venerdì 9 ottobre 2009

l’Unità 9.10.09
Mille pullman in giro per l’Italia. A Milano l’appuntamento principale
Rinaldini: «È la più grande manifestazione operaia in Europa»
Contro l’accordo separato la Fiom scende in piazza
di Giuseppe Vespo


Epifani «Non firmerei mai un accordo sulle tute blu senza la Fiom»

Sciopero generale e manifestazioni in cinque piazze d’Italia. Da Milano a Palermo, la Fiom chiama a raccolta i lavoratori contro l’accordo separato per il rinnovo del contratto, la crisi e l’occupazione.
Per i lavoro, il contratto e la democrazia, oggi scendono in piazza le tute blu della Cgil. In cinque grandi città si riuniranno i lavoratori che aderiscono allo sciopero generale indetto dalla Fiom. Negli auspici del segretario del sindacato, Gianni Rinaldini, assisteremo alla «più grande manifestazione operaia che l’Europa ricordi negli ultimi anni».
MILLE PULLMAN
Mille pullman in giro per l’Italia. A Palermo con i lavoratori siciliani, a Napoli con quelli di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria; a Roma arriveranno da tutto il Lazio, l’Abruzzo, il Molise e la Sardegna; a Firenze andranno i toscani, gli
emiliani gli umbri e i marchigiani. A Milano, il Nord: Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, Trentino, Liguria, Veneto e Friuli. Nel capoluogo lombardo sono attese più di cinquantamila persone, che alle 9,30 si sposteranno da porta Venezia in piazza del Duomo dove è previsto l’intervento di Rinaldini.
Ieri il sindacalista è stato in giro per le fabbriche in crisi della regione e ha riassunto così i motivi dello sciopero: «Ho passato la giornata facendo riunioni nelle fabbriche presidiate dagli operai. Alcuni di questi sono senza stipendio da molti mesi ma ancora c’è chi dice la cassa integrazione arriva subito. Il Paese soffre un’emergenza sociale vera, per questo chiediamo di bloccare immediatamente i licenziamenti e di estendere gli ammortizzatori sociali». E poi c’è il contratto.
ACCORDO SEPARATO
La Fiom va in piazza contro l’accordo separato. Martedì e mercoledì riprenderà il tavolo tra Fim-Cisl, Uilm-Uil e Federmeccanica. «Noi chiediamo che le trattative vengano sospese», riprende Rinaldini, per il quale sarebbe giusto sottoporre le diverse piattaforme ad un referendum tra i lavoratori. Di diverso avviso il ministro Sacconi, secondo cui il rinnovo del contratto «è un negoziato tra le parti, che spero si concluda presto». Ieri sul tema è intervenuto anche il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. «Io ha detto non firmerei mai un accordo dei metalmeccanici senza la più grande rappresentanza sindacale di quel settore». La Fiom. In diverse città insieme agli operai manifesteranno anche gli studenti. Sono previsti cinquanta cortei organizzati dall’Unione degli studenti (uds). dalla Rete degli studenti medi e dall'Unione degli universitari.❖

Liberazione 9.10.09

Contratto, sciopero Fiom del 9 ottobre: «Stop alla trattativa e referendum» Metalmeccanici in piazza per la democrazia
di Fabio Sebastiani



«Sospensione della trattativa e referendum subito». Tutto si può dire della contromossa della Fiom, che il 9 ottobre si appresta a scendere in piazza in segno di protesta contro l'accordo separato di categoria, fuorché manchi di chiarezza e determinazione. L'obiettivo è demolire il vulnus dell'azione di Federmeccanica, da una parte, e di Fim e Uilm dall'altra: l'attacco alla democrazia. «Noi proponiamo di sospendere la trattativa, di definire un regolamento democratico che garantisca tutti e di andare al referendum delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici sulle due piattaforme», sostiene Gianni Rinaldini nel corso della conferenza stampa convocata nella sede nazionale di Corso Trieste a Roma per presentare i cinque cortei di venerdì prossimo. «Sono i lavoratori che devono decidere sul contratto - aggiunge -. Se siamo in minoranza, prendiamo atto della volontà dei lavoratori e ci risediamo al tavolo. Ci aspettiamo che anche gli altri facciano altrettanto». Fim e Uilm, organizzazioni sindacali minoritarie, prima ancora di essere "selezionate" da Federmeccanica per sedere al tavolo del rinnovo del contratto nazionale, hanno infatti disdettato «senza mandato e senza chiederlo» un contratto nazionale «approvato con referendum vigente sino alla fine del 2011». Lo hanno fatto in nome dell'accordo separato firmato da Cisl e Uil, di cui sono pronti a recepire le regole, e senza tener minimamente conto della proposta della Fiom di unificare le due piattaforme, che valgono rispettivamente 113 euro e 130 euro. A Federmeccanica è bastato il tempo di uno starnuto per estromettere la Fiom, che pretendeva di rinnovare il contratto stando nel segno precedente modello concertativo, e portare avanti la trattativa con Giuseppe Farina (Cisl) e Tonino Regazzi (Uilm). 
Come accade sempre quando di mezzo c'è la Fiom, la questione è eminentemente politica. Si tratta di sperimentare sulla pelle dei metalmeccanici le conseguenze nefaste dell'accordo separato da Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. La Fiom è pronta a dare battaglia. «Se cambiano la parte normativa andremo per vie legali», dice chiaramente Rinaldini. 
Per il segretario nazionale della Fiom, la protesta di venerdì «si configura come la manifestazione operaia più grossa che si sia svolta, in questa fase, in tutta Europa». Un orgoglio del tutto giustificato, visto che la piattaforma delle tute blu della Cgil prevede non solo una richiesta di aumento di 130 euro, ma anche un confronto a tutto campo sulla politica economica e sulla crisi. Non solo, il corteo di Roma finirà il suo percorso sotto la Rai. L'obiettivo è di porre al centro dell'iniziativa il tema del rapporto tra mondo del lavoro e dell'informazione. «La Fiom ha infatti anche chiesto, con una lettera inviata al presidente e al direttore generale della Rai, un incontro con una delegazione sindacale «per sottolineare - ricorda Rinaldini - come il conflitto sociale sia in gran parte oscurato e si dia una rappresentazione della realtà diversa da quella che quotidianamente abbiamo di fronte» con «gli stabilimenti presidiati in ogni città». Scioperare, ha ammesso il leader della Fiom, «significa chiedere un doppio sacrificio ai lavoratori», ma «è lo strumento necessario» perchè «piegare la testa significa solo far passare il disegno di Federmeccanica e del governo».
Infine, la risposta al veleno da parte della Uilm. «Altro che fermarsi! Mi permetto di consigliare la Fiom di mettersi al passo con gli altri, dato che finora si è attardata troppo. Mentre la Uilm, insieme alla Fim, sta facendo un buon contratto per i lavoratori, la Fiom fa uno sciopero contro di noi», ha scritto in una nota il segretario della Uilm Tonino Regazzi. «Continuo a non capire le finalità dello sciopero del 9 ottobre e quale sia la piattaforma contrattuale della Fiom», ha detto il segretario generale Giuseppe Farina.« Ho la preoccupazione che il vero obiettivo sia di impedire un rinnovo del contratto che porterà benefici ai lavoratori».
Il 9 ottobre sarà giornata di mobilitazione anche per gli studenti, che hanno organizzato decine di cortei in quindici regioni italiane. E ovviamente saranno a fianco delle tute blu. Ieri alla conferenza stampa in Corso Trieste era presente anche il coordinatore dell'Unione degli studenti.


l’Unità 9.10.09
Intervista a Giorgio Bocca
«Ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo»
La reazione del premier? «Un padre padrone che disprezza le istituzioni e distrugge la democrazia ma quello che allarma è il male profondo di un paese così privo di dignità da accettare la guida di un uomo corrotto»
di Oreste Pivetta


I processi del premier «I suoi avvocati troveranno mille cavilli per ottenere la prescrizione. È un piccolo dittatore vestito di nero»

Spero nel miracolo» risponde Giorgio Bocca a un amico partigiano, che gli chiede un confronto tra ieri e oggi, tra i vent'anni di Mussolini e i quindici di Silvio. Cioè: ci siamo liberati del fascismo, ci salveremo anche dal berlusconismo. E poi spiega: "Il popolo italiano ha già dimostrato altre volte una forza straordinaria e insperata... ". Prima di tutto dovrebbe rendersi conto del precipizio morale, della corruzione, della devastazione culturale. Più che Berlusconi c'è a spaventare l'esito diffuso della sua politica e della sua cultura. Parlano le immagini: "Basta guardare una fotografia: lui, il piccolo dittatore, vestito di nero, sempre circondato da cinque o sei energumeni vestiti di nero”.
Giorgio Bocca, partigiano e giornalista, a che punto siamo dopo la bocciatura del lodo Alfano? Che succederà? «Berlusconi rimarrà al governo, i suoi avvocati inventeranno mille cavilli perchè i suoi processi cadano in prescrizione e se anche Berlusconi dovesse cadere resterà il berlusconismo, il male profondo di un paese che ha così poca dignità d'accettare la guida di un uomo corrotto che sta distruggendo la democrazia...».
Come scrive Saramago nel suo «Quaderno» censurato dalla Einaudi e pubblicato dalla Bollati Boringhieri: «Nel caso concreto del popolo italiano... è dimostrato come l'inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale». Preciso, no?
«Che gli italiani, figli di un fascismo mai completamente estirpato, siano corrotti lo si vede: quanta mafia, quanta camorra, quante tangentopoli, quanto fisco evaso. Berlusconi ha avuto modo di dare una patente alla corruzione: con lui, sul suo esempio, non s'è più sentito il bisogno di celare, nascondere. Si può fare tutto alla luce del sole. Sentire quelli che si vantano perchè non pagano le tasse... Che cosa gliene importa della democrazia?».
La malattia è profonda. Tanto più difficile rimediare. «Certo. Davvero occorre darsi tempo e sperare nel miracolo, appunto, o in quelle scosse profonde nella coscienza, cui abbiamo talvolta assistito».
Ti è già capitato di vivere momenti come questi? «Da giovane ho conosciuto il fascismo e la privazione di tutti i diritti».
Berlusconi vanta i suoi sondaggi e il suo sessanta, settanta, ottanta per cento di preferenze tra gli elettori... «Anche Mussolini vantava un grande seguito popolare. Era un padre padrone, proprio come s’atteggia Berlusconi. Mussolini andava a mietere il grano, si mostrava a torso nudo e incantava le folle. Berlusconi va in televisione e inaugura le casette. Hitler era un mostro. Loro li definirei dittatori morbidi». Come giudichi, a proposito, le reazioni di Berlusconi?
«Privo di qualsiasi bussola politica. Come si fa a gridare che Napolitano è di sinistra, che Napolitano avrebbe dovuto pesare sulla Corte? Come si fa a dire che la Consulta è di sinistra? Una follia. Non è solo questione di rispetto di una sentenza, è anche mancanza di senso della realtà: ma li conosce i giudici della Consulta, che in maggioranza se mai sono di destra per formazione, cultura, età...».
E il presidente Napolitano?
«Cauto come sempre. Prudente. Vuol fare il Presidente. Di fronte alle nefandezze di Berlusconi avrei preferito sentire parole più forti. A un certo punto viene il momento di dire basta».
Oltre i giudici chi e che cosa dovrebbe temere di più Berlusconi? Fini?
«Ma intanto deve temere quanti nel suo stesso schieramento si sono convinti che un individuo simile è pericoloso anche per la destra. Si è capito poi che Berlusconi non incanta più gli industriali, che preferirebbero un Tremonti».
E la Chiesa, dopo gli scandali con le escort? «La Chiesa lo tiene in piedi, perché sa di poterlo ricattare, sa di poter pretendere da lui in cambio soldi e leggi».
Non dimentichiamo la sinistra...
«Pelandrona e inconcludente. Di fronte a quanto sta avvenendo non ci si può limitare a dire che Berlusconi deve continuare a governare».
Per fortuna, stiamo in Europa.
«L’Europa è una garanzia. Non può consentire che nel suo cuore a un certo punto spunti un regime con i connotati del fascismo. Ma quello è pure capace di trascinarci fuori dall’Europa. Le tenterà tutte».❖

l’Unità 9.10.09
Nel Pd cresce l’allarme, il leader: «Pronti a chiamare il nostro popolo»
di Andrea Carugati


Nel Pd cresce l’allerta dopo gli attacchi scomposti del premier a Consulta e Quirinale. Franceschini: «Pronti a una risposta di popolo». Tensioni con Di Pietro che attacca ancora Napolitano e convoca una «piazza Navona 2».

«Non consentiremo al premier attacchi eversivi contro il Quirinale e la Corte Costituzionale», annuncia di primo mattino Anna Finocchiaro. Lo sfogo rabbioso (e inedito nella storia repubblicana) di Berlusconi a Porta Porta contro Colle e Consulta fa scattare l’allarme nel Pd. Che si trova suo malgrado coinvolto in uno scontro istituzionale che non ha cercato. I democratici mercoledì avevano trovato una linea comune: evitiamo di
trarre conseguenze politiche dalla sentenza. Ma l’escalation distruttiva di Berlusconi, ancora una volta, li costringe a reagire, a buttarsi loro malgrado in una mischia dove l’unico a sguazzare come un pesce è Antonio Di Pietro, che indice una «piazza Navona 2» per «chiedere il ritorno alle urne», attacca il Pd («Fanno i pesci in barile, chiedono addirittura di lasciare lavorare il premier») e torna a criticare duramente il Capo dello stato: «Grazie anche al fatto che Napolitano ha promulgato il lodo, il processo contro Berlusconi deve ricominciare da capo, e finirà in prescrizione». «Di Pietro è politicamente suicida», gli risponde Franceschini. «Attacchi ignobili come quelli di Berlusconi», taglia corto il dalemiano Latorre.
NEL PD CRESCE L’ALLERTA
Ma tra i democratici cresce l’allerta per la deriva berlusconiana. Tanto che Franceschini, dopo un’intervista abbastanza soft su Repubblica, ieri ha alzato decisamente i toni, invitando il partito a «evitare errori di sottovalutazione» e annunciando che il Pd è pronto a «chiamare il suo popolo a una reazione per difendere la Costituzione». Franceschini, per ora, non propone alcuna manifestazione, ma «siamo pronti», ha spiegato il segretario Pd, che punta su una partecipazione ancora più vasta alle primarie del 25 ottobre anche come risposta al premier. «In tv ha detto una serie di farneticazioni inqualificabili. Ma sappia che non ci fanno nessuna paura il suo potere, i suoi soldi, le sue minacce. La smetta si insultare in modo vergognoso il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale e si rassegni all’idea che vincere le elezioni non significa stare sopra la Costituzione, le regole e gli organi di garanzia». Anche Pierluigi Bersani alza la voce: «Berlusconi sta dando picconate ai muri portanti della casa comune. Bisogna richiamare tutti, l’opinione pubblica, ad un presidio fondamentale della nostra Costituzione. Siamo in mezzo ad una questione democratica acuta». D’Alema si chiama fuori da un commento su Berlusconi che chiede rispetto per sé in quanto «eletto dal popolo»: «Ci vorrebbe un costituzionalista, non entro in questo dibattito». La linea dei dalemiani resta la stessa, la ribadisce Latorre: «Politicamente con la sentenza non cambia niente, Berlusconi è legittimato a governare».
Mentre Casini invita il premier a «recuperare la calma e lavorare per il Paese», da sinistra arrivano inviti al Pd ad andare in piazza. «Berlusconi e Alfano si dimettano», dice il leader di Sinistra e libertà Nichi Vendola. Mussi e Fava chiedono «una manifestazione unitaria di tutte le opposizioni». E Paolo Ferrero, dopo un breve colloquio con il leader Pd, dice: «Siamo preoccupati per i toni da golpe di Berlusconi».❖

l’Unità 9.10.09
Il bambino malato
risponde Luigi Cancrini, psichiatra


Leggo sui siti che le persone che contestano Berlusconi o i suoi ministri dicendo anche frasi più o meno pesanti («Buffone, Ladro, A casa, Dimettiti...») vengono identificate e portate in questura per la denuncia. Perche? Non assomiglia tanto ai regimi attuali tipo Iran o passati alla Benito?
Emanuele

Ha dato pubblicamente dei “farabutti” a tutti quelli che lo criticano. Ha offeso pubblicamente, trattandoli da “coglioni”, quelli che non lo votano. Ha parlato pubblicamente dei giudici che si sono occupati dei suoi affari come di toghe rosse che portano avanti un complotto o delle “farse”. Furibondo, offende ora pubblicamente i giudici delle Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica. Perché? Perché il bambino che sta dentro di lui si sente braccato, ferito, umiliato da tutti quelli che non si accorgono di quanto lui è bravo, generoso, disinteressato e il suo essere fuori di sé dipende da questo, dal dolore del bambino viziato e infelice cui si nega qualcosa. Non lo hanno capito i cattivi che gli hanno detto di tornare a casa l’altra sera ma l’hanno capito, da bravi psicologi, i poliziotti che li hanno identificati e denunciati. Non ci si comporta così, infatti, con un bambino che, urlando, piange. Stargli vicino si dovrebbe e consolarlo. Come già fanno tutti quelli che come un bambino lo trattano tutti i giorni. Dandogli ragione e distraendolo con i giochini che gli piacciono di più.

Repubblica 9.10.09
La notte della repubblica
di Massimo Giannini


Sappiamo bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c´è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere «di che pasta è fatto», come minaccia lui stesso. L´avevamo capito da un pezzo.
Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier (purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito) sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.
Le parole che Berlusconi ha pronunciato l´altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. «Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico». Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui «sta dalla parte della Costituzione», scatta l´escalation del premier: «Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso».
Quel «preso in giro» non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. «Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette». Un´allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: «Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte». Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell´Udc Casini, per fortuna: «È un´accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano». Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: «Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c´erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono».
Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver «sviato l´azione legislativa del Parlamento») si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.
Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva «promesso» riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una «sentenza politica», che violasse apertamente la legge con l´unico obiettivo di proteggere il «sereno svolgimento» della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la «leale collaborazione» tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l´anomia, l´arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall´investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.
Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l´"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: «Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino». Ma l´Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po´ paura.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 9.10.09
Il governo antistato
di Francesco Merlo


Nulla si salva nell´inedita guerra del governo italiano allo Stato italiano, neppure il maresciallo dei carabinieri e il parroco. I ministri leghisti attaccano la bandiera e l´unità dello Stato e Berlusconi organizza la piazza contro i tribunali di Stato, contro la Corte costituzionale e contro il capo dello Stato.
Brunetta mitraglia il pubblico impiego dei fannulloni di Stato e la Gelmini smonta la scuola e l´università di Stato. Anche il federalismo in Italia non prende, come negli Usa e come in Germania, la forma dello Stato, ma dell´attacco al cuore dello Stato.
Ed è un attacco che non richiede coraggio, non presuppone l´allestimento di covi, non c´è neppure necessità di drogarsi ideologicamente: basta accendere un microfono e subito il premier di Stato, il ministro di Stato, il sottosegretario di Stato diventano la torre di sfondamento dello Stato, insultano lo Stato, cercano di far saltare il catenaccio e, dal quartiere generale dello Stato, bombardano lo Stato.
Ormai anche l´informazione di Stato attacca lo Stato. Anche il Tg1 e "Porta a Porta", famosi un tempo per l´ineleganza sacerdotale e la garbata goffaggine "a modo", che sta nel mezzo, medium, "mezzano"..., ormai anche Vespa e Minzolini, anche il giornalismo governativo, pur nella modestia estetica e nella creatività disadorna, mettono in scena film di Tarantino: pulp fiction sullo Stato, sui magistrati, sul presidente della Repubblica, sul sindacato, sui bidelli, sulla libertà di stampa...; pulp fiction su Rosy Bindi che, signora dell´opposizione, è stata, nel complice silenzio dei presenti, dileggiata e insolentita da un Berlusconi così volgare e gaglioffo da far vergogna – speriamo – anche ai suoi elettori per bene, e forse pure a se stesso.
Tra le molte indecenze della nostra storia nazionale questa del governo di Stato che demolisce lo Stato non si era mai vista e non perché non abbiamo avuto anarchici scamiciati con le cravatte nere a fiocco, e rivoluzionari di ogni specie, fascisti e comunisti, cortei cattivissimi con i ritratti di Stalin e processioni incolonnate dietro le Madonne che piangono. Insomma c´è di tutto nella storia dell´Italia eversiva, anche i governi perfidi e intelligenti che lavoravano nell´ombra e c´è ovviamente il colpo di Stato: la marcia su Roma. Ma non c´è lo statista che demolisce lo Stato. Non c´è il governo che si vuole sostituire allo Stato e anziché amministrare sgretola la qualità dello Stato, aggredisce invece di proteggere i servitori dello Stato, dai magistrati agli impiegati agli insegnanti.
Nella storia d´Italia abbiamo avuto politici che, in nome dello Stato, hanno denunziato l´esistenza di un presunto doppio Stato che minacciava lo Stato, con prefetti e questori, poliziotti e generali che tramavano... Abbiamo avuto persino lo statista che si è fatto Belzebù, ma sempre per proteggere, sia pure a modo suo, lo Stato. Giuseppe Alessi, fondatore della Dc siciliana, ci disse: «Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell´immediato dopoguerra era meglio co-governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin». L´innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, tra l´innervatura dell´una nell´altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, nasce probabilmente da quell´idea di guerra fredda. È da lì che viene la leggenda di Andreotti, lo statista-diavolo. Mai però avevamo avuto lo statista antistato che sega l´albero sul quale è legittimamente appollaiato.
E non è il solito ossimoro italiano, la prova dell´identità dei contrari garantita da Gesù che forse mutò l´acqua in vino non per fare un miracolo ma per dimostrare appunto l´uguaglianza degli opposti. Anche l´ossimoro qui è speciale perché è speciale l´idea di uno Stato sostanziale (Berlusconi) da sostituire allo Stato formale, quello delle regole, della grammatica istituzionale, dei bilanciamenti, dei controlli, delle garanzie, delle competenze, della legge uguale per tutti, della divisione dei poteri... Il comunismo qui non c´entra nulla. Sotto attacco c´è la forma dello Stato, il nostro modo si stare insieme, che il governo vuole piegare alla logica del più forte. O con i numeri elettorali o con i soldi debbono sempre vincere i più forti.
Lasciamo stare i sondaggi che, quanto più inconfutabili sembrano, tanto più bugiardi sono. Il loro martellante, sommario, clamoroso linguaggio è solo uno strumento di intimidatoria propaganda. Ci sono però i risultati elettorali reali che legittimano pienamente il governo Berlusconi. Gli danno il diritto e il dovere di governare, ma non di mettere la macchina in doppia fila e pretendere di non pagare la multa, né di commettere reati o di corrompere i giudici... La corte costituzionale ha stabilito che nessun cittadino può sottrarsi ai processi. La politica non c´entra nulla. Ma Berlusconi non sopporta la repubblica parlamentare, vuole trasformare il consenso popolare in odio popolare. E contro i poteri che limitano (e garantiscono) il suo potere, contro i giudici che indagano e giudicano i cittadini, tutti uguali davanti alla legge dello Stato, contro lo Stato si appella ai descamisados, come Evita: «Don´t cry for me, Italia». Vuole avere tutto nelle sue mani, e dunque vuol far saltare i dispositivi più elementari, occupare tutti i poteri che contano, non rispondere agli organi di garanzia. Sta nello Stato per sgretolare lo Stato, per rosicchiarlo, per larvalizzarlo, per svuotarlo. «Lo Stato si abbatte e non si cambia» era lo slogan di guerra dei leninisti. Un governo che sconfessa, destruttura e delegittima tutti i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti avversari, dagli insegnanti ai bidelli, è un governo di guerra. Come credete che nascano le guerre civili?

Repubblica 9.10.09
La filosofia dell’utilizzatore
di Chiara Saraceno


Il premier che «adora le donne», come ha graziosamente risposto al giornalista spagnolo che lo interrogava sulle sue frequentazioni, perde non solo le staffe, ma ogni senso della buona educazione e del limite appena una donna, una sua collega parlamentare e vicepresidente della camera, si permette di criticarlo.
Nella cultura da caserma in cui sembra trovarsi a suo agio quando tratta di donne e con le donne, non gli basta insultarla genericamente come comunista mangiabambini, come fa di consueto con gli oppositori del suo stesso sesso. Non può trattenersi dall´appoggiare il suo disprezzo ad un giudizio estetico. Confermando che per lui – per altro brutto, tinto e rifatto, oltre che piuttosto anziano – le donne si dividono in due categorie: quelle (per lui) guardabili e potenzialmente utilizzabili (se non già utilizzate), la cui intelligenza è eventualmente un optional e comunque non deve velarne il giudizio obbligatoriamente positivo nei suoi confronti, e tutte le altre. Le non convenzionalmente belle e le anziane sono accettabili solo se adoranti. Altrimenti cadono sotto la mannaia del giudizio di non esistenza.
Il leghista Castelli ha offerto un´altra variante della stessa cultura da caserma, scegliendo un altro topos classico, quello della zitella. Come se, tra l´altro, una donna senza un uomo fosse automaticamente una donna non voluta, non desiderata e non una che ha scelto di non avere un compagno (saggiamente, verrebbe da dire, se questi fossero gli unici tipi di maschi disponibili sul mercato). Per i leghisti, apparentemente, le donne non devono coprirsi il volto e il capo per motivi religiosi, ma vale sempre l´esortazione del Veneto profondo, secondo cui la donna «Che la tosa la tasa, che la piasa, che la staga a casa» – un atteggiamento non molto distante da quello degli uomini tradizionalisti mussulmani da cui gli orgogliosi leghisti nordici si sentono tanto diversi.
Con prontezza, Rosy Bindi ha reagito all´insulto osservando che ovviamente lei non appartiene alla categoria delle disponibili e utilizzabili . Ma è stata la sola a reagire alla maleducazione di Berlusconi e Castelli. Nonostante qualche faccia imbarazzata, nessuno dei maschi presenti, incluso il conduttore, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da questo tipo di linguaggio e comportamento gravemente sessista, che rende difficile partecipare alla comunicazione pubblica le poche donne cui, raramente, si concede la parola (Bindi era la sola donna l´altra sera a Porta a Porta, in un folto parterre di uomini). Nessuno dei molti brutti, sfatti e rifatti uomini più o meno anziani che popolano la politica italiana deve temere di essere insultato e delegittimato per questo dai propri interlocutori, per quanto aggressivi. Il silenzio – complice, imbarazzato o codardo – degli uomini sia alleati a Berlusconi che all´opposizione, sia in politica che nei media è una questione politicamente seria che andrebbe affrontata, perché segnala quanto siano profonde le radici culturali del sessismo nel nostro paese. Non dimentichiamo che in Spagna Zapatero è stato attaccato dalla stampa per aver assistito in silenzio allo show in cui Berlusconi ha spiegato come intende le norme di ospitalità quando si trova di fronte una bella donna potenzialmente disponibile.
Ma c´è anche un altro silenzio che disturba: quello delle donne dei partiti di governo, a cominciare dalle ministre. Le loro voci si sono levate solo quando il capo le ha chiamate all´appello perché lo difendessero allorché scoppiarono gli scandali a catena: dalle candidature promesse alle veline a Noemi ai festini di Villa Certosa. Mai nessuna presa di distanza dalla immagine di donna – e di loro come politiche e come ministre – che emerge dalle appassionate autodifese del loro capo. Particolarmente silente è la ministra delle Pari opportunità, che pure dovrebbe parlare per dovere istituzionale. Qualsiasi siano i motivi per cui è finita lì, cerchi di ricordarsi per favore che le pari opportunità non sono un concorso di bellezza. E che non si può lasciare a dei vecchi mandrilli, per quanto ricchi e potenti, il potere di parola e di giudizio su ciò che sono, sanno e possono fare e dire le donne, a prescindere dall´età e dai canoni estetici. Lasciare insultare una collega, anche della opposizione, con argomenti che nulla hanno a che fare con la politica, ma solo con il sessismo, è un errore grave, di cui paghiamo il prezzo tutte.

l’Unità 9.10.09
Questioni di vita e di morte
di Luigi Manconi


Il testamento biologico riguarda tutti Perché il Pd non prende l’iniziativa e lancia una grande manifestazione di massa?

Cari Franceschini, Bersani, Marino,
domani saranno esattamente sette giorni dalla manifestazione per la libertà di informazione di piazza del Popolo, a Roma. È stata una iniziativa importante, che ha risposto perfettamente al suo duplice scopo: quello di esprimere e quello di sensibilizzare. La manifestazione ha espresso la preoccupazione diffusa per l’attuale fragilità di quel fondamentale principio di democrazia che è il diritto di informarsi e di informare. E ha contribuito a sensibilizzare sul tema altri cittadini e altri gruppi sociali. Ciò ha confermato una tendenza classica del modello di manifestazione nell’Italia contemporanea. L’azione collettiva di strada, in altre parole, tende a coagularsi intorno a due gruppi essenziali di questioni: quelle economico-sociali (contratti, pensioni, diritti sindacali...) e quelle relative all’uso della forza in ambito nazionale e sovranazionale (la repressione interna, quella a opera di regimi dispotici, le guerre...). Un terzo gruppo di questioni comincia a emergere come oggetto di manifestazione (il razzismo per esempio). Ciò corrisponde puntualmente alle tematiche fondamentali della lotta politica, come si è sviluppata nell’ultimo mezzo secolo, che si articola su piani diversi e in sedi differenti e, infine, nella mobilitazione di massa nelle strade e nelle piazze. Ma quella stessa lotta politica conosce oggi profondi mutamenti.
Detta in breve, diventano oggetto di azione pubblica e di conflitto collettivo tematiche confinate, fino a qualche decennio fa, nella sfera privata e affidate alla capacità di autodeterminazione individuale. Le “questioni di vita e di morte” diventano la posta in gioco e il cuore pulsante di lotte culturali, ideologiche, ma anche direttamente politiche, che coinvolgono milioni di cittadini e investono il sistema politico in senso stretto. Si pensi alle problematiche dell’aborto e del Testamento biologico, delle coppie di fatto e della procreazione assistita.
Se è vero come è vero che quello sul Testamento biologico è diventato un conflitto squisitamente politico (oltre che filosofico, religioso, culturale), perché mai non dovrebbe costituire tema e obiettivo di una manifestazione di massa? La risposta è semplice: perché molti esitano a considerarlo tale. E, invece, proprio di conflitto politico si tratta: perché, a seconda della normativa che verrà adottata, si produrranno effetti concreti, corposamente materiali, sulla vita dei cittadini. Ne discenderanno conseguenze sullo stato di benessere o di sofferenza delle persone, sulle loro aspettative di vita e sulle loro relazioni private e sociali. In ultima analisi, sulla loro felicità o sulla loro infelicità: ovvero in altri, più concreti e modesti termini sulla capacità delle leggi degli uomini di ridurre la quota di dolore non necessario che tutti in un modo o nell’altro, prima o poi, rischiamo di subire.
Perché mai, dunque, non si dovrebbe poter manifestare collettivamente la propria opinione su tale questione? E c’è un ulteriore ragione che rende, quell’azione pubblica, quanto mai necessaria: il fatto che l’orientamento della maggioranza parlamentare corrisponde, nella società italiana, a quello di un’esigua minoranza. Insomma, la gran parte della società italiana ha un’opinione esattamente opposta, sul tema del Testamento biologico, a quella del centro destra. E questo rappresenta uno dei pochi motivi di speranza per quanto riguarda i rapporti di forza nell’Italia contemporanea: per giunta, su un tema a dir poco cruciale. Se diventasse legge il testo approvato al Senato, l’ordinamento giuridico del nostro Paese avrebbe subito una lesione pari solo a quella inferta dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Quel disegno di legge, infatti, prevede che pur in presenza di un rifiuto esplicito, firmato e autenticato al paziente vengano imposte nutrizione e idratazione forzate. Si avrebbe, così, la più brutale negazione del diritto all’autodeterminazione individuale e l’imposizione di una volontà esterna, esercitata dallo stato, nella sfera più intima della persona. E nel momento estremo e più delicato: quello del fine vita.
Cari Franceschini, Bersani, Marino, temo che la sentenza della Consulta sul “Lodo Alfano” porti, tra l’altro, a una accelerazione e a un ulteriore irrigidimento della posizione del centro-destra in tale materia. Tutto ciò non vale una manifestazione a Piazza del Popolo? Una manifestazione che sottragga un tema tanto decisivo sia alle strettoie della discussione parlamentare che alle angustie del dibattito congressuale, e lo rimetta nelle mani e nelle voci dei cittadini.❖

l’Unità 9.10.09
Diritto di scelta per le minorenni
Sì del Comitato di bioetica alla riforma dell’aborto voluta dal governo Zapatero
di Claudia Cucchiarata


Il Comitato di bioetica ieri ha dato il via libera alla riforma della legge sull’aborto voluta da Zapatero. Sì anche ad uno dei punti più controversi: il diritto di scelta per le minorenni. Antiabortisti in piazza il 17 ottobre.

«L'argomento di cui ci stiamo occupando è un progetto di riforma legislativa, non l'inclusione ex novo della depenalizzazione dell'aborto nel nostro sistema giuridico». Il Comitato di Bioetica spagnolo ha voluto precisare con questa premessa il giudizio depositato mercoledì, dopo cinque mesi di discussione sul disegno di legge più polemico del governo Zapatero. Un progetto che ha diviso l'opinione pubblica e che, secondo recenti sondaggi, raccoglie più detrattori che sostenitori.
LE CRITICHE
I punti maggiormente criticati della proposta di modifica di una legge che risale al 1985 sono due. Il primo è l'innalzamento da 12 a 14 settimane del limite di tempo di gestazione consentito per l'interruzione di gravidanza. Il secondo, e più spinoso, la possibilità di abortire estesa alle minori tra i 16 e i 18 anni, senza l'approvazione esplicita dei genitori. Entrambi i punti hanno ricevuto il giudizio positiva quasi unanime (undici voti a favore e un solo contrario) del Comitato, un organo indipendente creato nel 2007 ed eletto da governo e amministrazioni regionali.
La notizia si è trasformata in una boccata d'aria fresca per l'esecutivo di Zapatero e la sua ministro attualmente meno amata, la 32enne Bibiana Aído, a capo del dicastero delle Pari Opportunità e principale promotrice della riforma. Solo due settimane fa, infatti, il Consiglio di Stato aveva espresso perplessità nei confronti del secondo punto. E chiesto che si permettesse ai genitori delle minorenni di essere resi partecipi di una decisione così delicata. Il Comitato sostiene che l'adolescenza sia «un'età poco propizia alla comunicazione famigliare» e invita a «rispettare il diritto all'intimità ed alla protezione dei dati personali delle minori». Ognuno deciderà indipendentemente che fare, quindi. E il nuovo quadro legislativo dovrà garantire l'informazione sulla prevenzione, le alternative e la protezione sanitaria adeguata ad ogni caso, nel rispetto della volontà delle interessate.
La riforma della legge passerà presto, e senza modifiche, in seconda lettura al Consiglio dei ministri. La sua approvazione sarà un passo in avanti per la garanzia della salute e dei diritti di chi vuole abortire. La legge attualmente in vigore sarebbe infatti, secondo gli esperti, una specie di colabrodo al quale si sono appigliate decine di migliaia di donne, anche straniere, perché consente di giustificare le interruzioni, in qualsiasi momento della gestazione, se sono in pericolo la salute della madre o del feto.
CURIA E PARTITO POPOLARE
Eppure, la polemica non sembra placarsi. Mentre ancora divampa la discussione sulla liberalizzazione della pillola del giorno dopo, da metà settembre in vendita in tutte le farmacie del Paese, più di 40 organizzazioni pro-vita preparano una manifestazione massiva per sabato prossimo, 17 ottobre. Appoggiato dalla Curia e dal Partito Popolare, il Foro della Famiglia promette di inondare le strade di Madrid dietro lo slogan: «Ogni vita importa». Gli antiabortisti ci avevano già provato a fine marzo, ma il corteo fu un flop. ❖

Repubblica 9.10.09
Roma, in piazza Venezia riaffiora l’ateneo di Adriano
Scoperti i resti della scuola dei filosofi
La sala rettangolare è venuto alla luce durante gli scavi per il metrò
di Carlo Alberto Bucci


Le memorie di Adriano erano nascoste sotto appena cinque metri di terra. E sono venute alla luce in faccia all´Altare della Patria. Hanno la forma inedita di una doppia scalea contrapposta, come nella Camera dei Lord. Ma si tratta probabilmente degli scranni dell´Athenaeum.
Adriano fece costruire l´ateneo nel 133 dopo Cristo per ospitare poeti, retori, filosofi, letterati, scienziati e magistrati, invitati a cimentarsi in greco e in latino in orazioni, gare di versi, dibattiti infuocati. Un auditorium famoso che Aurelio Vittore definisce ludum ingenuarum artium. E che l´imperatore filosofo fece costruire a sue spese sul modello di quello visto nel tempio di Atena ad Atene. Ma di questo istituto filosofico a Roma si erano perse le tracce. E la caccia alle sue vestigia è aperta da anni.
L´ipotesi che in quell´angolo di piazza Venezia dove non si è mai scavato prima, sotto i pini abbattuti l´anno scorso per poter proseguire le indagini, possa esserci proprio l´Athenaeum che Adriano volle edificare al suo ritorno dal viaggio in Palestina, sarà illustrata dagli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma quando, il 21 ottobre, il commissario per la metropolitana, Roberto Cecchi, farà il punto sull´andamento dei lavori in tutta la città. Ma la notizia del ritrovamento è doppiamente buona: verrà musealizzato un edificio sconosciuto (non è presente nella Forma Urbis, la pianta del 203-211) ma nel contesto dell´uscita della metro C che potrà passare pochi metri più in là.
A Roma dunque un´altra scoperta importante, dopo il recente ritrovamento della struttura che forse sosteneva la sala da pranzo rotante di Nerone sul Palatino. Tutto nasce nell´aprile del 2008. Durante un primo sondaggio accanto alla chiesa di Santa Maria di Loreto, a piazza Venezia apparve una scala monumentale. E si pensò all´ingresso di un edificio pubblico d´età imperiale. Ma subito dopo il soprintendente archeologo Angelo Bottini precisò che quei gradini sembravano fatti più per stare seduti che per essere saliti. Ora è arrivata la scoperta della "scala gemella". E ha preso corpo l´ipotesi Athenaeum: ecco le gradinate dell´aula magna.
Gli scavi devono essere ultimati. E i lavori vanno avanti nonostante il cattivo odore che si sente da quando la nettezza urbana ha deciso di appoggiare lì accanto un suo camion per la raccolta dei rifiuti. Ma sbirciando oltre la recinzione del cantiere di "Roma Metropolitane", appare già chiara la forma della sala rettangolare: due gradinate contrapposte ancora parzialmente coperte dal crollo del piano superiore. Gli spalti hanno sei gradoni ciascuno ma uno dei due è più corto perché contiene le uscite dalla sala, che misura circa venti metri di lunghezza per tre di larghezza. Al centro, dove l´imperatore e i poeti verseggiavano, c´è un pavimento in granito con listelli color giallo antico. È lo stesso tipo di pavimenti delle biblioteche che Adriano fece costruire ai lati della Colonna di Traiano, 50 metri più in là. Pavimenti tutti allo stesso livello. Legati quindi da un piano urbanistico unitario, monumentale e illuminato.

Repubblica 9.10.09
L'intervento di Eric J. Hobsbawm al World Political Forum
La giustizia del XXI secolo
Una nuova egualianza dopo la crisi
di Eric J. Hobsbawm


Tutti i paesi all´Est come all´Ovest dovranno uscire dalla ortodossia della crescita economica a ogni costo e fare più attenzione all´equità sociale
I paesi ex sovietici non hanno ancora superato le difficoltà della transizione al nuovo sistema
Le politiche liberiste hanno portato alla distruzione del welfare

Pubblichiamo parte della relazione che terrà oggi nella prima giornata del World Political Forum a Bosco Marengo (Alessandria). Al Forum di quest´anno, sul tema "L´Est, quale futuro dopo il comunismo", partecipano tra gli altri Mikhail Gorbaciov e Yuri Afanasiev.
Il "secolo breve", il XX, è stato un periodo contrassegnato da un conflitto religioso tra ideologie laiche. Per ragioni più storiche che logiche è stato dominato dalla contrapposizione di due modelli economici – e soltanto due modelli vicendevolmente esclusivi – il "Socialismo", identificabile con economie a pianificazione centrale di tipo sovietico, e il "Capitalismo", che copriva tutto il resto. Tale contrapposizione, apparentemente fondamentale, tra un sistema che ambiva a togliere di mezzo le imprese private interessate agli utili (il mercato, per esempio) e uno che intendeva affrancare il mercato da ogni restrizione ufficiale o di altro tipo, non è mai stata realistica. Tutte le economie moderne devono abbinare pubblico e privato in vario modo e in vario grado, e di fatto così fanno. Entrambi i tentativi di vivere all´altezza di questa logica del tutto binaria di queste definizioni di "capitalismo" e "socialismo" sono falliti. Le economie di tipo sovietico a organizzazione e gestione statale non sono sopravvissute agli anni Ottanta. Il "fondamentalismo di mercato" angloamericano è crollato nel 2008, nel momento del suo apogeo. Il XXI secolo dovrà pertanto riconsiderare i propri problemi in termini molto più realistici.
Come ha influito tutto ciò sui Paesi in passato devoti al modello "socialista"? Sotto il socialismo avevano riscontrato l´impossibilità di riformare i loro sistemi dirigenziali a pianificazione statale, quantunque i loro tecnici e i loro economisti fossero pienamente consapevoli delle loro principali carenze. I sistemi – non competitivi a livello internazionale – furono in grado di sopravvivere finché poterono restare completamenti isolati dal resto dell´economia mondiale.
Questo isolamento, però, non poté essere mantenuto nel tempo e quando il socialismo fu abbandonato – vuoi in seguito al crollo dei regimi politici come in Europa, vuoi dal regime stesso, come in Cina o in Vietnam – questi stati senza alcun preavviso si ritrovarono immersi in quella che a molti sembrò l´unica alternativa disponibile: il capitalismo globalizzante, nella sua forma allora predominante di capitalismo del libero mercato. Le conseguenze dirette in Europa furono catastrofiche. I Paesi dell´ex Unione Sovietica non ne hanno ancora superato le ripercussioni. La Cina, per sua fortuna, scelse un modello capitalista diverso dal neoliberalismo angloamericano, preferendo quello molto più dirigista delle "economie tigre" o d´assalto dell´Asia orientale, ma diede il via al suo "gigantesco balzo economico in avanti" con ben scarsa preoccupazione e considerazione per le implicazioni sociali e umane.
Quel periodo è ormai alle spalle, come lo è il predominio globale del liberalismo economico estremo di matrice angloamericana, quantunque non sappiamo ancora quali cambiamenti implicherà la crisi economica mondiale in corso – la più grave dagli anni Trenta – quando si saranno riusciti a superare gli esiti sconvolgenti degli ultimi due anni. Una cosa, tuttavia, è sin d´ora molto chiara: è in corso un avvicendamento di immani proporzioni dalle vecchie economie nordatlantiche al Sud del pianeta e soprattutto all´Asia orientale.
In questo frangente, gli ex stati sovietici (compresi quelli tuttora governati da Partiti comunisti) si trovano a dover affrontare problemi e prospettive molto diverse. Escludendo in partenza le divergenze di allineamento politico, dirò solo che la maggior parte di essi resta relativamente fragile. In Europa alcuni si stanno assimilando al modello social-capitalista dell´Europa occidentale, benché abbiano un reddito medio pro-capite considerevolmente inferiore. Nell´Unione europea è alquanto verosimile presagire la comparsa di una doppia economia. La Russia, ripresasi in certa misura dalla catastrofe degli anni Novanta, è ridotta ormai a Paese esportatore, potente ma vulnerabile, di prodotti primari e di energia ed è stata finora incapace di ricostruirsi una base economica meglio bilanciata.
Le reazioni contro gli eccessi dell´era neoliberale hanno portato a un ritorno, parziale, a forme di capitalismo statale accompagnate da una sorta di regressione a taluni aspetti dell´eredità sovietica. Palesemente, la semplice "imitazione dell´Occidente" ha smesso di essere un´opzione possibile. Questo fenomeno è ancora più evidente in Cina, che ha sviluppato con considerevole successo un proprio capitalismo post-comunista, al punto che in futuro può anche darsi che gli storici possano vedere in questo Paese il vero salvatore dell´economia capitalista mondiale nella crisi nella quale ci troviamo attualmente. In sintesi, non è più possibile credere in una unica forma globale di capitalismo o di post-capitalismo.
In ogni caso, delineare l´economia del domani è forse la parte meno rilevante delle nostre future preoccupazioni. La differenza cruciale tra i sistemi economici non risiede nella loro struttura, bensì nelle loro priorità sociali e morali, e queste dovrebbero pertanto essere l´argomento principale del nostro dibattito. Permettetemi dunque, a tal proposito, di illustrarvene due aspetti di fondamentale importanza.
Il primo è che la fine del Comunismo ha comportato la scomparsa repentina di valori, abitudini e pratiche sociali che avevano segnato la vita di intere generazioni, non soltanto quelle dei regimi comunisti in senso stretto, ma anche quelle del passato pre-comunista che sotto questi regimi erano state in buona parte tutelate. Dobbiamo riconoscere quanto siano stati profondi e gravi lo shock e le disgrazie in termini umani verificatisi in conseguenza di questo brusco e inaspettato terremoto sociale. Inevitabilmente, occorreranno parecchi decenni prima che le società post-comuniste trovino una stabilità nel loro modus vivendi nella nuova era, e alcune delle conseguenze di questa disgregazione sociale, della corruzione e della criminalità istituzionalizzate potrebbero richiedere ancora molto più tempo per essere debellate.
Il secondo aspetto è che sia la politica occidentale del neoliberalismo, sia le politiche postcomuniste che essa ispirò hanno di proposito subordinato il welfare e la giustizia sociale alla tirannia del Pil, il Prodotto Interno Lordo: la più grande crescita economica possibile, volutamente inegalitaria. Così facendo, essi hanno minato – e negli ex Paesi comunisti hanno addirittura abbattuto – i sistemi dell´assistenza sociale, del welfare, dei valori e delle finalità dei servizi pubblici. Tutto ciò non costituisce una premessa da cui partire sia per il "capitalismo europeo dal volto umano" dei decenni post-1945 sia per soddisfacenti sistemi misti post-comunisti. Obiettivo di un´economia non è il guadagno, bensì il benessere di tutta una popolazione. La crescita economica non è un fine, ma un mezzo per dar vita a società buone, umane e giuste. Non importa come chiamiamo i regimi che perseguono questa finalità. Conta unicamente come e con quali priorità sapremo abbinare le potenzialità del settore pubblico e del settore privato nelle nostre economie miste. Questa è la questione politica più importante del XXI secolo.
(© Eric J. Hobsbawm 2009 Traduzione di Anna Bissanti)

il Riformista 9.10.09
Stalin. In Russia torna la nostalgia del "Piccolo Padre"
di Lucia Sgueglia


Stalin baffone. Tra i suoi fan c'è il nipote: ha citato in giudizio i giornali che hanno accusato il dittatore di eccidi quali la strage di Katyn.
Revival.Il Piccolo Padre Stalin sembra riconquistare spazio nei cuori di molti russi

Mosca. Lui, Evgeny Dzhugashvili, 73 anni, dalla sua casa a Tiblisi, di tornare nella città ove suo nonno fu burattinaio dell'Urss fino al 1953, non ci pensava neppure. Anche perché col "Piccolo Padre" il suo di padre non andava d'accordo, tanto che un giorno tentò il suicidio per quell'incomunicabilità, ma sopravvisse. A finirlo furono i nazisti, nel '43: lo avevano fatto prigioniero in guerra, Stalin si rifiutò di scambiarlo con un alto ufficiale tedesco.
A convincerlo a volare a Mosca ci ha pensato Leonid Zhura, anni 63, un fan di Baffone. In Russia non è l'unico. Ad aprile ha letto su Novaya Gazeta, il bisettimanale di Anna Politkovaskaja, un articolo di Anatoly Yablokov su Katyn, la strage compiuta nel 1940 dall'Nkvd, a lungo nascosta dai sovietici, poi ammessa da Gorbaciov e Eltsin: «L'ordine di fucilare 20mila ufficiali polacchi fu dato da Stalin in persona», c'è scritto, e «L'operato suo e della sua polizia segreta (la famigerata Ceka) nelle purghe del 1937-38 (il Grande Terrore) costituiscono un crimine sanguinoso contro il proprio popolo». Zhura non è d'accordo, e convince Dzhugashvili a far causa al giornale per "danni morali", chiedendo un risarcimento di 299mila dollari, più 500mila rubli all'autore. Negli atti da lui depositati dichiara che la colpa di Katyn non è dei sovietici ma dei nazisti. Anche se sul documento c'è la firma di Stalin. «Non ne sapeva nulla, la colpa è dei suoi associati, firma falsa» concorda il nipote. «Vogliamo riabilitarlo - insiste Zhura usando a rovescio quel lessico legato al Disgelo, e al riconoscimento di milioni di vittime dello stalinismo. - Ha trasformato una popolazione in popolo, inaugurato un'era d'oro della letteratura e delle arti, era un vero leader». «Dopo 50 anni di bugie riversate su di lui non può difendersi, è il momento di agire» ha detto il 16 settembre nella seduta preliminare del processo alla Corte di Basmannaya a Mosca. Ieri, alla seconda udienza sono accorsi 30 pensionati, alcuni con la medaglia del loro eroe sul petto. Rimasti fuori dalla minuscola aula tanti giornalisti, quasi tutti da Polonia, Georgia, Ucraina, gli ex satelliti sovietici oggi impegnati in un'aspra battaglia con Mosca sull'eredità del comunismo.
In Russia tanti non sono d'accordo con Zhura, sicuramente non le famiglie di quei milioni di vittime. Ma a contestare pubblicamente la versione ufficiale della storia patria offerta dal Cremlino, restano pochi. Come Memorial, la ong per i diritti umani, che ha fornito documenti desecretati per l'articolo di Yablokov. Zhura ha fatto causa anche a loro. Del resto, alle aule giudiziarie da qualche mese Novaya Gazeta e Memorial ci han fatto l'abitudine. Martedì scorso la ong si è vista condannare a risarcire per diffamazione nientemeno che Ramzan Kadyrov, padre-padrone di Cecenia, che aveva accusato di «responsabilità» nell'omicidio di Natalia Estemirova.
Intanto, opposizione e liberali denunciano una «campagna di revisionismo» a favore di Stalin varata dal Cremlino. Dai nuovi libri di storia che lo definiscono "manager efficiente" e "artefice della modernizzazione e industrializzazione sovietica", al restauro della metro Kurskaja a Mosca, dove è riapparso il verso dell'inno sovietico inneggiante al dittatore abolito da Krushchev; il terzo posto ottenuto dal Piccolo Padre in un programma tv che elegge il personaggio-simbolo della storia russa. Fino alle recenti polemiche sul Patto Molotov-Ribbentrop: Putin in Polonia per i 70 anni dall'inizio della guerra lo ha definito un gesto comunque importante, «immorale», ricordando però le colpe di Francia e Inghilterra per lo scellerato accordo di Monaco con Hitler.
Esattamente il secondo conflitto mondiale è al centro del rischio di idealizzazione del Piccolo Padre nella Russia d'oggi: per i russi è la "Grande Guerra Patriottica", la sua memoria sacra e intoccabile in virtù di quei 27milioni di caduti. E la vittoria contro il nazismo il merito piu grande del dirigente sovietico. Ecco perché in questi giorni un giornalista, A. Podrabinek, si trova assediato da "giovani patrioti" per aver raccontato la storia di un ristorante costretto a rimuovere l'insegna Antisovietskaja. «Fino a poco fa tutto ciò era impensabile - nota Yablokov - Oggi ascoltiamo molto meno sulle repressioni, rispetto agli anni 90». Per Nikita Petrov di Memorial, «È molto triste. Una visione della storia da hooligan del calcio».
Ma parlare di revival staliniano sarebbe una semplificazione. L'operazione non è priva di contraddizioni, se si pensa che allo stesso tempo Putin ha imposto Arcipelago Gulag di Solzhenytsin come lettura obbligatoria nei licei, e guarda allo zarismo come a un modello da recuperare.

Repubblica 9.10.09
Il WSJ attacca anche Harvard che l’ha editato
Usa, stroncato Toni Negri
“Un libro malvagio”
di Angelo Aquaro


New York. «Commonwealth è un libro malvagio, pericoloso, ed è inquietante che sia pubblicato dalla prestigiosa Harvard University Press». Non si può dire che il Wall Street Journal dia il benvenuto all´ultimo libro di Toni Negri, l´ex capo di Autonomia Operaia condannato per "insurrezione armata", e di Michael Hardt, docente di letteratura italiana alla Duke University, quel Commonwealth, appunto (448 pagine, uscito negli Usa il primo ottobre) che conclude la trilogia iniziata con Impero, 2003, e proseguita con Moltitudine, 2004.
Certo il recensore, Brian C. Anderson, conservatore brillante - ha fatto scuola il suo saggio South Park Conservatives: la rivolta contro il pregiudizio liberale dei media - non poteva provare alcuna simpatia per quello che definisce «l´infuso da strega del radicalismo contemporaneo». Ma la recensione non lascia appello al lavoro dei due, già a suo tempo stroncato sul New York Times da Francis Fukuyama, che aveva parlato di «soluzione immaginaria a un problema reale». Che la soluzione sia, oggi come allora, la rivoluzione, non stupisce.
«Brothers in Marx» è il titolo che il Wsj dà alla recensione, giocando tra «Fratelli in Armi» e «Fratelli Marx». Ma c´è poco da ridere. Il capitalismo deve morire - così Anderson riassume il Negri/Hardt-pensiero - perché ha abusato e corrotto il Bene Comune, che oggi non è solo il frutto della terra e del lavoro, «ma l´universo delle cose necessarie alla vita sociale: le conoscenze, i linguaggi, i codici, le informazioni, gli affetti». Non c´è spazio per il riformismo: la rivoluzione trionferà. Ma come? «Quale sia l´arma migliore - le pistole, le manifestazioni pacifiche, l´esodo, le campagne mediatiche, gli scioperi, la trasgressione delle norme sessuali, il silenzio, l´ironia o molte altre - dipenderà dalle situazioni».
I tempi cambiano, e Commonwealth aggiorna «la scelta del proletariato fatta da Marx come agente della rivoluzione. Gli autori oggi preferiscono "la moltitudine", che include lavoratori di ogni genere, naturalmente, ma raggruppa anche attivisti neri e ispanici, femministe, queer trasgressive». Dai «pirati somali ai musulmani delle banlieues di Parigi», toccherà così ai nuovi «eroi della distruzione» abbattere il sempiterno capitalismo, che oggi sfrutta i lavoratori dei call center come ieri gli operai. Malgrado il linguaggio up to date, però, Negri e Hardt - secondo Anderson - «scrivono come se ignorassero la storia del XX secolo, citando ancora Lenin e Mao, senza sforzarsi di costruire argomenti a supporto delle loro asserzioni selvagge: come può l´abolizione della proprietà privata non riportare a uno stato totalitario? Loro promettono che stavolta sarò differente: ma non spiegano perché».
Dice Naomi Klein che Commomwealth fa «esplodere il dibattito clustrofobico» sulle «alternative a questo nostro sistema economico in frantumi». Ma il Wsj è lapidario: «Milioni di persone sono state massacrate nel nome di Karl Mark nel XX secolo: che Dio ci aiuti se questo flagello dovesse tornare nel XXI secolo».

giovedì 8 ottobre 2009

l’Unità 8.10.09
A tutela di tutti
di Concita De Gregorio


«È una sentenza sorprendente», dice Alfano ministro di Giustizia. Sarà sorprendente per lui. Non per i milioni di italiani che ancora credono nella giustizia nonostante la provvisoria presenza di Alfano. Un ministro passa, la Costituzione resta. Questo ci dice la sentenza di ieri: tranquilli, la Costituzione resta. La legge è ancora uguale per tutti. Più di sessant’anni dopo è ancora a quei signori i cui volti sono ingialliti nelle foto che dobbiamo dire grazie: ai padri costituenti che avevano previsto tutto senza immaginare niente. Quella era politica. Saremo capaci, prima o dopo, di ritrovare l’umiltà, la ragionevolezza, la lungimiranza, la passione civile, l’amore per lo Stato dei nonni che hanno costruito la democrazia che oggi abitiamo violentandola come fosse una palestra di periferia, teatro di privati interessi e corporali bisogni? La nostra Costituzione è nata dalla Resistenza: è stata scritta per tutti, anche per quelli che alla Resistenza non hanno partecipato. Ieri come oggi.
«La Consulta è di sinistra», dice Berlusconi presidente del Consiglio. Bisogna avere pazienza, non paura né rabbia ma pazienza. Vede comunisti dappertutto. La Consulta non è di sinistra, è composta da giuristi che hanno a lungo esaminato le carte, a lungo hanno discusso e infine hanno democraticamente votato: nove contro sei. I soldi, il potere che ne deriva non comprano tutto.
Anche questa è una buona notizia per il Paese intero, berlusconiani compresi: arriverà un giorno in cui non ci sarà più chi paga e anche loro dovranno ringraziare che le regole comuni siano state da altri conservate intatte.
«Porteremo il popolo in piazza», dice Bossi l’azionista di maggioranza del governo. Questo il vero pericolo. Che si voglia trasformare una battaglia per il rispetto delle regole in una guerra civile. Non c’è da scendere in piazza coi forconi, nessuno cada nel tranello. Non è questa una vittoria di nessuno contro alcuno. È un argine, una prova di equilibrio. È un passaggio solenne a tutela di tutti. Restiamo nel solco tracciato dai Padri. Esercitiamo la parola e il pensiero, facciamolo ancora, mettiamo in minoranza coi fatti, coi progetti, con la proposta politica chi cerca di trascinare il paese nella polvere e nel fango. Questa parola si è sentita ieri: guerra. Non siamo in guerra, invece. Siamo un grande paese capace di reagire con gli anticorpi della democrazia alla deriva e alla tentazione dispotica. Ritroviamo il desiderio di aver cura di noi stessi, non lasciamoci distrarre dalle ronde dai dialetti e dal colore, oggi verde, delle camicie. Abbiamo sconfitto quelle nere, il verde non può far spavento.
Del povero Mavalà Ghedini («La Corte rinnega i suoi principi») non sarebbe da dire se non per compiangere un dipendente del Sovrano costretto a giocare quindici parti in commedia, un uomo di legge che rinnega lui sì il mandato del popolo in favore dell’interesse del suo principale. Un triste spettacolo. La Corte sta lavorando anche per lui, pazienza se gli risulta impossibile capirlo. Lo capiranno i suoi e i nostri figli, sarà scritto nei libri di storia. In prima pagina trovate un numero dell’Unità del ’47. Conservate quello di oggi, servirà tra vent’anni.

Repubblica 8.10.09
La forza della democrazia
di Ezio Mauro


Era dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un Paese dove è saltata l´intercapedine liberale, e l´estremismo del potere viene benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell´autonoma e libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell´instabilità istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto d´onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni dopo, in uomo di Stato.
Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una condanna. Prima che la grande mistificazione d´abitudine cali sui cittadini dal kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.
Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo, combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione, com´è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l´articolo 3 della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per questa ragione – e siamo al metodo – se si vuole sottrarre alla legge il Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale, e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli articoli 3 e 138 della Costituzione.
Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente dei doveri: semplicemente, e com´è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva provvidamente sospeso. Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto – e non è cosa da poco – torna da oggi uguale per tutti.
Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è lex, anzi "non c´è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla terra", come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica. In una formula – aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia – si potrebbe dire che il Capo dell´esecutivo ha in questo caso usato il legislativo per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.
La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell´autorevolezza politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso questa procedura d´eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale, prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l´autonomia.
Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà. Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati, nell´Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori dall´equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo status nuovissimo di "primus super pares", vige ancora la Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora, anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale elettorale in più.
E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al popolo di destra – aizzato irresponsabilmente – come un uomo di parte ("sapete tutti da che parte sta") in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di "sinistre", "rossi" e "comunisti": per concludere con il titanismo spaventato di un urlo ("Viva l´Italia, viva Berlusconi") che rivela la concezione grottesca di un Premier che vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte, poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo, rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono designati altera l´equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il Quirinale e la Corte. E siamo solo all´inizio.
Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne, come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli scandali dell´estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com´è di una vicenda di verità e di libertà. Non è la Corte che lo denuda: è l´incapacità politica di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi e piccoli vengono al pettine e l´unica reazione è la furia contro certi giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di un´assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.
Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri: quando non c´è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia è il dispotismo.

l’Unità 8.10.09
Crescita e natalità
Dal «trucco» dei gemelli alle unioni multiple, la Cina si ribella al figlio unico
A Shanghai, le autorità ora esortano a fare più figli per combattere l’invecchiamento della popolazione. Nella provincia dello Henan, «misterioso» boom di parti gemellari: il Paese, dopo trent’anni, fa i conti con gli squilibri prodotti dal rigido controllo delle nascite
di Gabriel Bertinetto


C’è un posto in Cina, dove nessuno avrà bisogno di replicare il trucco con cui a Shuiniu, villaggio dello Henan, molti coniugi hanno aggirato i divieti imposti dallo Stato a generare più di un figlio. Questo posto è Shanghai, capitale economica della Repubblica popolare, dove oggi le autorità esortano addirittura le coppie sposate ad averne tranquillamente due.
A Shuiniu la gente vive del lavoro dei campi. Rispettare rigidamente i vincoli demografici significherebbe disporre di due sole braccia aggiuntive per zappare ed accudire al bestiame. Che fare? La legge in realtà limita il numero dei parti, non dei figli. Il segreto allora sta nel mettere al mondo contemporaneamente due o più creature. Se ti affidi al caso resterai facilmente deluso. Se invece sai come dare una spinta alla natura, hai risolto il tuo problema.
C’è un negozio in paese, dove senza tante formalità puoi procurarti pillole miracolose. Cosa contengano non è chiaro, ma gli effetti si vedono. Non c’è altro centro abitato in Cina con una concentrazione così elevata di gemelli. Qualcuno, desideroso di avere due figli, si è trovato di colpo ad averne persino il doppio o anche più, e ora rimpiange il momento in cui malauguratamente varcò la soglia della farmacia. Dieci future braccia per arare la terra, al presente sono cinque bocche in più da sfamare. Ne sanno qualcosa Niu Jian Fang e soprattutto la moglie Jiao Na, che un bel giorno del 2004 ha generato il piccolo Beibei, seguito pochi minuti dopo dalla graziosa Jinjin, poi dal simpatico Huanhuan, dall’amabile Yingying, e infine da Nini, ultima sorellina scaturita da un travaglio che sembrava non avere mai fine.
Fra le megalopoli cinesi, Shanghai è la più moderna e sviluppata. Ma alla sua formidabile crescita economica si sta intrecciando un fenomeno che rischia di comprometterne le dinamiche future. Shanghai è una città in rapido invecchiamento. Il 22% degli abitanti ha più di 60 anni. Nei Paesi ad elevata industrializzazione nessuno si spaventerebbe per una percentuale che viene considerata normale, ma nella Repubblica popolare fino ad epoca recente i rapporti quantitativi fra le varie fasce d’età erano del tutto diversi, e quello che più allarma le autorità è la tendenza ad un’ulteriore aumento di quegli squilibri percentuali. A Shanghai come altrove.
A meno che non si agisca, come a Shanghai già hanno iniziato a fare, rimuovendo o attenuando gli ostacoli alla natalità. Introdotti nel 1979 per evitare un incremento eccessivo della popolazione, che era già allora intorno al miliardo di persone, vennero allora considerati parte di una strategia globale per arginare il dramma della povertà. Per un’analoga ragione di ordine economico oggi quei limiti vanno tolti, o perlomeno abbassati. Altrimenti nel 2050 la Cina avrà 438 milioni di cittadini ultrasessantenni, e 100 di età superiore agli 80. Il rapporto fra adulti in età da lavoro e pensionati diventerebbe di 1,6 a 1. Nel 1975 era di 7,7a1.
Ecco perché il governo centrale ha modificato la legge, consentendo di generare due rampolli anziché uno, se entrambi i genitori sono a loro volta figli unici. Le autorità di Shanghai sono andate oltre. Non solo consentono, ma incoraggiano, promuovono, stimolano la doppia procreazione. Avesse avuto oggi vent’anni la povera Mao Hengfeng, cittadina di Shanghai, non sarebbe andata incontro al calvario subito a partire dal 1988, quando il secondo illegale parto le costò prima il licenziamento, poi l’aborto forzato, il ricovero coatto in ospedale psichiatrico, e infine la prigionia in un campo di lavoro e di rieducazione.
Un caso limite. Oggi in quella città la vittima di tante vessazioni verrebbe quasi additata a modello civico da imitare. All’epoca invece chi sgarrava incappava come minimo in sanzioni finanziarie pesanti. Esenzioni venivano riservate solo alle minoranze etniche, mentre nelle zone rurali era ammessa una seconda gravidanza solo se la prima aveva avuto un esito femminile. Altrimenti, guai a raddoppiare.
Fatta la legge però, come si suol dire, trovato l’inganno. Le cronache regalano esempi di stratagemmi complicati e dispendiosi, rispetto ai quali l’espediente chimico delle mamme di Shuiniu sta come il triciclo all’aeroplano. Si può avere un figlio dalla propria moglie e uno da ciascuna delle proprie amanti. Naturalmente bisogna anche avere denaro a sufficienza per mantenere tante diverse famiglie. Oppure si può inanellare una serie di nozze e divorzi in successione, magari fittizi, cosicché da ogni temporaneo matrimonio origini il diritto ad una procreazione.
Se la prospettiva di unioni multiple o incrociate non si concilia con l’aspirazione ad un’esistenza emotivamente armoniosa o cozza con le proprie disponibilità finanziarie, ecco una soluzione relativamente meno costosa: un viaggio a Hong Kong. L’ex-colonia britannica è da anni ricongiunta alla madrepatria, ma l’autonomia di cui gode la sottrae a certi vincoli giuridici. L’agente immobiliare pechinese Xiao ha pagato l’equivalente di 4000 dollari per recarsi colà assieme alla consorte gravida, e soggiornarvi sino al giorno del parto ed alla certificazione in loco della nascita.
Ci sono poi altri sistemi, che comportano la collaborazione di funzionari disposti a lasciarsi corrompere. Il primo figlio, ad esempio, viene falsamente dichiarato disabile. In quel caso la legge consente di averne un secondo.
Più frequente è il trucco dei falsi gemelli. Un bambino venuto alla luce anni dopo il fratello, viene registrato all’anagrafe come suo gemello. Il metodo è piuttosto diffuso a Canton e dintorni, tanto che alle mamme in dolce attesa è comune rivolgersi scherzosamente così: «Questo è il primo, o il suo gemello»? Una barzelletta destinata ad andare presto fuori moda, se Canton seguirà la strada di Shanghai. ❖

l’Unità 8.10.09
Prato, ticket per poter vivere nelle baracche
Il Comune di centrodestra: «Un euro al giorno». L’Arci: «Misura illegittima» E poi scatta il blitz con tanto di elicottero e paracadutisti nei tre campi
di Vladimiro Frulletti


FIRENZE. Presto i circa 200 nomadi, Rom e Sinti, che vivono in tre campi attorno a Prato potrebbero vedersi chiedere dal Comune il biglietto (un euro al giorno ogni adulto) per vivere nelle proprie baracche. E chi non paga sarà mandato via. Nel frattempo, con un vero e proprio blitz, aiutati da un elicottero e dai parà della Folgore, ieri le forze dell’ordine li hanno tutti schedati. Identificate 180 persone. Otto persone sono state allontanate, così come è stata mandata via da un parcheggio una carovana di 20 nomadi.
L’idea del ticket è della giunta di centrodestra guidata da Maurizio Cenni, che lo scorso giugno ha conquistato la città toscana dopo 63 anni di governo delle sinistre anche sull’onda di una violenta polemica anti-immigrati, soprattutto cinesi. «Un euro è una cifra che non scomoda nessuno spiega l’assessore all’immigrazione Giorgio Silli del Pdl , e aiuta il Comune a ripagare le spese». Ma per il responsabile nazionale Arci per i Rom e i Sinti, Roberto Ermanni, si tratta di una misura «illegale» contro cui «siamo pronti a sostenere chi vorrà fare causa».
Illegale perché «non si può essere costretti a pagare un’affitto per baracche o roulotte». Ermanni sta portando avanti un progetto, assieme alla Caritas e alla Regione Toscana, per l’inserimento dei Rom e dei Sinti: già 200 persone vivono in case, pagano l’affitto e lavorano. E 5 campi non ci sono più. Anche perché sebbene la Ue e fondazioni come quella di George Soros (Open Society Institute) diano risorse per i loro inserimento (soldi per case e progetti) spesso vincono i pregiudizi razziali «e i Comuni non fanno nemmeno le domande». Magari Prato potrebbe provarci. Anche perché in città, spiega Ermanni, «nei campi ci sono soprattutto Sinti, cittadini italiani da una sessantina d’anni. Più volte hanno provato a accedere alla graduatorie per le case popolari, ma sempre senza alcun esito». Ma forse il ticket di 1 euro è un regalo (propagandistico) che il sindaco Cenni fa alla Lega che sta reclamando a gran voce un assessore. Nel nuovo regolamento per la gestione dei campi nomadi (quello attualmente in vigore è del 1999) è anche stabilito che ognuno abbia un tesserino (con foto) di rico-
noscimento, che le entrate e le uscite dal campo siano registrate e che le famiglie residenti paghino anche le spese per la raccolta dei rifiuti e per acqua, luce e gas (già stabilito nel regolamento del ’99). È poi previsto che un apposito comitato dovrà controllare non solo sul rispetto dell’obbligo scolastico da parte dei minori, ma anche sulla volontà degli adulti di trovarsi un lavoro: chi rifiuta per due volte un a proposta se ne dovrà andare via dal campo. Per Ermanni queste persone sono «discriminate» e costrette a vivere in un «regime di apartheid. «E possibile si domanda che si decida delle loro vite senza sentire nemmeno il bisogno di sapere cosa ne pensano. Con chi altri lo farebbero?». ❖

l’Unità 8.10.09
Niente congelamento dell’atto, dopo le proteste di alcuni consiglieri
Vani gli strali lanciati dalla Diocesi: PalazzoVecchio va avanti
Biotestamento, entro un mese sarà pronto il registro
di Tommaso Galgani


Claudia Livi
«Non ci sarà nessun conflitto fra giunta e consiglio comunale. Il consiglio comunale è sovrano»: è l’impegno del vicesindaco Nardella. Contro l’ipotesi «congelamento» dell’atto si era alzato un fuoco di fila da sinistra.

Registro comunale per il testamento biologico, al massimo tra un mese a Firenze sarà possibile iscriversi. L’ipotesi di «congelarne» l’istituzione, approvata dal consiglio comunale di lunedì, e aspettare prima la legge in materia che sta per varare il parlamento, è stata fugata da Palazzo Vecchio. Conseguentemente, visto che la giunta ha un mese di tempo per recepire l’indirizzo del consiglio comunale, tra trenta giorni per ogni fiorentino sarà possibile, se lo vuole, depositare in Comune il proprio biotestamento. Palazzo Vecchio, dunque, va avanti nonostante i «non possumus» della Diocesi.
NIENTE «CONGELAMENTI»
Il vicesindaco Dario Nardella aveva spiegato, a caldo, dopo il pronunciamento del consiglio comunale sul fine vita: «Prendiamo atto. Il consiglio è sovrano su funzioni di questa natura, anche se l’attuazione di uno strumento amministrativo del genere sarebbe più praticabile in un quadro legislativo già definito, soprattutto in un settore così complesso e delicato e attualmente privo, appunto, di una disciplina normativa statale». Ma contro l’idea di congelare tutto e aspettare il parlamento si era alzato un vero e proprio fuoco di fila. «Smentire con chiarezza e con urgenza le voci secondo le quali la giunta si accingerebbe a congelare l’attuazione della delibera sul testamento biologico approvata dal consiglio», ha detto il presidente della commissione affari istituzionali di Palazzo Vecchio Valdo Spini, aggiungendo: «Non voglio credere a queste voci, che creerebbero un conflitto istituzionale giunta-consiglio comunale molto grave e preoccupante». Sempre Spini, insieme a Tommaso Grassi (consigliere comunale proprio della lista Spini), lunedì aveva chiesto alla giunta di «provvedere tempestivamente a mettere in atto tutti i provvedimenti necessari per attivare il registro dei testamenti biologici, al massimo in una settimana». I due rincaravano la dose: «Il Comune deve fare pressioni politiche perché la legge in discussione in Parlamento sia modificata, tramutando una legge che fa valere “l’etica di Stato”, alla quale tutti devono adeguarsi, in una legge che possa accogliere l’espressione, a precise condizioni, di scelte diverse personali ed inviolabili». Se anche Eros Cruccolini (la Sinistra) evoca «l’esigenza di evitare scontri tra consiglio comunale e giunta», pur avendo fiducia che «non ci saranno», è intervenuto sul tema anche Mauro Romanelli, segretario regionale dei Verdi: «Non vorremmo che, come per i funerali laici, la vittoria politica in consiglio comunale rimanesse lettera morta. La giunta applichi subito i voleri del consiglio e istituisca il registro». Poi, è arrivato Nardella a fugare le perplessità. Annunciando un pronto impegno dell’amministrazione: «Non esiste alcun conflitto fra giunta e consiglio comunale, così come non esiste alcun intento di “congelare” la delibera che istituisce il registro dei testamenti biologici. Come ho già detto e ribadisco, il consiglio comunale è sovrano».
IN 4MILA “LIBERI DI DECIDERE”
Intanto, l’associazione “Liberi di decidere”, che da mesi mette a disposizione di chi vuole un notaio che redige i testamenti biologici e che ha salutato con soddisfazione l’atto votato dal consiglio comunale, da sabato riaprirà i propri gazebo nelle strade cittadine per offrire questa opportunità. A Firenze già in 4mila con “Liberi di decidere” hanno autenticato il proprio biotestamento. Molti di questi finiranno di sicuro nel registro comunale.❖

Corriere Fiorentino 8.10.09
L’intervista. Il professor Lombardi Vallauri, ordinario di filosofia del diritto
«Il problema non è la Chiesa ma la politica sottomessa»
intervista di David Allegranti


Luigi Lombardi Vallauri, ordina­rio di filosofia del diritto all’Uni­versità di Firenze, è, fra le tante cose di cui si occupa, un attento studioso di bioetica. Da mesi non legge «cose che riguardano l’Italia e la politica italiana, come misura elementare di igiene mentale». Sollecitato, fa un’eccezione con gli articoli sul registro fiorentino del testamento biologico.
Professore, dopo la nota del­l’Arcidiocesi sul voto di lunedì in consiglio comunale, c’è chi ha parlato di nuovo di ingerenza della Chiesa in fatti che non la ri­guardano. Secondo lei sono le­gittimi gli attacchi della Curia?
«Penso che la Chiesa, come tutti, abbia diritto di parlare, e chiunque parla è tutelato dalla libertà di ma­nifestazione del pensiero. Quando io dico quello che penso nessuno lo chiama ingerenza, perché a quel­lo che io dico non c’è acquiescen­za; una manifestazione di pensiero diventa cioè ingerenza non per col­pa di chi parla, ma per colpa di chi segue. Il vero problema non è che la Chiesa manifesti le sue opinioni, ma che ci siano dei politici dipen­denti. Ingerenza è sinonimo di di­pendenza, e non ci sarebbe inge­renza se ci fosse indipendenza. Gandhi aveva una frase molto bel­la: dire un tiranno e dire mille vi­gliacchi è dire esattamente a stessa cosa. In questa fase la Chiesa non potendo più parlare di oggetti dog­matici, trascendenti, si sta riducen­do a una strana politica: erogare sensi di colpa per poter erogare presunte vie di giustificazione, ero­gare perdizione per poter erogare salvezza, erogare peccati per poter vendere assoluzioni. Praticamente la Chiesa è diventata una specie di altoparlante di etica colpevolizzan­te. Questo mostra che è in profon­dissimo imbarazzo».
Al di là delle competenze di Co­mune e Parlamento, di cui pure si è molto discusso, c’è una que­stione di merito sull’istituzione del registro dei biotestamenti. Lei che ne pensa?
«Prima facie , istituire un regi­stro sembra un atto completa­mente innocuo, un semplice stru­mento di pubblicità di atti, la cui validità o non validità giuridica è del tutto indipendente dalla regi­strazione. Nessuno credo preten­de che per il fatto di essere regi­strati, questi testamenti acquisti­no efficacia giuridica maggiore, e quindi bisognerà in ogni caso ri­salire agli atti compiuti presso i notai o altri fiduciari, anche per­ché, se ho ben capito, il registro non ne riprodurrà il contenuto. Dirà solo che il signor X ha fatto testamento biologico e quindi sa­rà impossibile conoscere il conte­nuto di questo testamento, an­dando a vedere nel registro. Dun­que è semplicemente una forma di pubblicità, ripeto, apparente­mente innocua, che facilita l’inda­gine volta al reperimento poi del documento che conta. Ma c’è un livello molto più interessante».
Quale?
«Il problema della legittimità etica e giuridica di questi atti, e cioè del testamento biologico. L’espressione di volontà concer­nente l’ultima fase della vita: il problema è anzitutto etico e poi giuridico. Eticamente devo dire che se l’etica è universalmente condivisibile, come lo sono la ma­tematica e la fisica, allora il prove­nire da un’autorità è senza alcun effetto; Dio non ha compiuto rive­lazioni matematiche e fisiche, e di­rei che se l’etica è universale deve essere anch’essa separata da prin­cipi di autorità. L’etica non conta per chi la emana, fosse anche Dio — e Dio nella storia ne ha dette eticamente di tutti i colori — ma dipende dagli argomenti a favore delle tesi; essa non può essere quindi che laica, come laica è la matematica».
E quindi?
«Se argomentiamo, ho molta difficoltà a pensare che mentre su tutte le fasi della vita la persona ha il diritto-dovere di decidere, questo diritto-dovere cessi di fronte all’ultima fase. Io simpatiz­zo molto con la tesi secondo cui l’ultima fase è come tutte le fasi precedenti e quindi la persona ha il diritto-dovere di organizzarse­la, anche molto prima che si pon­ga il problema eutanasia sì, euta­nasia no. Io vedo la persona, o il suo fiduciario, come un regista dell’ultima fase di cui il medico è semplicemente un attore. E quin­di le dichiarazioni anticipate mi sembrano della stessa natura del testamento normale».
Dunque lei è a favore del testa­mento biologico? Perché?
«Ritengo che gli argomenti a fa­vore del testamento biologico sia­no molto più forti di quelli con­tro, e qui nasce il problema della traduzione dell’etica in termini giuridici; quando si passa al dirit­to, non è affatto detto che si pos­sa trapiantare di sana pianta l’eti­ca in quanto tale. Il diritto si rivol­ge in modo coercitivo a collettivi­tà nelle quali ci possono essere etiche di coscienza diverse e quin­di si pone un problema di consen­so e di tutela delle minoranze. Questo problema non può non es­sere risolto a partire dal principio di libertà. Chiunque limiti la liber­tà di un cittadino ha su di sé l’one­re della prova».
Cioè?
«Deve avere argomenti a favore della limitazione della libertà più forti del valore libertà come tale. Ed è molto difficile trovare argo­menti che non consistano nella di­fesa di altrui libertà minacciate da certi esercizi della mia libertà. Ora in questo caso è ben difficile vede­re quali libertà altrui siano minac­ciate dall’esercizio di questa mia li­bertà sull’ultima fase della mia vi­ta. Quindi ritengo che una tradu­zione giuridica esplicita del princi­pio di libertà e cioè una legittima­zione giuridica del testamento bio­logico sia la soluzione più giusta».

Corriere Fiorentino 8.10.09
Dopo il voto in Comune. La testimonianza della direttrice di neurorianimazione, Innocenti
Proposta: biotestamenti nelle cartelle cliniche
La commissione etica alla Regione: faciliterebbe il rapporto tra medico e paziente
di Alessio Gaggioli


3.000. I testamenti biologici firmati davanti a un notaio, a Firenze, dall’inizio della campagna di «Liberi di decidere». Sabato tornano i banchini in piazza
50. I Comuni italiani che hanno almeno avviato il percorso verso il riconoscimento del testamento biologico, secondo l’associazione Luca Coscioni

Il testamento biologico nelle cartel­le cliniche. È la proposta che la com­missione regionale di bioetica formu­lerà all’assessorato alla salute della Re­gione. Della cosa se n’è discusso an­che nei giorni scorsi, in una delle tan­te sedute della commissione, «ma ne parliamo da tempo», spiega la vicepre­sidente Maria Gabriella Orsi: «Si stan­no facendo le cartelle informatizzate, ma secondo noi al loro interno manca­no tre dati fondamentali. Il numero del medico curante del paziente, il no­me e il cellulare della persona di riferi­mento o di fiducia a cui è stato delega­to l’onere di confrontarsi con il medi­co e per ultimo le dichiarazioni del pa­ziente, le sue volontà; da quelle più semplici, che so, essere un donatore di organi o un testimone di Geova, ai temi più complessi come il fine vita o il testamento biologico».
Inserire queste «notizie» nelle car­telle cliniche, secondo la Orsi (che fa anche parte del gruppo di Pontignano l’associazione nata nel 2002, patroci­nata dalla Regione, che da 7 anni si oc­cupa di bioetica e fine vita) dovrebbe facilitare il rapporto medico-paziente: «La cartella — dice — è lo strumento più importante. Chiunque deve poter esprimere le proprie volontà e con le dichiarazioni del paziente scritte e fo­tocopiate il medico non potrà più dire 'io non sapevo'». Di testamento biolo­gico, di tutte le questioni legate al te­ma del fine vita, parla anche la dotto­ressa Paola Innocenti, direttrice del­l’unità di neurorianimazione di Careg­gi. Un reparto dove medici, infermie­ri, pazienti e famiglie hanno tutti i giorni a che fare con il dolore, l’ango­scia e l’incubo di una vita senza spe­ranza: «Le volontà in merito ai tratta­menti espresse in forma scritta dai pa­zienti sarebbero per noi una cosa mol­to utile: ci aiuterebbe nel nostro lavo­ro indipendentemente da qualunque legge. Ci aiuterebbe — spiega la dotto­ressa — perché consentirebbe di capi­re la reale volontà del paziente. Per­ché dove il testamento biologico è ri­conosciuto (nella maggior parte dei Paesi) non risolve tutti i problemi, ma aiuta il medico ad affrontarne alcuni in modo più consapevole e rispetto­so ».
Nel reparto diretto da Paola Inno­centi, la prima cosa da fare è garantire la sopravvivenza e dare una prognosi ai pazienti che spesso hanno subito un grave danno cerebrale ed arrivano già in coma. «E in quel caso, superata la fase dell’emergenza, ci preoccupia­mo di indagare con la famiglia e le per­sone a lui più vicine se siano state re­datte direttive anticipate rispetto ai trattamenti. Lo facciamo per capire nei limiti del possibile come avrebbe risposto quel paziente a trattamenti molto invasivi nel caso questi non avessero possibilità di successo». E quando è chiaro che l’esito sarà infau­sto «e che i nostri trattamenti potreb­bero essere futili allora ci confrontia­mo con la famiglia. Non sa quante vol­te ci troviamo di fronte ai parenti che ci dicono 'mio fratello o mia sorella non avrebbe mai accettato di essere tracheotomizzato'. E in questi casi cer­chiamo di attenerci alla volontà del fa­miliare ». Ma come si lavora in un qua­dro normativo così complesso? «Ci muoviamo con grande difficoltà, la legge attuale è poco chiara. Al momen­to, il consenso o meno ai trattamenti è valido solo per i pazienti in grado di decidere. Quando sono incoscienti se non interveniamo corriamo il rischio di finire sotto inchiesta penale. Faccio l’esempio di Piergiorgio Welby: da co­sciente chiese di non essere tracheoto­mizzato, anche se questo non lo avreb­be fatto vivere. Ma quando perse co­scienza il suo desiderio non fu asse­condato ». Nel reparto della Innocenti si è verificata una situazione simile: «Un paziente ci disse: 'Se smetto di re­spirare non mi intubate'. Abbiamo cercato di convincerlo che l’intubazio­ne lo avrebbe fatto sopravvivere, ma spiegato che non potevamo garantir­gli miglioramenti. E lui ha detto no; noi, rispettando la sua volontà, non lo abbiamo fatto». Il paziente ha scelto, e poi è deceduto «naturalmente», con­clude la dottoressa. «Il momento delle scelte difficili da noi c’è sempre. Per questo è fondamentale il rapporto con la famiglia perché per interrompe­re trattamenti che possono essere futi­li (e che ci impone di fermare il nostro codice deontologico) dobbiamo avere una grande condivisone con le perso­ne di fiducia del paziente. Per questo abbiamo eliminato gli orari di visita, qui i familiari vengono sempre. È un doppio scambio. Noi diamo informa­zioni a loro e loro a noi sulla persona ricoverata che riacquista la dimensio­ne di una persona malata e non di un corpo malato».

Liberazione 7.10.09
Cicchitto, ci eravamo tanto amati
Metamorfosi di un socialista
di Maria R. Calderoni


C’eravamo tanto amati (politicamente). Avevamo un carissimo amico in comune, un giornalista dell' Avanti scomparso ormai parecchi anni fa, si chiamava Giorgio Lauzi, lombardiano di ferro, come lui, Fabrizio. E mi piaceva frequentarli, quei due socialisti amici di noi comunisti, in quegli anni, fine anni 60-inizio 70. E lui, Fabrizio, era simpatico, spiritoso, e per niente conformista. Anzi, reattivo, dotato di spirito critico. Quando lo conobbi era già ai piani direttivi della Cgil, molto stimato nell'entourage sindacale socialista di allora, e in odore di enfant prodige. Pupillo di Riccardo Lombardi, insomma un giovane socialista-di-sinistra assai promettente, in rampa. E stimato. E uno-di-noi.
Del resto, aveva tutte le "carte", nemmeno una piega. Una biografia doc. Laureato in giurisprudenza a 22 anni (è del '40), specializzazione in economia, segretario della Federazione giovanile socialista, nel Psi è acceso aderente della corrente lombardiana, filocomunista, sostenitore della politica del compromesso storico, nemico dichiarato di quella perfida e potente Dc che, ferrea alleata del Patto Atlantico e degli Usa, è l'inespugnabile bastione della conventio ad excludendum che impedisce al Pci ogni partecipazione al governo dell'Italia. Begli anni di lotta comune, noi e quei socialisti "buoni", coi quali si condividevano battaglie ed ideali. E lui che era già una testa d'uovo, giovanissimo autore di libri, convincente relatore alla Conferenza nazionale operaia nel 1977 a Torino e deputato per il Psi nella VII legislatura, sugli stessi banchi di Riccardo Lombardi, il suo grande sponsor.
Fabrizio Cicchitto va. Fino a quel giorno del 1981, quando la lista P2 salta fuori da Castiglion Fibocchi e tra gli iscritti c'è anche il suo nome, "iniziazione" 12 dicembre 1980, tessera n. 2232. Fabrizio Cicchitto, proprio lui, il socialista di sinistra, il fedelissimo lombardiano. E' un fulmine, un vero scandalo. A Lombardi quasi gli viene un colpo: molto turbato, gli chiede di lasciare il Psi e di ritirarsi in penitenza. E' un momento tristissimo per Cicchitto, è angosciato e smarrito, confessa e si dichiara pentito. Oggi che è potente se la ride e schernisce: «Perché mi sono iscritto alla P2? - ha risposto a chi recentemente gli ha fatto la domanda - Perché sotto Natale vi si facevano tombolate fantastiche». Ma allora era tutt'altro che spavaldo e faceva pubbliche professioni di ammenda, anche "sincere". «Errore molto grave, quello che ho fatto, indubbiamente - scrive al tempo - ho aderito ad una realtà che era espressione del potere dominante e delle distorsioni conseguenti. E non mi sfugge che con l'errore commesso rischio di annullare la credibilità di circa vent'anni di milizia politica».
Infatti non è perdonato e la sua quarantena nel Psi dura fino all'86, quando Craxi lo riammette. Ha imparato la lezione, non si farà "beccare" mai più.
D'ora in avanti starà, certo, con il potere, ma con gli "attrezzi" giusti. Addio Lombardi & C., «Se in politica è lecito essere furbi, non è consentito essere fessi», già «e oltre Palazzeschi e Dossi, avrei fatto bene a leggere più Machiavelli».
Cambia, trascolora. Diventa craxiano abbastanza rapidamente, e poi, dopo il dissolvimento del Psi nel cataclisma di Tangentopoli, percorre tutta la china degli orfani del leader emigrato ad Hammamet. Orfani niente affatto rassegnati al paradiso perduto, al potere raggiunto e svanito. Nel '94 con Enrico Manca fonda il Psr (Partito socialista riformista); successivamente aderisce al Partito socialista di Gianni De Michelis. Ma non c'è trippa per gatti, così nel 1999 ci dà un taglio e, inseguendo Machiavelli, toh, trova Berlusconi.
Dieci anni di irresistibile ascesa, gli altri craxiani dispersi e in discesa, invece lui in primo piano e in salita. Scala rapidamente i gradi dentro Forza Italia, il suo nuovo partito: immarcescibile deputato (è ormai alla quinta legislatura filata), coordinatore azzurro nazionale, capogruppo parlamentare del Pdl. Inseguendo Machiavelli, è diventato mandarino, ben piantato dentro il "primo" girone, quello più contiguo a Berlusconi; ed hic manebimus optime.
Mai senza Cicchitto. In Aula non è proprio un gran presenzialista, ma nella sua veste di proconsole berlusconide è indefesso, dedito, sempre sul posto. Con Niccolò Ghedini si batte con onore per la medaglia di primo della classe.
Gli è venuta una vera faccia da telegiornale, all'ex bravo ragazzo lombardiano: il primo e il più oltranzista "dichiaratore" del ramo Pdl. Chi ha gridato, chi grida più forte? Lui, lo abbiamo testé sentito. Suona la carica. La manifestazione sulla libertà di stampa lo manda fuori dai gangheri. «Ma che vogliono? Ma di cosa si lamentano? Otto talk show su nove sono contro il governo, la stragrande maggioranza dei giornali sono autonomi e liberi». Sostiene Cicchitto. Non finisce qui, il prode va più in là, prende posizione. Sente odore di golpe (non è la prima volta) e si impenna. Scendiamo in piazza. Qui ci vuole «una grande manifestazione popolare»; lui chiama alle armi «per contrastare l'attacco concentrico che è in atto contro Berlusconi sul piano giudiziario, finanziario, editoriale». Chi c'è dietro la D'Addario? E dietro lo scudo fiscale? E dietro Casoria? E dietro il lodo Mondadori? E vieppiù, dietro il lodo Alfano? All'armi, «ci si può aspettare di tutto», Cicchitto va alla guerra (anche se non sono pochi anche nel suo giro a cercare di calmarne i bollenti spiriti). L'Impero vacilla, ma non lui e non da adesso. «Siamo di fronte al tentativo eversivo operato da Repubblica , che è quello di lavorare per rovesciare il legittimo risultato elettorale del 13 aprile 2008 usando tutti i mezzi possibili al di fuori della normale lotta politica», scrive sul Giornale . Non un trasalimento, neppure un battito di ciglia.
C'è poi la magistratura-canaglia. «Siccome "lor signori" non sono riusciti nel 1994 ad abbattere Berlusconi con l'invio di un avviso di garanzia attraverso il Corriere della Sera ; poi attraverso le "rivelazioni" della contessina Ariosto alla vigilia delle elezioni del 1996, adesso si buttano addosso alla sua vita privata». Quanto all'affaire Mondadori, si tratta di «una sentenza dalle proporzioni inusitate ben studiata anche nei tempi», di cui, ovviamente il beneficiario è De Benedetti», il mandante. Magistratura-canaglia, ovvero «l'uso politico della giustizia fatto dai settori politicizzati della magistratura di intesa con una parte della sinistra», allo scopo di «screditare e perfino demonizzare gli avversari politici».
Cicchitto va alla guerra. Berlusconi o morte.

Repubblica 8.10.09
Stonehenge
Portato alla luce un nuovo sito: Bluestonehenge, risalente al 3.000 a.C
di Cinzia Dal Maso


Aveva 25 massi in formazione circolare Per gli studiosi inglesi il ritrovamento conferma la funzione funeraria dell´insediamento neolitico sull´Avon Scoperto il cerchio "gemello" che svela il mistero più antico Nei buchi sono stati rinvenuti residui di carbonella "Qui si cremavano i corpi dei defunti"

L´hanno già battezzato Bluestonehenge, la Stonehenge blu. È un nuovo circolo di pietre scoperto a poca distanza dal monumento preistorico più famoso al mondo. Una scoperta epocale, si è subito detto. Incredibile. E costringerà a nuove riletture e nuove ipotesi anche su Stonehenge.
Gli scopritori, però, hanno già le idee chiare. Sono gli archeologi di sei università riuniti nello Stonehenge Riverside Project diretto da Mike Parker-Pearsons dell´Università di Sheffield. Dal 2003 indagano la piana del fiume Avon per dimostrare che Stonehenge fu un grande cimitero, e la tappa finale di un complesso rituale funebre che conduceva i defunti da Durrington Walls, enorme terrapieno con circoli di pali di legno dove si svolgevano feste e banchetti funebri, fino al fiume Avon e poi da questo a Stonehenge lungo la via processionale di 2,8 chilometri chiamata Avenue. Dal regno dei vivi, costruito ancora in vivo legno, il defunto passava dunque attraverso il fiume al regno dei morti di dura e gelida pietra.
Bluestonehenge s´inserisce a perfezione in questo quadro. È situato infatti sulla riva del fiume Avon all´attacco della Avenue, proprio dove, secondo Parker-Pearsons, i defunti terminavano la navigazione fluviale. Gli archeologi hanno trovato solo le fosse che ospitavano le pietre del circolo, venticinque fosse per un diametro di 10 metri. Ma le pietre erano a loro volta circondate da un fossato e un terrapieno. Ed erano pietre molto speciali: le bluestones, le "pietre blu", massi di dolerite (roccia vulcanica dai riflessi bluastri) alti quasi due metri e pesanti fino a 4 tonnellate ciascuno. Quelle che oggi si vedono a Stonehenge e che furono portate dalle Preseli Mountains nel Galles con un viaggio di oltre 350 chilometri.
Un viaggio faticosissimo. Secondo Parker-Pearsons, si fece già nel 3.000 a.C., circa 500 anni prima della data finora accettata dagli studiosi. Allora, sostiene l´esperto, si trasportarono un´ottantina di queste pietre particolari per costruire due circoli di 25 e 56 pietre, Bluestonehenge e Stonehenge. Del primo si attendono ancora le datazioni ufficiali ma i pochi oggetti trovati indicano proprio il 3.000 a.C. Di Stonehenge, invece, si conoscono da tempo le 56 fosse di un primo circolo mai compiutamente descritto. Poi, probabilmente cinquecento anni dopo, Bluestonehenge fu smantellato, le sue pietre portate a Stonehenge e unite alle altre nella composizione di 80 pietre che noi conosciamo. Dunque, tutto combacia.
Del resto a Bluestonehenge, nelle fosse lasciate dalle pietre, gli archeologi hanno trovato tantissima carbonella. Per Parker-Pearsons è la prova che questo sito «era il luogo di cremazione dei defunti prima che le loro ceneri venissero sepolte a Stonehenge». Azzarda, ma in fondo ci crede.

Repubblica 8.10.09
Tremate le streghe son tornate
intervista a Martha Nussbaum di Alessandro Lanni


Il femminismo non è morto Gli Usa restano un paese sessista, ma molte speranze sono affidate a persone come Sonia Gandhi Parla la filosofa Martha Nussbaum
"La leader indiana è un´oratrice magnifica. E si schiera con i poveri e gli emarginati"

Anticipiamo parte di un´intervista a Martha Nussbaum che compare sul nuovo numero di Reset in libreria in questi giorni

Il femminismo non è morto. Anzi, per molti versi ha vinto numerose battaglie negli ultimi decenni. Ma ora è tempo che cambi marcia e registro. Meno ideologia e nuovi obiettivi dettati da un mondo trasformato. Martha Nussbaum, filosofa della politica tra le più note ed esponente storica del movimento femminista, con realismo vede il bicchiere delle conquiste delle donne riempito per metà. È ora, spiega in questa intervista, di colmare il gap e soprattutto la politica è il campo nel quale c´è più da fare. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Libertà di coscienza e religione (il Mulino). Nel febbraio del prossimo anno uscirà From Disgust to Humanity: Sexual Orientation and Constitutional Law.
«In ogni area delle nostre vite – spiega Nussbaum – il femminismo ha realizzato progressi. Eccetto che nella politica». Senza arrivare alle degenarazioni dell´Italia («Berlusconi è un vostro problema», dice) e malgrado si siano imposte negli ultimi mesi figure carismatiche come Michelle Obama e Hillary Clinton, anche negli Usa il numero delle donne in politica rimane lo stesso di quello degli anni Sessanta.
Nel nuovo orizzonte multiculturale nuove figure di donne politiche devono nascere, capaci di unire e non di dividere, magari al modo di una donna che Martha Nussbaum conosce bene: Sonia Gandhi.
Il femminismo per il XXI secolo è alla ricerca di nuove idee e di nuove icone. Sonia Gandhi può essere un modello globale per le donne in politica?
«Sonia Gandhi – e prima di lei Indira – ha raggiunto il potere grazie alla famiglia. Nessuno lo può negare. Entrambe, tuttavia, hanno dimostrato di essere leader incredibilmente competenti. Indira può essere criticata perché non ha tenuto conto abbastanza dei diritti civili. Ma Sonia ha imparato dagli errori di sua suocera, non ne ha né lo stile arroccato né le paranoie».
In cosa è originale Sonia?
«È contenta di condividere il potere e anche di cederlo. La sua decisione di farsi da parte e non essere Primo ministro nel 2004 è stata nobile e anche molto utile all´India. Insieme a Manmohan Singh sono un ottimo team: lui governa dal centro, lei si occupa degli interessi dei poveri e degli emarginati. Singh non è certo un politico carismatico, per questo è fondamentale che Sonia sia un´oratrice magnifica e abbia un´abilità particolare nell´entrare in contatto con la gente normale e comprendendone le esigenze».
In questo momento nella Ue c´è solo un leader politico donna, Angela Merkel, un po´ poco, non trova?
«È vero, senza contare il presidente della Finlandia che non è Primo ministro ma ha un potere considerevole. Però è anche vero che Inghilterra, Polonia, Norvegia, Finlandia e Francia hanno avuto donne capo di Stato, come Canada, Nuova Zelanda, Pakistan, India, Bangladesh, Turchia, Israele, Sry Lanka, Filippine, Mongolia, Argentina, Islanda, Rwanda, Burundi, Bermuda, Mozambico, Giamaica, Nicaragua, Repubblica dominicana, Malta e Liberia. Non è poco».
E gli Stati Uniti?
«Me lo chiedo spesso. Perché siamo così indietro rispetto a molti altri paesi. Certamente per una donna è più semplice arrivare al potere in un sistema parlamentare piuttosto che in uno come il nostro, nel quale il presidente deve compiere una gara di popolarità. Ma gli Usa rimangono uno Stato tra i più sessisti al mondo, nel quale sono messe in discussione le capacità di leadership delle donne».
Il movimento femminista sembra aver perso la spinta che aveva in passato. Si è esaurito un modello di lotta politica?
«Non credo che il femminismo sia esaurito. Se si guarda ai dati, nel mondo c´è un enorme miglioramento nell´istruzione femminile, nella salute delle donne, nella mortalità per parto. Ovviamente, esistono ancora grandi problemi. Per esempio, l´amniocentesi ha provocato una crescita degli aborti selettivi in molte nazioni. Esistono ancora molte battaglie da combattere. In numerose nazioni, le leggi sullo stupro e sulla violenza domestica sono inadeguate, addirittura più di quanto lo erano qualche anno fa. Tuttavia, l´opposizione alla discriminazione sessuale, alle molestie nei luoghi di lavoro ha prodotto un sensibile cambiamento nelle leggi e nella vita stessa».
Parliamo di donne e religione. Un fronte relativamente nuovo per il femminismo è l´ingresso delle donne in posizioni di potere nelle grandi fedi.
«Anche in questo ambito ci sono dei recenti cambiamenti negli Stati Uniti. Più del 50 per cento dei rabbini riformati ora sono donne. Il vescovo a capo della Chiesa anglicana degli Usa è una donna. Il clero femminile supererà presto quello maschile in ogni religione esclusa la Chiesa cattolica, nella quale il rifiuto per le donne prete sta portando a una crisi, per la quale i ragazzi americani non vogliono più prendere i voti e tutti i nuovi sacerdoti arrivano da Africa e Sud America e sono fuori dal contesto della società Usa. Così, ogni Chiesa che vuole per sé un futuro sano farebbe bene a coinvolgere le donne!».
Insomma, il gender gap lentamente si sta riducendo anche negli Usa.
«Oggi, gli studenti di legge sono negli Usa per metà donne. In ogni area delle nostre vite, il femminismo ha realizzato progressi. Quando ero studentessa nelle università dell´Ivy League non c´era neanche un preside donna. Ora sono la maggioranza: Princeton, Penn, Harvard, Brown. Un cambiamento c´è stato ovunque eccetto che nella politica. Si pensi che ci sono solo poche senatrici in più rispetto al passato e che non ci sono mai state più di due donne tra i nove membri della Corte suprema e, naturalmente, non c´è mai stato una presidente o una vice-presidente del mio paese».

Corriere della Sera 8.10.09
Sono 500 le opere tra quadri, collage, ready made
Dada/Surrealismo. Avanguardia continua
Così diversi e così legati fra loro: viaggio tra i movimenti che hanno segnato il ’900
di Edoardo Sassi


L’intento è di presentare anche artisti meno conosciuti ma importanti per l’etica e l’estetica
Il sogno americano Il primo rese astratti gli oggetti del consumismo, il secondo anticipò l’era del pop

Più di cinquecento opere esposte — quadri, sculture, collage, assemblaggi, ready ma­de, documenti — e duecento arti­sti in mostra per tentare di rac­contare in un’unica esposizione due tra le avanguardie artisti­co- letterarie più importanti (complesse, ed eversive) della prima metà del Novecento, Da­daismo e Surrealismo.
Questo il compito, piuttosto ambizioso, della mostra che apre al pubblico domani (e fino al 7 febbraio) nei saloni del Comples­so del Vittoriano a Roma. Una mostra tutta allestita nel segno del suo curatore, quell’Arturo Schwarz, classe 1924, che dei sur­realisti in particolare, negli ulti­mi anni (André Breton, leader del movimento, morì a Parigi nel 1966) fu compagno di strada, amico, collezionista ed esegeta.
Due avanguardie tanto diver­se eppur saldamente legate, tan­to che — nelle inevitabili sempli­ficazioni da manuale — la secon­da, il Surrealismo, almeno in or­dine cronologico viene spesso de­scritta come filiazione e deriva­zione della prima. Questa esposi­zione aiuta a capire in qualche modo alcune continuità, diver­genze e «premesse», a partire da un omaggio ad alcuni degli arti­sti considerati precursori dei due movimenti: Chagall, De Chirico, Kandinskij, Klee, Klinger, Gusta­ve Moreau, Munch...
Dadaisti: ribelli, anticonformi­sti, irregolari e disertori antimili­taristi in tempi di guerra mondia­le. Artisti sì, ma anarchici anche nello stile, convinti, com’erano, che la sola arte (in)utile fosse quella in grado di esprimere il senso del nulla, il vuoto, la falsi­tà di tutte le credenze convenzio­nali. A Zurigo (dove il movimen­to nacque, 1916), a New York, a Parigi, a Berlino e un po’ ovun­que in Europa, si riunirono ideal­mente sotto l’egida di una parola tanto misteriosa (ancora si discu­te sull’origine) quanto insignifi­cante: Dada («Dada non significa nulla», affermava il fondatore e leader Tristan Tzara. Dada è «abo­lizione della logica», «negazione di ogni gerarchia», «rifiuto del sesso pudibondo del comodo compromesso e della buona edu­cazione »…).
Fin dall’inizio le premesse ni­chiliste di Dada lasciavano presa­gire una sua naturale conclusio­ne: il movimento, così com’era, non ammetteva sviluppi. Ed è ve­ro che la sua eredità fu in qual­che modo raccolta dal Surreali­smo, che per certi versi però ne trasformò lo spirito a partire da­gli anni Venti, proclamando la ne­cessità di una rivoluzione socia­le, di un’ engagement filtrato da­gli interessi del gruppo per la psi­cologia freudiana (libere associa­zioni e «automatismi psichici» sono tratti salienti del movimen­­to), e con l’anarchia dada sostitui­ta, a partire dal secondo manife­sto del 1929, da un’adesione al marxismo.
Duchamp, Arp, Picabia, Man Ray, Tanguy, Ernst, Masson, Da­lì, Magritte, Mirò, Picasso... Tan­tissimi, tra i cosiddetti «giganti» del secolo, i protagonisti presen­ti in mostra, con opere a volta si­gnificative e a volte meno (ma al­cune lacune nei prestiti, in espo­sizioni collettive di questo tipo, sono pressoché inevitabili). E tanti anche i nomi meno cono­sciuti, da cui il titolo dell’esposi­zione, Dada e Surrealismo risco­perti : «Riscoperti — spiega Schwarz — perché la maggior parte delle mostre dedicate ai due movimenti si sono limitate a presentare gli artisti più cono­sciuti, dimenticando quelli che hanno invece contribuito a preci­sarne etica ed estetica. Questa esposizione vuole offrire una pa­noramica la più esaustiva possi­bile di due filosofie di vita».
Ed è questo forse il pregio (ma per qualcuno sarà un difetto) di una mostra, quantitativamente ricchissima, con un allestimento che non si limita al periodo au­reo delle due avanguardie (spin­gendosi cioè al massimo fino agli anni Trenta) ma prende in esame un arco cronologico va­stissimo (un secolo circa, fino al­le ultime mostre organizzate da Breton negli anni Sessanta), in­cludendo scissioni, deviazioni, adesioni occasionali e influenze recenti (ecco spiegato il senso di un Pollock o l’inclusione di arti­sti viventi come Lucio Del Pez­zo). Non mancano comunque, tra le opere esposte, quelle che caratterizzano, anche nell’imma­ginario collettivo, le due avan­guardie: dai «gesti» predada di Duchamp (Gioconda con baffi, orinatoio, ruota di bicicletta...) al­le invenzioni di Man Ray.

Corriere della Sera 8.10.09
Duchamp e Dalì, gli «appestati» che contagiarono New York
di Vincenzo Trione


«Io porto la peste...», affer­ma Sigmund Freud quan­do, dalla nave, vede profi­larsi all’orizzonte le coste dell’America. Non diverso deve essere stato il sentimento di Marcel Du­champ e di Salvador Dalí, quando arri­vano nel Nuovo Mondo. Per loro, gli Stati Uniti non sono simbolo del pro­gresso, né perimetro dove rifugiarsi. Sono una realtà: l’approdo, il luogo del destino. Un continente da contagiare con la forza scandalosa dell’avanguar­dia europea.
È il 1915 quando Duchamp lascia Pa­rigi — oramai simile a una dimora de­serta — per New York. Che magnificen­za: «Un lavoro d’arte assoluto». Un tri­pudio: «Somiglia alla Parigi dei vecchi tempi, sono molto felice qui», confesse­rà. Analogo l’entusiasmo di Dalí, il cui arrivo oltreoceano risale al 1934. Manhattan gli appare come un accumu­­latore, un sensazionale banchetto, av­volto in «ondate di flagranze». Atlanti­de del subconscio, sintesi delle visioni di Piranesi: non ha bisogno di essere moderna «per il solo fatto di esserlo sta­ta fin dall’inizio». Biologia in fermento, sembra essere nata per accogliere l’arti­sta spagnolo, che si chiede: «Perché hai eretto il mio monumento tanto tem­po fa, molto prima che io nascessi?».
New York è ingranaggio in azione e corpo sottoposto a metamorfosi. Pro­spettive urbane che determineranno opzioni poetiche non contigue.
Duchamp è in sintonia con l’anima impersonale e fordista dell’America. Spesso immortalato mentre gioca a scacchi a Central Park, riflette sull’iden­tità dell’opera d’arte nel tempo della ri­producibilità tecnica. Gli USA, per lui, sono il teatro ideale dove allestire una drammaturgia fondata su gesti tesi a violentare norme e consuetudini. Dagli esercizi cubo-futuristi esposti nella leg­gendaria mostra The Armony Show (te­nutasi a New York nel 1913) — connu­bio tra ritmi antropomorfi e meccaniz­zazioni — fino a una tra le più rivolu­zionarie invenzioni del Novecento, il ready-made. Servendosi di questo arti­ficio, l’artista si porta al di là di ogni manualità: preleva oggetti già fatti, si­tuandoli nei contesti museali, per cari­carli di valenze simboliche inattese. Af­ferra la realtà nel momento in cui sta per fuggire alla sua presa: sostituisce le cose ai segni che le designano. Si pensi a una tra le sue trovate più originali, eseguita in America nel 1917. Du­champ capovolge un orinatoio, lo inti­tola Fountain , firmandolo con un no­me di fantasia, Richard Mutt. Il passo successivo è costituito da un altro stra­tagemma — il pointing —, che sanci­sce la definitiva sparizione dell’opera. Duchamp indica l’Empire State Buil­ding: nell’attimo in cui punta quell’edi­ficio, se ne appropria trasformandolo in una «sua» creazione.
Diverso l’atteggiamento di Dalí. Il ca­pitano della «nave carica di matti» (per riprendere l’appellativo assegnato ai surrealisti da un critico newyorkese) aderisce alla dimensione eccentrica e coloratissima dell’America. Che, per lui, è una superficie orizzontale su cui possono entrare in collisione memorie e cinismi: l’amore per il passato e l’os­sessione per il business. Si osservi Poé­sie d’Amérique (del 1943). Un alfabeto di associazioni. Un paesaggio lunare: al centro, una torre che è anche un gratta­cielo. Di fronte, due sagome dense di echi classici. Siamo nell’arcipelago del sogno, dove ogni traccia si carica di un potere straniante. L’arte si fa emergen­za per liberare le tensioni dell’incon­scio. In alcuni dipinti, si intravede an­che uno tra gli emblemi dell’America: il dollaro (in L’apothéose du dollar , del 1965). Un’apparizione che rivela il ta­lento pre-warholiano di Dalí, il quale conosce bene i meccanismi dei mass media. Talvolta apostrofato con l’ana­gramma Avida Dollars, ha uno sfrenato desiderio di fama e di successo. In un’intervista a Oriana Fallaci, dichiare­rà di considerare le banconote come un «amplesso sessuale» e di studiare quotidianamente le «leggi che riguarda­no la pubblicità». Trasgressivo teorico del look, idolatrato dagli hippy per il suo stile psichedelico, apprezzato da Mick Jagger e John Lennon, cartoonist per Walt Disney, è più pop degli stessi artisti pop. Eccolo: inconfondibile ico­na, con i baffi a manubrio ritoccati con la matita. Scriverà: «L’unica cosa di cui il mondo non ne avrà mai abbastanza è l’esagerazione». Una frase che avrem­mo potuto trovare anche in La filosofia di Andy Warhol. Dunque, un america­no per scelta, le cui radici però affonda­no in un sofisticato archivio di reperti antichi.
Angolazioni differenti, che si sfiore­ranno nell’esposizione organizzata al MoMA nel 1936, Fanta­stic Art: Dada and Surrea­lism .
A New York assistia­mo all’incrocio tra questi due sguardi d’avanguar­dia. Quello di Duchamp: concettuale e analitico, che sa rendere magico l’ovvio, aprendo in dire­zione del new-dada e del post-dada. E quello oniri­co e delirante di Dalí che, nel perlustrare i fantasmi della psiche, prelude alle culture pop.
Tra attriti e convergenze, queste ge­ografie riescono a sedurre gli america­ni. Che, come amava ripetere Gertru­de Stein, «sono i materialisti del­­l’astratto».

Repubblica Roma 8.10.09
Cellule staminali, la Rete dei trapianti
William Arcese: "Sette ospedali uniti per combattere le malattie del sangue"
di Carlo Picozza


Solo il 30% dei pazienti ha un familiare "compatibile", perciò si rivela insostituibile la donazione: dagli adulti o dal sangue del cordone ombelicale

La diagnosi spuntò dal referto di un banale esame del sangue: «Leucemia acuta mieloide», un tumore maligno che colpisce il midollo osseo e i suoi globuli bianchi. Stefania Angeli, 44 anni, due figli, cominciò un intenso ciclo di chemioterapia, guardando al trapianto di midollo come alla sua possibile salvezza. In famiglia, però, non c´era un donatore compatibile. Le sue condizioni cliniche precipitavano. «Era il 2006», racconta William Arcese, primario oncoematologo nel policlinico Tor Vergata. «Mancava il tempo per la ricerca di cellule staminali idonee sui registri dei donatori internazionali. Restava la carta del trapianto da un familiare semicompatibile». Una procedura complessa, eseguita in centri ematologici che in Italia si contano sulle dita di una mano. «Mi sento miracolata», dice ora Angeli. «Molti medici», racconta, «mi consigliarono l´Ematologia di Tor Vergata. Da qui, con grande fatica, ho ricominciato. Lo devo all´incontro con sanitari di alta professionalità e grande umanità che è una leva indispensabile per riprendersi la vita».
«La tecnica utilizzata in quell´intervento», spiega Arcese, «ha fatto da apripista a procedure adottate dalla Rete metropolitana dei trapianti». Già, il "Rome transplant network": è nato due anni fa dall´idea che il primario accarezzava da tempo: «Le malattie del sangue si combattono insieme», ripeteva ai colleghi. «Uniti possiamo contrastarle nel modo più efficace. Forse, sconfiggerle». Così, insieme nel Network, sette reparti ematologici di altrettanti ospedali (Tor Vergata, Sant´Andrea, San Giovanni, Regina Elena, Sant´Eugenio, Bambino Gesù, Campus Biomedico), oggi eseguono tutti i tipi di trapianto di cellule staminali con trattamenti omogenei nelle procedure e affidando gli interventi in base alle competenze acquisite. «Condividere il lavoro di ciascun centro valorizzandone le specializzazioni», ancora Arcese, «avvantaggia la Rete, il malato e le casse del Servizio sanitario». Semplice e vincente, quell´idea è stata tradotta in numeri e alta specializzazione: 172 trapianti eseguiti nel 2008 (sui 448 nel Lazio) e in 20 di questi sono state impiegate cellule staminali donate da familiari "semicompatibili".
Ora che la Rete è stata collaudata in un biennio di intesa, lui e i suoi colleghi degli altri centri - Luciana Annino (San Giovanni), Giuseppe Avvisati (Campus Biomedico), Paolo De Fabritiis (Sant´Eugenio), Giulio De Rossi (Bambino Gesù), Bruno Monarca (Sant´Andrea), Concetta Petti (Regina Elena) - scrivono soddisfatti: «Dal registro del Gruppo italiano Trapianto del Midollo osseo, risultiamo primi in Italia per numero di interventi». Tredicesimo in Europa. Il Network assicura, tra i pochissimi centri del Paese, ogni tipo di intervento: dall´autotrapianto, quello con cellule proprie (autologhe) al trapianto allogenico, dal trapianto da donatore familiare compatibile a quello da volontario reperito nei registri internazionali. Si eseguono anche trapianti da un donatore familiare semicompatibile o dal sangue di cordone ombelicale ottenuto da una delle decine di banche mondiali.
«Il trapianto ottimale? Quello da un fratello o da una sorella compatibile», spiega Arcese. «È il più accreditato». «Ma», sottolinea, «solo il 30% dei pazienti ha questa "disponibilità". Per gli altri malati, la maggioranza, si è costretti a ricorrere a fonti diverse». «Con più donazioni di cellule staminali, da volontari adulti e dal sangue del cordone ombelicale», conclude, «si risponderebbe meglio al fabbisogno crescente di cure trapiantologiche».
(9. continua)

Repubblica 18.9.09
Esce il Libro rosso di Jung Santo Graal dell'inconscio
di Luciana Sica


Esce agli inizi di ottobre nelle librerie americane uno dei più favoleggiati inediti di Carl Gustav Jung, il Libro Rosso, 205 grandi pagine scritte in tedesco dal fondatore svizzero della psicologia analitica, tra gli allievi più geniali ed eterodossi di Freud, il maestro amato ma non idolatrato e poi in qualche modo "tradito". Lo scrive Sara Corbett nel prossimo numero del magazine del New York Times in un lungo articolo intitolato "Il Santo Graal dell' Inconscio". L' editore del Libro è W.W. Norton, il curatore è lo storico della psicologia Sonu Shamdasani, indiano nato a Singapore e cresciuto in Inghilterra, coordinatore delle "Philemon series", progetto che punta alla pubblicazione di tutta l' opera di Jung rimasta inedita. Quel diario privatissimo di Jung raccolto gelosamente in una cartella di pelle rossa, zeppo di decorazioni e disegni in stile Art déco, ne rievoca la celebre e comunque misteriosa "discesa negli inferi", quel periodo di confusione datato tra il 1914 e il ' 30 segnato dal "confronto con l' inconscio", a tratti da terrificanti esperienze anche di natura psicotica - sogni paurosi, visioni allucinatorie, incontri con folle di spiriti, dei e demoni, suoni sinistri. Un viaggio negli abissi della psiche, come un prolungato esperimento con la mescalina con il gravissimo rischio di una progressiva perdita di sé, che Jung ha annotato dettagliatamente, ma in forma sempre molto riservata, temendo l' esposizione pubblica di un volume che - come lui stesso ebbe a scrivere col senno del poi - «a un osservatore superficiale sembrerà pura follia». Non a caso il volume è stato tenuto a lungo segreto dagli eredi di Jung, scomparso nel ' 61. Prima ben chiuso nei cassetti di case private, poi messo al sicuro nel deposito di una banca svizzera, l' United Bank of Switzerland, per ventitré anni. Shamdasani - che considera il Libro Rosso di Jung l' equivalente di Così parlò Zarathustra nell' opera di Nietzsche - ha cominciato a lavorare all' inedito nel ' 97. «Il suo è stato un lavoro enorme, dal punto di vista non solo di una corretta traduzione ma soprattutto del rigore filologico, tenendo conto che Jung non ha mai smesso, per tutta la vita, di rimaneggiare quelle pagine»: a dirlo è Luigi Zoja, analista e studioso junghiano di fama. A lui la Bollati Boringhieri, che pubblicherà il Libro non prima della fine del 2010, avrebbe voluto affidarne la cura ma Zoja ha rifiutato un incarico che considera incompatibile con i suoi impegni. Quello che sarà interessante capire è come l' opera junghiana potrà essere riletta alla luce della pubblicazione di un Libro così singolare che - in una forma decisamente più letteraria che scientifica- anticipa comunque i grandi temi proposti da Jung al pensiero psicologico del Novecento: il processo di individuazione, l' Ombrae l' inconscio collettivo, gli archetipi e il Sé. «Certamente - è l' idea di Mario Trevi, tra i teorici più brillanti dello junghismo non solo italiano - questo Libro costituirà un documento imprescindibile anche per chi come me ama lo Jung empirico, critico, ermeneutico, probabilista». Da un punto di vista storico, la "traversata notturna" di Jung sta tutta dentro la vicenda del movimento psicoanalitico delle origini. È proprio quando si rompe l' amicizia con Freud - un fratello maggiore se non un padre in un certo senso amato e odiato - che si scatena "il magma fuso e incandescente" dell' inconscio. Jung che con Simboli e trasformazioni della libido segna i primi contrasti con il fondatore viennese della psicoanalisi- perde un sostegno fondamentale, un amico che lo aveva protetto anche contro se stesso. Il "torrente di lava" che rischia di travolgere Jung poco alla volta - ci vorranno anni- rientra, smette di debordare, di provocare deliri ad occhi aperti. L' io e l' inconscio, il bellissimo libro del ' 28, segna in qualche modo la fuoriuscita da un pericoloso tunnel. Di quegli anni in cui lo psichiatra svizzero è stato senz' altro su un crinale, sapevamo soprattutto attraverso l' autobiografia scritta con Aniela Jaffé, Ricordi sogni riflessioni (ad esempio: «L' intera casa era piena come se ci fosse una folla, totalmente piena zeppa di spiriti...»). Ora il Libro Rosso ci dirà più esattamente di che pasta fosse fatta quell' "immaginazione attiva", quella vicenda non solo personale nel segno della più estrema creatività