martedì 13 ottobre 2009

Repubblica 13.10.09
Criticare gli eletti dal popolo
di Adriano Prosperi


La cronaca di oggi reca un invito alla ribellione contro un giornale – questo giornale – perché «parla male del governo». È difficile cercar di ragionare con un presidente del Consiglio dei Ministri che scatena il suo uditorio contro due pilastri del sistema politico, non solo di quello italiano: la libertà di opinione, incluso il sacrosanto diritto di critica della libera stampa e la funzione di supremo garante del nostro ordinamento svolta dal presidente della Repubblica. È una violenta semplificazione del sistema fondato sulla separazione dei poteri fondamentali e sulla gelosa tutela dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale, sottratta per definizione alle turbolenze della politica quotidiana. Di questo attacco, indiscutibilmente eversivo, vorremmo qui esaminare pacatamente l´unico argomento su cui si regge, che è questo: l´eletto del popolo, chi possiede la maggioranza del consenso popolare, non deve essere criticato né può sottostare alle regole dei normali cittadini. Chi lo critica o lo ostacola boicotta il paese intero che lui incarna per effetto dell´investitura popolare. Da tempo in Italia si fa un uso quotidiano, aggressivo ma anche fastidiosamente lamentoso e piagnucoloso del principio di maggioranza. Si dice: la maggioranza parlamentare ha il diritto di governare . Il governo è l´espressione della maggioranza degli elettori, dunque le leggi varate dalla maggioranza non debbono essere ostacolate dalle minoranze. I ministri rivendicano il diritto-dovere di comandare e di essere obbediti. Un preside di scuola non obbedisce al ministro della Pubblica istruzione? Un magistrato applica una sentenza e consente la sospensione delle cure a un malato terminale? Ecco fioccare dalla maggioranza disobbedita ispezioni, minacce, ritorsioni. E il principio è sempre quello: gli eletti del popolo rappresentano la maggioranza e non debbono essere ostacolati. La punta massima di questa tendenza è stata toccata dagli avvocati/parlamentari di Berlusconi che hanno sostenuto davanti alla Corte costituzionale che il leader eletto dal popolo è non un primo tra pari ma il primo sopra tutti e perciò sottratto alla legge comune: un principio che solo il papato teocratico del Medioevo tentò di sostenere, sia pure in nome di Dio. Alla ambizione del leader e dei suoi corrisponde un sentimento di frustrazione, un misto di rabbia e di violenza impotente ogni volta che nei campi più diversi, dalla giustizia all´economia, dalla politica alla religione, non si riesce ad applicare il principio dell´incontrastato diritto della maggioranza di comandare. Comandare, non governare. Ci sono minoranze religiose in Italia ma l´unico insegnamento obbligatorio è quello della religione cattolica . C´è un milione di disoccupati ma la maggioranza se la cava bene e di quelli non s´ha da parlare. C´è un giornale che critica e domanda: è un nemico, non si risponde e si chiede di boicottarlo. Il diritto della maggioranza di cancellare la minoranza si declina anche in chiave locale: e così via l´italiano , avanti i dialetti; via dal nord gli insegnanti e i presidi meridionali; via la minoranza degli immigrati, per definizione senza diritti. Intanto la maggioranza si prepara a infliggerci l´obbligo di cure forzate anche per chi vorrebbe avere il diritto di scegliere la sua morte, a saldo del conto livoroso aperto col caso Englaro. Così, passo dopo passo, è tornato in vigore il principio che ciò che vuole il capo eletto dalla maggioranza deve essere legge per il popolo, senza che nessun altro organo dello stato possa opporsi. Come il borghese gentiluomo di Molière, il nostro presidente del Consiglio e i suoi parlano in prosa senza saperlo: una prosa non neoliberale come mostrano di credere gli ossequienti commentatori dell´establishment italiano, ma vetero-dittatoriale. E perché inconsapevoli della lingua che usano , osano sostenere che per l´ideologia neoliberale chi ha avuto l´investitura dal popolo deve comandare senza intralci. Da qui le continue grida di un fastidio volgarissimo anche nei modi (ci vorrebbe altro che Monsignor Della Casa) verso le lentezze del potere legislativo, l´autonomia del potere giudiziario, la funzione di garanzia della Presidenza della Repubblica, la stessa carta costituzionale e la Corte che si ostina - con indubbio coraggio civile - a tutelarla. C´è chi prova a alleggerire la tensione suggerendo di ricorrere al bromuro. Ma queste sono manifestazioni di una sindrome assai più grave di una alterazione di umore individuale: una sindrome che si riassume nell´idea che il capo dell´esecutivo non debba conoscere limiti alla sua volontà in quanto espressione mistica della volontà di tutti. Come ha osservato Hanna Arendt, questa idea si fonda su di una finzione: la maggioranza finge di essere la totalità e facendo di questo la regola di una democrazia senza costituzione, schiaccia i diritti delle minoranze e cancella il dissenso senza nemmeno ricorrere alla violenza. Sono parole da meditare in un paese come il nostro dove dissenso e diritti di minoranza stanno scomparendo silenziosamente e la costituzione è sotto attacco.
In Italia c´è stato chi ha spiegato bene come sia nato e quanti problemi abbia posto il principio di maggioranza: è stato Edoardo Ruffini, autore di un profilo storico del principio maggioritario uscito nel lontano 1927 , mentre il padre suo Francesco Ruffini , maestro del giovane Bobbio, pubblicava i suoi «Diritti di libertà» per le edizioni di Piero Gobetti. Edoardo Ruffini spiegò qui e in altri studi, ripresi e stampati poi tra il 1976 e il 1977, come il principio maggioritario avesse dovuto fare i conti nella sua lunga e non lineare storia col problema della tutela dei diritti delle minoranze, garantiti per esempio nel caso degli Stati Uniti d´America sottraendo le leggi fondamentali all´arbitrio della maggioranza. Le ragioni di quella ricerca si radicavano nella coscienza dell´autore e trovarono un esito nelle sue scelte di cittadino. Per lui i diritti individuali della libera coscienza erano il limite insuperabile da opporre alla dittatura di una maggioranza che tendeva alla soppressione delle minoranze. Edoardo fu, accanto al padre Francesco, uno dei dodici professori che non si piegarono all´infamia del giuramento di fedeltà al regime fascista e persero di conseguenza la cattedra.
Dodici su dodicimila. Una trascurabile minoranza: «sublimato all´un per mille», scrisse la stampa del regime. E il regime, che dal consenso della maggioranza aveva fatto nascere uno stato totalitario, tirò dritto per la sua strada. Oggi sappiamo come finì.

Repubblica 13.10.09
Parla l'analista Lucio Russo, autore di un libro sui nostri cambiamenti profondi
Se la globalizzazione migliora la nostra identità
"Possiamo immaginare la lenta costruzione di un'etica condivisa, a dispetto di certe nicchie violente, del razzismo che nasce dalla paura"
di Luciana Sica


«Per noi analisti l´identità non è un concetto, ma un sentimento che attraversa l´intera esistenza, in una relazione costante con le trasformazioni del corpo e con il mondo sociale». Chi parla è Lucio Russo, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, autore di un libro che già nella titolazione indica il cambiamento vorticoso di questi anni, la rottura irreversibile di equilibri tramontati: si chiama Destini delle Identità (Borla, pagg. 240, euro 23).
Plurali, mutanti, nomadi, meticce: nel tempo le nuove identità sono diventate un gigantesco enigma, il vero puzzle del pensiero contemporaneo. Nulla è sempre apparso più ingannevole della rappresentazione che amiamo dare di noi stessi, ma nell´età della tecnica dove le funzioni rendono marginali gli individui - un´epoca già definita post-umana - quel che sentiamo di essere rischia di divaricarsi del tutto dalle maschere che di volta in volta indossiamo. È allora per molte buone ragioni che si legge con interesse Destini delle Identità, un viaggio sulla condizione umana che incrocia autori come Pirandello, Borges, Goethe, Mann, Schnitzler - "grandi sperimentatori" di disagi identitari. Proprio perché - come qui spiega Lucio Russo - il sentimento dell´identità si colloca sempre in un "centro decentrato", in un territorio di frontiera, in uno spazio tra il dentro e il fuori.
Intanto i processi di globalizzazione in che rapporto stanno con le nuove identità?
«In un rapporto estremamente interessante. Sono convinto che la globalizzazione sia un´occasione d´oro per allargare e trasformare il senso dell´identità. A dispetto degli arroccamenti difensivi, di certe nicchie narcisistiche e violente, del disprezzo che si manifesta per gli altri, del razzismo che nasce dalla paura, possiamo immaginare la lenta costruzione di una nuova etica condivisa che ricomponga gli strappi e le ferite del presente - con identità finalmente più salde e accoglienti, capaci di ibridarsi senza avere la penosa sensazione di distruggersi».
Oggi invece che cosa diciamo, quando diciamo io?
«Poco e niente. Nella società dei simulacri e delle false immagini, della celebrità e del successo, della mitologia individualista e narcisista per cui possiamo essere qualsiasi cosa, si rischia quello che noi analisi definiamo il buco dell´anima. Non a caso, nella clinica, si coglie una diffusa sofferenza che assume varie forme: si va dalle inibizioni del vero sé eternamente camuffato che conducono a una vita sulla difensiva e alla fine noiosa, alle piccole e grandi imposture, alle mitomanie, ai deliri genealogici. Nei casi più gravi, l´identità diventa una porta girevole nel senso che non ha confini stabili da nessuna parte, proprio con la sensazione penosa di girare a vuoto».
Attraverso la rete, una quantità enorme di gente sembra in fuga da se stessa, costruisce immaginari alter ego, intreccia rapporti basati sulla finzione. E tutto sembra anche piuttosto normale. La psicoanalisi si misura con queste realtà?
«Sembrerà normale a chi le vive, queste esperienze, molto meno a chi hanno intorno... Noi riconosciamo in questo tipo di identità plurali - direi meglio di arcipelaghi identitari, nessuno in contatto con l´altro - la figura del "doppio" con tutte le sue implicazioni, riflessi di scissioni arcaiche, pseudoidentità che tendono a coprire il vuoto al centro, per dirla con Winnicott».
Per dirla invece con Nietzsche, «tutto ciò che è profondo ama la maschera»... Il modo in cui ci rappresentiamo non servirà a difendere la libertà più radicale del nostro essere?
«Il vero sé deve essere sempre protetto, assolutamente non va messo a nudo, altrimenti c´è la follia: sì, tutto ciò che è profondo deve restare in parte invisibile. A cominciare dal primo sguardo materno, sono comunque gli altri a farci da specchio: ci velano e ci svelano, ci nascondono a noi stessi e ci scoprono - sempre che l´autenticità non sia cancellata indossando un´unica terribile maschera di ferro».
Viene in mente quel testo sulla schizofrenia di Ronald Laing, L´io diviso...
«Intanto l´io è sempre diviso per Freud: anzi, è "arlecchino", secondo un´altra sua celebre espressione, per quella parte inconscia non consapevole di sé. E contiene anche un suo aspetto immaginario, alienato, col rischio dell´inganno se non dell´impostura. Nel lavoro analitico mettiamo costantemente l´io in rapporto con quel che parla in lui, con le sue molteplici identificazioni, proprio per evitare che si annodi su se stesso».
Altro che diviso, però: ormai l´io sembra frantumato. Con la desertificazione di tutte le appartenenze - territoriali, culturali, ideologiche, familiari, sessuali - non somigliamo ad anime perse senza più punti di riferimento? E certe identità non sembrano abiti da indossare e scartare?
«C´è un edonismo identitario - proprio come una merce usa e getta, a seconda delle opportunità. Quanto alle appartenenze, si trasformano senza però che se ne possa fare a meno. E non parlerei di desertificazione ma - con Alessandro Pizzorno - di un allargamento della cerchia di riconoscimento sociale. I legami collettivi sono fondamentali per la formazione dell´identità - basati sulla memoria condivisa, sugli antenati, sul debito che abbiamo nei confronti dei nostri morti, sul lutto che accompagna la vita e costituisce il limite al sentimento di onnipotenza. "Anche i padri sono stati bambini", diceva Freud. E gli stessi nomi che ancora diamo ai nostri figli sono revenant: fantasmi che ritornano... Non è possibile costruire sulla sabbia, negare che nella trasmissione tra le generazioni c´è una parte del nostro patrimonio identitario».

Repubblica 13.10.09
Legge 180
Il "manicomio dolce" di Aversa dove la ricetta Basaglia funziona
di Michele Smargiassi


Sono in molti oggi a voler cambiare le norme che vent´anni fa permisero di affrancare i "matti" dalle degradanti prigioni in cui erano custoditi Siamo andati a vedere la città in provincia di Caserta che ha importato il metodo con risultati positivi: modulando le soluzioni in base alle necessità
Qui la stagione controversa dell´antipsichiatria ha dato uno dei suoi frutti migliori
Quando fecero togliere le porte blindate mi dissi: "Succederà di tutto". Invece...
A trentuno anni dalla legge che chiuse i manicomi, la 180 del 1978, ispirata dallo psichiatra Franco Basaglia, sei disegni di legge (tra Camera e Senato) tutti firmati da esponenti del Pdl e della Lega Nord, propongono revisioni e correzioni. "Migliorare e allungare" i ricoveri in forma coatta (i Tso, trattamenti sanitari obbligatori), ribadire la centralità medica: ecco i capisaldi, basati su risposte spesso insufficienti dei servizi nel territorio denunciate da associazioni di familiari. Ciò è chiaro dalla proposta più organica, quella del medico-deputato Carlo Ciccioli. Anche Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha invitato ad approfondire il tema ieri al Congresso della Società italiana di psichiatria. Qui raccontiamo la città dove la legge (un modello per l´Oms) funziona, se applicata con buona volontà. (m. pag.)

AVERSA Due dita di libertà per Michelina sono già tantissime. Il giorno in cui fu internata al Santa Maria Maddalena, il manicomio di Aversa, nessuno ricorda neanche più il perché, le mani le si chiusero come ostriche, e così, serrate, rimasero per trent´anni. «Veniva un dottore, faceva le punture ma non servivano». Il manicomio di Aversa fu svuotato nel ‘98. Michelina passò in una struttura residenziale, poi cinque anni fa in questa villetta a schiera, assolata e pulita, agavi in giardino e poltroncine in balcone. E ora Michelina mi dà la mano, almeno quanta più ne può: le due dita che, da quando è qui, hanno ripreso timidamente vita, pollice e indice. «Posso prendere il bicchiere da sola». Non lo avrebbe mai sperato, prima. «Da bambino andavo a giocare al campo di calcio dentro il manicomio e le vedevo»: Arturo Rippa, lo psicologo dell´Asl, pensa di avere intravisto anche Michelina in quell´orrore di corpi nudi «lavati in cortile col tubo di gomma», di panni sempre sbrodolati. La camicetta a fiori di Michelina ora è linda come quelle delle sue tre compagne di appartamento.
Ce n´è una trentina di case così nell´Aversano. Qualche anno fa la Asl ha chiuso quasi tutte le Sir, le residenze sanitarie create dopo la chiusura dei manicomi, che altrove aprono solo ora: «Ancora troppo chiuse e medicalizzate» per Tiziana Celani, la dirigente del servizio psichiatrico dell´Asl. Ma un appartamento non può essere solo un "manicomio dolce"? «Se vuole lo chiami così», la dottoressa s´adombra un po´, «ma dalle nostre case si esce, si va a messa o a passeggio o al cinema. Lei ha idea di cos´era un manicomio?». Eccolo. Dalla finestra si vedono ancora, tra i cespugli selvaggi, i padiglioni del vecchio mostro: fondato nel 1830, uno dei più grandi d´Italia, città della vergogna che raggiunse i duemila abitanti, raddoppiati dal potente (e ancora oggi non del tutto sconfitto) cugino reclusorio, l´Ospedale psichiatrico giudiziario.
Aversa, provincia di Caserta, terra dolorosa, minacciata e disgregata. Ma è proprio qui che la stagione coraggiosa e controversa dell´antipsichiatria italiana ha maturato uno dei suoi frutti migliori, una "macchia" che faticosamente funziona nella pelle di leopardo della salute mentale in Italia. Se la ricordano in molti, la calata dei «triestini» ad Aversa, nel 2001. Fu una scelta politica della giunta campana di centrosinistra nominare Franco Rotelli, decennale collaboratore di Franco Basaglia, al vertice dell´allora Asl Caserta 2; e lui portò con sé un mazzo di apostoli basagliani, e li piazzò nei posti chiave. Non tutti la presero bene. «Ci sembrò una colonizzazione», è sincero Aldo Mariano, pure basagliano anche lui, «facemmo resistenza. Ma oggi, nel mio ricordo, il risentimento per il come sta lasciando spazio alla gratitudine per il cosa».
Ci siamo seduti dentro, a un pezzo di quel cosa. Palazzo Fieramosca, a Capua, è un monumento barocco in pieno centro storico: fu Rotelli a pretendere che il Centro di salute mentale traslocasse qui, «voleva che il disagio abitasse nel cuore della socialità». I laboratori di pittura a piano terra sembrano una galleria d´arte; gli uffici al piano nobile, dove i malati vanno per terapia e colloqui, sembrano uno studio d´architettura, con mobili di design e pareti immacolate. «Dissero: ve le sporcheranno in un mese, i vostri pazienti». Sono ancora color della neve. Un lusso? «E quand´anche? La bellezza è un bisogno, la bruttezza abbruttisce».
Anche ad Aversa il Csm traslocò al centro del paese, in una vecchia villa con roseto e luminosa veranda al primo piano. Ci fanno conferenze, un cineforum d´estate, corsi di alfabetizzazione, cucina, fitness. E poi certo, i malati di mente ci vanno anche a prendere le pillole, o a rifugiarsi in uno dei quattro letti a disposizione, 24 ore su 24, quando sentono avvicinarsi una crisi. Fattacci di cronaca, di quelli che terrorizzano l´opinione pubblica, non ne sono finora successi, «forse abbiamo un angelo custode, forse arriviamo prima», spiega lo psichiatra Raffaello Liardo, «io me lo ricordo quello che scriveva i bigliettini "vi sgozzo tutti", ma l´abbiamo agganciato, va al caffè, dal barbiere, lo salutano, lo rispettano, e non ha sgozzato nessuno».
Duemila assistiti a casa loro solo ad Aversa. I nemici della 180 dicono: abbandonati sulle spalle delle famiglie. «Ci sono famiglie con carichi pesanti, ma tutta questa rivolta non la vedo», sostiene lo psichiatra Edoardo Nugnes, «l´opposizione alla 180 c´è dove la 180 non c´è». «La 180 soffre di certe sue applicazioni sbagliate e vergognose», dice Giovanna Del Giudice, una delle "apostole" basagliane, ora tornata a Trieste. Certo l´esperimento Aversa, bolla di civiltà e di rispetto umano in un paese distratto, fu importato, quasi imposto, soprattutto nei ritmi: in un paio d´anni la mappa della psichiatria qui cambiò radicalmente. «La volontà dei politici è labile. Bisognava creare in fretta una situazione che resistesse al tempo». Ha resistito, nonostante tutto, anche quando i "triestini" se ne andarono lasciando però sul campo una leva di operatori motivati e capaci.
«La rete ha sofferto, ma ha resistito». Una rete che "aggancia" il bisogno di ognuno, lo valuta, lo sostiene: qui nonostante i tagli di bilancio sopravvivono i "budget di cura", progetti personalizzati e finanziati assieme da Asl e comuni, un terzo di quel che costerebbe parcheggiarli nelle cliniche private. Attorno a malati e famiglie funziona una rete di protezione a maglie di diverso spessore. C´è la "bassa soglia" dei centri territoriali, delle esperienze di lavoro come l´impensabile laboratorio "Polo Est" di San Cipriano, dove mani una volta rattrappite dal terrore sanno creare fantastici fiori colorati con vecchie bottiglie di plastica e una candela; o come le mozzarelle sontuose che ti servono alla Nco (Nuova Cucina Organizzata, sì, avete colto l´ironia), pizzeria "sociale" sempre a San Cipriano dove due anni fa Peppe Pagano mise al lavoro i "casatielli", i più agitati e difficili, «e il quartiere era in allarme per i nostri ragazzi, pensate, non per i camorristi»; poi una festa con cinquecento pizze offerte in strada sciolse le paure. C´è la media soglia degli appartamenti, presidiati o semi-presidiati da operatori. E c´è la soglia più alta, il Servizio diagnosi e cura, un reparto ospedaliero, la cosa più vicina a un´istituzione di tutto il sistema, ma c´è una bella differenza dai tempi in cui le finestre avevano ancora le sbarre. «I colleghi più anziani ti raccomandavano di non dare mai le spalle ai ricoverati. Quando Rotelli fece togliere le porte blindate dissi "succederà di tutto"»: poi Vincenzo, infermiere di lungo corso, s´è ricreduto. «Le sbarre, i letti di contenzione dicevano al malato: ci aspettiamo che tu faccia qualcosa di violento, e lui puntualmente lo faceva», spiega Margherita Purgato, medico e dirigente del reparto.
Due ospiti giocano concentrate a dama nella sala comune. Un barbuto chiede se «per favore» può mangiare in camera sua, no, è vietato, abbozza e va al tavolo. «Hanno messo i lampadari colorati», ti fa notare la mamma di un ricoverato. E allora? Lei strabilia: «Ma non capisce? Se qui conta anche il colore dei lampadari, le persone quanto contano?».

Repubblica 13.10.09
Inclusione sociale e diritti modelli di buona assistenza
L’Oms
di Benedetto Saraceno


Il Brasile ha diminuito drasticamente il numero dei letti psichiatrici e ha creato negli ultimi dieci anni quasi duemila centri di salute mentale territoriali. Il Cile ha radicalmente cambiato modello di assistenza psichiatrica: dai letti negli ospedali psichiatrici alla assistenza in centri territoriali comunitari e in ospedale generale. Riforme importanti della assistenza psichiatrica avvengono in molti paesi.
Le riforme europee iniziate già da due decenni sono in alcuni casi molto avanzate: le Asturie in Spagna, la Scozia, l´Irlanda e molte aree di Londra investono sempre più in servizi territoriali e in soluzioni residenziali di piccole dimensioni e non medicalizzate. Sono modelli innovativi che nulla hanno a che vedere con la trasformazione della assistenza psichiatrica ospedaliera in una costellazione di piccoli manicomietti sparsi: questa falsa soluzione, che tutto cambia senza nulla cambiare, costituisce una pericolosa scorciatoia ma non è certo quella raccomandata dalla Organizzazione mondiale della salute (Oms). Per la Oms l´essenza della assistenza psichiatrica non è l´ospedale ma un´ampia scelta di opportunità terapeutiche, abitative, lavorative, assistenziali che vanno ben oltre la semplice assistenza offerta in un presidio medico. Se una situazione particolarmente acuta richiede un ricovero in ospedale, questo dovrà comunque essere in un ospedale generale e non in un ospedale "speciale".
Sostegno psicologico, alla famiglia, inclusione sociale, abitativa, lavorativa non sono più optional ma sono componenti decisive e fondamentali di una buona assistenza psichiatrica. La "rivoluzione" italiana e i modelli eccellenti, quale quello di Trieste, hanno fatto scuola e certamente l´Oms continua a guardare all´Italia come a un modello che, malgrado le molte critiche fondate ma anche spesso infondate, resta un modello di riferimento. La lezione più importante di tanti anni di riforme della assistenza psichiatrica sembra riguardare gli aspetti di libertà, di cittadinanza, i diritti e la inclusione sociale: elementi irrinunciabili di qualunque assistenza psichiatrica e costanti che sovrastano le differenze geografiche, culturali, sociali, economiche e linguistiche. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (anche mentale) recentemente approvata sancisce appunto tale universalità dei diritti.
* Organizzazione Mondiale della Salute

Repubblica 13.10.09
Cooperative sociali
"La sfida del lavoro quella garanzia di non ritorno a una vita da reclusi"
di Giovanna Del Giudice


Intorno al lavoro continua a giocarsi una parte essenziale del destino sociale della maggioranza della popolazione. L´impegno costante e concreto dei servizi di salute mentale per l´accesso ai diritti sociali delle persone con problemi è la garanzia del non ritorno al manicomio, anche dentro un appartamento, senza scambi, sole.
Oggi, nell´attuale perdita di sicurezze economiche, di garanzie e diritti, acquista particolare significato tornare a parlare di "impresa sociale" con uno sguardo alle persone che vivono l´esperienza di malattia mentale, ma non solo. L´impresa sociale è lavoro progettuale di attivazione di risorse e intelligenze sia nella sanità che nel mondo della produzione; di questo le cooperative, chiamate di tipo b, sono uno dei terreni privilegiati. Il valore sta nella qualità dei prodotti, dei processi, dei rapporti, dei contesti, nella partecipazione e corresponsabilità. Le cooperative che fanno impresa sociale sono tante: da alcune parti si sta sperimentando la costruzione di un sistema di cooperative di assistenza, di produzioni lavoro, associazioni culturali e di volontariato; e ciò anche per offrire possibilità multiple e percorsi "personalizzati". Altra cooperazione propone ancora alle persone "svantaggiate" intrattenimento, parcheggio, assistenzialismo, non certo emancipazione.
* Portavoce Nazionale Forum Salute Mentale

Corriere della Sera 13.10.09
Archivi In arrivo una nuova edizione, curata da Francesco Beretta, del procedimento contro lo scienziato
Galileo, processo con il trucco
Il manoscritto del «Dialogo» fu vistato anche dal Papa. Poi sparì
di Armando Torno


L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due me­tri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui na­ta: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recher­che scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fat­tura e il commento dettagliato dei due volumi saran­no realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segon­ds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formi­dabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi. Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Isti­tuto e Museo di storia della scienza di Firenze.
Beretta confida: «Capire il processo di Galileo si­gnifica innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ’600. Osservarne i meccanismi attraverso il parago­ne con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procede­re ». E ancora: «Lo 'stile del tribunale' consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati co­me oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti». È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi).
Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vati­cano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edi­zione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziati­va di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conser­va le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881).
Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volu­me del processo», faceva un tempo parte della colle­zione delle materie criminali dell’Archivio del San­t’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regi­me circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impe­ro, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sotto­messi, iniziarono le operazioni di trasporto: al San­t’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato. Secondo l’inventa­rio di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inqui­sizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi.
Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma. Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, deci­sero di buttar via i 4 mila volumi dei processi crimi­nali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filo­sofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocen­to (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo — una cinquantina di carte delle origi­nali, probabilmente la copia appartenuta a un con­sultore — giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani). Galileo, arrivando a par­te, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porte­rà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segre­to vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i pri­mi documenti del processo. Ma la sua fu opera par­ziale e apologetica.
A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Anto­nio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le car­te nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista. Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (ripren­de Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento re­so noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico (Ei­naudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla sto­riografia della condanna per ato­mismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizza­to per l’Indice, al fine di giustifica­re l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sareb­bero così state relativizzate, data l’incompletezza della documenta­zione.
E qui arriva Beretta. Egli ha mo­s­trato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Ga­lileo. Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi no­ta. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importan­za che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il ver­detto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa. Nel 1998, con l’apertura dell’Ar­chivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trenti­na di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quel­li del 1984, offrendo una nuova collazione degli origi­nali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sul­la natura dell’incartamento processuale.
Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cerche­rà di dare l’insieme completo della documentazio­ne, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esem­pio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’ori­ginale era nel volume — delle sentenze, appunto— del 1633 disperso a Parigi. Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pub­blicandoli insieme cambiano l’immagine complessi­va, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà se­guire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Ri­salteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massi­mi sistemi , ma questo libro — ricordano — «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia appro­vazione ecclesiastica». Ora, seguendo lo svolgimen­to del processo appare chiaramente che manca nel­l’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefi­ce in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo. Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza pla­cet , pena la prigione. Durante il processo, Galileo in­vocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Ric­cardi, facendo anche allusione all’intervento del Pa­pa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dal­l’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo ori­ginale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione. Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa.
Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio — mano sui Vangeli — che il mo­vimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori. Riccar­di era presente fra i consultori, e il testo della senten­za è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scien­ziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver con­cesso quell’imprimatur.

il Riformista 13.10.09
Quelle attrici ricattatrici del Don Giovanni
FESTIVAL. A Roma il film di Carlos Saura. Il mito donnaiolo, rivisitato da Mozart, Da Ponte e Casanova, ci ricorda come l'arte nasca e sublimi le insidie del sesso e dei poteri forti.
di Luca Mastrantonio



Io, Don Giovanni di Carlos Saura è uno di quei film che è difficile vedere senza che il presente si infiltri nel suo racconto e le immagini e i dialoghi del film non si riverberino nelle cronache d'oggi. La bontà del film, salvo non poche pecche di recitazione, bilanciate da una bellissima fotografia di Vittorio Storaro (quello di Apocalypse Now, per intenderci) è nel rendere bene la miscela dei tre geni che hanno resa esplosiva la rivisitazione del mito di Don Giovanni fatta da Lorenzo Da Ponte, su spunti di Casanova, con le musiche di Mozart. Il film mescola, volutamente, le quinte finte per ambientare la storia vera, tra Venezia e Vienna, e le quinte vere, cioè finte come si addice ad un palcoscenico, deliziando lo spettatore nel gioco di specchi tra vita e opera d'arte. Ad un certo punto c'è una cantante, amante del libertino Da Ponte, che costringe il librettista a creare un personaggio per lei. Oltre a dimostrare, ben prima di Stanislavskij e il suo metodo, che l'interpretazione è tanto migliore quanto più reale è il serbatoio autobiografico cui attingere, e che tra arte e vita lo scambio è continuo, sembra uno spaccato del rapporto carnale e ricattatorio tra le muse e il potere.
«Come vi suona donna Elvira?», fa Da Ponte a Mozart, parlando di questo nuovo personaggio ritagliato su misura per una cantante che è definita «Machiavelli in corsetto, una vipera, non sai cosa può fare, ma le ho promesso un ruolo in quest'opera, anche se il ruolo non c'è». A questo si somma che hanno dovuto scritturare l'amante di Salieri, una «puttana», secondo l'attrice rivela che interpreta Elvira, per godere degli appoggi a corte per produrre l'opera. E allora si ha l'impressione che l'arte sia sempre stata inquinata da ricatti di letto e promesse da mantenere. Certo, però, se pensiamo a risultati che hanno prodotto le pressioni bossiane e i ricatti di attricette su Silvio per lavorare in tv, che hanno prodotto fiction di bassa qualità e un prodotto pessimo come Barbarossa, viene da invocare il ritorno degli Asburgo che, all'epoca di Mozart, prendevano a corte anche artisti che non godevano di fama integerrima.
Nel film di Saura il personaggio più interessante è proprio Lorenzo Da Ponte (un affascinante ma non sciolto Lorenzo Balducci) questo italiano giramondo, esiliato dalla sua amata Serenissima, che troverà gloria a Vienna e poi morirà a New York, a 87 anni, con una bella famiglia, riscattando il passato di libertinaggio che gli era stato impartito da Casanova (Tobias Moretti). Mentre di Mozart (Lino Guanciale) colpisce l'aria da precario rintronato. Se non fosse per la moglie che lo spinge a pagare la cameriera e garantirsi un po' di cure, per lei e per lui, opere come il Don Giovanni non avrebbero mai visto la luce. In alcuni momenti, per la verità, sembra di essere in una viennese casa Vianello con Mozart che chiama la moglie Costy e Costanza lo ricambia con Wolfy.
Nel film, Casanova, Da Ponte e Mozart ostentano simboli e gesti di appartenenza alla massoneria, visto che Casanova raccomanda con una lettera il giovane Da Ponte a Salieri che lo gira a Mozart, nella speranza che il librettista libertino possa danneggiare ulteriormente il ribelle di Salisburgo, che viene salutato da Da Ponte come si salutano i massoni, con un gesto sul dorso della mano. Mentre Da Ponte, quando faceva il prete - e segretamente scriveva rime satiriche contro la Chiesa - portava squadra e compasso sotto l'abito talare, sul quale invece campeggiava il crocifisso.
Casanova è il personaggio più patetico, impenitente erotomane cui restano solo memorie di ricordi e pulsioni. Si rivede nel mito di Don Giovanni, che incarna l'ideale di libertà dalla «schiavitù della morale», mentre per Costy, cioè lady Mozart, è solo un «maiale infoiato pronto per la monta». Casanova, che ha raggiunto la pace dei sensi - non c'erano le pillole e gli aiuti di oggi - si rifà nel delirio alfanumerico delle conquiste del Don Giovanni, ritoccate per eccesso. «In Italia 640, in Alemagna 231, 100 in Francia, in Turchia 91... in Spagna raddoppiamo... è la sua patria, scriviamo 1003». Molte delle quali erano piccine, piccine, perché la sua passion dominante... è la principiante.

Antonio Gramsci: E’ VERO, SIAMO PARTIGIANI
(...) Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo s’irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?
Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per questo e mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze meravigliose della mia parte già pulsare l’attività della città futura che appunto la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti e ogni opportunista.


ANTONIO GRAMSCI


Repubblica 13.10.09
Le nuove "nozze" di Calasso
di Antonio Gnoli


"Abbiamo perso la capacità di pensare attraverso ciò che vediamo, che era la cifra di altre civiltà"
"Secondo i criteri attuali questo è un libro impossibile. Ma è l´unica forma che corrisponde al testo"
Esce un´edizione delle "Nozze di Cadmo e Armonia" dove testo e illustrazioni si fondono in un percorso unico

MILANO. A ventun anni dalla prima pubblicazione e seduto su una montagna di oltre 500 mila copie vendute, Roberto Calasso può ben dire di festeggiare le sue particolarissime "nozze d´oro", con una nuova edizione del suo libro più celebre. Esce infatti domani Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, pagg. 558, Euro 150). E non metterebbe conto tornarci sopra se non fosse che quello che abbiamo sotto gli occhi è un libro diverso, come se vedesse per la prima volta la luce, come se fosse stato pensato e realizzato attraverso un incastro originalissimo di parole e immagini.
Vorrei cominciare con un´obiezione: detto che il libro è magnifico, per l´elaborazione che vi è sottesa, la carta, il formato monstre, la qualità delle riproduzioni, insomma il grandissimo lavoro che ha richiesto, non c´è il rischio che venga confuso con un´opera di storia dell´arte?
«Non mi pare, perché qui le 384 immagini sono strettamente connesse con un testo narrativo e il lettore è invitato a scoprire quei nessi volta per volta, a ogni snodo della storia».
Ha ancora senso esaltare il ruolo dell´immagine in un mondo che sembra vivere solo di immagini?
«È il paradosso attuale: siamo sommersi dalle immagini, attraverso la digitalizzazione del mondo e la disponibilità della rete, ma si è perso il senso del pensare per immagini, che è il fondamento di ogni mondo mitico».
Un lettore che mettesse a confronto le due edizioni delle Nozze, potrebbe concluderne che una è semplicemente più sontuosa dell´altra, ma non necessariamente uno sviluppo.
«Per le Nozze le fonti testuali e le fonti figurate erano sullo stesso piano, mentre elaboravo il libro. Così, con la nuova edizione, affiora parte del tessuto di immagini che erano implicite e sottintese nel testo fin dall´inizio. Ma altre immagini ho scoperto nel corso dei vent´anni che sono passati dalla prima pubblicazione. Altre, infine, le ho isolate nel corso del lavoro di pubblicazione di questo libro, un lavoro che, forse anche perché è avvenuto in tempi stretti e si mescolava alle ultime fasi di un libro che con le immagini ha molto a che fare, La Folie Baudelaire – mi ha gettato in una sorta di ebbrezza».
"Ebbrezza" è una parola che i greci conoscevano bene. È a quel mondo che si riferisce?
«Diciamo che è molto affine all´ebbrezza di cui parla Gottfried Benn in una pagina memorabile del Romanzo del fenotipo. Un´ebbrezza moltiplicata per decine di migliaia di immagini che mi sono passate sotto gli occhi in quei mesi. È stata quella la "massa visionaria" di cui parla Benn, quella "massa" che deve giungere al punto in cui "ardono le immagini"».
Considera la nuova versione delle Nozze un´eccezione editoriale?
«Certamente è un libro che va contro gli usi editoriali del momento. Ma al tempo stesso e fin dall´inizio della sua storia – e Aldo Manuzio coincide con quell´inizio –, il libro è stato capace di accogliere in sé l´immagine, con una duttilità e intensità altissime. Una storia dell´arte che non includa in sé le immagini stampate nei libri, da Gutenberg a oggi, sarebbe una storia dell´arte manchevole. Le xilografie della Hypnerotomachia Poliphili fanno parte dell´arte rinascimentale non meno di tante opere celebrate nelle cartoline. Si trattava perciò di inventarsi una ulteriore variante nel corso di questa intricata e affascinante storia dell´adiacenza fra immagine e parola».
Lei citava l´opera che Manuzio realizzò sul finire del 1400. Che cosa rappresenta quel libro?
«Tra le tante cose è anche l´opera esemplare in cui si mostra lo sfociare della mitologia classica nella psiche moderna, che allora si stava delineando. In quanto tale, non può che orientare ogni mitografia successiva, anche per il suo carattere onirico, inscindibile dalla maniera in cui le immagini del passato continuano a vivere in noi».
Lei ha usato l´Hypnerotomachia anche come modello grafico?
«Quel modello mi è stato di immenso aiuto. Ne ho ripreso il formato e lo specchio di pagina. E ciascuna delle dodici parti del libro è introdotta da una immagine della Hypnerotomachia connessa con le storie che vi sono narrate. Non solo: in quel libro vi sono 26 diverse possibilità nel disporre le xilografia sulla pagina – e non ho fatto che seguirle rigorosamente. Così, all´interno di uno specchio di pagina dalle magnifiche proporzioni, si dava un numero così alto di varianti da rendere possibile una continua, imprevedibile serie di mutamenti».
Le immagini che ci vengono incontro non sono solo quelle scaturite dal mondo greco, ma anche quelle elaborate da alcuni artisti a noi più vicini. Che tipo di relazione si può stabilire tra la sensibilità moderna e la civiltà greca delle immagini?
«L´affinità con la materia mitica appartiene a un singolo strato dell´arte occidentale, con esclusione di molti altri. Così si può dire che il mito greco obblighi ad attraversare trasversalmente più di tremila anni di storia dell´arte. La scuola di Fontainebleau, per esempio, appare mitologica in blocco. O altrimenti si hanno riconoscimenti imprevisti, come nel Ratto di Proserpina di Rembrandt; fra i moderni, l´affinità mitica può apparire più evidente in pittori come Beckmann o Vallotton, che al mito non vengono generalmente associati, mentre Picasso, che tanto spesso è ricorso a canovacci mitici, si rivela soprattutto affine a se stesso».
Il ricorso alle immagini mi sembra una costante dei suoi lavori. Come se attraverso di esse lei cercasse una forma conoscitiva diversa da quella che l´Occidente ha praticato.
«Le Nozze nella versione con immagini è un libro impossibile secondo i criteri attuali (per i costi, il formato, l´impostazione), ma al tempo stesso quella forma era l´unica che corrispondesse al testo. Per l´autore, è un libro parallelo, una variazione del tutto autonoma rispetto al testo originale. Del resto, il rapporto con l´immagine effettivamente mi accompagna fin dal mio primo libro, L´impuro folle, che è del 1974 e già allora si presentava come un romanzo con immagini, anche piuttosto sconcertanti, intercalate al testo. Più tardi, con Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire, quel rapporto sarebbe diventato ancora più evidente».
Ma non le sembra che si viva dentro un mondo in cui l´immagine è fin troppo sovrana?
«È un vecchio – e un po´ comico – luogo comune quello della "civiltà dell´immagine". Che ha senso solo se si intende come "civiltà della produzione ininterrotta di immagini". Mentre, se si parla della comprensione delle immagini, credo che la nostra dovrebbe essere considerata una delle civiltà più rudimentali. All´estremo opposto troveremmo la civiltà vedica, che si è astenuta dal produrre simulacri di qualsiasi tipo (né statue né pitture né rilievi né templi), ma viveva immersa in un pullulare vertiginoso di immagini, come si può constatare aprendo il Rgveda».
Per tornare all´Occidente, il ruolo che hanno svolto le immagini mitiche è stato molto diseguale, fino a giungere a oggi in cui quella funzione si è un po´ persa.
«La capacità di evocare visibilmente le immagini mitiche si riaccende nel Quattrocento in Italia e permane attraverso la storia della pittura fino a Tiepolo incluso. Con l´Ottocento, diventa un fatto sporadico legato a particolari momenti di certi pittori (Ingres ma anche Géricault, fino a Moreau e Redon). Ma l´accesso all´elemento mitico diventa sempre più raro. Già ai tempi di Baudelaire la pittura mitologica era un genere che serviva soprattutto come pretesto per l´esibizione di corpi femminili nudi».
E passando al Novecento?
«Gli incontri con le storie mitiche sono ancora più improbabili e sempre più inadeguati. Quanto a ciò che si chiama "il contemporaneo", è arduo incontrarvi una qualche affinità significativa con la materia mitica».


Corriere della Sera 13.10.09
Classici A vent’anni dall’uscita, vengono ripubblicate «Le nozze di Cadmo e Armonia» in edizione pregiata. Roberto Calasso ne sottolinea l’attualità
L’eterno ritorno del
Mito
Come dei ed eroi spiegano le ragioni della società contemporanea

di
Roberto Calasso


Nel 1988, quando apparvero le Nozze di Cadmo e Armonia, un largo nume­ro di autori evitava la parola «mito» in quanto reazionaria per natura. Venti anni dopo, la superficie planetaria appare ricoperta da un pullulare di marchi — e ogni marchio aspira innanzitutto a essere un mito.
Tutto questo, oltre tutto, appare ovvio. E, di fat­to, non dovrebbe sorprendere. Nella sua beffar­da equivocità, si tratta di una fra le numerose oscillazioni che hanno accompagnato la presen­za o l’assenza o gli svariati camuffamenti di quel­le figure che alcuni, in certi momenti, chiamaro­no o chiamano divine.
Ma come sono avvertibili quelle presenze? Nell’atto stesso di essere coscienti, rispondereb­be uno dei veggenti vedici. Fondamentalmente non occorrerebbe altro. Non ci sarebbe bisogno di dottrine, di nomi, di riti, di guide. Ma la co­scienza, compagna perenne, è anche imprendi­bile — e labile. Si direbbe che, per diventare ta­le, la coscienza abbia bisogno di staccarsi da sé. È questo ciò che, fin dalle Upanishad , fu chiama­to «risveglio», bodhi. Il paradosso del risveglio sta nel fatto che esso irrompe nel comune stato di veglia. Ardua però è la via del distacco imme­diato. Per seguirla, Meister Eckhart può segnare il cammino. Ma non ci sono regole — e nessuna disciplina può garantire un esito sicuro. Così si ricorre a accorgimenti, manovre aggiranti, appi­gli, stratagemmi che possono venire in aiuto. Era il quinto anno di guerra, Gottfried Benn si trovava in una caserma a Landsberg an der War­the («nulla inclina a sognare come una caser­ma ») e, un giorno di aprile, annotò sulla sua agenda «12-13.30 Cento bombardieri sopra la ca­serma... ». E poi: « Summarisches Überblicken », «Sguardo sommario». A che cosa si riferiva? Pro­babilmente: Benn aveva scritto quel giorno il frammento che, con lo stesso titolo, sarebbe di­ventato una sezione nel Romanzo del fenotipo: «Già soltanto uno sguardo sommario, già l’atto di sfogliare pagine procura a volte una lieve ebbrezza. Veneri, Arianne, Galatee si sollevano dai loro talami, sotto arcate, raccolgono frutti, velano la loro tristezza, spargono viole, inviano un sogno. Venere con Marte; Venere con Cupi­do, distesa, un candido coniglio al fianco, due colombe ai piedi, una bianca, l’altra scura, da­vanti a un paesaggio che si perde lontano. Pro­cri irrompe dalla macchia, crolla a terra, chino su di lei Cefalo dal lungo orecchio bifido, il cac­ciatore: credeva di aver udito il fruscio di un ani­male nascosto, è lo sposo e ora, dopo aver lancia­to il giavellotto, l’assassino; i sandali di lei han­no strisce intrecciate e incrociate, lì accanto ve­glia, triste, il bel cane scuro.
«Così si sollevano i mondi. Andromede, Ata­lante, nel sonno o in attesa, nude o coperte da pelli, adorne di perle, di fiori e davanti a spec­chi. Forme candide, rigogliose, le cosce alzate, spesso accanto a salvatori dalle fulgide corazze. Ma nella maggior parte sono molto solitarie, molto raccolte in sé, non si espandono dalla pal­lida carne bombata; attendono, ma si schermi­scono di fronte a ogni vampa, a ogni piacere. Molto rattenute: Cerere con la corona di spighe, silenziosa come le sementi; e una figura contadi­na, foriera dell’autunno, con zappa, grappoli d’uva, tralci di vite, tutt’altro che ebbra, lo sguar­do abbassato, uno sguardo amaro e inappagato.
«Approdano Galatee con delfini, scendono dalla grande conchiglia, calcano la riva in solitu­dine o in compagnia di Nereidi e Centauri. E di nuovo le colombe, anche i serpenti, anche le conchiglie, e là il pavone, qui la barca, su tutte le spiagge, su tutti i declivi — indugiano e si dile­guano.
«L’esperienza immediata si ritrae. Ardono le immagini, il loro sogno inesauribile, pro­tetto. Rapiscono. Lo sguardo fisico giun­ge solamente fino ai bastioni, oltre il piazzale — ma la tristezza si spin­ge più in là, nella profondità del­la pianura, oltre i boschi, i colli vuoti, nella sera, nell’immagi­nario; non tornerà più a casa, rimane lì, in cerca di qualcosa che però si è disfatto, e allora deve prendere congedo nella luce di cieli infranti —, questi però portano via, portano lontano, portano a casa».
L’amico Oelze rimase molto colpito da questa pagina e ne scrisse a Benn, il quale colse subito l’occasio­ne per tornare sul tema (lettera del 30 marzo 1949): «Caro Signor Oel­ze, l’osservazione che ha appena fat­to sullo 'Sguardo sommario' (nel
Fenotipo ) mi ha singolarmente inte­ressato. Il mio sguardo cade ogni volta su quel passo, quando penso a quel frammento. Di fatto esso contie­ne nel modo più compiuto ciò che mi balenava quando ho sviluppato questo soprasti­le. Omettere totalmente i preliminari psicologi­ci e lasciar sgorgare subito la massa visionaria (dopo la frase introduttiva e l’accenno alle circo­stanze). L’antecedente è questo: avevo un libro — La bellezza del corpo femminile, un’opera di storia dell’arte estremamente seria, con circa 200 fotografie di quadri (Botticelli, Paolo Vero­nese, Rubens, ecc.), credo edito da Bruckmann. E nello sfogliare entrai in un’ebbrezza non certo per via dei corpi nudi, che mi lasciavano del tut­to freddo, ma per l’incommensurabile ricchezza di dettagli, fiori, colombe, cani, corazze, pellicce — in una parola di elementi materiali (quelli che qui tanto mi mancano) e che potevano veni­re subito trasposti in parole, frasi, ritmi. Tutti questi accadimenti, eventi, movimenti, connes­sioni, scioglimenti, passioni, passati — raccolte della bellezza e della melanconia — così tangibi­li — visioni sempre nuove, già materializzate, questo mi stordiva. Io sfogliavo e basta, e colle­gavo questo a parole, lo accatastavo, distribuivo gli accenti in ogni frase: tutto. Il principio della prosa assoluta, dove nessuna frase è più connes­sa con una provenienza psicologica o fattuale, era il principio che mi sembrava veritiero. In ogni frase: tutto. Queste frasi non vanno capite, contengono soltanto se stesse. Suppongo che la prosa futura conterrà qualcosa di questa nuda assolutezza».
A tanto si può giungere partendo dall’atto di sfogliare pagine con immagini: gesto che è stato considerato irrilevante nell’etogramma della specie umana finché Benn non lo ha illuminato. E tutto sulla base di un singolo libro sfogliato in giorni di alta cupezza in un «fortino nel deser­to ». Non era dell’editore Bruckmann ma di Die­derichs (doveva anche essere stato piuttosto po­polare se la prima edizione fu di quindicimila copie nell’anno 1912). L’autore, Hanns Schulze, attraversava la storia dell’arte europea in una se­quenza di figure femminili, da Masolino a Tiepo­lo, riprodotte in bianco e nero, e tutte incornicia­te allo stesso modo, come in uno schedario. Ma non c’era bisogno d’altro. Sfogliando quel libro, Benn non aveva reagito in termini di storia del­l’arte.
Anche se certi dipinti — di Piero di Cosimo o di Francesco del Cossa — si possono riconosce­re dalle sue descrizioni, i nomi dei pittori sono
taciuti, sommersi. Ciò che rimane è l’evocazione politeista, la dominante afroditica, l’allucinazio­ne degli oggetti. E i nomi. Di questa materia — Benn ci vuole persuadere — è fatta una certa prosa, nella sua «nuda assolutezza» (non dissi­mile da quella che Mandel’štam aveva pratica­to). Era una indicazione testamentaria. Ma, di là dalla prosa, ciò a cui Benn accennava era un cer­to modo di trattare i fantasmi — e di lasciarsene invadere. Tutto sta nel giungere al punto in cui «ardono le immagini». Occorre una sorta di rab­domanzia estetica, un silenzioso acrobatismo psichico. Ma perché Benn usava l’aggettivo «sommario»? Non solo per accennare alla rapi­dità e cursorietà del gesto, ma perché quello sguardo ha qualche somiglianza con un giudizio sommario: scarta i passaggi, toglie via i secoli, le filologie, le categorizzazioni. Rimangono solo i profili: di figure, di oggetti. Perché, se non riescono ad agire da soli, nessuna dottrina mai li saprà recuperare, salvare.
Nella impaginazione austera del libro di Schul­ze, assimilati dal formato e dalla mancanza del colore, i quadri tendevano a presentarsi come una pura evocazione di corpi e materie inanima­te. Scorrendo fra le dita, offrivano un’occasione perché sgorgasse la «massa visionaria». E non si trattava di un accidente marginale, dovuto alle circostanze della solitudine e desolazione di un poeta. Era un accenno al modo primario e pri­mordiale in cui si manifestano e agiscono le im­magini, precedente — in senso metafisico e psichico — al loro disporsi in drappelli nei recinti della storia. Se spinto all’estremo, ogni rapporto con le immagini si fonda su qualcosa che è affine all’atto dello
sfogliare pa­gine descritto da Benn. Prima di rive­stirsi con un qualsiasi altro nome — fosse anche divino —, ogni immagine è fantasma mentale. E, dopo aver circo­lato per il mondo assumendo epiteti, etichette, funzioni e poteri, e depositan­dosi in simulacri, alla fine torna a im­mergersi nel continuo mentale. È la pe­renne Anadiomene — come i Greci sep­pero percepire gloriosamente: più di al­tri, con più nettezza di altri.
Fosse anche soltanto per questo moti­vo, sarebbe ora di tornare a parlare del­l’unicità dei Greci. Dopo decenni di autoflagella­zione in cui i classicisti si sono premurati di af­fermare, sulla soglia di ogni discorso, che i Gre­ci erano
come tutti gli altri — una cultura come tante altre —, perciò immeritevoli di essere as­sunti a esempio perenne, come faceva invece quasi ogni professore nelle aule del «ginnasio umanistico» ancora nella Germania di Bismar­ck, sempre più si impone come evidenza, all’oc­chio che guarda o che legge, l’irriducibile singo­larità di ciò che è accaduto, nel corso di pochi secoli, all’interno di una penisola frastagliata, di alcune isole e di una frangia di costa asiatica – e che già i contemporanei chiamavano la cosa elle­nica (tò hellenikón ), in quanto si distaccava da ogni altra.
Se oggi si dovesse tentare di avvicinarsi di nuo­vo a definire quella unicità, non sarebbe neppu­re al
lógos, immancabilmente succedente al mythos come nei passi di una quadriglia, che si vorrebbe ricorrere, se non altro per il tedio e la prevedibilità che da quella concezione emanano. Rimarrebbe l’immagine, l’ eídolon, l’ ágalma, il si­mulacro.
Occorrerebbe allora chiedersi, per esempio, come mai, a differenza di ogni altra ci­viltà mediterranea, i Greci abbiano insistito — con stupefacente concentrazione in un breve ar­co di decenni — a profilare sui loro vasi migliaia e migliaia di immagini di dèi, eroi e personaggi anonimi su un fondo compatto e uniforme, pri­ma rosso e poi nero. Il vaso, nelle sue molteplici forme, era innanzitutto lo strumento dell’offerta, nell’unico atto rituale che accomunava gli uomi­ni e gli dèi: la libagione. Ed era proprio su quegli oggetti che si addensavano le immagini, come se l’atto di offrire, versando un liquido, e quello di sprigionare fantasmi fossero indissolubilmente connessi. E forse dipendenti uno dall’altro.
Già questo riconduce allo «sguardo somma­rio ». Ci sono ancora, in Europa, alcuni musei dall’ordinamento antiquato, dove entrare nelle sale o nelle gallerie dei vasi greci può dare facil­mente una sensazione di vertigine. In ciascuna di quelle vetrine, su quelle superfici curve di cui spesso si riescono a vedere solo alcune zone,
av­vengono storie. È un incessante ripetersi di epi­sodi nella vita degli dèi e degli eroi — e induce a pensare che alla fisiologia di quelle storie appar­tenesse la necessità di ripetersi e riconfigurarsi in varianti. Spesso, perché chi guardava non si smarrisse e nulla andasse perduto, accompagna­te dai loro nomi. Quasi per dire: Attenti, questa è Atena, questo è Hermes... Come se, in assenza di quelle figure dipinte, l’atto dell’assorbire o dell’offrire un liquido, atto vitale per eccellenza, non potesse darsi. Le storie si accavallavano. Oc­correva il mitografo per stesserle e ritesserle. E, un giorno, sarebbe occorsa l’acribia di J.D. Beaz­ley per riconoscere le mani degli innumerevoli vasai che le avevano narrate. Ma sia il vasaio, sia il mitografo, sia lo studioso, sia l’ignoto spettato­re o lettore avranno ugualmente bisogno di eser­citare l’arte dello sguardo sommario. Almeno se desiderano, come accadde a Benn, che torni a sgorgare quella «massa visionaria» che tuttora preme su ciascuno di noi, come le acque celesti che spettò a Indra liberare.
Accedere a quel liquido
continuum è una sor­ta di autoiniziazione. A Eleusi, avvicinandosi al Telesterion, che era il luogo della epopteía — della visione misterica —, i devoti passavano da­vanti a una statua di Core dal cui ventre sporge­va una conca marmorea, colma di acqua pura. I fedeli vi immergevano le dita, per purificarsi, prima di penetrare fra le colonne del Teleste­rion. Come in India, profonda commistione di mistero e di sesso. Ma soltanto greca la capacità di predisporre in quel modo la scena per un ge­sto così semplice e così audace. Fra le pieghe de­licate di un chitone con maniche, là dove il ven­tre si incurva spuntava quella cavità di marmo, che garantiva al tempo stesso la purezza e il con­tatto con la Fanciulla, Core, con colei il cui ritor­no si era accorsi a celebrare.

©Roberto Calasso

lunedì 12 ottobre 2009

Repubblica 12.10.09
Se il cavaliere vuole farsi stato
di Giuseppe D'Avanzo


Non si riesce a tenere il conto delle menzogne e dei ricatti che l´Egoarca riesce a distillare nei suoi flussi verbali, ormai oltre ogni controllo di ragionevolezza, del tutto catturati dal suo disturbo narcisistico. Stiamo ai fatti. Il lucidissimo furore di Berlusconi si accende per i pasticci che si combina da solo, con la sua compulsività.
Frequenta minorenni; riempie palazzi e ville di prostitute arruolate da un ruffiano; trascura gli affari di Stato per allegre scorribande amorose. Contestato dalla moglie in pubblico, se ne va nel luogo pubblico per eccellenza – la televisione – per recuperare (sa di doverlo fare) un´apprezzabile accountability. Sbaglia la mossa. Esige che le sue favole diventino scritture sacre. Se non accade – e non accade – s´infuria. Ingaggia maschere con mazza ferrata che, dai giornali e tv che controlla, fanno per lui il lavoro più sporco, "assassinando" la personalità di chi gli appare, anche da lontano, «un nemico». Scatena gagliofferie, aggressioni, conflitti che (lungo l´elenco) investono, nel tempo, la moglie; impauriti testimoni delle sue imbarazzanti avventure; la Repubblica; il suo editore; il suo direttore; l´Unità; addirittura il salmodiante Corriere della sera; la stampa internazionale tutta; il servizio pubblico televisivo che non è al suo servizio; un pugno di comici, il cinema nazionale; l´Avvenire; la Conferenza episcopale italiana; il presidente della Camera; il presidente della Repubblica; la Corte Costituzionale; la magistratura tutta; un´opposizione che, peraltro, è oggi una bottega chiusa per inventario.
L´Egoarca mostra, dietro il sorrisone, come il suo potere sia pura, nuda violenza. Non guadagna un punto. Ne ricava soltanto il discredito internazionale, un distruttivo «sputtanamento» che si completa, nelle opinioni pubbliche e nelle cancellerie d´Occidente, quando, con posa da bauscia al bar nell´ora del "camparino", si vanta di aver convinto George W. Bush a mettere sul tavolo 700 miliardi di dollari per far fronte alla crisi finanziaria; di aver detto a quei due, Barack Obama e Vladimir Putin, di far la pace altrimenti non li avrebbe invitati al G8 di cui deve essere il proprietario; di «aver mandato Sarkozy» all´Est dopo avergli spiegato quel che avrebbe dovuto dire per risolvere la crisi georgiana; di essere messaggero presso il Papa, in un incontro della durata di minuti 3, dei «saluti di Obama», come se il presidente degli Stati Uniti d´America avesse bisogno dell´Egoarca per discutere con Joseph Ratzinger. Un premier così garrulo e vanìloquo, che crede di potersi muovere sulla scena pubblica come tra le plaudenti prostitute ingaggiate per il salotto di Palazzo Grazioli, non ha bisogno di essere screditato. Si scredita da solo con le sue mani e, con le sue parole e condotte, disonora e danneggia l´intero Paese. Oggi se c´è in giro un antagonista della rispettabilità dell´Italia nel mondo è Silvio Berlusconi. Lo sappiamo noi, lo sanno i caudatari e le congreghe che lo sostengono, lo sa chiunque guardi ai nostri affari da oltre confine. L´Egoarca non se ne cura. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, misura istituzionale, saggezza politica. Ubriaco dei sondaggi che gli servono (ma sono sinceri?), è incapace di guardare in faccia la realtà che si è cucinato da solo e che ogni giorno irresponsabilmente riscalda. Sarebbe un errore tuttavia credere che i suoi coups de théatres siano dominati dall´istinto. Bisogna sempre guardare che cosa bolle nella pentola dell´Egoarca. L´uomo è lucidissimo. Nella brodaglia che ha scodellato a Benevento si coglie un cambio di strategia, un ritorno all´antico. Come se quindici anni non fossero passati, Berlusconi evoca i fantasmi mentali di allora, ricostruisce lo stesso contesto di grande forza evocativa che gli portò fortuna a partire dal 1993. Suona così. Un manipolo di toghe «di sinistra» mi minaccia come già accadde nel 1994 quando azzopparono il mio primo governo con un avviso di garanzia. Con la complicità della magistratura, «la sinistra» vuole espropriare il popolo del suo voto. Per farlo, con la correità di un presidente della Repubblica «di sinistra», la Corte costituzionale «di sinistra» ha dovuto contraddirsi mentre un giudice «di sinistra» aggredisce le mie aziende.
Non c´è una parola di quel che dice l´Egoarca che corrisponda ai fatti. Nel 1993 la corruzione inghiotte ogni anno 10mila miliardi di lire mentre l´indebitamento pubblico – cresciuto del 92 per cento negli anni dei governi dell´«amico Craxi» – oscilla tra i 150 e 250 mila miliardi, più 15/25 mila miliardi di interessi annui. La Prima Repubblica crolla non per la pressione della magistratura (una favola), ma per la disperazione di chi non può più pagare il prezzo della corruzione alla politica e denuncia i corrotti. Berlusconi, prossimo al fallimento, è creatura di quel sistema politico. Gli ha assicurato ogni privilegio. Quaglia pronta al salto, si apposta però sotto le insegne dell´antipolitica e vince. Entusiasta di quelle toghe che gli hanno aperto la strada al potere, offre a due di loro (Davigo e Di Pietro) la poltrona di ministro (rifiutano). Cade quando Bossi non ne può più dei maneggi corruttivi dell´alleato che gli stanno mangiando la Lega e decide di voltargli le spalle il 6 novembre del 1994, due settimane prima che Berlusconi riceva l´avviso di garanzia che ancora oggi lo fa tanto strepitare.
Come accade per la disonorevole vita privata che conduce, l´inesauribile ripetizione di concetti inconsistenti ci mostra come la menzogna abbia un primato nella "politica narrativa" di Berlusconi. Sia il nucleo più autentico del suo sistema politico. Abbia una funzione essenziale perché abitua alla confusione e infine all´indifferenza, a un presente smemorato, a una grottesca distanza tra quel che si dice e quel che è accaduto davvero. È in questo varco che il Berlusconi «sputtanato» intende muoversi (e si muoverà) con un nuovo obiettivo. Lo sollecitano due eventi, nulla che abbia a che fare con l´interesse nazionale. Il primo, con tutta evidenza. È una controversia tra due società private, la Fininvest di Berlusconi, la Cir di De Benedetti (è l´editore di questo giornale). Anche il secondo evento, a pensarci, non è di interesse pubblico. Non si discute – come pure sarebbe legittimo – la reintroduzione nella Carta costituzionale dell´immunità per i rappresentanti del popolo, cancellata dopo 45 anni nel 1993. Si discute dell´impunità di Berlusconi. Di uno solo perché tra le quattro alte cariche che ne hanno diritto con la "legge Alfano" soltanto Berlusconi ha gravi rogne giudiziarie per comportamenti tenuti – peraltro – quando ancora non era né un leader né il premier. Quindi, sono due fatti privati di un uomo diventato con gli anni capo di governo, sostenuto da una granitica maggioranza cui il Paese chiede di governare, a scatenare una paralizzante "guerra di religione" che travolge ogni cosa e destino, uomini e istituzioni, riattivando una falsa «narrazione» cara all´Egoarca e ai suoi corifei.
Se la "narrazione" sa di muffa, l´obiettivo è novissimo. Se nel 1994 gli venne buona per governare, oggi è utile per un´altra manovra che si scorge ormai a occhio nudo. Che cosa sono le aggressioni al capo dello Stato? Perché la denigrazione della Corte costituzionale? Perché l´annuncio di una vendicativa riforma della giustizia? Come giustificare la segreta e abusiva raccolta di informazioni (è accaduto negli archivi del Csm) che, opportunamente manipolate, serviranno per bastonare il giudice che gli ha dato torto? Come sempre per difendere se stesso e i suoi privatissimi interessi, l´Egoarca non si accontenta più di fare le leggi che altri, da lui separati, vaglieranno e applicheranno. Egli vuole liberarsi di ogni potere di controllo. Non si accontenta, con 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, di poter fare le leggi. Esige anche il monopolio di farle valere. Screditandoli perché «di parte», reclama anche il possesso diretto e legale degli strumenti di potere statali. Ha soltanto una maggioranza, ma manco fosse un premio politico, un plusvalore politico che gli è dovuto, pretende di essere lo Stato. Dice: il popolo lo vuole. Dimentica che, dei 36 milioni di italiani che hanno votato il 13 e 14 aprile 2008, 17 milioni sono con lui e 19 milioni gli hanno voltato le spalle, se non si vuol contare quei due italiani su dieci che, astenendosi, si sono chiamati fuori dalla contesa. All´Egoarca va ricordato che non è l´Italia, è solo il provvisorio capo di un governo. Purtroppo, come dargli torto, molto «sputtanato».

Repubblica 12.10.09
Il partito e gli elettori
di Curzio Maltese


Voglio trovare un senso a tante cose, canta il Vasco Rossi imitato da Bersani. Ma un senso il congresso del Pd finora non l´ha avuto. Restano due settimane per recuperarne uno e convincere almeno due milioni d´italiani a partecipare col voto alle primarie.
Sarebbe un duro colpo a Berlusconi, che ne ha ricevuti tanti in questi mesi, mai però dal Pd.
Con tutto quello che succede, chi si ricordava della corsa alla segreteria del Pd? Perfino ieri, nel giorno della convenzione, la scena è stata rubata dal Cavaliere. Le aperture dei telegiornali fotografano una lotta impari. Da un lato, un Berlusconi alla spallata finale, in guerra aperta con la Costituzione, la Consulta e il Presidente della Repubblica, deciso a spianare la magistratura indipendente e la stampa libera, magari anche estera. Dall´altra tre gentili signori, Bersani, Franceschini, Marino, che dibattono di forme partito, alleanze e statuti interni. Oppure di quanto sarebbe stato meglio fare una legge sul conflitto d´interessi, dieci anni fa. O ancora se l´anti-berlusconismo e lo spirito anti-italiano siano due cose diverse, come ormai in molti cominciano a sospettare.
Questa è l´immagine che il principale partito d´opposizione ha dato al Paese, non da oggi. Una totale incapacità di cogliere la crisi nazionale e internazionale del berlusconismo. Restano due settimane, da qui alle primarie, per ripartire all´attacco. È quanto chiedono gli elettori. Ed era quanto chiedeva ieri l´assemblea democratica alle porte di Roma. Fra i candidati, l´unico a capirlo è stato Dario Franceschini. L´unico che ha scaldato la platea.
Il compito del segretario uscente era più facile. Pierluigi Bersani ha già vinto la corsa, con ampio margine di voti fra gli iscritti, ed è favorito nei sondaggi. Il suo discorso è stato cauto, solido, di buon senso, appunto bersaniano. Il punto di forza sono le alleanze, la riapertura del «cantiere dell´Ulivo». Qui Bersani è assai più convincente di Franceschini. La vocazione maggioritaria del Pd, col 26 per cento dei voti, è andata a farsi benedire. La storia di quindici anni insegna che, alla fine, il centrosinistra ha vinto nelle due uniche occasioni in cui s´è presentato unito e perso sempre quand´era diviso. Per il resto, il vincitore designato non ha saputo trovare un argomento o un tono adatti a scatenare la sua assemblea, che non aspettava altro.
Il «comizio domenicale» di Franceschini, come l´hanno definito con disprezzo i dalemiani, è stato quindi una liberazione. Lo sconfitto designato ha potuto giocarsi le carte proibite all´avversario. L´appello al popolo delle primarie, perché rovesci il risultato degli iscritti. Il rinnovamento del partito e il cielo sa quanto ce ne sarebbe bisogno in un partito dove le facce sono le stesse da vent´anni. Infine, ma certo non ultimo, l´anti-berlusconismo. Per meglio dire, quello che perfino nel Pd si accetta di definire anti-berlusconismo e che consisterebbe in realtà nel fare il proprio mestiere di opposizione con più coraggio e grinta. Franceschini, rispetto a Bersani e anche a un Ignazio Marino in versione moderata, ha fatto nomi e cognomi. Soprattutto uno, Massimo D´Alema, il grande elettore di Bersani. Trattato come il vero vincitore del congresso e il vero padrone di casa. Non del tutto a torto, com´era dimostrato simbolicamente dall´assenza alla convenzione dei tre rivali storici di D´Alema: Romano Prodi, Walter Veltroni, Francesco Rutelli.
Con questi argomenti Franceschini spera di rovesciare in due settimane il responso degli iscritti. Impresa difficile, ma non impossibile. I venti punti di distacco in percentuale della sua mozione, in termini reali, si riducono a 84 mila voti di distacco da Bersani. Ma nella campagna elettorale «sul territorio», secondo la formula un po´ bolsa, insomma in giro per l´Italia, Bersani sarà assai più efficace di quanto sia parso davanti all´assemblea democratica. Chiunque vinca, ha davanti un compito difficile. All´interno di un partito da ripulire a fondo. Un partito dove oggi la Calabria ha più iscritti della Lombardia, Napoli e provincia contano il doppio dell´intero Nord-Est. Ma ancor di più all´esterno, nella tanto evocata Italia reale, dove la voce del maggior partito dell´opposizione suona flebile e confusa, sovrastata dal clamore berlusconiano e non solo.

Repubblica 12.10.09
Alle Scuderie del Quirinale "Roma. La pittura di un impero"
Tutti i colori del nostro mondo antico

di Giuseppe M. Della Fina

«Ciò che sopravvive dall´antichità sopravvive per lo più grazie a un caso, sovente un caso capriccioso» così osserva Andrew Wallace-Hadrill nel saggio di apertura del catalogo che accompagna la mostra Roma. La pittura di un impero allestita a Roma negli spazi delle Scuderie del Quirinale (sino al 17 gennaio 2010).
L´osservazione è particolarmente vera proprio per la pittura: si pensi, ad esempio, a quello che ha significato la scoperta di Pompei e Ercolano: senza le loro testimonianze avremmo potuto solo immaginare e con molta difficoltà il ruolo svolto dalla pittura parietale nelle decorazioni delle domus romane.
I curatori dell´esposizione, coordinati da Eugenio La Rocca, hanno voluto offrire un´antologia della pittura romana che si è conservata e mostrarne le potenzialità: la possibilità, da un lato, di parlarci - in una qualche maniera - della pittura scomparsa e delle sue scelte; dall´altra di suggerirci la presenza di un legame stretto e misterioso tra la produzione romana - o se si vuole greco-romana - e quella moderna e contemporanea. Un filo che affiora nel confrontare singole opere, o andando a rileggere le considerazioni critiche di alcuni artisti e talvolta le loro confessioni.
I curatori avevano anche un altro obiettivo consistente nell´offrire un contributo visivo al superamento di un´immagine dell´Antico legata al colore bianco dei marmi, mentre osserva La Rocca: «tutto nel mondo antico era colorato». Uno scopo raggiunto: percorrendo la mostra, con le sue cento opere, si è attratti dai colori prima che dalle forme dell´Antico. Si osservano con curiosità le soluzioni cromatiche, prima di cercare di comprendere la scena raffigurata o l´inquadramento cronologico.
Aspetti ovviamente importanti e ben analizzati lungo il percorso espositivo, ma che interessano subito dopo. L´allestimento, curato da Luca Ronconi e Margherita Palli, l´attenzione prestata all´illuminazione di ogni singola opera più che all´insieme delle sale favorisce un simile approccio: volti, uomini e donne, architetture più o meno reali, alberi, fiori, uccelli, pesci, barche, oggetti comuni balzano agli occhi e rivivono per un breve intervallo di tempo: un piccolo miracolo che si verifica ogni volta sappiate vederlo.
Ciò non significa che l´esposizione punti sullo spettacolare, anzi tutto è molto discreto e per questo l´Antico riesce a mostrarsi, a parlare, a farsi capire. Cosa ci comunica? Dice che la pittura romana non era un fenomeno unitario e non avrebbe potuto essere altrimenti avendo attraversato diversi secoli - in mostra abbiamo opere che vanno dal II secolo a.C. al IV d.C. - e interessato gran parte dell´area mediterranea e dell´Europa. Informa che le testimonianze delle città vesuviane sono importantissime, ma non in grado d´illustrare a pieno lo sviluppo della pittura nel mondo romano se non altro per la loro distruzione dovuta all´eruzione del 79 d.C. e la conseguente impossibilità di fornire informazioni sugli sviluppi successivi.
Trasmette il messaggio di un suo collegamento stretto, ma non di una dipendenza acritica dalla raffinatissima esperienza pittorica greca e della capacità di divenire, a sua volta, un modello di riferimento per le realizzazioni successive. Suggerisce la presenza di una tensione tra un´arte colta, legata a Roma come centro del potere e alle sue classi dirigenti, e una più popolare.

Repubblica 12.10.09
Venezia. Leonardo. L'uomo vitruviano tra arte e scienza
Gallerie dell'Accademia. Fino al 10 gennaio


Il disegno eseguito da Leonardo a partire dal 1490 viene nuovamente presentato al pubblico, a sette anni dall'ultima esposizione. Conservato presso il Gabinetto dei disegni e delle stampe del museo veneziano dal 1822, rappresenta uno studio di proporzioni del corpo umano, inserito nel cerchio e nel quadrato, le figure geometriche perfette secondo Platone. Queste figure non sono concentriche ma costruite secondo i modi della sezione aurea.


Repubblica 12.10.09
L´ex presidente della Cei aprirà oggi il congresso organizzato dalla Società italiana di psichiatria
Ruini: "Pochi nati e educazione in crisi Italia malata, ma in Europa meno di altri"
Ogni società ha le sue patologie: in Occidente pericolosi l´odio o il disprezzo verso la nostra civiltà
Il futuro è incerto e imprevedibile cercare troppe sicurezze è inutile, e può essere paralizzante
di Marco Politi


ROMA - Alla fine, nonostante le turbolenze attuali, l´Italia è «meno malata di molti Paesi europei». L´importante è che credenti e non credenti seguano l´atteggiamento del Buona Samaritano e che l´Occidente la smetta di disprezzare le proprie radici.
A sorpresa il cardinale Ruini apre uno squarcio di ottimismo sulla situazione italiana, benché lo preoccupino la deriva educativa e la crisi di natalità. Ma dinanzi all´incertezza del presente, l´ex presidente della Cei propone uno scatto di fiducia, che per il cristiano nasce dalla fede in Dio.
Di politica il porporato non intende parlare. Stamane prenderà la parola al congresso organizzato al Marriott dal presidente della Società italiana di psichiatria, professor Alberto Siracusano. Tuttavia non è casuale la sua esortazione a individuare, nella frammentazione della società moderna, il filo di un senso complessivo, che dia coesione sociale. Un risultato che può solo basarsi sul consenso democratico di maggioranza.
Tema del congresso è la «Psichiatria moderna e il mondo reale». Il cardinale non ignora che il malato psichiatrico tende a suscitare paura nella società. La risposta cristiana, replica, dev´essere ispirata anzitutto dalla carità. «Ma non per questo deve mancare di realismo: in pratica bisogna sconfiggere le paure immotivate. Mentre per le paure che possono avere un fondamento, occorre neutralizzare o prevenire, per quanto possibile, i fattori di rischio».
Cardinale Ruini, in questo ed in altri campi papa Benedetto XVI, specialmente nelle sue encicliche, ricorda continuamente l´esigenza di creare fraternità.
«C´è un contributo che possono dare tutti: seguire nella propria vita la linea indicata da Gesù Cristo con la parabola del buon samaritano. Coloro che hanno particolari responsabilità nell´ambito della legislazione, della cultura, dei media dovrebbero, nel loro lavoro, ispirarsi per quanto possibile al medesimo criterio».
Si può dire che anche la nostra società occidentale è in qualche modo malata?
«Ogni società ha le sue patologie: in Occidente particolarmente pericoloso è un certo odio o disprezzo verso noi stessi e la nostra civiltà, come ha detto più volte Benedetto XVI».
Psichiatri, sociologi, politici, educatori registrano inquieti l´insicurezza e la precarietà delle generazioni attuali. Sul piano psicologico e sul piano reale. Come uomo di Chiesa le avverte anche lei?
«Certamente e molto. Senza dimenticare però che il futuro, per sua natura, è sempre incerto e imprevedibile. Cercare troppe sicurezze è dunque inutile, anzi può essere paralizzante».
Famiglia, Stato, diritto, economia - ha scritto nel suo intervento - non sono più concetti immutabili. Dove trovare un punto di riferimento?
«Cercando di ricuperare gli scopi fondamentali per i quali ciascuna di queste realtà esiste e che si riconducono tutti al bene della persona umana, presa nella sua concretezza».
Come individuare un «significato» nell´ambito di una società pluralista in cui convivono differenti visioni del mondo?
«Molti significati sono agganciati direttamente alla realtà e perciò valgono in ogni sistema culturale o visione del mondo: ad essi va sempre fatto riferimento. Un significato complessivo che li tenga insieme e dia loro una direzione e un senso compiuto non va ricercato in una mescolanza eterogenea, che in realtà significherebbe ben poco, ma passa attraverso delle scelte che, democraticamente, vanno compiute a maggioranza».
La Chiesa italiana si è posta l´obiettivo di affrontare la cosiddetta «emergenza educativa». Qual è la posta in gioco?
«E´ il nostro comune futuro, per puntare alla nostra crescita e non adattarsi alla nostra decadenza».
Si può dire che è malata in un certo senso anche la nostra Italia?
«Si può dire certamente, ma stando attenti a non equivocare. Se infatti ci poniamo la domanda in modo comparativo, probabilmente è giusto rispondere che l´Italia è meno malata di molti altri paesi europei».
E tuttavia una crisi è palpabile. Quali rimedi sono pensabili?
«Abbiamo già accennato all´educazione. Un altro punto decisivo sarebbe superare quella crisi della natalità che è il più sicuro motivo di decadenza dell´Italia. Il rimedio fondamentale, per queste e per altre nostre difficoltà, è di ordine morale o spirituale e consiste in quella fiducia nell´uomo e nella vita che, almeno per un credente, ha la sua ultima radice nella fiducia in Dio».

domenica 11 ottobre 2009

l’Unità 11.10.09
Scuola nel caos
Graduatorie da rifare Gelmini bocciata sui precari
Il Tar del Lazio accoglie il ricorso dell’associazione insegnanti ed educatori: «Commissariata se non rispetta i punteggi». Miur: «Emendiamo il decreto»
di N.L.


Mariastella Gelmini commissariata: entro un mese il ministero dell’Istruzione dovrà inserire «a pettine» nelle graduatorie provinciali un centinaio di supplenti. Lo ha stabilito il Tar del Lazio accogliendo il ricorso dell’Asief (Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione) e di circa 70 insegnanti.
La III sezione bis del tribunale amministrativo, presieduta da Evasio Speranza, ha deciso che Mariastella Gelmini sarà commissariata se non farà inserire «a pettine», ovvero sulla base del punteggio ottenuto, i precari finiti «in coda» alle graduatorie. I giudici hanno già nominato il commissario, Luciano Cannerozzi, dirigente generale della Funzione Pubblica. Il Tar ricorda che «in applicazione dei principi costituzionali di effettività della tutela giurisdizionale», il ministero «è tenuto a dare tempestiva e puntuale esecuzione» alla sentenza.
E condanna il Miur al pagamento delle spese legali degli insegnanti ricorrenti. Anche il Consiglio di Stato, al quale si era appellato il ministero, aveva infatti dato ragione al Tar.
Mariastella Gelmini non cede: «Nulla cambierà rispetto a quanto è già deciso», ma annuncia un emendamento ad hoc nel cosiddetto «decreto salva precari», quando sarà convertito in legge. Il ministro è convinta che le sue scelte «rispondano a criteri di giustizia, serietà e modernità». I criteri dei tagli, soprattutto. L’emendamento non consentirà il trasferimento da una graduatoria all’altra», spiega una nota da Viale Trastevere, «garantendo e limitando» l’inserimento «in coda» in altre tre province. In coda, appunto, a chi già è in lista per l’assunzione.
Si preannuncia il caos. Il Tar deve calendarizzare altre udienze per ricorsi (da circa 7mila e 500 precari) e certo molti insegnanti già inseriti «a pettine» saranno sfavoriti, come gli 8mila che hanno avuto l’immissione in ruolo ad agosto, che potrebbero ricorrere al Tar.
«Il ministro Gelmini sta provocando il caos nella scuola, si è mossa in modo unilaterale, senza basi giuridiche», afferma Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil «ha messo i precari l’uno contro l’altro. Rivedere il decreto non salva
nessuno, si devono rivedere i tagli». La Gelmini messa sotto scacco da Tar «dimostra di conoscere poco o per niente le cose di cui parla (come la questione delle pulizie da parte dei collaboratori scolastici), ma quelle che fa, ed anche quelle che non fa, risultano deleterie per la scuola pubblica statale». Anna Fedeli, della Cgil Lazio, propone che si lascino le graduatorie come sono, per non creare «sub graduatorie».
La Lega insorge contro «la dittatura dei magistrati», l’Italia dei Valori reclama le dimissioni della Gelmini. Russo del Pd chiede che il ministro «rispetti le sentenze» e «non cambi la regole del reclutamento degli insegnanti, né alcuna legge, perché sarebbe un atto incostituzionale».❖

l’Unità 11.10.09
Intervista a Tullio De Mauro
«Niente concorsi ma solo tagli: ecco spiegato il caos»
Il linguista ex ministro dell’Istruzione: da 20 anni non si fanno selezioni pubbliche, così il precariato si accumula e si sfrutta nel modo più bieco
di Natalia Lombardo


Il Tar ha sancito il commissariamento del ministro Gelmini, se entro trenta giorni non ristabilirà l’ordine delle graduatorie per chi ha fatto ricorso. Come può essere accaduto?
«Da più di vent’anni non sono stati fatti concorsi pubblici regolari per le assunzioni dei docenti nelle scuole, l’ultimo si è tenuto durante il ministero Berlinguer. Così la mancanza di concorsi ha accumulato precariato. Da anni e anni è stato sfruttato nel modo più bieco l’uso dei lavoratori temporanei».
Un accumulo negli ultimi vent’ anni?
«Sì, è diventata una pandemia. D’altra parte la scuola si è retta proprio su questo. Erano state delineate delle vie d’uscita, discusse con i precari stessi e i sindacati, ma sono state abbandonate».
Come giudica le politiche del ministro Gelmini?
«È stata scelta la linea della riduzione di spesa persino sulle necessità, fino alla carta igienica, e questo ha portato a tagliare con un tratto di penna gli insegnanti precari. Il Tar avrà le sue buone ragioni di natura amministrativa, ma si arriva all’assunzione a scatola chiusa di migliaia di lavoratori temporanei».
Si rischiano ricorsi di altri in graduatoria. Un pasticcio ministeriale?
«Certo se si sconvolge l’assetto che ministero e provveditorati avevano posto nelle scuole e nelle graduatorie è il caos. È l’effetto della cattiva amministrazione».
La Cgil Lazio suggerisce di lasciare le graduatorie come sono. È d’accordo? «Per forza si rischia di aprire un contenzioso senza fine. La sentenza del Tar interviene sulle condizioni drammatiche di chi viene licenziato, ma non può riguardare l’intero apparato della scuola, che dovrebbe essere affidato al ministero, che non è adeguato».
Era mai accaduto un commissariamento del ministro dell’Istruzione? «Non mi pare. Evidentemente il Tar non si fida, teme che, senza un vincolo, il ministero non intervenga»
Tutto questo crea un danno alla scuola, ai lavoratori e ai cittadini. «La politica dei tagli è dettata dal ministro dell’Economia per ridurre al massimo le spese. Ma questa è solo la tessera di un mosaico che vede la riduzione degli investimenti anche nell'università e nella ricerca, di cui nessuno parla».
Vuol dire che c’è più attenzione sulla scuola e meno sulla ricerca? «Sullo stato di atrofia della ricerca in Italia c’è una sordità ministeriale, ma anche una generale incomprensione. Questo è un paese che non sa di avere un istituto di alta ricerca, non ci si preoccupa che non venga finanziato o abbia continui tagli». Un programma preciso dal governo? «Si segue un senso unico: il programma di riduzione dello spazio dedicato alla scuola e, ripeto, all’università, alla ricerca e agli istituti di cultura. È un disegno complessivo. È logico che ci sia chi paga le conseguenze di ogni atto sul piano personale, ma c’è un attacco generale al mondo culturale».
Ci sono state proteste e manifestazio-
ni, ma non trova che, da parte degli intellettuali, ci sia un po’ di afonia, oltre che di sordità? «Il mondo della ricerca tecnologica e chi lavora nelle università, hanno alzato la voce, ma sono rimasti inascoltati. Aggiungerei al titolo del libro di Asor Rosa “Il grande silenzio” sul silenzio intellettuale, un altro: “La grande sordità”. Al di là delle proteste leghiste, non è triste che un tribunale amministrativo debba intervenire sul funzionamento della scuola?
«È triste sì».
E come se ne esce?
«Con il sussulto di tutti contro questo scempio, la devastazione culturale in atto. Certo se il sussulto non c’è, allora dobbiamo sperare nei Tar. Ma voglio dirla tutta...». Prego
«Mi piacerebbe, anche sui precari, vedere delineata una linea alternativa dalle forze d’opposizione. Mi sarà distratto, però vedo solo tante mozioni e non vedo proposte.. Se il programma è l’atrofizzazione culturale, si apre uno dei problemi di fondo della società italiana». ❖

l’Unità 11.10.09
Lisa Canitano:
«Ru-486, ogni scusa è buona per mettere in dubbio l’aborto»
di Ma. Ge.


Uno Stato che pensa che più l’aborto è traumatico meno le donne abortiscono mi fa paura da qui a frustrarle in pubblico non ci manca moltissimo», reduce da un raduno di ginecologi pro Ru486.
In Italia siamo davvero all’anno zero?
«La Ru486 è del 1980, in Francia è in uso dal 1988, è stata adottata anche da Cina e Uzbekistan, l’Oms l’ha inserita tra i farmaci essenziali. E sicuri. Anche in Italia, dopo la sperimentazione di Torino, è in uso a Pontedera, a Bologna a Parma. Non si capisce cosa si debba sapere di più».
Perché l’indagine del senato?
«La strumentalità degli ostacoli che vengono frapposti alla Ru486 è evidente. Vogliono costringere le donne a subire un intervento chirurgico? Da qui alle frustrate ci vuole poco». Perché allora le donne non scendono in piazza?
«Il diritto al farmaco è un concetto complesso e non automatico, passa attraverso l’informazione. Non a caso chi è contrario alla Ru486 strilla così tanto la sua disinformazione. E non a caso le donne che vanno a Pontedera per abortire con la Ru486 sono mediamente molto istruite».
In ogni caso l’Aifa restringe l’uso all’ospedale. Perché? «Sbaglia. Noi medici siamo obbligati a fare gli stessi raschiamenti in day hospital».

l’Unità 11.10.09
VERSO IL 17
I lavoratori in piazza per dire no al razzismo
Tutti a Roma per un’Italia migliore
L’impegno dell’Unità. Durante la manifestazione del 17 ottobre assieme al nostro giornale saranno distribuite migliaia di t-shirt col disegno di Sergio Staino. L’Unità ha aderito alla protesta e sarà presente al corteo
L’adesione della Cgil. Una protesta popolare gioiosa per chiedere riforme profonde: una sanatoria contro il lavoro nero, diritto di voto, cittadinanza
di Pietro Soldini Responsabile immigrazione della Cgil


Il razzismo è allo stesso tempo spia, prodotto e risposta ad una profonda crisi sociale, politica e culturale. La sua ormai innegabile presenza in Italia rappresenta l’allarme più grave per la nostra convivenza civile. Un allarme che riguarda tutti. Perché il razzismo è istituzionale (di chi governa e amministra) è mediatico, è popolare. E c’è anche un razzismo militante sempre più disinvolto e aggressivo, che produce una enorme quantità di vittime e intimidisce anche i settori più sani della società.
La Cgil, che ha avvertito da tempo questo allarme, nei mesi scorsi ha lanciato la campagna «Stesso sangue stessi diritti». Ne è seguita un’altra («Non aver paura») che abbiamo svolto assieme ad associazioni di diversa ispirazione laico-religiosa, la più ampia coalizione trasversale che io ricordi nella storia dell'associazionismo democratico del nostro Paese. Abbiamo mobilitato energie e risorse nelle città e nei territori, ma abbiamo anche dovuto misurarci con contraddizioni e indifferenza.
All’opposto, l’azione del Governo in questi mesi ha prodotto il cosiddetto «pacchetto sicurezza» che intacca pesantemente il profilo egualitario della nostra Costituzione e che produrrà effetti nefasti non solo su quanti saranno colpiti dalla detenzione e dalle espulsioni, ma anche, e soprattutto, sui comportamenti sociali, sugli stati d’animo profondi delle persone e della comunità.
Quindi, adesso è il momento della mobilitazione, di una grande manifestazione. Una consapevole risposta popolare al razzismo, che sappia rappresentare in modo forte, gioioso e pacifico, i valori di una società che sa includere e valorizzare le diversità, che sa coniugare diritti e responsabilità, che non si chiude in se stessa, che non dichiara guerra al futuro ma si ripensa e si rinvigorisce e ringiovanisce attraverso la contaminazione interculturale, interetnica e intergenerazionale.
Una manifestazione per rivendicare provvedimenti che siano in grado di sanare le ferite sociali: una riforma della cittadinanza che riconosca i nuovi cittadini che sono venuti nel nostro paese e i loro figli che sono nati qua; il diritto di voto come fattore di emancipazione non solo per gli immigrati che lo vorranno esercitare, ma soprattutto per il no-
stro sistema politico elettorale che altrimenti perde la caratteristica più importante della democrazia che è il suffragio universale. E, ancora, un provvedimento di regolarizzazione di tutte le persone immigrate che lavorano in nero. Non c’è nessuna ragione plausibile e di buon senso, se non il razzismo e la sua strumentalizzazione politica, per osteggiare questa proposta; consentirebbe infatti di legalizzare il lavoro sommerso, che è il maggiore inquinante della nostra economia. Inoltre renderebbe più sicura la nostra convivenza e porterebbe risorse al sistema fiscale e contributivo del nostro Paese. Il 17 ottobre, a Roma, una buona causa ritroverà il suo popolo. Ecco perché la Cgil ci sta.❖

l’Unità 11.10.09
Solo uniti non saremo stupidi
di Randa Ghazy


Sant’Agostino scriveva che «un uomo solo è in compagnia dei suoi peggiori nemici». Noi uomini di oggi dobbiamo essere davvero molto, molto soli per giustificare l’imbarbarimento quotidiano a cui stiamo assistendo. Spegniamo la televisione e diamo un’occhiata alla realtà. Un solo episodio.
Un ragazzo senegalese di ventisei anni si ferma ad un chiosco, ed ordina un panino. Siamo a Milano. Il panino non gli piace, lo dice al proprietario del chiosco. Quello che fa? Tira fuori un coltello e lo conficca nel petto del giovane. Diallo Germe Usmane, per fortuna, si è salvato.
Non è un’esagerazione, un modo melodrammatico di estremizzare un fatto singolo. Questi non sono casi singoli. Ho una lunga lista da raccontarvi, se volete: ragazzi picchiati, accoltellati, uccisi, insultati, umiliati, posso persino parlarvi della famiglia brianzola che ha preso a bastonate mio padre per un parcheggio urlandogli «Tornatene al tuo paese». Dell’intera famiglia. Padre, madre, figlio, nonno e nonna.
Però sarebbero racconti dalla viva voce delle vittime, e non dai giornali o dalla televisione. Ve lo dimostro: i mezzi di comunicazione ci hanno raccontato in ogni dettaglio l’assassinio della povera Sanaa ad opera del padre che non voleva che lei fosse come era. Ma nel 2007 a Monza un uomo ha ucciso il figlio omosessuale con dodici colpi di revolver. Anche quel padre non voleva che il figlio fosse quel che era. Quanti di voi hanno saputo di quella notizia?
Un detto buddista dice che se discuti con uno stupido, dopo la discussione ti sentirai stupido. Stiamo tutti diventando stupidi. Siamo anestetizzati, immuni al dolore e all’indignazione. Ma io mi rifiuto di rimanere sola con i miei peggiori nemici. Uniamoci, incontriamoci, conosciamoci. Recuperiamo il senso profondo della nostra umanità, manifestando a Roma il 17 ottobre, ma anche rieducando noi stessi, ed opponendoci al silenzio complice che aggredisce le vittime del razzismo.❖

l’Unità 11.10.09
Iran, condannati a morte tre oppositori di Ahmadinejad
Condannati a morte a Teheran tre oppositori ad Ahmedinejad arrestati nella manifestazioni di quest’estate. Il portavoce dei giudici dice che possono ricorrere in appello ma i blog del dissenso sono in allarme.
di Rachele Gonnelli


Rischiano la forca due monarchici e un Mujaeddhin del Popolo, note solo le iniziali dei nomi
Appello all’Onu Pressante allarme nel mondo dei blog: potrebbero ucciderli prima di lunedì

Voce grossa sull’arricchimento dell’uranio e pugno duro contro gli oppositori interni. L’Iran mostra la sua maschera più minacciosa il giorno dopo il premio Nobel per la pace a Barack Obama, un atto che
indirettamente chiama in causa anche Teheran come controparte del disgelo e del disarmo auspicato. La risposta ai saggi di Oslo per quanto riguarda gli ayatollah è che non intendono lasciarsi condizionare né sul programma nucleare né sul piano dei diritti civili.
Ieri tre oppositori del regime arrestati nelle manifestazioni anti-Ahmadinejad successive alla sua contestata rielezione sono stati condannati a morte. La conferma è ufficiale, viene da Zahed Bashiri Rad, portavoce del Dipartimento alla Giustizia del distretto di Teheran. Dei tre si conoscono solo le iniziali e le organizzazioni di appartenenza: due sono filo monarchici Mz e Ap -, il terzo Na fa parte dei Mujaeddhin del Popolo, storico gruppo del dissenso con base a Parigi. Non è chiaro, né il portavoce della magistratura di Teheran si è dato pena di specificare se alle iniziali Mz corrispondano a Mohammad Reza Ali Zamani, monarchico di cui era già trapelata la condanna alla pena capitale attraverso un sito lunedì scorso. Zamani, 37 anni, sarebbe stato arrestato durante le retate post elettorali e, secondo quanto ha ricostruito l’ong Iran Human Rights Documentation Center, dopo un «trattamento» nel braccio 15 della famigerata prigione di Evin ha confessato di essersi infiltrato in Iran dal Kurdistan in contatto con monarchici londinesi e statunitensi per sobillare gli studenti universitari. Il suo processo-farsa, ripreso dalla tv iraniana, è stato duramente criticato da Amnesty. Il portavoce dei giudici Bashiri Rad precisa che le condanne a morte dei tre non sono definitive, i loro legali possono ancora presentare ricorso. Ma sui blog dell’Onda Verde gira un appello pressante all’Onu perchè intervenga subito, si teme che le sentenze possano essere eseguite prima di lunedì. Bashiri dice che altri 18 oppositori hanno già chiesto l’appello. Non chiarisce se si tratta dei capi riformisti mandati a giudizio tra i cento sotto processo per le manifestazioni di giugno e luglio, tra cui Mohammed Ali Abtani, Saeed Shariati, Abdollah Momeni, lo studente iraniano-americano Kian Tajbakhsh e altri che dovrebbero essere liberati su cauzione a giorni.
LA QUESTIONE NUCLEARE
Nel giorno in cui i primi tre oppositori del movimento che ha sfidato Ahmadinejad nelle piazze vengono mandati a morte per «attentato alla sicurezza della Repubblica Islamica», Teheran mostra i muscoli anche sul contenzioso nucleare. Il portavoce dell’Agenzia per l’Energia atomica dell’Iran, Ali Shirzadian, ha dichiarato che anche se nessun Paese dalla Russia alla Francia, agli Stati Uniti vorrà vendere carburante atomico per alimentare il reattore di ricerca di Teheran, gli impianti
iraniani sono in grado di fare da soli, cioè di arricchire le scorte di uranio-235 dal 3 percento consentito fino al 20 percento. Si tratta sempre di un basso potenziale: per costruire una bomba atomica servono infatti isotopi arricchiti al 90 percento. Ma anche nel primo incontro di Ginevra il 1 ̊ ottobre le potenze atomiche hanno ribadito che non vogliono concedere all’Iran alcun processo autonomo di potenziamento del combustibile nucleare. Neanche per scopi come le terapie radio per la cura del cancro. Il prossimo round di negoziati è previsto a Vienna il 19 ottobre o al massimo a fine mese. L’ipotesi dei sei Paesi negoziatori il gruppo 5 più uno vorrebbe che a riprocessare il combustibile fossero i reattori francesi e russi, per ridarlo «in pastiglie» all’Iran. Teheran risponde che con le scorte acquistate nel ‘93 dall’Argentina può fare da sola, almeno per un anno e mezzo. ❖

Repubblica 11.10.09
La scrittrice Marina Nemat, autrice di "Prigioniera di Teheran", riuscì a fuggire e a evitare il patibolo
"Processi farsa e bagni di sangue, al mio Paese serve un nuovo Gandhi"
Vogliono intimidire chiunque scenda in strada. Solo una figura che unisce può salvare il mio popolo
di Francesca Caferri


La sorte dei tre prigionieri condannati a morte per aver protestato contro il governo, Marina Nemat l´ha sperimentata sulla sua pelle. È la sua storia. Era il 1982 quando la giovane Marina fu arrestata e condannata a morte per aver osato protestare in aula contro un professore che, invece di tenere una normale lezione di matematica, pretendeva di indottrinare i suoi allievi sull´Islam. Poco prima dell´esecuzione a Marina fu offerta un´ultima possibilità: salvarsi sposando il suo carceriere. Accettò e visse, da sposa prigioniera, due anni ad Evin, il più famigerato carcere iraniano. Quando ne uscì riuscì a fuggire. Il suo libro – "Prigioniera di Teheran" – è un raro racconto "da dentro" della vita dei prigionieri politici iraniani. Ancora oggi, Nemat si emoziona quando parla di quell´esperienza. E di chi oggi la sta vivendo.
Signora Nemat, si aspettava queste condanne?
«Purtroppo sì. Quello che sta succedendo non è nulla di nuovo. Forse le persone hanno dimenticato quello che accadde negli anni ´80: era finita da poco la rivoluzione, la gente si aspettava democrazia e quanto non la ebbe tornò in piazza a protestare. Non c´erano Youtube e Internet allora e fare uscire le notizie dal paese era molto più difficile di oggi. Ma ci fu un bagno di sangue e il governo fece esattamente quello che sta facendo ora: processi farsa, verdetti decisi prima ancora di entrare in aula. Era chiaro che alcune delle persone sotto processo sarebbero state uccise».
Si aspetta davvero che lo siano? Non potrebbe esserci un gesto di grazia, anche come segnale alla comunità internazionale?
«Potrebbe accadere. Ma quello che il governo vuole è spaventare la gente. Uccideranno qualcuno, che siano questi tre prigionieri o altri: in modo che la notizia si diffonda e le persone sappiano che protestare in Iran costa caro. Così saranno troppo spaventati per scendere in strada di nuovo. È un gioco di intimidazione che colpisce, non a caso, persone normali e non oppositori famosi o di primo piano. È alla gente normale che la paura deve arrivare».
Una paura che lei ha provato sulla sua pelle…
«Io, come tanti altri. Come gli italiani che si ribellavano durante il fascismo: sapevano che se lo avessero fatto qualcuno sarebbe andato nelle loro case, avrebbe arrestato i figli, stuprato mogli e figlie. E poi li avrebbe uccisi. Questo è l´Iran oggi. Ma la gente è infelice, lo ha dimostrato scendendo in piazza dopo le elezioni: possiamo solo sperare. Che un giorno ci sia una figura unificante, un Gandhi iraniano, che unifichi questo paese così diviso e trovi un modo per portarlo verso la democrazia senza scendere nel bagno di sangue».
Lei vive in Canada ed è una delle voci più potenti dell´esilio iraniano. Cosa si può fare da fuori?
«Non usare le armi. Un attacco o un´invasione non risolverebbero nulla. Creerebbero solo una nuova generazione di martiri, di persone pronte a tutto. Come in Iraq e in Afghanistan. Il cambiamento può arrivare solo da dentro. Noi possiamo solo continuare a parlare e ad ascoltare».
Parlare è quello che vuole il presidente Obama: il Nobel lo aiuterà?
«No. Il Nobel ha aiutato Shirin Ebadi, perché la protegge: sarebbe morta oggi se non lo avesse vinto. E non sarebbe la voce potente che è in difesa dei diritti umani e della democrazia in Iran. Ma Obama non ha bisogno di questo per avere più visibilità o più incisività di azione».

l’Unità 11.10.09
Intellettuali addio: il pensiero è polvere
Silenzio o intrattenimento ciarliero. È finita l’epoca dei «chierici»: non parlano più e il loro ruolo di un tempo è ormai consunto, liofilizzato o trasformato in presenza mediatica. L’analisi di Asor Rosa in un libro intervista
di Bruno Gravagnuolo


Giorni fa scorrendo le offerte turistiche nell’inserto un importante quotidiano, ci si imbatteva in un curioso annuncio. Un famoso storico della filosofia avrebbe fatto da guida in una crociera nell’Egeo intrattenendo i crocieristi sulla filosofia greca per tutta la durata del tour. Prezzo modico. Niente di male. Ma si potrebbe cominciare di qui nel recensire Il Grande silenzio, il libro intervista con Alberto Asor Rosa sul «silenzio degli intellettuali» a cura di Simonetta Fiori. L’esempio, assieme a quello di un altro grande studioso autore da anni di (veri) menù gastro-filosofici, riassume ironicamente uno dei temi chiave del libro: la consunzione dell’intellettuale classico. La liofilizzazione del suo ruolo di un tempo. Sintetico e pedagogico, e basato sul nesso cultura e politica. E anche sull’idea di una cultura alta e critica. Vocata a distinguere tra ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Dunque silenzio degli intellettuali, oppure intrattenimento ciarliero, nell’era «postmoderna», termine al quale Asor preferisce quello di «civiltà montante» di massa.
Volume di qualità. Per svariati motivi. Primo, è ben condotto dalla curatrice. Secondo, ha come protagonista pensante un insigne italianista, versato in politica e cultura, la cui biografia è emblematica dell’intellighenzia italiana del dopoguerra.
Terzo, affronta un tema cruciale. Quarto, abbiamo lavorato con Asor al tempo di Rinascita e perciò parlare di lui significa anche parlare di cose convissute (diversamente). Ad esempio, la svolta Pci-Pds che ci sorprese entrambi nel varare, con lui direttore, l’ultima edizione del settimanale fondato da Togliatti. Ma veniamo al punto centrale: gli intellettuali. Asor ne descrive la genesi tra illuminismo e rivoluzione industriale. Figure chiave della riproduzione capitalistica dentro la moderna società civile, sono sempre stati in qualche modo enciclopedici, conflittuali, oppure organici. E sempre «espressivi» di un salto: dai saperi specialistici, all’intelletto generale. Sociologicamente per Asor quella funzione si è estinta, a beneficio di ruoli tecnici, mediatici o manageriali. E nel quadro di una mutazione «post-fordista» che ha massificato ceti e classi, rendendo inutili mediazioni e conflitti, dei quali i chierici sono stati vessiliferi attraverso le tempeste ideologiche del 900. Sullo sfondo per Asor c’è ormai la «civiltà montante», il «Mostro mite» di cui parla Raffaele Simone, affine alla «dittatura della maggioranza» di cui scriveva Tocqueville: società dell’immagine, individualismo di massa, omologazione, populismo light, Grande Fratello etc. Matrici di un gigantesco degrado, sia del progresso civile e democratico, sia dell’intelligenza critica.
Apocalissi? Sì e no, per Asor. Che benché esegeta in passato dell’Apocalissi giovannea rifiuta geremiadi passatiste, e anzi cerca i punti di attacco per una ripartenza di politica e cultura (vissuti alla Bobbio in concordia/discorde) e per un rilancio del meglio della tradizione democratica occidentale. Ma ha ragione Asor? Ha molte ragioni e magari qualche torto (ma più nel senso di omissioni). È giusta intanto la percezione generale dell’evo post-fordista, con il corollario giustissimo della barbarie italiana berlusconiana, fatta di disgregazione di memoria, prepotenza carismatica e minacce alla divisione dei poteri. Giustissima altresì è la critica agli intellettuali italiani, inermi o al di sopra delle parti spesso, dopo essere stati a sinistra
magari corrivi e ortodossi. E soprattutto ha ragione su una cosa: il difetto della svolta Pci-Pds. Che per Asor ha gettato alla fine il bambino e l’acqua sporca, senza un bilancio serio di ciò che fu il Pci nella storia d’Italia: una grande cosa progressiva, sia pur con limiti e ritardi. Realtà liquidata senza «pars construens», fino a privare le classi subalterne di organizzazione, identità e prospettive. E con la conseguenza di aver spianato il campo al blocco sociale e al senso comune della destra.
SALVARE LA SINISTRA
E però in conclusione l’analisi di Asor pecca forse almeno su due punti. E cioè, non è vero che l’omologazione sia poi così forte, al punto da rendere quasi disperata la ricerca di punti di attacco e resistenza. Infatti il lavoro dipendente è cresciuto, in parallello al grande esercito di riserva dei flessibili, immigrati e no. Il contrattacco oltre che dalla scuola di massa può riprendere dalla riscoperta del lavoro moderno, avanzato, infelice e dominato. Ribelle potenzialmente alle ricette liberiste, che vogliono farne una cosa marginale e areiforme, non più garantito e «umano-relazionale». Infine il Pci-Pds. Fu fatta male la svolta del 1989. Ma andava fatta visto il crollo del comunismo e non rifiutata come fece il fronte del «no», che meglio avrebbe fatto a tentare di indirizzarla in altro modo, invece di respingerla. In verità dopo lo sconcerto e il rifiuto Asor Rosa cercò con onestà una strada costruttiva e positiva, che salvasse il nocciolo razionale della sinistra e del comunismo italiano. Ma fu sconfitto, e tutti noi oggi dobbiamo ancora ricominciare di lì.

Repubblica 11.10.09
All’assemblea nazionale la spunta a sorpresa la componente minoritaria di Boato: bocciata l’alleanza con la Sinistra
Verdi, Bonelli presidente tra gli spintoni
di Antonello Caporale


FIUGGI - Solo qualche spintone, ma neanche un graffio. L´automedica non è intervenuta e il breve scambio di opinioni saluta nei fatti il nuovo presidente dei Verdi, che contro tutti i calcoli delle tessere e dei delegati, è Angelo Bonelli, già deputato e capogruppo. Ha ottenuto 245 voti, battendo la favorita Loredana de Petris (231 voti). Nel fantastico mondo del Sole che ride (e che tifa per la Pace nel suo stesso simbolo) c´è sempre una piccola gazzarra a segnare la vita e la parabola. Pochi, ma piuttosto agitati, gli ambientalisti hanno scelto, dividendosi, la via da percorrere per uscire dalle tenebre e trovare la luce. Grazia Francescato, la portavoce uscente, con il suo gruppo maggioritario, aveva indicato la possibile salvezza: fare team con Nichi Vendola e i socialisti, riunire in un simbolo allargato (Sinistra Ecologia Libertà) le poche e affaticate risorse. Contrapposta la mozione di minoranza: da soli comunque e sempre. A guidare la resistenza Marco Boato e il vincitore finale, l´outsider Bonelli.
Confluire o resistere? Resistere. Qui sono intervenuti gli spintoni. I verdi, bisogna ricordarlo, sono abituati a darsele di santa ragione. Nel 2001, a Chianciano Terme, ci fu un match piuttosto agitato al cospetto del candidato premier Francesco Rutelli (un ex sonoramente fischiato). Ieri un bis in scala ridotta. Però lo spintone, secondo l´originale esegesi di Paolo Cento, ex deputato molto fisico, rappresenta «un segno di vivacità. Siamo vivi e l´abbiamo dimostrato». La minoranza (a fine gara però vincitrice) a cui sono state interdette dall´inflessibile commissione di garanzia alcuni decisivi delegati, ha occupato in mattinata il palco per contestare «lo stalinismo» che albergherebbe in un partito altrimenti libertario fino al punto da apparire caciarone. Bonelli e Boato, andati al contrattacco, avrebbero persino chiesto a forze esterne di venire in soccorso. Nel pomeriggio, in effetti, si è presentato Marco Pannella. Una parola di Marco dal palco avrebbe potuto far bene. Alla maggioranza, dissoltasi in serata, è parso che avrebbe fatto male e Pannella, tra urla e fischi di disapprovazione è stato consegnato al silenzio.

Corriere della Sera 11.10.09
Verdi (di rabbia) divisi su tutto e il futuro val bene una rissa
di Andrea Balzanetti


Come poteva finire un congres­so di un piccolo partito spezza­to in due, fuori dal Parlamento, con divi­sioni radicali su quasi tutti i temi tranne che sul pacifismo? Con spintoni, urla, liti e minacce di scissioni.
Non si tratta di una boutade, ma di una cronaca sintetica del congresso dei Verdi, una formazione che nella sua prestigiosa storia ha fornito alla Repubblica italiana ministri e sottosegretari e dalla sua formazione è sem­pre stato rappresentato in Parlamento, fino alle ele­zioni del 2008.
Le cause di questa «elet­tricità congressuale» non riguardano, come forse ci si aspetterebbe, le questio­ni fondamentali dell’am­bientalismo, tipo come sal­vare il pianeta dall’anidride carbonica o come risolvere i problemi energetici. Il dibattito si è acce­so, invece, su questioni procedurali come il mancato accredito, deciso dal comitato di garanzia, di una decina di delegati e su questioni politiche decisive come l’allean­za con Sinistra e Libertà, altra formazione elettoralmente non proprio di primo pia­no. Un dibattito surreale, a ulteriore di­mostrazione, ammesso che ce ne fosse bi­sogno, della perdita di contatto con le ve­re questioni dell’ecologismo, come del re­sto dimostrano gli ultimi deludenti risul­tati elettorali.
Per cercare di mettere una pezza a que­sto trend negativo, lo scorso aprile, prima delle elezioni europee, Daniel Cohn Ben­dit era venuto in Italia per spiegare quali strategie seguire: «I verdi italiani conti­nuano a vedere solo la sinistra — affermò in quell’occasione —. Ma si devono ren­dere conto che per almeno quattro anni questa non sa­rà al potere. E nel frattem­po? Serve trasversalità, se si vuole essere influenti bi­sogna guardare a tutta la società». La stragrande maggioranza dei nostri eco­logisti respinsero sdegnati il messaggio. Risultati di quelle elezioni: in Francia Europe Ecologie prese il 16,28; in Italia la lista Sini­stra e Libertà, con all’interno la Federazio­ne dei Verdi, arrivò al 3,12.
Dalla discussione al congresso di Fiug­gi sembrava che la lezione non fosse stata recepita, ma la vittoria a sorpresa della mozione Bonelli-Boato apre nuovi scena­ri. E quei consigli di Cohn Bendit, forse, verranno recuperati dalla spazzatura. 


Corriere della Sera 11.10.09
Il «Sole che ride» Spintoni, offese e accuse di brogli. Eletto presidente Bonelli
Soli o a sinistra? Rissa all’assemblea dei Verdi
di Paolo Foschi



ROMA — I Verdi svoltano. L’assemblea del Sole che ri­de, dopo un’interruzione per rissa, ha scelto il nuovo lea­der. Ma soprattutto la nuova linea politica: niente alleanza con la Sinistra e libertà di Ni­chi Vendola, come invece vo­leva la portavoce nazionale uscente, Grazia Francescato, in una sorta di remake del­l’Arcobaleno sconfitto alle ul­time politiche. Si cambia.
I Verdi saranno un partito autonomo. Sul modello fran­cese lanciato da Daniel Cohn-Bendit. Addirittura un partito trasversale, per quan­to riguarda le politiche am­bientali. E a guidarli sarà An­gelo Bonelli, che è riuscito a ribaltare gli equilibri della vi­gilia: l’ex capogruppo della Camera era arrivato al con­gresso con un centinaio di de­legati, a fronte dei quasi 250 schierati con Loredana De Pe­tris, la candidata sostenuta dalla Francescato e dall’ex sottosegretario Paolo Cento. E alla fine Bonelli, a sorpresa, raccogliendo consensi fra gli indecisi e racimolando qual­cosa anche fra i sostenitori della rivale, è arrivato a 245 voti, mentre la De Petris si è fermata a 231.
La XXX assemblea naziona­le dei Verdi ha dunque sanci­to la grande svolta, il cambio della guardia. Il dibattito è stato accesso. E ci sono stati momenti di grande tensione nella tarda mattinata di ieri. Bonelli, insieme a Marco Boa­to e altri firmatari della sua mozione, è salito sul palco e ha occupato la presidenza del congresso per contestare il mancato accreditamento di alcuni delegati. È una storia di tessere che si trascina da mesi. Bonelli ha accusato il partito di aver rifiutato l’iscri­zione di militanti contrari al­la linea Francescato. «Abbia­mo solo applicato lo Statuto e le regole che democratica­mente ci siamo dati», è stata la risposta dei vertici del par­tito. Ma è stato subito parapi­glia. Spintoni, offese, accuse di brogli. minacce. Un quarto d’ora da curva di stadio, più che da platea congressuale.
Poi gli animi si sono calma­ti. E nel clima un po’ pesante da pax armata i lavori sono ripresi. E c’è stato anche un piccolo incidente diplomati­co. In sala c’era Marco Pannel­la, ha chiesto di poter parla­re. Ma, non senza imbarazzo, gli organizzatori hanno rispo­sto all’esponente dei Radicali che non erano previsti inter­venti di politici di altri parti­ti.
E il dibattito interno ai Ver­di è andato avanti, con la De Petris che ha sostenuto fino all’ultimo la necessità dell’ac­cordo con Sinistra e libertà, «per non tradire la nostra sto­ria, perché è l’unica strada possibile in questo contesto politico». Bonelli e Boato han­no però insistito: «L’alleanza a sinistra sarebbe un suicidio politico, dobbiamo recupera­re la vocazione ambientalista mettendo da parte pregiudizi politici, qualsiasi essi siano. L’abbiamo visto in Francia, è questa la strada giusta». Una linea, questa, che alla fine ha convinto la maggioranza dei delegati. 


Repubblica 11.10.09
Il Caimano si prepara per l’ultima spallata
di Eugenio Scalfari


A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi.
Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent´anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata. Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell´immobiliarista sia quella successiva dell´impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell´acqua. Poi l´esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò – lo ripeto – non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l´hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.
Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all´egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L´insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell´agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell´altra metà.
Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell´innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.
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Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un´accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l´attuazione dei suoi piani. L´ira iniziale che l´ha invaso – che viene dalla sua pancia – è stata rapidamente razionalizzata.
L´attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l´Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti.
Questo spiega l´allarme esploso nell´opinione pubblica internazionale.
Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l´Occidente al di qua e al di là dell´Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l´Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.
In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l´opposto; il populismo contiene infatti un´abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico – giuridico.
Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.
La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l´articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l´altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento. Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell´articolo 3. E quindi, se l´articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l´equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov´è l´incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l´adempimento all´articolo 3 o il suo emendamento? No. È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l´incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.
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A questo proposito viene acconcio citare l´articolo uscito ieri sul «Corriere della Sera» e firmato dal suo direttore.
L´ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.
L´articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il «Corriere della Sera» d´essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l´attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un´intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.
Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di «Repubblica», faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.
Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d´una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.
Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla «Stampa» di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.
Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene – ha scritto la Spinelli – i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana – concludeva – non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.
Si può non esser d´accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d´una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?
Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c´erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d´opposizione senza sconti, tra le più robuste dell´epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l´ex direttore del «Corriere della Sera» se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.
Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n´è accorto prima. Difese per vent´anni dalle colonne del «Giornale» le ragioni del Berlusconi imprenditore d´assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c´è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al «Corriere della Sera» quest´esperienza d´un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.

Repubblica 11.10.09
La leggenda del premier eletto dal popolo
di Ilvo Diamanti


"Presidente eletto dal popolo". Così si definisce Silvio Berlusconi. Sempre più spesso, da qualche tempo. Per rivendicare rispetto dai molti nemici che lo assediano.
Ma, al tempo stesso, per marcare le distanze dall´altro presidente. Giorgio Napolitano. Il Presidente della Repubblica. Il quale, al contrario, è "eletto dal Parlamento". Anzi da una parte di esso. Perché Napolitano non è "super partes", ma di sinistra. Come tutte le altre istituzioni dello Stato. Corte Costituzionale e magistratura in testa. Non garanti. Ma soggetti politici. Di parte. Per questo Berlusconi non ne accetta le decisioni, ma neppure il ruolo. In pratica: considera le istituzioni dello Stato – e quindi la Costituzione – inadeguate. Peggio: illegittime. Meno legittime di lui, comunque. Presidente eletto dal popolo.
Queste affermazioni, sostenute a caldo e a tiepido dal premier, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, si fondano su premesse discutibili, anzitutto sul piano dei fatti. Dati per scontati. Che scontati non sono.
Il primo fatto è che Berlusconi sia un presidente "eletto dal popolo". È quanto meno dubbio. Perché l´Italia non è (ancora) un sistema presidenziale. I cittadini, gli elettori, votano per un partito o per una coalizione. Non direttamente il premier o il presidente. Anche se, dopo il 1994, abbiamo assistito a una progressiva torsione delle regole elettorali e istituzionali in senso "personale". Senza bisogno di riforme. Così, nella scheda elettorale, accanto ai partiti e alle coalizioni viene indicato anche il candidato premier. (Come ha lamentato, spesso, Giovanni Sartori). Tuttavia, non si vota direttamente per il premier, ma per i partiti e gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per questo, non è un presidente eletto dal "popolo". Semmai dal "Popolo della Libertà". Da una maggioranza di elettori, comunque, molto relativa. Alle elezioni politiche del 2008 il partito di cui è leader Berlusconi, il Pdl, ha, infatti, ottenuto il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Intorno a un terzo del "popolo", insomma. Peraltro, prima di unirsi con An, fino al 2006, il partito di Berlusconi era Forza Italia, che non ha mai superato il 30% dei voti (validi). Al risultato del Pdl si deve, ovviamente, aggiungere il 10% (o l´8%, a seconda della base elettorale prescelta) ottenuto dalla Lega. I cui elettori, però, non hanno votato per Berlusconi. Visto che al Nord la Lega ha sottratto voti al Pdl, di cui è alleata e concorrente. E quando ha partecipato al governo (come in questa fase) si è sempre preoccupata di fare "opposizione". Questa considerazione risulta ancor più evidente se si fa riferimento al risultato delle recenti europee. Dove si è votato con il proporzionale e con le preferenze personali. Il Pdl, il partito di Berlusconi, ha infatti ottenuto il 35,3% dei voti validi, ma il 33% dei votanti e il 21,9% degli aventi diritto. Lui, il Presidente, ha personalmente ottenuto 2.700.000 preferenze. Il 25% dei voti del Pdl, ma meno del 9% dei votanti. Il risultato "personale" più limitato, dal 1994 ad oggi.
Tutto ciò, ovviamente, non intacca la legittimità del governo e del premier. Semmai la sua pretesa di interpretare la "volontà del popolo".
D´altronde, si vota una volta ogni cinque anni, mentre i sondaggi si fanno quasi ogni giorno. Per cui, più che sul voto, il consenso tende a poggiare sulle opinioni. Sulla "fiducia". Ma stimare la "fiducia" dei cittadini è un´operazione difficile e opinabile. Che non coincide con il consenso elettorale. Non si capirebbe, altrimenti, perché, se davvero – come sostiene Berlusconi – il 70% degli italiani ha fiducia in lui, alle recenti elezioni europee il Pdl si sia fermato al 35%, la coalizione di governo al 45% e le preferenze personali per il premier al 9% (dei voti validi).
La fiducia, inoltre, è difficile da misurare. Per ragioni sostanziali, ma anche metodologiche. Soprattutto attraverso i sondaggi. Dipende dalle domande poste agli intervistati. Dagli indici che si usano. Alcuni fra i principali istituti demoscopici (come Ipsos di Nando Pagnoncelli e Ispo di Renato Mannheimer) utilizzano una scala da 1 a 10, per analogia al voto scolastico. Per cui l´area della "fiducia" comprende tutti coloro che danno a un leader (o a un´istituzione) la sufficienza (e quindi almeno 6). Oggi, in base a questo indice, circa il 50% degli italiani esprime fiducia nel premier Berlusconi (le stime di Ipsos e Ispo, al proposito, convergono). Mentre a fine aprile, dopo il terremoto in Abruzzo, superava il 60%. Ciò significa che negli ultimi mesi la "fiducia" del popolo nel premier si è ridotta, anche se risulta ancora molto ampia. Tuttavia, anche accettando questi indici, un 6 può davvero essere considerato un segno di "fiducia"? Ai miei tempi, nelle scuole dell´obbligo – ma anche al liceo – era una sufficienza stretta. Come un 18 all´università. Che si accetta per non ripetere l´esame. Ma resta un voto mediocre. Basterebbe alzare la soglia, anche di pochissimo, un solo punto. Portarla a 7. Per vedere la fiducia nel premier (e in tutti gli altri leader) scendere sensibilmente. Al 37%. Più o meno come i voti del Pdl. Con questi dati e con queste misure appare ardita la pretesa del premier di parlare in "nome del popolo". Tanto più che, con qualunque metro di misura, il consenso personale verso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risulta molto più elevato. Fino a una settimana fa, prima della recente polemica, esprimeva fiducia nei suoi confronti circa l´80% degli italiani, utilizzando come voto il 6. Oltre il 50%, con una misura più esigente: il 7. Lo stesso livello di consenso raccolto dal predecessore, Carlo Azeglio Ciampi. Anche da ciò originano le tensioni crescenti tra il premier e il Presidente della Repubblica. Nell´era della democrazia del pubblico. Maggioritaria e personalizzata. Dove i media sono divenuti lo spazio pubblico più importante. E il consenso è misurato dai sondaggi. Nessuno è "super partes". Sono tutti "parte". Tutti concorrenti. Avversari o alleati. Amici oppure nemici. Anche Napolitano, soprattutto Napolitano. Per la carica che occupa e la fiducia che ottiene. Agli occhi di Berlusconi, impegnato a costruire la leggenda del "presidente votato e voluto dal popolo". Non può apparire amico.

Repubblica Lettere 11.10.09
Quel film su Ipazia che non si deve vedere
di Paolo Izzo

E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenenabar. Eppure, la storia di una matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", in questo tempo solcato da nuovi fondamentalismi sarebbe molto utile da vedere.
E invece no, non lo vedremo. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante che ci prenderebbe ancora a sassate pur di salvaguardare la sua stoltezza.

qui di seguito la versione originale della lettera di Paolo Izzo, per come è stata inviata a Repubblica e prima della sua pubblicazione:
E così nessun produttore italiano ha il coraggio di comprare i diritti per distribuire nel nostro Paese il film su Ipazia, del regista spagnolo Alejandro Amenabar (già geniale e scomodissimo autore di "Mare dentro" sull'eutanasia). Sembra la politica, sembra la cultura. Ma non è. La cautela di ogni schieramento nei confronti dei fondamentalisti vaticani non rispecchia più la maggioranza della popolazione (l'ha mai rappresentata, in verità?). L'ambiguità di una cultura sotto sotto cattolica o peggio catto-fascista-centro-comunista, non ci riguarda più. Eppure, la storia diuna matematica, scienziata, filosofa che viene uccisa a sassate da un gruppo di monaci per le sue "eresie", non dobbiamo vederla, non dobbiamo saperla. E invece sì. Facciamo una colletta di cittadini laici e importiamo il film. Facciamo un po' di resistenza attiva contro questo fondamentalismo strisciante, che nega la scienza per affermare i suoi astratti principi: facciamo un po' i cattivi, visto che lorsignori ci vedono cattivi dalla nascita. E ci prenderebbero a sassate, pur di farci guadagnare la vita eterna.
Paolo Izzo