senso anche chiedersi come mai «un paese come l'Italia che ha avuto uno dei migliori partiti comunisti al mondo, si trovi oggi a dover scegliere se stare con gli opportunisti o con un gruppo di ragazzi che non si tolgono la canottiera per timore di compromettersi col sistema».
Ma quelli che a prima vista sembrano personaggi ascetici e caricaturali sono piuttosto metafore di un popolo abbandonato a se stesso. Persone che dopo lo scioglimento del Pci hanno trovato uno sbocco nel volontariato, nell'associazionismo, negli stessi centri sociali, magari delusi dalla politica perché inconcludente. Non perché con la politica non abbiano a che fare, «nei centri sociali - dice Paolo Ferrero - non sono millenaristi, anzi dimostrano una capacità di fare politica nel territorio. Nel volontariato trovano una corrispondenza tra il dire e il fare». Il film di Maselli non è un'inchiesta e il "suo" centro sociale vale come uno specchio del popolo della sinistra, di quella base che si sporca ancora le mani con la materialità quotidiana. I ragazzi che organizzano concerti, dormitori per i senzatetto, corsi di italiano per figli di stranieri, incontri e via dicendo sono la metafora di un popolo disperato confinato in un edificio semidiroccato e col quale la sinistra ha perso ogni connessione. Come pure non sono personaggi reali le figure che nel film rappresentano la sinistra radicale in versione governista. L'intellettuale pubblico, l'architetto di successo, la giornalista, il parlamentare sono un campionario di tipi ideali, di caratteri universali della galassia radical-chic. Ma, soprattutto, quel tipo di intellettuale, quel tipo di architetto, quel tipo di giornalista, quel tipo di politico sono metafore, a loro volta, di una sinistra che quando è andata al governo non ha saputo mantenere fede alla parola data. Questo è il colpo allo stomaco di Citto Maselli. Persino quando i personaggi del suo film si muovono in sostegno del centro sociale producono danni. E' una sequenza di fallimenti. Nessuno sfugge, né l'intellettuale che con una citazione di Malraux getta scompiglio nelle trasmissioni televisive, né l'architetto che chiama gli amici di una fondazione privata americana, né la parlamentare che vuole far discutere in aula un disegno di legge sui fondi alla cultura. Tutti insieme sono la prova della debolezza di una sinistra al governo, costretta a scendere a patti con i privati, a mediare, a logorarsi. Le ombre rosse è l'ultimo atto di questa separazione tra politica e società. Così la vede Ferrero. «Io l'ho letto come un film sul governo Prodi. In Rifondazione abbiamo fatto un congresso sul fallimento della nostra partecipazione a quel governo. L'abbiamo detto in tutti i modi. Ma un conto è dirlo, un altro è vederlo. Questo film mette in scena la percezione di massa che si ha oggi della sinistra, di non essere stata capace di mantenere nei fatti le promesse. Siamo in una crisi politica, culturale, morale. Gramsci la chiamerebbe crisi organica. Ma la causa di questa separazione tra politico e sociale sta nel bipolarismo. In Germania la Linke è potuta crescere perché non si è trovata come noi nell'alternativa di allearsi con la sinistra moderata e trovarsi al governo con Mastella o andare da soli ed essere additati come alleati di Berlusconi. Per questo a sinistra la politica si è ridotta al terreno della rappresentanza istituzionale. Il Pci stava nelle istituzioni, certo, ma se aveva due milioni di iscritti è perché stava nei territori, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nell'Arci, nel sindacato. Oggi abbiamo di fronte una questione morale. Il nostro discorso non è credibile perché c'è un divario tra quello che si dice e quello che si fa. Berlinguer è stato profetico. Dovremmo ricostruire il rapporto con la nostra storia passata. Solo così possiamo dire chi siamo».
Di frattura totale parla anche Vittorio Agnoletto. «L'unico ruolo che nel film la sinistra al governo svolge è la mediazione all'interno delle istituzioni. Scompare la presenza sociale. Forse nella scena finale c'è un tentativo di ricominciare dalle fondamenta, però può essere letta anche come la drammatica solitudine di un gruppo di giovani, di un pezzo di società anch'esso spinto da una coazione a ripetere». Le ombre rosse è anche la denuncia impietosa di un ceto politico che ha imboccato la strada della visibilità mediatica, nell'illusione che la presenza in tv potesse sostituire il rapporto con la base, l'organizzazione, il lavoro nei territori, insomma la vecchia funzione dei partiti di massa. «Le risposte virtuali non bastano. Se non siamo in grado di organizzare una risposta popolare non ce la possiamo fare». Per come la vede Stefano Rodotà la crisi politica della sinistra può essere letta come il passaggio da un modello di comunicazione politica fondata sul partito di massa all'illusione di poter «risolvere tutto nella dimensione mediatica. Il tanto vituperato partito di massa novecentesco era un formidabile strumento di partecipazione. Abbiamo buttato quel modello ma non siamo stati capaci di costruirne uno nuovo. Il sistema televisivo oggi si è impadronito della produzione di idee e opinioni. Ci manca una comunicazione nel "caseggiato", la capacità di stare nella società, sul territorio, nelle relazioni. E' illusorio pensare che basti conquistare il mezzo televisivo per vincere le battaglie».

Variety
Italy Enters Tornatore’s Big-Budget Baaria for Oscars
by Anne Thompson


The Italian government’s decision to submit Giuseppe Tornatore’s $35.5 million period epic Baaria for the foreign film Oscar is already kicking up a fuss. 53-year-old Tornatore’s tribute to his Sicilian hometown spans three generations, from the 1930s to the present, from the rise of Fascism through World War II and its aftermath. Among the most expensive Italian films ever made, utilizing 35,000 Tunisian extras, the picture was the first Italian film to open the Venice Film Festival in two decades. Tornatore already won the Oscar in 1998, for Cinema Paradiso. The deadline for countries to submit their films is October 1. IndieWIRE is tracking submissions to date.
“This is an outrage,” asserts one festival programmer, who thinks that Marco Bellocchio’s Vincere, the story of Mussolini’s secret lover and their son, would have made a better choice. (That film was selected by the trifecta of film fests in Telluride, Toronto and New York.) “Evidently political pressures forced the Italians to give it to Tonatorre’s big budget bust. People who saw it in Venice couldn’t believe how bad it was. The selection system needs to change.”
Here’s the lede of Variety’s review:
Overblown in every sense, “Baaria,” Giuseppe Tornatore’s multi-decade evocation of life in the Sicilian town of Bagheria (“Baaria” in the local dialect) boasts large sets and extras by the thousands, but the vet helmer seems to have forgotten how to develop a scene, let alone a character. Awash in phony nostalgia, cheap sentimentalism and puffed-up orchestrations, the pic could lure in locals with an advertising blitz, but offshore prospects don’t look good.