giovedì 8 ottobre 2009

l’Unità 8.10.09
A tutela di tutti
di Concita De Gregorio


«È una sentenza sorprendente», dice Alfano ministro di Giustizia. Sarà sorprendente per lui. Non per i milioni di italiani che ancora credono nella giustizia nonostante la provvisoria presenza di Alfano. Un ministro passa, la Costituzione resta. Questo ci dice la sentenza di ieri: tranquilli, la Costituzione resta. La legge è ancora uguale per tutti. Più di sessant’anni dopo è ancora a quei signori i cui volti sono ingialliti nelle foto che dobbiamo dire grazie: ai padri costituenti che avevano previsto tutto senza immaginare niente. Quella era politica. Saremo capaci, prima o dopo, di ritrovare l’umiltà, la ragionevolezza, la lungimiranza, la passione civile, l’amore per lo Stato dei nonni che hanno costruito la democrazia che oggi abitiamo violentandola come fosse una palestra di periferia, teatro di privati interessi e corporali bisogni? La nostra Costituzione è nata dalla Resistenza: è stata scritta per tutti, anche per quelli che alla Resistenza non hanno partecipato. Ieri come oggi.
«La Consulta è di sinistra», dice Berlusconi presidente del Consiglio. Bisogna avere pazienza, non paura né rabbia ma pazienza. Vede comunisti dappertutto. La Consulta non è di sinistra, è composta da giuristi che hanno a lungo esaminato le carte, a lungo hanno discusso e infine hanno democraticamente votato: nove contro sei. I soldi, il potere che ne deriva non comprano tutto.
Anche questa è una buona notizia per il Paese intero, berlusconiani compresi: arriverà un giorno in cui non ci sarà più chi paga e anche loro dovranno ringraziare che le regole comuni siano state da altri conservate intatte.
«Porteremo il popolo in piazza», dice Bossi l’azionista di maggioranza del governo. Questo il vero pericolo. Che si voglia trasformare una battaglia per il rispetto delle regole in una guerra civile. Non c’è da scendere in piazza coi forconi, nessuno cada nel tranello. Non è questa una vittoria di nessuno contro alcuno. È un argine, una prova di equilibrio. È un passaggio solenne a tutela di tutti. Restiamo nel solco tracciato dai Padri. Esercitiamo la parola e il pensiero, facciamolo ancora, mettiamo in minoranza coi fatti, coi progetti, con la proposta politica chi cerca di trascinare il paese nella polvere e nel fango. Questa parola si è sentita ieri: guerra. Non siamo in guerra, invece. Siamo un grande paese capace di reagire con gli anticorpi della democrazia alla deriva e alla tentazione dispotica. Ritroviamo il desiderio di aver cura di noi stessi, non lasciamoci distrarre dalle ronde dai dialetti e dal colore, oggi verde, delle camicie. Abbiamo sconfitto quelle nere, il verde non può far spavento.
Del povero Mavalà Ghedini («La Corte rinnega i suoi principi») non sarebbe da dire se non per compiangere un dipendente del Sovrano costretto a giocare quindici parti in commedia, un uomo di legge che rinnega lui sì il mandato del popolo in favore dell’interesse del suo principale. Un triste spettacolo. La Corte sta lavorando anche per lui, pazienza se gli risulta impossibile capirlo. Lo capiranno i suoi e i nostri figli, sarà scritto nei libri di storia. In prima pagina trovate un numero dell’Unità del ’47. Conservate quello di oggi, servirà tra vent’anni.

Repubblica 8.10.09
La forza della democrazia
di Ezio Mauro


Era dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un Paese dove è saltata l´intercapedine liberale, e l´estremismo del potere viene benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell´autonoma e libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell´instabilità istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto d´onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni dopo, in uomo di Stato.
Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una condanna. Prima che la grande mistificazione d´abitudine cali sui cittadini dal kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.
Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo, combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione, com´è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l´articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per questa ragione – e siamo al metodo – se si vuole sottrarre alla legge il Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale, e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli articoli 3 e 138 della Costituzione.
Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente dei doveri: semplicemente, e com´è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva provvidamente sospeso. Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto – e non è cosa da poco – torna da oggi uguale per tutti.
Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è lex, anzi "non c´è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla terra", come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica. In una formula – aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia – si potrebbe dire che il Capo dell´esecutivo ha in questo caso usato il legislativo per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.
La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell´autorevolezza politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso questa procedura d´eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale, prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l´autonomia.
Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà. Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati, nell´Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori dall´equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo status nuovissimo di "primus super pares", vige ancora la Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora, anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale elettorale in più.
E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al popolo di destra – aizzato irresponsabilmente – come un uomo di parte ("sapete tutti da che parte sta") in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di "sinistre", "rossi" e "comunisti": per concludere con il titanismo spaventato di un urlo ("Viva l´Italia, viva Berlusconi") che rivela la concezione grottesca di un Premier che vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte, poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo, rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono designati altera l´equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il Quirinale e la Corte. E siamo solo all´inizio.
Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne, come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli scandali dell´estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com´è di una vicenda di verità e di libertà. Non è la Corte che lo denuda: è l´incapacità politica di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi e piccoli vengono al pettine e l´unica reazione è la furia contro certi giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di un´assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.
Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri: quando non c´è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia è il dispotismo.

l’Unità 8.10.09
Crescita e natalità
Dal «trucco» dei gemelli alle unioni multiple, la Cina si ribella al figlio unico
A Shanghai, le autorità ora esortano a fare più figli per combattere l’invecchiamento della popolazione. Nella provincia dello Henan, «misterioso» boom di parti gemellari: il Paese, dopo trent’anni, fa i conti con gli squilibri prodotti dal rigido controllo delle nascite
di Gabriel Bertinetto


C’è un posto in Cina, dove nessuno avrà bisogno di replicare il trucco con cui a Shuiniu, villaggio dello Henan, molti coniugi hanno aggirato i divieti imposti dallo Stato a generare più di un figlio. Questo posto è Shanghai, capitale economica della Repubblica popolare, dove oggi le autorità esortano addirittura le coppie sposate ad averne tranquillamente due.
A Shuiniu la gente vive del lavoro dei campi. Rispettare rigidamente i vincoli demografici significherebbe disporre di due sole braccia aggiuntive per zappare ed accudire al bestiame. Che fare? La legge in realtà limita il numero dei parti, non dei figli. Il segreto allora sta nel mettere al mondo contemporaneamente due o più creature. Se ti affidi al caso resterai facilmente deluso. Se invece sai come dare una spinta alla natura, hai risolto il tuo problema.
C’è un negozio in paese, dove senza tante formalità puoi procurarti pillole miracolose. Cosa contengano non è chiaro, ma gli effetti si vedono. Non c’è altro centro abitato in Cina con una concentrazione così elevata di gemelli. Qualcuno, desideroso di avere due figli, si è trovato di colpo ad averne persino il doppio o anche più, e ora rimpiange il momento in cui malauguratamente varcò la soglia della farmacia. Dieci future braccia per arare la terra, al presente sono cinque bocche in più da sfamare. Ne sanno qualcosa Niu Jian Fang e soprattutto la moglie Jiao Na, che un bel giorno del 2004 ha generato il piccolo Beibei, seguito pochi minuti dopo dalla graziosa Jinjin, poi dal simpatico Huanhuan, dall’amabile Yingying, e infine da Nini, ultima sorellina scaturita da un travaglio che sembrava non avere mai fine.
Fra le megalopoli cinesi, Shanghai è la più moderna e sviluppata. Ma alla sua formidabile crescita economica si sta intrecciando un fenomeno che rischia di comprometterne le dinamiche future. Shanghai è una città in rapido invecchiamento. Il 22% degli abitanti ha più di 60 anni. Nei Paesi ad elevata industrializzazione nessuno si spaventerebbe per una percentuale che viene considerata normale, ma nella Repubblica popolare fino ad epoca recente i rapporti quantitativi fra le varie fasce d’età erano del tutto diversi, e quello che più allarma le autorità è la tendenza ad un’ulteriore aumento di quegli squilibri percentuali. A Shanghai come altrove.
A meno che non si agisca, come a Shanghai già hanno iniziato a fare, rimuovendo o attenuando gli ostacoli alla natalità. Introdotti nel 1979 per evitare un incremento eccessivo della popolazione, che era già allora intorno al miliardo di persone, vennero allora considerati parte di una strategia globale per arginare il dramma della povertà. Per un’analoga ragione di ordine economico oggi quei limiti vanno tolti, o perlomeno abbassati. Altrimenti nel 2050 la Cina avrà 438 milioni di cittadini ultrasessantenni, e 100 di età superiore agli 80. Il rapporto fra adulti in età da lavoro e pensionati diventerebbe di 1,6 a 1. Nel 1975 era di 7,7a1.
Ecco perché il governo centrale ha modificato la legge, consentendo di generare due rampolli anziché uno, se entrambi i genitori sono a loro volta figli unici. Le autorità di Shanghai sono andate oltre. Non solo consentono, ma incoraggiano, promuovono, stimolano la doppia procreazione. Avesse avuto oggi vent’anni la povera Mao Hengfeng, cittadina di Shanghai, non sarebbe andata incontro al calvario subito a partire dal 1988, quando il secondo illegale parto le costò prima il licenziamento, poi l’aborto forzato, il ricovero coatto in ospedale psichiatrico, e infine la prigionia in un campo di lavoro e di rieducazione.
Un caso limite. Oggi in quella città la vittima di tante vessazioni verrebbe quasi additata a modello civico da imitare. All’epoca invece chi sgarrava incappava come minimo in sanzioni finanziarie pesanti. Esenzioni venivano riservate solo alle minoranze etniche, mentre nelle zone rurali era ammessa una seconda gravidanza solo se la prima aveva avuto un esito femminile. Altrimenti, guai a raddoppiare.
Fatta la legge però, come si suol dire, trovato l’inganno. Le cronache regalano esempi di stratagemmi complicati e dispendiosi, rispetto ai quali l’espediente chimico delle mamme di Shuiniu sta come il triciclo all’aeroplano. Si può avere un figlio dalla propria moglie e uno da ciascuna delle proprie amanti. Naturalmente bisogna anche avere denaro a sufficienza per mantenere tante diverse famiglie. Oppure si può inanellare una serie di nozze e divorzi in successione, magari fittizi, cosicché da ogni temporaneo matrimonio origini il diritto ad una procreazione.
Se la prospettiva di unioni multiple o incrociate non si concilia con l’aspirazione ad un’esistenza emotivamente armoniosa o cozza con le proprie disponibilità finanziarie, ecco una soluzione relativamente meno costosa: un viaggio a Hong Kong. L’ex-colonia britannica è da anni ricongiunta alla madrepatria, ma l’autonomia di cui gode la sottrae a certi vincoli giuridici. L’agente immobiliare pechinese Xiao ha pagato l’equivalente di 4000 dollari per recarsi colà assieme alla consorte gravida, e soggiornarvi sino al giorno del parto ed alla certificazione in loco della nascita.
Ci sono poi altri sistemi, che comportano la collaborazione di funzionari disposti a lasciarsi corrompere. Il primo figlio, ad esempio, viene falsamente dichiarato disabile. In quel caso la legge consente di averne un secondo.
Più frequente è il trucco dei falsi gemelli. Un bambino venuto alla luce anni dopo il fratello, viene registrato all’anagrafe come suo gemello. Il metodo è piuttosto diffuso a Canton e dintorni, tanto che alle mamme in dolce attesa è comune rivolgersi scherzosamente così: «Questo è il primo, o il suo gemello»? Una barzelletta destinata ad andare presto fuori moda, se Canton seguirà la strada di Shanghai. ❖

l’Unità 8.10.09
Prato, ticket per poter vivere nelle baracche
Il Comune di centrodestra: «Un euro al giorno». L’Arci: «Misura illegittima» E poi scatta il blitz con tanto di elicottero e paracadutisti nei tre campi
di Vladimiro Frulletti


FIRENZE. Presto i circa 200 nomadi, Rom e Sinti, che vivono in tre campi attorno a Prato potrebbero vedersi chiedere dal Comune il biglietto (un euro al giorno ogni adulto) per vivere nelle proprie baracche. E chi non paga sarà mandato via. Nel frattempo, con un vero e proprio blitz, aiutati da un elicottero e dai parà della Folgore, ieri le forze dell’ordine li hanno tutti schedati. Identificate 180 persone. Otto persone sono state allontanate, così come è stata mandata via da un parcheggio una carovana di 20 nomadi.
L’idea del ticket è della giunta di centrodestra guidata da Maurizio Cenni, che lo scorso giugno ha conquistato la città toscana dopo 63 anni di governo delle sinistre anche sull’onda di una violenta polemica anti-immigrati, soprattutto cinesi. «Un euro è una cifra che non scomoda nessuno spiega l’assessore all’immigrazione Giorgio Silli del Pdl , e aiuta il Comune a ripagare le spese». Ma per il responsabile nazionale Arci per i Rom e i Sinti, Roberto Ermanni, si tratta di una misura «illegale» contro cui «siamo pronti a sostenere chi vorrà fare causa».
Illegale perché «non si può essere costretti a pagare un’affitto per baracche o roulotte». Ermanni sta portando avanti un progetto, assieme alla Caritas e alla Regione Toscana, per l’inserimento dei Rom e dei Sinti: già 200 persone vivono in case, pagano l’affitto e lavorano. E 5 campi non ci sono più. Anche perché sebbene la Ue e fondazioni come quella di George Soros (Open Society Institute) diano risorse per i loro inserimento (soldi per case e progetti) spesso vincono i pregiudizi razziali «e i Comuni non fanno nemmeno le domande». Magari Prato potrebbe provarci. Anche perché in città, spiega Ermanni, «nei campi ci sono soprattutto Sinti, cittadini italiani da una sessantina d’anni. Più volte hanno provato a accedere alla graduatorie per le case popolari, ma sempre senza alcun esito». Ma forse il ticket di 1 euro è un regalo (propagandistico) che il sindaco Cenni fa alla Lega che sta reclamando a gran voce un assessore. Nel nuovo regolamento per la gestione dei campi nomadi (quello attualmente in vigore è del 1999) è anche stabilito che ognuno abbia un tesserino (con foto) di rico-
noscimento, che le entrate e le uscite dal campo siano registrate e che le famiglie residenti paghino anche le spese per la raccolta dei rifiuti e per acqua, luce e gas (già stabilito nel regolamento del ’99). È poi previsto che un apposito comitato dovrà controllare non solo sul rispetto dell’obbligo scolastico da parte dei minori, ma anche sulla volontà degli adulti di trovarsi un lavoro: chi rifiuta per due volte un a proposta se ne dovrà andare via dal campo. Per Ermanni queste persone sono «discriminate» e costrette a vivere in un «regime di apartheid. «E possibile si domanda che si decida delle loro vite senza sentire nemmeno il bisogno di sapere cosa ne pensano. Con chi altri lo farebbero?». ❖

l’Unità 8.10.09
Niente congelamento dell’atto, dopo le proteste di alcuni consiglieri
Vani gli strali lanciati dalla Diocesi: PalazzoVecchio va avanti
Biotestamento, entro un mese sarà pronto il registro
di Tommaso Galgani


Claudia Livi
«Non ci sarà nessun conflitto fra giunta e consiglio comunale. Il consiglio comunale è sovrano»: è l’impegno del vicesindaco Nardella. Contro l’ipotesi «congelamento» dell’atto si era alzato un fuoco di fila da sinistra.

Registro comunale per il testamento biologico, al massimo tra un mese a Firenze sarà possibile iscriversi. L’ipotesi di «congelarne» l’istituzione, approvata dal consiglio comunale di lunedì, e aspettare prima la legge in materia che sta per varare il parlamento, è stata fugata da Palazzo Vecchio. Conseguentemente, visto che la giunta ha un mese di tempo per recepire l’indirizzo del consiglio comunale, tra trenta giorni per ogni fiorentino sarà possibile, se lo vuole, depositare in Comune il proprio biotestamento. Palazzo Vecchio, dunque, va avanti nonostante i «non possumus» della Diocesi.
NIENTE «CONGELAMENTI»
Il vicesindaco Dario Nardella aveva spiegato, a caldo, dopo il pronunciamento del consiglio comunale sul fine vita: «Prendiamo atto. Il consiglio è sovrano su funzioni di questa natura, anche se l’attuazione di uno strumento amministrativo del genere sarebbe più praticabile in un quadro legislativo già definito, soprattutto in un settore così complesso e delicato e attualmente privo, appunto, di una disciplina normativa statale». Ma contro l’idea di congelare tutto e aspettare il parlamento si era alzato un vero e proprio fuoco di fila. «Smentire con chiarezza e con urgenza le voci secondo le quali la giunta si accingerebbe a congelare l’attuazione della delibera sul testamento biologico approvata dal consiglio», ha detto il presidente della commissione affari istituzionali di Palazzo Vecchio Valdo Spini, aggiungendo: «Non voglio credere a queste voci, che creerebbero un conflitto istituzionale giunta-consiglio comunale molto grave e preoccupante». Sempre Spini, insieme a Tommaso Grassi (consigliere comunale proprio della lista Spini), lunedì aveva chiesto alla giunta di «provvedere tempestivamente a mettere in atto tutti i provvedimenti necessari per attivare il registro dei testamenti biologici, al massimo in una settimana». I due rincaravano la dose: «Il Comune deve fare pressioni politiche perché la legge in discussione in Parlamento sia modificata, tramutando una legge che fa valere “l’etica di Stato”, alla quale tutti devono adeguarsi, in una legge che possa accogliere l’espressione, a precise condizioni, di scelte diverse personali ed inviolabili». Se anche Eros Cruccolini (la Sinistra) evoca «l’esigenza di evitare scontri tra consiglio comunale e giunta», pur avendo fiducia che «non ci saranno», è intervenuto sul tema anche Mauro Romanelli, segretario regionale dei Verdi: «Non vorremmo che, come per i funerali laici, la vittoria politica in consiglio comunale rimanesse lettera morta. La giunta applichi subito i voleri del consiglio e istituisca il registro». Poi, è arrivato Nardella a fugare le perplessità. Annunciando un pronto impegno dell’amministrazione: «Non esiste alcun conflitto fra giunta e consiglio comunale, così come non esiste alcun intento di “congelare” la delibera che istituisce il registro dei testamenti biologici. Come ho già detto e ribadisco, il consiglio comunale è sovrano».
IN 4MILA “LIBERI DI DECIDERE”
Intanto, l’associazione “Liberi di decidere”, che da mesi mette a disposizione di chi vuole un notaio che redige i testamenti biologici e che ha salutato con soddisfazione l’atto votato dal consiglio comunale, da sabato riaprirà i propri gazebo nelle strade cittadine per offrire questa opportunità. A Firenze già in 4mila con “Liberi di decidere” hanno autenticato il proprio biotestamento. Molti di questi finiranno di sicuro nel registro comunale.❖

Corriere Fiorentino 8.10.09
L’intervista. Il professor Lombardi Vallauri, ordinario di filosofia del diritto
«Il problema non è la Chiesa ma la politica sottomessa»
intervista di David Allegranti


Luigi Lombardi Vallauri, ordina­rio di filosofia del diritto all’Uni­versità di Firenze, è, fra le tante cose di cui si occupa, un attento studioso di bioetica. Da mesi non legge «cose che riguardano l’Italia e la politica italiana, come misura elementare di igiene mentale». Sollecitato, fa un’eccezione con gli articoli sul registro fiorentino del testamento biologico.
Professore, dopo la nota del­l’Arcidiocesi sul voto di lunedì in consiglio comunale, c’è chi ha parlato di nuovo di ingerenza della Chiesa in fatti che non la ri­guardano. Secondo lei sono le­gittimi gli attacchi della Curia?
«Penso che la Chiesa, come tutti, abbia diritto di parlare, e chiunque parla è tutelato dalla libertà di ma­nifestazione del pensiero. Quando io dico quello che penso nessuno lo chiama ingerenza, perché a quel­lo che io dico non c’è acquiescen­za; una manifestazione di pensiero diventa cioè ingerenza non per col­pa di chi parla, ma per colpa di chi segue. Il vero problema non è che la Chiesa manifesti le sue opinioni, ma che ci siano dei politici dipen­denti. Ingerenza è sinonimo di di­pendenza, e non ci sarebbe inge­renza se ci fosse indipendenza. Gandhi aveva una frase molto bel­la: dire un tiranno e dire mille vi­gliacchi è dire esattamente a stessa cosa. In questa fase la Chiesa non potendo più parlare di oggetti dog­matici, trascendenti, si sta riducen­do a una strana politica: erogare sensi di colpa per poter erogare presunte vie di giustificazione, ero­gare perdizione per poter erogare salvezza, erogare peccati per poter vendere assoluzioni. Praticamente la Chiesa è diventata una specie di altoparlante di etica colpevolizzan­te. Questo mostra che è in profon­dissimo imbarazzo».
Al di là delle competenze di Co­mune e Parlamento, di cui pure si è molto discusso, c’è una que­stione di merito sull’istituzione del registro dei biotestamenti. Lei che ne pensa?
«Prima facie , istituire un regi­stro sembra un atto completa­mente innocuo, un semplice stru­mento di pubblicità di atti, la cui validità o non validità giuridica è del tutto indipendente dalla regi­strazione. Nessuno credo preten­de che per il fatto di essere regi­strati, questi testamenti acquisti­no efficacia giuridica maggiore, e quindi bisognerà in ogni caso ri­salire agli atti compiuti presso i notai o altri fiduciari, anche per­ché, se ho ben capito, il registro non ne riprodurrà il contenuto. Dirà solo che il signor X ha fatto testamento biologico e quindi sa­rà impossibile conoscere il conte­nuto di questo testamento, an­dando a vedere nel registro. Dun­que è semplicemente una forma di pubblicità, ripeto, apparente­mente innocua, che facilita l’inda­gine volta al reperimento poi del documento che conta. Ma c’è un livello molto più interessante».
Quale?
«Il problema della legittimità etica e giuridica di questi atti, e cioè del testamento biologico. L’espressione di volontà concer­nente l’ultima fase della vita: il problema è anzitutto etico e poi giuridico. Eticamente devo dire che se l’etica è universalmente condivisibile, come lo sono la ma­tematica e la fisica, allora il prove­nire da un’autorità è senza alcun effetto; Dio non ha compiuto rive­lazioni matematiche e fisiche, e di­rei che se l’etica è universale deve essere anch’essa separata da prin­cipi di autorità. L’etica non conta per chi la emana, fosse anche Dio — e Dio nella storia ne ha dette eticamente di tutti i colori — ma dipende dagli argomenti a favore delle tesi; essa non può essere quindi che laica, come laica è la matematica».
E quindi?
«Se argomentiamo, ho molta difficoltà a pensare che mentre su tutte le fasi della vita la persona ha il diritto-dovere di decidere, questo diritto-dovere cessi di fronte all’ultima fase. Io simpatiz­zo molto con la tesi secondo cui l’ultima fase è come tutte le fasi precedenti e quindi la persona ha il diritto-dovere di organizzarse­la, anche molto prima che si pon­ga il problema eutanasia sì, euta­nasia no. Io vedo la persona, o il suo fiduciario, come un regista dell’ultima fase di cui il medico è semplicemente un attore. E quin­di le dichiarazioni anticipate mi sembrano della stessa natura del testamento normale».
Dunque lei è a favore del testa­mento biologico? Perché?
«Ritengo che gli argomenti a fa­vore del testamento biologico sia­no molto più forti di quelli con­tro, e qui nasce il problema della traduzione dell’etica in termini giuridici; quando si passa al dirit­to, non è affatto detto che si pos­sa trapiantare di sana pianta l’eti­ca in quanto tale. Il diritto si rivol­ge in modo coercitivo a collettivi­tà nelle quali ci possono essere etiche di coscienza diverse e quin­di si pone un problema di consen­so e di tutela delle minoranze. Questo problema non può non es­sere risolto a partire dal principio di libertà. Chiunque limiti la liber­tà di un cittadino ha su di sé l’one­re della prova».
Cioè?
«Deve avere argomenti a favore della limitazione della libertà più forti del valore libertà come tale. Ed è molto difficile trovare argo­menti che non consistano nella di­fesa di altrui libertà minacciate da certi esercizi della mia libertà. Ora in questo caso è ben difficile vede­re quali libertà altrui siano minac­ciate dall’esercizio di questa mia li­bertà sull’ultima fase della mia vi­ta. Quindi ritengo che una tradu­zione giuridica esplicita del princi­pio di libertà e cioè una legittima­zione giuridica del testamento bio­logico sia la soluzione più giusta».

Corriere Fiorentino 8.10.09
Dopo il voto in Comune. La testimonianza della direttrice di neurorianimazione, Innocenti
Proposta: biotestamenti nelle cartelle cliniche
La commissione etica alla Regione: faciliterebbe il rapporto tra medico e paziente
di Alessio Gaggioli


3.000. I testamenti biologici firmati davanti a un notaio, a Firenze, dall’inizio della campagna di «Liberi di decidere». Sabato tornano i banchini in piazza
50. I Comuni italiani che hanno almeno avviato il percorso verso il riconoscimento del testamento biologico, secondo l’associazione Luca Coscioni

Il testamento biologico nelle cartel­le cliniche. È la proposta che la com­missione regionale di bioetica formu­lerà all’assessorato alla salute della Re­gione. Della cosa se n’è discusso an­che nei giorni scorsi, in una delle tan­te sedute della commissione, «ma ne parliamo da tempo», spiega la vicepre­sidente Maria Gabriella Orsi: «Si stan­no facendo le cartelle informatizzate, ma secondo noi al loro interno manca­no tre dati fondamentali. Il numero del medico curante del paziente, il no­me e il cellulare della persona di riferi­mento o di fiducia a cui è stato delega­to l’onere di confrontarsi con il medi­co e per ultimo le dichiarazioni del pa­ziente, le sue volontà; da quelle più semplici, che so, essere un donatore di organi o un testimone di Geova, ai temi più complessi come il fine vita o il testamento biologico».
Inserire queste «notizie» nelle car­telle cliniche, secondo la Orsi (che fa anche parte del gruppo di Pontignano l’associazione nata nel 2002, patroci­nata dalla Regione, che da 7 anni si oc­cupa di bioetica e fine vita) dovrebbe facilitare il rapporto medico-paziente: «La cartella — dice — è lo strumento più importante. Chiunque deve poter esprimere le proprie volontà e con le dichiarazioni del paziente scritte e fo­tocopiate il medico non potrà più dire 'io non sapevo'». Di testamento biolo­gico, di tutte le questioni legate al te­ma del fine vita, parla anche la dotto­ressa Paola Innocenti, direttrice del­l’unità di neurorianimazione di Careg­gi. Un reparto dove medici, infermie­ri, pazienti e famiglie hanno tutti i giorni a che fare con il dolore, l’ango­scia e l’incubo di una vita senza spe­ranza: «Le volontà in merito ai tratta­menti espresse in forma scritta dai pa­zienti sarebbero per noi una cosa mol­to utile: ci aiuterebbe nel nostro lavo­ro indipendentemente da qualunque legge. Ci aiuterebbe — spiega la dotto­ressa — perché consentirebbe di capi­re la reale volontà del paziente. Per­ché dove il testamento biologico è ri­conosciuto (nella maggior parte dei Paesi) non risolve tutti i problemi, ma aiuta il medico ad affrontarne alcuni in modo più consapevole e rispetto­so ».
Nel reparto diretto da Paola Inno­centi, la prima cosa da fare è garantire la sopravvivenza e dare una prognosi ai pazienti che spesso hanno subito un grave danno cerebrale ed arrivano già in coma. «E in quel caso, superata la fase dell’emergenza, ci preoccupia­mo di indagare con la famiglia e le per­sone a lui più vicine se siano state re­datte direttive anticipate rispetto ai trattamenti. Lo facciamo per capire nei limiti del possibile come avrebbe risposto quel paziente a trattamenti molto invasivi nel caso questi non avessero possibilità di successo». E quando è chiaro che l’esito sarà infau­sto «e che i nostri trattamenti potreb­bero essere futili allora ci confrontia­mo con la famiglia. Non sa quante vol­te ci troviamo di fronte ai parenti che ci dicono 'mio fratello o mia sorella non avrebbe mai accettato di essere tracheotomizzato'. E in questi casi cer­chiamo di attenerci alla volontà del fa­miliare ». Ma come si lavora in un qua­dro normativo così complesso? «Ci muoviamo con grande difficoltà, la legge attuale è poco chiara. Al momen­to, il consenso o meno ai trattamenti è valido solo per i pazienti in grado di decidere. Quando sono incoscienti se non interveniamo corriamo il rischio di finire sotto inchiesta penale. Faccio l’esempio di Piergiorgio Welby: da co­sciente chiese di non essere tracheoto­mizzato, anche se questo non lo avreb­be fatto vivere. Ma quando perse co­scienza il suo desiderio non fu asse­condato ». Nel reparto della Innocenti si è verificata una situazione simile: «Un paziente ci disse: 'Se smetto di re­spirare non mi intubate'. Abbiamo cercato di convincerlo che l’intubazio­ne lo avrebbe fatto sopravvivere, ma spiegato che non potevamo garantir­gli miglioramenti. E lui ha detto no; noi, rispettando la sua volontà, non lo abbiamo fatto». Il paziente ha scelto, e poi è deceduto «naturalmente», con­clude la dottoressa. «Il momento delle scelte difficili da noi c’è sempre. Per questo è fondamentale il rapporto con la famiglia perché per interrompe­re trattamenti che possono essere futi­li (e che ci impone di fermare il nostro codice deontologico) dobbiamo avere una grande condivisone con le perso­ne di fiducia del paziente. Per questo abbiamo eliminato gli orari di visita, qui i familiari vengono sempre. È un doppio scambio. Noi diamo informa­zioni a loro e loro a noi sulla persona ricoverata che riacquista la dimensio­ne di una persona malata e non di un corpo malato».

Liberazione 7.10.09
Cicchitto, ci eravamo tanto amati
Metamorfosi di un socialista
di Maria R. Calderoni


C’eravamo tanto amati (politicamente). Avevamo un carissimo amico in comune, un giornalista dell' Avanti scomparso ormai parecchi anni fa, si chiamava Giorgio Lauzi, lombardiano di ferro, come lui, Fabrizio. E mi piaceva frequentarli, quei due socialisti amici di noi comunisti, in quegli anni, fine anni 60-inizio 70. E lui, Fabrizio, era simpatico, spiritoso, e per niente conformista. Anzi, reattivo, dotato di spirito critico. Quando lo conobbi era già ai piani direttivi della Cgil, molto stimato nell'entourage sindacale socialista di allora, e in odore di enfant prodige. Pupillo di Riccardo Lombardi, insomma un giovane socialista-di-sinistra assai promettente, in rampa. E stimato. E uno-di-noi.
Del resto, aveva tutte le "carte", nemmeno una piega. Una biografia doc. Laureato in giurisprudenza a 22 anni (è del '40), specializzazione in economia, segretario della Federazione giovanile socialista, nel Psi è acceso aderente della corrente lombardiana, filocomunista, sostenitore della politica del compromesso storico, nemico dichiarato di quella perfida e potente Dc che, ferrea alleata del Patto Atlantico e degli Usa, è l'inespugnabile bastione della conventio ad excludendum che impedisce al Pci ogni partecipazione al governo dell'Italia. Begli anni di lotta comune, noi e quei socialisti "buoni", coi quali si condividevano battaglie ed ideali. E lui che era già una testa d'uovo, giovanissimo autore di libri, convincente relatore alla Conferenza nazionale operaia nel 1977 a Torino e deputato per il Psi nella VII legislatura, sugli stessi banchi di Riccardo Lombardi, il suo grande sponsor.
Fabrizio Cicchitto va. Fino a quel giorno del 1981, quando la lista P2 salta fuori da Castiglion Fibocchi e tra gli iscritti c'è anche il suo nome, "iniziazione" 12 dicembre 1980, tessera n. 2232. Fabrizio Cicchitto, proprio lui, il socialista di sinistra, il fedelissimo lombardiano. E' un fulmine, un vero scandalo. A Lombardi quasi gli viene un colpo: molto turbato, gli chiede di lasciare il Psi e di ritirarsi in penitenza. E' un momento tristissimo per Cicchitto, è angosciato e smarrito, confessa e si dichiara pentito. Oggi che è potente se la ride e schernisce: «Perché mi sono iscritto alla P2? - ha risposto a chi recentemente gli ha fatto la domanda - Perché sotto Natale vi si facevano tombolate fantastiche». Ma allora era tutt'altro che spavaldo e faceva pubbliche professioni di ammenda, anche "sincere". «Errore molto grave, quello che ho fatto, indubbiamente - scrive al tempo - ho aderito ad una realtà che era espressione del potere dominante e delle distorsioni conseguenti. E non mi sfugge che con l'errore commesso rischio di annullare la credibilità di circa vent'anni di milizia politica».
Infatti non è perdonato e la sua quarantena nel Psi dura fino all'86, quando Craxi lo riammette. Ha imparato la lezione, non si farà "beccare" mai più.
D'ora in avanti starà, certo, con il potere, ma con gli "attrezzi" giusti. Addio Lombardi & C., «Se in politica è lecito essere furbi, non è consentito essere fessi», già «e oltre Palazzeschi e Dossi, avrei fatto bene a leggere più Machiavelli».
Cambia, trascolora. Diventa craxiano abbastanza rapidamente, e poi, dopo il dissolvimento del Psi nel cataclisma di Tangentopoli, percorre tutta la china degli orfani del leader emigrato ad Hammamet. Orfani niente affatto rassegnati al paradiso perduto, al potere raggiunto e svanito. Nel '94 con Enrico Manca fonda il Psr (Partito socialista riformista); successivamente aderisce al Partito socialista di Gianni De Michelis. Ma non c'è trippa per gatti, così nel 1999 ci dà un taglio e, inseguendo Machiavelli, toh, trova Berlusconi.
Dieci anni di irresistibile ascesa, gli altri craxiani dispersi e in discesa, invece lui in primo piano e in salita. Scala rapidamente i gradi dentro Forza Italia, il suo nuovo partito: immarcescibile deputato (è ormai alla quinta legislatura filata), coordinatore azzurro nazionale, capogruppo parlamentare del Pdl. Inseguendo Machiavelli, è diventato mandarino, ben piantato dentro il "primo" girone, quello più contiguo a Berlusconi; ed hic manebimus optime.
Mai senza Cicchitto. In Aula non è proprio un gran presenzialista, ma nella sua veste di proconsole berlusconide è indefesso, dedito, sempre sul posto. Con Niccolò Ghedini si batte con onore per la medaglia di primo della classe.
Gli è venuta una vera faccia da telegiornale, all'ex bravo ragazzo lombardiano: il primo e il più oltranzista "dichiaratore" del ramo Pdl. Chi ha gridato, chi grida più forte? Lui, lo abbiamo testé sentito. Suona la carica. La manifestazione sulla libertà di stampa lo manda fuori dai gangheri. «Ma che vogliono? Ma di cosa si lamentano? Otto talk show su nove sono contro il governo, la stragrande maggioranza dei giornali sono autonomi e liberi». Sostiene Cicchitto. Non finisce qui, il prode va più in là, prende posizione. Sente odore di golpe (non è la prima volta) e si impenna. Scendiamo in piazza. Qui ci vuole «una grande manifestazione popolare»; lui chiama alle armi «per contrastare l'attacco concentrico che è in atto contro Berlusconi sul piano giudiziario, finanziario, editoriale». Chi c'è dietro la D'Addario? E dietro lo scudo fiscale? E dietro Casoria? E dietro il lodo Mondadori? E vieppiù, dietro il lodo Alfano? All'armi, «ci si può aspettare di tutto», Cicchitto va alla guerra (anche se non sono pochi anche nel suo giro a cercare di calmarne i bollenti spiriti). L'Impero vacilla, ma non lui e non da adesso. «Siamo di fronte al tentativo eversivo operato da Repubblica , che è quello di lavorare per rovesciare il legittimo risultato elettorale del 13 aprile 2008 usando tutti i mezzi possibili al di fuori della normale lotta politica», scrive sul Giornale . Non un trasalimento, neppure un battito di ciglia.
C'è poi la magistratura-canaglia. «Siccome "lor signori" non sono riusciti nel 1994 ad abbattere Berlusconi con l'invio di un avviso di garanzia attraverso il Corriere della Sera ; poi attraverso le "rivelazioni" della contessina Ariosto alla vigilia delle elezioni del 1996, adesso si buttano addosso alla sua vita privata». Quanto all'affaire Mondadori, si tratta di «una sentenza dalle proporzioni inusitate ben studiata anche nei tempi», di cui, ovviamente il beneficiario è De Benedetti», il mandante. Magistratura-canaglia, ovvero «l'uso politico della giustizia fatto dai settori politicizzati della magistratura di intesa con una parte della sinistra», allo scopo di «screditare e perfino demonizzare gli avversari politici».
Cicchitto va alla guerra. Berlusconi o morte.

Repubblica 8.10.09
Stonehenge
Portato alla luce un nuovo sito: Bluestonehenge, risalente al 3.000 a.C
di Cinzia Dal Maso


Aveva 25 massi in formazione circolare Per gli studiosi inglesi il ritrovamento conferma la funzione funeraria dell´insediamento neolitico sull´Avon Scoperto il cerchio "gemello" che svela il mistero più antico Nei buchi sono stati rinvenuti residui di carbonella "Qui si cremavano i corpi dei defunti"

L´hanno già battezzato Bluestonehenge, la Stonehenge blu. È un nuovo circolo di pietre scoperto a poca distanza dal monumento preistorico più famoso al mondo. Una scoperta epocale, si è subito detto. Incredibile. E costringerà a nuove riletture e nuove ipotesi anche su Stonehenge.
Gli scopritori, però, hanno già le idee chiare. Sono gli archeologi di sei università riuniti nello Stonehenge Riverside Project diretto da Mike Parker-Pearsons dell´Università di Sheffield. Dal 2003 indagano la piana del fiume Avon per dimostrare che Stonehenge fu un grande cimitero, e la tappa finale di un complesso rituale funebre che conduceva i defunti da Durrington Walls, enorme terrapieno con circoli di pali di legno dove si svolgevano feste e banchetti funebri, fino al fiume Avon e poi da questo a Stonehenge lungo la via processionale di 2,8 chilometri chiamata Avenue. Dal regno dei vivi, costruito ancora in vivo legno, il defunto passava dunque attraverso il fiume al regno dei morti di dura e gelida pietra.
Bluestonehenge s´inserisce a perfezione in questo quadro. È situato infatti sulla riva del fiume Avon all´attacco della Avenue, proprio dove, secondo Parker-Pearsons, i defunti terminavano la navigazione fluviale. Gli archeologi hanno trovato solo le fosse che ospitavano le pietre del circolo, venticinque fosse per un diametro di 10 metri. Ma le pietre erano a loro volta circondate da un fossato e un terrapieno. Ed erano pietre molto speciali: le bluestones, le "pietre blu", massi di dolerite (roccia vulcanica dai riflessi bluastri) alti quasi due metri e pesanti fino a 4 tonnellate ciascuno. Quelle che oggi si vedono a Stonehenge e che furono portate dalle Preseli Mountains nel Galles con un viaggio di oltre 350 chilometri.
Un viaggio faticosissimo. Secondo Parker-Pearsons, si fece già nel 3.000 a.C., circa 500 anni prima della data finora accettata dagli studiosi. Allora, sostiene l´esperto, si trasportarono un´ottantina di queste pietre particolari per costruire due circoli di 25 e 56 pietre, Bluestonehenge e Stonehenge. Del primo si attendono ancora le datazioni ufficiali ma i pochi oggetti trovati indicano proprio il 3.000 a.C. Di Stonehenge, invece, si conoscono da tempo le 56 fosse di un primo circolo mai compiutamente descritto. Poi, probabilmente cinquecento anni dopo, Bluestonehenge fu smantellato, le sue pietre portate a Stonehenge e unite alle altre nella composizione di 80 pietre che noi conosciamo. Dunque, tutto combacia.
Del resto a Bluestonehenge, nelle fosse lasciate dalle pietre, gli archeologi hanno trovato tantissima carbonella. Per Parker-Pearsons è la prova che questo sito «era il luogo di cremazione dei defunti prima che le loro ceneri venissero sepolte a Stonehenge». Azzarda, ma in fondo ci crede.

Repubblica 8.10.09
Tremate le streghe son tornate
intervista a Martha Nussbaum di Alessandro Lanni


Il femminismo non è morto Gli Usa restano un paese sessista, ma molte speranze sono affidate a persone come Sonia Gandhi Parla la filosofa Martha Nussbaum
"La leader indiana è un´oratrice magnifica. E si schiera con i poveri e gli emarginati"

Anticipiamo parte di un´intervista a Martha Nussbaum che compare sul nuovo numero di Reset in libreria in questi giorni

Il femminismo non è morto. Anzi, per molti versi ha vinto numerose battaglie negli ultimi decenni. Ma ora è tempo che cambi marcia e registro. Meno ideologia e nuovi obiettivi dettati da un mondo trasformato. Martha Nussbaum, filosofa della politica tra le più note ed esponente storica del movimento femminista, con realismo vede il bicchiere delle conquiste delle donne riempito per metà. È ora, spiega in questa intervista, di colmare il gap e soprattutto la politica è il campo nel quale c´è più da fare. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Libertà di coscienza e religione (il Mulino). Nel febbraio del prossimo anno uscirà From Disgust to Humanity: Sexual Orientation and Constitutional Law.
«In ogni area delle nostre vite – spiega Nussbaum – il femminismo ha realizzato progressi. Eccetto che nella politica». Senza arrivare alle degenarazioni dell´Italia («Berlusconi è un vostro problema», dice) e malgrado si siano imposte negli ultimi mesi figure carismatiche come Michelle Obama e Hillary Clinton, anche negli Usa il numero delle donne in politica rimane lo stesso di quello degli anni Sessanta.
Nel nuovo orizzonte multiculturale nuove figure di donne politiche devono nascere, capaci di unire e non di dividere, magari al modo di una donna che Martha Nussbaum conosce bene: Sonia Gandhi.
Il femminismo per il XXI secolo è alla ricerca di nuove idee e di nuove icone. Sonia Gandhi può essere un modello globale per le donne in politica?
«Sonia Gandhi – e prima di lei Indira – ha raggiunto il potere grazie alla famiglia. Nessuno lo può negare. Entrambe, tuttavia, hanno dimostrato di essere leader incredibilmente competenti. Indira può essere criticata perché non ha tenuto conto abbastanza dei diritti civili. Ma Sonia ha imparato dagli errori di sua suocera, non ne ha né lo stile arroccato né le paranoie».
In cosa è originale Sonia?
«È contenta di condividere il potere e anche di cederlo. La sua decisione di farsi da parte e non essere Primo ministro nel 2004 è stata nobile e anche molto utile all´India. Insieme a Manmohan Singh sono un ottimo team: lui governa dal centro, lei si occupa degli interessi dei poveri e degli emarginati. Singh non è certo un politico carismatico, per questo è fondamentale che Sonia sia un´oratrice magnifica e abbia un´abilità particolare nell´entrare in contatto con la gente normale e comprendendone le esigenze».
In questo momento nella Ue c´è solo un leader politico donna, Angela Merkel, un po´ poco, non trova?
«È vero, senza contare il presidente della Finlandia che non è Primo ministro ma ha un potere considerevole. Però è anche vero che Inghilterra, Polonia, Norvegia, Finlandia e Francia hanno avuto donne capo di Stato, come Canada, Nuova Zelanda, Pakistan, India, Bangladesh, Turchia, Israele, Sry Lanka, Filippine, Mongolia, Argentina, Islanda, Rwanda, Burundi, Bermuda, Mozambico, Giamaica, Nicaragua, Repubblica dominicana, Malta e Liberia. Non è poco».
E gli Stati Uniti?
«Me lo chiedo spesso. Perché siamo così indietro rispetto a molti altri paesi. Certamente per una donna è più semplice arrivare al potere in un sistema parlamentare piuttosto che in uno come il nostro, nel quale il presidente deve compiere una gara di popolarità. Ma gli Usa rimangono uno Stato tra i più sessisti al mondo, nel quale sono messe in discussione le capacità di leadership delle donne».
Il movimento femminista sembra aver perso la spinta che aveva in passato. Si è esaurito un modello di lotta politica?
«Non credo che il femminismo sia esaurito. Se si guarda ai dati, nel mondo c´è un enorme miglioramento nell´istruzione femminile, nella salute delle donne, nella mortalità per parto. Ovviamente, esistono ancora grandi problemi. Per esempio, l´amniocentesi ha provocato una crescita degli aborti selettivi in molte nazioni. Esistono ancora molte battaglie da combattere. In numerose nazioni, le leggi sullo stupro e sulla violenza domestica sono inadeguate, addirittura più di quanto lo erano qualche anno fa. Tuttavia, l´opposizione alla discriminazione sessuale, alle molestie nei luoghi di lavoro ha prodotto un sensibile cambiamento nelle leggi e nella vita stessa».
Parliamo di donne e religione. Un fronte relativamente nuovo per il femminismo è l´ingresso delle donne in posizioni di potere nelle grandi fedi.
«Anche in questo ambito ci sono dei recenti cambiamenti negli Stati Uniti. Più del 50 per cento dei rabbini riformati ora sono donne. Il vescovo a capo della Chiesa anglicana degli Usa è una donna. Il clero femminile supererà presto quello maschile in ogni religione esclusa la Chiesa cattolica, nella quale il rifiuto per le donne prete sta portando a una crisi, per la quale i ragazzi americani non vogliono più prendere i voti e tutti i nuovi sacerdoti arrivano da Africa e Sud America e sono fuori dal contesto della società Usa. Così, ogni Chiesa che vuole per sé un futuro sano farebbe bene a coinvolgere le donne!».
Insomma, il gender gap lentamente si sta riducendo anche negli Usa.
«Oggi, gli studenti di legge sono negli Usa per metà donne. In ogni area delle nostre vite, il femminismo ha realizzato progressi. Quando ero studentessa nelle università dell´Ivy League non c´era neanche un preside donna. Ora sono la maggioranza: Princeton, Penn, Harvard, Brown. Un cambiamento c´è stato ovunque eccetto che nella politica. Si pensi che ci sono solo poche senatrici in più rispetto al passato e che non ci sono mai state più di due donne tra i nove membri della Corte suprema e, naturalmente, non c´è mai stato una presidente o una vice-presidente del mio paese».

Corriere della Sera 8.10.09
Sono 500 le opere tra quadri, collage, ready made
Dada/Surrealismo. Avanguardia continua
Così diversi e così legati fra loro: viaggio tra i movimenti che hanno segnato il ’900
di Edoardo Sassi


L’intento è di presentare anche artisti meno conosciuti ma importanti per l’etica e l’estetica
Il sogno americano Il primo rese astratti gli oggetti del consumismo, il secondo anticipò l’era del pop

Più di cinquecento opere esposte — quadri, sculture, collage, assemblaggi, ready ma­de, documenti — e duecento arti­sti in mostra per tentare di rac­contare in un’unica esposizione due tra le avanguardie artisti­co- letterarie più importanti (complesse, ed eversive) della prima metà del Novecento, Da­daismo e Surrealismo.
Questo il compito, piuttosto ambizioso, della mostra che apre al pubblico domani (e fino al 7 febbraio) nei saloni del Comples­so del Vittoriano a Roma. Una mostra tutta allestita nel segno del suo curatore, quell’Arturo Schwarz, classe 1924, che dei sur­realisti in particolare, negli ulti­mi anni (André Breton, leader del movimento, morì a Parigi nel 1966) fu compagno di strada, amico, collezionista ed esegeta.
Due avanguardie tanto diver­se eppur saldamente legate, tan­to che — nelle inevitabili sempli­ficazioni da manuale — la secon­da, il Surrealismo, almeno in or­dine cronologico viene spesso de­scritta come filiazione e deriva­zione della prima. Questa esposi­zione aiuta a capire in qualche modo alcune continuità, diver­genze e «premesse», a partire da un omaggio ad alcuni degli arti­sti considerati precursori dei due movimenti: Chagall, De Chirico, Kandinskij, Klee, Klinger, Gusta­ve Moreau, Munch...
Dadaisti: ribelli, anticonformi­sti, irregolari e disertori antimili­taristi in tempi di guerra mondia­le. Artisti sì, ma anarchici anche nello stile, convinti, com’erano, che la sola arte (in)utile fosse quella in grado di esprimere il senso del nulla, il vuoto, la falsi­tà di tutte le credenze convenzio­nali. A Zurigo (dove il movimen­to nacque, 1916), a New York, a Parigi, a Berlino e un po’ ovun­que in Europa, si riunirono ideal­mente sotto l’egida di una parola tanto misteriosa (ancora si discu­te sull’origine) quanto insignifi­cante: Dada («Dada non significa nulla», affermava il fondatore e leader Tristan Tzara. Dada è «abo­lizione della logica», «negazione di ogni gerarchia», «rifiuto del sesso pudibondo del comodo compromesso e della buona edu­cazione »…).
Fin dall’inizio le premesse ni­chiliste di Dada lasciavano presa­gire una sua naturale conclusio­ne: il movimento, così com’era, non ammetteva sviluppi. Ed è ve­ro che la sua eredità fu in qual­che modo raccolta dal Surreali­smo, che per certi versi però ne trasformò lo spirito a partire da­gli anni Venti, proclamando la ne­cessità di una rivoluzione socia­le, di un’ engagement filtrato da­gli interessi del gruppo per la psi­cologia freudiana (libere associa­zioni e «automatismi psichici» sono tratti salienti del movimen­­to), e con l’anarchia dada sostitui­ta, a partire dal secondo manife­sto del 1929, da un’adesione al marxismo.
Duchamp, Arp, Picabia, Man Ray, Tanguy, Ernst, Masson, Da­lì, Magritte, Mirò, Picasso... Tan­tissimi, tra i cosiddetti «giganti» del secolo, i protagonisti presen­ti in mostra, con opere a volta si­gnificative e a volte meno (ma al­cune lacune nei prestiti, in espo­sizioni collettive di questo tipo, sono pressoché inevitabili). E tanti anche i nomi meno cono­sciuti, da cui il titolo dell’esposi­zione, Dada e Surrealismo risco­perti : «Riscoperti — spiega Schwarz — perché la maggior parte delle mostre dedicate ai due movimenti si sono limitate a presentare gli artisti più cono­sciuti, dimenticando quelli che hanno invece contribuito a preci­sarne etica ed estetica. Questa esposizione vuole offrire una pa­noramica la più esaustiva possi­bile di due filosofie di vita».
Ed è questo forse il pregio (ma per qualcuno sarà un difetto) di una mostra, quantitativamente ricchissima, con un allestimento che non si limita al periodo au­reo delle due avanguardie (spin­gendosi cioè al massimo fino agli anni Trenta) ma prende in esame un arco cronologico va­stissimo (un secolo circa, fino al­le ultime mostre organizzate da Breton negli anni Sessanta), in­cludendo scissioni, deviazioni, adesioni occasionali e influenze recenti (ecco spiegato il senso di un Pollock o l’inclusione di arti­sti viventi come Lucio Del Pez­zo). Non mancano comunque, tra le opere esposte, quelle che caratterizzano, anche nell’imma­ginario collettivo, le due avan­guardie: dai «gesti» predada di Duchamp (Gioconda con baffi, orinatoio, ruota di bicicletta...) al­le invenzioni di Man Ray.

Corriere della Sera 8.10.09
Duchamp e Dalì, gli «appestati» che contagiarono New York
di Vincenzo Trione


«Io porto la peste...», affer­ma Sigmund Freud quan­do, dalla nave, vede profi­larsi all’orizzonte le coste dell’America. Non diverso deve essere stato il sentimento di Marcel Du­champ e di Salvador Dalí, quando arri­vano nel Nuovo Mondo. Per loro, gli Stati Uniti non sono simbolo del pro­gresso, né perimetro dove rifugiarsi. Sono una realtà: l’approdo, il luogo del destino. Un continente da contagiare con la forza scandalosa dell’avanguar­dia europea.
È il 1915 quando Duchamp lascia Pa­rigi — oramai simile a una dimora de­serta — per New York. Che magnificen­za: «Un lavoro d’arte assoluto». Un tri­pudio: «Somiglia alla Parigi dei vecchi tempi, sono molto felice qui», confesse­rà. Analogo l’entusiasmo di Dalí, il cui arrivo oltreoceano risale al 1934. Manhattan gli appare come un accumu­­latore, un sensazionale banchetto, av­volto in «ondate di flagranze». Atlanti­de del subconscio, sintesi delle visioni di Piranesi: non ha bisogno di essere moderna «per il solo fatto di esserlo sta­ta fin dall’inizio». Biologia in fermento, sembra essere nata per accogliere l’arti­sta spagnolo, che si chiede: «Perché hai eretto il mio monumento tanto tem­po fa, molto prima che io nascessi?».
New York è ingranaggio in azione e corpo sottoposto a metamorfosi. Pro­spettive urbane che determineranno opzioni poetiche non contigue.
Duchamp è in sintonia con l’anima impersonale e fordista dell’America. Spesso immortalato mentre gioca a scacchi a Central Park, riflette sull’iden­tità dell’opera d’arte nel tempo della ri­producibilità tecnica. Gli USA, per lui, sono il teatro ideale dove allestire una drammaturgia fondata su gesti tesi a violentare norme e consuetudini. Dagli esercizi cubo-futuristi esposti nella leg­gendaria mostra The Armony Show (te­nutasi a New York nel 1913) — connu­bio tra ritmi antropomorfi e meccaniz­zazioni — fino a una tra le più rivolu­zionarie invenzioni del Novecento, il ready-made. Servendosi di questo arti­ficio, l’artista si porta al di là di ogni manualità: preleva oggetti già fatti, si­tuandoli nei contesti museali, per cari­carli di valenze simboliche inattese. Af­ferra la realtà nel momento in cui sta per fuggire alla sua presa: sostituisce le cose ai segni che le designano. Si pensi a una tra le sue trovate più originali, eseguita in America nel 1917. Du­champ capovolge un orinatoio, lo inti­tola Fountain , firmandolo con un no­me di fantasia, Richard Mutt. Il passo successivo è costituito da un altro stra­tagemma — il pointing —, che sanci­sce la definitiva sparizione dell’opera. Duchamp indica l’Empire State Buil­ding: nell’attimo in cui punta quell’edi­ficio, se ne appropria trasformandolo in una «sua» creazione.
Diverso l’atteggiamento di Dalí. Il ca­pitano della «nave carica di matti» (per riprendere l’appellativo assegnato ai surrealisti da un critico newyorkese) aderisce alla dimensione eccentrica e coloratissima dell’America. Che, per lui, è una superficie orizzontale su cui possono entrare in collisione memorie e cinismi: l’amore per il passato e l’os­sessione per il business. Si osservi Poé­sie d’Amérique (del 1943). Un alfabeto di associazioni. Un paesaggio lunare: al centro, una torre che è anche un gratta­cielo. Di fronte, due sagome dense di echi classici. Siamo nell’arcipelago del sogno, dove ogni traccia si carica di un potere straniante. L’arte si fa emergen­za per liberare le tensioni dell’incon­scio. In alcuni dipinti, si intravede an­che uno tra gli emblemi dell’America: il dollaro (in L’apothéose du dollar , del 1965). Un’apparizione che rivela il ta­lento pre-warholiano di Dalí, il quale conosce bene i meccanismi dei mass media. Talvolta apostrofato con l’ana­gramma Avida Dollars, ha uno sfrenato desiderio di fama e di successo. In un’intervista a Oriana Fallaci, dichiare­rà di considerare le banconote come un «amplesso sessuale» e di studiare quotidianamente le «leggi che riguarda­no la pubblicità». Trasgressivo teorico del look, idolatrato dagli hippy per il suo stile psichedelico, apprezzato da Mick Jagger e John Lennon, cartoonist per Walt Disney, è più pop degli stessi artisti pop. Eccolo: inconfondibile ico­na, con i baffi a manubrio ritoccati con la matita. Scriverà: «L’unica cosa di cui il mondo non ne avrà mai abbastanza è l’esagerazione». Una frase che avrem­mo potuto trovare anche in La filosofia di Andy Warhol. Dunque, un america­no per scelta, le cui radici però affonda­no in un sofisticato archivio di reperti antichi.
Angolazioni differenti, che si sfiore­ranno nell’esposizione organizzata al MoMA nel 1936, Fanta­stic Art: Dada and Surrea­lism .
A New York assistia­mo all’incrocio tra questi due sguardi d’avanguar­dia. Quello di Duchamp: concettuale e analitico, che sa rendere magico l’ovvio, aprendo in dire­zione del new-dada e del post-dada. E quello oniri­co e delirante di Dalí che, nel perlustrare i fantasmi della psiche, prelude alle culture pop.
Tra attriti e convergenze, queste ge­ografie riescono a sedurre gli america­ni. Che, come amava ripetere Gertru­de Stein, «sono i materialisti del­­l’astratto».

Repubblica Roma 8.10.09
Cellule staminali, la Rete dei trapianti
William Arcese: "Sette ospedali uniti per combattere le malattie del sangue"
di Carlo Picozza


Solo il 30% dei pazienti ha un familiare "compatibile", perciò si rivela insostituibile la donazione: dagli adulti o dal sangue del cordone ombelicale

La diagnosi spuntò dal referto di un banale esame del sangue: «Leucemia acuta mieloide», un tumore maligno che colpisce il midollo osseo e i suoi globuli bianchi. Stefania Angeli, 44 anni, due figli, cominciò un intenso ciclo di chemioterapia, guardando al trapianto di midollo come alla sua possibile salvezza. In famiglia, però, non c´era un donatore compatibile. Le sue condizioni cliniche precipitavano. «Era il 2006», racconta William Arcese, primario oncoematologo nel policlinico Tor Vergata. «Mancava il tempo per la ricerca di cellule staminali idonee sui registri dei donatori internazionali. Restava la carta del trapianto da un familiare semicompatibile». Una procedura complessa, eseguita in centri ematologici che in Italia si contano sulle dita di una mano. «Mi sento miracolata», dice ora Angeli. «Molti medici», racconta, «mi consigliarono l´Ematologia di Tor Vergata. Da qui, con grande fatica, ho ricominciato. Lo devo all´incontro con sanitari di alta professionalità e grande umanità che è una leva indispensabile per riprendersi la vita».
«La tecnica utilizzata in quell´intervento», spiega Arcese, «ha fatto da apripista a procedure adottate dalla Rete metropolitana dei trapianti». Già, il "Rome transplant network": è nato due anni fa dall´idea che il primario accarezzava da tempo: «Le malattie del sangue si combattono insieme», ripeteva ai colleghi. «Uniti possiamo contrastarle nel modo più efficace. Forse, sconfiggerle». Così, insieme nel Network, sette reparti ematologici di altrettanti ospedali (Tor Vergata, Sant´Andrea, San Giovanni, Regina Elena, Sant´Eugenio, Bambino Gesù, Campus Biomedico), oggi eseguono tutti i tipi di trapianto di cellule staminali con trattamenti omogenei nelle procedure e affidando gli interventi in base alle competenze acquisite. «Condividere il lavoro di ciascun centro valorizzandone le specializzazioni», ancora Arcese, «avvantaggia la Rete, il malato e le casse del Servizio sanitario». Semplice e vincente, quell´idea è stata tradotta in numeri e alta specializzazione: 172 trapianti eseguiti nel 2008 (sui 448 nel Lazio) e in 20 di questi sono state impiegate cellule staminali donate da familiari "semicompatibili".
Ora che la Rete è stata collaudata in un biennio di intesa, lui e i suoi colleghi degli altri centri - Luciana Annino (San Giovanni), Giuseppe Avvisati (Campus Biomedico), Paolo De Fabritiis (Sant´Eugenio), Giulio De Rossi (Bambino Gesù), Bruno Monarca (Sant´Andrea), Concetta Petti (Regina Elena) - scrivono soddisfatti: «Dal registro del Gruppo italiano Trapianto del Midollo osseo, risultiamo primi in Italia per numero di interventi». Tredicesimo in Europa. Il Network assicura, tra i pochissimi centri del Paese, ogni tipo di intervento: dall´autotrapianto, quello con cellule proprie (autologhe) al trapianto allogenico, dal trapianto da donatore familiare compatibile a quello da volontario reperito nei registri internazionali. Si eseguono anche trapianti da un donatore familiare semicompatibile o dal sangue di cordone ombelicale ottenuto da una delle decine di banche mondiali.
«Il trapianto ottimale? Quello da un fratello o da una sorella compatibile», spiega Arcese. «È il più accreditato». «Ma», sottolinea, «solo il 30% dei pazienti ha questa "disponibilità". Per gli altri malati, la maggioranza, si è costretti a ricorrere a fonti diverse». «Con più donazioni di cellule staminali, da volontari adulti e dal sangue del cordone ombelicale», conclude, «si risponderebbe meglio al fabbisogno crescente di cure trapiantologiche».
(9. continua)

Repubblica 18.9.09
Esce il Libro rosso di Jung Santo Graal dell'inconscio
di Luciana Sica


Esce agli inizi di ottobre nelle librerie americane uno dei più favoleggiati inediti di Carl Gustav Jung, il Libro Rosso, 205 grandi pagine scritte in tedesco dal fondatore svizzero della psicologia analitica, tra gli allievi più geniali ed eterodossi di Freud, il maestro amato ma non idolatrato e poi in qualche modo "tradito". Lo scrive Sara Corbett nel prossimo numero del magazine del New York Times in un lungo articolo intitolato "Il Santo Graal dell' Inconscio". L' editore del Libro è W.W. Norton, il curatore è lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, indiano nato a Singapore e cresciuto in Inghilterra, coordinatore delle "Philemon series", progetto che punta alla pubblicazione di tutta l' opera di Jung rimasta inedita. Quel diario privatissimo di Jung raccolto gelosamente in una cartella di pelle rossa, zeppo di decorazioni e disegni in stile Art déco, ne rievoca la celebre e comunque misteriosa "discesa negli inferi", quel periodo di confusione datato tra il 1914 e il ' 30 segnato dal "confronto con l' inconscio", a tratti da terrificanti esperienze anche di natura psicotica - sogni paurosi, visioni allucinatorie, incontri con folle di spiriti, dei e demoni, suoni sinistri. Un viaggio negli abissi della psiche, come un prolungato esperimento con la mescalina con il gravissimo rischio di una progressiva perdita di sé, che Jung ha annotato dettagliatamente, ma in forma sempre molto riservata, temendo l' esposizione pubblica di un volume che - come lui stesso ebbe a scrivere col senno del poi - «a un osservatore superficiale sembrerà pura follia». Non a caso il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi di Jung, scomparso nel ' 61. Prima ben chiuso nei cassetti di case private, poi messo al sicuro nel deposito di una banca svizzera, l' United Bank of Switzerland, per ventitré anni. Shamdasani - che considera il Libro Rosso di Jung l' equivalente di Così parlò Zarathustra nell' opera di Nietzsche - ha cominciato a lavorare all' inedito nel ' 97. «Il suo è stato un lavoro enorme, dal punto di vista non solo di una corretta traduzione ma soprattutto del rigore filologico, tenendo conto che Jung non ha mai smesso, per tutta la vita, di rimaneggiare quelle pagine»: a dirlo è Luigi Zoja, analista e studioso junghiano di fama. A lui la Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Libro non prima della fine del 2010, avrebbe voluto affidarne la cura ma Zoja ha rifiutato un incarico che considera incompatibile con i suoi impegni. Quello che sarà interessante capire è come l' opera junghiana potrà essere riletta alla luce della pubblicazione di un Libro così singolare che - in una forma decisamente più letteraria che scientifica- anticipa comunque i grandi temi proposti da Jung al pensiero psicologico del Novecento: il processo di individuazione, l' Ombrae l' inconscio collettivo, gli archetipi e il Sé. «Certamente - è l' idea di Mario Trevi, tra i teorici più brillanti dello junghismo non solo italiano - questo Libro costituirà un documento imprescindibile anche per chi come me ama lo Jung empirico, critico, ermeneutico, probabilista». Da un punto di vista storico, la "traversata notturna" di Jung sta tutta dentro la vicenda del movimento psicoanalitico delle origini. È proprio quando si rompe l' amicizia con Freud - un fratello maggiore se non un padre in un certo senso amato e odiato - che si scatena "il magma fuso e incandescente" dell' inconscio. Jung che con Simboli e trasformazioni della libido segna i primi contrasti con il fondatore viennese della psicoanalisi- perde un sostegno fondamentale, un amico che lo aveva protetto anche contro se stesso. Il "torrente di lava" che rischia di travolgere Jung poco alla volta - ci vorranno anni- rientra, smette di debordare, di provocare deliri ad occhi aperti. L' io e l' inconscio, il bellissimo libro del ' 28, segna in qualche modo la fuoriuscita da un pericoloso tunnel. Di quegli anni in cui lo psichiatra svizzero è stato senz' altro su un crinale, sapevamo soprattutto attraverso l' autobiografia scritta con Aniela Jaffé, Ricordi sogni riflessioni (ad esempio: «L' intera casa era piena come se ci fosse una folla, totalmente piena zeppa di spiriti...»). Ora il Libro Rosso ci dirà più esattamente di che pasta fosse fatta quell' "immaginazione attiva", quella vicenda non solo personale nel segno della più estrema creatività

mercoledì 7 ottobre 2009

l’Unità 7.10.09
VERSO IL 17
Con l’Unità in piazza contro il razzismo
Comincia oggi il nostro conto alla rovescia verso la manifestazione che si terrà a Roma il prossimo 17 ottobre. Vent’anni dopo Jerry Masslo
di G.M.B.


Centinaia di adesioni. Il sostegno della Cgil dell’Arci e di associazioni di base
Piazza Repubblica. Il grande corteo multietnico partirà dal centro di Roma

Meno dieci. Sono i giorni che mancano alla manifestazione antirazzista che si terrà a Roma il prossimo 17 ottobre.
L’Unità assieme alla Cgil, all’Arci e a decine di altre associazioni locali e nazionali ha deciso di aderire e di dare ai lettori una informazione puntuale sulle ragioni di questa protesta. Lo faremo a partire da oggi e fino a quando alle 14,30 di quel sabato da Piazza della Repubblica partirà il corteo.
I promotori sono ottimisti. Lo siamo anche noi. La manifestazione per dire no al razzismo potrebbe essere la più grande tra quelle che si sono svolte nel nostro paese negli ultimi vent’anni.
La prima si tenne il 7 ottobre del 1989, quando un’Italia inconsapevole e distratta aveva appena cominciato a conoscere gli immigrati. E ancora era convinta di essere un paese totalmente immune da pulsioni razziste. Certo, la Lega Nord, nata qualche anno prima, già se la prendeva con i meridionali. Ma appariva ancora un fenomeno folkloristico, passeggero. Molto probabilmente lo stesso Umberto Bossi non aveva idea che di lì a qualche anno sarebbe stato costretto a sostituire nelle sue campagne d’odio i calabresi, i siciliani e i sardi con i «Bingo bongo».
Quella del 7 ottobre del 1989 fu una manifestazione gigantesca. Qualche mese prima, il 24 agosto, a Villa Literno era stato ucciso un ragazzo sudafricano, Jerry Masslo e una parte di noi aveva cominciato a intuire che una serie di valori fondamentali, che ci parevano ormai acquisiti, rischiavano di essere messi tragicamente in discussione.
Ma certo nessuno in quegli anni mentre la Prima Repubblica era in procinto di dissolversi in Tangentopoli poteva immaginare che nel 2009, il nostro oggi, ci saremmo ridotti così.
Siamo diventati un paese sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite e di Amnesty International. Siamo stati già condannati più di una volta per violazione dei diritti umani. Abbiamo visto approvare un «pacchetto sicurezza» che trasforma una condizione quella di immigrato irregolare in un crimine. Siamo diventati il feroce posto di guardia della «Fortezza Europa». Respingiamo boat people carichi di uomini donne e bambini in un paese, la Libia, che non ha mai aderito alle fondamentali convenzioni internazionali umanitarie, a partire da quella di Ginevra sui rifugiati politici.
L’elenco delle nostre infamie nazionali è lunghissimo. Questi dieci giorni non basteranno certo a completarlo. Ma, forse, basteranno per preparare un atto di protesta che potrebbe aiutare a interromperlo. ❖

Notizie on line
Per chi vuole venire a Roma informazioni in rete
Chi volesse avere informazioni sulla manifestazione e contattare il comitato promotore può connettersi al sito www.17ottobreantirazzista.org che ospita notizie relative a quanto si sta facendo nelle singole città e regioni anche per organizzare la trasferta a Roma. Il sito dell’Unità, www.unita.it. seguirà quotidianamente la fase preparatoria.

l’Unità 7.10.09
Fate la scienza non fate la guerra
Il 20 novembre debutterà a Milano «Science for Peace», movimento di scienziati e intellettuali per promuovere il disarmo e la cultura della pace
di Massimo Solani


Venti premi Nobel. Hanno già aderito Dulbecco, il Dalai Lama e la Levi Montalcini
Veronesi presidente. L’organizzazione sarà guidata dall’ex ministro della Sanità

C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?» scriveva Albert Einstein in una lettera inviata a Sigmund Freud il 30 luglio 1932. «Penso soprattutto – proseguiva Einstein al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità».
Se un modo c’è, forse la via migliore per trovarlo è quella indicata dalla Fondazione Umberto Veronesi attraverso Science For Peace, il movimento annunciato lo scorso febbraio e creato per cercare soluzioni scientifiche e concrete contro la guerra attraverso la diffusione della cultura della pace e la mobilitazione per la riduzione delle spese militari e il disarmo nucleare. Un impegno che, per la prima volta, vedrà riuniti a Milano (il 20 e il 21 novembre prossimi) tutti coloro che hanno aderito al movimento e che, per dirla con Umberto Veronesi, «condividono la necessità di vivere in pace per favorire lo sviluppo dell’uomo». «Ho voluto dar vita al movimento internazionale Science for peace insieme a oltre 20 premi Nobel (fra loro anche il Dalai Lama, Renato Dulbecco, Rita-Levi Montalcini e Luc Montagnier, ndr) e a molte figure rilevanti della cultura mondiale – spiega Veronesi -. In quanto scienziati pensiamo che il tema della pace debba urgentemente essere riportato al centro del dibattito civile; vogliamo creare una cultura di tolleranza e di nonviolenza; chiediamo a tutte le Nazioni la progressiva riduzione degli armamenti per destinare parte degli investimenti ai bisogni più urgenti della gente: nuovi ospedali, asili, scuole, e la ricerca scientifica».
Parole che suonano come rivoluzionarie in un Paese che, dati del 2007, investe nelle spese per gli armamenti l’1,8% del Pil contro l’1,14% destinato alla Ricerca e allo Sviluppo. «Gli Stati Uniti nel 2007 hanno speso per l’esercito 547 miliardi di dollari, e l’Italia ne ha spesi 33 – prosegue Umberto Veronesi, che di Science for Peace è anche presidente Per la ricerca contro il cancro, che causa 150.000 morti ogni anno, il nostro Paese spende ogni anno l’equivalente di circa 225 milioni di dollari». Assurdità economiche contro cui ha puntato il dito anche il presidente Usa Barack Obama quando, parlando della sua riforma sanitaria, ha spiegato che serviranno 900 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi 10 anni. «È meno di quello che sono costate le guerre in Afghanistan e Iraq», ha precisato. E sono posizioni come questa che danno fiducia oggi a tutti coloro che vogliono disegnare una via per la pace mondiale che passi attraverso la scienza, la medicina e il progresso sociale. «Troppo spesso – spiega infatti Emma Bonino, vicepresidente del Senato e membro del comitato onorario del movimento la politica ha agito in ritardo. Science for Peace nasce per spingere i governi a trovare soluzioni nonviolente ai conflitti. Perché non si tratta di negarli, ma di capire come è possibile superarli in maniera nonviolenta».
Vicepresidente di Science for Peace è Kathleen Kennedy, figlia di Robert Kennedy. «C’è ancora molto spazio per la speranza – dice presentando la Conferenza Mondiale di Milano Barack Obama ha mostrato al mondo che l’America può cambiare, che possiamo superare un passato fatto anche di schiavitù e linciaggi per eleggere un afro-americano che vuole ridurre il numero delle armi nucleari». E ancora una volta sono i dati a dare l’idea del cambiamento culturale necessario ad un mondo in cui si spendono 100 milioni di dollari per un caccia F-35 quando bastano 10 dollari per un trattamento antitubercolosi, 175 all’anno per fornire ad un malato adulto i farmaci necessari contro l’Aids (215 se si tratta di un bambino) o 360 per curare una mamma sieropositiva per un anno intero. ❖

L’alternativa. Meglio 3000 asili nido o 131 cacciabombardieri?
Secondo le previsioni del programma intergovernativo l’Italia dovrebbe acquistare 131 cacciabombardieri F-35 al costo complessivo di circa 15 miliardi di euro. Con gli stessi soldi si potrebbero costruire 3.000 asili nido (1 miliardo di euro, beneficiando 90.000 bambini e 50.000 famiglie. Posti di lavoro creati: 20.000); mettere in sicurezza 1.000 scuole (3 mld, beneficiari 380.000 studenti. Posti di lavoro: 15.000); installare 10 milioni di pannelli solari (8,5 mld di euro con beneficiarie 300.000 famiglie. Posti di lavoro: 80.000); dare una indennità di disoccupazione di 700 euro per 6 mesi ai precari con reddito inferiore ai 20.000 euro (2,5 mld, beneficiarie 800.000 persone). O, in alternativa all’ultima, si può ristrutturare il centro storico dell’Aquila (5.000 case inagibili) l’ospedale e la Casa dello Studente (2,5 miliardi di euro con beneficiarie 30.000 persone. Posti di lavoro: 2.000).

Repubblica 7.10.09
La Lega: legge anti burqa, in cella chi lo porta
Sì di Bonino. Il Pd: "Incostituzionale"
di Vladimiro Polchi


Proposta del Carroccio: "Motivi di sicurezza"
Le pene previste: carcere fino a due anni e multe da duemila euro Scontro fra i Poli

ROMA - Arresto in flagranza, reclusione fino a 2 anni e multa fino a 2mila euro. La Lega Nord va alla guerra del burqa e presenta una proposta di legge per punire chi «in ragione della propria affiliazione religiosa» indossa in pubblico indumenti che rendono «impossibile o difficoltoso il riconoscimento».
Il testo, depositato il 2 ottobre, modifica in soli due articoli la legge del 1975 in materia di tutela dell´ordine pubblico, che già prevede il divieto di utilizzare «senza un giustificato motivo» caschi o qualsiasi altro indumento che impedisca il riconoscimento della persona. La Lega, come ha spiegato il capogruppo Roberto Cota, propone ora di togliere il riferimento al «giustificato motivo», che sarebbe fonte di contenziosi tra sindaci e prefetti e di inserire tra i divieti anche «gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa». Il testo di fatto chiede di vietare l´uso di burqa e niqab (il velo che lascia scoperti solo gli occhi), ma senza menzionarli esplicitamente come invece fa la proposta a firma Souad Sbai (Pdl) già all´esame della commissione Affari costituzionali di Montecitorio.
Per l´opposizione, Pd in testa, si tratta di un´ipotesi illegittima, che rischia di condannare molte donne di religione musulmana alla segregazione in casa. «È una norma incostituzionale - attacca la capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti - che lede la libertà religiosa. Ma come può una legge parlare di affiliazione religiosa? Le suore sarebbero affiliate?» Simile il rilievo che solleva Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente dell´associazione Intellettuali Musulmani Italiani: «Per vietare il burqa e il niqab in Italia non troviamo opportuno fare riferimento a una presunta affiliazione religiosa islamica. La copertura del volto - aggiunge - non fa parte della religione islamica, come chiaramente dichiarato anche da Mohammed Said Tantawi, grande imam dell´università egiziana Al Azhar. In realtà basterebbe far rispettare la normativa di sicurezza già vigente in Italia fino al 1975, la quale impedisce di coprirsi in pubblico il volto».
Ma non manca chi, anche nell´opposizione, sottolinea che il problema esiste. «È da tempo immemore - sostiene la radicale Emma Bonino - che ritengo che indossare il burqa o il niqab integrale in pubblico violi le leggi dello Stato e il concetto della piena assunzione della responsabilità individuale». E ancora: «La proposta di legge della Lega - dice l´europarlamentare del Pd, Debora Serracchiani - usa strumentalmente l´argomento dell´ordine pubblico e si colloca sullo stesso piano delle fiaccolate contro le moschee e i cimiteri islamici, ma tocca un problema vero».
Di velo si interessa anche un disegno di legge presentato dall´opposizione: sì al burqa, ma a condizione che il volto sia riconoscibile, altrimenti si rischia l´arresto da 3 a 6 mesi e un´ammenda da 300 a 600 euro. Il testo è in commissione Affari costituzionali del Senato, presentato dal Pd (prima firmataria Emanuela Baio) e co-firmato da altri 11 senatori dello stesso gruppo. In sostanza, l´articolo unico di cui è composto prevede il divieto di usare «in luogo pubblico qualunque mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona senza giustificato motivo».

Corriere della Sera 7.10.09
La ricerca Secondo lo studio coordinato da Pittau e Trasatti in molti casi le violazioni riguardano le leggi sull’ingresso nel Paese
Se la criminalità straniera supera di poco quella italiana
La Caritas: novantotto regolari su cento rigano dritto
di Gian Antonio Stella


L’aumento delle denunce. Negli ultimi cinque anni è vero che «le denunce riguardanti gli stranieri sono aumentate del 45,9%», però «a fronte di un aumento del 100% della popolazione regolarmente residente» Il tasso di criminalità
«Avrebbero a che fare con la giustizia dopo denunce penali 1 ogni 133 italiani e 1 ogni 71/81 stranieri. Siamo lontani da un tasso di criminalità del 6% (1 denuncia ogni 16 immigrati)»

C’è chi dirà: i soliti cattolici buoni­sti! Ma possono i numeri essere «buo­nisti »? Un dossier della Caritas rispon­de di no: i numeri sono numeri. E que­sti numeri affermano che certo, esiste una netta e allarmante sproporzione tra gli immigrati in Italia e la percentua­le dei reati che commettono. Ma è infe­riore a quanto teorizza chi cavalca le pa­ure. E soprattutto non riguarda assolu­tamente i regolari. Basti un dato: ogni 100 stranieri in regola 98 rigano dirit­to.
Il punto di partenza, ovvio, non può che essere quanto scrive nel suo «Im­migrazione e sicurezza in Italia» (Muli­no) il professor Marzio Barbagli: «I da­ti di cui disponiamo non lasciano dub­bi sul fatto che gli stranieri presenti nel nostro paese commettono una quantità di reati sproporzionata al loro numero. Dall'1,4% della popolazione italiana nel 1990, essi sono passati al 5% nel 2007. Ma (...) nel 2007 essi costi­tuivano, a seconda dei reati, dal 25 al 68% dei denunciati. Altrettanto certo è che a commettere questi reati sono so­prattutto coloro che non hanno il per­messo di soggiorno». Per anni, ha spie­gato Barbagli mesi fa al Corriere , era lui stesso riluttante ad ammetterlo: «C’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i da­ti sull’incidenza dell’immigrazione ri­spetto alla criminalità. Ero condiziona­to dalle mie posizioni di uomo di sini­stra. E quando finalmente ho comincia­to a prendere atto della realtà e a scrive­re che l'ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tol­to il saluto».
Partiamo da qui: i dati sono dati. Ma se c'è una sproporzione tra stranieri e reati, spiega lo studio intitolato «La cri­minalità degli immigrati: dati, interpre­tazioni e pregiudizi» curato dalle équi­pe del Dossier Statistico Immigrazione Caritas / Migrantes e coordinato da Franco Pittau e Stefano Trasatti, c'è an­che una sproporzione nella denuncia dell'allarme. Che non va sottovalutato, ci mancherebbe. Ma neppure gonfiato in modo abnorme.
Per cominciare, prendiamo la tabel­la Eurostat col rapporto tra denunce pe­nali e popolazione. È una tabella da prendere con le pinze, perché è possibi­le che la fiducia nella giustizia sia qua e là così diversa che a Oslo il furto di una bicicletta venga denunciato e a Napoli no. Ma le cifre sono comunque indicati­ve. E dicono che l'Italia, con 4,6 denun­ce ogni cento abitanti, sta addirittura al di sotto della media (6 ogni cento) e nettamente meglio di paesi come il Re­gno Unito o la Svezia. Di più: ha propor­zionalmente meno omicidi di altri 16 stati e Roma, sotto questo profilo, è tra le cinque capitali più sicure del conti­nente. Lo stesso, stando a uno studio Istat diffuso dopo il brutale omicidio di Giovanna Reggiani, che gelò il san­gue agli italiani, vale per gli stupri. Che sono troppi e intollerabili ma comun­que molti meno che in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna...
Veniamo al punto. Scartate le denun­ce contro ignoti (impossibile distingue­re italiani e stranieri), il dossier Caritas spiega che negli ultimi cinque anni è vero che «le denunce riguardanti gli stranieri sono aumentate del 45,9%», però «a fronte di un aumento del 100% della popolazione regolarmente resi­dente ». Di più: «Le denunce si riferisco­no anche agli stranieri presenti regolar­mente e non ancora registrati in ana­grafe (diverse centinaia di migliaia) e a quelli presenti in maniera irregolare (un numero consistente ma difficile da stimare, anche se attualmente si parla di circa 1 milione di persone): ciò con­sente di affermare che non sussiste un collegamento diretto e automatico tra aumento della popolazione e aumento della criminalità».
Del resto, ricorda la Caritas, «la tesi di una corrispondenza diretta tra consi­stenza numerica degli immigrati e rea­ti da loro commessi viene rigettata in una ricerca del 2008 della Banca d'Ita­lia » dove è scritto che «nel periodo 1990-2003 il numero dei permessi di soggiorno si è quintuplicato, mentre la criminalità ha mostrato una lieve fles­sione e si conclude che 'in linea teori­ca non c'è stato un aumento diretto del­la criminalità in seguito alle ondate di immigrazione in nessuno dei reati pre­si in considerazione (reati contro la persona, contro il patrimonio e traffico di droga)'».
I reati commessi dagli stranieri, dice lo studio si possono dividere in quat­tro gruppi: per il 35% sono reati contro il patrimonio (furti e così via), per qua­si il 13% contro la persona (aggressio­ni, stupri, lesioni...), per poco meno del 22% contro le regole economiche (commercio senza licenza, spaccio di dvd e cd pirata...) e per oltre il 30% con­tro l'ordine pubblico e le regole dello Stato in materia di identità personale, passaporto, residenza, permesso di soggiorno, favoreggiamento dell’immi­grazione clandestina e così via. Cioè re­ati legati all'immigrazione irregolare. Tolti i quali, spiega la Caritas, i tassi di criminalità «vera», delinquenziale, si abbasserebbero nettamente.
È vero, riflette lo studio coordinato da Pittau, «a destare maggiore allarme nell'opinione pubblica è l'incidenza de­gli stranieri sui cosiddetti reati predato­ri (scippi, furti di autovetture, rapine in pubblica via, rapine o furti in abita­zione, per i quali un terzo o più del tota­le degli addebiti va loro riferito), nel commercio della droga e nei reati vio­lenti, gravi come gli omicidi e odiosi come gli stupri». Ma va anche ricorda­to che, ad esempio, sono stranieri solo il 6% dei banditi che assaltano le poste e addirittura il 3% di quelli che attacca­no le banche. Per non dire dei reati più gravi, quali l'associazione mafia, 'ndrangheta, camorra che, come ricor­dava mesi fa Claudio Magris, sono la vera piaga di questo paese anche se «non scuotono veramente l'opinione pubblica» e «non destano — diversa­mente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini».
La parte più interessante della ricer­ca, però, è alla fine. Dove si dimostra che lo straniero inserito riga diritto molto di più di quanto si immagini. Per capirci: a seconda di come si calco­lano i regolari, «avrebbero a che fare con la giustizia a seguito di denunce pe­nali contro noti, 1 ogni 133 italiani e 1 ogni 71/81 stranieri. Fin qui il coinvol­gimento degli immigrati sarebbe più elevato rispetto agli italiani (quasi il doppio), comunque ben lontano da un tasso di criminalità del 6% (1 denuncia ogni 16 immigrati) da altri ipotizzato». Non basta ancora: poiché sono stati­sticamente più portati a violare la leg­ge quelli che vanno dai 20 ai 44 anni, mettendo a confronto le fasce parago­nabili il divario tra italiani e immigrati regolari si fa ancora più sottile. Quan­do a quelli sopra i 45 anni, il rapporto si rovescia: sono più rispettosi della legge gli altri di noi. Prova provata che, ferma restando la durezza necessaria con i delinquenti, occorre distinguere, distinguere, distinguere. E magari, da parte degli italiani, dare il buon esem­pio. Stando a una ricerca che sarà pre­sentata a dicembre ed è stata condotta per la Fondazione Ismu da Andrea Di Nicola, un criminologo dell'Università di Trento, tra le cause principali che in­cidono sui livelli di delinquenza degli immigrati c'è l'irregolarità di manodo­pera straniera di basso livello. Per ca­pirci: più c'è lavoro nero, più cresce il tasso di criminalità. Difficile dettare re­gole, dal pulpito sbagliato...

il Riformista 7.10.09
«Razionalizzare la fede» La vera posta in gioco
Al Sinodo sull'Africa un mini concilio
di Benedetto Ippolito


Nel continente in trent'anni i cristiani sono passati da 55 a 146 milioni. Dal 1994 al 2008 sono stati uccisi 521 missionari. I 244 padri sinodali, i 29 esperti e i 49 uditori si interrogheranno soprattutto su cultura, famiglia e infanzia. Spiega padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, che la novità emersa dopo la decolonizzazione è che non esiste un'ostilità della cultura popolare al cristianesimo, anzi. La sfida, come dice il Papa, è liberare l'istintiva religiosità naturale dall'irrazionalità.

Si è aperta, all'inizio di questa settimana, la seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi per l'Africa. Si tratta di un evento eccezionale nella vita della Chiesa che durerà per quasi tutto il mese di ottobre. L'assise terminerà il giorno 25, dopo ben tre settimane intense di lavori. L'arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, qualche giorno fa ha spiegato, in un briefing tenuto presso la Santa Sede, che all'origine di questo secondo storico appuntamento ecclesiale vi è la rilevante espansione che la fede cristiana sta avendo, recentemente e con intensità, in tutto il continente. «Malgrado più di 521 missionari siano stati uccisi solo dal 1994 al 2008 - ha osservato il prelato - il processo di evangelizzazione è stato assolutamente straordinario, triplicando il numero dei cristiani, in poco più di trent'anni, dai 55 milioni del 1978 ai 146 milioni del 2007». Al centro degli obiettivi vi è, quindi, un'analisi e un confronto delle diverse dinamiche di questa vigorosa evangelizzazione, in paragone a quanto accade nel resto del mondo. I partecipanti sono 244 padri sinodali, quasi tutti vescovi, di cui ben 197 sono provenienti direttamente dall'Africa, mentre 47 da altri continenti. A essi si sono aggiunti, poi, 29 esperti e 49 uditori, tra uomini e donne, che assisteranno all'intero dibattito.
Si tratta di un mini concilio, il cui significato è stato spiegato con grande efficacia da Benedetto XVI domenica scorsa, durante la Messa di apertura dell'Assemblea. Il Papa ha rimarcato il peculiare ruolo di «polmone spirituale» che l'Africa rappresenta «per un'umanità in crisi di fede e di speranza». La forza straordinaria della mentalità africana è di essere, con la sua prorompente spiritualità popolare, una costante provocazione per il materialismo pratico occidentale, sopraffatto da un pensiero relativista, edonista e nichilista.
Le linee programmatiche dei lavori, tracciate dal Pontefice, sono state riprese lunedì scorso, nell'aula del Sinodo, dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della congregazione del Culto divino. Egli ha ricordato le profonde novità presenti nell'ordine del giorno dell'attuale assemblea rispetto alla precedente, svoltasi nel 1994 sotto la guida di Giovanni Paolo II. Non solo, in effetti, il ruolo della Chiesa è profondamente cambiato in questo lasso di tempo, ma l'Africa stessa costituisce oggi una chiave di volta per lo sviluppo di tutto il mondo globalizzato, non solo a causa dei suoi drammi, ma anche e soprattutto per le sue immense potenzialità umane.
L'assemblea concentrerà i suoi sforzi principalmente sui tre principali aspetti dello sviluppo dell'Africa: la cultura, la famiglia e l'infanzia.
Padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, ha chiarito che «queste tre aspettative della società africana sono affiorate massimamente dopo la fine della colonizzazione, quando cioè i diversi popoli africani hanno conquistato una loro lenta e progressiva autonomia dall'Occidente». La grande novità è stata la scoperta, fatta soprattutto dai religiosi e i missionari, che non esisteva una reale opposizione della cultura popolare al cristianesimo. Men che meno, ostilità. La popolazione africana, con la propria affascinante semplicità, possiede, infatti, un'istintiva «fede in Dio creatore», che rivela una diffusissima e sbalorditiva anima religiosa di base.
D'altra parte, il risveglio della spiritualità è un fenomeno umano e sociale che si palesa di continuo un po' ovunque a sud del Mediterraneo. In Senegal, ad esempio, «la Chiesa nazionale, che per decenni è stata teatro di missioni, è divenuta ormai da anni a sua volta missionaria, capace cioè di dare quanto ha ricevuto agli altri, espandendo la fede cristiana altrove, sia per mezzo delle tante vocazioni sacerdotali e sia mediante l'emigrazione delle persone dappertutto».
Si è consolidata una forma di «fede popolare istintiva», la quale purtroppo non riesce sempre a liberarsi con facilità dall'irrazionalità delle credenze superstiziose e delle ritualità magiche. Di qui lo sforzo, più volte ricordato da Benedetto XVI, di un efficace e perseverante impegno per «razionalizzare la fede», cercando di far emergere una riflessività culturale molto spesso sommersa e sopita dalla mancanza di istruzione e formazione.
Particolarmente indicativa, in questo senso, è la situazione del Ghana. Un collaboratore di padre Cenci, nativo dello Stato centrafricano, ha illustrato la particolare importanza che ha la famiglia monogamica per la stabilità della società. La maggior parte della comunità nazionale ha trovato nella famiglia di Nazaret un modello etico ideale, benché i cristiani non superino il 7 per cento della popolazione. Anche i musulmani, per ragioni culturali, privilegiano quasi esclusivamente relazioni esclusive uomo-donna, tendendo a non separarsi e a non risposarsi, benché possano farlo. Questa stabilità sentimentale ha garantito così una facile diffusione del cristianesimo, che è percepito come una sorta di morale naturale, ancorata al buon senso e alla pratica ordinaria delle virtù.
Un grande problema al centro degli interessi dei vescovi africani è, però, certamente la corruzione politica. Un Paese come il Congo, ad esempio, pur avendo una situazione sociale di partenza analoga alla precedente, è dissanguato da una politica antidemocratica, fortemente influenzata da interessi economici occidentali. Il conflitto dell'Ituri, ancora in corso e nato a seguito della guerra civile, ha prodotto un tragico genocidio negli anni dal 1999 al 2007, con lotte tribali fomentate dagli interessi economici delle grandi multinazionali, di cui il Governo locale si è reso complice ed esecutore militare.
Uno degli obiettivi capitali che si propone questa assemblea straordinaria, prima ancora dell'emergenza educativa e del consolidamento democratico, è l'emergenza della fame e delle epidemie. Nel primo caso, la maggioranza dei Paesi africani non può godere dell'uso di strumenti tecnologici adeguati, finendo per non consumare se non in rari casi e non vedere quasi mai distribuite tra i cittadini neanche le risorse alimentari necessarie alla sopravvivenza dei bambini. Nel secondo caso, la cura delle malattie mortali manca completamente di risorse indispensabili per fronteggiarne l'espansione. In questo frangente, le ricette occidentali, incluso l'invio di profilattici, mostrano tutta la loro debolezza e miopia. Non soltanto affezioni banali come la malaria seminano molti più morti dell'Aids, ma la vera soluzione al flagello è costituita dal rafforzamento della morale familiare, sentita da tutti come una risorsa indispensabile per la sopravvivenza. Non a caso, le parole del Papa contro l'uso dei profilattici, durante il suo recente viaggio in Africa, hanno trovato approvazione unanime dell'opinione pubblica africana, compresi i capi musulmani; mentre hanno avuto una disapprovazione da parte del Belgio, che è tra i massimi produttori di anticoncezionali nel mondo.
Una convinzione ultima, in definitiva, è particolarmente popolare nel continente, ossia che la «Chiesa vuole il bene dell'Africa». Se non altro per ciò, più di un miliardo di persone dimenticate da tutti guarderanno con speranza a questo importante ottobre ecclesiale romano che li farà essere protagonisti del mondo, almeno per una volta.

il Riformista 7.10.09
Libertà di stampa. Una battaglia che dimentica le donne
di Ritanna Armeni


Non credo nella lotta per la libera informazione che prescinda da come viene trattata l'immagine femminile

Ho cercato invano fra le decine e decine di articoli sulla libertà di stampa una parola che riguardasse le donne. Ho cercato fra i volti e gli slogan della manifestazione di sabato qualcosa che ricordasse la impossibilità di costruire una stampa libera se essa esclude la presenza femminile. Ho sperato che qualcuno protestasse contro lo scempio del corpo delle donne a cui negli ultimi tempi i giornali e i canali televisivi hanno dedicato con dovizia di particolari un'attenzione pruriginosa. Ho pensato - sbagliando - che fra i tanti numeri che venivano portati a sostegno della tesi sui pericoli che oggi corre la libera informazione ci fossero anche quelli riguardanti le donne giornaliste, la loro collocazione, il loro ruolo.
Non ho trovato nulla di tutto questo e allora mi sono domandata: la battaglia per la libertà di stampa, la lotta politica perché essa esista effettivamente, e non solo all'interno di una pur legittima campagna antigovernativa, può prescindere da una riflessione e da un conflitto per una diversa presenza delle donne nel mondo dell'informazione? Un dubbio e una domanda simile l'ho trovata solo in un articolo di Letizia Paolozzi che nota sul sito Donnealtri come in nome di «un antiberlusconismo primario» «questa libertà di stampa non sembra avere grande interesse per il sesso femminile».
Per quanto mi riguarda dichiaro subito di non credere in alcuna battaglia per la libera informazione che prescinda dal modo in cui viene trattata l'immagine femminile e dalla presenza e dalla collocazione della giornaliste nella carta stampata e nella tv pubblica e commerciale.
Le due cose sono strettamente intrecciate. Una maggiore e più qualificata presenza femminile avrebbe maggiori possibilità (niente è automatico) di impedire lo scempio che viene fatto oggi dell'immagine delle donne. Una battaglia vera su come tv e giornali presentano "il secondo sesso" agevolerebbe una presenza femminile diversa da quella presente nelle televisioni che segue spesso (ovviamente non sempre) gli stereotipi patinati della giovinezza, bellezza e della malizia, insomma della "donna dello spettacolo", che poco ha a che fare col giornalismo.
Oggi alla Rai su un numero di direttori e vicedirettori di rete e di testata che si avvicina a cinquanta le donne sono solo tre: Maria Pia Ammirati, Susanna Petruni e Bianca Berlinguer. Possibile che fra le decine di giornaliste del servizio pubblico non ci sia nessun altra che possa coprire un ruolo dirigente? Oppure dobbiamo ammettere che siamo di fronte a una limitazione, a un veto non detto, a una misoginia tanto profonda quanto inconfessata che limita la libertà delle donne e di cui la battaglia per la libertà di stampa non si fa assolutamente carico?
Ed è possibile che un grande quotidiano, quello che è stato in prima fila nella battaglia per la libertà, la Repubblica, non si renda conto che non solo nel gruppo dirigente del quotidiano, ma fra i commentatori e gli editorialisti la presenza femminile è così esigua che - pure di grande qualità - scompare nel grande mare dei commenti e degli editoriali maschili. Così come non se ne rende conto l'altro grande giornale della borghesia italiana il Corriere della sera il cui decoro terzista e moderato rimane implacabilmente in mano agli uomini.
Ma non serve un lungo elenco. Non serve denunciare i dati dei canali Mediaset o degli altri quotidiani nazionali e locali. Dovunque si osservi e si indaghi nei giornali e nelle tv la libertà di stampa ha questo limite invalicabile e profondo di cui gli stessi protagonisti della battaglia per la libera informazione non si rendono conto, anzi ignorano e, spesso, lo fanno con sufficienza e prosopopea.
Così come tutti - anche in questo caso le poche eccezioni confermano la regola - danno la stessa rappresentazione delle donne. Anche coloro che si ergono a difensori della morale, della cultura, della realtà sociale contro i miti e le illusioni indotti dal berlusconismo non si sottraggono agli stereotipi, non usano uno sguardo diverso nei confronti delle donne. Nei giornali di questi mesi immersi, negli scandali del premier abbiamo trovato lo stesso compiacimento nella descrizione dei corpi delle veline, negli aggettivi usati per le escort e anche nella implicita contrapposizione a donne virtuose, madri di famiglie, ragazze studiose e per bene. Linguaggi impudichi, descrizioni compiacenti, il corpo femminile privato di dignità dalle note vicende del premier, tale è rimasto nella mancanza di rispetto con cui è stato osservato e trattato dai difensori della libertà di stampa. Si poteva fare diversamente? Sì si poteva. Ma ci sarebbe voluto un coraggio e un interesse femminile e partecipato per capire e raccontare il mondo di quelle giovani ragazze definite veline che cercano un'affermazione e un lavoro. Per indagare su quelle donne che non si chiamano più prostitute, ma escort. E sul rapporto fra queste figure femminili e un mondo maschile non solo berlusconiano, nello stesso tempo forte prepotente, ma dipendente da una sessualità incapace di prescindere dal potere. Sì, si poteva, ma nessuno si è posto il problema. E la battaglia per la libertà di stampa oggi si presenta monca, privata almeno della metà della sua efficacia. E francamente molto meno credibile.

Liberazione 6.10.09
Grecia, una vittoria di tutta la sinistra
di Fabio Amato


Meno di un anno fa la Grecia ed Atene erano state sconvolte dalle mobilitazioni giovanili seguite all'uccisione, da parte della polizia, di un giovanissimo quindicenne, Alexis. Una vera e propria rivolta che aveva svelato un malessere profondo, non solo generazionale, quanto sociale della società greca. Era stata definita la generazione dei 700 euro. Un anno dopo il premier Karamanlis, che era stato uno dei bersagli della rivolta, esce travolto dalle elezioni, seguite agli scandali per corruzione e alla crisi economica. Il leader del partito conservatore Nuova Democrazia, aveva deciso di convocare elezioni anticipate solo un mese fa. Elezioni che hanno sancito in modo inequivocabile la sua sconfitta e la vittoria del terzo primo ministro della dinastia Papandreu, Giorgos il giovane, che con il 44 percento raggiunto dal suo Pasok, il movimento panellenico socialista, si assicura un'ampia maggioranza per il governo del paese nei prossimi quattro anni.
Lo scontro elettorale non è stato tutto qui. Il crollo di Nuova democrazia, ai suoi minimi storici, ha aperto le porte alla vittoria socialista, ma ha anche ingrossato in parte il partito di estrema destra, e visto una sostanziale tenuta delle formazioni politiche a sinistra del Pasok, Il Partito comunista (KKE) e la coalizione della sinistra radicale (Syriza), che mantengono, calando solo di un seggio ciascuna, le loro posizioni. Il KKE raccoglie il 7,5% ed elegge 21 deputati, mentre Syriza, coalizione della sinistra radicale guidata dal Synanspismos, 13 deputati con il 4,6%. Non era scontato. Su entrambi ha pesato il richiamo al voto utile, per dare ai socialisti una maggioranza assoluta. Il Pasok in questi mesi ha saputo attrarre su di se il malcontento popolare nei confronti del governo di Nuova democrazia, cercando di ricostruirsi un'immagine di sinistra, attenta alle questioni sociali, ed un profilo etico, cavalcando gli scandali che hanno travolto i suoi avversari di centrodestra. Soprattutto ha puntato sulla necessità di avere il voto per potersi garantire la maggioranza assoluta. Obiettivo sicuramente raggiunto, ma senza pesare sulla sinistra. Per queste ragioni è di particolare importanza politica il risultato del Synaspismos. In molti, infatti, e non solo da destra, hanno cercato di accreditare l'idea che Syriza, la coalizione di sinistra radicale, fosse a rischio quorum (3 %). Tutti i maggiori media hanno avvallato durante la campagna elettorale e in modo insistente questa tesi e allo stesso tempo sostenuto i verdi, che invece non riescono a superare il quorum e rimangono fuori dal parlamento, raccogliendo il 2,6 dei voti. Ha quindi molta ragione per dichiararsi soddisfatto il giovane Presidente del Synanspismos, Alexis Tsipras, che a caldo commenta così il risultato della sinistra radicale: «E' stato un piccolo successo ma molto importante per SYRIZA, in quanto molte forze avrebbero voluto cacciarci dal sistema politico greco. Questa è stata una risposta dal popolo, specialmente da parte delle giovani generazioni, dei lavoratori e dei disoccupati, di tutti coloro che sono senza voce».
Il KKE, attraverso la sua segretaria Aleka Papariga, definisce i risultati elettorali come non corrispondenti a quanto cresciuto nella società greca in termini di coscienza e lotte sociali contro le politiche della destra. Cambia il governo ma non le politiche, e prevede che comunque il prossimo governo abbatterà sulle spalle di lavoratori e giovani una miriade di provvedimenti antipopolari. In effetti non saranno proprio facili i prossimi mesi e anni di governo per il Pasok. Indebitamento, corruzione, disoccupazione alle stelle e salari in picchiata. In passato, il Pasok era stato interprete in patria della terza via della socialdemocrazia europea. Vedremo se alla svolta parziale a sinistra dei socialisti greci corrisponderanno atti reali o se sarà il liberismo temperato a riproporsi, sotto nuove vesti, all'ombra dell'acropoli.

Liberazione 6.10.09
Credere o no è un diritto di tutti. Lo spiegano in "Uscire dal gregge" Raffaele Carcano e Adele Orioli
Sbattezziamoci, in un libro tutte le istruzioni per l'uso
di Daniele Barbieri


«Carneade, chi era costui?» è una delle frasi più famose della letteratura italiana. Il convertito Manzoni non ci spiega come mai don Abbondio stia pensando a questo filosofo scettico messo al bando perché "turbava" i giovani. Accadde nel 155 ev, ovvero dell'era volgare. Adottare questa datazione invece che dC (dopo Cristo) rappresenta una scelta insolita, almeno nell'Italia dei papi e dei baciapile. E' la scelta di Raffaele Carcano e Adele Orioli che accennano a Carneade e ad altri perseguitati per motivi religiosi nei primi secoli dell'ev quasi all'inizio del libro che reca il neutro sotto-titolo Storie di conversioni, battesimi, apostasie e sbattezzi ma ostenta un ben più polemico e azzeccato titolo: Uscire dal gregge (Luca Sossella editore, pp. 320 pagine, euro 14,00).
L'introduzione si apre con una domanda interessante: «dove avete trovato questo libro?». Perché «la sorte dei libri che presentano punti di vista non religiosi» è bizzarra e catalogarli risulta scomodo anche per i bibliotecari. Non è certo un pamphlet religioso, piuttosto un appassionante saggio storico capace anche (o soprattutto) di una riflessione politica sull'oggi.
Il primo passaggio concettuale di Uscire dal gregge è spiegare come la religione di un popolo sia scelta dal re (da chi comanda insomma). Accade anche oggi. Ci sono piccole eccezioni ma spesso solo apparenti: per esempio negli Usa vi è chi muta religione (all'interno del cristianesimo) perché si sposta da uno Stato a maggioranza cattolica a uno protestante,
appunto adeguandosi al "re" di turno.
Chiarito che il diritto (per chi lo desidera) a credere non è in discussione ma che dovrebbe essere garantita a ognuno la libera scelta (di non entrare, di uscire, di cercarsi un altro gregge, di non averne alcuno) Carcano e Orioli raccontano - con precisione sempre unita a una piacevole scrittura - come iniziano e dove portano le imposizioni religiose. I primi libri finiti al rogo pare siano quelli di Anassagora del 432 aC (o meglio aev). Da perseguitati i cristiani diventano padroni e poi persecutori con Costantino che combina «l'intolleranza politica e quella religiosa». In base a una sola citazione (oltretutto quasi nascosta nei Vangeli) sul «dare a dio… e a Cesare» si costruisce un'alleanza di ferro: il primo a identificare la Chiesa con dio e Cesare tout court con lo Stato è Osio di Cordova, già consigliere di Costantino, nel 356.
Saltando avanti e indietro nel tempo Uscire dal gregge racconta come nascono il pedo-battesimo, il Limbo (oggi quasi negletto) e il Purgatorio, cosa c'è dietro ai nomi; ma anche i continui dietro-front della Chiesa di Roma. «La fede come tale è sempre identica» sostiene Ratzinger: nulla di più falso. Agostino per esempio muta nel profondo il cristianesimo. L'ascesa al trono di Teodosio (nel 379) imprime alla storia un'impressionante svolta verso la repressione religiosa o meglio di chiunque non sia allineato con il papato. Sempre più il battesimo è imposto ai neonati (prima non era così); si forzano le conversioni; si teorizza che l'uccisione di un non cristiano è un «malicidio», cioè un mezzo per estirpare il male, piuttosto che un omicidio. Inizia la persecuzione di bestemmiatori e omosessuali («mai colpiti da leggi punitive nel mondo classico») che alcuni - come il devoto imperatore Giustiniano - ritengono da mettere a morte. La caccia agli eretici (sotto cui è facile collocare ogni dissenso) prenderà poi la forma dell'Inquisizione: delazioni, torture, roghi, confische dei beni.
Al contrario di quanto detto (proprio in questo 2009 ev) con solennità da Ratzinger, non è il nichilismo-totalitarismo ad avere portato nel ‘900 a disumanizzare gli esseri umani: i roghi ma anche le tecniche orwelliane (dal riscrivere la storia alle confessioni pubbliche e allo spionaggio di massa) vengono proprio dall'Inquisizione. La pretesa partecipazione dei cattolici alla creazione di un'Europa libera e laica non è mai esistita: da un Pio VI che in una enciclica del 1791 scrive «quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi» a un Pio IX che definisce il suffragio universale «una piaga distruttrice dell'ordine sociale», a tanti altri talvolta Pii nei nomi (nei fatti mai pii) purtroppo c'è solo l'imbarazzo della scelta nel raccontare di una Chiesa cattolica sempre dalla parte sbagliata per quel che riguarda i diritti. Il 13 maggio 2007 in Brasile, Ratzinger dichiara che «l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane né fu un'imposizione di una cultura straniera». Montagne di documenti e di morti certificano il contrario. Rispetto alle menzogne offensive dell'ultimo papa qualcuno obietterà che il penultimo…. Differenze vi sono ma attenzione: come notano Carcano e Orioli, in molte occasioni «Giovanni Paolo II chiese perdono a Dio (non alle vittime) per le colpe commesse "dai figli della Chiesa" non dalla Chiesa che non può ammettere di sbagliare perché si ritiene "infallibilmente conservata nella verità"».
Fra le storie più vicine a noi, ma già dimenticate, impressionante è quella dei «concubini di Prato» che, offesi dal vescovo per la decisione di sposarsi solo in Comune, lo denunciano ma alla fine perdono il processo perché i giudici decidono che in quanto battezzati sono «sudditi» della Chiesa. Discutibile ma… ecco il senso dello sbattezzo, cancellarsi dal rito che segna un'appartenenza nella quale molti non credono. Sbattezzarsi era tecnicamente impossibile finché, grazie alla nuova legge sulla privacy, si trova il grimaldello: chiedere la modifica dei dati «sensibili». Nel '99 il garante della privacy ammette: «è giusto che i registri testimonino l'avvenuto mutamento di volontà». Fioccano le richieste di «sbattezzo» e la Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti) mette in difficoltà le parrocchie che nicchiano. Gli ultimi paragrafi di Uscire dal gregge raccontano questa interminabile «partita a scacchi» e spiegano che fare concretamente.
Nel libro c'è molto di più. Si racconta di altri Paesi europei e della vera laicità; si indaga su alcuni significativi deliri statistici italiani sia a livello nazionale che locale (Cagliari, Imola e Rimini in testa); si ricorda un'uscita particolarmente bigotta di Sergio Cofferati; si fotografa il tipico (tanto tipico non è) «incredulo»; si polemizza su certe interpretazioni del multi-culturalisno; si accenna a come gli «apostati» cercano di uscire anche da ebraismo e Islam.
Pur se si schierano con nettezza, Carcano e Orioli non insultano e neppure si lasciano andare a irriverenze. Salvo forse in due citazioni: un macigno dei Pink Floyd ("Sheep" nell'album Animals ) e un'esilarante sonetto di Trilussa dove «la pupa» viene battezzata Anarchia… Certo nell'Italia dei Buttiglione e dei Rutelli qualcuno potrebbe considerare satanesca pure la battutina di Eduardo De Filippo (in Gli esami non finiscono mai ): «Gesù Cristo si fece battezzare a 30 anni: perché tanta fretta per i figli miei?».

Repubblica Palermo 7.10.09
"Torno alla regia con un giallo"
Il film da "È stato il figlio" di Alajmo e il progetto con Celestini
Il "nuovo" Ciprì "La città sarà lo sfondo di questa storia. Con Bellocchio ho fatto anche uno spot"
di Paola Nicita


«Sto pensando a molti progetti, sia per quanto riguarda la regia, che per il ruolo di direttore della fotografia. Due modi diversi di affrontare l´immagine, le storie, il modo di raccontarle».
Daniele Ciprì, ad Agrigento per ritirare il Premio Efebo d´Oro vinto per la miglior fotografia con "Vincere" di Marco Bellocchio, svela alcuni impegni futuri del suo nuovo percorso di "solista", oltrepassando il suo naturale riserbo per quello che ancora non è stato fatto, o è in corso d´opera. Dice Ciprì: «Intanto la regia, un ritorno che sicuramente ha un carico di responsabilità, ma posso immaginare anche di tanta curiosità, visto che le ultime regie erano firmate Ciprì e Maresco. Farò un film tratto dal libro di Roberto Alajmo, "È stato il figlio"; in questo momento, per la verità, sono in una fase preparatoria, nel senso che mi sto occupando della scrittura. Le riprese vere e proprie inizieranno il prossimo anno. D´altronde non ho fretta, voglio prendermi il tempo necessario».
Ciprì, il ritorno dietro la cinepresa rivede un luogo assai conosciuto, per la sua cinepresa: Palermo. A distanza di anni, come la racconterà?
«Si tratterà di un film giallo, le cui vicende si svolgono per l´appunto in città, a Palermo. Come la racconterò? Farà da sfondo, è chiaro. Comunque non mi sembra che la città sia stata tanto protagonista, nel mio passato».
Se si pensa a certe immagini di "Cinico Tv" è uno sfondo, è vero, ma certo molto forte. Impossibile non ricordare certi scorci di periferia o centro storico...
«Sì, in questo senso è vero. Ma in realtà a Ciprì e Maresco forse piacevano di più i film di genere, dalla fantascienza all´horror. La realtà non ci interessava più di tanto».
Anche se i personaggi che voi coinvolgevate erano molto reali, presi dalla strada, di grande impatto...
« Erano talmente veri da essere surreali. Per questo li facevamo diventare protagonisti. Surreali, oltre la realtà, per l´appunto».
Come direttore della fotografia ha ricevuto tanti prestigiosi riconoscimenti per "Vincere": Efebo, Nastro d´Argento, Globo d´oro, a novembre arriverà un altro premio. Come è stato lavorare con Marco Bellocchio?
«Un esperienza bella e interessante, che mi ha dato tanto. Per me Bellocchio è un maestro, ci siamo intesi subito e posso parlare certo di collaborazione, ma soprattutto di amicizia, dello stesso modo di intendere profondamente le cose, i fatti».
Quindi un sodalizio destinato a proseguire?
«Sì, e ne sono molto contento. Con Marco Bellocchio continueremo senza dubbio a lavorare insieme, ai suoi nuovi film. Intanto abbiamo realizzato una pubblicità per una banca che dalla fine di ottobre verrà diffusa. Questo incontro, e poi l´occasione lavorativa, si è presto trasformata in uno stimolo per andare avanti, per cambiare anche la direzione del mio lavoro. Senza avere paura di cambiare le cose, di apportare modifiche. Una sfida che mi piace, mi appassiona».
Altri impegni da direttore della fotografia?
«Ho un impegno, anche questo sicuramente interessante e che mi appassionerà. E anche questa si tratta di un amico, Ascanio Celestini, che firma la sua prima regia cinematografica».