Scuola nel caos
Graduatorie da rifare Gelmini bocciata sui precari
Il Tar del Lazio accoglie il ricorso dell’associazione insegnanti ed educatori: «Commissariata se non rispetta i punteggi». Miur: «Emendiamo il decreto»
di N.L.
Mariastella Gelmini commissariata: entro un mese il ministero dell’Istruzione dovrà inserire «a pettine» nelle graduatorie provinciali un centinaio di supplenti. Lo ha stabilito il Tar del Lazio accogliendo il ricorso dell’Asief (Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione) e di circa 70 insegnanti.
La III sezione bis del tribunale amministrativo, presieduta da Evasio Speranza, ha deciso che Mariastella Gelmini sarà commissariata se non farà inserire «a pettine», ovvero sulla base del punteggio ottenuto, i precari finiti «in coda» alle graduatorie. I giudici hanno già nominato il commissario, Luciano Cannerozzi, dirigente generale della Funzione Pubblica. Il Tar ricorda che «in applicazione dei principi costituzionali di effettività della tutela giurisdizionale», il ministero «è tenuto a dare tempestiva e puntuale esecuzione» alla sentenza.
E condanna il Miur al pagamento delle spese legali degli insegnanti ricorrenti. Anche il Consiglio di Stato, al quale si era appellato il ministero, aveva infatti dato ragione al Tar.
Mariastella Gelmini non cede: «Nulla cambierà rispetto a quanto è già deciso», ma annuncia un emendamento ad hoc nel cosiddetto «decreto salva precari», quando sarà convertito in legge. Il ministro è convinta che le sue scelte «rispondano a criteri di giustizia, serietà e modernità». I criteri dei tagli, soprattutto. L’emendamento non consentirà il trasferimento da una graduatoria all’altra», spiega una nota da Viale Trastevere, «garantendo e limitando» l’inserimento «in coda» in altre tre province. In coda, appunto, a chi già è in lista per l’assunzione.
Si preannuncia il caos. Il Tar deve calendarizzare altre udienze per ricorsi (da circa 7mila e 500 precari) e certo molti insegnanti già inseriti «a pettine» saranno sfavoriti, come gli 8mila che hanno avuto l’immissione in ruolo ad agosto, che potrebbero ricorrere al Tar.
«Il ministro Gelmini sta provocando il caos nella scuola, si è mossa in modo unilaterale, senza basi giuridiche», afferma Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil «ha messo i precari l’uno contro l’altro. Rivedere il decreto non salva
nessuno, si devono rivedere i tagli». La Gelmini messa sotto scacco da Tar «dimostra di conoscere poco o per niente le cose di cui parla (come la questione delle pulizie da parte dei collaboratori scolastici), ma quelle che fa, ed anche quelle che non fa, risultano deleterie per la scuola pubblica statale». Anna Fedeli, della Cgil Lazio, propone che si lascino le graduatorie come sono, per non creare «sub graduatorie».
La Lega insorge contro «la dittatura dei magistrati», l’Italia dei Valori reclama le dimissioni della Gelmini. Russo del Pd chiede che il ministro «rispetti le sentenze» e «non cambi la regole del reclutamento degli insegnanti, né alcuna legge, perché sarebbe un atto incostituzionale».❖
l’Unità 11.10.09
Intervista a Tullio De Mauro
«Niente concorsi ma solo tagli: ecco spiegato il caos»
Il linguista ex ministro dell’Istruzione: da 20 anni non si fanno selezioni pubbliche, così il precariato si accumula e si sfrutta nel modo più bieco
di Natalia Lombardo
Il Tar ha sancito il commissariamento del ministro Gelmini, se entro trenta giorni non ristabilirà l’ordine delle graduatorie per chi ha fatto ricorso. Come può essere accaduto?
«Da più di vent’anni non sono stati fatti concorsi pubblici regolari per le assunzioni dei docenti nelle scuole, l’ultimo si è tenuto durante il ministero Berlinguer. Così la mancanza di concorsi ha accumulato precariato. Da anni e anni è stato sfruttato nel modo più bieco l’uso dei lavoratori temporanei».
Un accumulo negli ultimi vent’ anni?
«Sì, è diventata una pandemia. D’altra parte la scuola si è retta proprio su questo. Erano state delineate delle vie d’uscita, discusse con i precari stessi e i sindacati, ma sono state abbandonate».
Come giudica le politiche del ministro Gelmini?
«È stata scelta la linea della riduzione di spesa persino sulle necessità, fino alla carta igienica, e questo ha portato a tagliare con un tratto di penna gli insegnanti precari. Il Tar avrà le sue buone ragioni di natura amministrativa, ma si arriva all’assunzione a scatola chiusa di migliaia di lavoratori temporanei».
Si rischiano ricorsi di altri in graduatoria. Un pasticcio ministeriale?
«Certo se si sconvolge l’assetto che ministero e provveditorati avevano posto nelle scuole e nelle graduatorie è il caos. È l’effetto della cattiva amministrazione».
La Cgil Lazio suggerisce di lasciare le graduatorie come sono. È d’accordo? «Per forza si rischia di aprire un contenzioso senza fine. La sentenza del Tar interviene sulle condizioni drammatiche di chi viene licenziato, ma non può riguardare l’intero apparato della scuola, che dovrebbe essere affidato al ministero, che non è adeguato».
Era mai accaduto un commissariamento del ministro dell’Istruzione? «Non mi pare. Evidentemente il Tar non si fida, teme che, senza un vincolo, il ministero non intervenga»
Tutto questo crea un danno alla scuola, ai lavoratori e ai cittadini. «La politica dei tagli è dettata dal ministro dell’Economia per ridurre al massimo le spese. Ma questa è solo la tessera di un mosaico che vede la riduzione degli investimenti anche nell'università e nella ricerca, di cui nessuno parla».
Vuol dire che c’è più attenzione sulla scuola e meno sulla ricerca? «Sullo stato di atrofia della ricerca in Italia c’è una sordità ministeriale, ma anche una generale incomprensione. Questo è un paese che non sa di avere un istituto di alta ricerca, non ci si preoccupa che non venga finanziato o abbia continui tagli». Un programma preciso dal governo? «Si segue un senso unico: il programma di riduzione dello spazio dedicato alla scuola e, ripeto, all’università, alla ricerca e agli istituti di cultura. È un disegno complessivo. È logico che ci sia chi paga le conseguenze di ogni atto sul piano personale, ma c’è un attacco generale al mondo culturale».
Ci sono state proteste e manifestazio-
ni, ma non trova che, da parte degli intellettuali, ci sia un po’ di afonia, oltre che di sordità? «Il mondo della ricerca tecnologica e chi lavora nelle università, hanno alzato la voce, ma sono rimasti inascoltati. Aggiungerei al titolo del libro di Asor Rosa “Il grande silenzio” sul silenzio intellettuale, un altro: “La grande sordità”. Al di là delle proteste leghiste, non è triste che un tribunale amministrativo debba intervenire sul funzionamento della scuola?
«È triste sì».
E come se ne esce?
«Con il sussulto di tutti contro questo scempio, la devastazione culturale in atto. Certo se il sussulto non c’è, allora dobbiamo sperare nei Tar. Ma voglio dirla tutta...». Prego
«Mi piacerebbe, anche sui precari, vedere delineata una linea alternativa dalle forze d’opposizione. Mi sarà distratto, però vedo solo tante mozioni e non vedo proposte.. Se il programma è l’atrofizzazione culturale, si apre uno dei problemi di fondo della società italiana». ❖
l’Unità 11.10.09
Lisa Canitano:
«Ru-486, ogni scusa è buona per mettere in dubbio l’aborto»
di Ma. Ge.
Uno Stato che pensa che più l’aborto è traumatico meno le donne abortiscono mi fa paura da qui a frustrarle in pubblico non ci manca moltissimo», reduce da un raduno di ginecologi pro Ru486.
In Italia siamo davvero all’anno zero?
«La Ru486 è del 1980, in Francia è in uso dal 1988, è stata adottata anche da Cina e Uzbekistan, l’Oms l’ha inserita tra i farmaci essenziali. E sicuri. Anche in Italia, dopo la sperimentazione di Torino, è in uso a Pontedera, a Bologna a Parma. Non si capisce cosa si debba sapere di più».
Perché l’indagine del senato?
«La strumentalità degli ostacoli che vengono frapposti alla Ru486 è evidente. Vogliono costringere le donne a subire un intervento chirurgico? Da qui alle frustrate ci vuole poco». Perché allora le donne non scendono in piazza?
«Il diritto al farmaco è un concetto complesso e non automatico, passa attraverso l’informazione. Non a caso chi è contrario alla Ru486 strilla così tanto la sua disinformazione. E non a caso le donne che vanno a Pontedera per abortire con la Ru486 sono mediamente molto istruite».
In ogni caso l’Aifa restringe l’uso all’ospedale. Perché? «Sbaglia. Noi medici siamo obbligati a fare gli stessi raschiamenti in day hospital».
l’Unità 11.10.09
VERSO IL 17
I lavoratori in piazza per dire no al razzismo
Tutti a Roma per un’Italia migliore
L’impegno dell’Unità. Durante la manifestazione del 17 ottobre assieme al nostro giornale saranno distribuite migliaia di t-shirt col disegno di Sergio Staino. L’Unità ha aderito alla protesta e sarà presente al corteo
L’adesione della Cgil. Una protesta popolare gioiosa per chiedere riforme profonde: una sanatoria contro il lavoro nero, diritto di voto, cittadinanza
di Pietro Soldini Responsabile immigrazione della Cgil
Il razzismo è allo stesso tempo spia, prodotto e risposta ad una profonda crisi sociale, politica e culturale. La sua ormai innegabile presenza in Italia rappresenta l’allarme più grave per la nostra convivenza civile. Un allarme che riguarda tutti. Perché il razzismo è istituzionale (di chi governa e amministra) è mediatico, è popolare. E c’è anche un razzismo militante sempre più disinvolto e aggressivo, che produce una enorme quantità di vittime e intimidisce anche i settori più sani della società.
La Cgil, che ha avvertito da tempo questo allarme, nei mesi scorsi ha lanciato la campagna «Stesso sangue stessi diritti». Ne è seguita un’altra («Non aver paura») che abbiamo svolto assieme ad associazioni di diversa ispirazione laico-religiosa, la più ampia coalizione trasversale che io ricordi nella storia dell'associazionismo democratico del nostro Paese. Abbiamo mobilitato energie e risorse nelle città e nei territori, ma abbiamo anche dovuto misurarci con contraddizioni e indifferenza.
All’opposto, l’azione del Governo in questi mesi ha prodotto il cosiddetto «pacchetto sicurezza» che intacca pesantemente il profilo egualitario della nostra Costituzione e che produrrà effetti nefasti non solo su quanti saranno colpiti dalla detenzione e dalle espulsioni, ma anche, e soprattutto, sui comportamenti sociali, sugli stati d’animo profondi delle persone e della comunità.
Quindi, adesso è il momento della mobilitazione, di una grande manifestazione. Una consapevole risposta popolare al razzismo, che sappia rappresentare in modo forte, gioioso e pacifico, i valori di una società che sa includere e valorizzare le diversità, che sa coniugare diritti e responsabilità, che non si chiude in se stessa, che non dichiara guerra al futuro ma si ripensa e si rinvigorisce e ringiovanisce attraverso la contaminazione interculturale, interetnica e intergenerazionale.
Una manifestazione per rivendicare provvedimenti che siano in grado di sanare le ferite sociali: una riforma della cittadinanza che riconosca i nuovi cittadini che sono venuti nel nostro paese e i loro figli che sono nati qua; il diritto di voto come fattore di emancipazione non solo per gli immigrati che lo vorranno esercitare, ma soprattutto per il no-
stro sistema politico elettorale che altrimenti perde la caratteristica più importante della democrazia che è il suffragio universale. E, ancora, un provvedimento di regolarizzazione di tutte le persone immigrate che lavorano in nero. Non c’è nessuna ragione plausibile e di buon senso, se non il razzismo e la sua strumentalizzazione politica, per osteggiare questa proposta; consentirebbe infatti di legalizzare il lavoro sommerso, che è il maggiore inquinante della nostra economia. Inoltre renderebbe più sicura la nostra convivenza e porterebbe risorse al sistema fiscale e contributivo del nostro Paese. Il 17 ottobre, a Roma, una buona causa ritroverà il suo popolo. Ecco perché la Cgil ci sta.❖
l’Unità 11.10.09
Solo uniti non saremo stupidi
di Randa Ghazy
Sant’Agostino scriveva che «un uomo solo è in compagnia dei suoi peggiori nemici». Noi uomini di oggi dobbiamo essere davvero molto, molto soli per giustificare l’imbarbarimento quotidiano a cui stiamo assistendo. Spegniamo la televisione e diamo un’occhiata alla realtà. Un solo episodio.
Un ragazzo senegalese di ventisei anni si ferma ad un chiosco, ed ordina un panino. Siamo a Milano. Il panino non gli piace, lo dice al proprietario del chiosco. Quello che fa? Tira fuori un coltello e lo conficca nel petto del giovane. Diallo Germe Usmane, per fortuna, si è salvato.
Non è un’esagerazione, un modo melodrammatico di estremizzare un fatto singolo. Questi non sono casi singoli. Ho una lunga lista da raccontarvi, se volete: ragazzi picchiati, accoltellati, uccisi, insultati, umiliati, posso persino parlarvi della famiglia brianzola che ha preso a bastonate mio padre per un parcheggio urlandogli «Tornatene al tuo paese». Dell’intera famiglia. Padre, madre, figlio, nonno e nonna.
Però sarebbero racconti dalla viva voce delle vittime, e non dai giornali o dalla televisione. Ve lo dimostro: i mezzi di comunicazione ci hanno raccontato in ogni dettaglio l’assassinio della povera Sanaa ad opera del padre che non voleva che lei fosse come era. Ma nel 2007 a Monza un uomo ha ucciso il figlio omosessuale con dodici colpi di revolver. Anche quel padre non voleva che il figlio fosse quel che era. Quanti di voi hanno saputo di quella notizia?
Un detto buddista dice che se discuti con uno stupido, dopo la discussione ti sentirai stupido. Stiamo tutti diventando stupidi. Siamo anestetizzati, immuni al dolore e all’indignazione. Ma io mi rifiuto di rimanere sola con i miei peggiori nemici. Uniamoci, incontriamoci, conosciamoci. Recuperiamo il senso profondo della nostra umanità, manifestando a Roma il 17 ottobre, ma anche rieducando noi stessi, ed opponendoci al silenzio complice che aggredisce le vittime del razzismo.❖
l’Unità 11.10.09
Iran, condannati a morte tre oppositori di Ahmadinejad
Condannati a morte a Teheran tre oppositori ad Ahmedinejad arrestati nella manifestazioni di quest’estate. Il portavoce dei giudici dice che possono ricorrere in appello ma i blog del dissenso sono in allarme.
di Rachele Gonnelli
Rischiano la forca due monarchici e un Mujaeddhin del Popolo, note solo le iniziali dei nomi
Appello all’Onu Pressante allarme nel mondo dei blog: potrebbero ucciderli prima di lunedì
Voce grossa sull’arricchimento dell’uranio e pugno duro contro gli oppositori interni. L’Iran mostra la sua maschera più minacciosa il giorno dopo il premio Nobel per la pace a Barack Obama, un atto che
indirettamente chiama in causa anche Teheran come controparte del disgelo e del disarmo auspicato. La risposta ai saggi di Oslo per quanto riguarda gli ayatollah è che non intendono lasciarsi condizionare né sul programma nucleare né sul piano dei diritti civili.
Ieri tre oppositori del regime arrestati nelle manifestazioni anti-Ahmadinejad successive alla sua contestata rielezione sono stati condannati a morte. La conferma è ufficiale, viene da Zahed Bashiri Rad, portavoce del Dipartimento alla Giustizia del distretto di Teheran. Dei tre si conoscono solo le iniziali e le organizzazioni di appartenenza: due sono filo monarchici Mz e Ap -, il terzo Na fa parte dei Mujaeddhin del Popolo, storico gruppo del dissenso con base a Parigi. Non è chiaro, né il portavoce della magistratura di Teheran si è dato pena di specificare se alle iniziali Mz corrispondano a Mohammad Reza Ali Zamani, monarchico di cui era già trapelata la condanna alla pena capitale attraverso un sito lunedì scorso. Zamani, 37 anni, sarebbe stato arrestato durante le retate post elettorali e, secondo quanto ha ricostruito l’ong Iran Human Rights Documentation Center, dopo un «trattamento» nel braccio 15 della famigerata prigione di Evin ha confessato di essersi infiltrato in Iran dal Kurdistan in contatto con monarchici londinesi e statunitensi per sobillare gli studenti universitari. Il suo processo-farsa, ripreso dalla tv iraniana, è stato duramente criticato da Amnesty. Il portavoce dei giudici Bashiri Rad precisa che le condanne a morte dei tre non sono definitive, i loro legali possono ancora presentare ricorso. Ma sui blog dell’Onda Verde gira un appello pressante all’Onu perchè intervenga subito, si teme che le sentenze possano essere eseguite prima di lunedì. Bashiri dice che altri 18 oppositori hanno già chiesto l’appello. Non chiarisce se si tratta dei capi riformisti mandati a giudizio tra i cento sotto processo per le manifestazioni di giugno e luglio, tra cui Mohammed Ali Abtani, Saeed Shariati, Abdollah Momeni, lo studente iraniano-americano Kian Tajbakhsh e altri che dovrebbero essere liberati su cauzione a giorni.
LA QUESTIONE NUCLEARE
Nel giorno in cui i primi tre oppositori del movimento che ha sfidato Ahmadinejad nelle piazze vengono mandati a morte per «attentato alla sicurezza della Repubblica Islamica», Teheran mostra i muscoli anche sul contenzioso nucleare. Il portavoce dell’Agenzia per l’Energia atomica dell’Iran, Ali Shirzadian, ha dichiarato che anche se nessun Paese dalla Russia alla Francia, agli Stati Uniti vorrà vendere carburante atomico per alimentare il reattore di ricerca di Teheran, gli impianti
iraniani sono in grado di fare da soli, cioè di arricchire le scorte di uranio-235 dal 3 percento consentito fino al 20 percento. Si tratta sempre di un basso potenziale: per costruire una bomba atomica servono infatti isotopi arricchiti al 90 percento. Ma anche nel primo incontro di Ginevra il 1 ̊ ottobre le potenze atomiche hanno ribadito che non vogliono concedere all’Iran alcun processo autonomo di potenziamento del combustibile nucleare. Neanche per scopi come le terapie radio per la cura del cancro. Il prossimo round di negoziati è previsto a Vienna il 19 ottobre o al massimo a fine mese. L’ipotesi dei sei Paesi negoziatori il gruppo 5 più uno vorrebbe che a riprocessare il combustibile fossero i reattori francesi e russi, per ridarlo «in pastiglie» all’Iran. Teheran risponde che con le scorte acquistate nel ‘93 dall’Argentina può fare da sola, almeno per un anno e mezzo. ❖
Repubblica 11.10.09
La scrittrice Marina Nemat, autrice di "Prigioniera di Teheran", riuscì a fuggire e a evitare il patibolo
"Processi farsa e bagni di sangue, al mio Paese serve un nuovo Gandhi"
Vogliono intimidire chiunque scenda in strada. Solo una figura che unisce può salvare il mio popolo
di Francesca Caferri
La sorte dei tre prigionieri condannati a morte per aver protestato contro il governo, Marina Nemat l´ha sperimentata sulla sua pelle. È la sua storia. Era il 1982 quando la giovane Marina fu arrestata e condannata a morte per aver osato protestare in aula contro un professore che, invece di tenere una normale lezione di matematica, pretendeva di indottrinare i suoi allievi sull´Islam. Poco prima dell´esecuzione a Marina fu offerta un´ultima possibilità: salvarsi sposando il suo carceriere. Accettò e visse, da sposa prigioniera, due anni ad Evin, il più famigerato carcere iraniano. Quando ne uscì riuscì a fuggire. Il suo libro – "Prigioniera di Teheran" – è un raro racconto "da dentro" della vita dei prigionieri politici iraniani. Ancora oggi, Nemat si emoziona quando parla di quell´esperienza. E di chi oggi la sta vivendo.
Signora Nemat, si aspettava queste condanne?
«Purtroppo sì. Quello che sta succedendo non è nulla di nuovo. Forse le persone hanno dimenticato quello che accadde negli anni ´80: era finita da poco la rivoluzione, la gente si aspettava democrazia e quanto non la ebbe tornò in piazza a protestare. Non c´erano Youtube e Internet allora e fare uscire le notizie dal paese era molto più difficile di oggi. Ma ci fu un bagno di sangue e il governo fece esattamente quello che sta facendo ora: processi farsa, verdetti decisi prima ancora di entrare in aula. Era chiaro che alcune delle persone sotto processo sarebbero state uccise».
Si aspetta davvero che lo siano? Non potrebbe esserci un gesto di grazia, anche come segnale alla comunità internazionale?
«Potrebbe accadere. Ma quello che il governo vuole è spaventare la gente. Uccideranno qualcuno, che siano questi tre prigionieri o altri: in modo che la notizia si diffonda e le persone sappiano che protestare in Iran costa caro. Così saranno troppo spaventati per scendere in strada di nuovo. È un gioco di intimidazione che colpisce, non a caso, persone normali e non oppositori famosi o di primo piano. È alla gente normale che la paura deve arrivare».
Una paura che lei ha provato sulla sua pelle…
«Io, come tanti altri. Come gli italiani che si ribellavano durante il fascismo: sapevano che se lo avessero fatto qualcuno sarebbe andato nelle loro case, avrebbe arrestato i figli, stuprato mogli e figlie. E poi li avrebbe uccisi. Questo è l´Iran oggi. Ma la gente è infelice, lo ha dimostrato scendendo in piazza dopo le elezioni: possiamo solo sperare. Che un giorno ci sia una figura unificante, un Gandhi iraniano, che unifichi questo paese così diviso e trovi un modo per portarlo verso la democrazia senza scendere nel bagno di sangue».
Lei vive in Canada ed è una delle voci più potenti dell´esilio iraniano. Cosa si può fare da fuori?
«Non usare le armi. Un attacco o un´invasione non risolverebbero nulla. Creerebbero solo una nuova generazione di martiri, di persone pronte a tutto. Come in Iraq e in Afghanistan. Il cambiamento può arrivare solo da dentro. Noi possiamo solo continuare a parlare e ad ascoltare».
Parlare è quello che vuole il presidente Obama: il Nobel lo aiuterà?
«No. Il Nobel ha aiutato Shirin Ebadi, perché la protegge: sarebbe morta oggi se non lo avesse vinto. E non sarebbe la voce potente che è in difesa dei diritti umani e della democrazia in Iran. Ma Obama non ha bisogno di questo per avere più visibilità o più incisività di azione».
l’Unità 11.10.09
Intellettuali addio: il pensiero è polvere
Silenzio o intrattenimento ciarliero. È finita l’epoca dei «chierici»: non parlano più e il loro ruolo di un tempo è ormai consunto, liofilizzato o trasformato in presenza mediatica. L’analisi di Asor Rosa in un libro intervista
di Bruno Gravagnuolo
Giorni fa scorrendo le offerte turistiche nell’inserto un importante quotidiano, ci si imbatteva in un curioso annuncio. Un famoso storico della filosofia avrebbe fatto da guida in una crociera nell’Egeo intrattenendo i crocieristi sulla filosofia greca per tutta la durata del tour. Prezzo modico. Niente di male. Ma si potrebbe cominciare di qui nel recensire Il Grande silenzio, il libro intervista con Alberto Asor Rosa sul «silenzio degli intellettuali» a cura di Simonetta Fiori. L’esempio, assieme a quello di un altro grande studioso autore da anni di (veri) menù gastro-filosofici, riassume ironicamente uno dei temi chiave del libro: la consunzione dell’intellettuale classico. La liofilizzazione del suo ruolo di un tempo. Sintetico e pedagogico, e basato sul nesso cultura e politica. E anche sull’idea di una cultura alta e critica. Vocata a distinguere tra ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Dunque silenzio degli intellettuali, oppure intrattenimento ciarliero, nell’era «postmoderna», termine al quale Asor preferisce quello di «civiltà montante» di massa.
Volume di qualità. Per svariati motivi. Primo, è ben condotto dalla curatrice. Secondo, ha come protagonista pensante un insigne italianista, versato in politica e cultura, la cui biografia è emblematica dell’intellighenzia italiana del dopoguerra.
Terzo, affronta un tema cruciale. Quarto, abbiamo lavorato con Asor al tempo di Rinascita e perciò parlare di lui significa anche parlare di cose convissute (diversamente). Ad esempio, la svolta Pci-Pds che ci sorprese entrambi nel varare, con lui direttore, l’ultima edizione del settimanale fondato da Togliatti. Ma veniamo al punto centrale: gli intellettuali. Asor ne descrive la genesi tra illuminismo e rivoluzione industriale. Figure chiave della riproduzione capitalistica dentro la moderna società civile, sono sempre stati in qualche modo enciclopedici, conflittuali, oppure organici. E sempre «espressivi» di un salto: dai saperi specialistici, all’intelletto generale. Sociologicamente per Asor quella funzione si è estinta, a beneficio di ruoli tecnici, mediatici o manageriali. E nel quadro di una mutazione «post-fordista» che ha massificato ceti e classi, rendendo inutili mediazioni e conflitti, dei quali i chierici sono stati vessiliferi attraverso le tempeste ideologiche del 900. Sullo sfondo per Asor c’è ormai la «civiltà montante», il «Mostro mite» di cui parla Raffaele Simone, affine alla «dittatura della maggioranza» di cui scriveva Tocqueville: società dell’immagine, individualismo di massa, omologazione, populismo light, Grande Fratello etc. Matrici di un gigantesco degrado, sia del progresso civile e democratico, sia dell’intelligenza critica.
Apocalissi? Sì e no, per Asor. Che benché esegeta in passato dell’Apocalissi giovannea rifiuta geremiadi passatiste, e anzi cerca i punti di attacco per una ripartenza di politica e cultura (vissuti alla Bobbio in concordia/discorde) e per un rilancio del meglio della tradizione democratica occidentale. Ma ha ragione Asor? Ha molte ragioni e magari qualche torto (ma più nel senso di omissioni). È giusta intanto la percezione generale dell’evo post-fordista, con il corollario giustissimo della barbarie italiana berlusconiana, fatta di disgregazione di memoria, prepotenza carismatica e minacce alla divisione dei poteri. Giustissima altresì è la critica agli intellettuali italiani, inermi o al di sopra delle parti spesso, dopo essere stati a sinistra
magari corrivi e ortodossi. E soprattutto ha ragione su una cosa: il difetto della svolta Pci-Pds. Che per Asor ha gettato alla fine il bambino e l’acqua sporca, senza un bilancio serio di ciò che fu il Pci nella storia d’Italia: una grande cosa progressiva, sia pur con limiti e ritardi. Realtà liquidata senza «pars construens», fino a privare le classi subalterne di organizzazione, identità e prospettive. E con la conseguenza di aver spianato il campo al blocco sociale e al senso comune della destra.
SALVARE LA SINISTRA
E però in conclusione l’analisi di Asor pecca forse almeno su due punti. E cioè, non è vero che l’omologazione sia poi così forte, al punto da rendere quasi disperata la ricerca di punti di attacco e resistenza. Infatti il lavoro dipendente è cresciuto, in parallello al grande esercito di riserva dei flessibili, immigrati e no. Il contrattacco oltre che dalla scuola di massa può riprendere dalla riscoperta del lavoro moderno, avanzato, infelice e dominato. Ribelle potenzialmente alle ricette liberiste, che vogliono farne una cosa marginale e areiforme, non più garantito e «umano-relazionale». Infine il Pci-Pds. Fu fatta male la svolta del 1989. Ma andava fatta visto il crollo del comunismo e non rifiutata come fece il fronte del «no», che meglio avrebbe fatto a tentare di indirizzarla in altro modo, invece di respingerla. In verità dopo lo sconcerto e il rifiuto Asor Rosa cercò con onestà una strada costruttiva e positiva, che salvasse il nocciolo razionale della sinistra e del comunismo italiano. Ma fu sconfitto, e tutti noi oggi dobbiamo ancora ricominciare di lì.
Repubblica 11.10.09
All’assemblea nazionale la spunta a sorpresa la componente minoritaria di Boato: bocciata l’alleanza con la Sinistra
Verdi, Bonelli presidente tra gli spintoni
di Antonello Caporale
FIUGGI - Solo qualche spintone, ma neanche un graffio. L´automedica non è intervenuta e il breve scambio di opinioni saluta nei fatti il nuovo presidente dei Verdi, che contro tutti i calcoli delle tessere e dei delegati, è Angelo Bonelli, già deputato e capogruppo. Ha ottenuto 245 voti, battendo la favorita Loredana de Petris (231 voti). Nel fantastico mondo del Sole che ride (e che tifa per la Pace nel suo stesso simbolo) c´è sempre una piccola gazzarra a segnare la vita e la parabola. Pochi, ma piuttosto agitati, gli ambientalisti hanno scelto, dividendosi, la via da percorrere per uscire dalle tenebre e trovare la luce. Grazia Francescato, la portavoce uscente, con il suo gruppo maggioritario, aveva indicato la possibile salvezza: fare team con Nichi Vendola e i socialisti, riunire in un simbolo allargato (Sinistra Ecologia Libertà) le poche e affaticate risorse. Contrapposta la mozione di minoranza: da soli comunque e sempre. A guidare la resistenza Marco Boato e il vincitore finale, l´outsider Bonelli.
Confluire o resistere? Resistere. Qui sono intervenuti gli spintoni. I verdi, bisogna ricordarlo, sono abituati a darsele di santa ragione. Nel 2001, a Chianciano Terme, ci fu un match piuttosto agitato al cospetto del candidato premier Francesco Rutelli (un ex sonoramente fischiato). Ieri un bis in scala ridotta. Però lo spintone, secondo l´originale esegesi di Paolo Cento, ex deputato molto fisico, rappresenta «un segno di vivacità. Siamo vivi e l´abbiamo dimostrato». La minoranza (a fine gara però vincitrice) a cui sono state interdette dall´inflessibile commissione di garanzia alcuni decisivi delegati, ha occupato in mattinata il palco per contestare «lo stalinismo» che albergherebbe in un partito altrimenti libertario fino al punto da apparire caciarone. Bonelli e Boato, andati al contrattacco, avrebbero persino chiesto a forze esterne di venire in soccorso. Nel pomeriggio, in effetti, si è presentato Marco Pannella. Una parola di Marco dal palco avrebbe potuto far bene. Alla maggioranza, dissoltasi in serata, è parso che avrebbe fatto male e Pannella, tra urla e fischi di disapprovazione è stato consegnato al silenzio.
Corriere della Sera 11.10.09
Verdi (di rabbia) divisi su tutto e il futuro val bene una rissa
di Andrea Balzanetti
Come poteva finire un congresso di un piccolo partito spezzato in due, fuori dal Parlamento, con divisioni radicali su quasi tutti i temi tranne che sul pacifismo? Con spintoni, urla, liti e minacce di scissioni. Non si tratta di una boutade, ma di una cronaca sintetica del congresso dei Verdi, una formazione che nella sua prestigiosa storia ha fornito alla Repubblica italiana ministri e sottosegretari e dalla sua formazione è sempre stato rappresentato in Parlamento, fino alle elezioni del 2008. Le cause di questa «elettricità congressuale» non riguardano, come forse ci si aspetterebbe, le questioni fondamentali dell’ambientalismo, tipo come salvare il pianeta dall’anidride carbonica o come risolvere i problemi energetici. Il dibattito si è acceso, invece, su questioni procedurali come il mancato accredito, deciso dal comitato di garanzia, di una decina di delegati e su questioni politiche decisive come l’alleanza con Sinistra e Libertà, altra formazione elettoralmente non proprio di primo piano. Un dibattito surreale, a ulteriore dimostrazione, ammesso che ce ne fosse bisogno, della perdita di contatto con le vere questioni dell’ecologismo, come del resto dimostrano gli ultimi deludenti risultati elettorali. Per cercare di mettere una pezza a questo trend negativo, lo scorso aprile, prima delle elezioni europee, Daniel Cohn Bendit era venuto in Italia per spiegare quali strategie seguire: «I verdi italiani continuano a vedere solo la sinistra — affermò in quell’occasione —. Ma si devono rendere conto che per almeno quattro anni questa non sarà al potere. E nel frattempo? Serve trasversalità, se si vuole essere influenti bisogna guardare a tutta la società». La stragrande maggioranza dei nostri ecologisti respinsero sdegnati il messaggio. Risultati di quelle elezioni: in Francia Europe Ecologie prese il 16,28; in Italia la lista Sinistra e Libertà, con all’interno la Federazione dei Verdi, arrivò al 3,12. Dalla discussione al congresso di Fiuggi sembrava che la lezione non fosse stata recepita, ma la vittoria a sorpresa della mozione Bonelli-Boato apre nuovi scenari. E quei consigli di Cohn Bendit, forse, verranno recuperati dalla spazzatura.
Corriere della Sera 11.10.09
Il «Sole che ride» Spintoni, offese e accuse di brogli. Eletto presidente Bonelli
Soli o a sinistra? Rissa all’assemblea dei Verdi
di Paolo Foschi
ROMA — I Verdi svoltano. L’assemblea del Sole che ride, dopo un’interruzione per rissa, ha scelto il nuovo leader. Ma soprattutto la nuova linea politica: niente alleanza con la Sinistra e libertà di Nichi Vendola, come invece voleva la portavoce nazionale uscente, Grazia Francescato, in una sorta di remake dell’Arcobaleno sconfitto alle ultime politiche. Si cambia. I Verdi saranno un partito autonomo. Sul modello francese lanciato da Daniel Cohn-Bendit. Addirittura un partito trasversale, per quanto riguarda le politiche ambientali. E a guidarli sarà Angelo Bonelli, che è riuscito a ribaltare gli equilibri della vigilia: l’ex capogruppo della Camera era arrivato al congresso con un centinaio di delegati, a fronte dei quasi 250 schierati con Loredana De Petris, la candidata sostenuta dalla Francescato e dall’ex sottosegretario Paolo Cento. E alla fine Bonelli, a sorpresa, raccogliendo consensi fra gli indecisi e racimolando qualcosa anche fra i sostenitori della rivale, è arrivato a 245 voti, mentre la De Petris si è fermata a 231. La XXX assemblea nazionale dei Verdi ha dunque sancito la grande svolta, il cambio della guardia. Il dibattito è stato accesso. E ci sono stati momenti di grande tensione nella tarda mattinata di ieri. Bonelli, insieme a Marco Boato e altri firmatari della sua mozione, è salito sul palco e ha occupato la presidenza del congresso per contestare il mancato accreditamento di alcuni delegati. È una storia di tessere che si trascina da mesi. Bonelli ha accusato il partito di aver rifiutato l’iscrizione di militanti contrari alla linea Francescato. «Abbiamo solo applicato lo Statuto e le regole che democraticamente ci siamo dati», è stata la risposta dei vertici del partito. Ma è stato subito parapiglia. Spintoni, offese, accuse di brogli. minacce. Un quarto d’ora da curva di stadio, più che da platea congressuale. Poi gli animi si sono calmati. E nel clima un po’ pesante da pax armata i lavori sono ripresi. E c’è stato anche un piccolo incidente diplomatico. In sala c’era Marco Pannella, ha chiesto di poter parlare. Ma, non senza imbarazzo, gli organizzatori hanno risposto all’esponente dei Radicali che non erano previsti interventi di politici di altri partiti. E il dibattito interno ai Verdi è andato avanti, con la De Petris che ha sostenuto fino all’ultimo la necessità dell’accordo con Sinistra e libertà, «per non tradire la nostra storia, perché è l’unica strada possibile in questo contesto politico». Bonelli e Boato hanno però insistito: «L’alleanza a sinistra sarebbe un suicidio politico, dobbiamo recuperare la vocazione ambientalista mettendo da parte pregiudizi politici, qualsiasi essi siano. L’abbiamo visto in Francia, è questa la strada giusta». Una linea, questa, che alla fine ha convinto la maggioranza dei delegati.
Repubblica 11.10.09
Il Caimano si prepara per l’ultima spallata
di Eugenio Scalfari
A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi.
Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent´anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata. Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell´immobiliarista sia quella successiva dell´impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell´acqua. Poi l´esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò – lo ripeto – non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l´hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.
Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all´egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L´insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell´agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell´altra metà.
Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell´innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.
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Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un´accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l´attuazione dei suoi piani. L´ira iniziale che l´ha invaso – che viene dalla sua pancia – è stata rapidamente razionalizzata.
L´attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l´Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti.
Questo spiega l´allarme esploso nell´opinione pubblica internazionale.
Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l´Occidente al di qua e al di là dell´Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l´Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.
In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l´opposto; il populismo contiene infatti un´abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico – giuridico.
Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.
La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l´articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l´altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento. Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell´articolo 3. E quindi, se l´articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l´equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov´è l´incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l´adempimento all´articolo 3 o il suo emendamento? No. È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l´incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.
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A questo proposito viene acconcio citare l´articolo uscito ieri sul «Corriere della Sera» e firmato dal suo direttore.
L´ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.
L´articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il «Corriere della Sera» d´essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l´attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un´intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.
Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di «Repubblica», faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.
Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d´una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.
Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla «Stampa» di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.
Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene – ha scritto la Spinelli – i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana – concludeva – non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.
Si può non esser d´accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d´una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?
Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c´erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d´opposizione senza sconti, tra le più robuste dell´epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l´ex direttore del «Corriere della Sera» se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.
Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n´è accorto prima. Difese per vent´anni dalle colonne del «Giornale» le ragioni del Berlusconi imprenditore d´assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c´è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al «Corriere della Sera» quest´esperienza d´un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.
Repubblica 11.10.09
La leggenda del premier eletto dal popolo
di Ilvo Diamanti
"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano.
Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall´altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato – e quindi la Costituzione – inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.
Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.
Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l´Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l´8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".
D´altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un´operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero – come sostiene Berlusconi – il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).
La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l´area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un´istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell´obbligo – ma anche al liceo – era una sufficienza stretta. Come un 18 all´università. Che si accetta per non ripetere l´esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l´80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell´era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.
Repubblica Lettere 11.10.09
Quel film su Ipazia che non si deve vedere
di Paolo Izzo
E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenenabar. Eppure, la storia di una matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", in questo tempo solcato da nuovi fondamentalismi sarebbe molto utile da vedere.
E invece no, non lo vedremo. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante che ci prenderebbe ancora a sassate pur di salvaguardare la sua stoltezza.
qui di seguito la versione originale della lettera di Paolo Izzo, per come è stata inviata a Repubblica e prima della sua pubblicazione:
E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenabar (già geniale e scomodissimo autore di "Mare dentro" sull'eutanasia). Sembra la politica, sembra la cultura. Ma non è. La cautela di ogni schieramento nei confronti dei fondamentalisti vaticani non rispecchia più la maggioranza della popolazione (l'ha mai rappresentata, in verità?). L'ambiguità di una cultura sotto sotto cattolica o peggio catto-fascista-centro-comunista, non ci riguarda più. Eppure, la storia diuna matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", non dobbiamo vederla, non dobbiamo saperla. E invece sì. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante, che nega la scienza per affermare i suoi astratti principi: facciamo un po' i cattivi, visto che lorsignori ci vedono cattivi dalla nascita. E ci prenderebbero a sassate, pur di farci guadagnare la vita eterna.Paolo Izzo