domenica 11 ottobre 2009

l’Unità 11.10.09
Scuola nel caos
Graduatorie da rifare Gelmini bocciata sui precari
Il Tar del Lazio accoglie il ricorso dell’associazione insegnanti ed educatori: «Commissariata se non rispetta i punteggi». Miur: «Emendiamo il decreto»
di N.L.


Mariastella Gelmini commissariata: entro un mese il ministero dell’Istruzione dovrà inserire «a pettine» nelle graduatorie provinciali un centinaio di supplenti. Lo ha stabilito il Tar del Lazio accogliendo il ricorso dell’Asief (Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione) e di circa 70 insegnanti.
La III sezione bis del tribunale amministrativo, presieduta da Evasio Speranza, ha deciso che Mariastella Gelmini sarà commissariata se non farà inserire «a pettine», ovvero sulla base del punteggio ottenuto, i precari finiti «in coda» alle graduatorie. I giudici hanno già nominato il commissario, Luciano Cannerozzi, dirigente generale della Funzione Pubblica. Il Tar ricorda che «in applicazione dei principi costituzionali di effettività della tutela giurisdizionale», il ministero «è tenuto a dare tempestiva e puntuale esecuzione» alla sentenza.
E condanna il Miur al pagamento delle spese legali degli insegnanti ricorrenti. Anche il Consiglio di Stato, al quale si era appellato il ministero, aveva infatti dato ragione al Tar.
Mariastella Gelmini non cede: «Nulla cambierà rispetto a quanto è già deciso», ma annuncia un emendamento ad hoc nel cosiddetto «decreto salva precari», quando sarà convertito in legge. Il ministro è convinta che le sue scelte «rispondano a criteri di giustizia, serietà e modernità». I criteri dei tagli, soprattutto. L’emendamento non consentirà il trasferimento da una graduatoria all’altra», spiega una nota da Viale Trastevere, «garantendo e limitando» l’inserimento «in coda» in altre tre province. In coda, appunto, a chi già è in lista per l’assunzione.
Si preannuncia il caos. Il Tar deve calendarizzare altre udienze per ricorsi (da circa 7mila e 500 precari) e certo molti insegnanti già inseriti «a pettine» saranno sfavoriti, come gli 8mila che hanno avuto l’immissione in ruolo ad agosto, che potrebbero ricorrere al Tar.
«Il ministro Gelmini sta provocando il caos nella scuola, si è mossa in modo unilaterale, senza basi giuridiche», afferma Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil «ha messo i precari l’uno contro l’altro. Rivedere il decreto non salva
nessuno, si devono rivedere i tagli». La Gelmini messa sotto scacco da Tar «dimostra di conoscere poco o per niente le cose di cui parla (come la questione delle pulizie da parte dei collaboratori scolastici), ma quelle che fa, ed anche quelle che non fa, risultano deleterie per la scuola pubblica statale». Anna Fedeli, della Cgil Lazio, propone che si lascino le graduatorie come sono, per non creare «sub graduatorie».
La Lega insorge contro «la dittatura dei magistrati», l’Italia dei Valori reclama le dimissioni della Gelmini. Russo del Pd chiede che il ministro «rispetti le sentenze» e «non cambi la regole del reclutamento degli insegnanti, né alcuna legge, perché sarebbe un atto incostituzionale».❖

l’Unità 11.10.09
Intervista a Tullio De Mauro
«Niente concorsi ma solo tagli: ecco spiegato il caos»
Il linguista ex ministro dell’Istruzione: da 20 anni non si fanno selezioni pubbliche, così il precariato si accumula e si sfrutta nel modo più bieco
di Natalia Lombardo


Il Tar ha sancito il commissariamento del ministro Gelmini, se entro trenta giorni non ristabilirà l’ordine delle graduatorie per chi ha fatto ricorso. Come può essere accaduto?
«Da più di vent’anni non sono stati fatti concorsi pubblici regolari per le assunzioni dei docenti nelle scuole, l’ultimo si è tenuto durante il ministero Berlinguer. Così la mancanza di concorsi ha accumulato precariato. Da anni e anni è stato sfruttato nel modo più bieco l’uso dei lavoratori temporanei».
Un accumulo negli ultimi vent’ anni?
«Sì, è diventata una pandemia. D’altra parte la scuola si è retta proprio su questo. Erano state delineate delle vie d’uscita, discusse con i precari stessi e i sindacati, ma sono state abbandonate».
Come giudica le politiche del ministro Gelmini?
«È stata scelta la linea della riduzione di spesa persino sulle necessità, fino alla carta igienica, e questo ha portato a tagliare con un tratto di penna gli insegnanti precari. Il Tar avrà le sue buone ragioni di natura amministrativa, ma si arriva all’assunzione a scatola chiusa di migliaia di lavoratori temporanei».
Si rischiano ricorsi di altri in graduatoria. Un pasticcio ministeriale?
«Certo se si sconvolge l’assetto che ministero e provveditorati avevano posto nelle scuole e nelle graduatorie è il caos. È l’effetto della cattiva amministrazione».
La Cgil Lazio suggerisce di lasciare le graduatorie come sono. È d’accordo? «Per forza si rischia di aprire un contenzioso senza fine. La sentenza del Tar interviene sulle condizioni drammatiche di chi viene licenziato, ma non può riguardare l’intero apparato della scuola, che dovrebbe essere affidato al ministero, che non è adeguato».
Era mai accaduto un commissariamento del ministro dell’Istruzione? «Non mi pare. Evidentemente il Tar non si fida, teme che, senza un vincolo, il ministero non intervenga»
Tutto questo crea un danno alla scuola, ai lavoratori e ai cittadini. «La politica dei tagli è dettata dal ministro dell’Economia per ridurre al massimo le spese. Ma questa è solo la tessera di un mosaico che vede la riduzione degli investimenti anche nell'università e nella ricerca, di cui nessuno parla».
Vuol dire che c’è più attenzione sulla scuola e meno sulla ricerca? «Sullo stato di atrofia della ricerca in Italia c’è una sordità ministeriale, ma anche una generale incomprensione. Questo è un paese che non sa di avere un istituto di alta ricerca, non ci si preoccupa che non venga finanziato o abbia continui tagli». Un programma preciso dal governo? «Si segue un senso unico: il programma di riduzione dello spazio dedicato alla scuola e, ripeto, all’università, alla ricerca e agli istituti di cultura. È un disegno complessivo. È logico che ci sia chi paga le conseguenze di ogni atto sul piano personale, ma c’è un attacco generale al mondo culturale».
Ci sono state proteste e manifestazio-
ni, ma non trova che, da parte degli intellettuali, ci sia un po’ di afonia, oltre che di sordità? «Il mondo della ricerca tecnologica e chi lavora nelle università, hanno alzato la voce, ma sono rimasti inascoltati. Aggiungerei al titolo del libro di Asor Rosa “Il grande silenzio” sul silenzio intellettuale, un altro: “La grande sordità”. Al di là delle proteste leghiste, non è triste che un tribunale amministrativo debba intervenire sul funzionamento della scuola?
«È triste sì».
E come se ne esce?
«Con il sussulto di tutti contro questo scempio, la devastazione culturale in atto. Certo se il sussulto non c’è, allora dobbiamo sperare nei Tar. Ma voglio dirla tutta...». Prego
«Mi piacerebbe, anche sui precari, vedere delineata una linea alternativa dalle forze d’opposizione. Mi sarà distratto, però vedo solo tante mozioni e non vedo proposte.. Se il programma è l’atrofizzazione culturale, si apre uno dei problemi di fondo della società italiana». ❖

l’Unità 11.10.09
Lisa Canitano:
«Ru-486, ogni scusa è buona per mettere in dubbio l’aborto»
di Ma. Ge.


Uno Stato che pensa che più l’aborto è traumatico meno le donne abortiscono mi fa paura da qui a frustrarle in pubblico non ci manca moltissimo», reduce da un raduno di ginecologi pro Ru486.
In Italia siamo davvero all’anno zero?
«La Ru486 è del 1980, in Francia è in uso dal 1988, è stata adottata anche da Cina e Uzbekistan, l’Oms l’ha inserita tra i farmaci essenziali. E sicuri. Anche in Italia, dopo la sperimentazione di Torino, è in uso a Pontedera, a Bologna a Parma. Non si capisce cosa si debba sapere di più».
Perché l’indagine del senato?
«La strumentalità degli ostacoli che vengono frapposti alla Ru486 è evidente. Vogliono costringere le donne a subire un intervento chirurgico? Da qui alle frustrate ci vuole poco». Perché allora le donne non scendono in piazza?
«Il diritto al farmaco è un concetto complesso e non automatico, passa attraverso l’informazione. Non a caso chi è contrario alla Ru486 strilla così tanto la sua disinformazione. E non a caso le donne che vanno a Pontedera per abortire con la Ru486 sono mediamente molto istruite».
In ogni caso l’Aifa restringe l’uso all’ospedale. Perché? «Sbaglia. Noi medici siamo obbligati a fare gli stessi raschiamenti in day hospital».

l’Unità 11.10.09
VERSO IL 17
I lavoratori in piazza per dire no al razzismo
Tutti a Roma per un’Italia migliore
L’impegno dell’Unità. Durante la manifestazione del 17 ottobre assieme al nostro giornale saranno distribuite migliaia di t-shirt col disegno di Sergio Staino. L’Unità ha aderito alla protesta e sarà presente al corteo
L’adesione della Cgil. Una protesta popolare gioiosa per chiedere riforme profonde: una sanatoria contro il lavoro nero, diritto di voto, cittadinanza
di Pietro Soldini Responsabile immigrazione della Cgil


Il razzismo è allo stesso tempo spia, prodotto e risposta ad una profonda crisi sociale, politica e culturale. La sua ormai innegabile presenza in Italia rappresenta l’allarme più grave per la nostra convivenza civile. Un allarme che riguarda tutti. Perché il razzismo è istituzionale (di chi governa e amministra) è mediatico, è popolare. E c’è anche un razzismo militante sempre più disinvolto e aggressivo, che produce una enorme quantità di vittime e intimidisce anche i settori più sani della società.
La Cgil, che ha avvertito da tempo questo allarme, nei mesi scorsi ha lanciato la campagna «Stesso sangue stessi diritti». Ne è seguita un’altra («Non aver paura») che abbiamo svolto assieme ad associazioni di diversa ispirazione laico-religiosa, la più ampia coalizione trasversale che io ricordi nella storia dell'associazionismo democratico del nostro Paese. Abbiamo mobilitato energie e risorse nelle città e nei territori, ma abbiamo anche dovuto misurarci con contraddizioni e indifferenza.
All’opposto, l’azione del Governo in questi mesi ha prodotto il cosiddetto «pacchetto sicurezza» che intacca pesantemente il profilo egualitario della nostra Costituzione e che produrrà effetti nefasti non solo su quanti saranno colpiti dalla detenzione e dalle espulsioni, ma anche, e soprattutto, sui comportamenti sociali, sugli stati d’animo profondi delle persone e della comunità.
Quindi, adesso è il momento della mobilitazione, di una grande manifestazione. Una consapevole risposta popolare al razzismo, che sappia rappresentare in modo forte, gioioso e pacifico, i valori di una società che sa includere e valorizzare le diversità, che sa coniugare diritti e responsabilità, che non si chiude in se stessa, che non dichiara guerra al futuro ma si ripensa e si rinvigorisce e ringiovanisce attraverso la contaminazione interculturale, interetnica e intergenerazionale.
Una manifestazione per rivendicare provvedimenti che siano in grado di sanare le ferite sociali: una riforma della cittadinanza che riconosca i nuovi cittadini che sono venuti nel nostro paese e i loro figli che sono nati qua; il diritto di voto come fattore di emancipazione non solo per gli immigrati che lo vorranno esercitare, ma soprattutto per il no-
stro sistema politico elettorale che altrimenti perde la caratteristica più importante della democrazia che è il suffragio universale. E, ancora, un provvedimento di regolarizzazione di tutte le persone immigrate che lavorano in nero. Non c’è nessuna ragione plausibile e di buon senso, se non il razzismo e la sua strumentalizzazione politica, per osteggiare questa proposta; consentirebbe infatti di legalizzare il lavoro sommerso, che è il maggiore inquinante della nostra economia. Inoltre renderebbe più sicura la nostra convivenza e porterebbe risorse al sistema fiscale e contributivo del nostro Paese. Il 17 ottobre, a Roma, una buona causa ritroverà il suo popolo. Ecco perché la Cgil ci sta.❖

l’Unità 11.10.09
Solo uniti non saremo stupidi
di Randa Ghazy


Sant’Agostino scriveva che «un uomo solo è in compagnia dei suoi peggiori nemici». Noi uomini di oggi dobbiamo essere davvero molto, molto soli per giustificare l’imbarbarimento quotidiano a cui stiamo assistendo. Spegniamo la televisione e diamo un’occhiata alla realtà. Un solo episodio.
Un ragazzo senegalese di ventisei anni si ferma ad un chiosco, ed ordina un panino. Siamo a Milano. Il panino non gli piace, lo dice al proprietario del chiosco. Quello che fa? Tira fuori un coltello e lo conficca nel petto del giovane. Diallo Germe Usmane, per fortuna, si è salvato.
Non è un’esagerazione, un modo melodrammatico di estremizzare un fatto singolo. Questi non sono casi singoli. Ho una lunga lista da raccontarvi, se volete: ragazzi picchiati, accoltellati, uccisi, insultati, umiliati, posso persino parlarvi della famiglia brianzola che ha preso a bastonate mio padre per un parcheggio urlandogli «Tornatene al tuo paese». Dell’intera famiglia. Padre, madre, figlio, nonno e nonna.
Però sarebbero racconti dalla viva voce delle vittime, e non dai giornali o dalla televisione. Ve lo dimostro: i mezzi di comunicazione ci hanno raccontato in ogni dettaglio l’assassinio della povera Sanaa ad opera del padre che non voleva che lei fosse come era. Ma nel 2007 a Monza un uomo ha ucciso il figlio omosessuale con dodici colpi di revolver. Anche quel padre non voleva che il figlio fosse quel che era. Quanti di voi hanno saputo di quella notizia?
Un detto buddista dice che se discuti con uno stupido, dopo la discussione ti sentirai stupido. Stiamo tutti diventando stupidi. Siamo anestetizzati, immuni al dolore e all’indignazione. Ma io mi rifiuto di rimanere sola con i miei peggiori nemici. Uniamoci, incontriamoci, conosciamoci. Recuperiamo il senso profondo della nostra umanità, manifestando a Roma il 17 ottobre, ma anche rieducando noi stessi, ed opponendoci al silenzio complice che aggredisce le vittime del razzismo.❖

l’Unità 11.10.09
Iran, condannati a morte tre oppositori di Ahmadinejad
Condannati a morte a Teheran tre oppositori ad Ahmedinejad arrestati nella manifestazioni di quest’estate. Il portavoce dei giudici dice che possono ricorrere in appello ma i blog del dissenso sono in allarme.
di Rachele Gonnelli


Rischiano la forca due monarchici e un Mujaeddhin del Popolo, note solo le iniziali dei nomi
Appello all’Onu Pressante allarme nel mondo dei blog: potrebbero ucciderli prima di lunedì

Voce grossa sull’arricchimento dell’uranio e pugno duro contro gli oppositori interni. L’Iran mostra la sua maschera più minacciosa il giorno dopo il premio Nobel per la pace a Barack Obama, un atto che
indirettamente chiama in causa anche Teheran come controparte del disgelo e del disarmo auspicato. La risposta ai saggi di Oslo per quanto riguarda gli ayatollah è che non intendono lasciarsi condizionare né sul programma nucleare né sul piano dei diritti civili.
Ieri tre oppositori del regime arrestati nelle manifestazioni anti-Ahmadinejad successive alla sua contestata rielezione sono stati condannati a morte. La conferma è ufficiale, viene da Zahed Bashiri Rad, portavoce del Dipartimento alla Giustizia del distretto di Teheran. Dei tre si conoscono solo le iniziali e le organizzazioni di appartenenza: due sono filo monarchici Mz e Ap -, il terzo Na fa parte dei Mujaeddhin del Popolo, storico gruppo del dissenso con base a Parigi. Non è chiaro, né il portavoce della magistratura di Teheran si è dato pena di specificare se alle iniziali Mz corrispondano a Mohammad Reza Ali Zamani, monarchico di cui era già trapelata la condanna alla pena capitale attraverso un sito lunedì scorso. Zamani, 37 anni, sarebbe stato arrestato durante le retate post elettorali e, secondo quanto ha ricostruito l’ong Iran Human Rights Documentation Center, dopo un «trattamento» nel braccio 15 della famigerata prigione di Evin ha confessato di essersi infiltrato in Iran dal Kurdistan in contatto con monarchici londinesi e statunitensi per sobillare gli studenti universitari. Il suo processo-farsa, ripreso dalla tv iraniana, è stato duramente criticato da Amnesty. Il portavoce dei giudici Bashiri Rad precisa che le condanne a morte dei tre non sono definitive, i loro legali possono ancora presentare ricorso. Ma sui blog dell’Onda Verde gira un appello pressante all’Onu perchè intervenga subito, si teme che le sentenze possano essere eseguite prima di lunedì. Bashiri dice che altri 18 oppositori hanno già chiesto l’appello. Non chiarisce se si tratta dei capi riformisti mandati a giudizio tra i cento sotto processo per le manifestazioni di giugno e luglio, tra cui Mohammed Ali Abtani, Saeed Shariati, Abdollah Momeni, lo studente iraniano-americano Kian Tajbakhsh e altri che dovrebbero essere liberati su cauzione a giorni.
LA QUESTIONE NUCLEARE
Nel giorno in cui i primi tre oppositori del movimento che ha sfidato Ahmadinejad nelle piazze vengono mandati a morte per «attentato alla sicurezza della Repubblica Islamica», Teheran mostra i muscoli anche sul contenzioso nucleare. Il portavoce dell’Agenzia per l’Energia atomica dell’Iran, Ali Shirzadian, ha dichiarato che anche se nessun Paese dalla Russia alla Francia, agli Stati Uniti vorrà vendere carburante atomico per alimentare il reattore di ricerca di Teheran, gli impianti
iraniani sono in grado di fare da soli, cioè di arricchire le scorte di uranio-235 dal 3 percento consentito fino al 20 percento. Si tratta sempre di un basso potenziale: per costruire una bomba atomica servono infatti isotopi arricchiti al 90 percento. Ma anche nel primo incontro di Ginevra il 1 ̊ ottobre le potenze atomiche hanno ribadito che non vogliono concedere all’Iran alcun processo autonomo di potenziamento del combustibile nucleare. Neanche per scopi come le terapie radio per la cura del cancro. Il prossimo round di negoziati è previsto a Vienna il 19 ottobre o al massimo a fine mese. L’ipotesi dei sei Paesi negoziatori il gruppo 5 più uno vorrebbe che a riprocessare il combustibile fossero i reattori francesi e russi, per ridarlo «in pastiglie» all’Iran. Teheran risponde che con le scorte acquistate nel ‘93 dall’Argentina può fare da sola, almeno per un anno e mezzo. ❖

Repubblica 11.10.09
La scrittrice Marina Nemat, autrice di "Prigioniera di Teheran", riuscì a fuggire e a evitare il patibolo
"Processi farsa e bagni di sangue, al mio Paese serve un nuovo Gandhi"
Vogliono intimidire chiunque scenda in strada. Solo una figura che unisce può salvare il mio popolo
di Francesca Caferri


La sorte dei tre prigionieri condannati a morte per aver protestato contro il governo, Marina Nemat l´ha sperimentata sulla sua pelle. È la sua storia. Era il 1982 quando la giovane Marina fu arrestata e condannata a morte per aver osato protestare in aula contro un professore che, invece di tenere una normale lezione di matematica, pretendeva di indottrinare i suoi allievi sull´Islam. Poco prima dell´esecuzione a Marina fu offerta un´ultima possibilità: salvarsi sposando il suo carceriere. Accettò e visse, da sposa prigioniera, due anni ad Evin, il più famigerato carcere iraniano. Quando ne uscì riuscì a fuggire. Il suo libro – "Prigioniera di Teheran" – è un raro racconto "da dentro" della vita dei prigionieri politici iraniani. Ancora oggi, Nemat si emoziona quando parla di quell´esperienza. E di chi oggi la sta vivendo.
Signora Nemat, si aspettava queste condanne?
«Purtroppo sì. Quello che sta succedendo non è nulla di nuovo. Forse le persone hanno dimenticato quello che accadde negli anni ´80: era finita da poco la rivoluzione, la gente si aspettava democrazia e quanto non la ebbe tornò in piazza a protestare. Non c´erano Youtube e Internet allora e fare uscire le notizie dal paese era molto più difficile di oggi. Ma ci fu un bagno di sangue e il governo fece esattamente quello che sta facendo ora: processi farsa, verdetti decisi prima ancora di entrare in aula. Era chiaro che alcune delle persone sotto processo sarebbero state uccise».
Si aspetta davvero che lo siano? Non potrebbe esserci un gesto di grazia, anche come segnale alla comunità internazionale?
«Potrebbe accadere. Ma quello che il governo vuole è spaventare la gente. Uccideranno qualcuno, che siano questi tre prigionieri o altri: in modo che la notizia si diffonda e le persone sappiano che protestare in Iran costa caro. Così saranno troppo spaventati per scendere in strada di nuovo. È un gioco di intimidazione che colpisce, non a caso, persone normali e non oppositori famosi o di primo piano. È alla gente normale che la paura deve arrivare».
Una paura che lei ha provato sulla sua pelle…
«Io, come tanti altri. Come gli italiani che si ribellavano durante il fascismo: sapevano che se lo avessero fatto qualcuno sarebbe andato nelle loro case, avrebbe arrestato i figli, stuprato mogli e figlie. E poi li avrebbe uccisi. Questo è l´Iran oggi. Ma la gente è infelice, lo ha dimostrato scendendo in piazza dopo le elezioni: possiamo solo sperare. Che un giorno ci sia una figura unificante, un Gandhi iraniano, che unifichi questo paese così diviso e trovi un modo per portarlo verso la democrazia senza scendere nel bagno di sangue».
Lei vive in Canada ed è una delle voci più potenti dell´esilio iraniano. Cosa si può fare da fuori?
«Non usare le armi. Un attacco o un´invasione non risolverebbero nulla. Creerebbero solo una nuova generazione di martiri, di persone pronte a tutto. Come in Iraq e in Afghanistan. Il cambiamento può arrivare solo da dentro. Noi possiamo solo continuare a parlare e ad ascoltare».
Parlare è quello che vuole il presidente Obama: il Nobel lo aiuterà?
«No. Il Nobel ha aiutato Shirin Ebadi, perché la protegge: sarebbe morta oggi se non lo avesse vinto. E non sarebbe la voce potente che è in difesa dei diritti umani e della democrazia in Iran. Ma Obama non ha bisogno di questo per avere più visibilità o più incisività di azione».

l’Unità 11.10.09
Intellettuali addio: il pensiero è polvere
Silenzio o intrattenimento ciarliero. È finita l’epoca dei «chierici»: non parlano più e il loro ruolo di un tempo è ormai consunto, liofilizzato o trasformato in presenza mediatica. L’analisi di Asor Rosa in un libro intervista
di Bruno Gravagnuolo


Giorni fa scorrendo le offerte turistiche nell’inserto un importante quotidiano, ci si imbatteva in un curioso annuncio. Un famoso storico della filosofia avrebbe fatto da guida in una crociera nell’Egeo intrattenendo i crocieristi sulla filosofia greca per tutta la durata del tour. Prezzo modico. Niente di male. Ma si potrebbe cominciare di qui nel recensire Il Grande silenzio, il libro intervista con Alberto Asor Rosa sul «silenzio degli intellettuali» a cura di Simonetta Fiori. L’esempio, assieme a quello di un altro grande studioso autore da anni di (veri) menù gastro-filosofici, riassume ironicamente uno dei temi chiave del libro: la consunzione dell’intellettuale classico. La liofilizzazione del suo ruolo di un tempo. Sintetico e pedagogico, e basato sul nesso cultura e politica. E anche sull’idea di una cultura alta e critica. Vocata a distinguere tra ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Dunque silenzio degli intellettuali, oppure intrattenimento ciarliero, nell’era «postmoderna», termine al quale Asor preferisce quello di «civiltà montante» di massa.
Volume di qualità. Per svariati motivi. Primo, è ben condotto dalla curatrice. Secondo, ha come protagonista pensante un insigne italianista, versato in politica e cultura, la cui biografia è emblematica dell’intellighenzia italiana del dopoguerra.
Terzo, affronta un tema cruciale. Quarto, abbiamo lavorato con Asor al tempo di Rinascita e perciò parlare di lui significa anche parlare di cose convissute (diversamente). Ad esempio, la svolta Pci-Pds che ci sorprese entrambi nel varare, con lui direttore, l’ultima edizione del settimanale fondato da Togliatti. Ma veniamo al punto centrale: gli intellettuali. Asor ne descrive la genesi tra illuminismo e rivoluzione industriale. Figure chiave della riproduzione capitalistica dentro la moderna società civile, sono sempre stati in qualche modo enciclopedici, conflittuali, oppure organici. E sempre «espressivi» di un salto: dai saperi specialistici, all’intelletto generale. Sociologicamente per Asor quella funzione si è estinta, a beneficio di ruoli tecnici, mediatici o manageriali. E nel quadro di una mutazione «post-fordista» che ha massificato ceti e classi, rendendo inutili mediazioni e conflitti, dei quali i chierici sono stati vessiliferi attraverso le tempeste ideologiche del 900. Sullo sfondo per Asor c’è ormai la «civiltà montante», il «Mostro mite» di cui parla Raffaele Simone, affine alla «dittatura della maggioranza» di cui scriveva Tocqueville: società dell’immagine, individualismo di massa, omologazione, populismo light, Grande Fratello etc. Matrici di un gigantesco degrado, sia del progresso civile e democratico, sia dell’intelligenza critica.
Apocalissi? Sì e no, per Asor. Che benché esegeta in passato dell’Apocalissi giovannea rifiuta geremiadi passatiste, e anzi cerca i punti di attacco per una ripartenza di politica e cultura (vissuti alla Bobbio in concordia/discorde) e per un rilancio del meglio della tradizione democratica occidentale. Ma ha ragione Asor? Ha molte ragioni e magari qualche torto (ma più nel senso di omissioni). È giusta intanto la percezione generale dell’evo post-fordista, con il corollario giustissimo della barbarie italiana berlusconiana, fatta di disgregazione di memoria, prepotenza carismatica e minacce alla divisione dei poteri. Giustissima altresì è la critica agli intellettuali italiani, inermi o al di sopra delle parti spesso, dopo essere stati a sinistra
magari corrivi e ortodossi. E soprattutto ha ragione su una cosa: il difetto della svolta Pci-Pds. Che per Asor ha gettato alla fine il bambino e l’acqua sporca, senza un bilancio serio di ciò che fu il Pci nella storia d’Italia: una grande cosa progressiva, sia pur con limiti e ritardi. Realtà liquidata senza «pars construens», fino a privare le classi subalterne di organizzazione, identità e prospettive. E con la conseguenza di aver spianato il campo al blocco sociale e al senso comune della destra.
SALVARE LA SINISTRA
E però in conclusione l’analisi di Asor pecca forse almeno su due punti. E cioè, non è vero che l’omologazione sia poi così forte, al punto da rendere quasi disperata la ricerca di punti di attacco e resistenza. Infatti il lavoro dipendente è cresciuto, in parallello al grande esercito di riserva dei flessibili, immigrati e no. Il contrattacco oltre che dalla scuola di massa può riprendere dalla riscoperta del lavoro moderno, avanzato, infelice e dominato. Ribelle potenzialmente alle ricette liberiste, che vogliono farne una cosa marginale e areiforme, non più garantito e «umano-relazionale». Infine il Pci-Pds. Fu fatta male la svolta del 1989. Ma andava fatta visto il crollo del comunismo e non rifiutata come fece il fronte del «no», che meglio avrebbe fatto a tentare di indirizzarla in altro modo, invece di respingerla. In verità dopo lo sconcerto e il rifiuto Asor Rosa cercò con onestà una strada costruttiva e positiva, che salvasse il nocciolo razionale della sinistra e del comunismo italiano. Ma fu sconfitto, e tutti noi oggi dobbiamo ancora ricominciare di lì.

Repubblica 11.10.09
All’assemblea nazionale la spunta a sorpresa la componente minoritaria di Boato: bocciata l’alleanza con la Sinistra
Verdi, Bonelli presidente tra gli spintoni
di Antonello Caporale


FIUGGI - Solo qualche spintone, ma neanche un graffio. L´automedica non è intervenuta e il breve scambio di opinioni saluta nei fatti il nuovo presidente dei Verdi, che contro tutti i calcoli delle tessere e dei delegati, è Angelo Bonelli, già deputato e capogruppo. Ha ottenuto 245 voti, battendo la favorita Loredana de Petris (231 voti). Nel fantastico mondo del Sole che ride (e che tifa per la Pace nel suo stesso simbolo) c´è sempre una piccola gazzarra a segnare la vita e la parabola. Pochi, ma piuttosto agitati, gli ambientalisti hanno scelto, dividendosi, la via da percorrere per uscire dalle tenebre e trovare la luce. Grazia Francescato, la portavoce uscente, con il suo gruppo maggioritario, aveva indicato la possibile salvezza: fare team con Nichi Vendola e i socialisti, riunire in un simbolo allargato (Sinistra Ecologia Libertà) le poche e affaticate risorse. Contrapposta la mozione di minoranza: da soli comunque e sempre. A guidare la resistenza Marco Boato e il vincitore finale, l´outsider Bonelli.
Confluire o resistere? Resistere. Qui sono intervenuti gli spintoni. I verdi, bisogna ricordarlo, sono abituati a darsele di santa ragione. Nel 2001, a Chianciano Terme, ci fu un match piuttosto agitato al cospetto del candidato premier Francesco Rutelli (un ex sonoramente fischiato). Ieri un bis in scala ridotta. Però lo spintone, secondo l´originale esegesi di Paolo Cento, ex deputato molto fisico, rappresenta «un segno di vivacità. Siamo vivi e l´abbiamo dimostrato». La minoranza (a fine gara però vincitrice) a cui sono state interdette dall´inflessibile commissione di garanzia alcuni decisivi delegati, ha occupato in mattinata il palco per contestare «lo stalinismo» che albergherebbe in un partito altrimenti libertario fino al punto da apparire caciarone. Bonelli e Boato, andati al contrattacco, avrebbero persino chiesto a forze esterne di venire in soccorso. Nel pomeriggio, in effetti, si è presentato Marco Pannella. Una parola di Marco dal palco avrebbe potuto far bene. Alla maggioranza, dissoltasi in serata, è parso che avrebbe fatto male e Pannella, tra urla e fischi di disapprovazione è stato consegnato al silenzio.

Corriere della Sera 11.10.09
Verdi (di rabbia) divisi su tutto e il futuro val bene una rissa
di Andrea Balzanetti


Come poteva finire un congres­so di un piccolo partito spezza­to in due, fuori dal Parlamento, con divi­sioni radicali su quasi tutti i temi tranne che sul pacifismo? Con spintoni, urla, liti e minacce di scissioni.
Non si tratta di una boutade, ma di una cronaca sintetica del congresso dei Verdi, una formazione che nella sua prestigiosa storia ha fornito alla Repubblica italiana ministri e sottosegretari e dalla sua formazione è sem­pre stato rappresentato in Parlamento, fino alle ele­zioni del 2008.
Le cause di questa «elet­tricità congressuale» non riguardano, come forse ci si aspetterebbe, le questio­ni fondamentali dell’am­bientalismo, tipo come sal­vare il pianeta dall’anidride carbonica o come risolvere i problemi energetici. Il dibattito si è acce­so, invece, su questioni procedurali come il mancato accredito, deciso dal comitato di garanzia, di una decina di delegati e su questioni politiche decisive come l’allean­za con Sinistra e Libertà, altra formazione elettoralmente non proprio di primo pia­no. Un dibattito surreale, a ulteriore di­mostrazione, ammesso che ce ne fosse bi­sogno, della perdita di contatto con le ve­re questioni dell’ecologismo, come del re­sto dimostrano gli ultimi deludenti risul­tati elettorali.
Per cercare di mettere una pezza a que­sto trend negativo, lo scorso aprile, prima delle elezioni europee, Daniel Cohn Ben­dit era venuto in Italia per spiegare quali strategie seguire: «I verdi italiani conti­nuano a vedere solo la sinistra — affermò in quell’occasione —. Ma si devono ren­dere conto che per almeno quattro anni questa non sa­rà al potere. E nel frattem­po? Serve trasversalità, se si vuole essere influenti bi­sogna guardare a tutta la società». La stragrande maggioranza dei nostri eco­logisti respinsero sdegnati il messaggio. Risultati di quelle elezioni: in Francia Europe Ecologie prese il 16,28; in Italia la lista Sini­stra e Libertà, con all’interno la Federazio­ne dei Verdi, arrivò al 3,12.
Dalla discussione al congresso di Fiug­gi sembrava che la lezione non fosse stata recepita, ma la vittoria a sorpresa della mozione Bonelli-Boato apre nuovi scena­ri. E quei consigli di Cohn Bendit, forse, verranno recuperati dalla spazzatura. 


Corriere della Sera 11.10.09
Il «Sole che ride» Spintoni, offese e accuse di brogli. Eletto presidente Bonelli
Soli o a sinistra? Rissa all’assemblea dei Verdi
di Paolo Foschi



ROMA — I Verdi svoltano. L’assemblea del Sole che ri­de, dopo un’interruzione per rissa, ha scelto il nuovo lea­der. Ma soprattutto la nuova linea politica: niente alleanza con la Sinistra e libertà di Ni­chi Vendola, come invece vo­leva la portavoce nazionale uscente, Grazia Francescato, in una sorta di remake del­l’Arcobaleno sconfitto alle ul­time politiche. Si cambia.
I Verdi saranno un partito autonomo. Sul modello fran­cese lanciato da Daniel Cohn-Bendit. Addirittura un partito trasversale, per quan­to riguarda le politiche am­bientali. E a guidarli sarà An­gelo Bonelli, che è riuscito a ribaltare gli equilibri della vi­gilia: l’ex capogruppo della Camera era arrivato al con­gresso con un centinaio di de­legati, a fronte dei quasi 250 schierati con Loredana De Pe­tris, la candidata sostenuta dalla Francescato e dall’ex sottosegretario Paolo Cento. E alla fine Bonelli, a sorpresa, raccogliendo consensi fra gli indecisi e racimolando qual­cosa anche fra i sostenitori della rivale, è arrivato a 245 voti, mentre la De Petris si è fermata a 231.
La XXX assemblea naziona­le dei Verdi ha dunque sanci­to la grande svolta, il cambio della guardia. Il dibattito è stato accesso. E ci sono stati momenti di grande tensione nella tarda mattinata di ieri. Bonelli, insieme a Marco Boa­to e altri firmatari della sua mozione, è salito sul palco e ha occupato la presidenza del congresso per contestare il mancato accreditamento di alcuni delegati. È una storia di tessere che si trascina da mesi. Bonelli ha accusato il partito di aver rifiutato l’iscri­zione di militanti contrari al­la linea Francescato. «Abbia­mo solo applicato lo Statuto e le regole che democratica­mente ci siamo dati», è stata la risposta dei vertici del par­tito. Ma è stato subito parapi­glia. Spintoni, offese, accuse di brogli. minacce. Un quarto d’ora da curva di stadio, più che da platea congressuale.
Poi gli animi si sono calma­ti. E nel clima un po’ pesante da pax armata i lavori sono ripresi. E c’è stato anche un piccolo incidente diplomati­co. In sala c’era Marco Pannel­la, ha chiesto di poter parla­re. Ma, non senza imbarazzo, gli organizzatori hanno rispo­sto all’esponente dei Radicali che non erano previsti inter­venti di politici di altri parti­ti.
E il dibattito interno ai Ver­di è andato avanti, con la De Petris che ha sostenuto fino all’ultimo la necessità dell’ac­cordo con Sinistra e libertà, «per non tradire la nostra sto­ria, perché è l’unica strada possibile in questo contesto politico». Bonelli e Boato han­no però insistito: «L’alleanza a sinistra sarebbe un suicidio politico, dobbiamo recupera­re la vocazione ambientalista mettendo da parte pregiudizi politici, qualsiasi essi siano. L’abbiamo visto in Francia, è questa la strada giusta». Una linea, questa, che alla fine ha convinto la maggioranza dei delegati. 


Repubblica 11.10.09
Il Caimano si prepara per l’ultima spallata
di Eugenio Scalfari


A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi.
Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent´anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata. Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell´immobiliarista sia quella successiva dell´impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell´acqua. Poi l´esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò – lo ripeto – non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l´hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.
Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all´egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L´insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell´agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell´altra metà.
Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell´innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.
* * *
Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un´accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l´attuazione dei suoi piani. L´ira iniziale che l´ha invaso – che viene dalla sua pancia – è stata rapidamente razionalizzata.
L´attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l´Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti.
Questo spiega l´allarme esploso nell´opinione pubblica internazionale.
Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l´Occidente al di qua e al di là dell´Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l´Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.
In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l´opposto; il populismo contiene infatti un´abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico – giuridico.
Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.
La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l´articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l´altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento. Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell´articolo 3. E quindi, se l´articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l´equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov´è l´incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l´adempimento all´articolo 3 o il suo emendamento? No. È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l´incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.
* * *
A questo proposito viene acconcio citare l´articolo uscito ieri sul «Corriere della Sera» e firmato dal suo direttore.
L´ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.
L´articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il «Corriere della Sera» d´essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l´attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un´intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.
Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di «Repubblica», faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.
Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d´una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.
Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla «Stampa» di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.
Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene – ha scritto la Spinelli – i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana – concludeva – non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.
Si può non esser d´accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d´una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?
Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c´erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d´opposizione senza sconti, tra le più robuste dell´epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l´ex direttore del «Corriere della Sera» se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.
Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n´è accorto prima. Difese per vent´anni dalle colonne del «Giornale» le ragioni del Berlusconi imprenditore d´assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c´è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al «Corriere della Sera» quest´esperienza d´un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.

Repubblica 11.10.09
La leggenda del premier eletto dal popolo
di Ilvo Diamanti


"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano.
Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall´altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato – e quindi la Costituzione – inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.
Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.
Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l´Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l´8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".
D´altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un´operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero – come sostiene Berlusconi – il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).
La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l´area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un´istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell´obbligo – ma anche al liceo – era una sufficienza stretta. Come un 18 all´università. Che si accetta per non ripetere l´esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l´80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell´era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

Repubblica Lettere 11.10.09
Quel film su Ipazia che non si deve vedere
di Paolo Izzo

E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenenabar. Eppure, la storia di una matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", in questo tempo solcato da nuovi fondamentalismi sarebbe molto utile da vedere.
E invece no, non lo vedremo. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante che ci prenderebbe ancora a sassate pur di salvaguardare la sua stoltezza.

qui di seguito la versione originale della lettera di Paolo Izzo, per come è stata inviata a Repubblica e prima della sua pubblicazione:
E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenabar (già geniale e scomodissimo autore di "Mare dentro" sull'eutanasia). Sembra la politica, sembra la cultura. Ma non è. La cautela di ogni schieramento nei confronti dei fondamentalisti vaticani non rispecchia più la maggioranza della popolazione (l'ha mai rappresentata, in verità?). L'ambiguità di una cultura sotto sotto cattolica o peggio catto-fascista-centro-comunista, non ci riguarda più. Eppure, la storia diuna matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", non dobbiamo vederla, non dobbiamo saperla. E invece sì. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante, che nega la scienza per affermare i suoi astratti principi: facciamo un po' i cattivi, visto che lorsignori ci vedono cattivi dalla nascita. E ci prenderebbero a sassate, pur di farci guadagnare la vita eterna.
Paolo Izzo

sabato 10 ottobre 2009

l’Unità 10.10.09
Manifestazioni a Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo. Nel capoluogo lombardo in 100mila
Ma il governo e le altre organizzazioni tirano diritto. L’intesa tra martedì e mercoledì
«Sospendete la trattativa» 250mila operai in piazza
di Giuseppe Vespo


Lo sciopero della Fiom ha portato in cinque piazze italiane 250mila persone, per dire no all’accordo separato sul rinnovo del contratto e chiedere misura più efficaci contro la crisi. «Un fallimento» secondo Fim e Uilm.

«Meno male che non ho una famiglia», dice Stefano Monteresis, da 25 operaio anni alla Bonino Cardin Machines, piccola azienda di macchine tessili del Biellese che da gennaio ha messo i suoi cinquanta dipendenti in cassa integrazione. «Come avrei fatto a mantenerla con 750 euro al mese di cassa integrazione e un mutuo?».
DUECENTOCINQUANTAMILA
Stefano è uno dei centomila arrivati ieri in piazza Duomo a Milano insieme alla Fiom. Uno dei duecentocinquamila stima il sindacato che hanno partecipato allo sciopero generale indetto dalle tute blu Cgil per chiedere il blocco dei licenziamenti, l’estensione degli ammortizzatori sociali e per dire no all’ipotesi di un accordo separato per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Con il sindacato guidato da Gianni Rinaldini si sono riunite in strada centomila persone a Milano, trentamila a Roma, sessantamila a Firenze, cinquantamila a Napoli e diecimila a Palermo. Un assaggio reale di crisi ma anche una prova di forza per la Fiom, che tira fuori i muscoli per far vedere sia a Federmeccanica sia a Fim-Cisl e Uilm-Uil, che rimane l’organizzazione più rappresentativa tra le tute blu, senza la quale è illogico rinnovare il contratto di settore.
REAZIONI
Così, a seconda di chi la interpreta, la partecipazione alle manifestazioni assume un peso diverso. Il ministro Sacconi, per esempio, si augura che la Fiom «voglia riflettere sulla poca adesione che ha registrato» nelle fabbriche. Un dato che per il sindacato si è attestato al 70 per cento mentre per Federmeccanica solo al 13. Di «fallimento», parla anche Giuseppe Farina, segretario della Fim-Cisl, che sentenzia: «Non c’è nessuna alternativa al rinnovo del contratto». E sulla stessa linea si posiziona il leader dei meccanici della Uil, Antonino Regazzi, che non esclude si possa trovare l’intesa sul contratto tra martedì e mercoledì, quando si tornerà a parlare con Federmeccanica di salario.
LA PROPOSTA
Difficile quindi che venga presa in considerazione la proposta lanciata ieri dal palco milanese di piazza Duomo da Rinaldini, che ha chiesto a sindacati e industriali di fermare le trattative e di sottoporre ai lavoratori un referendum sulle due piattaforme presentate alle imprese. «Se la maggioranza si pronuncerà per la piattaforma di Fim e Uilm noi ne prenderemo atto, perché il nostro unico vincolo è la volontà dei lavoratori ha detto il segretario Fiom viceversa chiediamo agli altri sindacati di comportarsi allo stesso modo».
A questo proposito la Fiom ha inviato a tutti i partiti una lettera per chiedere una legge che istituisca il referendum tra i lavoratori come passaggio obbligato per il rinnovo dei contratti nazionali. «Un principio di democrazia», secondo Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, ovviamente contrario ad un accordo dei metalmeccanici senza la Fiom. Mentre per Raffaele Bonanni (Cisl) la posizione dell’organizzazione di Rinaldini è «inadatta al delicato momento del sindacalismo italiano. Siamo costretti a garantire ai lavoratori un contratto e la prospettiva di un lavoro». Concorde Luigi Angeletti (Uil), che insieme a Renata Polverini (Ugl) esprime «rispetto per chi manifesta».
Tra questi, ieri in tutta Italia c’erano anche 150mila studenti, mobilitati al fianco degli operai e contro i tagli alla scuola. Alla giornata milanese hanno partecipato, oltre al segretario Cgil, Susanna Camusso, e alla segretaria della Filtea, Valeria Fedeli, anche i leader di Rifondazione, Paolo Ferrero, e dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro e il senatore Pd Paolo Nerozzi.❖

l’Unità 10.10.09
Conversando con José Saramago Poeta e scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1998
«Berlusconi è un bubbone ed è la malattia del Paese La sinistra? Non ha idee»
di Oreste Pivetta


Alto, magro, sottile nell’abito grigio, la giacca abbottonata, la cravatta rossa, ecco Saramago che mi cammina incontro lungo il corridoio di un albergo torinese, che mi porge la mano, che mi dice cose terribili con la calma del saggio, la puntualità di chi misura le parole, di chi le parole usa da una vita e che delle parole ha fatto la sua ragione di vita. Siamo nel campo delle «interviste impossibili»: come si fa a restituire il tono di fondo e il contorno di quelle parole, di parole come Obama, pace, sinistra, comunista e , naturalmente, Berlusconi e persino D’Addario.
Josè Saramago è a Torino. Ieri sera ha festeggiato il suo nuovo libro al Circolo dei lettori, oggi avrà altri appuntamenti a Palazzo Nuovo, l’università, lunedì sarà a Milano al Teatro Franco Parenti, mercoledì a Roma al Quirino. Il libro in questione è «Il Quaderno», pubblicato da Bollati Boringhieri dopo che la Einaudi l’aveva respinto. È la raccolta di quanto comparso nel giro
di un anno e mezzo, tra il 2008 e il 2009, nel blog di Saramago, un articolo, un pensiero, una breve nota di carattere politico o un ricordo letterario: dalla sua Lisbona alla poesia di Machado, da Ratzinger a Gaza. Einaudi lo bocciò per quel ritrattino impietoso di Silvio Berlusconi e del popolo italiano, che sta alle prime pagine: «Nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?»
Però vorrei cominciare dalla notizia del giorno: il Nobel per la pace a Obama. Lei ha dedicato molte pagine del suo blog al nuovo presidente degli Stati Uniti, dopo essersi dedicato con feroce lucidità al predecessore, George Bush, «bugiardo compulsivo», «bugiardo emerito», un cow boy che credeva d’aver ereditato il mondo e lo aveva confuso con una mandria di buoi.
Adesso c’è Obama, quasi una rivoluzione, certo una speranza. Che cosa pensa di questo premio? «Mi rallegra moltissimo. Attendo il suo discorso con curiosità. Qualcuno in giro dirà che è prematuro, che in fondo non si sono ancora visti i risultati di una eventuale politica di pace di Obama. Io penso prima di tutto che si tratti di un buon investimento: la dimostrazione che vale per i mondo intero di quanto abbiamo bisogno di un uomo come Obama. Almeno dei pensieri, degli intendimenti che finora ha espresso. Bene. Certo che il presidente degli Stati Uniti si ritrova sulle spalle una responsabilità enorme. Come ho scritto, un uomo che ci sorprende in questo mondo cinico, senza speranza, terribile, che ci sorprende perché ha voluto alzare la voce per parlare di valori,di responsabi-
lità personale e collettiva di rispetto per il lavoro e anche per la memoria di chi ci ha preceduto...». Ma lei sapeva che anni fa un parlamentare italiano lanciò l’idea di una petizione popolare perché il premio Nobel per la pace venisse assegnato a Berlusconi?
«No, questo mi è sfuggito. E che cosa avrebbe mai fatto Berlusconi per la pace? Non so. Ho solo visto invece come ha ridotto il suo paese, ho potuto apprezzare la decadenza morale e culturale di un paese che amo molto...».
Berlusconi dirà che lei è un vecchio comunista. Non si senta solo... Però, di fronte alle sue analisi perfette (anche quelle che toccano la sinistra,il partito democratico, Veltroni) mi chiedo come faccia lei da Lisbona o da Lanzarote a vedere tutto, ad analizzare tutto con tanta precisione?
«Non mi è stato difficile, perché, ripeto,ho sempre amato l’Italia. In realtà quando sulla scena è comparso Berlusconi me ne sono allontanato. Dopo, ad ascoltare quanto accadeva, mi sono sentito addosso il dovere morale di dire quanto pensavo. Anche adesso: che Berlusconi è un bubbone ed è la malattia del paese, anche se ha riscosso molte simpatie,se è vero che per tre volte gli italiani lo
hanno eletto. Un uomo senza morale, capace di tutto...». Sa anche delle escort?
«Sì e mi hanno molto colpito le sue proteste quando la signorina D’Addario è comparsa in televisione. Si-
gnificative del suo modo proprietario di pensare il paese. La signorina D’Addario può frequentare i palazzi del potere, ma non può comparire in televisione...».
Beh,si potrebbe dire che Palazzo Grazioli non è palazzo Chigi. Palazzo Grazioli è “roba” di Berlusconi. «Certo, ma lui ne ha fatto il
luogo privilegiato di esercizio del suo potere, in modo aperto, chiaro, incontrando lì gli stessi uomini del governo italiano».
Lei non è tenero neppure con la sinistra, tantomeno con quella italiana. Ha scritto che il Partito democratico. È cominciato come una caricatura di partito ed è diventato il convitato di pietra sulla scena politica. Ha scritto che Veltroni ha suscitato tante speranze defraudate dalla sua indefinitezza ideologica e dalla fragilità del suo carattere. È sempre di questa convinzione? «Tempo fa durante una conferenza a Buenos Aires dissi che la sinistra (e mi riferivo alla sinistra dei paesi che conosco) non ha la più schifosa idea del mondo in cui vive. Della realtà che ci sta attorno. Francamente temevo reazioni durissime, parole forti contro di me, rivendicazioni di orizzonti, di progetti, di battaglie. E invece mi sono ritrovato immerso nel silenzio. Nulla. È la dimostrazione che la sinistra non ha idee. Si può dire che la sinistra moderata abbia ad esempio espresso qualcosa di sinistra di fronte alla crisi economica e finanziaria di questi tem-
pi? Avete assistito a qualche reazione ispirata da una cultura di sinistra? E la sinistra comunista che fa? Aspetta di dar l’assalto a un altro Palazzo d’inverno».
Abbia pazienza: ci siamo tutti arresi al mercato e alla sue regole... «Ho scritto anche e ne sono convinto che Marx non aveva mai avuto tanta ragione come oggi».
Mi ha colpito un capitoletto del suo blog, dove cita alcune parole cardine e cioè bontà, giustizia, carità. Per un comunista come lei e come noi non dovrebbe contare in primo luogo l’eguaglianza?
«Le ho pure collocate in ordine di importanza quelle parole: prima la bontà che dovrebbe implicare la giustizia, all’ultimo posto la carità che ha sempre qualcosa di compassionevole e soprattutto consente a chi la fa di godere di uno stato di superiorità. Di fronte alle mistificazioni del nostro tempo retrocederei la bontà (quanti fanno del male, assumendo le sembianze dei buoni) e farei avanzare la giustizia,introdurrei la parola libertà e cancellerei carità».
Eguaglianza niente?
«È un concetto molto complesso. Anche con la Rivoluzione francese arrivò per ultimo. L’eguaglianza è impossibile. Se la giustizia funziona ci si avvicina».
Abbiamo parlato dell’Italia. Lei segue la produzione letteraria italiana? «Ci sono tanti bravi scrittori. Non parlo soltanto dei classici. Penso ai miei contemporanei, da Eco a Tabucchi a Camilleri. Sono scrittori che in Italia però mi sembra non abbiano eco. Non è un gioco di parole... Scrivono,dicono, fanno,ma nessuno li ascolta. Cioè non hanno alcuna influenza sulla società, sulla cultura e sul costume degli italiani, tantomeno sulla politica. Sono molto più apprezzati all’estero. Ho scritto di etica verdiana,riferendomi appunto alla straordi-
naria popolarità di quel grande compositore. Ma scrivere sui muri, come si faceva allora, “Viva Verdi” aveva un significato politico chiaro: Viva Vittorio Emanuele re d’Italia eccetera eccetera. Ora non c’è
parola che scuota una società apatica, che non ha evidentemente coscienza del fatto che la democrazia non è una conquista garantita per l’eternità. Basta poco a perderla».
Lei è un grande scrittore, considerato tra i più grandi del secolo passato e di questo. Dia qualche consiglio ai giovani: come si fa a diventare bravi quanto lei?
«Non mi sogno proprio di dare consigli. Mi permetto solo di ammonire così: non avere fretta, non perdere tempo. La fretta è un difetto giovanile: si vuole arrivare presto ai risultati, al successo. Non perdere tempo, perché ogni momento è prezioso per studiare, imparare, conoscere,sperimentare». Scusi, vorrei chiudere con una citazione, tanto per risollevare il morale della sinistra... «Abbiamo ragione,la ragione che assiste chi propone di costruire un mondo migliore prima che sia troppo tardi...».❖

Repubblica 10.10.09
Il Cavaliere e la dignità violata
di Nadia Urbinati


Berlusconi ripete spesso che "la maggioranza degli italiani è con me". Ma forse pensa che quando parla di donne la totalità degli italiani (uomini ) è con lui. Il silenzio protratto di molti, troppi uomini su come il premier tratta e descrive le donne, sembrerebbe provare che egli rappresenta davvero il costume di una gran parte dei maschi. Anche alcuni leader dell´opposizione, quando si cominciò a sapere di escort e festini, dissero che erano affari privati e che la politica non doveva infilarsi sotto le lenzuola. Poi però si seppe che spesso le lenzuola vennero usate come trampolino per poltrone, affari e clientele e allora la tesi giustificativa del "privato" non tenne più.
Naturalmente, il ricorso al privato é ancora l´arma più brandita dal leader e da chi lo sostiene anche con la strategia del dileggio contro chi la mette in discussione. E tutto viene liquidato con l´accusa dell´invidia, la quale è un vizio privato non giustificabile; é un vizio e basta.
La donna, dice il Signor Berlusconi, è il più bel dono che il creato ci (leggi: a noi uomini, non al genere umano) ha dato. La logica è vecchia come il mondo ma sempre nuova: noi siamo state create ed educate per alleggerire il peso di chi ha potere e responsabilità. Noi siamo solo privato. Se proviamo a essere noi, né doni né veline, allora siamo niente, oggetto di offesa e di attacco: brutte, vecchie, e via di seguito. Anche in questo caso l´accusa di invidia viene usata per squalificare le nostre ragioni: perché, presumibilmente, se fossimo giovani e belle non ci offenderebbe essere trattate come un dono. Se ci offende, ecco la conclusione della filosofia dell´invidia del signor Berlusconi, è perché nessuno ci vuole più come un dono. Risultato: a bocca chiusa siamo accettate sempre, da giovani o vecchie, se belle o brutte; ma se usiamo il cervello siamo offese sempre: se belle perché pensare non si addice alla bellezza, se brutte perché pensare è germe di invidia.
La logica é chiara: il leader del nostro paese usa le armi del maschilismo più trito per azzerare nelle abitudini la cultura dei diritti e dell´eguale dignità che generazioni di donne e di uomini hanno con durissima fatica costruito. Si potrebbe dire che la sua è una logica controrivoluzionaria da manuale, una truculenta reazione contro una cultura che ci ha consentito di essere cittadine uguali fra cittadini uguali. Con una precisazione importante: non è la presenza nel pubblico che ci viene tolta; molto più subdolamente, è l´autonomia, la scelta competente di poter essere parte del pubblico che ci si vuole togliere (le poche ministre del governo sono lì perché sono gradevoli al capo, per ragioni tutte private e soprattutto per volontà altrui). È anche per questo che la distinzione tra pubblico e privato oggi non tiene: perché questa distinzione ha valore solo se riposa su un presupposto di eguaglianza di dignità; diversamente il privato è un serraglio e il pubblico uno spazio dispotico e di fatto un´estensione del privato, dei suoi interessi e delle sue pulsioni.
Viviamo un tempo in cui i diritti dell´eguaglianza sono sotto attacco: dall´istituzione della carta di povertà, alla demolizione della scuola pubblica e del servizio sanitario nazionale, al trattamento di privilegio rispetto alla legge che i potenti pretendono: tutto va nella direzione di una maggiore diseguaglianza. E l´offesa che subiscono le donne – l´insulto alle ragazze veline, a Rosy Bindi e a tutte noi–è la madre di tutte gli arbitri e di tutte le diseguaglianze. E per troppo tempo questo fenomeno è stato digerito come cibo normale, come se, appunto, il Signor Berlusconi fosse davvero rappresentativo della mentalità generale di tutti gli italiani. è vero che troppo spesso si vedono platee di convegni o di eventi pubblici popolate di soli uomini, come se il genere femminile non contemplasse anche studiose oltre che intrattenitrici. Ed è vero che purtroppo è quasi sempre solo l´occhio delle donne a vedere questa uniformità al maschile. Certo, è bene non generalizzare. Tuttavia non é fuori luogo ricordare anche a chi lo sa già che la dignità violata delle donne è dignità violata per tutti, anche per gli uomini. I quali, in una società compiutamente berlusconiana non sarebbero meno subalterni e più autonomi delle loro concittadine.

Repubblica 10.10.09
Le due ottime ragioni della Consulta
di Alessandro Pace


Sul Lodo Schifani la Corte aveva indicato che la costituzionalità era ancora da valutare
Era chiaro che lo scudo per le alte cariche non poteva essere istituito con legge ordinaria

Caro direttore, da più parti, e non solo dal centro-destra, si muovono alla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l´incostituzionalità del cosiddetto Lodo Alfano due rilievi critici: il primo, di aver rinnegato ciò che nel 2004 aveva affermato, e cioè che l´«assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono» alle alte cariche dello Stato costituirebbe «un interesse apprezzabile»; il secondo, di non aver esplicitato che il Lodo Schifani violava l´articolo 138 oltre agli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Il primo rilievo è inesatto, perché se è vero che tali parole figurano nel paragrafo 4 della sentenza, è anche vero che esse vanno lette alla luce della frase conclusiva dello stesso paragrafo, che suona così: «Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti»
Una frase, quest´ultima, che rende chiaro, al lettore attento, come l´effettiva rilevanza costituzionale di quell´interesse costituisse, per la Corte, non la conclusione di un iter argomentativo, ma un problema (ancora) da valutare alla luce dei principi costituzionali. Ciò che la Corte ha poi fatto nei paragrafi 6, 7 e 8 evidenziando il contrasto della legge Schifani con il «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali».
Il secondo rilievo è altrettanto inesatto. È vero che in quella sentenza non si parla dell´articolo 138, ma il riferimento a questa norma, per quanto implicito, è trasparente (almeno per un costituzionalista). Non si può infatti sostenere, nel contempo: a) che la Costituzione sia superiore alle leggi ordinarie; b) che essa sia posta allo stesso livello delle leggi ordinarie che possono modificarla.
Ne segue che, nel momento stesso in cui la Corte ha annullato il Lodo Schifani alla luce degli articoli 3 e 24 della Costituzione, essa - nel riaffermare la superiorità della nostra Carta fondamentale (che è un «prius logico» di tutte le sentenze della Corte costituzionale dichiarative dell´incostituzionalità di una legge) – ha altresì certificato anche l´insufficienza formale della legge ordinaria come strumento normativo idoneo a modificare le disposizioni costituzionali alla luce delle quali la legge è stata annullata.
Pertanto, qualora, nonostante la sentenza n. 24 del 2004, il governo e il Parlamento avessero voluto – come è appunto avvenuto – riprodurre, pur con taluni (insufficienti) ritocchi, la norma derogatoria del principio costituzionale d´eguaglianza già dichiarata incostituzionale, avrebbero dovuto seguire la procedura dell´articolo 138, essendo già stata accertata l´insufficienza della procedura ordinaria.
In conclusione, è bensì vero che la sentenza non forniva, in positivo, questa indicazione (la Corte non era tenuta a farlo); ma è altrettanto vero che, dato il contenuto decisorio della sentenza, non c´era, per il legislatore, altra via da tentare.
Dico "tentare", perché è assai discutibile che una legge ad personam, come le leggi Schifani e Alfano volute nell´interesse di un solo soggetto, potrebbe superare il vaglio del sindacato di costituzionalità non solo con riferimento all´articolo 3 della Costituzione ma anche (e soprattutto) all´articolo 1 comma 2, secondo il quale «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Da cui chiaramente deriva che nel nostro ordinamento costituzionale non esistono "sovrani" o "unti del signore" che si pongano al di sopra dei cittadini.
L´autore è professore di diritto costituzionale presso l´Università La Sapienza di Roma

Corriere della Sera 10.10.09
Le gang delle cattive ragazze. Cresce il bullismo in rosa
Sono responsabili del dieci per cento dei reati di lesioni
di Giuseppe Guastella 



MILANO — Aggrediscono, picchiano e rapinano le coeta­nee per strada e a scuola. Le co­stringono a consegnare il giubbi­no, il cellulare, l’iPod o qualun­que altra cosa attiri il loro desi­derio predatorio irrefrenabile. Spregiudicate, sfrontate, spesso alticce, se non ubriache o perfi­no drogate, nelle tasche dei jeans alla moda o sotto le gonnine a vi­ta bassissima qual­che volta nascondo­no un coltello. Sono le ragazze violente, le protagoniste del «bullismo al femmi­nile », un fenomeno metropolitano che, poco conosciuto fi­no a qualche anno fa, sta crescendo in modo allarmante tra le giovanis­sime.
I dati annuali raccolti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano — ma la situazione è si­mile in molte altre aree italiane — registrano una lieve generale riduzione dei reati commessi dai ragazzi al di sotto dei 18 an­ni, ma l’incremento di quelli a carico delle «cattive» ragazze di nazionalità italiana è notevole. Se fino a uno-due anni fa le stati­stiche stilate in questo periodo in vista dell’inaugurazione del­l’anno giudiziario di gennaio parlavano di pochissimi episo­di, ora per reati come le lesioni personali il 10% dei minori che finiscono sotto indagine è di ses­so femminile.
Il bullismo è in crescita. Nella sua relazione, il procuratore Mo­nica Frediani, infatti, scrive che è «sempre maggiore il ricorso da parte dei ragazzi alla violenza quale strumento di sopraffazio­ne, prevaricazione e risoluzione di contrasti anche banali». Il ma­gistrato sottolinea «la serietà e la qualità dei reati commessi, la diffusa legittimazione dell’uso della forza o della minaccia nel­le dinamiche relazionali che tra­spare dagli interrogatori» dei minori. Tutto condito da «una facile e generalizzata assunzione di stupefacenti e alcolici». E per di più i ragazzi non sono in gra­do di «cogliere il disvalore socia­le » di quello che fanno e, quin­di, di avviare «un processo di spontanea e sincera rielaborazio­ne ».
Il 58% dei minori coinvolti in procedimenti penali a Milano so­no italiani. Molte volte proven­gono da famiglie in difficoltà, ma tante altre sono cresciuti in nuclei benestanti e del tutto «normali» ma che, al pari delle prime, non sono stati in grado di dare «riferimenti educativi e culturali» ed hanno cresciuto i fi­gli in una situazione di abbando­no morale». In un anno le lesio­ni personali sono passate da 364 a 434, le estorsioni da 20 a 29. Le rapine sono scese da 280 a 251 (più altre 65 solo tentate). Sono i reati tipici dei bulli e il calo del­le ultime non deve trarre in in­ganno: la paura di ritorsioni po­trebbe aver suggerito che è me­glio non parlare, tant’è vero che ben 169 fascicoli sono contro ignoti.
Nel bullismo «prevale l'uso della violenza e della minaccia ri­spetto al fine di lucro poiché og­getto dell'impossessamento con­tinuano ad essere beni di modi­co valore e simbolici». Un feno­meno che «non accenna a dimi­nuire », nonostante lo sforzo dei magistrati per i minorenni, del­la scuola e dei servizi sociali. E che anzi, nella sua variante al femminile, pur rimanendo anco­ra molto minoritaria, conosce un boom inquietante.
Tant’è vero che sono 63 i nuo­vi fascicoli per lesioni volonta­rie a carico di ragazze italiane (erano 43 e 52 nei due periodi precedenti), 26 su percosse, 100 per minacce e ingiurie, 11 mole­stie (prima una sola) e 9 per por­to di coltello (erano 3).
Non hanno a che fare con i bulli, ma sono aumentati gli omicidi, che da 7 sono raddop­piati a 14 (12 solo tentati) men­tre sono diminuite lievemente le violenze sessuali (da 68 a 64), però ben dieci sono di gruppo. Desolante in questi casi la reazio­ne dei ragazzi maschi sotto accu­sa che non riescono neppure a comprendere le loro responsabi­lità e a capire il dramma delle vittime delle loro violenze. Uno scenario in cui si inquadrano an­che gli 8 fascicoli aperti dopo che alcuni minori hanno diffuso via internet immagini pedopor­nografiche realizzate mentre fa­cevano sesso con ragazzine.
Le cause di questi comporta­menti devianti? Frediani scrive che stano nelle «carenze educa­zionali e affettive, spesso nem­meno percepite dai genitori, abi­tuati a delegare ad altri, preva­lentemente alla scuola, i compi­ti di educazione e crescita dei fi­gli e troppo spesso occupati a soddisfarne solo le esigenze ma­teriali ». 


Corriere della Sera 10.10.09
I risultati della ricerca di un team di neuropsicologi dell’Università del Texas e di Padova: nei test i non vedenti risultano più bravi
L’ordine dei numeri è già nella nostra mente
Fin dalla nascita conosciamo il valore distribuito in sequenza da sinistra a destra
di Massimo Piattelli Palmarini


L’esperimento. Partendo da un numero fisso di riferimento, le grandezze vanno decise nel modo più rapido possibile

Immaginiamo di partecipa­re alla seguente gara di calco­lo mentale: ci viene dato un numero fisso di riferimento, un numero bersaglio, per esempio il 57. Poi vengono proiettati al centro dello schermo di un computer, uno dopo l’altro, dei numeri diversi, per esempio il 35, poi il 61, poi il 24 e così via.
Ogni volta dobbiamo deci­dere il più rapidamente possi­bile, e premere uno di due pulsanti, se il numero appena presentato è più grande o più piccolo del 57. Facilissimo, certo, ma ciò che conta qui è la rapidità delle risposte. 
Rapidità 
Da alcuni anni a questa par­te, a partire dai lavori pionie­ristici del francese Stanislas Dehaene e altri, si è visto che la rapidità della risposta è maggiore se il pulsante da premere quando il numero è più grande del numero bersa­glio viene premuto con la ma­no destra, e invece con la sini­stra l’altro pulsante, se il nu­mero è più piccolo.
La sigla tecnica per questo ormai ben noto effetto è piut­tosto sgraziata, si chiama Snarc, iniziali di Spatial Num­ber Association of the Re­sponse Code. Insieme ad altri dati speri­mentali, si è così dimostrata l’esistenza di una rappresen­tazione mentale dei numeri su una linea che va da sini­stra a destra. Un lavoro as­sai stupefacente su que­sto effetto è stato appe­na pubblicato sulla rivi­sta specializzata Plos One da un’equipe mista di neuropsicologi del­l’Università del Texas a Austin e delle Università di Padova e di Venezia, ca­pitanati da Carlo Semenza. 
Spazio immaginato 
Questo lavoro mostra, in­fatti, che anche i ciechi con­geniti, come i vedenti, han­no una linea numerica men­tale organizzata da sinistra a destra in uno spazio immagi­nato. Tutti la usiamo, senza nemmeno accorgercene, quando si devono fare conti mentali o in compiti numeri­ci molto semplici.
I ciechi la usano però in modo diverso dai vedenti, in modo meno automatico e più controllato. Ovviamente, ai ciechi i numeri venivano pre­sentati acusticamente, e rigo­rosamente ad un solo orec­chio, per esempio all’orec­chio destro i numeri più gran­di del bersaglio e al sinistro i più piccoli, ovvero l’inverso. Essenzialmente, si è visto che i ciechi rispondono più velo­cemente alle cifre piccole se presentate all’orecchio sini­stro e alle cifre grandi se pre­sentate all’orecchio destro.
Chiedo al professor Semen­za di sintetizzare la portata di questo esperimento: «Si di­mostra che anche i ciechi han­no una linea numerica orien­tata nello spazio.
Il fatto che abbiano svilup­pato questa linea in assenza di visione è sorprendente. Possiamo concludere che esi­ste una capacità di rappre­sentazione innata, indi­pendente dal tipo di espe­rienza, per le quantità numeriche».
In altre parole, que­sto dato significa che la natura spaziale della rappresentazione men­tale dei numeri non è, come verrebbe facilmen­te da pensare (e si pensa­va in ambito scientifico) necessariamente attribui­bile all’esperienza visiva con le quantità numeri­che: l’assenza congenita di visione non ha effetti sulla rappresentazione mentale di quantità. Que­sti studiosi non si sono, pe­rò, limitati a registrare solo la rapidità delle risposte, ma hanno esplorato al contempo alcune «firme» ben note delle attività cerebrali, cioè delle speciali onde elettro-encefa­lo- grafiche in tempo reale. 
Lo stimolo 
Il loro dato più originale è, afferma Semenza, che «i cie­chi si orientano su questa li­nea (la 'esplorano' nella men­te) in modo diverso dai ve­denti, cioè meno automatica­mente ». L’effetto Snarc c’è, ed è ugualmente veloce nei due gruppi. Ma i vedenti rea­giscono allo stimolo attivan­do l’attenzione più precoce­mente (è più ampia la cosid­detta onda elettroencefalogra­fica N100, molto precoce) co­me si fa per esplorare automa­ticamente un’immagine sen­soriale appena captata. 
Memoria a breve 
I ciechi invece danno la ri­sposta in modo più «control­lato ». Mettono direttamente in memoria a breve termine (con una maggiore ampiezza della cosiddetta onda P300) lo stimolo, per poi prenderci sopra una decisione. Il che può risultare in un vantag­gio. Infatti si sapeva che i cie­chi mostrano sorprendenti prestazioni nei compiti di sti­ma numerica, ove spesso su­perano i normali. Per esempio nello stimare quante note ci sono in una da­ta sequenza o quanto dura un dato suono. I ciechi potrebbe­ro, quindi, avere un’idea astratta dei numeri migliore, in cui c’è una corrisponden­za, acquisita in modalità di­verse dalla visione, tra la rap­presentazione simbolica dei numeri e le corrispondenti grandezze naturali.

il Riformista 10.10.09
Massimo D'Alema e il futuro di Berlusconi «Dovrebbe dimettersi»
Intervista. «In un paese normale il suo partito lo avrebbe già mandato via. Ma non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo. Contro il Colle per fare il padrone».
di Stefano Cappellini


«Eccole le nostre élite, si tengono un premier accusato di gravi reati»
Dice D'Alema: «Scandaloso che certi mezzi di informazione considerino normale la situazione. Il principio di maggioranza non può schiacciare quello di legalità». Sul Governo: «Tremonti è abile, ma sbaglia analisi sulla crisi. Il Cavaliere vive solo sulle emergenze. Non ci fosse Bertolaso, potrebbe fare il capo della Protezione civile». «Io ministro degli Esteri Ue? Ruolo interessante».

«In un paese normale si sarebbe già dimesso, lo avrebbe costretto il suo partito», dice Massimo D'Alema di Silvio Berlusconi. E se il Pd non ne chiede le dimissioni, spiega D'Alema, è perché «non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo, e in un momento così delicato la priorità è limitare il danno alle istituzioni». L'ex premier consegna al Riformista la sua preoccupazione per la stagione che si apre dopo la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, ma anche il suo ottimismo in vista delle primarie democratiche del 25 ottobre («La credibilità di Bersani è enormemente superiore a quella di Franceschini»), allontanando lo spettro di un ribaltone rispetto al responso dei circoli. «Un ruolo interessante», dice poi D'Alema della nuova figura di "ministro degli Esteri Ue", incarico che secondo molti osservatori sarebbe in cima alle sue ambizioni future.
Onorevole D'Alema, dopo la sentenza della Consulta il paese è di nuovo precipitato in un clima da guerra civile.
Andiamo alla sostanza del problema. Abbiamo un presidente del Consiglio che ha diversi problemi con la giustizia.
Per difendersi, aveva costruito un argine totalmente inappropriato. Siamo però un paese democratico e abbiamo una costituzione che sancisce un principio di eguaglianza tra i cittadini. Questo non significa che non ci possa essere un sistema di garanzie e tutele, ma dal momento in cui le abbiamo abbattute per i parlamentari con la sostanziale abrogazione dell'articolo 68 della Costituzione, diventa molto difficile costruire una tutela ad personam, anche se ingegnosamente estesa alle più alte cariche istituzionali.
Il premier parla di sentenza politica.
Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico. Berlusconi era perseguito per reati comuni, semmai la politica gli ha fornito un riparo. Normalmente, in un paese democratico un leader che si trova in questa situazione viene sostituito. Agiscono degli anticorpi naturali. Innanzitutto il suo stesso partito chiede al leader di farsi da parte. Ma in questo caso il partito di Berlusconi, il Pdl, è suo in senso proprietario. Poi c'è la debolezza di tanta parte del sistema di informazione. Sembra che per una parte delle élite del paese e per i grandi giornali che le danno voce sia normale avere un presidente del Consiglio contro il quale vi sono accuse così gravi.
Berlusconi rivendica di essere l'unica carica direttamente investita dal consenso elettorale. Non conta nulla?
Chiariamo prima un punto. Berlusconi non è stato eletto dal popolo. Il nostro è un sistema parlamentare. La maggioranza degli italiani non ha votato per Berlusconi. Inoltre, è la legge elettorale che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta in Parlamento. Infine, l'idea che il principio maggioritario possa schiacciare il principio di legalità è inaccettabile. Vi sono paesi democratici nei quali anche premier che hanno vinto le elezioni hanno dovuto dimettersi per le accuse che rivolgevano loro i magistrati. L'esempio più recente è dell'israeliano Olmert.
Ma se è così convinto che Berlusconi dovrebbe dare le dimissioni, perché lei e il Pd non le chiedete?
Non è l'opposizione che può cambiare il capo del governo. È la maggioranza che dovrebbe farlo.
Si dice che un pezzo di Pdl lavori già da tempo al dopo-Berlusconi.
Sciocchezze. Se il capo dei popolari spagnoli avesse vicende personali del tipo di quelle di Berlusconi e fosse sotto accusa in tribunale il partito gli avrebbe già detto "grazie, ti auguriamo di dimostrare la tua innocenza, ma intanto devi farti da parte". In Italia non accade per i motivi appena detti. L'opposizione può lamentarsene, ma deve tenere conto delle condizioni concrete della lotta politica nel nostro paese. Siamo in un momento estremamente delicato, si rischia di trascinare il paese in un scontro drammatico e dobbiamo avere il buon senso di non contribuire a sfasciare l'edificio comune. Evitare cioè che Berlusconi, in questa confusa fase di crisi anche personale, possa intaccare seriamente l'impianto istituzionale e produrre un danno ancora più grave di quello attuale.
Le dimissioni del premier le chiede invece Di Pietro, che ancora una volta può accreditarsi agli occhi del vostro elettorato come l'unica vera opposizione.
Gran parte del lavoro di Di Pietro consiste nell'usare gli attacchi a Berlusconi con l'obiettivo di togliere voti a noi. Cosa che non ci fa fare un minimo passo avanti nella costruzione di un'alternativa nel paese.
Sorpreso dell'attacco a Napolitano?
Di Berlusconi non stupisce più nulla. Voleva che Napolitano premesse sulla Corte, perché lui è abituato a ragionare così. "I giudici li hai messi tu lì, rispondono a te". In questo lui è sincero. È totalmente estraneo alla cultura delle istituzioni, ha una concezione padronale e le regole della democrazia gli sono estranee. Berlusconi è a-democratico. Continuo a pensare che non sa governare.
Gli italiani non la pensano così.
Berlusconi è un fenomeno complesso, che ha un rapporto profondo con una parte del paese, ma ha costruito la finzione di un governo efficiente sulla gestione delle emergenze, con risultati anche positivi. Senza esagerare, perché a Napoli, per esempio, il problema dei rifiuti non è stato affatto risolto. Ha aperto due discariche con l'aiuto dell'esercito, ma non essendo intervenuto sul ciclo dei rifiuti, questi cominciano a tornare nelle strade, con la differenza che ora non ne scrive più nessuno. Berlusconi non affronta i problemi del paese. Non ci fosse Bertolaso, sarebbe tutt'al più un ottimo capo della Protezione civile.
Che scenario si apre ora con un premier costretto a destreggiarsi tra Palazzo Chigi e le aule di tribunale?
Siccome il premier non mi pare in grado di dimostrare l'infondatezza delle accuse, lui e i suoi avvocati cercheranno di evitare i processi con trucchi ordinari al posto del super-trucco del lodo Alfano. Naturalmente dobbiamo sapere che questo comporterà un prezzo molto alto per il nostro paese.
Berlusconi lamenta una persecuzione giudiziaria. Il numero delle inchieste e dei processi a suo carico appare in effetti sproporzionato rispetto alla media a carico del resto del mondo politico e dell'imprenditoria.
La tesi della persecuzione giudiziaria non ha alcun fondamento serio. La correttezza di chi è a capo del governo suscita naturalmente una maggiore attenzione. Casomai il problema riguarda in generale i politici. Anche in Tangentopoli i politici furono maltrattati mentre alcuni imprenditori vennero trattati coi guanti bianchi.
Adesso molti elettori del centrosinistra saranno tentati di resuscitare la tesi della via giudiziaria al dopo-Berlusconi. I giudici, in fondo, riescono laddove la sinistra fallisce.
C'è ancora chi pensa che Berlusconi sta lì perché i magistrati non l'hanno preso o perché non s'è fatta la leggina sul conflitto di interessi…
"Non la facciamo così lo teniamo al guinzaglio", è la frase che le viene attribuita ai tempi della Bicamerale…
È sconcertante che si possano dire bugie così clamorose. Cercare i traditori nel proprio campo è stata, a sinistra, una tragedia che oggi si ripete come farsa. Io ho provato a fare la legge sul conflitto di interessi. Vorrei ricordare che fu proprio in Bicamerale che venne approvata, e nella forma più severa, introducendo in Costituzione il principio di incompatibilità e affidando alla Consulta il compito di vigilare.
Con le chance che ha oggi la sinistra di tornare al governo quella legge non la vedremo mai.
Nulla è scritto nel libro del destino e non vedo questa sconfitta di lunga durata. La nostra via passa dal tornare a convincere la maggioranza degli italiani. Il punto di forza di Berlusconi, anche in quella parte di opinione pubblica che sulla sua presenza a Palazzo Chigi comincia a fare seriamente un calcolo del rapporto costi/benefici, è la mancanza di una forza d'alternativa credibile.
Vi siete attardati a parlare di Noemi e del sexgate molto più che incalzare il governo sulle sue lacune.
Il problema è che se si dice una mezza parola sulla D'Addario si va sui giornali. Se si parla dei problemi del paese, molto molto meno. È il filtro dell'informazione che è deformato.
Tremonti vanta di aver tenuto l'Italia al riparo dalla grande crisi economica.
Tremonti è abile e intelligente. Ma è la sua filosofia che non condivido, quella secondo cui il modello Italia, basato sulla piccola impresa e il nord industriale, è fortissimo e quindi non dobbiamo fare niente, o comunque il meno possibile, perché quando ripartirà il mercato mondiale ripartiremo anche noi, che siamo i più bravi e i più creativi. Non sottovaluto la forza di questo modello, ma comincia a essere affaticato e impaurito. E già il fatto che riguardi solo metà del paese è preoccupante. Si è spezzato il nesso duale tra sviluppo del Mezzogiorno e sviluppo dell'intero paese. E comunque Tremonti dimentica quanto decisivo sia stato il contributo del sud, che non sconta alcuna inferiorità antropologica, per la creazione del cosiddetto modello padano. In più, Tremonti non coglie la crisi come un'occasione. Tra qualche anno faremo i conti con le non scelte di questi giorni. La verità è che oggi quando le cose nel mondo vanno bene da noi vanno meno bene, e quando vanno male da noi vanno peggio.
Tremonti è candidato alla presidenza dell'Eurogruppo. Si augura che raggiunga l'obiettivo?
Sì. Mi fa un po' sorridere che di tutti i gruppi possibili possa andare a presiedere uno che si chiama Euro. Non posso dimenticare che quando votammo la finanziaria dell'euro il centrodestra abbandonò il Parlamento. Fu un atto gravissimo. Diciamo che Tremonti e altri hanno cambiato pelle ma senza fare una seria riflessione su ciò che hanno detto e fatto in passato.
La candidatura Tremonti potrebbe affossare le chance di Draghi di andare a guidare la Bce.
Le dinamiche attraverso le quali si decidono queste nomine sono molto complesse. Ho gestito quella di Prodi alla Commissione e so come funziona. Ci vorrebbe un lavoro di regia del capo del governo. Il dibattito pubblico non aiuta.
Si dice che la sua ambizione sia diventare "ministro degli Esteri dell'Ue", la nuova figura introdotta dal trattato di Lisbona.
Un ruolo interessante, perché unendo le funzioni di Alto rappresentante con quello di commissario alle relazioni esterne e di vicepresidente della Commissione, rappresenta l'unica figura a cavallo tra Commissione e Consiglio e incarna questa idea dell'Europa globale. L'Unione del futuro sarà spinta dalle grandi sfide internazionali: o compie ulteriori passi decisivi per rafforzare il suo ruolo nel mondo e parlare con una sola voce oppure i singoli paesi europei non potranno sedersi al tavolo dei nuovi Grandi.
Tornando in Italia, il congresso del Pd non è stato un dibattito di alto profilo. Un'occasione persa?
La drammatizzazione del congresso, questa idea che Bersani rappresenta un ritorno all'indietro, è inaccettabile. Se c'è stato nell'esperienza del centrosinistra uno che ha varato riforme liberali, oltre l'orizzonte socialdemocratico, è Bersani. La sua credibilità, in generale e come riformatore, è incommensurabile rispetto a quella di Franceschini.
Franceschini si dice convinto che alle primarie ribalterà il responso dei circoli?
L'unico rischio che corre Bersani è che alle primarie voti un campione non rappresentativo del nostro elettorato. Altrimenti l'esito è chiaro. Casomai, è Marino che può raccogliere qualche voto in più alle primarie. Marino porta nel congresso del Pd persone che forse non ci sarebbero state e appare una scelta radicalmente innovativa.
Ma se invece Franceschini dovesse farcela? Cosa racconterete agli iscritti che vedranno sconfessata la loro scelta?
Sarebbe uno scenario paradossale. Le regole sono queste. Certamente i dirigenti le rispetteranno. Gli iscritti non so. Ma adesso l'importante è che si impegnino a essere protagonisti anche alle primarie.
Si parla molto, non solo a proposito di Rutelli, di scissione del Pd verso il centro.
Che in Italia possa nascere un Grande Centro non mi pare credibile. Andiamo verso un sistema alla tedesca - che non esclude la presenza di forze intermedie tra i due maggiori partiti, ma certo non dominanti - e dobbiamo darci le regole per arrivare a questo risultato, a cominciare dal sistema elettorale. Moderato pluripartitismo, uno sbarramento serio per disincentivare la frammentazione, un ragionevole sistema di alleanze. Era quello che si doveva fare nella legislatura scorsa per frenare la deriva plebiscitaria di cui ora misuriamo tutti i danni.
E se Montezemolo scende in campo?
Un partito di Montezemolo mi pare credibile tanto quanto il Grande Centro. Invece la sua fondazione, che dà un contributo di idee e proposte al paese, è un fatto positivo.
La nascita di Pd e Pdl doveva chiudere la lunga transizione italiana. Scommetterebbe sul fatto che esisteranno ancora tra cinque anni?
La nascita di Pd e Pdl non era un approdo, doveva essere l'inizio di un cammino. Sbagliata era l'idea di un bipartitismo che si impone per legge anziché per la cultura, l'organizzazione e le classi dirigenti che un partito riesce a darsi. L'unico punto di sintesi del Pdl è Berlusconi. Fini propone un'altra idea di partito ma, anche se gode di un ampio prestigio nell'opinione pubblica, sembra abbastanza emarginato nel Pdl. Essendo nato con l'impronta incancellabile di Berlusconi, il Pdl andrebbe rifondato perché sia qualcosa di diverso. Quanto al Pd, è nato su basi fragili, come partito del leader. Una imitazione in tono minore del modello avverso, che non ha funzionato.

Liberazione 9.10.09
«La politica non risolve la povertà perché schiava dell'ideologia»
Intervista a sabino Acquaviva, sociologo di Laura Eduati


Tre milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà alimentare, ovvero non dispongono di soldi sufficienti per comperare cibo sano. Oltre l'80% sono operai, prevalentemente disoccupati, o anche persone con un lavoro che però non frutta abbastanza: i cosiddetti working poors . Uno scenario, questo, difficile da accettare in un paese industrializzato come l'Italia. Per Sabino Acquaviva, illustre sociologo, «gli emarginati sono sempre esistiti e semmai bisognerebbe chiedersi perché gli immigrati stanno meglio degli italiani poveri».

Trova?
Constato che cinquant'anni di sviluppo non sono riusciti a eliminare la povertà e questo perché la politica produce molte chiacchiere e non risolve i problemi tecnici. Questo era vero ai tempi della Democrazia Cristiana ed è vero oggi, nonostante il progresso scientifico e tecnologico. Un tempo la fame spingeva a emigrare, ora non è così. Anzi, abbiamo accolto quattro milioni di immigrati che si sono integrati benissimo e questo dimostra che la società poteva assorbirli.

Perché pensa che gli italiani stiano peggio?
Bisognerebbe vedere dove si concentrano maggiormente le persone povere. Nel Triveneto gli immigrati sono riusciti a trovare un posto nella società, i loro figli vanno a scuola, il tasso di disoccupazione è molto basso. Penso che gli stranieri riescano meglio nella autotutela, si aggregano in gruppi etnici, li protegge una rete di solidarietà.

La politica non risolve la povertà, ma perché chi sta male non cerca di cambiare le cose? I sondaggi dicono che Berlusconi vincerebbe le elezioni se si tornasse a votare, nonostante tutto, e per la sinistra questo risulta incomprensibile.
La gente vive in una società tecnico-scientifica molto avanzata dove i problemi vengono vissuti come molto concreti: il traffico, la sicurezza. La vecchia distinzione tra destra e sinistra ha smesso di funzionare, la classe operaia non esiste più e nemmeno esiste il rapporto tra borghesia e proletariato, il livello di istruzione è cambiato. Ebbene, la politica continua ad utilizzare gli stessi linguaggi che usava cinquant'anni fa, senza capire che viene percepita come una unica classe indistinta, una casta privilegiata e spendacciona. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo non ha fatto altro che codificare questo sentire profondo.

Non ha nemmeno senso mobilitarsi contro la cosiddetta casta?
Per molti non ha senso perché pensano che non cambierebbe nulla, e dunque ognuno fa la sua battaglia personale. Un tempo i poveri votavano per la sinistra, oggi dobbiamo cambiare logica altrimenti produciamo soltanto chiacchiere. Quando è caduta l'Unione sovietica mi chiedevano: cosa succederà alla sinistra? Oggi risponderei: sono cambiate più cose in questi ultimi dieci anni che negli ultimi mille. Il problema è che la politica non se ne accorge.

Cosa dovrebbero fare i politici per uscire dall'autoinganno?
Progettare la felicità. Lo spiego nel mio ultimo libro, La fine di un mito. Destra, sinistra e nuova civiltà (Marsilio): dobbiamo rivolgerci al design, all'urbanistica, alla ricerca scientifica, alla scienza dell'alimentazione per risolvere i problemi degli esseri umani. La fine del mito è la fine delle ideologie. Togliatti e De Gasperi erano avversari chiari e soprattutto seri. Oggi non esiste questo tipo di contrapposizione, le cose sono mescolate. Bisognerebbe sostituire le ideologie con il codice genetico dove sono scritte le nostre reali necessità, da quelle elementari come il cibo a quelle complesse come dare un senso alla nostra vita. La giustizia è la realizzazione del destino della nostra specie, e il destino è il nostro Dna.

Sembra uno scenario utopico.
Non è così. La nuova civiltà è qui. Viviamo immersi nella tecnologia eppure i nostri politici sono rimasti indietro: a questo punto lasciamoli amministrare l'esistente e affidiamo la visione del nostro futuro agli specialisti, ai tecnici, agli antropologi, agli architetti.

La politica dunque può salvarsi soltanto se legata alla scienza e alla tecnica? Deve prima di tutto, per esempio, costruire alloggi eco-compatibili e dare sostegno ai disoccupati, educare alla buona alimentazione e fornire spazi urbani immersi nel verde?
Certamente. Le ideologie vanno messe in soffitta, hanno causato milioni di morti.

l’Unità 10.10.09
Festival dei matti tra arte, filosofia e letteratura

Se non son matti non li vogliamo. Potrebbe essere questo, per riprendere il titolo di un vecchio film, lo slogan del «Festival del matti» (www.festivaldeimatti.org), che si apre oggi a Venezia, dove si svolgerà fino a sabato. Un appuntamento tutto dedicato alla follia, tra arte, letteratura, filosofia e psichiatria, sulle orme del pensiero del grande Franco Basaglia. L’idea centrale del festival è quella di promuovere la costruzione di un contesto culturale in cui i diversi linguaggi si misurino con l’esperienza della follia, per smontare vecchi tabù e nuove diffidenze. Il risvolto sociale dell’operazione è anche quello di offrire ai pazienti psichiatrici un’opportunità di formazione e di lavoro. Il celebre spettacolo teatrale Stravaganza – che racconta il ritorno a casa di alcuni pazienti in seguito all’entrata in vigore della legge 180, cioè la legge Basaglia, il 31 dicembre 1978 – verrà per la prima volta interamente diretto e interpretato da ex pazienti psichiatrici. Tra gli ospiti del festival, Umberto Galimberti, lo psicologo e autore teatrale Massimo Cirri, lo psichiatra Franco Rotelli, Alice Banfi e Dacia Maraini. R.CAR.