martedì 6 ottobre 2009

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

due pagine tratte da
"Follia e psichiatria" di Michel Foucault (Raffaello Cortina Editore 2006)


M. Foucault: Su questo tema non si potrebbe dire, per esempio, quando si attribuisce la frigidità di una donna (o eventualmente la sessualità di un uomo) al trauma dello stupro, o anche al trauma di un’esperienza ripetuta di esibizionismo, non si può ammettere che si fa svolgere allo stupro il ruolo dell’Edipo nelle psicoanalisi facili?

J.P.Faye: Durante un dibattito alla Shakespeare & Co., Kate Millett ha raccontato pubblicamente che aveva subito un grave stupro a Parigi, uno “stupro psichico”…L’ha descritto molto dettagliatamente: in un caffè, lo stupratore psichico si era seduto al tavolino accanto al suo e, quando lei cambiava caffè, lui la seguiva e le si sedeva di nuovo accanto…
Mi è stato raccontato anche un esempio più inquietante. Una ragazzina di otto anni, stuprata da un giovane bracciante agricolo di ventotto anni, in un fienile. Teme che l’uomo la voglia uccidere, lui le strappa i vestiti. Poi lei ritorna a casa – suo padre fa il medico, è cardiologo, che si interessa anche a Reich: da cui la contraddizione. Vede rincasare la figlia, che non apre più bocca. Resta completamente muta per diversi giorni, ha la febbre. Non dice nulla, nemmeno una parola. Nel giro di qualche giorno, tuttavia, fa vedere che è ferita fisicamente. Il padre cura la lacerazione, sutura la ferita. Medico e reichiano, sporge denuncia? No, si limita a parlare con il bracciante agricolo, prima che lui se ne vada. Non scatta alcuna azione giudiziaria. Parlano – tutto qui. Ma il racconto continua con la descrizione di un’enorme difficoltà psichica a livello della sessualità, più avanti nel tempo. Che è verificabile soltanto quasi dieci anni dopo.
È molto difficile pensare qualcosa a livello giuridico in questo caso. Non è facile a livello della psiche, mentre sembra più semplice a livello del corpo.

M. Foucault: In altre parole, bisogna dare una specificità giuridica all’aggressione fisica nei confronti del sesso? È questo il problema.

J.P. Faye: C’è una lesione che è al tempo stesso fisica, come un pugno sul naso, e insieme anticipa una “lesione psichica” – tra virgolette – forse non irreversibile, ma che sembra molto difficile da misurare. Al livello della responsabilità civile, “misurare il danno” è una questione delicata. Al livello della responsabilità penale, che posizione può prendere un partigiano di Reich? Può presentare una denuncia, intentare un’azione repressiva?

M. Foucault: Ma tutte e due voi, in quanto donne, siete immediatamente urtate dall’idea che si dica: lo stupro rientra nelle violenze fisiche e pertanto deve essere trattato semplicemente come tale.

M. O. Faye: Soprattutto quando riguarda bambini o ragazzine.

D. Cooper: Nel caso di Roman Polanski negli Stati Uniti, in cui si trattava di una questione di sesso orale, anale e vaginale con una ragazza di tredici anni, la ragazza non sembrava traumatizzata, ha telefonato a un’amica per discutere dell’accaduto, ma la sorella ha origliato dietro la porta e così si è messo in moto tutto il processo contro Polanski. In questo caso non c’è una lesione, il “trauma” deriva da “formazioni ideali”, sociali. La ragazza sembra aver tratto godimento dalla sua esperienza.

M. Foucault: Sembra che fosse consenziente. E questo mi porta alla seconda domanda che volevo porvi. Lo stupro può comunque essere definito abbastanza facilmente, non solo come un non-consenso, ma come un rifiuto fisico di accesso. Per contro, tutto il problema che si pone, nel caso delle ragazze ma anche dei ragazzi – perché, legalmente, lo stupro nei confronti dei ragazzi non esiste – è il problema del bambino che viene sedotto. O che comincia a sedurre voi. Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?

D. Cooper: Faccio una digressione: due anni fa in Inghilterra cinque donne sono state condannate – mi sembra con la condizionale – per lo stupro di un uomo. Ma non sarebbe il sogno di molti uomini?

M. Foucault: Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti.

M. O. Faye: Anche i bambini tra di loro, ma su questo si chiudono gli occhi. Quando un adulto entra in gioco, però, non c’è più uguaglianza e equilibrio tra le scoperte e le responsabilità. C’è una disuguaglianza… difficile da definire.

M. Foucault: Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia. Ma una cosa mi ha colpito ieri, quando ne ho parlato con alcuni membri del Sindacato della magistratura. Uno di loro aveva delle posizioni davvero radicali, lo stesso che sosteneva che lo stupro non dovesse essere penalizzato in quanto stupro, dato che è semplicemente una violenza. Inizialmente, anche a proposito dei bambini ha preso una posizione molto radicale. Ma a un certo punto, è sobbalzato, e ha esclamato: devo dire, però, che se vedessi qualcuno fare sesso con i miei figli!
Inoltre, esiste anche il caso dell’adulto che è in un rapporto di autorità rispetto al bambino. Sia come genitore, sia come tutore, oppure come professore, come medico. Anche qui si sarebbe tentati di dire: non è vero che da un bambino si può ottenere ciò che non vuole veramente, attraverso l’effetto dell’autorità. Tuttavia, il problema dei genitori è considerevole, soprattutto quello del patrigno, che è piuttosto frequente.

Foucault Michel, Follia e psichiatria, Raffaello Cortina, 2006 (pp. 219-221)3
da Wikipedia:
Mario Mieli (da cui prende nome il Circolo di cultura omosessuale di Roma)


Mario Mieli (1952-1983) è considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale/ transgender in Italia.
“Fu uno dei primi a contestare le categorie di genere vestendosi sempre al femminile; coprofago senza vergogna, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili.”
A lui è dedicato il Circolo di cultura omosessuale di Roma, fondato nell’anno del suo suicidio.
“L'assunto di fondo del pensiero di Mario Mieli consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente bisessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che (attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione"), costringe a considerare l'eterosessualità come "normalità" e tutto il resto come perversione. ...
Mieli abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale.
Tim Dean, psicoanalista dell’Università di Buffalo, il quale ha redatto l'appendice dell'edizione Feltrinelli del libro di Mieli, Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società (...) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (...) In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».
A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».
I bambini, secondo quello che sembra il pensiero di Mieli, possono però "liberarsi" e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie agli adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».
Mario Mieli si rifaceva alle teorie di Freud sulla sessualità infantile. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione".
Conseguentemente eterosessualità ed omosessualità sarebbero varianti possibili (l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, considera l'omosessualità come "una variante naturale della sessualità umana").
Anche e soprattutto in questo senso Mario Mieli invoca l'amore per i bambini."

Corriere della Sera 6.10.09
Prevista un’autodichiarazione e l’indicazione di un fiduciario
Firenze, sì al biotestamento La Curia: un atto illegittimo
Via al registro, il Pd si divide. E il sindaco Renzi lascia l’aula
di Marco Gasperetti

FIRENZE — Il consiglio co­munale approva una delibera (presentata dal Pd, partito di maggioranza) che istituisce il registro dei testamenti biologi­ci ancor prima di una legge na­zionale e a Palazzo Vecchio scoppia la polemica. Tre consi­glieri del Pd votano contro e di fatto si schierano con l’opposi­zione di centrodestra e il sinda­co, Matteo Renzi, decide di non partecipare ai lavori del­l’assemblea e di non rilasciare dichiarazioni.
A rendere ancora più esplo­siva la vicenda arriva in serata una nota durissima dall’Arci­diocesi, dunque espressione di­retta dell’arcivescovo Giusep­pe Betori, nella quale non solo si boccia il provvedimento, ma si esprimono «rammarico e preoccupazione per la decisio­ne ».
È la seconda volta che la cu­ria fiorentina interviene su de­cisioni del consiglio comuna­le. Un analogo documento di dissenso fu presentato all’indo­mani della concessione della cittadinanza onoraria a Beppi­no Englaro, il papà di Eluana.
La delibera, presentata ieri dalla consigliera del Pd Clau­dia Livi, garantisce la possibili­tà di indicare in un apposito re­gistro indicazione del notaio, del fiduciario o del depositario dell’eventuale biotestamento (per certificare a quale cura de­ve essere sottoposto in caso di impossibilità a farlo personal­mente) per garantire la certez­za della data di presentazione e la fonte di provenienza.
Ieri a Palazzo Vecchio, nel Sa­lone dei Duecento, hanno vota­to 44 consiglieri: 26 a favore, 18 contrari. Tra i favorevoli i consiglieri della maggioranza, con tre defezioni importanti: il vicepresidente dell’assemblea Salvatore Scino, Massimo Frati­ni e Antonio De Crescenzo tut­ti del Pd. Compatta nel votare no l’opposizione che prima del dibattito aveva chiesto di rin­viare il voto per aspettare i ri­sultati della legge nazionale sul testamento biologico che andrà in Parlamento a novem­bre.
Poi, in serata, la nota di dis­senso totale della curia arcive­scovile. Che giudica la deli­bera approvata in consi­glio un «atto ideologico, illegittimo e privo di effi­cacia giuridica, essendo la materia nell’esclusiva competenza del legisla­tore nazionale». E poi «deplora l’indebita e ten­denziosa confusione ter­minologica tra dichiarazio­ni anticipate di trattamento e testamento biologico, l’in­fondatezza di ritenere alimen­tazione ed idratazione artificia­li atti di natura terapeutica, l’evidente cancellazione di fat­to del ruolo del medico che emerge dalla delibera».
Nello stesso documento l’Ar­cidiocesi stigmatizza il compor­tamento di alcuni politici che si definiscono cattolici che non hanno percepito «come in un caso come questo ricorres­sero quelle condizioni di coe­renza con i valori fondamenta­li della visione antropologica il­luminata dal Vangelo che ri­chiedono ossequio all’insegna­mento del Magistero». Dun­que l’Arcidiocesi boccia senza appello il provvedimento di Pa­lazzo Vecchio. «Ancora un vol­ta — si legge nella nota — Fi­renze si trova ad essere ridotta a strumento di fughe ideologi­che tese a condizionare il legi­slatore nazionale, senza alcun reale vantaggio per la città, of­frendo nuovi pretesti di divi­sione, non rispettando la sensi­bilità di non pochi dei suoi cit­tadini ». Qualche imbarazzo tra i cat­tolici del Pd. Ma anche rispo­ste alla curia decise e convinte. Come quella della consigliera Caterina Bitti: «Ho votato a fa­vore di un atto amministrati­vo, non un documento con im­posizioni morali. E l’ho fatto in totale coscienza per garantire quei cittadini che vogliono re­digere il testamento biologi­co ».

Corriere della Sera 6.10.09
In programma il primo «Festival dei matti» e un dibattito sulla «salute mentale»
Venezia e Milano, la parola alla follia
di Cristina Taglietti

A Venezia (ma anche a Milano) arriva­no i folli. Non poteva che tenersi nel­la città natale di Franco Basaglia, il padre della legge 180 che trent’anni fa chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il primo «Festival dei matti». Numero zero concentrato in due giorni, prove tecniche per una possi­bile rassegna futura, il festival è un’inizia­tiva coraggiosa intrapresa dalla cooperati­va Con-Tatto guidata da tre tenacissime donne venete, la psicoterapeuta Anna Po­ma, la psicologa Laura Barozzi e l’opera­trice socio-culturale Alessia Vergolani e sostenuta dall’assessorato alla cultura del­la giunta Cacciari. La follia, a lungo rele­gata oltre i confini della città («perché la cultura occidentale — si chiedeva Michel Foucault ne La storia della follia — ha af­fermato con chiarezza che la follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e palli­do ove era come annullata?») viene ripor­tata in piazza, con incontri, discussioni, spettacoli.
Ad inaugurare il festival sarà una conver­sazione tra il filosofo Umberto Galimberti e lo psichiatra Franco Rotelli, già collabora­tore di Basaglia a Parma e Trieste (venerdì al teatro Goldoni, ore 19) a cui seguirà (alle 21) un incontro tra Elio delle Storie Tese, Carlo Antonelli e Massimo Cirri sul tema «la normalità presa in contropiede». Il giorno successivo (libreria Mondadori, ore 10.30) Alice Banfi, presenterà il suo li­bro Tanto scappo lo stesso mentre alle 21 andrà in scena in anteprima nazionale il te­sto della stessa Maraini, Stravaganza , in­terpretato dagli attori dell’Accademia del­la Follia, ex pazienti psichiatrici.
I trent’anni della legge Basaglia offro­no lo spunto di partenza anche all’incon­tro «La salute mentale», organizzato dal­la fondazione Corriere della Sera (doma­ni ore 18, Sala Buzzati, via Balzan 3). Sarà Claudio Magris (che ai successi e alle la­cune della legge ha dedicato un lungo e appassionato articolo sul «Corriere» qual­che mese fa) ad introdurre un dibattito cui parteciperanno, oltre a Franco Rotelli e Massimo Cirri, anche Carlo Ciccioli, vi­cepresidente della commissione Affari sociali e Sanità della Camera e Nadia Ma­rangi, presidente dell’associazione Il gab­biano di Martina Franca. Un modo per an­dare, come diceva Basaglia, al di là della «follia istituzionale» e riconoscerla «là dove essa ha origine, cioè nella vita».

Corriere della Sera 6.10.09
Risponde Sergio Romano
1929, Palazzo del Laterano, la chiesa riconosce lo Stato

Vorrei la sua opinione sulle scelte compiute dalla Chiesa nel periodo tra gli anni ’20 e ’60 del secolo scorso. Molte polemiche ha suscitato il comportamento di Pio XII di fronte alle leggi razziali e alla discesa in guerra dell’Italia a fianco del nazismo. Ma non è stato sufficientemente chiaro il giudizio sulla firma dei Patti Lateranensi del 1929.
Quell’accordo risolse senza dubbio numerosi problemi a Pio XI e Mussolini, ma rappresentò anche l’avallo ufficiale della Chiesa al regime fascista e alla sua politica liberticida. Non a caso la simbiosi tra Chiesa e dittatura è rimasta fiorente fino agli anni ’60 in molti Paesi di fede cattolica in Europa e America Latina. Una convivenza pragmatica, ma poco etica simile a quanto avvenne nello stesso periodo con la mafia siciliana, ma questa è tutta un’altra storia.
Angelo Tirelli

Caro Tirelli,
Occorre fare un passo in­dietro. Negli anni decisi­vi dell’unità nazionale, dalla proclamazione del Regno alla presa di Roma, la Chiesa ri­fiutò di riconoscere lo Stato ita­liano e di accettare la perdita del potere temporale. Fu una posizione di principio, dettata dalla convinzione che il Pie­monte avesse violato i sacro­santi diritti della Chiesa roma­na. Ma fu anche una posizione politica, suggerita dalla convin­zione che il nuovo Stato non avrebbe retto alla prova del tempo. Per alcuni decenni, si­no agli inizi del Novecento, la Santa Sede continuò ad atten­dere la crisi internazionale o na­zionale che avrebbe provocato il collasso dell’«usurpatore».
Il suo atteggiamento comin­ciò a cambiare nei primi anni del Novecento quando la curia romana si accorse, soprattutto all’epoca della guerra di Libia, che un certo patriottismo si era diffuso nel Paese e che esisteva ormai un clero nazionale deci­so a collaborare con le pubbli­che istituzioni per esercitare al meglio le sue funzioni pastora­li.
Un primo segno di cambia­mento fu il consiglio di Pio X agli elettori cattolici nel 1904: «Fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza». Ma il fattore decisivo fu la Grande Guerra, quando la Chiesa comprese che soltanto il possesso di un territorio, sia pure piccolo, le avrebbe consentito di mantene­re i rapporti internazionali ne­cessari alla sua missione e alla sua esistenza. I primi contatti con il governo italiano ebbero luogo a Parigi, durante la confe­renza della Pace, con Vittorio Emanuele Orlando, allora presi­dente del Consiglio, e furono interrotti soltanto dalle turbo­lenze politiche degli anni se­guenti. Ma vennero ripresi do­po l’arrivo di Mussolini al pote­re nell’ottobre del 1922 per con­cludersi nel febbraio del 1929.
I Patti Lateranensi, quindi, furono uno storico trattato di pace fra due entità che si erano sino a quel momento guardate in cagnesco. La Chiesa riconob­be l’esistenza dello Stato italia­no e questi riconobbe l’esisten­za, all’interno del suo territo­rio, di un micro Stato in cui il Papa avrebbe esercitato ciò che ancora restava del suo antico potere temporale; mentre il Concordato fu il trattato con cui questi due soggetti politici, destinati a vivere come fratelli siamesi, fissarono le regole del­la loro convivenza. La Chiesa quindi non riconobbe il fasci­smo, anche se il regime, in quel momento, dovette sem­brarle meglio di qualsiasi altra realistica prospettiva. Riconob­be lo Stato italiano.

Repubblica 6.10.09
Socialdemocrazia e Europa
di Mario Pirani

È il tramonto definitivo dell´era socialdemocratica, senza speranza di nuove aurore, oppure si giustifica l´attesa che il pendolo torni a sinistra? La domanda va posta, senza addolcirla con cure palliative. A darle senso sta la dimensione continentale e non nazionale del rovescio. Sono semi diroccati o stanno per esserlo i pilastri europei della socialdemocrazia, quelli che non erano mai stati inquinati dalla ascendenza comunista, come, invece, i riformisti italiani, o da uno schematismo vetero marxista, come i socialisti francesi.
No, qui si parla proprio di quei partiti che si erano contrapposti, con un´altra visione del mondo, all´utopia comunista e avevano saputo edificare quella economia sociale di mercato, su cui si è retto per tre quarti di secolo il benessere diffuso, principalmente attraverso un Welfare allargato alle grandi maggioranze, dell´Europa moderna. Prima è caduta la Svezia, dove la socialdemocrazia è stata condannata all´opposizione dopo aver garantito conquiste ineguagliabili, invidiate in tutto il mondo industrializzato. Oggi è la volta della Germania, dove il più antico partito operaio, nato nell´Ottocento, aveva saputo rifondarsi a Bad Godesberg nel 1959, mandando in soffitta non solo il marxismo ma ogni radicalismo pseudo rivoluzionario e offrendo, così, l´impianto teorico del socialismo riformista europeo. Per un domani prossimo venturo è data, infine, ormai per certa una sconfitta epocale del Labour, un partito che nel dopoguerra aveva aperto la strada ai nuovi diritti per tutti i cittadini, col piano Beveridge e il Servizio sanitario pubblico e che, con Blair, sul finire degli anni Novanta, aveva accantonato ogni radicalismo sindacale per saldare una alleanza coi ceti medi, che sembrava dover sfidare la svolta del nuovo secolo.
Così non è stato e la sconfitta getta un´ombra lunga proprio su quella sinistra che si era rivelata più matura alla prova del governo. E allora? Quali errori gravi ha commesso per meritare una così amara lezione? Può sembrare un paradosso affermare che se il problema fosse l´individuazione degli sbagli compiuti, allora anche la terapia per la rimonta non apparirebbe tanto ardua e incerta. Neanche le spiegazioni sociologiche soddisfano appieno. Quelle, ad esempio, sulla scomparsa dell´humus fondativo del socialismo riformista, sulla fine della catena di montaggio, sostituita dall´economia informatica, sul decadere, di conseguenza, del ruolo preminente della classe operaia. Queste sono al più crepe attraverso cui è passata l´alluvione. Anzi, per restare nell´ambito dell´analogia, si trattava dei segni anticipatori di un terremoto devastante. Ma si può far colpa agli uomini, e in ispecie ai socialisti in quanto vocati alla protezione civile del mondo del lavoro, se si è verificato un sisma di 12 gradi della scala Mercalli? Questo è quel che è avvenuto. Con la globalizzazione, un moto tellurico, da nessuno previsto in anticipo, quando si immaginava lo sviluppo di quello che si chiamava il Terzo mondo come un processo lento e problematico. E, invece, in pochi decenni centinaia di milioni di contadini e proletari cinesi, coreani, indiani, brasiliani, indonesiani si sono ritrovati operai e chi non ce l´ha fatta preme, anche a rischio della vita, alle frontiere del mondo dei ricchi. Migliaia di nuove fabbriche, spaventosamente concorrenziali, sono sorte in paesi, ieri lontani ma nel mondo d´oggi a tiro di computer; i capitali si sono spostati e si spostano in tempo reale, come la comunicazione. La concorrenza si è fatta spietata e senza sconti. A soffrirne per prima le conseguenze è stata l´Europa, ben più benestante rispetto al resto del mondo, ben più protetta dall´ombrello di un Welfare costoso ma giudicato pur sempre insufficiente da chi ne godeva e ne gode. Un´Europa, adusa, in un´ottica essenzialmente atlantica, a confrontarsi soprattutto con l´America che, peraltro, con il suo deficit, alimentava anche la nostra crescita. Le socialdemocrazie al governo hanno affrontato la tempesta crescente come hanno sempre fatto i capitani di lungo corso, quando le ondate rischiano di far colare a picco la nave: gettando a mare una parte, quella non indispensabile del carico, cercando di salvare il salvabile e di non perdere il vascello. Di qui le riforme di Schroeder, quando era Cancelliere o di Blair e anche di Prodi, se vogliamo accennare all´Italia. Sol che le riforme storiche di un tempo davano sempre qualcosa o anche molto in più di prima, incrementavano il lavoro e il reddito, la protezione e la sicurezza; le riforme di oggi sono sinonimo di tagli e decurtazioni, indispensabili quanto dolorose, e danno sempre qualcosa in meno. Per salvare il futuro si è penalizzato necessariamente il presente. A pagare il conto sono state in primo luogo le classi sociali che avevano nel socialismo riformista il loro polo di riferimento politico.
In parallelo questo viluppo contraddittorio si è intersecato con l´unica, grande iniziativa che l´Europa dei partiti riformisti, essenzialmente socialisti e cristiani, ha saputo prendere, la creazione dell´euro. La sola, straordinaria innovazione dirompente per rispondere alla globalizzazione, che ci ha consentito di reggere alla prova della grande crisi, salvandoci da una devastazione monetaria, altrimenti inevitabile. Solo che lo sforzo e lo slancio europeo, dopo la moneta unica, si è affievolito, fin quasi a sparire. Come quegli atleti di fondo che sembra stiano vincendo e crollano all´ultimo chilometro. Occorreva, per contro, riprendere le idee del socialista Jacques Delors, mai abbastanza rimpianto presidente della Commissione di Bruxelles, per un grande piano integrato di rilancio economico. Così nella percezione dei più, i vantaggi della moneta europea sono passati in secondo piano, di fronte alla evidenza che con uno stipendio di un milione al mese, arrivavano a cavarsela, con 500 euro sono alla miseria; e anche 1000 euro sono ben lontani da due milioni. In questo quadro d´assieme i flussi del consenso politico, anche quelli che correvano in alvei consolidati da una tradizione di appartenenza, hanno preso vie di fuga, magari calamitati da offerte demagogiche ma alla apparenza salvifiche, a destra e a sinistra. La socialdemocrazia ne sta uscendo devastata e amputata della sua ala sinistra. Il dato più simbolico sta in quel 12% di Die Linke, il partito che in Germania raccoglie gli eredi del comunismo dell´Est. Sono passati appena vent´anni da quando i tedeschi distrussero quel Muro, costato la vita a tanti loro concittadini che avevano cercato di oltrepassarlo. Oggi sembra che quegli stessi che anelavano alla libertà, abbiano la nostalgia di un nuovo Muro che li preservi dalla globalizzazione. In Italia Berlusconi, saldamente ancorato alla Lega, rassicura i suoi elettori con un anti europeismo intermittente quanto furbo: a suo tempo ce l´aveva con l´euro, oggi attua i respingimenti in mare ma accusa Bruxelles di varie nefandezze, e «salva» l´Alitalia dall´assalto francese mentre Tremonti mette sul banco d´accusa la finanza internazionale e vorrebbe alzare una anti Muraglia al confine cinese. Ma le cose italiane sono ormai cose di terzo piano, viste su scala mondiale. Il panorama è cambiato. Con la socialdemocrazia è anche l´Europa, in parallelo non casuale, che arretra. Il G8 lascia il passo al G20, al Fondo monetario, il peso europeo è decurtato per dare spazio e portare in parità le nuove, grandi potenze emergenti, la Cina, l´India, il Brasile. Resta da spendere una parola, perché da qui eravamo partiti, sull´incerto futuro della socialdemocrazia: si può immaginare che la tentazione sarà di spostarsi verso la sinistra radicale. Potrà così rialzare il vessillo di un tempo che fu, ma sugli isolati spalti di una ridotta minoritaria; se invece resterà in campo, pur pesta e ferita, potrà puntare le sue residue carte su un rilancio forte dell´Europa. All´Europa, magari solo a quella dell´euro, è, infatti, indissolubilmente legato il suo destino. O ripartono assieme o per l´una e l´altra il futuro sarà per sempre alle spalle.

Repubblica 6.10.09
Gridare al golpe
di Giuseppe D'Avanzo

Leggete con attenzione queste parole. Le diffondono nel primo pomeriggio i presidenti del gruppo del Popolo della Libertà alla Camera e al Senato, come dire la maggioranza politica che governa il Paese. Due i presidenti e due i vicari. Si chiamano Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino. Ricordate questi nomi ché parlano e gridano come oche in Campidoglio nel nostro interesse, a difesa della nostra democrazia. Ecco che cosa dicono e di che cosa, preoccupatissimi, avvertono gli italiani: «Mentre il governo Berlusconi affronta la realizzazione degli impegni assunti con gli elettori, si tenta di delegittimarne l´azione. Siamo certi che questo disegno non troverà spazio nelle istituzioni. Gli attacchi ci portano ad assicurare che in Parlamento, così come nel Paese, il centro destra proseguirà la politica del fare e del governare che nessun disegno eversivo potrà sconfiggere». Disegno eversivo, addirittura. Bisogna drizzare le antenne, essere vigili, accidenti. Accade qualcosa di imprevisto, inimmaginabile e potenzialmente pericoloso e noi che ce ne stiamo qui, sciocchini, a pensare che il Tg1 di Augusto Minzolini sia una sventura per l´informazione e l´opinione pubblica.
La faccenda deve essere terribilmente seria se una maggioranza forte di sovrabbondanti numeri parlamentari, sicura nel consenso popolare e gratificata dall´obbedienza di un establishment gregario perché fragile, decide di lanciare un allarme di questo genere. Disegno eversivo. Viene da immaginare che le forze armate (chi? l´Arma dei carabinieri? l´Esercito? l´Aeronautica o la Marina?) fanno sentire un minaccioso ukase nel Palazzi del governo, sul collo dei ministri il peso della sciabola. O che truppe armate (russe, tedesche?) si preparano a violare i confini nazionali con la complicità di traditori della Patria o formazioni rivoluzionarie stiano guadagnando dai monti le vie che portano a Roma, alla Capitale. Viene in mente, in questo pomeriggio nero, che già al mattino il Brighella che dirige il giornale del capo del governo, ci ha avvertito: c´è un golpe in atto, e noi - maledetti - che non lo avevamo preso su serio, come sempre.
Golpe, disegno eversivo. Che diavolo accade, che cosa non abbiamo visto, intuito, compreso? Deve essere proprio vero che l´Italia è in pericolo come mai, se anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, l´Egoarca, proprio lui, dice: «Sappiano comunque tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale e non c´è nulla che possa farci tradire il mandato che gli italiani ci hanno conferito». L´uomo che comanda tutto vuole dirci - sia benedetto - che non mollerà, che qualcuno vuole levarselo di torno con mezzucci illeciti e antidemocratici, addirittura con la violenza, ma lui - statista tutto d´un pezzo - non gliela darà vinta. L´affare è serio, non c´è dubbio. Interviene anche l´amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani (e non è questo un segno che la democrazia è in pericolo?) per avvertire che «si vuole colpire Silvio Berlusconi». Conviene svegliarsi, mettersi al lavoro e cercare di capire che cosa minaccia l´Italia, la democrazia, il governo legittimamente eletto dal voto popolare. I quattro dell´apocalisse che dirigono in Parlamento il Popolo della Libertà offrono una traccia: «I contenuti di una sentenza che arriva venti anni dai fatti rafforza l´opinione di quanti pensano che si sta tentando con mezzi impropri di contrastare la volontà democratica del popolo italiano». È una sentenza allora la minaccia per la democrazia? Sì, dice l´Egoarca «allibito»: «È una sentenza al di là del bene e del male, è certamente una enormità giuridica». Sì, dice il boss della squadra rossonera: «È assurdo ipotizzare che vi siano stati comportamenti men che corretti di Fininvest e Berlusconi».
Che cosa avrà mai deliberato questa sentenza? Il carcere per l´Egoarca? Il suo esilio dal Paese che governa? L´interdizione dal pubblico ufficio cui lo hanno chiamato gli italiani? Leggere la sentenza, allora, per capire chi sono i golpisti, dove si nasconde la minaccia per la nostra democrazia. Prima sorpresa. È una sentenza civile e si tira un sospiro di sollievo perché le motivazioni di un giudice monocratico, appellabili e dunque soltanto primo momento di una controversia tra due soggetti privati (Berlusconi, De Benedetti), non può rappresentare un rischio né per la democrazia né per il governo. Che c´entra il disegno eversivo? Come può essere quella decisione - peraltro non definitiva - addirittura un golpe? E che diavolo ci sarà mai scritto in quella motivazione di 146 pagine che lascia «allibito» l´uomo che comanda tutto? Di Berlusconi si parla in quattro pagine, 119/122. Quel che si legge, lo si può riassumere in pochi punti.
1. Berlusconi fino al 29 gennaio 1994 è stato presidente del consiglio di amministrazione della Fininvest. Indiscutibile, come è indiscutibile che a quella data non era né capo partito né parlamentare né capo del governo. Era soltanto un imprenditore che cura i suoi affari. Come li cura, lo si legge al punto due.
2. Un suo avvocato - suo, di Berlusconi - corrompe il giudice per manipolare una sentenza che consente alla Fininvest di acquisire la Mondadori. L´incarico all´avvocato corruttore lo assegna Berlusconi?
3. Berlusconi, per certi inghippi legislativi che qui è inutile ricordare, deve rispondere non di corruzione in atti giudiziari, ma di corruzione semplice. I giudici decidono di concedergli le attenuanti (è diventato presidente del Consiglio e sembra tenere la retta via: merita riguardo) e, fatti due conti, concludono di «non doversi procedere» contro Berlusconi: «Il reato è estinto per intervenuta prescrizione».
4. Berlusconi non ci sta. Vuole il «proscioglimento nel merito». Chiede che si dica: è innocente. La Cassazione gli dà torto: no, se guardiamo le prove che abbiamo sotto gli occhi, non c´è alcuna evidenza della tua innocenza. Ora, Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Non lo fa. Si accontenta di essere il «privato corruttore» che, con la complicità dell´avvocato, ha comprato la sentenza.
5. Ragiona ora il giudice civile. È dimostrato che i soldi della corruzione provengono da conti della Fininvest, dove è apicale la posizione di Berlusconi. È «normale» e «ordinario» credere che un bonifico di quella entità (3 miliardi), utilizzato per la corruzione, possa essere inoltrato solo se chi presiede alla compagine sociale l´autorizzi. Questa prova si chiama presuntiva e il giudice scrive: «La prova per presunzioni nel processo civile ha la stessa dignità della prova diretta» e giù - nelle motivazioni - sentenze delle Sezioni unite della Cassazione. Conclude il giudice: «Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva». Ha ragione o torto, lo si vedrà con il tempo.
Questi i fatti e le parole che coinvolgono Berlusconi, uomo di affari che cede all´imbroglio per averla vinta, nella sentenza che condanna la Fininvest a un risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. Ora non si comprende come l´accertamento di ragioni giuridiche tra due privati e la decisione di un giudice possano compromettere la nostra democrazia e far gridare al golpe. Soprattutto perché sono soltanto privatissimi fatti loro - di Berlusconi e De Benedetti - e non nostri.
Non c´è alcun interesse pubblico in questa storia. Di pubblico ci deve essere soltanto la preoccupazione di chi vede trasformare gli affari dell´Egoarca, condotti negli anni precedenti all´avventura politica con metodi malfamati - in questione politica. Di pubblico ci deve essere soltanto l´allarmata conferma che Berlusconi trasfigura in affare nazionale i suoi affari privati con un´ostinazione che, da un lato, gli impedisce di governare con credibilità e, dall´altro, gli consente di sovrapporre la sua sorte personale al destino del Paese. Come se l´Italia fosse Berlusconi e la sua ricchezza, il suo portafoglio fossero la nostra ricchezza e il nostro portafoglio. Questa sciocchezza la possono riferire i quattro corifei dell´Egoarca, che non temono il ridicolo, o scrivere i Brighella dell´informazione di regime, che ha quotidiana confidenza con la menzogna, ma a chiunque è chiaro che il grido contro l´inesistente disegno eversivo è soltanto l´ultimo abuso di potere di un capo di governo che crede di essere il proprietario del Paese.

Repubblica 6.10.09
Niente condom, siamo teenager tre su quattro non lo usano mai
di Maria Novella De Luca

Noia, ignoranza, indifferenza. Dimenticati gli anni dell´emergenza Aids oggi gli adolescenti italiani fanno sesso in modo sempre meno sicuro E i ginecologi lanciano l´allarme: in aumento malattie e aborti

Dicono che usarli è difficile, complicato, poco sexy. Spiegano che l´amore va colto, preso dove e quando arriva, se ci si può "proteggere" meglio, altrimenti pazienza, cercheremo di stare attenti. Aids, condom, contraccezione, gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili: per i teenager l´alfabeto della sessualità sicura è un mondo sconosciuto. A leggere i loro blog viene un tuffo al cuore. La sessualità è precoce, esibita, al centro dei pensieri e delle parole, ma poi viene vissuta senza rete, come se l´Hiv non fosse più una minaccia, come se restare incinte a quindici-sedici anni non fosse un evento sconvolgente, come se la realtà fosse una condizione del tutto virtuale. Gli ultimi dati sull´uso della contraccezione tra gli adolescenti diffusi dalla Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia, non lasciano spazio a dubbi: tre giovani su quattro non usano alcuna protezione durante i rapporti sessuali, perché il «partner è contrario» (22%), o perché non li hanno «a portata di mano». Risultato: un netto aumento di malattie sessualmente trasmissibili, una recrudescenza dei casi di Aids, una crescita, seppure contenuta, degli aborti tra le minorenni. E quando proprio va male si bussa alla porta del consultorio per la pillola del giorno dopo.
Dietro questo disastro c´è il silenzio. E una generazione cresciuta nell´incertezza. Da quasi un decennio infatti le campagne sulla contraccezione sono scomparse dai media e dalle priorità del ministero della Salute. Chi oggi ha tra i tredici e i diciassette anni non ha vissuto gli anni dell´emergenza legata all´Hiv, da cui erano scaturite stagioni di informazione capillare e battente sulla sessualità sicura, con una conseguente diffusione dell´uso del preservativo. Nello stesso tempo sono soltanto una minoranza le teenager che si rivolgono ai consultori per essere guidate all´uso della pillola. Infatti, confermano i dati della Sigo, «solo lo 0,3% delle adolescenti italiane ha una buona educazione sessuale, il 26,5% ce l´ha appena sufficiente, il 72,9% decisamente scarsa».
Una "ignoranza" che si sposa però con l´identikit di questa generazione dell´incertezza. Spiega Paola Gaetano, docente all´Istituto di Psicologia e Psicoterapia cognitiva post-razionalista di Roma: «È come se tra i giovanissimi ci fosse un´incapacità di pensare alle conseguenze, un senso di irrealtà e di sfida, quasi gli fosse sfuggito di mano il senso di programmare il destino... Non importa ciò che accadrà domani, oggi si deve vivere l´emozione. E questo modo di pensare si riflette sulla sessualità, che non deve essere in alcun modo programmata o protetta: è l´attimo che si deve cogliere, accada quel che accada. Quando poi le conseguenze si manifestano è una tragedia, perché ci troviamo di fronte a giovani del tutto impreparati ad affrontare la realtà. Né d´altro canto i genitori riescono a trasmettere ai loro figli il concetto che ogni azione ha una reazione. Ossia un senso di futuro. Così i giovani cercano di prendere tutto e subito, bruciando magari emozioni ed esperienze».
Scrive Giada, sedici anni, nel suo blog di "vita vissuta". «Faccio sesso spesso e quasi sempre con il mio ragazzo. A volte in casa, a volte dove si può. È un´esperienza forte, ogni volta è diverso. Non usiamo niente, ci fermiamo a metà. Finora è andata bene, ma ho paura. A lui non lo dico però, non voglio rovinare tutto...».

Repubblica 6.10.09
Quanto lavoro per costruire il desiderio
di Roberta Giommi

Le persone che si consultano con un sessuologo spesso distinguono tra il sesso che nasce da un impulso spontaneo e che funziona automaticamente dal sesso che si determina in seguito alla costruzione di situazioni.
L´idea di fondo è che pensarci, organizzare, costruire, sia la dimostrazione della fine del desiderio.
Questa è la prima cosa che nel corso del colloquio con il terapeuta deve essere smontata. Perché costruire il piacere non vuole dire mettere in moto strane macchine da guerra, ma soltanto facilitare condizioni positive e importanti.
Elenchiamone alcune: passare dal corpo dello stress che si costruisce nella vita sociale al corpo sensoriale;
depositarela stanchezza del giorno e lasciare che la testa si rilassi;
fare piccole cose che ci piacciono e che ci fanno abbassare le difese.
Il nostro corpo può deporre l´armatura attraverso la respirazione e il benessere del bagno, del cibo, del contatto fisico, del massaggio. Questi semplici accorgimenti possono aprire al desiderio sessuale.
Ma l´altro elemento importante è la relazione: ridere, fare cose insieme, non avere o non attivare conflitti, permette alla chimica delle emozioni di entrare in gioco.
Il sesso non può essere dato per scontato. La regola d´oro
è quella di renderlo piacevole. In modo che si produca il desiderio di farlo di nuovo.

Repubblica 6.10.09
Un italiano su tre vittima di ansie
di Claudia Caputi

Dall'insonnia all'ipertensione, dall'ansia alla depressione, dalle sindromi autoimmuni alla stanchezza cronica, dalle rigidità muscolari alle malattie cardiovascolari: lo stress è ormai riconosciuto come la causa di molti disturbi e come fattore di rischio per molte malattie. C'è un interesse crescente da parte di ricercatori, medici e istituzioni per questo stato di malessere provocato da una serie di fattori "stressogeni" che vengono ricondotti a eventi traumatici, ambientali, cognitivi e agli stili di vita: una relazione tra stimoli esterni e reazione interna dell'organismo cui ognuno risponde in maniera diversa e che, anche a seconda della predisposizione personale, può degenerare in importanti patologie. Lo sottolinea l'Aisic, l'Associazione Italiana Stress e Invecchiamento Cellulare che al tema "Stress, Salute, Malattia" dedicherà il prossimo congresso, che si terrà a Roma il 23 e 24 ottobre, dove specialisti di varie discipline si confronteranno sui risultati degli studi più recenti in materia. A leggere i dati evidenziati dall'Aisic, si direbbe che gli italiani siano un popolo di stressati: è ansioso un cittadino su tre, uno su cinque si rivolge allo psichiatra, 12 milioni e mezzo di italiani fa uso di ansiolitici, aumenta la depressione tra i più giovani, i disturbi del sonno riguardano il 14% della popolazione, aumenta l'ipertensione da stress ed è in aumento lo stress cronico. E cresce, ovviamente, anche la spesa sanitaria per malattie correlate allo stress. «È necessario ripensare il rapporto medico-paziente», sottolinea la presidente dell'Aisic, Cinzia De Vendictis, specialista in anestesia e rianimazione e in medicina integrata, «molti incidenti, errori, molti decessi potrebbero essere evitati se solo si riportasse la persona, e non la malattia, al centro dell'attenzione».

Repubblica 6.10.09
A lezione dagli sciamani d´Africa
di Filippo Tosatto

Corpo e psiche. Demoni e ombre Da Senegal e Mali guaritori in tour Per confrontarsi su un nemico comune: il male
"La malattia spezza l´armonia non solo dell´organismo ma dell´intera comunità"

PADOVA. Entrano nell´aula magna dell´università sfoggiando lunghe vesti colorate: nove uomini e una donna, tutti guaritori africani arrivati dal Mali e dal Senegal. Nessun intento folcloristico, però, da parte dell´ateneo di Padova che li ha invitati: «Un´occasione di incontro e dialogo tra medicina tradizionale africana e medicina convenzionale occidentale», la definisce la psicologa Silvia Failli coordinatrice del progetto ImmaginAfrica, e un riconoscimento istituzionale a operatori collaudati che lavorano, con successo, nell´ambito della fitoterapia e della psichiatria.
Rivolto un corale «aga poo» (bentrovati) agli ospiti veneti, gli sciamani d´Africa hanno illustrato metodi, limiti e obiettivi del loro sapere antico. Che coltiva un approccio "olistico" al paziente e alla malattia, mirato più che a curare il sintomo a prendersi cura dell´individuo sia nel suo male fisico o psichico che nell´equilibrio - o nella disarmonia - all´interno del villaggio, della comunità tribale e della famiglia. Insomma, la presa in carico del malato in quanto «membro del corpo sociale esteso».
Se le definizioni della patologia sono immaginifiche - dall´epilessia attribuita ai «demoni seduti sul cuore», alla crisi psicotica dovuta «all´ombra che si avvinghia alla persona» -, i rimedi attingono alla conoscenza sperimentata di erbe e piante terapeutiche, somministrate spesso d´intesa con il medico curante "ortodosso". I campi d´applicazione? L´ambito materno-infantile (gravidanza, parto e puerperio) per cominciare; e poi il diabete, le malattie tropicali, i problemi oculistici e i disturbi della psiche.
A colpire la platea - composta da medici, psicologi, infermieri e studenti - è stata la meticolosità del "protocollo" adottato dai guaritori: la manipolazione del corpo, la capacità di calibrare i dosaggi delle erbe, la ricerca e l´individuazione di nuove sostanze naturali benefiche. Un esempio? «Gli estratti vegetali impiegati nella prevenzione della malaria», osserva Ogobra Kodio, il medico maliano a capo della delegazione, «provengono da piante officinali autoctone».
In Africa, spiega un anziano guaritore, alla malattia viene sempre attribuito un significato e il suo insorgere spezza sia l´equilibrio interno all´organismo che quello esistente tra l´uomo e il sistema sociale. La cura e la guarigione, perciò, assumono anche il significato di un legame sociale ritrovato. Ma come distinguere i portatori di sapere dai ciarlatani? A denunciare questi ultimi sono in primo luogo i guaritori riconosciuti. Che - qualora la patologia lo consenta - operano in parallelo, e in collaborazione, con il medico e con l´ospedale. Non stupiscono, allora, le consultazioni miste già avviate tra un gruppo di medici della facoltà di Padova e la delegazione africana, né la tappa successiva che li ha visti relatori all´università romana La Sapienza.

Repubblica 6.10.09
La scuola dietro la lavagna

Il numero degli allievi quest´anno è da record. Le classi, 4mila in meno, non sono mai state così affollate. La soppressione di migliaia di cattedre aumenta i disagi. A Palermo bambini fatti uscire con i canotti dai locali allagati, a Roma lezioni itineranti perché mancano i supplenti, pezzi d´intonaco e controsoffitti finiti in testa ai ragazzi. Cronache quotidiane della "malascuola" d´Italia. Specchio del Paese che saremo. Da raccontare anche a Repubblica.it

Da Nord a Sud si fa lezione in aule con oltre 40 studenti, mancano sedie e banchi, ieri un controsoffitto è crollato sulla testa di un gruppo di adolescenti a Bagnoli (e una ragazza è rimasta ferita), mancano saponi, detersivi, i sanitari sono rotti e le tubature perdono, e ovunque è emergenza per la sicurezza, perché i bidelli non ci sono più e non sempre professori e maestri riescono a controllare porte e corridoi. La situazione è talmente seria che nemmeno i contributi dei genitori bastano più a colmare le lacune, nonostante a Parma come a Roma famiglie e docenti abbiano imbiancato a loro spese classi e mense diventate impresentabili. E questo a fronte di una domanda di istruzione che cresce, aumenta. Con il paradosso che se gli studenti di quest´anno scolastico sono 7.805.947, contro i 7.768.506 del 2008/2009, il numero delle classi è invece diminuito, passando da 373.827 alle attuali 370.000. Dunque dopo lunghi periodi di "saldo negativo" le scuole tornano a riempirsi, ma l´offerta diminuisce, e il risultato è quanto scrive un giovane dell´Istituto tecnico industriale Ciampini di Novi Ligure: «Sono arrivato in una classe di 41 alunni in cui è quasi impossibile scrivere e a volte anche respirare. Una situazione indecente, è impossibile fare lezione così».
Racconta invece Alessandra Martinelli, 13 anni, terza media in un istituto del quartiere Bufalotta di Roma, con il tono scherzoso di chi certo non teme né caos né imprevisti: «La cosa più assurda è che almeno una volta al giorno, se manca un prof, dobbiamo "migrare" in un´altra classe, con l´obbligo tassativo di portarci la sedia. E dobbiamo stare bene attenti a non perderla di vista, la sedia, perché non ce ne sono per tutti e il rischio è quello di stare seduti sui banchi o sul davanzale. Dall´inizio della scuola è già accaduto sei volte, la scuola non chiama più i supplenti. Nei corridoi? C´è un casino pazzesco. Mica è colpa nostra se le sedie fanno rumore».
Cronache da una "Malascuola", titolo di un fortunato e sconsolato libro di Claudio Cremaschi, ex dirigente scolastico in pensione, in cui si dimostra come riforma dopo riforma la scuola peggiora di anno in anno, e il livello di formazione dei ragazzi del terzo millennio è ormai precipitato ai più bassi livelli in Europa. Storie che da oggi sarà possibile inviare a Repubblica.it. Perché tutto questo, il degrado degli ambienti e l´impoverimento del corpo insegnante, avrà, anzi ha, una drammatica ripercussione sul futuro degli studenti. Infatti studiare su un banco rotto, in un´aula fredda e con le chiazze di muffa influisce su tutto, sulla psiche come sul corpo, sull´apprendimento come sull´educazione.
Lo spiega con chiarezza Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all´università La Sapienza di Roma. «Gli allievi, soprattutto se piccoli, si aspettano che la scuola sia un luogo accogliente, dove gli adulti hanno un progetto ben preciso, che magari pretende da loro attenzione e serietà, ma in cambio restituisce buoni servizi. I ragazzi, di tutte le età, hanno bisogno di un ambiente strutturato, la disorganizzazione li fa confondere, se la scuola cade a pezzi il messaggio che viene recepito è che la scuola non vale niente. Perché rispettare allora un muro già rotto, o un banco spaccato, o un bagno dove non trovi nemmeno la carta igienica?». «L´ambiente fisico influisce, e tanto, sulla motivazione allo studio. Ho visitato molte scuole - continua Anna Oliverio Ferraris - e devo dire che quando entri in strutture nuove, pulite, con le palestre, gli armadietti, i laboratori, il clima è diverso. Il clima, questa cosa impalpabile, è ciò che fa la differenza. Non a caso gli studenti della Finlandia, che ha le scuole più organizzate del mondo, sono in cima alle classifiche di rendimento. No, il quadro è desolante. Come si può pensare che bambini e ragazzi per studiare debbano passare ore e ore in ambienti insalubri e degradati?».
Non solo. La "Malascuola" espelle i più deboli, i meno fortunati, chi l´istruzione deve sudarsela, magari di notte. Come a Napoli, dove i tagli del ministro Gelmini hanno portato alla chiusura dell´unico liceo serale della Campania, il Margherita di Savoia. Porte sbarrate e corsi vietati per oltre 100 studenti-lavoratori, già iscritti e pronti a riprendere le lezioni. Poi ci sono i "diversamente abili", bimbi e ragazzi con handicap, più gravi o più lievi, per cui tutto è delicato, sottile. Dietro di loro gli sforzi eroici di insegnanti e famiglie, pronti a cogliere un piccolo miglioramento, un sorriso di gioia insieme ai compagni, un progresso nello studio. Ma la falce è arrivata anche qui, senza pietà.
E la storia di Rosaria, 44 anni, insegnante di sostegno precaria in una scuola elementare, ne è l´emblema. Triste. «Per quattro anni mi sono occupata di due bambini disabili. Giulio, con un gravissimo handicap, che ogni mattina i genitori portavano in classe, con la sua sedia a rotelle. Quando gli altri bambini lo andavano a salutare Giulio gli stringeva la mano e accennava un sorriso. Poco forse, ma per noi moltissimo. Vuol dire che Giulio sentiva, percepiva. L´altro bimbo era Alfredo, ha una tetraparesi spastica, ma la sua mente è lucida, intatta. Per quattro anni - racconta Rosanna, commossa - insieme alla maestra lo abbiamo aiutato a studiare, a comunicare con il computer. È arrivato in quarta elementare quasi al livello dei suoi compagni, con me aveva un rapporto strettissimo. Ma quest´anno io ho perso il posto, al momento non è stata assegnata alcuna insegnante di sostegno. Alfredo non vuole più andare a scuola, piange e mi cerca... La mamma mi ha chiesto se posso continuare a seguirlo privatamente, altrimenti tutti gli sforzi andranno perduti. Ho detto di sì, ma come faccio a farli pagare? Non me la sento, non è giusto. Perché dobbiamo privare Alfredo di un futuro?».

Repubblica 6.10.09
La figura dello scienziato protagonista dell´ultimo libro di Odifreddi
Vita di Galileo eroe laico e imperfetto
di Michele Smargiassi

Nel volume risalta il confronto tra un uomo geniale ma "normale" e la Chiesa che gli si oppone

Sfortunato il laico che ha bisogno di eroi, perché troverà solo eroi laici, cioè imperfetti e criticabili. L´altare su cui Piergiorgio Odifreddi istalla il suo Galileo è scivoloso, e non potrebbe essere altrimenti per un libro che, come altri del matematico impertinente nonché ateologo militante, è un atto d´accusa contro gli ipse dixit e l´arroganza dell´autorità per diritto divino. Ma nello sforzo di non santificare il più celebre martire del libero pensiero succede che, a lettura terminata, l´esclamativo titolo Hai vinto, Galileo! (Mondadori, 120 pagine, euro 17,50) più che di gioioso omaggio si colori di affettuosa ironia. Il sidereo annunziatore di verità eretiche, l´uomo che fermò il sole in cielo sfidando i pontefici, nel ritratto di Odifreddi fatica a reggere il passo del proprio mito: geloso delle proprie scoperte e pronto a rivendicarne «lamentosamente» la priorità, magari a torto, ingrato verso i suoi precursori, opportunista, incostante, talora pronto al compromesso, talaltra inutilmente temerario, qualche volta sopravvalutato (Il Saggiatore è «un libro memorabile per non esserlo»), non di rado alle prese con problemi «troppo difficili per i suoi mezzi» a costo di «ottusi errori» e, al contrario di Keplero, «più grande sperimentatore che grande teorico». Difficile non notare che il vero eroe del libro di Odifreddi è un altro: Giordano Bruno, che non abiurò, laico senza macchia ancorché piuttosto arrostito.
Si può indovinare che questa desacralizzazione del mito di Galileo risponda a un preciso scopo retorico: far risaltare ancora di più, al confronto con la "normalità" di un uomo dotato di retta ragione e passione per la conoscenza, ma anche figlio del suo tempo e pronto al cedimento, l´enormità del torto e l´intollerabilità della repressione che fu costretto a patire dall´Inquisizione. Del resto il libro di Odifreddi non nasce per colmare una lacuna, neppure divulgativa, nella conoscenza della vita e dell´opera di Galileo Galilei. Si tratta piuttosto di una vindicatio laica rivolta apertamente all´oggi, di un giù-le-mani contro le «lacrime di coccodrillo» del tardivo pentimento vaticano, come dimostra il pamphlettistico finale nel quale la rivolta dei professori della Sapienza contro la visita papale del gennaio 2008 viene rivendicata come legittimo contrappasso: «Per una volta, nel nome di Galileo è stato zittito l´erede di coloro che per secoli, dal Sant´Uffizio e dalla Cattedra di Pietro, hanno zittito lui».
Più che un´agiografia di Galileo, dunque, il volume di Odifreddi è una teratologia della Chiesa. Legittima, e anche fondata: è impossibile per una coscienza libera non provare orrore per le falsità curiali, le doppiezze papali, la ferocia degli inquisitori, la vergogna dell´abiura imposta con la minaccia capitale, vero «peccato originale della scienza moderna»; giusto e necessario ricordare che i pentimenti non cancellano i delitti dal libro della storia. Ma fermandosi qui si finisce per trascurare la ricerca di spiegazioni più complesse e profonde della semplice contrapposizione tra "libertà di pensiero" e "oscurantismo clericale". Tirare Galileo per il pastrano nelle dispute odierne comporta rischi di semplificazione storica. Così come il pavido Galileo di Brecht soffre nei panni del renitente alla lotta di classe, l´imperfetto Galileo di Odifreddi non sa riempire quelli del portabandiera del progresso schiacciato dal tallone della superstizione. Del resto già mezzo secolo fa un notevole studioso di Galileo, Giorgio de Santillana, non sospetto di oscurantismo, faceva notare che il gran pisano fu tutt´altro che un nemico della fede e della Chiesa, che tutti i suoi protettori, collaboratori e discepoli erano chierici, che la sua epistemologia si ispirava all´«idealismo matematico e al platonismo pitagoreggiante», cioè alla tradizione filosofica classica, almeno quanto si fondava sull´osservazione sperimentale. Ben più spericolata, al confronto, era la rivoluzione ideologica che negli stessi anni stavano conducendo le gerarchie romane, impegnate a forgiare ex novo, su basi teologiche ardite, la novità dirompente dell´assolutismo moderno. Operazione odiosa sul piano politico e morale, ma innovativa su quello della dialettica storica. «In quel momento ambiguo», arrivò ad affermare de Santillana polemizzando proprio con chi voleva trasformare Galileo in un «futuristico» alfiere del laicismo, «è Galileo che sta per l´antico, e il Pontefice per il moderno». Anche il laico e antidogmatico Antonio Banfi, poi, riconosceva che a Galileo mancò «una precisa coscienza di una missione ideale» per incarnare la figura di portabandiera impavido della Ragione. Il limitato Galileo di Odifreddi tiene conto di queste precauzioni: tanto che alla fine l´aureola di eroe laico gli traballa laicamente sul capo.

Repubblica 6.10.09
Timi dal teatro al cinema "Il mio lavoro d´attore è una lotta col pubblico"
di Roberto Rombi

Il premio Martini lo consacra divo
Nel primo romanzo ho ucciso alcuni fantasmi, un´operazione che mi ha aperto nuove possibilità, altre vite

ROMA. Corteggiato dai registi più esigenti, interprete di film d´impegno, Filippo Timi, dopo tredici anni di militanza teatrale, è diventato uno degli attori più richiesti al cinema. A lui è andato il Premio Pasinetti alla Mostra di Venezia per la sua interpretazione di La doppia ora di Giuseppe Capotondi, stasera riceverà a Milano il Martini Première Award, un riconoscimento destinato all´attore italiano in grado di competere con le star di Hollywood. Sta per raggiungere nelle Marche George Clooney sul set del nuovo lavoro di Anton Corbijn, fotografo e già regista di Control, film in bianco e nero sulla vita del leader dei Joy Division, Ian Curtis.
Un ingresso al cinema quasi trionfale...
«La dimensione che mi piace, a teatro, è il lavoro di tipo artigianale. Ho avuto la fortuna di incontrare autori che avevano bisogno proprio di questo. In palcoscenico scatta un corpo a corpo con lo spettatore e questo volevo che avvenisse anche al cinema. La ragione di questa scelta? Per un film distribuito in trecento copie ci sono trecento Timi in giro per l´Italia».
Come è avvenuto questo passaggio?
«Il cinema non è arrivato dopo il teatro ma dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, "Tuttalpiù muoio" nel 2006. Quel libro rappresenta un passaggio importante. In quel romanzo ho ucciso alcuni fantasmi e questa operazione mi ha aperto nuove possibilità, altre vite. C´è un rischio. Verrebbe spontaneo accettare tutto, sottolineare che ci sei, ma so che la carriera si conquista anche con i no».
In due anni Saverio Costanzo, Ozpetek, Wilma Labate, Montaldo, Salvatores, Bellocchio e Giuseppe Capotondi...
«In memoria di me di Costanzo è stato perfetto per il mio passaggio dal teatro al cinema. È un film costruito sul silenzio, un silenzio totale, quasi irreale. Con Salvatores, e la sua esperienza del Teatro dell´Elfo, l´intesa era assicurata sul set di Come Dio comanda».
E il doppio ruolo nel film di Bellocchio?
«Marco è un regista coraggioso. Ha delle visioni e uno slancio quasi sfrontato per raggiungerle. E il coraggio è contagioso. A lui in Vincere non interessava un´imitazione del Duce gli interessava il giovane divorato dal fuoco di diventare l´uomo della storia. È stata una sfida confrontarmi con un´immagine che appartiene a tutti. Difficile entrarne e ancora più difficile uscirne e l´ho potuto fare entrando anche nel personaggio del figlio, il suo opposto, quella vittima sacrificale, quella specie di cadavere vivente».
Il thriller di Capotondi?
«Ho voluto passare da un maestro come Bellocchio a un´opera prima. Le opere prime hanno una carica straordinaria. C´è, in quel caso, un regista che tenta il tutto per tutto. Il copione, per niente scontato, non catalogabile, spingeva all´azzardo. La doppia ora parla d´amore, costruisce un noir, sfiora il mistery».

lunedì 5 ottobre 2009

Liberazione 4.10.09
La manifestazione di Piazza del Popolo
Risorse della democrazia
di Dino Greco

Una folla enorme. Piazza del Popolo stipata sino all'inverosimile, come pure tutte le vie d'accesso. Del tutto superfluo ingaggiare il consueto duello sulla stima delle presenze. Forte - e incoraggiante - anche la mobilitazione dei precari della scuola. Una buona giornata, insomma. Per quanto era in noi, abbiamo lavorato per il successo delle manifestazioni di ieri e siamo soddisfatti di avervi portato un visibile contributo. Di partecipazione, innanzitutto, ma non solo. Dico di partecipazione perché, da quando mondo e mondo, è la presenza delle persone, sono i loro slogans, i messaggi impressi negli striscioni e nei cartelli, è il "tono" emotivo che attraversa la piazza a dare il segno, la cifra dell'evento, a decretarne il successo ed il significato. Spesso persino oltre le intenzioni dei promotori. Lì si esprime una creatività, un'autodeterminazione collettiva che diviene - immediatamente (nel senso letterale del termine: senza mediazioni) - un fatto politico. Dove la politica non è più amministrata dal ceto autistico che pretende di custodirla in esclusiva, ma diventa protagonismo, partecipazione attiva, l'esatto contrario del rapporto unilaterale che sovrappone chi ha il monopolio della parola, scritta o parlata, a chi invece può solo ascoltare. In piazza bisogna volerci venire. E' una libera scelta che implica un certo grado di consapevolezza. E, soprattutto, la voglia di contare. E' la democrazia che si organizza. C'è, in queste osservazioni, un sovraccarico retorico? Forse. C'è un eccesso di ottimismo? Forse. Ma nella situazione data bisogna pur cogliere - e sospingere - ogni sussulto di protesta, di opposizione al processo degenerativo che sta minando, sin nelle fondamenta, la Repubblica e la sua Costituzione. Gli avversari della mobilitazione di ieri hanno in questi giorni sollevato l'obiezione che dietro il pretesto della difesa della libertà di stampa e del pluralismo vi sia soltanto un complotto politico antiberlusconiano, ordito e guidato da un centro di potere politico e mediatico del tutto speculare a quello dominato dal caudillo di Arcore. Ora, che nel "partito di Repubblica" non si risolva affatto il tema di una informazione davvero libera e indipendente è chiaro come il sole. Ma lo è altrettanto che il reggimento totalitario di Berlusconi, la sua propensione ad eliminare qualsiasi pur tenue elemento di pluralismo, nell'informazione come nella dialettica politica, persino dentro il proprio genuflesso schieramento, fa sì che la costruzione di un tessuto democratico abbia come precondizione il tramonto di un potere personale che rappresenta un pericolo permanente. Che poi vi sia chi attende di raccogliere i frutti da questo scuotimento senza alterare ed anzi preservando i rapporti sociali e politici esistenti è del tutto evidente.
Lo dimostra il ben diverso peso che la "libera" stampa ha assegnato alle conpulsive patologie sessuali del premier rispetto ai contenuti della politica economica e sociale del suo governo, rivolta a fare a pezzi l'intero sistema dei diritti e il bilanciamento dei poteri fissato dalla carta costituzionale. Bisogna tenerne conto. E riflettere sul fatto che tutto ciò che si muove - socialmente e politicamente - fuori dall'universo bipolare, semplicemente non esiste. Sostenere dunque che in Italia c'è libertà di stampa per il sol fatto che una trasmissione - sia pure sotto schiaffo - ha potuto dire peste e corna di Berlusconi, non sta né in cielo né in terra. Un'ultima, credo fondamentale considerazione. Tutta la politica e, nondimeno, lo stesso oligopolistico mondo dell'informazione, si possono muovere dentro una bolla sospesa e autoreferente perché dentro la società langue, ristagna, o nella migliore delle ipotesi muove passi incerti e intermittenti, la mobilitazione sociale. E' tempo immemorabile che il mondo del lavoro è rinculato dentro una pura difesa corporativa (a dire il vero fragile anch'essa), incapace di rappresentare un punto di riferimento davvero alternativo per l'insieme della società, e per gli intellettuali (se mai ne esistono ancora) di questo Paese. Lo stesso si può dire per i movimenti. Finché queste soggettività non riusciranno a ritrovare parola, proposta e capacità di attrazione, l'anomia sociale continuerà a specchiarsi nel - e ad alimentarsi del - caravanserraglio mediatico, in primis quello televisivo. Che pare, sempre di più, un universo parallelo, dove i problemi della gente entrano - quando entrano - solo di striscio e senza lasciare traccia. Perché tutto il resto è un potente anestetico, propinato con martellante, metodica pervasività, attraverso la quasi totalità dei palinsesti televisivi. Un documentario ( Videocracy ) che circola quasi clandestino in poche sale cinematografiche mostra con rara efficacia come la passivizzazione di massa - scientificamente coltivata - possa diventare il terreno propizio per avventure reazionarie. Ricordate la vecchia (e quanto preveggente) canzone di Enzo Jannacci degli anni settanta che recitava: «la televisiun la ga na fôrza de liun, la televisiun la ta rent come 'n cujun»: «la televisione ha una forza da leone, la televisione fa di te un coglione»)? A questo punta - con luciferina consapevolezza - Silvio Berlusconi. Da oggi gli sarà più difficile.

Liberazione 4.10.09
Studenti, insegnanti e precari sotto il Ministero
La scuola invade Roma: 20mila in corteo
di Daniele Nalbone

Oltre ventimila tra docenti e studenti hanno manifestato ieri a Roma in due cortei. Il primo, indetto dal Coordinamento precari scuola e dalla Cgil, al quale hanno preso parte migliaia di studenti e una foltissima rappresentanza di militanti di Prc, Pdci, con la presenza dei segretari Ferrero e Diliberto, e una sparuta rappresentanza di sbandieratori dell'Italia dei Valori che si è subito dileguata dopo la visita di Di Pietro, è partito da piazza della Repubblica per arrivare, dopo una lunga e significativa tappa nella stracolma piazza del Popolo, al Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca, in viale Trastevere. Il secondo, invece, organizzato dai Cobas Scuola, ha sfilato da piazza dei Cinquecento direttamente al Miur.
Chi si aspettava polemiche fra i due cortei, però, si è dovuto ricredere perché, come ha spiegato Piero Bernocchi dei Cobas, «il motivo per cui non abbiamo deciso di prendere parte a un corteo unitario non riguarda nessun punto della piattaforma, che è e resta condivisa, ma solo la decisione di partecipare o meno alla manifestazione di piazza del Popolo sulla libertà di stampa». Nessuna spaccatura, quindi, come si è potuto constatare alla fine della giornata quando, i due cortei, si sono riuniti sotto al Miur per un' arrabbiata e decisa assemblea pubblica.
«Oggi (ier, ndr) è successo qualcosa di straordinario» commenta Francesco, del Coordinamento precario di Roma: «Abbiamo attraversato la città per protestare contro il progetto di distruzione della scuola pubblica messo in atto da Gelmini e Tremonti in qualità di esecutori di un ben preciso piano politico del Governo Berlusconi». L'anno scolastico 2009/2010 si è aperto all'insegna di 25mila lavoratori precari "cancellati", 37mila studenti in più e 57mila insegnanti in meno. «Il tutto» spiegano i portavoce del Coordinamento, «in un contesto più generale che vuole, in tre anni, una riduzione del 20% del bilancio della pubblica istruzione e un taglio di 150mila posti di lavoro». In poche parole, la distruzione della scuola pubblica. «Come non bastasse, il governo si permette anche di prenderci in giro con il cosiddetto decreto "salva-precari" che, attraverso contratti di disponibilità, dovrebbe garantire forme di reddito alternative a chi ha perso il posto di lavoro e non ha uno stipendio». Ma solo chi ha avuto una supplenza lunga un anno nel 2008/2009 può fare domanda. «E gli altri? Non possiamo accettare una divisione tra precari di seria A e precari di serie B».
Per il Governo Berlusconi, «quello servito ieri dai precari della scuola, è solo l'antipasto» spiega Antonella Vaccaro, docente precaria di Napoli, al microfono del furgone che apre il corteo, dopo essere intervenuta, salutata da un'ovazione della piazza, sul palco della manifestazione per la libertà di stampa. «Nei prossimi mesi serviremo al premier e al suo governo tutta la cena, che di certo non finirà come quelle di palazzo Grazioli ma in modo molto meno piacevole».
Ad aprire il corteo che da piazza della Repubblica ha raggiunto il Miur passando per piazza del Popolo sono stati i docenti precari al motto di "dignità e futuro per la scuola pubblica". Subito dopo gli studenti e quindi le organizzazioni sindacali e i partiti. In testa al corteo dei Cobas, invece, il coordinamento precari di Salerno dietro lo striscione "Dai tetti del sud fino al nord la mobilitazione è permanente". Più chiaro di così…
Non sono mancati, però, momenti di tensione: il primo corteo, al momento dell'ingresso a piazza del Popolo, è stato bloccato dalla gran folla presente. Quasi impossibile passare. Ci sono volute quasi due ore per uscire dall'imbuto che si era creato nella piazza prima di riprendere il cammino verso il Miur. Ma anche fuori da Porta del Popolo, in piazzale Flaminio, incredibilmente aperto al traffico, è stato il caos. Un involontario ma impermeabile blocco del traffico è stato messo in atto dalle oltre diecimila persone che cercavano di uscire senza nemmeno un vigile urbano o un qualsiasi segnale che indicasse il percorso, simbolo della confusione che regna fra Comune e Prefettura di Roma quando si deve gestire l'ordine pubblico per una manifestazione. «Qui le cose sono due» commenta Eleonora Forenza, membro della segreteria nazionale Prc : «O siamo davanti a incapaci che si ritrovano a gestire una città, oppure al cospetto di un comportamento doloso per giustificare ulteriori politiche repressive contro il diritto a manifestare».
Per questo una volta terminato l'intervento di Antonella Vaccaro dal palco di Piazza del Popolo, le forze dell'ordine hanno costretto il corteo a passare sull'argine del Tevere per raggiungere Ponte Garibaldi e quindi viale Trastevere. «E' incredibile» il commento degli insegnanti, «ci trattano come topi, ci fanno passare lungo l'argine del fiume. E' inaccettabile».
Alla fine, sotto al ministero dell'Istruzione, migliaia di persone hanno chiesto le dimissioni del ministro Gelmini, il ritiro dei tagli alla scuola pubblica, il ritiro della legge sul maestro unico e l'immissione in ruolo dei precari su tutti i posti vacanti.

Repubblica 5.10.09
È scoppiata la guerra civile televisiva
di Edmondo Berselli

Una volta alla Rai c´era la lottizzazione. Era il metodo più efficace per assicurare l´equilibrio fra i partiti. Un sistema matematico ferreo, una specie di inesorabile manuale Cencelli applicato alle assunzioni e alle nomine di appartenenza, agli spazi e ai tempi per i partiti. Non è il caso di rimpiangere i bilancini e gli equilibrismi di quella che fu definita da Pietro Scoppola la «Repubblica dei partiti».
Tuttavia non si può neppure apprezzare, e anzi è decisamente intollerabile, la guerra civile televisiva che si è aperta di recente, per decisione unilaterale: con il primo editoriale di Augusto Minzolini, il direttore neonominato che ritenne opportuno apparire in video per spiegare il silenzio del Tg1 sullo scandalo della prostituzione di regime (con la giustificazione che non c´erano elementi di rilievo giudiziario, e quindi si trattava semplicemente di "gossip", come ripetono all´unisono tutti gli esponenti della destra). E poi con il nuovo intervento del medesimo direttore del Tg1 contro la manifestazione di Piazza del Popolo per la libertà di stampa, qualificata come una iniziativa volta a instaurare «un inaccettabile regime mediatico».
Di quale regime mediatico si tratti, in un paese che vede il dominio diretto o indiretto del premier sul sistema televisivo e su un ampio settore dell´informazione stampata, è difficile dire. Tuttavia siamo abituati da tempo alle distorsioni e alle manipolazioni della maggioranza politica. È la tipica tecnica che si riassume nell´immagine popolare del "bue che dà del cornuto all´asino". Metodo infallibile se ripetuto e ribadito con regolarità, e senza possibilità di smentita. Mentre al contrario sarebbe il caso di parlare della combinazione nefasta fra l´apertura delle ostilità da posizioni di forza e la militarizzazione blindata delle funzioni di potere nella televisione pubblica: per intenderci quella che viene sostenuta in larga misura dal canone, pagato dalla generalità dei cittadini, e che in quanto tale, come ha rilevato ieri anche il comitato di redazione della Rai, deve rappresentare tutti, e qualsiasi posizione, anche quelle di coloro che vanno in piazza a protestare in nome della libertà dell´informazione.
Il Tg1, sempre nelle parole del Cdr, è un organo di informazione «istituzionale». È chiamato a dare voce a tutti. Figurarsi: dalla fine degli anni Sessanta in poi il nostro paese ha conosciuto una quantità impressionante di manifestazioni di massa. Partiti di opposizione e sindacati hanno trovato spesso nella piazza quelle possibilità di espressione che sembravano inibite da una politica bloccata. Se i direttori dei tg "di maggioranza" avessero dovuto intervenire a seguito di ogni protesta sociale o sindacale sgradita all´ispirazione politica del loro editore di riferimento, avremmo avuto un sistema televisivo brezneviano. Invece il regime cinquantennale e dolce della Dc e dei suoi alleati si preoccupava di filtrare la realtà sociale italiana in modo da farne emergere il "pluralismo": il sistema doveva essere eterno ma morbido, modellato sui numeri della proporzionale, infallibile nella sua capacità rappresentativa.
Non è una inutile nostalgia per le felpate scaltrezze del passato registrare che oggi stiamo assistendo a continue dichiarazioni di guerra dei potenti contro i più deboli, della maggioranza contro la minoranza, del governo contro l´opposizione, senza nemmeno le diplomazie lambiccate della lottizzazione. Non per nulla, Minzolini definisce «intolleranti» tutti coloro, a cominciare dal Cdr e dal sindacato della Rai, che criticano la sua sortita. Ciò significa semplicemente che anche la Rai si è trasformata nello strumento esplicito di un´offensiva politica. E questo avviene con i metodi ampiamente sperimentati dalla destra di casa nostra: individuando i "nemici", selezionandoli ed esponendoli alla gogna (come per esempio ha fatto il premier alla festa del Pdl, con il suo triplice «vergogna» verso presunte e impresentabili opposizioni che festeggerebbero gli attentati dei Taliban contro i nostri militari a Kabul).
Ora, va da sé che la Rai non è un santuario di virtù. È sempre stata la rappresentazione più completa e precisa del potere in Italia. Forse proprio per questo oggi rischia di divenire l´immagine allo specchio di una politica brutale, che non conosce più mediazioni, né nobili né ignobili, e che anzi usa l´informazione pubblica per alimentare strumentalmente i conflitti. È l´effetto di un sistema maggioritario interpretato in modo violento, di un conflitto d´interessi che non finisce di deformare la democrazia, di una manipolazione mediatica che alla fine umilia l´opinione pubblica.
Tutto ciò costituisce la conseguenza più clamorosa e invasiva del populismo berlusconiano, che si realizza nell´occupazione sistematica di ogni spazio politico e civile. La Rai e i suoi circuiti di potere interno tendono a rappresentare la politica nella sua identità più immediata. Se poi ci si mette la spregiudicatezza degli uomini del Cavaliere, altro che finzioni istituzionali, altro che servizio pubblico, sarà il trionfo dell´interesse privato.

Repubblica 5.10.09
Il corruttore difeso dalla politica
di Giuseppe D'Avanzo

La "discesa in campo" del ´94 è servita al Cavaliere per difendere il proprio interesse, come i partiti della prima repubblica lo avevano aiutato a sviluppare il suo business
Paradossalmente metà del Paese è chiamata a difendere un episodio di corruzione che ha assicurato al presidente del Consiglio il dominio nel campo pubblicitario

La politica, per Silvio Berlusconi, è nient´altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali – e qualche «assegno in bocca» – diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale.
La collusione con la politica – la corruzione d´un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari – gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d´urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell´economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest – 4000 miliardi di lire – superano l´utile operativo del gruppo). Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s´inventa "imprenditore della politica" convertendo l´azienda in partito. E´ ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all´impunità totale della «legge Alfano» che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).
Non c´è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E´ sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere – dietro le insegne dell´interesse pubblico – il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell´«aggressione politica al suo patrimonio», dell´«assedio ad orologeria». Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il «momento politico molto particolare». Piagnucola: «Se è così, chiudo». Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato.
Bisogna dunque dire se c´entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c´entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).
Ricapitoliamo. E´ il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l´avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L´udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E´ salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del «privato corruttore» aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il «magistrato corrotto». Correggono l´errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell´anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo. Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d´un ambiente giudiziario infetto e poi l´attuale suo stato «individuale e sociale» (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell´uomo che – è vero – è un «privato corruttore» perché è «ragionevole» e «logico» che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l´Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un´assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di «privato corruttore» gli resta appiccicato alla pelle.
Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c´entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, «privato corruttore». Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell´«aggressione politica al patrimonio» di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: «Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti».
Occorre allora mettere mano alle sentenze. C´è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell´affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, «record assoluto nella storia della magistratura italiana». In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: «Da un terzo estraneo all´ambiente istituzionale», si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il «gruppo B very discreet») bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell´interesse di chi? «La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell´interesse e su incarico del corruttore» scrivono i giudici dell´Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del «privato corruttore» (Berlusconi). «E´ la Fininvest – conclude infine la Corte di Cassazione – la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris», del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.
Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un «privato corruttore». Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha «stabilmente a libro paga» Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene «almeno quattrocento milioni» da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.
Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia – da capo del governo e «privato corruttore» – a lanciare una "campagna" che spaccherà in due – ancora una volta – un´opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un´altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l´opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva. Ripete la solita filastrocca che si vuole «manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l´opportunità di una grande manifestazione popolare». In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell´informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L´Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell´uomo che la governa.

Repubblica 5.10.09
Sindone: "È un falso medievale. Ecco la prova"
di Laura Laurenzi

Una copia identica all´originale è stata realizzata in pochi giorni con strumenti e materiali disponibili nel 1300 Il risultato dell´esperimento sarà presentato la prossima settimana al convegno per i vent´anni del Cicap
Un dottorando fatto sdraiare sotto un telo di lino dalla speciale tessitura e macchiato d´ocra

Per la prima volta la Sindone è stata riprodotta uguale all´originale in ogni dettaglio, con tecniche e materie prime disponibili nel 1300. «Siamo finalmente riusciti a dimostrare che era fattibile con gli strumenti dell´epoca», spiega Luigi Garlaschelli, docente di chimica organica all´Università di Pavia e autore dell´esperimento. Il suo lenzuolo-copia (in realtà sono ben tre) sarà esposto e mostrato per la prima volta al pubblico durante il convegno con cui il Cicap - il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale - celebra i suoi vent´anni il 9, il 10 e l´11 ottobre ad Abano Terme.
Tempo tecnico per ottenere la Sindone: una settimana. Ma l´esperimento ha richiesto lunghi mesi ed è stato eseguito in parte all´Università di Pavia, per gli esami spettroscopici, ma sostanzialmente nel laboratorio dello stesso Garlaschelli, «la mia bat-caverna», scherza lo scienziato. La ricerca è stata finanziata dal Cicap e dall´Uaar (unione atei agnostici razionalisti) ed è costata «alcune migliaia di euro», non precisa meglio Garlaschelli. Solo 2.500 euro è il prezzo pagato per i 15 metri di lino intessuto a spina di pesce.
«L´implausibilità della Sindone, la cui prossima ostensione avverrà nel 2010, è stata già affermata da molti, e per varie ragioni - ricorda lo studioso - Una tessitura mai usata nel primo secolo, il modo in cui si sarebbe dovuto ricoprire il cadavere, contrario agli usi ebraici del tempo, la resa chiaramente artistica dei capelli, delle colature di sangue, degli arti, la mancanza delle deformazioni geometriche che ci aspetteremmo da un´impronta lasciata da un corpo umano su un telo avvolto. E soprattutto il fatto che la Sindone comparve in Francia solo verso il 1357».
Per il suo esperimento lo scienziato ha messo in pratica, estendendolo a tutto il corpo, il metodo suggerito dallo studioso americano Joe Nickell nel 1983. Questo il racconto delle varie fasi così come saranno rese note ad Abano: «Abbiamo fatto tessere un telo di lino a spina di pesce identico a quello della Sindone sia come filato che come peso. Il telo è stato disteso sopra un volontario, un nostro dottorando, e con un tampone sporcato di ocra rossiccia sono state sfregate solo le parti più in rilievo. L´immagine è stata poi rifinita a mano libera dopo avere steso il telo su una superficie piana».
Solo il volto è stato realizzato con l´aiuto di un bassorilievo di gesso, indispensabile per evitare una distorsione dei lineamenti. Con tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue. «Successivamente abbiamo aggiunto l´equivalente delle impurità che sarebbero state presenti nell´ocra usata dall´artista medievale. Dopo diversi tentativi con sali e acidi vari, abbiamo utilizzato acido solforico all´1,2 per cento circa in acqua, mescolato con alluminato di cobalto. Abbiamo ripetuto questo procedimento utilizzando una tela di lino preventivamente invecchiata scaldandola in una stufa a 215 gradi per tre ore, e poi lavandola in lavatrice con sola acqua». Segue un ultimo invecchiamento artificiale accelerato sul pigmento, che viene poi lavato via.
«Il risultato è, come speravamo, un´immagine tenue, sfumata, dovuta a un ingiallimento delle fibre superficiali del lino, e non fluorescente ai raggi ultravioletti - conclude emozionato Garlaschelli - Il negativo è somigliante a quello del volto sindonico e, se elaborato al computer, mostra analoghe proprietà tridimensionali». E tre, non una, saranno le Sindoni (per ora arrotolate in un armadio) che lo studioso porterà al convegno del Cicap e di fronte alla comunità scientifica. Una - completa - di 4 metri e 40 per un metro e 10, una lunga due metri e mezzo che è solo il davanti e una terza delle stesse misure con soltanto l´ocra: come doveva essere la Sindone appena fatta, senza le bruciature.

Corriere della Sera 5.10.09
I Radicali: pronti a uscire dai gruppi democratici

MILANO — Aria di divorzio tra i radicali e il Partito democratico. Il comitato nazionale del movimento di Marco Pannella ( nella foto con Emma Bonino ) ha infatti chiesto ai parlamentari eletti nelle liste del Pd «di valutare in piena autonomia se sia ancora compatibile la loro presenza nell’ambito dei gruppi parlamentari della Camera e del Senato». Il comitato ha anche chiesto di considerare se non sia invece il caso di «adeguare la struttura e la vita del gruppo, in modo da costituire un polo di attrazione e di arricchimento anziché di stanca resistenza passiva nella sua attuale inconsistenza politica e parlamentare». Insomma: «È del tutto evidente la necessità di un chiarimento politico dei rapporti fra Radicali e Pd». Le assise dei pannelliani hanno anche dato mandato ai dirigenti del partito di chiedere incontri urgenti sia al Pd che all’Italia dei valori per esplorare la possibilità di alleanze alle prossime elezioni regionali.
Senonché, viene posta una «condizione pregiudiziale» per l’alleanza: l’affrontare «senza più alibi né reticenze la cosiddetta 'questione morale', che non può essere ridotta a questione giudiziaria e penale». Sabato scorso, Marco Pannella non aveva aderito alla manifestazione per libertà di stampa indetta dalla Fnsi e a cui ha aderito anche il Pd: «Quelli che manifestano sono gli stessi contro cui ho lottato per decenni proprio per avere una informazione libera».