mercoledì 7 ottobre 2009

l’Unità 7.10.09
VERSO IL 17
Con l’Unità in piazza contro il razzismo
Comincia oggi il nostro conto alla rovescia verso la manifestazione che si terrà a Roma il prossimo 17 ottobre. Vent’anni dopo Jerry Masslo
di G.M.B.


Centinaia di adesioni. Il sostegno della Cgil dell’Arci e di associazioni di base
Piazza Repubblica. Il grande corteo multietnico partirà dal centro di Roma

Meno dieci. Sono i giorni che mancano alla manifestazione antirazzista che si terrà a Roma il prossimo 17 ottobre.
L’Unità assieme alla Cgil, all’Arci e a decine di altre associazioni locali e nazionali ha deciso di aderire e di dare ai lettori una informazione puntuale sulle ragioni di questa protesta. Lo faremo a partire da oggi e fino a quando alle 14,30 di quel sabato da Piazza della Repubblica partirà il corteo.
I promotori sono ottimisti. Lo siamo anche noi. La manifestazione per dire no al razzismo potrebbe essere la più grande tra quelle che si sono svolte nel nostro paese negli ultimi vent’anni.
La prima si tenne il 7 ottobre del 1989, quando un’Italia inconsapevole e distratta aveva appena cominciato a conoscere gli immigrati. E ancora era convinta di essere un paese totalmente immune da pulsioni razziste. Certo, la Lega Nord, nata qualche anno prima, già se la prendeva con i meridionali. Ma appariva ancora un fenomeno folkloristico, passeggero. Molto probabilmente lo stesso Umberto Bossi non aveva idea che di lì a qualche anno sarebbe stato costretto a sostituire nelle sue campagne d’odio i calabresi, i siciliani e i sardi con i «Bingo bongo».
Quella del 7 ottobre del 1989 fu una manifestazione gigantesca. Qualche mese prima, il 24 agosto, a Villa Literno era stato ucciso un ragazzo sudafricano, Jerry Masslo e una parte di noi aveva cominciato a intuire che una serie di valori fondamentali, che ci parevano ormai acquisiti, rischiavano di essere messi tragicamente in discussione.
Ma certo nessuno in quegli anni mentre la Prima Repubblica era in procinto di dissolversi in Tangentopoli poteva immaginare che nel 2009, il nostro oggi, ci saremmo ridotti così.
Siamo diventati un paese sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e di Amnesty International. Siamo stati già condannati più di una volta per violazione dei diritti umani. Abbiamo visto approvare un «pacchetto sicurezza» che trasforma una condizione quella di immigrato irregolare in un crimine. Siamo diventati il feroce posto di guardia della «Fortezza Europa». Respingiamo boat people carichi di uomini donne e bambini in un paese, la Libia, che non ha mai aderito alle fondamentali convenzioni internazionali umanitarie, a partire da quella di Ginevra sui rifugiati politici.
L’elenco delle nostre infamie nazionali è lunghissimo. Questi dieci giorni non basteranno certo a completarlo. Ma, forse, basteranno per preparare un atto di protesta che potrebbe aiutare a interromperlo. ❖

Notizie on line
Per chi vuole venire a Roma informazioni in rete
Chi volesse avere informazioni sulla manifestazione e contattare il comitato promotore può connettersi al sito www.17ottobreantirazzista.org che ospita notizie relative a quanto si sta facendo nelle singole città e regioni anche per organizzare la trasferta a Roma. Il sito dell’Unità, www.unita.it. seguirà quotidianamente la fase preparatoria.

l’Unità 7.10.09
Fate la scienza non fate la guerra
Il 20 novembre debutterà a Milano «Science for Peace», movimento di scienziati e intellettuali per promuovere il disarmo e la cultura della pace
di Massimo Solani


Venti premi Nobel. Hanno già aderito Dulbecco, il Dalai Lama e la Levi Montalcini
Veronesi presidente. L’organizzazione sarà guidata dall’ex ministro della Sanità

C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?» scriveva Albert Einstein in una lettera inviata a Sigmund Freud il 30 luglio 1932. «Penso soprattutto – proseguiva Einstein al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità».
Se un modo c’è, forse la via migliore per trovarlo è quella indicata dalla Fondazione Umberto Veronesi attraverso Science For Peace, il movimento annunciato lo scorso febbraio e creato per cercare soluzioni scientifiche e concrete contro la guerra attraverso la diffusione della cultura della pace e la mobilitazione per la riduzione delle spese militari e il disarmo nucleare. Un impegno che, per la prima volta, vedrà riuniti a Milano (il 20 e il 21 novembre prossimi) tutti coloro che hanno aderito al movimento e che, per dirla con Umberto Veronesi, «condividono la necessità di vivere in pace per favorire lo sviluppo dell’uomo». «Ho voluto dar vita al movimento internazionale Science for peace insieme a oltre 20 premi Nobel (fra loro anche il Dalai Lama, Renato Dulbecco, Rita-Levi Montalcini e Luc Montagnier, ndr) e a molte figure rilevanti della cultura mondiale – spiega Veronesi -. In quanto scienziati pensiamo che il tema della pace debba urgentemente essere riportato al centro del dibattito civile; vogliamo creare una cultura di tolleranza e di nonviolenza; chiediamo a tutte le Nazioni la progressiva riduzione degli armamenti per destinare parte degli investimenti ai bisogni più urgenti della gente: nuovi ospedali, asili, scuole, e la ricerca scientifica».
Parole che suonano come rivoluzionarie in un Paese che, dati del 2007, investe nelle spese per gli armamenti l’1,8% del Pil contro l’1,14% destinato alla Ricerca e allo Sviluppo. «Gli Stati Uniti nel 2007 hanno speso per l’esercito 547 miliardi di dollari, e l’Italia ne ha spesi 33 – prosegue Umberto Veronesi, che di Science for Peace è anche presidente Per la ricerca contro il cancro, che causa 150.000 morti ogni anno, il nostro Paese spende ogni anno l’equivalente di circa 225 milioni di dollari». Assurdità economiche contro cui ha puntato il dito anche il presidente Usa Barack Obama quando, parlando della sua riforma sanitaria, ha spiegato che serviranno 900 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi 10 anni. «È meno di quello che sono costate le guerre in Afghanistan e Iraq», ha precisato. E sono posizioni come questa che danno fiducia oggi a tutti coloro che vogliono disegnare una via per la pace mondiale che passi attraverso la scienza, la medicina e il progresso sociale. «Troppo spesso – spiega infatti Emma Bonino, vicepresidente del Senato e membro del comitato onorario del movimento la politica ha agito in ritardo. Science for Peace nasce per spingere i governi a trovare soluzioni nonviolente ai conflitti. Perché non si tratta di negarli, ma di capire come è possibile superarli in maniera nonviolenta».
Vicepresidente di Science for Peace è Kathleen Kennedy, figlia di Robert Kennedy. «C’è ancora molto spazio per la speranza – dice presentando la Conferenza Mondiale di Milano Barack Obama ha mostrato al mondo che l’America può cambiare, che possiamo superare un passato fatto anche di schiavitù e linciaggi per eleggere un afro-americano che vuole ridurre il numero delle armi nucleari». E ancora una volta sono i dati a dare l’idea del cambiamento culturale necessario ad un mondo in cui si spendono 100 milioni di dollari per un caccia F-35 quando bastano 10 dollari per un trattamento antitubercolosi, 175 all’anno per fornire ad un malato adulto i farmaci necessari contro l’Aids (215 se si tratta di un bambino) o 360 per curare una mamma sieropositiva per un anno intero. ❖

L’alternativa. Meglio 3000 asili nido o 131 cacciabombardieri?
Secondo le previsioni del programma intergovernativo l’Italia dovrebbe acquistare 131 cacciabombardieri F-35 al costo complessivo di circa 15 miliardi di euro. Con gli stessi soldi si potrebbero costruire 3.000 asili nido (1 miliardo di euro, beneficiando 90.000 bambini e 50.000 famiglie. Posti di lavoro creati: 20.000); mettere in sicurezza 1.000 scuole (3 mld, beneficiari 380.000 studenti. Posti di lavoro: 15.000); installare 10 milioni di pannelli solari (8,5 mld di euro con beneficiarie 300.000 famiglie. Posti di lavoro: 80.000); dare una indennità di disoccupazione di 700 euro per 6 mesi ai precari con reddito inferiore ai 20.000 euro (2,5 mld, beneficiarie 800.000 persone). O, in alternativa all’ultima, si può ristrutturare il centro storico dell’Aquila (5.000 case inagibili) l’ospedale e la Casa dello Studente (2,5 miliardi di euro con beneficiarie 30.000 persone. Posti di lavoro: 2.000).

Repubblica 7.10.09
La Lega: legge anti burqa, in cella chi lo porta
Sì di Bonino. Il Pd: "Incostituzionale"
di Vladimiro Polchi


Proposta del Carroccio: "Motivi di sicurezza"
Le pene previste: carcere fino a due anni e multe da duemila euro Scontro fra i Poli

ROMA - Arresto in flagranza, reclusione fino a 2 anni e multa fino a 2mila euro. La Lega Nord va alla guerra del burqa e presenta una proposta di legge per punire chi «in ragione della propria affiliazione religiosa» indossa in pubblico indumenti che rendono «impossibile o difficoltoso il riconoscimento».
Il testo, depositato il 2 ottobre, modifica in soli due articoli la legge del 1975 in materia di tutela dell´ordine pubblico, che già prevede il divieto di utilizzare «senza un giustificato motivo» caschi o qualsiasi altro indumento che impedisca il riconoscimento della persona. La Lega, come ha spiegato il capogruppo Roberto Cota, propone ora di togliere il riferimento al «giustificato motivo», che sarebbe fonte di contenziosi tra sindaci e prefetti e di inserire tra i divieti anche «gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa». Il testo di fatto chiede di vietare l´uso di burqa e niqab (il velo che lascia scoperti solo gli occhi), ma senza menzionarli esplicitamente come invece fa la proposta a firma Souad Sbai (Pdl) già all´esame della commissione Affari costituzionali di Montecitorio.
Per l´opposizione, Pd in testa, si tratta di un´ipotesi illegittima, che rischia di condannare molte donne di religione musulmana alla segregazione in casa. «È una norma incostituzionale - attacca la capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti - che lede la libertà religiosa. Ma come può una legge parlare di affiliazione religiosa? Le suore sarebbero affiliate?» Simile il rilievo che solleva Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente dell´associazione Intellettuali Musulmani Italiani: «Per vietare il burqa e il niqab in Italia non troviamo opportuno fare riferimento a una presunta affiliazione religiosa islamica. La copertura del volto - aggiunge - non fa parte della religione islamica, come chiaramente dichiarato anche da Mohammed Said Tantawi, grande imam dell´università egiziana Al Azhar. In realtà basterebbe far rispettare la normativa di sicurezza già vigente in Italia fino al 1975, la quale impedisce di coprirsi in pubblico il volto».
Ma non manca chi, anche nell´opposizione, sottolinea che il problema esiste. «È da tempo immemore - sostiene la radicale Emma Bonino - che ritengo che indossare il burqa o il niqab integrale in pubblico violi le leggi dello Stato e il concetto della piena assunzione della responsabilità individuale». E ancora: «La proposta di legge della Lega - dice l´europarlamentare del Pd, Debora Serracchiani - usa strumentalmente l´argomento dell´ordine pubblico e si colloca sullo stesso piano delle fiaccolate contro le moschee e i cimiteri islamici, ma tocca un problema vero».
Di velo si interessa anche un disegno di legge presentato dall´opposizione: sì al burqa, ma a condizione che il volto sia riconoscibile, altrimenti si rischia l´arresto da 3 a 6 mesi e un´ammenda da 300 a 600 euro. Il testo è in commissione Affari costituzionali del Senato, presentato dal Pd (prima firmataria Emanuela Baio) e co-firmato da altri 11 senatori dello stesso gruppo. In sostanza, l´articolo unico di cui è composto prevede il divieto di usare «in luogo pubblico qualunque mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona senza giustificato motivo».

Corriere della Sera 7.10.09
La ricerca Secondo lo studio coordinato da Pittau e Trasatti in molti casi le violazioni riguardano le leggi sull’ingresso nel Paese
Se la criminalità straniera supera di poco quella italiana
La Caritas: novantotto regolari su cento rigano dritto
di Gian Antonio Stella


L’aumento delle denunce. Negli ultimi cinque anni è vero che «le denunce riguardanti gli stranieri sono aumentate del 45,9%», però «a fronte di un aumento del 100% della popolazione regolarmente residente» Il tasso di criminalità
«Avrebbero a che fare con la giustizia dopo denunce penali 1 ogni 133 italiani e 1 ogni 71/81 stranieri. Siamo lontani da un tasso di criminalità del 6% (1 denuncia ogni 16 immigrati)»

C’è chi dirà: i soliti cattolici buoni­sti! Ma possono i numeri essere «buo­nisti »? Un dossier della Caritas rispon­de di no: i numeri sono numeri. E que­sti numeri affermano che certo, esiste una netta e allarmante sproporzione tra gli immigrati in Italia e la percentua­le dei reati che commettono. Ma è infe­riore a quanto teorizza chi cavalca le pa­ure. E soprattutto non riguarda assolu­tamente i regolari. Basti un dato: ogni 100 stranieri in regola 98 rigano dirit­to.
Il punto di partenza, ovvio, non può che essere quanto scrive nel suo «Im­migrazione e sicurezza in Italia» (Muli­no) il professor Marzio Barbagli: «I da­ti di cui disponiamo non lasciano dub­bi sul fatto che gli stranieri presenti nel nostro paese commettono una quantità di reati sproporzionata al loro numero. Dall'1,4% della popolazione italiana nel 1990, essi sono passati al 5% nel 2007. Ma (...) nel 2007 essi costi­tuivano, a seconda dei reati, dal 25 al 68% dei denunciati. Altrettanto certo è che a commettere questi reati sono so­prattutto coloro che non hanno il per­messo di soggiorno». Per anni, ha spie­gato Barbagli mesi fa al Corriere , era lui stesso riluttante ad ammetterlo: «C’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i da­ti sull’incidenza dell’immigrazione ri­spetto alla criminalità. Ero condiziona­to dalle mie posizioni di uomo di sini­stra. E quando finalmente ho comincia­to a prendere atto della realtà e a scrive­re che l'ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tol­to il saluto».
Partiamo da qui: i dati sono dati. Ma se c'è una sproporzione tra stranieri e reati, spiega lo studio intitolato «La cri­minalità degli immigrati: dati, interpre­tazioni e pregiudizi» curato dalle équi­pe del Dossier Statistico Immigrazione Caritas / Migrantes e coordinato da Franco Pittau e Stefano Trasatti, c'è an­che una sproporzione nella denuncia dell'allarme. Che non va sottovalutato, ci mancherebbe. Ma neppure gonfiato in modo abnorme.
Per cominciare, prendiamo la tabel­la Eurostat col rapporto tra denunce pe­nali e popolazione. È una tabella da prendere con le pinze, perché è possibi­le che la fiducia nella giustizia sia qua e là così diversa che a Oslo il furto di una bicicletta venga denunciato e a Napoli no. Ma le cifre sono comunque indicati­ve. E dicono che l'Italia, con 4,6 denun­ce ogni cento abitanti, sta addirittura al di sotto della media (6 ogni cento) e nettamente meglio di paesi come il Re­gno Unito o la Svezia. Di più: ha propor­zionalmente meno omicidi di altri 16 stati e Roma, sotto questo profilo, è tra le cinque capitali più sicure del conti­nente. Lo stesso, stando a uno studio Istat diffuso dopo il brutale omicidio di Giovanna Reggiani, che gelò il san­gue agli italiani, vale per gli stupri. Che sono troppi e intollerabili ma comun­que molti meno che in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna...
Veniamo al punto. Scartate le denun­ce contro ignoti (impossibile distingue­re italiani e stranieri), il dossier Caritas spiega che negli ultimi cinque anni è vero che «le denunce riguardanti gli stranieri sono aumentate del 45,9%», però «a fronte di un aumento del 100% della popolazione regolarmente resi­dente ». Di più: «Le denunce si riferisco­no anche agli stranieri presenti regolar­mente e non ancora registrati in ana­grafe (diverse centinaia di migliaia) e a quelli presenti in maniera irregolare (un numero consistente ma difficile da stimare, anche se attualmente si parla di circa 1 milione di persone): ciò con­sente di affermare che non sussiste un collegamento diretto e automatico tra aumento della popolazione e aumento della criminalità».
Del resto, ricorda la Caritas, «la tesi di una corrispondenza diretta tra consi­stenza numerica degli immigrati e rea­ti da loro commessi viene rigettata in una ricerca del 2008 della Banca d'Ita­lia » dove è scritto che «nel periodo 1990-2003 il numero dei permessi di soggiorno si è quintuplicato, mentre la criminalità ha mostrato una lieve fles­sione e si conclude che 'in linea teori­ca non c'è stato un aumento diretto del­la criminalità in seguito alle ondate di immigrazione in nessuno dei reati pre­si in considerazione (reati contro la persona, contro il patrimonio e traffico di droga)'».
I reati commessi dagli stranieri, dice lo studio si possono dividere in quat­tro gruppi: per il 35% sono reati contro il patrimonio (furti e così via), per qua­si il 13% contro la persona (aggressio­ni, stupri, lesioni...), per poco meno del 22% contro le regole economiche (commercio senza licenza, spaccio di dvd e cd pirata...) e per oltre il 30% con­tro l'ordine pubblico e le regole dello Stato in materia di identità personale, passaporto, residenza, permesso di soggiorno, favoreggiamento dell’immi­grazione clandestina e così via. Cioè re­ati legati all'immigrazione irregolare. Tolti i quali, spiega la Caritas, i tassi di criminalità «vera», delinquenziale, si abbasserebbero nettamente.
È vero, riflette lo studio coordinato da Pittau, «a destare maggiore allarme nell'opinione pubblica è l'incidenza de­gli stranieri sui cosiddetti reati predato­ri (scippi, furti di autovetture, rapine in pubblica via, rapine o furti in abita­zione, per i quali un terzo o più del tota­le degli addebiti va loro riferito), nel commercio della droga e nei reati vio­lenti, gravi come gli omicidi e odiosi come gli stupri». Ma va anche ricorda­to che, ad esempio, sono stranieri solo il 6% dei banditi che assaltano le poste e addirittura il 3% di quelli che attacca­no le banche. Per non dire dei reati più gravi, quali l'associazione mafia, 'ndrangheta, camorra che, come ricor­dava mesi fa Claudio Magris, sono la vera piaga di questo paese anche se «non scuotono veramente l'opinione pubblica» e «non destano — diversa­mente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini».
La parte più interessante della ricer­ca, però, è alla fine. Dove si dimostra che lo straniero inserito riga diritto molto di più di quanto si immagini. Per capirci: a seconda di come si calco­lano i regolari, «avrebbero a che fare con la giustizia a seguito di denunce pe­nali contro noti, 1 ogni 133 italiani e 1 ogni 71/81 stranieri. Fin qui il coinvol­gimento degli immigrati sarebbe più elevato rispetto agli italiani (quasi il doppio), comunque ben lontano da un tasso di criminalità del 6% (1 denuncia ogni 16 immigrati) da altri ipotizzato». Non basta ancora: poiché sono stati­sticamente più portati a violare la leg­ge quelli che vanno dai 20 ai 44 anni, mettendo a confronto le fasce parago­nabili il divario tra italiani e immigrati regolari si fa ancora più sottile. Quan­do a quelli sopra i 45 anni, il rapporto si rovescia: sono più rispettosi della legge gli altri di noi. Prova provata che, ferma restando la durezza necessaria con i delinquenti, occorre distinguere, distinguere, distinguere. E magari, da parte degli italiani, dare il buon esem­pio. Stando a una ricerca che sarà pre­sentata a dicembre ed è stata condotta per la Fondazione Ismu da Andrea Di Nicola, un criminologo dell'Università di Trento, tra le cause principali che in­cidono sui livelli di delinquenza degli immigrati c'è l'irregolarità di manodo­pera straniera di basso livello. Per ca­pirci: più c'è lavoro nero, più cresce il tasso di criminalità. Difficile dettare re­gole, dal pulpito sbagliato...

il Riformista 7.10.09
«Razionalizzare la fede» La vera posta in gioco
Al Sinodo sull'Africa un mini concilio
di Benedetto Ippolito


Nel continente in trent'anni i cristiani sono passati da 55 a 146 milioni. Dal 1994 al 2008 sono stati uccisi 521 missionari. I 244 padri sinodali, i 29 esperti e i 49 uditori si interrogheranno soprattutto su cultura, famiglia e infanzia. Spiega padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, che la novità emersa dopo la decolonizzazione è che non esiste un'ostilità della cultura popolare al cristianesimo, anzi. La sfida, come dice il Papa, è liberare l'istintiva religiosità naturale dall'irrazionalità.

Si è aperta, all'inizio di questa settimana, la seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi per l'Africa. Si tratta di un evento eccezionale nella vita della Chiesa che durerà per quasi tutto il mese di ottobre. L'assise terminerà il giorno 25, dopo ben tre settimane intense di lavori. L'arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, qualche giorno fa ha spiegato, in un briefing tenuto presso la Santa Sede, che all'origine di questo secondo storico appuntamento ecclesiale vi è la rilevante espansione che la fede cristiana sta avendo, recentemente e con intensità, in tutto il continente. «Malgrado più di 521 missionari siano stati uccisi solo dal 1994 al 2008 - ha osservato il prelato - il processo di evangelizzazione è stato assolutamente straordinario, triplicando il numero dei cristiani, in poco più di trent'anni, dai 55 milioni del 1978 ai 146 milioni del 2007». Al centro degli obiettivi vi è, quindi, un'analisi e un confronto delle diverse dinamiche di questa vigorosa evangelizzazione, in paragone a quanto accade nel resto del mondo. I partecipanti sono 244 padri sinodali, quasi tutti vescovi, di cui ben 197 sono provenienti direttamente dall'Africa, mentre 47 da altri continenti. A essi si sono aggiunti, poi, 29 esperti e 49 uditori, tra uomini e donne, che assisteranno all'intero dibattito.
Si tratta di un mini concilio, il cui significato è stato spiegato con grande efficacia da Benedetto XVI domenica scorsa, durante la Messa di apertura dell'Assemblea. Il Papa ha rimarcato il peculiare ruolo di «polmone spirituale» che l'Africa rappresenta «per un'umanità in crisi di fede e di speranza». La forza straordinaria della mentalità africana è di essere, con la sua prorompente spiritualità popolare, una costante provocazione per il materialismo pratico occidentale, sopraffatto da un pensiero relativista, edonista e nichilista.
Le linee programmatiche dei lavori, tracciate dal Pontefice, sono state riprese lunedì scorso, nell'aula del Sinodo, dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della congregazione del Culto divino. Egli ha ricordato le profonde novità presenti nell'ordine del giorno dell'attuale assemblea rispetto alla precedente, svoltasi nel 1994 sotto la guida di Giovanni Paolo II. Non solo, in effetti, il ruolo della Chiesa è profondamente cambiato in questo lasso di tempo, ma l'Africa stessa costituisce oggi una chiave di volta per lo sviluppo di tutto il mondo globalizzato, non solo a causa dei suoi drammi, ma anche e soprattutto per le sue immense potenzialità umane.
L'assemblea concentrerà i suoi sforzi principalmente sui tre principali aspetti dello sviluppo dell'Africa: la cultura, la famiglia e l'infanzia.
Padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, ha chiarito che «queste tre aspettative della società africana sono affiorate massimamente dopo la fine della colonizzazione, quando cioè i diversi popoli africani hanno conquistato una loro lenta e progressiva autonomia dall'Occidente». La grande novità è stata la scoperta, fatta soprattutto dai religiosi e i missionari, che non esisteva una reale opposizione della cultura popolare al cristianesimo. Men che meno, ostilità. La popolazione africana, con la propria affascinante semplicità, possiede, infatti, un'istintiva «fede in Dio creatore», che rivela una diffusissima e sbalorditiva anima religiosa di base.
D'altra parte, il risveglio della spiritualità è un fenomeno umano e sociale che si palesa di continuo un po' ovunque a sud del Mediterraneo. In Senegal, ad esempio, «la Chiesa nazionale, che per decenni è stata teatro di missioni, è divenuta ormai da anni a sua volta missionaria, capace cioè di dare quanto ha ricevuto agli altri, espandendo la fede cristiana altrove, sia per mezzo delle tante vocazioni sacerdotali e sia mediante l'emigrazione delle persone dappertutto».
Si è consolidata una forma di «fede popolare istintiva», la quale purtroppo non riesce sempre a liberarsi con facilità dall'irrazionalità delle credenze superstiziose e delle ritualità magiche. Di qui lo sforzo, più volte ricordato da Benedetto XVI, di un efficace e perseverante impegno per «razionalizzare la fede», cercando di far emergere una riflessività culturale molto spesso sommersa e sopita dalla mancanza di istruzione e formazione.
Particolarmente indicativa, in questo senso, è la situazione del Ghana. Un collaboratore di padre Cenci, nativo dello Stato centrafricano, ha illustrato la particolare importanza che ha la famiglia monogamica per la stabilità della società. La maggior parte della comunità nazionale ha trovato nella famiglia di Nazaret un modello etico ideale, benché i cristiani non superino il 7 per cento della popolazione. Anche i musulmani, per ragioni culturali, privilegiano quasi esclusivamente relazioni esclusive uomo-donna, tendendo a non separarsi e a non risposarsi, benché possano farlo. Questa stabilità sentimentale ha garantito così una facile diffusione del cristianesimo, che è percepito come una sorta di morale naturale, ancorata al buon senso e alla pratica ordinaria delle virtù.
Un grande problema al centro degli interessi dei vescovi africani è, però, certamente la corruzione politica. Un Paese come il Congo, ad esempio, pur avendo una situazione sociale di partenza analoga alla precedente, è dissanguato da una politica antidemocratica, fortemente influenzata da interessi economici occidentali. Il conflitto dell'Ituri, ancora in corso e nato a seguito della guerra civile, ha prodotto un tragico genocidio negli anni dal 1999 al 2007, con lotte tribali fomentate dagli interessi economici delle grandi multinazionali, di cui il Governo locale si è reso complice ed esecutore militare.
Uno degli obiettivi capitali che si propone questa assemblea straordinaria, prima ancora dell'emergenza educativa e del consolidamento democratico, è l'emergenza della fame e delle epidemie. Nel primo caso, la maggioranza dei Paesi africani non può godere dell'uso di strumenti tecnologici adeguati, finendo per non consumare se non in rari casi e non vedere quasi mai distribuite tra i cittadini neanche le risorse alimentari necessarie alla sopravvivenza dei bambini. Nel secondo caso, la cura delle malattie mortali manca completamente di risorse indispensabili per fronteggiarne l'espansione. In questo frangente, le ricette occidentali, incluso l'invio di profilattici, mostrano tutta la loro debolezza e miopia. Non soltanto affezioni banali come la malaria seminano molti più morti dell'Aids, ma la vera soluzione al flagello è costituita dal rafforzamento della morale familiare, sentita da tutti come una risorsa indispensabile per la sopravvivenza. Non a caso, le parole del Papa contro l'uso dei profilattici, durante il suo recente viaggio in Africa, hanno trovato approvazione unanime dell'opinione pubblica africana, compresi i capi musulmani; mentre hanno avuto una disapprovazione da parte del Belgio, che è tra i massimi produttori di anticoncezionali nel mondo.
Una convinzione ultima, in definitiva, è particolarmente popolare nel continente, ossia che la «Chiesa vuole il bene dell'Africa». Se non altro per ciò, più di un miliardo di persone dimenticate da tutti guarderanno con speranza a questo importante ottobre ecclesiale romano che li farà essere protagonisti del mondo, almeno per una volta.

il Riformista 7.10.09
Libertà di stampa. Una battaglia che dimentica le donne
di Ritanna Armeni


Non credo nella lotta per la libera informazione che prescinda da come viene trattata l'immagine femminile

Ho cercato invano fra le decine e decine di articoli sulla libertà di stampa una parola che riguardasse le donne. Ho cercato fra i volti e gli slogan della manifestazione di sabato qualcosa che ricordasse la impossibilità di costruire una stampa libera se essa esclude la presenza femminile. Ho sperato che qualcuno protestasse contro lo scempio del corpo delle donne a cui negli ultimi tempi i giornali e i canali televisivi hanno dedicato con dovizia di particolari un'attenzione pruriginosa. Ho pensato - sbagliando - che fra i tanti numeri che venivano portati a sostegno della tesi sui pericoli che oggi corre la libera informazione ci fossero anche quelli riguardanti le donne giornaliste, la loro collocazione, il loro ruolo.
Non ho trovato nulla di tutto questo e allora mi sono domandata: la battaglia per la libertà di stampa, la lotta politica perché essa esista effettivamente, e non solo all'interno di una pur legittima campagna antigovernativa, può prescindere da una riflessione e da un conflitto per una diversa presenza delle donne nel mondo dell'informazione? Un dubbio e una domanda simile l'ho trovata solo in un articolo di Letizia Paolozzi che nota sul sito Donnealtri come in nome di «un antiberlusconismo primario» «questa libertà di stampa non sembra avere grande interesse per il sesso femminile».
Per quanto mi riguarda dichiaro subito di non credere in alcuna battaglia per la libera informazione che prescinda dal modo in cui viene trattata l'immagine femminile e dalla presenza e dalla collocazione della giornaliste nella carta stampata e nella tv pubblica e commerciale.
Le due cose sono strettamente intrecciate. Una maggiore e più qualificata presenza femminile avrebbe maggiori possibilità (niente è automatico) di impedire lo scempio che viene fatto oggi dell'immagine delle donne. Una battaglia vera su come tv e giornali presentano "il secondo sesso" agevolerebbe una presenza femminile diversa da quella presente nelle televisioni che segue spesso (ovviamente non sempre) gli stereotipi patinati della giovinezza, bellezza e della malizia, insomma della "donna dello spettacolo", che poco ha a che fare col giornalismo.
Oggi alla Rai su un numero di direttori e vicedirettori di rete e di testata che si avvicina a cinquanta le donne sono solo tre: Maria Pia Ammirati, Susanna Petruni e Bianca Berlinguer. Possibile che fra le decine di giornaliste del servizio pubblico non ci sia nessun altra che possa coprire un ruolo dirigente? Oppure dobbiamo ammettere che siamo di fronte a una limitazione, a un veto non detto, a una misoginia tanto profonda quanto inconfessata che limita la libertà delle donne e di cui la battaglia per la libertà di stampa non si fa assolutamente carico?
Ed è possibile che un grande quotidiano, quello che è stato in prima fila nella battaglia per la libertà, la Repubblica, non si renda conto che non solo nel gruppo dirigente del quotidiano, ma fra i commentatori e gli editorialisti la presenza femminile è così esigua che - pure di grande qualità - scompare nel grande mare dei commenti e degli editoriali maschili. Così come non se ne rende conto l'altro grande giornale della borghesia italiana il Corriere della sera il cui decoro terzista e moderato rimane implacabilmente in mano agli uomini.
Ma non serve un lungo elenco. Non serve denunciare i dati dei canali Mediaset o degli altri quotidiani nazionali e locali. Dovunque si osservi e si indaghi nei giornali e nelle tv la libertà di stampa ha questo limite invalicabile e profondo di cui gli stessi protagonisti della battaglia per la libera informazione non si rendono conto, anzi ignorano e, spesso, lo fanno con sufficienza e prosopopea.
Così come tutti - anche in questo caso le poche eccezioni confermano la regola - danno la stessa rappresentazione delle donne. Anche coloro che si ergono a difensori della morale, della cultura, della realtà sociale contro i miti e le illusioni indotti dal berlusconismo non si sottraggono agli stereotipi, non usano uno sguardo diverso nei confronti delle donne. Nei giornali di questi mesi immersi, negli scandali del premier abbiamo trovato lo stesso compiacimento nella descrizione dei corpi delle veline, negli aggettivi usati per le escort e anche nella implicita contrapposizione a donne virtuose, madri di famiglie, ragazze studiose e per bene. Linguaggi impudichi, descrizioni compiacenti, il corpo femminile privato di dignità dalle note vicende del premier, tale è rimasto nella mancanza di rispetto con cui è stato osservato e trattato dai difensori della libertà di stampa. Si poteva fare diversamente? Sì si poteva. Ma ci sarebbe voluto un coraggio e un interesse femminile e partecipato per capire e raccontare il mondo di quelle giovani ragazze definite veline che cercano un'affermazione e un lavoro. Per indagare su quelle donne che non si chiamano più prostitute, ma escort. E sul rapporto fra queste figure femminili e un mondo maschile non solo berlusconiano, nello stesso tempo forte prepotente, ma dipendente da una sessualità incapace di prescindere dal potere. Sì, si poteva, ma nessuno si è posto il problema. E la battaglia per la libertà di stampa oggi si presenta monca, privata almeno della metà della sua efficacia. E francamente molto meno credibile.

Liberazione 6.10.09
Grecia, una vittoria di tutta la sinistra
di Fabio Amato


Meno di un anno fa la Grecia ed Atene erano state sconvolte dalle mobilitazioni giovanili seguite all'uccisione, da parte della polizia, di un giovanissimo quindicenne, Alexis. Una vera e propria rivolta che aveva svelato un malessere profondo, non solo generazionale, quanto sociale della società greca. Era stata definita la generazione dei 700 euro. Un anno dopo il premier Karamanlis, che era stato uno dei bersagli della rivolta, esce travolto dalle elezioni, seguite agli scandali per corruzione e alla crisi economica. Il leader del partito conservatore Nuova Democrazia, aveva deciso di convocare elezioni anticipate solo un mese fa. Elezioni che hanno sancito in modo inequivocabile la sua sconfitta e la vittoria del terzo primo ministro della dinastia Papandreu, Giorgos il giovane, che con il 44 percento raggiunto dal suo Pasok, il movimento panellenico socialista, si assicura un'ampia maggioranza per il governo del paese nei prossimi quattro anni.
Lo scontro elettorale non è stato tutto qui. Il crollo di Nuova democrazia, ai suoi minimi storici, ha aperto le porte alla vittoria socialista, ma ha anche ingrossato in parte il partito di estrema destra, e visto una sostanziale tenuta delle formazioni politiche a sinistra del Pasok, Il Partito comunista (KKE) e la coalizione della sinistra radicale (Syriza), che mantengono, calando solo di un seggio ciascuna, le loro posizioni. Il KKE raccoglie il 7,5% ed elegge 21 deputati, mentre Syriza, coalizione della sinistra radicale guidata dal Synanspismos, 13 deputati con il 4,6%. Non era scontato. Su entrambi ha pesato il richiamo al voto utile, per dare ai socialisti una maggioranza assoluta. Il Pasok in questi mesi ha saputo attrarre su di se il malcontento popolare nei confronti del governo di Nuova democrazia, cercando di ricostruirsi un'immagine di sinistra, attenta alle questioni sociali, ed un profilo etico, cavalcando gli scandali che hanno travolto i suoi avversari di centrodestra. Soprattutto ha puntato sulla necessità di avere il voto per potersi garantire la maggioranza assoluta. Obiettivo sicuramente raggiunto, ma senza pesare sulla sinistra. Per queste ragioni è di particolare importanza politica il risultato del Synaspismos. In molti, infatti, e non solo da destra, hanno cercato di accreditare l'idea che Syriza, la coalizione di sinistra radicale, fosse a rischio quorum (3 %). Tutti i maggiori media hanno avvallato durante la campagna elettorale e in modo insistente questa tesi e allo stesso tempo sostenuto i verdi, che invece non riescono a superare il quorum e rimangono fuori dal parlamento, raccogliendo il 2,6 dei voti. Ha quindi molta ragione per dichiararsi soddisfatto il giovane Presidente del Synanspismos, Alexis Tsipras, che a caldo commenta così il risultato della sinistra radicale: «E' stato un piccolo successo ma molto importante per SYRIZA, in quanto molte forze avrebbero voluto cacciarci dal sistema politico greco. Questa è stata una risposta dal popolo, specialmente da parte delle giovani generazioni, dei lavoratori e dei disoccupati, di tutti coloro che sono senza voce».
Il KKE, attraverso la sua segretaria Aleka Papariga, definisce i risultati elettorali come non corrispondenti a quanto cresciuto nella società greca in termini di coscienza e lotte sociali contro le politiche della destra. Cambia il governo ma non le politiche, e prevede che comunque il prossimo governo abbatterà sulle spalle di lavoratori e giovani una miriade di provvedimenti antipopolari. In effetti non saranno proprio facili i prossimi mesi e anni di governo per il Pasok. Indebitamento, corruzione, disoccupazione alle stelle e salari in picchiata. In passato, il Pasok era stato interprete in patria della terza via della socialdemocrazia europea. Vedremo se alla svolta parziale a sinistra dei socialisti greci corrisponderanno atti reali o se sarà il liberismo temperato a riproporsi, sotto nuove vesti, all'ombra dell'acropoli.

Liberazione 6.10.09
Credere o no è un diritto di tutti. Lo spiegano in "Uscire dal gregge" Raffaele Carcano e Adele Orioli
Sbattezziamoci, in un libro tutte le istruzioni per l'uso
di Daniele Barbieri


«Carneade, chi era costui?» è una delle frasi più famose della letteratura italiana. Il convertito Manzoni non ci spiega come mai don Abbondio stia pensando a questo filosofo scettico messo al bando perché "turbava" i giovani. Accadde nel 155 ev, ovvero dell'era volgare. Adottare questa datazione invece che dC (dopo Cristo) rappresenta una scelta insolita, almeno nell'Italia dei papi e dei baciapile. E' la scelta di Raffaele Carcano e Adele Orioli che accennano a Carneade e ad altri perseguitati per motivi religiosi nei primi secoli dell'ev quasi all'inizio del libro che reca il neutro sotto-titolo Storie di conversioni, battesimi, apostasie e sbattezzi ma ostenta un ben più polemico e azzeccato titolo: Uscire dal gregge (Luca Sossella editore, pp. 320 pagine, euro 14,00).
L'introduzione si apre con una domanda interessante: «dove avete trovato questo libro?». Perché «la sorte dei libri che presentano punti di vista non religiosi» è bizzarra e catalogarli risulta scomodo anche per i bibliotecari. Non è certo un pamphlet religioso, piuttosto un appassionante saggio storico capace anche (o soprattutto) di una riflessione politica sull'oggi.
Il primo passaggio concettuale di Uscire dal gregge è spiegare come la religione di un popolo sia scelta dal re (da chi comanda insomma). Accade anche oggi. Ci sono piccole eccezioni ma spesso solo apparenti: per esempio negli Usa vi è chi muta religione (all'interno del cristianesimo) perché si sposta da uno Stato a maggioranza cattolica a uno protestante,
appunto adeguandosi al "re" di turno.
Chiarito che il diritto (per chi lo desidera) a credere non è in discussione ma che dovrebbe essere garantita a ognuno la libera scelta (di non entrare, di uscire, di cercarsi un altro gregge, di non averne alcuno) Carcano e Orioli raccontano - con precisione sempre unita a una piacevole scrittura - come iniziano e dove portano le imposizioni religiose. I primi libri finiti al rogo pare siano quelli di Anassagora del 432 aC (o meglio aev). Da perseguitati i cristiani diventano padroni e poi persecutori con Costantino che combina «l'intolleranza politica e quella religiosa». In base a una sola citazione (oltretutto quasi nascosta nei Vangeli) sul «dare a dio… e a Cesare» si costruisce un'alleanza di ferro: il primo a identificare la Chiesa con dio e Cesare tout court con lo Stato è Osio di Cordova, già consigliere di Costantino, nel 356.
Saltando avanti e indietro nel tempo Uscire dal gregge racconta come nascono il pedo-battesimo, il Limbo (oggi quasi negletto) e il Purgatorio, cosa c'è dietro ai nomi; ma anche i continui dietro-front della Chiesa di Roma. «La fede come tale è sempre identica» sostiene Ratzinger: nulla di più falso. Agostino per esempio muta nel profondo il cristianesimo. L'ascesa al trono di Teodosio (nel 379) imprime alla storia un'impressionante svolta verso la repressione religiosa o meglio di chiunque non sia allineato con il papato. Sempre più il battesimo è imposto ai neonati (prima non era così); si forzano le conversioni; si teorizza che l'uccisione di un non cristiano è un «malicidio», cioè un mezzo per estirpare il male, piuttosto che un omicidio. Inizia la persecuzione di bestemmiatori e omosessuali («mai colpiti da leggi punitive nel mondo classico») che alcuni - come il devoto imperatore Giustiniano - ritengono da mettere a morte. La caccia agli eretici (sotto cui è facile collocare ogni dissenso) prenderà poi la forma dell'Inquisizione: delazioni, torture, roghi, confische dei beni.
Al contrario di quanto detto (proprio in questo 2009 ev) con solennità da Ratzinger, non è il nichilismo-totalitarismo ad avere portato nel ‘900 a disumanizzare gli esseri umani: i roghi ma anche le tecniche orwelliane (dal riscrivere la storia alle confessioni pubbliche e allo spionaggio di massa) vengono proprio dall'Inquisizione. La pretesa partecipazione dei cattolici alla creazione di un'Europa libera e laica non è mai esistita: da un Pio VI che in una enciclica del 1791 scrive «quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi» a un Pio IX che definisce il suffragio universale «una piaga distruttrice dell'ordine sociale», a tanti altri talvolta Pii nei nomi (nei fatti mai pii) purtroppo c'è solo l'imbarazzo della scelta nel raccontare di una Chiesa cattolica sempre dalla parte sbagliata per quel che riguarda i diritti. Il 13 maggio 2007 in Brasile, Ratzinger dichiara che «l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane né fu un'imposizione di una cultura straniera». Montagne di documenti e di morti certificano il contrario. Rispetto alle menzogne offensive dell'ultimo papa qualcuno obietterà che il penultimo…. Differenze vi sono ma attenzione: come notano Carcano e Orioli, in molte occasioni «Giovanni Paolo II chiese perdono a Dio (non alle vittime) per le colpe commesse "dai figli della Chiesa" non dalla Chiesa che non può ammettere di sbagliare perché si ritiene "infallibilmente conservata nella verità"».
Fra le storie più vicine a noi, ma già dimenticate, impressionante è quella dei «concubini di Prato» che, offesi dal vescovo per la decisione di sposarsi solo in Comune, lo denunciano ma alla fine perdono il processo perché i giudici decidono che in quanto battezzati sono «sudditi» della Chiesa. Discutibile ma… ecco il senso dello sbattezzo, cancellarsi dal rito che segna un'appartenenza nella quale molti non credono. Sbattezzarsi era tecnicamente impossibile finché, grazie alla nuova legge sulla privacy, si trova il grimaldello: chiedere la modifica dei dati «sensibili». Nel '99 il garante della privacy ammette: «è giusto che i registri testimonino l'avvenuto mutamento di volontà». Fioccano le richieste di «sbattezzo» e la Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) mette in difficoltà le parrocchie che nicchiano. Gli ultimi paragrafi di Uscire dal gregge raccontano questa interminabile «partita a scacchi» e spiegano che fare concretamente.
Nel libro c'è molto di più. Si racconta di altri Paesi europei e della vera laicità; si indaga su alcuni significativi deliri statistici italiani sia a livello nazionale che locale (Cagliari, Imola e Rimini in testa); si ricorda un'uscita particolarmente bigotta di Sergio Cofferati; si fotografa il tipico (tanto tipico non è) «incredulo»; si polemizza su certe interpretazioni del multi-culturalisno; si accenna a come gli «apostati» cercano di uscire anche da ebraismo e Islam.
Pur se si schierano con nettezza, Carcano e Orioli non insultano e neppure si lasciano andare a irriverenze. Salvo forse in due citazioni: un macigno dei Pink Floyd ("Sheep" nell'album Animals ) e un'esilarante sonetto di Trilussa dove «la pupa» viene battezzata Anarchia… Certo nell'Italia dei Buttiglione e dei Rutelli qualcuno potrebbe considerare satanesca pure la battutina di Eduardo De Filippo (in Gli esami non finiscono mai ): «Gesù Cristo si fece battezzare a 30 anni: perché tanta fretta per i figli miei?».

Repubblica Palermo 7.10.09
"Torno alla regia con un giallo"
Il film da "È stato il figlio" di Alajmo e il progetto con Celestini
Il "nuovo" Ciprì "La città sarà lo sfondo di questa storia. Con Bellocchio ho fatto anche uno spot"
di Paola Nicita


«Sto pensando a molti progetti, sia per quanto riguarda la regia, che per il ruolo di direttore della fotografia. Due modi diversi di affrontare l´immagine, le storie, il modo di raccontarle».
Daniele Ciprì, ad Agrigento per ritirare il Premio Efebo d´Oro vinto per la miglior fotografia con "Vincere" di Marco Bellocchio, svela alcuni impegni futuri del suo nuovo percorso di "solista", oltrepassando il suo naturale riserbo per quello che ancora non è stato fatto, o è in corso d´opera. Dice Ciprì: «Intanto la regia, un ritorno che sicuramente ha un carico di responsabilità, ma posso immaginare anche di tanta curiosità, visto che le ultime regie erano firmate Ciprì e Maresco. Farò un film tratto dal libro di Roberto Alajmo, "È stato il figlio"; in questo momento, per la verità, sono in una fase preparatoria, nel senso che mi sto occupando della scrittura. Le riprese vere e proprie inizieranno il prossimo anno. D´altronde non ho fretta, voglio prendermi il tempo necessario».
Ciprì, il ritorno dietro la cinepresa rivede un luogo assai conosciuto, per la sua cinepresa: Palermo. A distanza di anni, come la racconterà?
«Si tratterà di un film giallo, le cui vicende si svolgono per l´appunto in città, a Palermo. Come la racconterò? Farà da sfondo, è chiaro. Comunque non mi sembra che la città sia stata tanto protagonista, nel mio passato».
Se si pensa a certe immagini di "Cinico Tv" è uno sfondo, è vero, ma certo molto forte. Impossibile non ricordare certi scorci di periferia o centro storico...
«Sì, in questo senso è vero. Ma in realtà a Ciprì e Maresco forse piacevano di più i film di genere, dalla fantascienza all´horror. La realtà non ci interessava più di tanto».
Anche se i personaggi che voi coinvolgevate erano molto reali, presi dalla strada, di grande impatto...
« Erano talmente veri da essere surreali. Per questo li facevamo diventare protagonisti. Surreali, oltre la realtà, per l´appunto».
Come direttore della fotografia ha ricevuto tanti prestigiosi riconoscimenti per "Vincere": Efebo, Nastro d´Argento, Globo d´oro, a novembre arriverà un altro premio. Come è stato lavorare con Marco Bellocchio?
«Un esperienza bella e interessante, che mi ha dato tanto. Per me Bellocchio è un maestro, ci siamo intesi subito e posso parlare certo di collaborazione, ma soprattutto di amicizia, dello stesso modo di intendere profondamente le cose, i fatti».
Quindi un sodalizio destinato a proseguire?
«Sì, e ne sono molto contento. Con Marco Bellocchio continueremo senza dubbio a lavorare insieme, ai suoi nuovi film. Intanto abbiamo realizzato una pubblicità per una banca che dalla fine di ottobre verrà diffusa. Questo incontro, e poi l´occasione lavorativa, si è presto trasformata in uno stimolo per andare avanti, per cambiare anche la direzione del mio lavoro. Senza avere paura di cambiare le cose, di apportare modifiche. Una sfida che mi piace, mi appassiona».
Altri impegni da direttore della fotografia?
«Ho un impegno, anche questo sicuramente interessante e che mi appassionerà. E anche questa si tratta di un amico, Ascanio Celestini, che firma la sua prima regia cinematografica».

martedì 6 ottobre 2009

Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

due pagine tratte da
"Follia e psichiatria" di Michel Foucault (Raffaello Cortina Editore 2006)


M. Foucault: Su questo tema non si potrebbe dire, per esempio, quando si attribuisce la frigidità di una donna (o eventualmente la sessualità di un uomo) al trauma dello stupro, o anche al trauma di un’esperienza ripetuta di esibizionismo, non si può ammettere che si fa svolgere allo stupro il ruolo dell’Edipo nelle psicoanalisi facili?

J.P.Faye: Durante un dibattito alla Shakespeare & Co., Kate Millett ha raccontato pubblicamente che aveva subito un grave stupro a Parigi, uno “stupro psichico”…L’ha descritto molto dettagliatamente: in un caffè, lo stupratore psichico si era seduto al tavolino accanto al suo e, quando lei cambiava caffè, lui la seguiva e le si sedeva di nuovo accanto…
Mi è stato raccontato anche un esempio più inquietante. Una ragazzina di otto anni, stuprata da un giovane bracciante agricolo di ventotto anni, in un fienile. Teme che l’uomo la voglia uccidere, lui le strappa i vestiti. Poi lei ritorna a casa – suo padre fa il medico, è cardiologo, che si interessa anche a Reich: da cui la contraddizione. Vede rincasare la figlia, che non apre più bocca. Resta completamente muta per diversi giorni, ha la febbre. Non dice nulla, nemmeno una parola. Nel giro di qualche giorno, tuttavia, fa vedere che è ferita fisicamente. Il padre cura la lacerazione, sutura la ferita. Medico e reichiano, sporge denuncia? No, si limita a parlare con il bracciante agricolo, prima che lui se ne vada. Non scatta alcuna azione giudiziaria. Parlano – tutto qui. Ma il racconto continua con la descrizione di un’enorme difficoltà psichica a livello della sessualità, più avanti nel tempo. Che è verificabile soltanto quasi dieci anni dopo.
È molto difficile pensare qualcosa a livello giuridico in questo caso. Non è facile a livello della psiche, mentre sembra più semplice a livello del corpo.

M. Foucault: In altre parole, bisogna dare una specificità giuridica all’aggressione fisica nei confronti del sesso? È questo il problema.

J.P. Faye: C’è una lesione che è al tempo stesso fisica, come un pugno sul naso, e insieme anticipa una “lesione psichica” – tra virgolette – forse non irreversibile, ma che sembra molto difficile da misurare. Al livello della responsabilità civile, “misurare il danno” è una questione delicata. Al livello della responsabilità penale, che posizione può prendere un partigiano di Reich? Può presentare una denuncia, intentare un’azione repressiva?

M. Foucault: Ma tutte e due voi, in quanto donne, siete immediatamente urtate dall’idea che si dica: lo stupro rientra nelle violenze fisiche e pertanto deve essere trattato semplicemente come tale.

M. O. Faye: Soprattutto quando riguarda bambini o ragazzine.

D. Cooper: Nel caso di Roman Polanski negli Stati Uniti, in cui si trattava di una questione di sesso orale, anale e vaginale con una ragazza di tredici anni, la ragazza non sembrava traumatizzata, ha telefonato a un’amica per discutere dell’accaduto, ma la sorella ha origliato dietro la porta e così si è messo in moto tutto il processo contro Polanski. In questo caso non c’è una lesione, il “trauma” deriva da “formazioni ideali”, sociali. La ragazza sembra aver tratto godimento dalla sua esperienza.

M. Foucault: Sembra che fosse consenziente. E questo mi porta alla seconda domanda che volevo porvi. Lo stupro può comunque essere definito abbastanza facilmente, non solo come un non-consenso, ma come un rifiuto fisico di accesso. Per contro, tutto il problema che si pone, nel caso delle ragazze ma anche dei ragazzi – perché, legalmente, lo stupro nei confronti dei ragazzi non esiste – è il problema del bambino che viene sedotto. O che comincia a sedurre voi. Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?

D. Cooper: Faccio una digressione: due anni fa in Inghilterra cinque donne sono state condannate – mi sembra con la condizionale – per lo stupro di un uomo. Ma non sarebbe il sogno di molti uomini?

M. Foucault: Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti.

M. O. Faye: Anche i bambini tra di loro, ma su questo si chiudono gli occhi. Quando un adulto entra in gioco, però, non c’è più uguaglianza e equilibrio tra le scoperte e le responsabilità. C’è una disuguaglianza… difficile da definire.

M. Foucault: Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia. Ma una cosa mi ha colpito ieri, quando ne ho parlato con alcuni membri del Sindacato della magistratura. Uno di loro aveva delle posizioni davvero radicali, lo stesso che sosteneva che lo stupro non dovesse essere penalizzato in quanto stupro, dato che è semplicemente una violenza. Inizialmente, anche a proposito dei bambini ha preso una posizione molto radicale. Ma a un certo punto, è sobbalzato, e ha esclamato: devo dire, però, che se vedessi qualcuno fare sesso con i miei figli!
Inoltre, esiste anche il caso dell’adulto che è in un rapporto di autorità rispetto al bambino. Sia come genitore, sia come tutore, oppure come professore, come medico. Anche qui si sarebbe tentati di dire: non è vero che da un bambino si può ottenere ciò che non vuole veramente, attraverso l’effetto dell’autorità. Tuttavia, il problema dei genitori è considerevole, soprattutto quello del patrigno, che è piuttosto frequente.

Foucault Michel, Follia e psichiatria, Raffaello Cortina, 2006 (pp. 219-221)3
da Wikipedia:
Mario Mieli (da cui prende nome il Circolo di cultura omosessuale di Roma)


Mario Mieli (1952-1983) è considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale/ transgender in Italia.
“Fu uno dei primi a contestare le categorie di genere vestendosi sempre al femminile; coprofago senza vergogna, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili.”
A lui è dedicato il Circolo di cultura omosessuale di Roma, fondato nell’anno del suo suicidio.
“L'assunto di fondo del pensiero di Mario Mieli consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente bisessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che (attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione"), costringe a considerare l'eterosessualità come "normalità" e tutto il resto come perversione. ...
Mieli abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale.
Tim Dean, psicoanalista dell’Università di Buffalo, il quale ha redatto l'appendice dell'edizione Feltrinelli del libro di Mieli, Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società (...) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (...) In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».
A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».
I bambini, secondo quello che sembra il pensiero di Mieli, possono però "liberarsi" e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie agli adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».
Mario Mieli si rifaceva alle teorie di Freud sulla sessualità infantile. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione".
Conseguentemente eterosessualità ed omosessualità sarebbero varianti possibili (l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, considera l'omosessualità come "una variante naturale della sessualità umana").
Anche e soprattutto in questo senso Mario Mieli invoca l'amore per i bambini."

Corriere della Sera 6.10.09
Prevista un’autodichiarazione e l’indicazione di un fiduciario
Firenze, sì al biotestamento La Curia: un atto illegittimo
Via al registro, il Pd si divide. E il sindaco Renzi lascia l’aula
di Marco Gasperetti

FIRENZE — Il consiglio co­munale approva una delibera (presentata dal Pd, partito di maggioranza) che istituisce il registro dei testamenti biologi­ci ancor prima di una legge na­zionale e a Palazzo Vecchio scoppia la polemica. Tre consi­glieri del Pd votano contro e di fatto si schierano con l’opposi­zione di centrodestra e il sinda­co, Matteo Renzi, decide di non partecipare ai lavori del­l’assemblea e di non rilasciare dichiarazioni.
A rendere ancora più esplo­siva la vicenda arriva in serata una nota durissima dall’Arci­diocesi, dunque espressione di­retta dell’arcivescovo Giusep­pe Betori, nella quale non solo si boccia il provvedimento, ma si esprimono «rammarico e preoccupazione per la decisio­ne ».
È la seconda volta che la cu­ria fiorentina interviene su de­cisioni del consiglio comuna­le. Un analogo documento di dissenso fu presentato all’indo­mani della concessione della cittadinanza onoraria a Beppi­no Englaro, il papà di Eluana.
La delibera, presentata ieri dalla consigliera del Pd Clau­dia Livi, garantisce la possibili­tà di indicare in un apposito re­gistro indicazione del notaio, del fiduciario o del depositario dell’eventuale biotestamento (per certificare a quale cura de­ve essere sottoposto in caso di impossibilità a farlo personal­mente) per garantire la certez­za della data di presentazione e la fonte di provenienza.
Ieri a Palazzo Vecchio, nel Sa­lone dei Duecento, hanno vota­to 44 consiglieri: 26 a favore, 18 contrari. Tra i favorevoli i consiglieri della maggioranza, con tre defezioni importanti: il vicepresidente dell’assemblea Salvatore Scino, Massimo Frati­ni e Antonio De Crescenzo tut­ti del Pd. Compatta nel votare no l’opposizione che prima del dibattito aveva chiesto di rin­viare il voto per aspettare i ri­sultati della legge nazionale sul testamento biologico che andrà in Parlamento a novem­bre.
Poi, in serata, la nota di dis­senso totale della curia arcive­scovile. Che giudica la deli­bera approvata in consi­glio un «atto ideologico, illegittimo e privo di effi­cacia giuridica, essendo la materia nell’esclusiva competenza del legisla­tore nazionale». E poi «deplora l’indebita e ten­denziosa confusione ter­minologica tra dichiarazio­ni anticipate di trattamento e testamento biologico, l’in­fondatezza di ritenere alimen­tazione ed idratazione artificia­li atti di natura terapeutica, l’evidente cancellazione di fat­to del ruolo del medico che emerge dalla delibera».
Nello stesso documento l’Ar­cidiocesi stigmatizza il compor­tamento di alcuni politici che si definiscono cattolici che non hanno percepito «come in un caso come questo ricorres­sero quelle condizioni di coe­renza con i valori fondamenta­li della visione antropologica il­luminata dal Vangelo che ri­chiedono ossequio all’insegna­mento del Magistero». Dun­que l’Arcidiocesi boccia senza appello il provvedimento di Pa­lazzo Vecchio. «Ancora un vol­ta — si legge nella nota — Fi­renze si trova ad essere ridotta a strumento di fughe ideologi­che tese a condizionare il legi­slatore nazionale, senza alcun reale vantaggio per la città, of­frendo nuovi pretesti di divi­sione, non rispettando la sensi­bilità di non pochi dei suoi cit­tadini ». Qualche imbarazzo tra i cat­tolici del Pd. Ma anche rispo­ste alla curia decise e convinte. Come quella della consigliera Caterina Bitti: «Ho votato a fa­vore di un atto amministrati­vo, non un documento con im­posizioni morali. E l’ho fatto in totale coscienza per garantire quei cittadini che vogliono re­digere il testamento biologi­co ».

Corriere della Sera 6.10.09
In programma il primo «Festival dei matti» e un dibattito sulla «salute mentale»
Venezia e Milano, la parola alla follia
di Cristina Taglietti

A Venezia (ma anche a Milano) arriva­no i folli. Non poteva che tenersi nel­la città natale di Franco Basaglia, il padre della legge 180 che trent’anni fa chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, il primo «Festival dei matti». Numero zero concentrato in due giorni, prove tecniche per una possi­bile rassegna futura, il festival è un’inizia­tiva coraggiosa intrapresa dalla cooperati­va Con-Tatto guidata da tre tenacissime donne venete, la psicoterapeuta Anna Po­ma, la psicologa Laura Barozzi e l’opera­trice socio-culturale Alessia Vergolani e sostenuta dall’assessorato alla cultura del­la giunta Cacciari. La follia, a lungo rele­gata oltre i confini della città («perché la cultura occidentale — si chiedeva Michel Foucault ne La storia della follia — ha af­fermato con chiarezza che la follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e palli­do ove era come annullata?») viene ripor­tata in piazza, con incontri, discussioni, spettacoli.
Ad inaugurare il festival sarà una conver­sazione tra il filosofo Umberto Galimberti e lo psichiatra Franco Rotelli, già collabora­tore di Basaglia a Parma e Trieste (venerdì al teatro Goldoni, ore 19) a cui seguirà (alle 21) un incontro tra Elio delle Storie Tese, Carlo Antonelli e Massimo Cirri sul tema «la normalità presa in contropiede». Il giorno successivo (libreria Mondadori, ore 10.30) Alice Banfi, presenterà il suo li­bro Tanto scappo lo stesso mentre alle 21 andrà in scena in anteprima nazionale il te­sto della stessa Maraini, Stravaganza , in­terpretato dagli attori dell’Accademia del­la Follia, ex pazienti psichiatrici.
I trent’anni della legge Basaglia offro­no lo spunto di partenza anche all’incon­tro «La salute mentale», organizzato dal­la fondazione Corriere della Sera (doma­ni ore 18, Sala Buzzati, via Balzan 3). Sarà Claudio Magris (che ai successi e alle la­cune della legge ha dedicato un lungo e appassionato articolo sul «Corriere» qual­che mese fa) ad introdurre un dibattito cui parteciperanno, oltre a Franco Rotelli e Massimo Cirri, anche Carlo Ciccioli, vi­cepresidente della commissione Affari sociali e Sanità della Camera e Nadia Ma­rangi, presidente dell’associazione Il gab­biano di Martina Franca. Un modo per an­dare, come diceva Basaglia, al di là della «follia istituzionale» e riconoscerla «là dove essa ha origine, cioè nella vita».

Corriere della Sera 6.10.09
Risponde Sergio Romano
1929, Palazzo del Laterano, la chiesa riconosce lo Stato

Vorrei la sua opinione sulle scelte compiute dalla Chiesa nel periodo tra gli anni ’20 e ’60 del secolo scorso. Molte polemiche ha suscitato il comportamento di Pio XII di fronte alle leggi razziali e alla discesa in guerra dell’Italia a fianco del nazismo. Ma non è stato sufficientemente chiaro il giudizio sulla firma dei Patti Lateranensi del 1929.
Quell’accordo risolse senza dubbio numerosi problemi a Pio XI e Mussolini, ma rappresentò anche l’avallo ufficiale della Chiesa al regime fascista e alla sua politica liberticida. Non a caso la simbiosi tra Chiesa e dittatura è rimasta fiorente fino agli anni ’60 in molti Paesi di fede cattolica in Europa e America Latina. Una convivenza pragmatica, ma poco etica simile a quanto avvenne nello stesso periodo con la mafia siciliana, ma questa è tutta un’altra storia.
Angelo Tirelli

Caro Tirelli,
Occorre fare un passo in­dietro. Negli anni decisi­vi dell’unità nazionale, dalla proclamazione del Regno alla presa di Roma, la Chiesa ri­fiutò di riconoscere lo Stato ita­liano e di accettare la perdita del potere temporale. Fu una posizione di principio, dettata dalla convinzione che il Pie­monte avesse violato i sacro­santi diritti della Chiesa roma­na. Ma fu anche una posizione politica, suggerita dalla convin­zione che il nuovo Stato non avrebbe retto alla prova del tempo. Per alcuni decenni, si­no agli inizi del Novecento, la Santa Sede continuò ad atten­dere la crisi internazionale o na­zionale che avrebbe provocato il collasso dell’«usurpatore».
Il suo atteggiamento comin­ciò a cambiare nei primi anni del Novecento quando la curia romana si accorse, soprattutto all’epoca della guerra di Libia, che un certo patriottismo si era diffuso nel Paese e che esisteva ormai un clero nazionale deci­so a collaborare con le pubbli­che istituzioni per esercitare al meglio le sue funzioni pastora­li.
Un primo segno di cambia­mento fu il consiglio di Pio X agli elettori cattolici nel 1904: «Fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza». Ma il fattore decisivo fu la Grande Guerra, quando la Chiesa comprese che soltanto il possesso di un territorio, sia pure piccolo, le avrebbe consentito di mantene­re i rapporti internazionali ne­cessari alla sua missione e alla sua esistenza. I primi contatti con il governo italiano ebbero luogo a Parigi, durante la confe­renza della Pace, con Vittorio Emanuele Orlando, allora presi­dente del Consiglio, e furono interrotti soltanto dalle turbo­lenze politiche degli anni se­guenti. Ma vennero ripresi do­po l’arrivo di Mussolini al pote­re nell’ottobre del 1922 per con­cludersi nel febbraio del 1929.
I Patti Lateranensi, quindi, furono uno storico trattato di pace fra due entità che si erano sino a quel momento guardate in cagnesco. La Chiesa riconob­be l’esistenza dello Stato italia­no e questi riconobbe l’esisten­za, all’interno del suo territo­rio, di un micro Stato in cui il Papa avrebbe esercitato ciò che ancora restava del suo antico potere temporale; mentre il Concordato fu il trattato con cui questi due soggetti politici, destinati a vivere come fratelli siamesi, fissarono le regole del­la loro convivenza. La Chiesa quindi non riconobbe il fasci­smo, anche se il regime, in quel momento, dovette sem­brarle meglio di qualsiasi altra realistica prospettiva. Riconob­be lo Stato italiano.

Repubblica 6.10.09
Socialdemocrazia e Europa
di Mario Pirani

È il tramonto definitivo dell´era socialdemocratica, senza speranza di nuove aurore, oppure si giustifica l´attesa che il pendolo torni a sinistra? La domanda va posta, senza addolcirla con cure palliative. A darle senso sta la dimensione continentale e non nazionale del rovescio. Sono semi diroccati o stanno per esserlo i pilastri europei della socialdemocrazia, quelli che non erano mai stati inquinati dalla ascendenza comunista, come, invece, i riformisti italiani, o da uno schematismo vetero marxista, come i socialisti francesi.
No, qui si parla proprio di quei partiti che si erano contrapposti, con un´altra visione del mondo, all´utopia comunista e avevano saputo edificare quella economia sociale di mercato, su cui si è retto per tre quarti di secolo il benessere diffuso, principalmente attraverso un Welfare allargato alle grandi maggioranze, dell´Europa moderna. Prima è caduta la Svezia, dove la socialdemocrazia è stata condannata all´opposizione dopo aver garantito conquiste ineguagliabili, invidiate in tutto il mondo industrializzato. Oggi è la volta della Germania, dove il più antico partito operaio, nato nell´Ottocento, aveva saputo rifondarsi a Bad Godesberg nel 1959, mandando in soffitta non solo il marxismo ma ogni radicalismo pseudo rivoluzionario e offrendo, così, l´impianto teorico del socialismo riformista europeo. Per un domani prossimo venturo è data, infine, ormai per certa una sconfitta epocale del Labour, un partito che nel dopoguerra aveva aperto la strada ai nuovi diritti per tutti i cittadini, col piano Beveridge e il Servizio sanitario pubblico e che, con Blair, sul finire degli anni Novanta, aveva accantonato ogni radicalismo sindacale per saldare una alleanza coi ceti medi, che sembrava dover sfidare la svolta del nuovo secolo.
Così non è stato e la sconfitta getta un´ombra lunga proprio su quella sinistra che si era rivelata più matura alla prova del governo. E allora? Quali errori gravi ha commesso per meritare una così amara lezione? Può sembrare un paradosso affermare che se il problema fosse l´individuazione degli sbagli compiuti, allora anche la terapia per la rimonta non apparirebbe tanto ardua e incerta. Neanche le spiegazioni sociologiche soddisfano appieno. Quelle, ad esempio, sulla scomparsa dell´humus fondativo del socialismo riformista, sulla fine della catena di montaggio, sostituita dall´economia informatica, sul decadere, di conseguenza, del ruolo preminente della classe operaia. Queste sono al più crepe attraverso cui è passata l´alluvione. Anzi, per restare nell´ambito dell´analogia, si trattava dei segni anticipatori di un terremoto devastante. Ma si può far colpa agli uomini, e in ispecie ai socialisti in quanto vocati alla protezione civile del mondo del lavoro, se si è verificato un sisma di 12 gradi della scala Mercalli? Questo è quel che è avvenuto. Con la globalizzazione, un moto tellurico, da nessuno previsto in anticipo, quando si immaginava lo sviluppo di quello che si chiamava il Terzo mondo come un processo lento e problematico. E, invece, in pochi decenni centinaia di milioni di contadini e proletari cinesi, coreani, indiani, brasiliani, indonesiani si sono ritrovati operai e chi non ce l´ha fatta preme, anche a rischio della vita, alle frontiere del mondo dei ricchi. Migliaia di nuove fabbriche, spaventosamente concorrenziali, sono sorte in paesi, ieri lontani ma nel mondo d´oggi a tiro di computer; i capitali si sono spostati e si spostano in tempo reale, come la comunicazione. La concorrenza si è fatta spietata e senza sconti. A soffrirne per prima le conseguenze è stata l´Europa, ben più benestante rispetto al resto del mondo, ben più protetta dall´ombrello di un Welfare costoso ma giudicato pur sempre insufficiente da chi ne godeva e ne gode. Un´Europa, adusa, in un´ottica essenzialmente atlantica, a confrontarsi soprattutto con l´America che, peraltro, con il suo deficit, alimentava anche la nostra crescita. Le socialdemocrazie al governo hanno affrontato la tempesta crescente come hanno sempre fatto i capitani di lungo corso, quando le ondate rischiano di far colare a picco la nave: gettando a mare una parte, quella non indispensabile del carico, cercando di salvare il salvabile e di non perdere il vascello. Di qui le riforme di Schroeder, quando era Cancelliere o di Blair e anche di Prodi, se vogliamo accennare all´Italia. Sol che le riforme storiche di un tempo davano sempre qualcosa o anche molto in più di prima, incrementavano il lavoro e il reddito, la protezione e la sicurezza; le riforme di oggi sono sinonimo di tagli e decurtazioni, indispensabili quanto dolorose, e danno sempre qualcosa in meno. Per salvare il futuro si è penalizzato necessariamente il presente. A pagare il conto sono state in primo luogo le classi sociali che avevano nel socialismo riformista il loro polo di riferimento politico.
In parallelo questo viluppo contraddittorio si è intersecato con l´unica, grande iniziativa che l´Europa dei partiti riformisti, essenzialmente socialisti e cristiani, ha saputo prendere, la creazione dell´euro. La sola, straordinaria innovazione dirompente per rispondere alla globalizzazione, che ci ha consentito di reggere alla prova della grande crisi, salvandoci da una devastazione monetaria, altrimenti inevitabile. Solo che lo sforzo e lo slancio europeo, dopo la moneta unica, si è affievolito, fin quasi a sparire. Come quegli atleti di fondo che sembra stiano vincendo e crollano all´ultimo chilometro. Occorreva, per contro, riprendere le idee del socialista Jacques Delors, mai abbastanza rimpianto presidente della Commissione di Bruxelles, per un grande piano integrato di rilancio economico. Così nella percezione dei più, i vantaggi della moneta europea sono passati in secondo piano, di fronte alla evidenza che con uno stipendio di un milione al mese, arrivavano a cavarsela, con 500 euro sono alla miseria; e anche 1000 euro sono ben lontani da due milioni. In questo quadro d´assieme i flussi del consenso politico, anche quelli che correvano in alvei consolidati da una tradizione di appartenenza, hanno preso vie di fuga, magari calamitati da offerte demagogiche ma alla apparenza salvifiche, a destra e a sinistra. La socialdemocrazia ne sta uscendo devastata e amputata della sua ala sinistra. Il dato più simbolico sta in quel 12% di Die Linke, il partito che in Germania raccoglie gli eredi del comunismo dell´Est. Sono passati appena vent´anni da quando i tedeschi distrussero quel Muro, costato la vita a tanti loro concittadini che avevano cercato di oltrepassarlo. Oggi sembra che quegli stessi che anelavano alla libertà, abbiano la nostalgia di un nuovo Muro che li preservi dalla globalizzazione. In Italia Berlusconi, saldamente ancorato alla Lega, rassicura i suoi elettori con un anti europeismo intermittente quanto furbo: a suo tempo ce l´aveva con l´euro, oggi attua i respingimenti in mare ma accusa Bruxelles di varie nefandezze, e «salva» l´Alitalia dall´assalto francese mentre Tremonti mette sul banco d´accusa la finanza internazionale e vorrebbe alzare una anti Muraglia al confine cinese. Ma le cose italiane sono ormai cose di terzo piano, viste su scala mondiale. Il panorama è cambiato. Con la socialdemocrazia è anche l´Europa, in parallelo non casuale, che arretra. Il G8 lascia il passo al G20, al Fondo monetario, il peso europeo è decurtato per dare spazio e portare in parità le nuove, grandi potenze emergenti, la Cina, l´India, il Brasile. Resta da spendere una parola, perché da qui eravamo partiti, sull´incerto futuro della socialdemocrazia: si può immaginare che la tentazione sarà di spostarsi verso la sinistra radicale. Potrà così rialzare il vessillo di un tempo che fu, ma sugli isolati spalti di una ridotta minoritaria; se invece resterà in campo, pur pesta e ferita, potrà puntare le sue residue carte su un rilancio forte dell´Europa. All´Europa, magari solo a quella dell´euro, è, infatti, indissolubilmente legato il suo destino. O ripartono assieme o per l´una e l´altra il futuro sarà per sempre alle spalle.

Repubblica 6.10.09
Gridare al golpe
di Giuseppe D'Avanzo

Leggete con attenzione queste parole. Le diffondono nel primo pomeriggio i presidenti del gruppo del Popolo della Libertà alla Camera e al Senato, come dire la maggioranza politica che governa il Paese. Due i presidenti e due i vicari. Si chiamano Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino. Ricordate questi nomi ché parlano e gridano come oche in Campidoglio nel nostro interesse, a difesa della nostra democrazia. Ecco che cosa dicono e di che cosa, preoccupatissimi, avvertono gli italiani: «Mentre il governo Berlusconi affronta la realizzazione degli impegni assunti con gli elettori, si tenta di delegittimarne l´azione. Siamo certi che questo disegno non troverà spazio nelle istituzioni. Gli attacchi ci portano ad assicurare che in Parlamento, così come nel Paese, il centro destra proseguirà la politica del fare e del governare che nessun disegno eversivo potrà sconfiggere». Disegno eversivo, addirittura. Bisogna drizzare le antenne, essere vigili, accidenti. Accade qualcosa di imprevisto, inimmaginabile e potenzialmente pericoloso e noi che ce ne stiamo qui, sciocchini, a pensare che il Tg1 di Augusto Minzolini sia una sventura per l´informazione e l´opinione pubblica.
La faccenda deve essere terribilmente seria se una maggioranza forte di sovrabbondanti numeri parlamentari, sicura nel consenso popolare e gratificata dall´obbedienza di un establishment gregario perché fragile, decide di lanciare un allarme di questo genere. Disegno eversivo. Viene da immaginare che le forze armate (chi? l´Arma dei carabinieri? l´Esercito? l´Aeronautica o la Marina?) fanno sentire un minaccioso ukase nel Palazzi del governo, sul collo dei ministri il peso della sciabola. O che truppe armate (russe, tedesche?) si preparano a violare i confini nazionali con la complicità di traditori della Patria o formazioni rivoluzionarie stiano guadagnando dai monti le vie che portano a Roma, alla Capitale. Viene in mente, in questo pomeriggio nero, che già al mattino il Brighella che dirige il giornale del capo del governo, ci ha avvertito: c´è un golpe in atto, e noi - maledetti - che non lo avevamo preso su serio, come sempre.
Golpe, disegno eversivo. Che diavolo accade, che cosa non abbiamo visto, intuito, compreso? Deve essere proprio vero che l´Italia è in pericolo come mai, se anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, l´Egoarca, proprio lui, dice: «Sappiano comunque tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale e non c´è nulla che possa farci tradire il mandato che gli italiani ci hanno conferito». L´uomo che comanda tutto vuole dirci - sia benedetto - che non mollerà, che qualcuno vuole levarselo di torno con mezzucci illeciti e antidemocratici, addirittura con la violenza, ma lui - statista tutto d´un pezzo - non gliela darà vinta. L´affare è serio, non c´è dubbio. Interviene anche l´amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani (e non è questo un segno che la democrazia è in pericolo?) per avvertire che «si vuole colpire Silvio Berlusconi». Conviene svegliarsi, mettersi al lavoro e cercare di capire che cosa minaccia l´Italia, la democrazia, il governo legittimamente eletto dal voto popolare. I quattro dell´apocalisse che dirigono in Parlamento il Popolo della Libertà offrono una traccia: «I contenuti di una sentenza che arriva venti anni dai fatti rafforza l´opinione di quanti pensano che si sta tentando con mezzi impropri di contrastare la volontà democratica del popolo italiano». È una sentenza allora la minaccia per la democrazia? Sì, dice l´Egoarca «allibito»: «È una sentenza al di là del bene e del male, è certamente una enormità giuridica». Sì, dice il boss della squadra rossonera: «È assurdo ipotizzare che vi siano stati comportamenti men che corretti di Fininvest e Berlusconi».
Che cosa avrà mai deliberato questa sentenza? Il carcere per l´Egoarca? Il suo esilio dal Paese che governa? L´interdizione dal pubblico ufficio cui lo hanno chiamato gli italiani? Leggere la sentenza, allora, per capire chi sono i golpisti, dove si nasconde la minaccia per la nostra democrazia. Prima sorpresa. È una sentenza civile e si tira un sospiro di sollievo perché le motivazioni di un giudice monocratico, appellabili e dunque soltanto primo momento di una controversia tra due soggetti privati (Berlusconi, De Benedetti), non può rappresentare un rischio né per la democrazia né per il governo. Che c´entra il disegno eversivo? Come può essere quella decisione - peraltro non definitiva - addirittura un golpe? E che diavolo ci sarà mai scritto in quella motivazione di 146 pagine che lascia «allibito» l´uomo che comanda tutto? Di Berlusconi si parla in quattro pagine, 119/122. Quel che si legge, lo si può riassumere in pochi punti.
1. Berlusconi fino al 29 gennaio 1994 è stato presidente del consiglio di amministrazione della Fininvest. Indiscutibile, come è indiscutibile che a quella data non era né capo partito né parlamentare né capo del governo. Era soltanto un imprenditore che cura i suoi affari. Come li cura, lo si legge al punto due.
2. Un suo avvocato - suo, di Berlusconi - corrompe il giudice per manipolare una sentenza che consente alla Fininvest di acquisire la Mondadori. L´incarico all´avvocato corruttore lo assegna Berlusconi?
3. Berlusconi, per certi inghippi legislativi che qui è inutile ricordare, deve rispondere non di corruzione in atti giudiziari, ma di corruzione semplice. I giudici decidono di concedergli le attenuanti (è diventato presidente del Consiglio e sembra tenere la retta via: merita riguardo) e, fatti due conti, concludono di «non doversi procedere» contro Berlusconi: «Il reato è estinto per intervenuta prescrizione».
4. Berlusconi non ci sta. Vuole il «proscioglimento nel merito». Chiede che si dica: è innocente. La Cassazione gli dà torto: no, se guardiamo le prove che abbiamo sotto gli occhi, non c´è alcuna evidenza della tua innocenza. Ora, Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Non lo fa. Si accontenta di essere il «privato corruttore» che, con la complicità dell´avvocato, ha comprato la sentenza.
5. Ragiona ora il giudice civile. È dimostrato che i soldi della corruzione provengono da conti della Fininvest, dove è apicale la posizione di Berlusconi. È «normale» e «ordinario» credere che un bonifico di quella entità (3 miliardi), utilizzato per la corruzione, possa essere inoltrato solo se chi presiede alla compagine sociale l´autorizzi. Questa prova si chiama presuntiva e il giudice scrive: «La prova per presunzioni nel processo civile ha la stessa dignità della prova diretta» e giù - nelle motivazioni - sentenze delle Sezioni unite della Cassazione. Conclude il giudice: «Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva». Ha ragione o torto, lo si vedrà con il tempo.
Questi i fatti e le parole che coinvolgono Berlusconi, uomo di affari che cede all´imbroglio per averla vinta, nella sentenza che condanna la Fininvest a un risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. Ora non si comprende come l´accertamento di ragioni giuridiche tra due privati e la decisione di un giudice possano compromettere la nostra democrazia e far gridare al golpe. Soprattutto perché sono soltanto privatissimi fatti loro - di Berlusconi e De Benedetti - e non nostri.
Non c´è alcun interesse pubblico in questa storia. Di pubblico ci deve essere soltanto la preoccupazione di chi vede trasformare gli affari dell´Egoarca, condotti negli anni precedenti all´avventura politica con metodi malfamati - in questione politica. Di pubblico ci deve essere soltanto l´allarmata conferma che Berlusconi trasfigura in affare nazionale i suoi affari privati con un´ostinazione che, da un lato, gli impedisce di governare con credibilità e, dall´altro, gli consente di sovrapporre la sua sorte personale al destino del Paese. Come se l´Italia fosse Berlusconi e la sua ricchezza, il suo portafoglio fossero la nostra ricchezza e il nostro portafoglio. Questa sciocchezza la possono riferire i quattro corifei dell´Egoarca, che non temono il ridicolo, o scrivere i Brighella dell´informazione di regime, che ha quotidiana confidenza con la menzogna, ma a chiunque è chiaro che il grido contro l´inesistente disegno eversivo è soltanto l´ultimo abuso di potere di un capo di governo che crede di essere il proprietario del Paese.

Repubblica 6.10.09
Niente condom, siamo teenager tre su quattro non lo usano mai
di Maria Novella De Luca

Noia, ignoranza, indifferenza. Dimenticati gli anni dell´emergenza Aids oggi gli adolescenti italiani fanno sesso in modo sempre meno sicuro E i ginecologi lanciano l´allarme: in aumento malattie e aborti

Dicono che usarli è difficile, complicato, poco sexy. Spiegano che l´amore va colto, preso dove e quando arriva, se ci si può "proteggere" meglio, altrimenti pazienza, cercheremo di stare attenti. Aids, condom, contraccezione, gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili: per i teenager l´alfabeto della sessualità sicura è un mondo sconosciuto. A leggere i loro blog viene un tuffo al cuore. La sessualità è precoce, esibita, al centro dei pensieri e delle parole, ma poi viene vissuta senza rete, come se l´Hiv non fosse più una minaccia, come se restare incinte a quindici-sedici anni non fosse un evento sconvolgente, come se la realtà fosse una condizione del tutto virtuale. Gli ultimi dati sull´uso della contraccezione tra gli adolescenti diffusi dalla Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia, non lasciano spazio a dubbi: tre giovani su quattro non usano alcuna protezione durante i rapporti sessuali, perché il «partner è contrario» (22%), o perché non li hanno «a portata di mano». Risultato: un netto aumento di malattie sessualmente trasmissibili, una recrudescenza dei casi di Aids, una crescita, seppure contenuta, degli aborti tra le minorenni. E quando proprio va male si bussa alla porta del consultorio per la pillola del giorno dopo.
Dietro questo disastro c´è il silenzio. E una generazione cresciuta nell´incertezza. Da quasi un decennio infatti le campagne sulla contraccezione sono scomparse dai media e dalle priorità del ministero della Salute. Chi oggi ha tra i tredici e i diciassette anni non ha vissuto gli anni dell´emergenza legata all´Hiv, da cui erano scaturite stagioni di informazione capillare e battente sulla sessualità sicura, con una conseguente diffusione dell´uso del preservativo. Nello stesso tempo sono soltanto una minoranza le teenager che si rivolgono ai consultori per essere guidate all´uso della pillola. Infatti, confermano i dati della Sigo, «solo lo 0,3% delle adolescenti italiane ha una buona educazione sessuale, il 26,5% ce l´ha appena sufficiente, il 72,9% decisamente scarsa».
Una "ignoranza" che si sposa però con l´identikit di questa generazione dell´incertezza. Spiega Paola Gaetano, docente all´Istituto di Psicologia e Psicoterapia cognitiva post-razionalista di Roma: «È come se tra i giovanissimi ci fosse un´incapacità di pensare alle conseguenze, un senso di irrealtà e di sfida, quasi gli fosse sfuggito di mano il senso di programmare il destino... Non importa ciò che accadrà domani, oggi si deve vivere l´emozione. E questo modo di pensare si riflette sulla sessualità, che non deve essere in alcun modo programmata o protetta: è l´attimo che si deve cogliere, accada quel che accada. Quando poi le conseguenze si manifestano è una tragedia, perché ci troviamo di fronte a giovani del tutto impreparati ad affrontare la realtà. Né d´altro canto i genitori riescono a trasmettere ai loro figli il concetto che ogni azione ha una reazione. Ossia un senso di futuro. Così i giovani cercano di prendere tutto e subito, bruciando magari emozioni ed esperienze».
Scrive Giada, sedici anni, nel suo blog di "vita vissuta". «Faccio sesso spesso e quasi sempre con il mio ragazzo. A volte in casa, a volte dove si può. È un´esperienza forte, ogni volta è diverso. Non usiamo niente, ci fermiamo a metà. Finora è andata bene, ma ho paura. A lui non lo dico però, non voglio rovinare tutto...».

Repubblica 6.10.09
Quanto lavoro per costruire il desiderio
di Roberta Giommi

Le persone che si consultano con un sessuologo spesso distinguono tra il sesso che nasce da un impulso spontaneo e che funziona automaticamente dal sesso che si determina in seguito alla costruzione di situazioni.
L´idea di fondo è che pensarci, organizzare, costruire, sia la dimostrazione della fine del desiderio.
Questa è la prima cosa che nel corso del colloquio con il terapeuta deve essere smontata. Perché costruire il piacere non vuole dire mettere in moto strane macchine da guerra, ma soltanto facilitare condizioni positive e importanti.
Elenchiamone alcune: passare dal corpo dello stress che si costruisce nella vita sociale al corpo sensoriale;
depositarela stanchezza del giorno e lasciare che la testa si rilassi;
fare piccole cose che ci piacciono e che ci fanno abbassare le difese.
Il nostro corpo può deporre l´armatura attraverso la respirazione e il benessere del bagno, del cibo, del contatto fisico, del massaggio. Questi semplici accorgimenti possono aprire al desiderio sessuale.
Ma l´altro elemento importante è la relazione: ridere, fare cose insieme, non avere o non attivare conflitti, permette alla chimica delle emozioni di entrare in gioco.
Il sesso non può essere dato per scontato. La regola d´oro
è quella di renderlo piacevole. In modo che si produca il desiderio di farlo di nuovo.

Repubblica 6.10.09
Un italiano su tre vittima di ansie
di Claudia Caputi

Dall'insonnia all'ipertensione, dall'ansia alla depressione, dalle sindromi autoimmuni alla stanchezza cronica, dalle rigidità muscolari alle malattie cardiovascolari: lo stress è ormai riconosciuto come la causa di molti disturbi e come fattore di rischio per molte malattie. C'è un interesse crescente da parte di ricercatori, medici e istituzioni per questo stato di malessere provocato da una serie di fattori "stressogeni" che vengono ricondotti a eventi traumatici, ambientali, cognitivi e agli stili di vita: una relazione tra stimoli esterni e reazione interna dell'organismo cui ognuno risponde in maniera diversa e che, anche a seconda della predisposizione personale, può degenerare in importanti patologie. Lo sottolinea l'Aisic, l'Associazione Italiana Stress e Invecchiamento Cellulare che al tema "Stress, Salute, Malattia" dedicherà il prossimo congresso, che si terrà a Roma il 23 e 24 ottobre, dove specialisti di varie discipline si confronteranno sui risultati degli studi più recenti in materia. A leggere i dati evidenziati dall'Aisic, si direbbe che gli italiani siano un popolo di stressati: è ansioso un cittadino su tre, uno su cinque si rivolge allo psichiatra, 12 milioni e mezzo di italiani fa uso di ansiolitici, aumenta la depressione tra i più giovani, i disturbi del sonno riguardano il 14% della popolazione, aumenta l'ipertensione da stress ed è in aumento lo stress cronico. E cresce, ovviamente, anche la spesa sanitaria per malattie correlate allo stress. «È necessario ripensare il rapporto medico-paziente», sottolinea la presidente dell'Aisic, Cinzia De Vendictis, specialista in anestesia e rianimazione e in medicina integrata, «molti incidenti, errori, molti decessi potrebbero essere evitati se solo si riportasse la persona, e non la malattia, al centro dell'attenzione».

Repubblica 6.10.09
A lezione dagli sciamani d´Africa
di Filippo Tosatto

Corpo e psiche. Demoni e ombre Da Senegal e Mali guaritori in tour Per confrontarsi su un nemico comune: il male
"La malattia spezza l´armonia non solo dell´organismo ma dell´intera comunità"

PADOVA. Entrano nell´aula magna dell´università sfoggiando lunghe vesti colorate: nove uomini e una donna, tutti guaritori africani arrivati dal Mali e dal Senegal. Nessun intento folcloristico, però, da parte dell´ateneo di Padova che li ha invitati: «Un´occasione di incontro e dialogo tra medicina tradizionale africana e medicina convenzionale occidentale», la definisce la psicologa Silvia Failli coordinatrice del progetto ImmaginAfrica, e un riconoscimento istituzionale a operatori collaudati che lavorano, con successo, nell´ambito della fitoterapia e della psichiatria.
Rivolto un corale «aga poo» (bentrovati) agli ospiti veneti, gli sciamani d´Africa hanno illustrato metodi, limiti e obiettivi del loro sapere antico. Che coltiva un approccio "olistico" al paziente e alla malattia, mirato più che a curare il sintomo a prendersi cura dell´individuo sia nel suo male fisico o psichico che nell´equilibrio - o nella disarmonia - all´interno del villaggio, della comunità tribale e della famiglia. Insomma, la presa in carico del malato in quanto «membro del corpo sociale esteso».
Se le definizioni della patologia sono immaginifiche - dall´epilessia attribuita ai «demoni seduti sul cuore», alla crisi psicotica dovuta «all´ombra che si avvinghia alla persona» -, i rimedi attingono alla conoscenza sperimentata di erbe e piante terapeutiche, somministrate spesso d´intesa con il medico curante "ortodosso". I campi d´applicazione? L´ambito materno-infantile (gravidanza, parto e puerperio) per cominciare; e poi il diabete, le malattie tropicali, i problemi oculistici e i disturbi della psiche.
A colpire la platea - composta da medici, psicologi, infermieri e studenti - è stata la meticolosità del "protocollo" adottato dai guaritori: la manipolazione del corpo, la capacità di calibrare i dosaggi delle erbe, la ricerca e l´individuazione di nuove sostanze naturali benefiche. Un esempio? «Gli estratti vegetali impiegati nella prevenzione della malaria», osserva Ogobra Kodio, il medico maliano a capo della delegazione, «provengono da piante officinali autoctone».
In Africa, spiega un anziano guaritore, alla malattia viene sempre attribuito un significato e il suo insorgere spezza sia l´equilibrio interno all´organismo che quello esistente tra l´uomo e il sistema sociale. La cura e la guarigione, perciò, assumono anche il significato di un legame sociale ritrovato. Ma come distinguere i portatori di sapere dai ciarlatani? A denunciare questi ultimi sono in primo luogo i guaritori riconosciuti. Che - qualora la patologia lo consenta - operano in parallelo, e in collaborazione, con il medico e con l´ospedale. Non stupiscono, allora, le consultazioni miste già avviate tra un gruppo di medici della facoltà di Padova e la delegazione africana, né la tappa successiva che li ha visti relatori all´università romana La Sapienza.

Repubblica 6.10.09
La scuola dietro la lavagna

Il numero degli allievi quest´anno è da record. Le classi, 4mila in meno, non sono mai state così affollate. La soppressione di migliaia di cattedre aumenta i disagi. A Palermo bambini fatti uscire con i canotti dai locali allagati, a Roma lezioni itineranti perché mancano i supplenti, pezzi d´intonaco e controsoffitti finiti in testa ai ragazzi. Cronache quotidiane della "malascuola" d´Italia. Specchio del Paese che saremo. Da raccontare anche a Repubblica.it

Da Nord a Sud si fa lezione in aule con oltre 40 studenti, mancano sedie e banchi, ieri un controsoffitto è crollato sulla testa di un gruppo di adolescenti a Bagnoli (e una ragazza è rimasta ferita), mancano saponi, detersivi, i sanitari sono rotti e le tubature perdono, e ovunque è emergenza per la sicurezza, perché i bidelli non ci sono più e non sempre professori e maestri riescono a controllare porte e corridoi. La situazione è talmente seria che nemmeno i contributi dei genitori bastano più a colmare le lacune, nonostante a Parma come a Roma famiglie e docenti abbiano imbiancato a loro spese classi e mense diventate impresentabili. E questo a fronte di una domanda di istruzione che cresce, aumenta. Con il paradosso che se gli studenti di quest´anno scolastico sono 7.805.947, contro i 7.768.506 del 2008/2009, il numero delle classi è invece diminuito, passando da 373.827 alle attuali 370.000. Dunque dopo lunghi periodi di "saldo negativo" le scuole tornano a riempirsi, ma l´offerta diminuisce, e il risultato è quanto scrive un giovane dell´Istituto tecnico industriale Ciampini di Novi Ligure: «Sono arrivato in una classe di 41 alunni in cui è quasi impossibile scrivere e a volte anche respirare. Una situazione indecente, è impossibile fare lezione così».
Racconta invece Alessandra Martinelli, 13 anni, terza media in un istituto del quartiere Bufalotta di Roma, con il tono scherzoso di chi certo non teme né caos né imprevisti: «La cosa più assurda è che almeno una volta al giorno, se manca un prof, dobbiamo "migrare" in un´altra classe, con l´obbligo tassativo di portarci la sedia. E dobbiamo stare bene attenti a non perderla di vista, la sedia, perché non ce ne sono per tutti e il rischio è quello di stare seduti sui banchi o sul davanzale. Dall´inizio della scuola è già accaduto sei volte, la scuola non chiama più i supplenti. Nei corridoi? C´è un casino pazzesco. Mica è colpa nostra se le sedie fanno rumore».
Cronache da una "Malascuola", titolo di un fortunato e sconsolato libro di Claudio Cremaschi, ex dirigente scolastico in pensione, in cui si dimostra come riforma dopo riforma la scuola peggiora di anno in anno, e il livello di formazione dei ragazzi del terzo millennio è ormai precipitato ai più bassi livelli in Europa. Storie che da oggi sarà possibile inviare a Repubblica.it. Perché tutto questo, il degrado degli ambienti e l´impoverimento del corpo insegnante, avrà, anzi ha, una drammatica ripercussione sul futuro degli studenti. Infatti studiare su un banco rotto, in un´aula fredda e con le chiazze di muffa influisce su tutto, sulla psiche come sul corpo, sull´apprendimento come sull´educazione.
Lo spiega con chiarezza Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all´università La Sapienza di Roma. «Gli allievi, soprattutto se piccoli, si aspettano che la scuola sia un luogo accogliente, dove gli adulti hanno un progetto ben preciso, che magari pretende da loro attenzione e serietà, ma in cambio restituisce buoni servizi. I ragazzi, di tutte le età, hanno bisogno di un ambiente strutturato, la disorganizzazione li fa confondere, se la scuola cade a pezzi il messaggio che viene recepito è che la scuola non vale niente. Perché rispettare allora un muro già rotto, o un banco spaccato, o un bagno dove non trovi nemmeno la carta igienica?». «L´ambiente fisico influisce, e tanto, sulla motivazione allo studio. Ho visitato molte scuole - continua Anna Oliverio Ferraris - e devo dire che quando entri in strutture nuove, pulite, con le palestre, gli armadietti, i laboratori, il clima è diverso. Il clima, questa cosa impalpabile, è ciò che fa la differenza. Non a caso gli studenti della Finlandia, che ha le scuole più organizzate del mondo, sono in cima alle classifiche di rendimento. No, il quadro è desolante. Come si può pensare che bambini e ragazzi per studiare debbano passare ore e ore in ambienti insalubri e degradati?».
Non solo. La "Malascuola" espelle i più deboli, i meno fortunati, chi l´istruzione deve sudarsela, magari di notte. Come a Napoli, dove i tagli del ministro Gelmini hanno portato alla chiusura dell´unico liceo serale della Campania, il Margherita di Savoia. Porte sbarrate e corsi vietati per oltre 100 studenti-lavoratori, già iscritti e pronti a riprendere le lezioni. Poi ci sono i "diversamente abili", bimbi e ragazzi con handicap, più gravi o più lievi, per cui tutto è delicato, sottile. Dietro di loro gli sforzi eroici di insegnanti e famiglie, pronti a cogliere un piccolo miglioramento, un sorriso di gioia insieme ai compagni, un progresso nello studio. Ma la falce è arrivata anche qui, senza pietà.
E la storia di Rosaria, 44 anni, insegnante di sostegno precaria in una scuola elementare, ne è l´emblema. Triste. «Per quattro anni mi sono occupata di due bambini disabili. Giulio, con un gravissimo handicap, che ogni mattina i genitori portavano in classe, con la sua sedia a rotelle. Quando gli altri bambini lo andavano a salutare Giulio gli stringeva la mano e accennava un sorriso. Poco forse, ma per noi moltissimo. Vuol dire che Giulio sentiva, percepiva. L´altro bimbo era Alfredo, ha una tetraparesi spastica, ma la sua mente è lucida, intatta. Per quattro anni - racconta Rosanna, commossa - insieme alla maestra lo abbiamo aiutato a studiare, a comunicare con il computer. È arrivato in quarta elementare quasi al livello dei suoi compagni, con me aveva un rapporto strettissimo. Ma quest´anno io ho perso il posto, al momento non è stata assegnata alcuna insegnante di sostegno. Alfredo non vuole più andare a scuola, piange e mi cerca... La mamma mi ha chiesto se posso continuare a seguirlo privatamente, altrimenti tutti gli sforzi andranno perduti. Ho detto di sì, ma come faccio a farli pagare? Non me la sento, non è giusto. Perché dobbiamo privare Alfredo di un futuro?».

Repubblica 6.10.09
La figura dello scienziato protagonista dell´ultimo libro di Odifreddi
Vita di Galileo eroe laico e imperfetto
di Michele Smargiassi

Nel volume risalta il confronto tra un uomo geniale ma "normale" e la Chiesa che gli si oppone

Sfortunato il laico che ha bisogno di eroi, perché troverà solo eroi laici, cioè imperfetti e criticabili. L´altare su cui Piergiorgio Odifreddi istalla il suo Galileo è scivoloso, e non potrebbe essere altrimenti per un libro che, come altri del matematico impertinente nonché ateologo militante, è un atto d´accusa contro gli ipse dixit e l´arroganza dell´autorità per diritto divino. Ma nello sforzo di non santificare il più celebre martire del libero pensiero succede che, a lettura terminata, l´esclamativo titolo Hai vinto, Galileo! (Mondadori, 120 pagine, euro 17,50) più che di gioioso omaggio si colori di affettuosa ironia. Il sidereo annunziatore di verità eretiche, l´uomo che fermò il sole in cielo sfidando i pontefici, nel ritratto di Odifreddi fatica a reggere il passo del proprio mito: geloso delle proprie scoperte e pronto a rivendicarne «lamentosamente» la priorità, magari a torto, ingrato verso i suoi precursori, opportunista, incostante, talora pronto al compromesso, talaltra inutilmente temerario, qualche volta sopravvalutato (Il Saggiatore è «un libro memorabile per non esserlo»), non di rado alle prese con problemi «troppo difficili per i suoi mezzi» a costo di «ottusi errori» e, al contrario di Keplero, «più grande sperimentatore che grande teorico». Difficile non notare che il vero eroe del libro di Odifreddi è un altro: Giordano Bruno, che non abiurò, laico senza macchia ancorché piuttosto arrostito.
Si può indovinare che questa desacralizzazione del mito di Galileo risponda a un preciso scopo retorico: far risaltare ancora di più, al confronto con la "normalità" di un uomo dotato di retta ragione e passione per la conoscenza, ma anche figlio del suo tempo e pronto al cedimento, l´enormità del torto e l´intollerabilità della repressione che fu costretto a patire dall´Inquisizione. Del resto il libro di Odifreddi non nasce per colmare una lacuna, neppure divulgativa, nella conoscenza della vita e dell´opera di Galileo Galilei. Si tratta piuttosto di una vindicatio laica rivolta apertamente all´oggi, di un giù-le-mani contro le «lacrime di coccodrillo» del tardivo pentimento vaticano, come dimostra il pamphlettistico finale nel quale la rivolta dei professori della Sapienza contro la visita papale del gennaio 2008 viene rivendicata come legittimo contrappasso: «Per una volta, nel nome di Galileo è stato zittito l´erede di coloro che per secoli, dal Sant´Uffizio e dalla Cattedra di Pietro, hanno zittito lui».
Più che un´agiografia di Galileo, dunque, il volume di Odifreddi è una teratologia della Chiesa. Legittima, e anche fondata: è impossibile per una coscienza libera non provare orrore per le falsità curiali, le doppiezze papali, la ferocia degli inquisitori, la vergogna dell´abiura imposta con la minaccia capitale, vero «peccato originale della scienza moderna»; giusto e necessario ricordare che i pentimenti non cancellano i delitti dal libro della storia. Ma fermandosi qui si finisce per trascurare la ricerca di spiegazioni più complesse e profonde della semplice contrapposizione tra "libertà di pensiero" e "oscurantismo clericale". Tirare Galileo per il pastrano nelle dispute odierne comporta rischi di semplificazione storica. Così come il pavido Galileo di Brecht soffre nei panni del renitente alla lotta di classe, l´imperfetto Galileo di Odifreddi non sa riempire quelli del portabandiera del progresso schiacciato dal tallone della superstizione. Del resto già mezzo secolo fa un notevole studioso di Galileo, Giorgio de Santillana, non sospetto di oscurantismo, faceva notare che il gran pisano fu tutt´altro che un nemico della fede e della Chiesa, che tutti i suoi protettori, collaboratori e discepoli erano chierici, che la sua epistemologia si ispirava all´«idealismo matematico e al platonismo pitagoreggiante», cioè alla tradizione filosofica classica, almeno quanto si fondava sull´osservazione sperimentale. Ben più spericolata, al confronto, era la rivoluzione ideologica che negli stessi anni stavano conducendo le gerarchie romane, impegnate a forgiare ex novo, su basi teologiche ardite, la novità dirompente dell´assolutismo moderno. Operazione odiosa sul piano politico e morale, ma innovativa su quello della dialettica storica. «In quel momento ambiguo», arrivò ad affermare de Santillana polemizzando proprio con chi voleva trasformare Galileo in un «futuristico» alfiere del laicismo, «è Galileo che sta per l´antico, e il Pontefice per il moderno». Anche il laico e antidogmatico Antonio Banfi, poi, riconosceva che a Galileo mancò «una precisa coscienza di una missione ideale» per incarnare la figura di portabandiera impavido della Ragione. Il limitato Galileo di Odifreddi tiene conto di queste precauzioni: tanto che alla fine l´aureola di eroe laico gli traballa laicamente sul capo.

Repubblica 6.10.09
Timi dal teatro al cinema "Il mio lavoro d´attore è una lotta col pubblico"
di Roberto Rombi

Il premio Martini lo consacra divo
Nel primo romanzo ho ucciso alcuni fantasmi, un´operazione che mi ha aperto nuove possibilità, altre vite

ROMA. Corteggiato dai registi più esigenti, interprete di film d´impegno, Filippo Timi, dopo tredici anni di militanza teatrale, è diventato uno degli attori più richiesti al cinema. A lui è andato il Premio Pasinetti alla Mostra di Venezia per la sua interpretazione di La doppia ora di Giuseppe Capotondi, stasera riceverà a Milano il Martini Première Award, un riconoscimento destinato all´attore italiano in grado di competere con le star di Hollywood. Sta per raggiungere nelle Marche George Clooney sul set del nuovo lavoro di Anton Corbijn, fotografo e già regista di Control, film in bianco e nero sulla vita del leader dei Joy Division, Ian Curtis.
Un ingresso al cinema quasi trionfale...
«La dimensione che mi piace, a teatro, è il lavoro di tipo artigianale. Ho avuto la fortuna di incontrare autori che avevano bisogno proprio di questo. In palcoscenico scatta un corpo a corpo con lo spettatore e questo volevo che avvenisse anche al cinema. La ragione di questa scelta? Per un film distribuito in trecento copie ci sono trecento Timi in giro per l´Italia».
Come è avvenuto questo passaggio?
«Il cinema non è arrivato dopo il teatro ma dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, "Tuttalpiù muoio" nel 2006. Quel libro rappresenta un passaggio importante. In quel romanzo ho ucciso alcuni fantasmi e questa operazione mi ha aperto nuove possibilità, altre vite. C´è un rischio. Verrebbe spontaneo accettare tutto, sottolineare che ci sei, ma so che la carriera si conquista anche con i no».
In due anni Saverio Costanzo, Ozpetek, Wilma Labate, Montaldo, Salvatores, Bellocchio e Giuseppe Capotondi...
«In memoria di me di Costanzo è stato perfetto per il mio passaggio dal teatro al cinema. È un film costruito sul silenzio, un silenzio totale, quasi irreale. Con Salvatores, e la sua esperienza del Teatro dell´Elfo, l´intesa era assicurata sul set di Come Dio comanda».
E il doppio ruolo nel film di Bellocchio?
«Marco è un regista coraggioso. Ha delle visioni e uno slancio quasi sfrontato per raggiungerle. E il coraggio è contagioso. A lui in Vincere non interessava un´imitazione del Duce gli interessava il giovane divorato dal fuoco di diventare l´uomo della storia. È stata una sfida confrontarmi con un´immagine che appartiene a tutti. Difficile entrarne e ancora più difficile uscirne e l´ho potuto fare entrando anche nel personaggio del figlio, il suo opposto, quella vittima sacrificale, quella specie di cadavere vivente».
Il thriller di Capotondi?
«Ho voluto passare da un maestro come Bellocchio a un´opera prima. Le opere prime hanno una carica straordinaria. C´è, in quel caso, un regista che tenta il tutto per tutto. Il copione, per niente scontato, non catalogabile, spingeva all´azzardo. La doppia ora parla d´amore, costruisce un noir, sfiora il mistery».