Criticare gli eletti dal popolo
di Adriano Prosperi
La cronaca di oggi reca un invito alla ribellione contro un giornale – questo giornale – perché «parla male del governo». È difficile cercar di ragionare con un presidente del Consiglio dei Ministri che scatena il suo uditorio contro due pilastri del sistema politico, non solo di quello italiano: la libertà di opinione, incluso il sacrosanto diritto di critica della libera stampa e la funzione di supremo garante del nostro ordinamento svolta dal presidente della Repubblica. È una violenta semplificazione del sistema fondato sulla separazione dei poteri fondamentali e sulla gelosa tutela dei diritti sanciti dalla Carta costituzionale, sottratta per definizione alle turbolenze della politica quotidiana. Di questo attacco, indiscutibilmente eversivo, vorremmo qui esaminare pacatamente l´unico argomento su cui si regge, che è questo: l´eletto del popolo, chi possiede la maggioranza del consenso popolare, non deve essere criticato né può sottostare alle regole dei normali cittadini. Chi lo critica o lo ostacola boicotta il paese intero che lui incarna per effetto dell´investitura popolare. Da tempo in Italia si fa un uso quotidiano, aggressivo ma anche fastidiosamente lamentoso e piagnucoloso del principio di maggioranza. Si dice: la maggioranza parlamentare ha il diritto di governare . Il governo è l´espressione della maggioranza degli elettori, dunque le leggi varate dalla maggioranza non debbono essere ostacolate dalle minoranze. I ministri rivendicano il diritto-dovere di comandare e di essere obbediti. Un preside di scuola non obbedisce al ministro della Pubblica istruzione? Un magistrato applica una sentenza e consente la sospensione delle cure a un malato terminale? Ecco fioccare dalla maggioranza disobbedita ispezioni, minacce, ritorsioni. E il principio è sempre quello: gli eletti del popolo rappresentano la maggioranza e non debbono essere ostacolati. La punta massima di questa tendenza è stata toccata dagli avvocati/parlamentari di Berlusconi che hanno sostenuto davanti alla Corte costituzionale che il leader eletto dal popolo è non un primo tra pari ma il primo sopra tutti e perciò sottratto alla legge comune: un principio che solo il papato teocratico del Medioevo tentò di sostenere, sia pure in nome di Dio. Alla ambizione del leader e dei suoi corrisponde un sentimento di frustrazione, un misto di rabbia e di violenza impotente ogni volta che nei campi più diversi, dalla giustizia all´economia, dalla politica alla religione, non si riesce ad applicare il principio dell´incontrastato diritto della maggioranza di comandare. Comandare, non governare. Ci sono minoranze religiose in Italia ma l´unico insegnamento obbligatorio è quello della religione cattolica . C´è un milione di disoccupati ma la maggioranza se la cava bene e di quelli non s´ha da parlare. C´è un giornale che critica e domanda: è un nemico, non si risponde e si chiede di boicottarlo. Il diritto della maggioranza di cancellare la minoranza si declina anche in chiave locale: e così via l´italiano , avanti i dialetti; via dal nord gli insegnanti e i presidi meridionali; via la minoranza degli immigrati, per definizione senza diritti. Intanto la maggioranza si prepara a infliggerci l´obbligo di cure forzate anche per chi vorrebbe avere il diritto di scegliere la sua morte, a saldo del conto livoroso aperto col caso Englaro. Così, passo dopo passo, è tornato in vigore il principio che ciò che vuole il capo eletto dalla maggioranza deve essere legge per il popolo, senza che nessun altro organo dello stato possa opporsi. Come il borghese gentiluomo di Molière, il nostro presidente del Consiglio e i suoi parlano in prosa senza saperlo: una prosa non neoliberale come mostrano di credere gli ossequienti commentatori dell´establishment italiano, ma vetero-dittatoriale. E perché inconsapevoli della lingua che usano , osano sostenere che per l´ideologia neoliberale chi ha avuto l´investitura dal popolo deve comandare senza intralci. Da qui le continue grida di un fastidio volgarissimo anche nei modi (ci vorrebbe altro che Monsignor Della Casa) verso le lentezze del potere legislativo, l´autonomia del potere giudiziario, la funzione di garanzia della Presidenza della Repubblica, la stessa carta costituzionale e la Corte che si ostina - con indubbio coraggio civile - a tutelarla. C´è chi prova a alleggerire la tensione suggerendo di ricorrere al bromuro. Ma queste sono manifestazioni di una sindrome assai più grave di una alterazione di umore individuale: una sindrome che si riassume nell´idea che il capo dell´esecutivo non debba conoscere limiti alla sua volontà in quanto espressione mistica della volontà di tutti. Come ha osservato Hanna Arendt, questa idea si fonda su di una finzione: la maggioranza finge di essere la totalità e facendo di questo la regola di una democrazia senza costituzione, schiaccia i diritti delle minoranze e cancella il dissenso senza nemmeno ricorrere alla violenza. Sono parole da meditare in un paese come il nostro dove dissenso e diritti di minoranza stanno scomparendo silenziosamente e la costituzione è sotto attacco.
In Italia c´è stato chi ha spiegato bene come sia nato e quanti problemi abbia posto il principio di maggioranza: è stato Edoardo Ruffini, autore di un profilo storico del principio maggioritario uscito nel lontano 1927 , mentre il padre suo Francesco Ruffini , maestro del giovane Bobbio, pubblicava i suoi «Diritti di libertà» per le edizioni di Piero Gobetti. Edoardo Ruffini spiegò qui e in altri studi, ripresi e stampati poi tra il 1976 e il 1977, come il principio maggioritario avesse dovuto fare i conti nella sua lunga e non lineare storia col problema della tutela dei diritti delle minoranze, garantiti per esempio nel caso degli Stati Uniti d´America sottraendo le leggi fondamentali all´arbitrio della maggioranza. Le ragioni di quella ricerca si radicavano nella coscienza dell´autore e trovarono un esito nelle sue scelte di cittadino. Per lui i diritti individuali della libera coscienza erano il limite insuperabile da opporre alla dittatura di una maggioranza che tendeva alla soppressione delle minoranze. Edoardo fu, accanto al padre Francesco, uno dei dodici professori che non si piegarono all´infamia del giuramento di fedeltà al regime fascista e persero di conseguenza la cattedra.
Dodici su dodicimila. Una trascurabile minoranza: «sublimato all´un per mille», scrisse la stampa del regime. E il regime, che dal consenso della maggioranza aveva fatto nascere uno stato totalitario, tirò dritto per la sua strada. Oggi sappiamo come finì.
Repubblica 13.10.09
Parla l'analista Lucio Russo, autore di un libro sui nostri cambiamenti profondi
Se la globalizzazione migliora la nostra identità
"Possiamo immaginare la lenta costruzione di un'etica condivisa, a dispetto di certe nicchie violente, del razzismo che nasce dalla paura"
di Luciana Sica
«Per noi analisti l´identità non è un concetto, ma un sentimento che attraversa l´intera esistenza, in una relazione costante con le trasformazioni del corpo e con il mondo sociale». Chi parla è Lucio Russo, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, autore di un libro che già nella titolazione indica il cambiamento vorticoso di questi anni, la rottura irreversibile di equilibri tramontati: si chiama Destini delle Identità (Borla, pagg. 240, euro 23).
Plurali, mutanti, nomadi, meticce: nel tempo le nuove identità sono diventate un gigantesco enigma, il vero puzzle del pensiero contemporaneo. Nulla è sempre apparso più ingannevole della rappresentazione che amiamo dare di noi stessi, ma nell´età della tecnica dove le funzioni rendono marginali gli individui - un´epoca già definita post-umana - quel che sentiamo di essere rischia di divaricarsi del tutto dalle maschere che di volta in volta indossiamo. È allora per molte buone ragioni che si legge con interesse Destini delle Identità, un viaggio sulla condizione umana che incrocia autori come Pirandello, Borges, Goethe, Mann, Schnitzler - "grandi sperimentatori" di disagi identitari. Proprio perché - come qui spiega Lucio Russo - il sentimento dell´identità si colloca sempre in un "centro decentrato", in un territorio di frontiera, in uno spazio tra il dentro e il fuori.
Intanto i processi di globalizzazione in che rapporto stanno con le nuove identità?
«In un rapporto estremamente interessante. Sono convinto che la globalizzazione sia un´occasione d´oro per allargare e trasformare il senso dell´identità. A dispetto degli arroccamenti difensivi, di certe nicchie narcisistiche e violente, del disprezzo che si manifesta per gli altri, del razzismo che nasce dalla paura, possiamo immaginare la lenta costruzione di una nuova etica condivisa che ricomponga gli strappi e le ferite del presente - con identità finalmente più salde e accoglienti, capaci di ibridarsi senza avere la penosa sensazione di distruggersi».
Oggi invece che cosa diciamo, quando diciamo io?
«Poco e niente. Nella società dei simulacri e delle false immagini, della celebrità e del successo, della mitologia individualista e narcisista per cui possiamo essere qualsiasi cosa, si rischia quello che noi analisi definiamo il buco dell´anima. Non a caso, nella clinica, si coglie una diffusa sofferenza che assume varie forme: si va dalle inibizioni del vero sé eternamente camuffato che conducono a una vita sulla difensiva e alla fine noiosa, alle piccole e grandi imposture, alle mitomanie, ai deliri genealogici. Nei casi più gravi, l´identità diventa una porta girevole nel senso che non ha confini stabili da nessuna parte, proprio con la sensazione penosa di girare a vuoto».
Attraverso la rete, una quantità enorme di gente sembra in fuga da se stessa, costruisce immaginari alter ego, intreccia rapporti basati sulla finzione. E tutto sembra anche piuttosto normale. La psicoanalisi si misura con queste realtà?
«Sembrerà normale a chi le vive, queste esperienze, molto meno a chi hanno intorno... Noi riconosciamo in questo tipo di identità plurali - direi meglio di arcipelaghi identitari, nessuno in contatto con l´altro - la figura del "doppio" con tutte le sue implicazioni, riflessi di scissioni arcaiche, pseudoidentità che tendono a coprire il vuoto al centro, per dirla con Winnicott».
Per dirla invece con Nietzsche, «tutto ciò che è profondo ama la maschera»... Il modo in cui ci rappresentiamo non servirà a difendere la libertà più radicale del nostro essere?
«Il vero sé deve essere sempre protetto, assolutamente non va messo a nudo, altrimenti c´è la follia: sì, tutto ciò che è profondo deve restare in parte invisibile. A cominciare dal primo sguardo materno, sono comunque gli altri a farci da specchio: ci velano e ci svelano, ci nascondono a noi stessi e ci scoprono - sempre che l´autenticità non sia cancellata indossando un´unica terribile maschera di ferro».
Viene in mente quel testo sulla schizofrenia di Ronald Laing, L´io diviso...
«Intanto l´io è sempre diviso per Freud: anzi, è "arlecchino", secondo un´altra sua celebre espressione, per quella parte inconscia non consapevole di sé. E contiene anche un suo aspetto immaginario, alienato, col rischio dell´inganno se non dell´impostura. Nel lavoro analitico mettiamo costantemente l´io in rapporto con quel che parla in lui, con le sue molteplici identificazioni, proprio per evitare che si annodi su se stesso».
Altro che diviso, però: ormai l´io sembra frantumato. Con la desertificazione di tutte le appartenenze - territoriali, culturali, ideologiche, familiari, sessuali - non somigliamo ad anime perse senza più punti di riferimento? E certe identità non sembrano abiti da indossare e scartare?
«C´è un edonismo identitario - proprio come una merce usa e getta, a seconda delle opportunità. Quanto alle appartenenze, si trasformano senza però che se ne possa fare a meno. E non parlerei di desertificazione ma - con Alessandro Pizzorno - di un allargamento della cerchia di riconoscimento sociale. I legami collettivi sono fondamentali per la formazione dell´identità - basati sulla memoria condivisa, sugli antenati, sul debito che abbiamo nei confronti dei nostri morti, sul lutto che accompagna la vita e costituisce il limite al sentimento di onnipotenza. "Anche i padri sono stati bambini", diceva Freud. E gli stessi nomi che ancora diamo ai nostri figli sono revenant: fantasmi che ritornano... Non è possibile costruire sulla sabbia, negare che nella trasmissione tra le generazioni c´è una parte del nostro patrimonio identitario».
Repubblica 13.10.09
Legge 180
Il "manicomio dolce" di Aversa dove la ricetta Basaglia funziona
di Michele Smargiassi
Sono in molti oggi a voler cambiare le norme che vent´anni fa permisero di affrancare i "matti" dalle degradanti prigioni in cui erano custoditi Siamo andati a vedere la città in provincia di Caserta che ha importato il metodo con risultati positivi: modulando le soluzioni in base alle necessità
Qui la stagione controversa dell´antipsichiatria ha dato uno dei suoi frutti migliori
Quando fecero togliere le porte blindate mi dissi: "Succederà di tutto". Invece...
A trentuno anni dalla legge che chiuse i manicomi, la 180 del 1978, ispirata dallo psichiatra Franco Basaglia, sei disegni di legge (tra Camera e Senato) tutti firmati da esponenti del Pdl e della Lega Nord, propongono revisioni e correzioni. "Migliorare e allungare" i ricoveri in forma coatta (i Tso, trattamenti sanitari obbligatori), ribadire la centralità medica: ecco i capisaldi, basati su risposte spesso insufficienti dei servizi nel territorio denunciate da associazioni di familiari. Ciò è chiaro dalla proposta più organica, quella del medico-deputato Carlo Ciccioli. Anche Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha invitato ad approfondire il tema ieri al Congresso della Società italiana di psichiatria. Qui raccontiamo la città dove la legge (un modello per l´Oms) funziona, se applicata con buona volontà. (m. pag.)
AVERSA Due dita di libertà per Michelina sono già tantissime. Il giorno in cui fu internata al Santa Maria Maddalena, il manicomio di Aversa, nessuno ricorda neanche più il perché, le mani le si chiusero come ostriche, e così, serrate, rimasero per trent´anni. «Veniva un dottore, faceva le punture ma non servivano». Il manicomio di Aversa fu svuotato nel ‘98. Michelina passò in una struttura residenziale, poi cinque anni fa in questa villetta a schiera, assolata e pulita, agavi in giardino e poltroncine in balcone. E ora Michelina mi dà la mano, almeno quanta più ne può: le due dita che, da quando è qui, hanno ripreso timidamente vita, pollice e indice. «Posso prendere il bicchiere da sola». Non lo avrebbe mai sperato, prima. «Da bambino andavo a giocare al campo di calcio dentro il manicomio e le vedevo»: Arturo Rippa, lo psicologo dell´Asl, pensa di avere intravisto anche Michelina in quell´orrore di corpi nudi «lavati in cortile col tubo di gomma», di panni sempre sbrodolati. La camicetta a fiori di Michelina ora è linda come quelle delle sue tre compagne di appartamento.
Ce n´è una trentina di case così nell´Aversano. Qualche anno fa la Asl ha chiuso quasi tutte le Sir, le residenze sanitarie create dopo la chiusura dei manicomi, che altrove aprono solo ora: «Ancora troppo chiuse e medicalizzate» per Tiziana Celani, la dirigente del servizio psichiatrico dell´Asl. Ma un appartamento non può essere solo un "manicomio dolce"? «Se vuole lo chiami così», la dottoressa s´adombra un po´, «ma dalle nostre case si esce, si va a messa o a passeggio o al cinema. Lei ha idea di cos´era un manicomio?». Eccolo. Dalla finestra si vedono ancora, tra i cespugli selvaggi, i padiglioni del vecchio mostro: fondato nel 1830, uno dei più grandi d´Italia, città della vergogna che raggiunse i duemila abitanti, raddoppiati dal potente (e ancora oggi non del tutto sconfitto) cugino reclusorio, l´Ospedale psichiatrico giudiziario.
Aversa, provincia di Caserta, terra dolorosa, minacciata e disgregata. Ma è proprio qui che la stagione coraggiosa e controversa dell´antipsichiatria italiana ha maturato uno dei suoi frutti migliori, una "macchia" che faticosamente funziona nella pelle di leopardo della salute mentale in Italia. Se la ricordano in molti, la calata dei «triestini» ad Aversa, nel 2001. Fu una scelta politica della giunta campana di centrosinistra nominare Franco Rotelli, decennale collaboratore di Franco Basaglia, al vertice dell´allora Asl Caserta 2; e lui portò con sé un mazzo di apostoli basagliani, e li piazzò nei posti chiave. Non tutti la presero bene. «Ci sembrò una colonizzazione», è sincero Aldo Mariano, pure basagliano anche lui, «facemmo resistenza. Ma oggi, nel mio ricordo, il risentimento per il come sta lasciando spazio alla gratitudine per il cosa».
Ci siamo seduti dentro, a un pezzo di quel cosa. Palazzo Fieramosca, a Capua, è un monumento barocco in pieno centro storico: fu Rotelli a pretendere che il Centro di salute mentale traslocasse qui, «voleva che il disagio abitasse nel cuore della socialità». I laboratori di pittura a piano terra sembrano una galleria d´arte; gli uffici al piano nobile, dove i malati vanno per terapia e colloqui, sembrano uno studio d´architettura, con mobili di design e pareti immacolate. «Dissero: ve le sporcheranno in un mese, i vostri pazienti». Sono ancora color della neve. Un lusso? «E quand´anche? La bellezza è un bisogno, la bruttezza abbruttisce».
Anche ad Aversa il Csm traslocò al centro del paese, in una vecchia villa con roseto e luminosa veranda al primo piano. Ci fanno conferenze, un cineforum d´estate, corsi di alfabetizzazione, cucina, fitness. E poi certo, i malati di mente ci vanno anche a prendere le pillole, o a rifugiarsi in uno dei quattro letti a disposizione, 24 ore su 24, quando sentono avvicinarsi una crisi. Fattacci di cronaca, di quelli che terrorizzano l´opinione pubblica, non ne sono finora successi, «forse abbiamo un angelo custode, forse arriviamo prima», spiega lo psichiatra Raffaello Liardo, «io me lo ricordo quello che scriveva i bigliettini "vi sgozzo tutti", ma l´abbiamo agganciato, va al caffè, dal barbiere, lo salutano, lo rispettano, e non ha sgozzato nessuno».
Duemila assistiti a casa loro solo ad Aversa. I nemici della 180 dicono: abbandonati sulle spalle delle famiglie. «Ci sono famiglie con carichi pesanti, ma tutta questa rivolta non la vedo», sostiene lo psichiatra Edoardo Nugnes, «l´opposizione alla 180 c´è dove la 180 non c´è». «La 180 soffre di certe sue applicazioni sbagliate e vergognose», dice Giovanna Del Giudice, una delle "apostole" basagliane, ora tornata a Trieste. Certo l´esperimento Aversa, bolla di civiltà e di rispetto umano in un paese distratto, fu importato, quasi imposto, soprattutto nei ritmi: in un paio d´anni la mappa della psichiatria qui cambiò radicalmente. «La volontà dei politici è labile. Bisognava creare in fretta una situazione che resistesse al tempo». Ha resistito, nonostante tutto, anche quando i "triestini" se ne andarono lasciando però sul campo una leva di operatori motivati e capaci.
«La rete ha sofferto, ma ha resistito». Una rete che "aggancia" il bisogno di ognuno, lo valuta, lo sostiene: qui nonostante i tagli di bilancio sopravvivono i "budget di cura", progetti personalizzati e finanziati assieme da Asl e comuni, un terzo di quel che costerebbe parcheggiarli nelle cliniche private. Attorno a malati e famiglie funziona una rete di protezione a maglie di diverso spessore. C´è la "bassa soglia" dei centri territoriali, delle esperienze di lavoro come l´impensabile laboratorio "Polo Est" di San Cipriano, dove mani una volta rattrappite dal terrore sanno creare fantastici fiori colorati con vecchie bottiglie di plastica e una candela; o come le mozzarelle sontuose che ti servono alla Nco (Nuova Cucina Organizzata, sì, avete colto l´ironia), pizzeria "sociale" sempre a San Cipriano dove due anni fa Peppe Pagano mise al lavoro i "casatielli", i più agitati e difficili, «e il quartiere era in allarme per i nostri ragazzi, pensate, non per i camorristi»; poi una festa con cinquecento pizze offerte in strada sciolse le paure. C´è la media soglia degli appartamenti, presidiati o semi-presidiati da operatori. E c´è la soglia più alta, il Servizio diagnosi e cura, un reparto ospedaliero, la cosa più vicina a un´istituzione di tutto il sistema, ma c´è una bella differenza dai tempi in cui le finestre avevano ancora le sbarre. «I colleghi più anziani ti raccomandavano di non dare mai le spalle ai ricoverati. Quando Rotelli fece togliere le porte blindate dissi "succederà di tutto"»: poi Vincenzo, infermiere di lungo corso, s´è ricreduto. «Le sbarre, i letti di contenzione dicevano al malato: ci aspettiamo che tu faccia qualcosa di violento, e lui puntualmente lo faceva», spiega Margherita Purgato, medico e dirigente del reparto.
Due ospiti giocano concentrate a dama nella sala comune. Un barbuto chiede se «per favore» può mangiare in camera sua, no, è vietato, abbozza e va al tavolo. «Hanno messo i lampadari colorati», ti fa notare la mamma di un ricoverato. E allora? Lei strabilia: «Ma non capisce? Se qui conta anche il colore dei lampadari, le persone quanto contano?».
Repubblica 13.10.09
Inclusione sociale e diritti modelli di buona assistenza
L’Oms
di Benedetto Saraceno
Il Brasile ha diminuito drasticamente il numero dei letti psichiatrici e ha creato negli ultimi dieci anni quasi duemila centri di salute mentale territoriali. Il Cile ha radicalmente cambiato modello di assistenza psichiatrica: dai letti negli ospedali psichiatrici alla assistenza in centri territoriali comunitari e in ospedale generale. Riforme importanti della assistenza psichiatrica avvengono in molti paesi.
Le riforme europee iniziate già da due decenni sono in alcuni casi molto avanzate: le Asturie in Spagna, la Scozia, l´Irlanda e molte aree di Londra investono sempre più in servizi territoriali e in soluzioni residenziali di piccole dimensioni e non medicalizzate. Sono modelli innovativi che nulla hanno a che vedere con la trasformazione della assistenza psichiatrica ospedaliera in una costellazione di piccoli manicomietti sparsi: questa falsa soluzione, che tutto cambia senza nulla cambiare, costituisce una pericolosa scorciatoia ma non è certo quella raccomandata dalla Organizzazione mondiale della salute (Oms). Per la Oms l´essenza della assistenza psichiatrica non è l´ospedale ma un´ampia scelta di opportunità terapeutiche, abitative, lavorative, assistenziali che vanno ben oltre la semplice assistenza offerta in un presidio medico. Se una situazione particolarmente acuta richiede un ricovero in ospedale, questo dovrà comunque essere in un ospedale generale e non in un ospedale "speciale".
Sostegno psicologico, alla famiglia, inclusione sociale, abitativa, lavorativa non sono più optional ma sono componenti decisive e fondamentali di una buona assistenza psichiatrica. La "rivoluzione" italiana e i modelli eccellenti, quale quello di Trieste, hanno fatto scuola e certamente l´Oms continua a guardare all´Italia come a un modello che, malgrado le molte critiche fondate ma anche spesso infondate, resta un modello di riferimento. La lezione più importante di tanti anni di riforme della assistenza psichiatrica sembra riguardare gli aspetti di libertà, di cittadinanza, i diritti e la inclusione sociale: elementi irrinunciabili di qualunque assistenza psichiatrica e costanti che sovrastano le differenze geografiche, culturali, sociali, economiche e linguistiche. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (anche mentale) recentemente approvata sancisce appunto tale universalità dei diritti.
* Organizzazione Mondiale della Salute
Repubblica 13.10.09
Cooperative sociali
"La sfida del lavoro quella garanzia di non ritorno a una vita da reclusi"
di Giovanna Del Giudice
Intorno al lavoro continua a giocarsi una parte essenziale del destino sociale della maggioranza della popolazione. L´impegno costante e concreto dei servizi di salute mentale per l´accesso ai diritti sociali delle persone con problemi è la garanzia del non ritorno al manicomio, anche dentro un appartamento, senza scambi, sole.
Oggi, nell´attuale perdita di sicurezze economiche, di garanzie e diritti, acquista particolare significato tornare a parlare di "impresa sociale" con uno sguardo alle persone che vivono l´esperienza di malattia mentale, ma non solo. L´impresa sociale è lavoro progettuale di attivazione di risorse e intelligenze sia nella sanità che nel mondo della produzione; di questo le cooperative, chiamate di tipo b, sono uno dei terreni privilegiati. Il valore sta nella qualità dei prodotti, dei processi, dei rapporti, dei contesti, nella partecipazione e corresponsabilità. Le cooperative che fanno impresa sociale sono tante: da alcune parti si sta sperimentando la costruzione di un sistema di cooperative di assistenza, di produzioni lavoro, associazioni culturali e di volontariato; e ciò anche per offrire possibilità multiple e percorsi "personalizzati". Altra cooperazione propone ancora alle persone "svantaggiate" intrattenimento, parcheggio, assistenzialismo, non certo emancipazione.
* Portavoce Nazionale Forum Salute Mentale
Corriere della Sera 13.10.09
Archivi In arrivo una nuova edizione, curata da Francesco Beretta, del procedimento contro lo scienziato
Galileo, processo con il trucco
Il manoscritto del «Dialogo» fu vistato anche dal Papa. Poi sparì
di Armando Torno
L’Osservatorio astronomico di Parigi è un edificio imponente, con biblioteca mozzafiato e strumenti che scrutano il cielo con confidenza. La gloria di Luigi XIV si mostra in ogni angolo e mura larghe due metri proteggono infinite storie, anche l’ultima qui nata: la nuova e più interessante edizione del processo a Galileo Galilei. Vi attende lo storico italo-svizzero Francesco Beretta, del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Lione; la traduzione, la fattura e il commento dettagliato dei due volumi saranno realizzati da Michel-Pierre Lerner e Alain Segonds, direttori di ricerche al Cnrs e conoscitori formidabili di storia dell’astronomia, per le Belles Lettres di Parigi. Uscirà anche, per la parte dei documenti originali, nell’aggiornamento all’edizione nazionale di Galileo curata da Paolo Galluzzi, direttore dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze. Beretta confida: «Capire il processo di Galileo significa innanzitutto comprendere il funzionamento del tribunale dell’inquisizione in quel periodo del ’600. Osservarne i meccanismi attraverso il paragone con altri casi meno importanti, verificare i punti anomali, i margini utilizzati dai giudici per procedere ». E ancora: «Lo 'stile del tribunale' consisteva in una serie di dispositivi che non erano codificati come oggi. Il giudice poteva orientare il processo in un senso o nell’altro. Conoscerlo è indispensabile per interpretare correttamente i documenti». È il caso di pubblicarli ancora? Non disponiamo di tutto il materiale? A tali domande si può rispondere con un po’ di storia (la scriviamo con l’aiuto dei tre studiosi incontrati a Parigi). Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, ha pubblicato nel giugno 2009 una nuova edizione del processo, che riprende la sua del 1984 con altri documenti ritrovati. Nel 1998, grazie all’iniziativa di Giovanni Paolo II per la «purificazione della memoria», fu aperto ufficialmente l’archivio della Congregazione per la dottrina della fede che conserva le carte del tribunale romano del Sant’Uffizio (da non confondersi con l’Archivio segreto vaticano, quello del Papa, disponibile dal 1881). Il fascicolo degli atti galileiani, noti come «il volume del processo», faceva un tempo parte della collezione delle materie criminali dell’Archivio del Sant’Uffizio, che comprendeva alla fine dell’Antico Regime circa 4 mila tomi. Quando Napoleone decise nel 1809 di creare a Parigi l’Archivio centrale dell’Impero, dove sarebbero confluiti quelli dei Paesi sottomessi, iniziarono le operazioni di trasporto: al Sant’Uffizio toccò nella primavera del 1810. Il volume di Galileo fu spedito a parte, giacché Napoleone chiese personalmente alcuni documenti cruciali, quali il processo ai Templari, la bolla che lo scomunicava e, appunto, le carte sullo scienziato. Secondo l’inventario di Parigi del 1813, oltre i 4 mila volumi di materie criminali, gli archivisti ne ricevettero altri 2 mila di incartamenti dottrinali o di giurisdizione dell’Inquisizione. Ve n’era poi un altro migliaio con decreti e lettere. Totale, circa 7 mila volumi. Caduto Napoleone, si cercò di riportare il tutto a Roma. Spuntano i nomi di Marino Marini e di Giulio Ginnasi, i quali, sentiti i superiori e visti i costi, decisero di buttar via i 4 mila volumi dei processi criminali. Tra essi c’erano Bruno, Campanella e tutti i filosofi italiani che riprenderanno statura nell’Ottocento (di Bruno, infatti, conosciamo solo il sommario del processo — una cinquantina di carte delle originali, probabilmente la copia appartenuta a un consultore — giacché l’insieme andò perduto e restano i soli documenti veneziani). Galileo, arrivando a parte, finì tra le carte di uno dei ministri napoleonici, il conte Louis C. Blacas che, esiliato a Vienna, si porterà con sé il faldone. La vedova lo restituirà nel 1843 a Gregorio XVI; Pio IX lo consegnerà all’Archivio segreto vaticano nel 1850, anno nel quale Marino Marini, nel frattempo giunto a quell’Archivio, pubblicò i primi documenti del processo. Ma la sua fu opera parziale e apologetica. A questo punto cominciano le edizioni, anche se a rigor di termini le carte non sarebbero state visibili senza permesso fino al 1881. Nel 1867-69 escono quelle contrapposte di liberali e cattolici, poi arriva nel 1877 la «diplomatica» di Gebler; infine c’è Antonio Favaro, docente a Padova, che nell’ambito della «nazionale» galileiana (XIX volume) pubblica le carte nel 1907 (la prima è del 1902, in fascicolo a parte). Offre il testo del processo e i decreti del Sant’Uffizio che gli furono trascritti dall’archivista. Nel 1984 ecco l’edizione Pagano: oltre le carte processuali (riprende Favaro) ripubblica il famoso G3, il documento reso noto da Redondi nel 1983 in Galileo eretico (Einaudi) su cui si costruì la tesi non accolta dalla storiografia della condanna per atomismo. Pagano formulò l’ipotesi che il volume del processo non fosse l’incartamento originale, ma un sunto, un estratto realizzato per l’Indice, al fine di giustificare l’inserimento del Dialogo tra i libri proibiti. Tutte le precedenti ricostruzioni del processo sarebbero così state relativizzate, data l’incompletezza della documentazione. E qui arriva Beretta. Egli ha mostrato, in una serie di studi, che questi documenti sono proprio quelli utilizzati da Urbano VIII il 16 giugno del 1633 per condannare Galileo. Magari ce ne saranno stati altri, ma il Papa si pronunciò sulla base della documentazione a noi nota. Tre cardinali inquisitori erano assenti alla seduta di abiura, il 22 giugno, ma il fatto non ha l’importanza che alcuni studiosi gli attribuiscono, perché il verdetto l’aveva già pronunciato il Papa in persona, il 16 giugno, e il 22 non restava ai porporati che firmare la sentenza già stesa. Nel 1998, con l’apertura dell’Archivio del Sant’Uffizio sono stati scoperti una trentina di nuovi documenti (per Beretta «non cambiano sostanzialmente il quadro del processo»). Pagano nella sua recente edizione li riprende insieme a quelli del 1984, offrendo una nuova collazione degli originali in cui, fra l’altro, convalida la tesi di Beretta sulla natura dell’incartamento processuale. Dov’è la novità? Lo studioso italo-svizzero cercherà di dare l’insieme completo della documentazione, e questo significa ripubblicare anche il dossier fiorentino che contiene un’altra parte del processo (Pagano offre solo la romana). A Firenze, per esempio, c’è la copia autentica della sentenza, perché l’originale era nel volume — delle sentenze, appunto— del 1633 disperso a Parigi. Beretta, Lerner e Segonds sottolineano che tali documenti sono noti, ma pubblicandoli insieme cambiano l’immagine complessiva, giacché non verranno dati per gruppi distinti, ma nell’ordine cronologico e in tal modo si potrà seguire passo dopo passo lo sviluppo del processo. Risalteranno così anche le anomalie rispetto allo stile. Per esempio, si sa che il processo a Galileo scatta per la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi , ma questo libro — ricordano — «vide la luce con due imprimatur, ovvero con doppia approvazione ecclesiastica». Ora, seguendo lo svolgimento del processo appare chiaramente che manca nell’incartamento il manoscritto del Dialogo recante il doppio imprimatur, che nel 1630 fu consegnato da Galileo a Urbano VIII: sembra proprio che il pontefice in persona su quell’originale, di suo pugno, abbia corretto il titolo. Nel 1632 il volume era a Firenze, lo stampatore non poteva azionare il torchio senza placet , pena la prigione. Durante il processo, Galileo invocò per difendersi la concessione dell’imprimatur da parte del Maestro del Sacro Palazzo, Niccolò Riccardi, facendo anche allusione all’intervento del Papa. Per proteggersi, Riccardi si era fatto mandare dall’inquisitore di Firenze il manoscritto incriminato nell’estate del 1632. In altri processi coevi, il testo originale è conservato nell’incartamento giudiziario per decidere se fosse colpevole delle cattive dottrine del libro l’autore o chi concesse l’approvazione. Ma il manoscritto del Dialogo sparì: si voleva celare che il permesso di stampa lo aveva dato il Maestro del Sacro Palazzo, consenziente il Papa. Galileo, che non fu torturato, il 22 giugno 1633 giurò in ginocchio — mano sui Vangeli — che il movimento della Terra è contrario alla fede cristiana. Fece l’abiura davanti ai cardinali inquisitori. Riccardi era presente fra i consultori, e il testo della sentenza è costruito per far cadere tutta la colpa sullo scienziato e liberare l’alto prelato dall’incubo di aver concesso quell’imprimatur.
il Riformista 13.10.09
Quelle attrici ricattatrici del Don Giovanni
FESTIVAL. A Roma il film di Carlos Saura. Il mito donnaiolo, rivisitato da Mozart, Da Ponte e Casanova, ci ricorda come l'arte nasca e sublimi le insidie del sesso e dei poteri forti.
di Luca Mastrantonio
Io, Don Giovanni di Carlos Saura è uno di quei film che è difficile vedere senza che il presente si infiltri nel suo racconto e le immagini e i dialoghi del film non si riverberino nelle cronache d'oggi. La bontà del film, salvo non poche pecche di recitazione, bilanciate da una bellissima fotografia di Vittorio Storaro (quello di Apocalypse Now, per intenderci) è nel rendere bene la miscela dei tre geni che hanno resa esplosiva la rivisitazione del mito di Don Giovanni fatta da Lorenzo Da Ponte, su spunti di Casanova, con le musiche di Mozart. Il film mescola, volutamente, le quinte finte per ambientare la storia vera, tra Venezia e Vienna, e le quinte vere, cioè finte come si addice ad un palcoscenico, deliziando lo spettatore nel gioco di specchi tra vita e opera d'arte. Ad un certo punto c'è una cantante, amante del libertino Da Ponte, che costringe il librettista a creare un personaggio per lei. Oltre a dimostrare, ben prima di Stanislavskij e il suo metodo, che l'interpretazione è tanto migliore quanto più reale è il serbatoio autobiografico cui attingere, e che tra arte e vita lo scambio è continuo, sembra uno spaccato del rapporto carnale e ricattatorio tra le muse e il potere. «Come vi suona donna Elvira?», fa Da Ponte a Mozart, parlando di questo nuovo personaggio ritagliato su misura per una cantante che è definita «Machiavelli in corsetto, una vipera, non sai cosa può fare, ma le ho promesso un ruolo in quest'opera, anche se il ruolo non c'è». A questo si somma che hanno dovuto scritturare l'amante di Salieri, una «puttana», secondo l'attrice rivela che interpreta Elvira, per godere degli appoggi a corte per produrre l'opera. E allora si ha l'impressione che l'arte sia sempre stata inquinata da ricatti di letto e promesse da mantenere. Certo, però, se pensiamo a risultati che hanno prodotto le pressioni bossiane e i ricatti di attricette su Silvio per lavorare in tv, che hanno prodotto fiction di bassa qualità e un prodotto pessimo come Barbarossa, viene da invocare il ritorno degli Asburgo che, all'epoca di Mozart, prendevano a corte anche artisti che non godevano di fama integerrima. Nel film di Saura il personaggio più interessante è proprio Lorenzo Da Ponte (un affascinante ma non sciolto Lorenzo Balducci) questo italiano giramondo, esiliato dalla sua amata Serenissima, che troverà gloria a Vienna e poi morirà a New York, a 87 anni, con una bella famiglia, riscattando il passato di libertinaggio che gli era stato impartito da Casanova (Tobias Moretti). Mentre di Mozart (Lino Guanciale) colpisce l'aria da precario rintronato. Se non fosse per la moglie che lo spinge a pagare la cameriera e garantirsi un po' di cure, per lei e per lui, opere come il Don Giovanni non avrebbero mai visto la luce. In alcuni momenti, per la verità, sembra di essere in una viennese casa Vianello con Mozart che chiama la moglie Costy e Costanza lo ricambia con Wolfy. Nel film, Casanova, Da Ponte e Mozart ostentano simboli e gesti di appartenenza alla massoneria, visto che Casanova raccomanda con una lettera il giovane Da Ponte a Salieri che lo gira a Mozart, nella speranza che il librettista libertino possa danneggiare ulteriormente il ribelle di Salisburgo, che viene salutato da Da Ponte come si salutano i massoni, con un gesto sul dorso della mano. Mentre Da Ponte, quando faceva il prete - e segretamente scriveva rime satiriche contro la Chiesa - portava squadra e compasso sotto l'abito talare, sul quale invece campeggiava il crocifisso. Casanova è il personaggio più patetico, impenitente erotomane cui restano solo memorie di ricordi e pulsioni. Si rivede nel mito di Don Giovanni, che incarna l'ideale di libertà dalla «schiavitù della morale», mentre per Costy, cioè lady Mozart, è solo un «maiale infoiato pronto per la monta». Casanova, che ha raggiunto la pace dei sensi - non c'erano le pillole e gli aiuti di oggi - si rifà nel delirio alfanumerico delle conquiste del Don Giovanni, ritoccate per eccesso. «In Italia 640, in Alemagna 231, 100 in Francia, in Turchia 91... in Spagna raddoppiamo... è la sua patria, scriviamo 1003». Molte delle quali erano piccine, piccine, perché la sua passion dominante... è la principiante.
Antonio Gramsci: E’ VERO, SIAMO PARTIGIANI
(...) Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.
La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo s’irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?
Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per questo e mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti.
Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze meravigliose della mia parte già pulsare l’attività della città futura che appunto la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti e ogni opportunista.
Le nuove "nozze" di Calasso
di Antonio Gnoli
"Abbiamo perso la capacità di pensare attraverso ciò che vediamo, che era la cifra di altre civiltà"
"Secondo i criteri attuali questo è un libro impossibile. Ma è l´unica forma che corrisponde al testo"
Esce un´edizione delle "Nozze di Cadmo e Armonia" dove testo e illustrazioni si fondono in un percorso unico
MILANO. A ventun anni dalla prima pubblicazione e seduto su una montagna di oltre 500 mila copie vendute, Roberto Calasso può ben dire di festeggiare le sue particolarissime "nozze d´oro", con una nuova edizione del suo libro più celebre. Esce infatti domani Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, pagg. 558, Euro 150). E non metterebbe conto tornarci sopra se non fosse che quello che abbiamo sotto gli occhi è un libro diverso, come se vedesse per la prima volta la luce, come se fosse stato pensato e realizzato attraverso un incastro originalissimo di parole e immagini.
Vorrei cominciare con un´obiezione: detto che il libro è magnifico, per l´elaborazione che vi è sottesa, la carta, il formato monstre, la qualità delle riproduzioni, insomma il grandissimo lavoro che ha richiesto, non c´è il rischio che venga confuso con un´opera di storia dell´arte?
«Non mi pare, perché qui le 384 immagini sono strettamente connesse con un testo narrativo e il lettore è invitato a scoprire quei nessi volta per volta, a ogni snodo della storia».
Ha ancora senso esaltare il ruolo dell´immagine in un mondo che sembra vivere solo di immagini?
«È il paradosso attuale: siamo sommersi dalle immagini, attraverso la digitalizzazione del mondo e la disponibilità della rete, ma si è perso il senso del pensare per immagini, che è il fondamento di ogni mondo mitico».
Un lettore che mettesse a confronto le due edizioni delle Nozze, potrebbe concluderne che una è semplicemente più sontuosa dell´altra, ma non necessariamente uno sviluppo.
«Per le Nozze le fonti testuali e le fonti figurate erano sullo stesso piano, mentre elaboravo il libro. Così, con la nuova edizione, affiora parte del tessuto di immagini che erano implicite e sottintese nel testo fin dall´inizio. Ma altre immagini ho scoperto nel corso dei vent´anni che sono passati dalla prima pubblicazione. Altre, infine, le ho isolate nel corso del lavoro di pubblicazione di questo libro, un lavoro che, forse anche perché è avvenuto in tempi stretti e si mescolava alle ultime fasi di un libro che con le immagini ha molto a che fare, La Folie Baudelaire – mi ha gettato in una sorta di ebbrezza».
"Ebbrezza" è una parola che i greci conoscevano bene. È a quel mondo che si riferisce?
«Diciamo che è molto affine all´ebbrezza di cui parla Gottfried Benn in una pagina memorabile del Romanzo del fenotipo. Un´ebbrezza moltiplicata per decine di migliaia di immagini che mi sono passate sotto gli occhi in quei mesi. È stata quella la "massa visionaria" di cui parla Benn, quella "massa" che deve giungere al punto in cui "ardono le immagini"».
Considera la nuova versione delle Nozze un´eccezione editoriale?
«Certamente è un libro che va contro gli usi editoriali del momento. Ma al tempo stesso e fin dall´inizio della sua storia – e Aldo Manuzio coincide con quell´inizio –, il libro è stato capace di accogliere in sé l´immagine, con una duttilità e intensità altissime. Una storia dell´arte che non includa in sé le immagini stampate nei libri, da Gutenberg a oggi, sarebbe una storia dell´arte manchevole. Le xilografie della Hypnerotomachia Poliphili fanno parte dell´arte rinascimentale non meno di tante opere celebrate nelle cartoline. Si trattava perciò di inventarsi una ulteriore variante nel corso di questa intricata e affascinante storia dell´adiacenza fra immagine e parola».
Lei citava l´opera che Manuzio realizzò sul finire del 1400. Che cosa rappresenta quel libro?
«Tra le tante cose è anche l´opera esemplare in cui si mostra lo sfociare della mitologia classica nella psiche moderna, che allora si stava delineando. In quanto tale, non può che orientare ogni mitografia successiva, anche per il suo carattere onirico, inscindibile dalla maniera in cui le immagini del passato continuano a vivere in noi».
Lei ha usato l´Hypnerotomachia anche come modello grafico?
«Quel modello mi è stato di immenso aiuto. Ne ho ripreso il formato e lo specchio di pagina. E ciascuna delle dodici parti del libro è introdotta da una immagine della Hypnerotomachia connessa con le storie che vi sono narrate. Non solo: in quel libro vi sono 26 diverse possibilità nel disporre le xilografia sulla pagina – e non ho fatto che seguirle rigorosamente. Così, all´interno di uno specchio di pagina dalle magnifiche proporzioni, si dava un numero così alto di varianti da rendere possibile una continua, imprevedibile serie di mutamenti».
Le immagini che ci vengono incontro non sono solo quelle scaturite dal mondo greco, ma anche quelle elaborate da alcuni artisti a noi più vicini. Che tipo di relazione si può stabilire tra la sensibilità moderna e la civiltà greca delle immagini?
«L´affinità con la materia mitica appartiene a un singolo strato dell´arte occidentale, con esclusione di molti altri. Così si può dire che il mito greco obblighi ad attraversare trasversalmente più di tremila anni di storia dell´arte. La scuola di Fontainebleau, per esempio, appare mitologica in blocco. O altrimenti si hanno riconoscimenti imprevisti, come nel Ratto di Proserpina di Rembrandt; fra i moderni, l´affinità mitica può apparire più evidente in pittori come Beckmann o Vallotton, che al mito non vengono generalmente associati, mentre Picasso, che tanto spesso è ricorso a canovacci mitici, si rivela soprattutto affine a se stesso».
Il ricorso alle immagini mi sembra una costante dei suoi lavori. Come se attraverso di esse lei cercasse una forma conoscitiva diversa da quella che l´Occidente ha praticato.
«Le Nozze nella versione con immagini è un libro impossibile secondo i criteri attuali (per i costi, il formato, l´impostazione), ma al tempo stesso quella forma era l´unica che corrispondesse al testo. Per l´autore, è un libro parallelo, una variazione del tutto autonoma rispetto al testo originale. Del resto, il rapporto con l´immagine effettivamente mi accompagna fin dal mio primo libro, L´impuro folle, che è del 1974 e già allora si presentava come un romanzo con immagini, anche piuttosto sconcertanti, intercalate al testo. Più tardi, con Il rosa Tiepolo e La Folie Baudelaire, quel rapporto sarebbe diventato ancora più evidente».
Ma non le sembra che si viva dentro un mondo in cui l´immagine è fin troppo sovrana?
«È un vecchio – e un po´ comico – luogo comune quello della "civiltà dell´immagine". Che ha senso solo se si intende come "civiltà della produzione ininterrotta di immagini". Mentre, se si parla della comprensione delle immagini, credo che la nostra dovrebbe essere considerata una delle civiltà più rudimentali. All´estremo opposto troveremmo la civiltà vedica, che si è astenuta dal produrre simulacri di qualsiasi tipo (né statue né pitture né rilievi né templi), ma viveva immersa in un pullulare vertiginoso di immagini, come si può constatare aprendo il Rgveda».
Per tornare all´Occidente, il ruolo che hanno svolto le immagini mitiche è stato molto diseguale, fino a giungere a oggi in cui quella funzione si è un po´ persa.
«La capacità di evocare visibilmente le immagini mitiche si riaccende nel Quattrocento in Italia e permane attraverso la storia della pittura fino a Tiepolo incluso. Con l´Ottocento, diventa un fatto sporadico legato a particolari momenti di certi pittori (Ingres ma anche Géricault, fino a Moreau e Redon). Ma l´accesso all´elemento mitico diventa sempre più raro. Già ai tempi di Baudelaire la pittura mitologica era un genere che serviva soprattutto come pretesto per l´esibizione di corpi femminili nudi».
E passando al Novecento?
«Gli incontri con le storie mitiche sono ancora più improbabili e sempre più inadeguati. Quanto a ciò che si chiama "il contemporaneo", è arduo incontrarvi una qualche affinità significativa con la materia mitica».
Corriere della Sera 13.10.09
Classici A vent’anni dall’uscita, vengono ripubblicate «Le nozze di Cadmo e Armonia» in edizione pregiata. Roberto Calasso ne sottolinea l’attualità
L’eterno ritorno del Mito
Come dei ed eroi spiegano le ragioni della società contemporanea
di Roberto Calasso
Nel 1988, quando apparvero le Nozze di Cadmo e Armonia, un largo numero di autori evitava la parola «mito» in quanto reazionaria per natura. Venti anni dopo, la superficie planetaria appare ricoperta da un pullulare di marchi — e ogni marchio aspira innanzitutto a essere un mito.
Tutto questo, oltre tutto, appare ovvio. E, di fatto, non dovrebbe sorprendere. Nella sua beffarda equivocità, si tratta di una fra le numerose oscillazioni che hanno accompagnato la presenza o l’assenza o gli svariati camuffamenti di quelle figure che alcuni, in certi momenti, chiamarono o chiamano divine.
Ma come sono avvertibili quelle presenze? Nell’atto stesso di essere coscienti, risponderebbe uno dei veggenti vedici. Fondamentalmente non occorrerebbe altro. Non ci sarebbe bisogno di dottrine, di nomi, di riti, di guide. Ma la coscienza, compagna perenne, è anche imprendibile — e labile. Si direbbe che, per diventare tale, la coscienza abbia bisogno di staccarsi da sé. È questo ciò che, fin dalle Upanishad , fu chiamato «risveglio», bodhi. Il paradosso del risveglio sta nel fatto che esso irrompe nel comune stato di veglia. Ardua però è la via del distacco immediato. Per seguirla, Meister Eckhart può segnare il cammino. Ma non ci sono regole — e nessuna disciplina può garantire un esito sicuro. Così si ricorre a accorgimenti, manovre aggiranti, appigli, stratagemmi che possono venire in aiuto. Era il quinto anno di guerra, Gottfried Benn si trovava in una caserma a Landsberg an der Warthe («nulla inclina a sognare come una caserma ») e, un giorno di aprile, annotò sulla sua agenda «12-13.30 Cento bombardieri sopra la caserma... ». E poi: « Summarisches Überblicken », «Sguardo sommario». A che cosa si riferiva? Probabilmente: Benn aveva scritto quel giorno il frammento che, con lo stesso titolo, sarebbe diventato una sezione nel Romanzo del fenotipo: «Già soltanto uno sguardo sommario, già l’atto di sfogliare pagine procura a volte una lieve ebbrezza. Veneri, Arianne, Galatee si sollevano dai loro talami, sotto arcate, raccolgono frutti, velano la loro tristezza, spargono viole, inviano un sogno. Venere con Marte; Venere con Cupido, distesa, un candido coniglio al fianco, due colombe ai piedi, una bianca, l’altra scura, davanti a un paesaggio che si perde lontano. Procri irrompe dalla macchia, crolla a terra, chino su di lei Cefalo dal lungo orecchio bifido, il cacciatore: credeva di aver udito il fruscio di un animale nascosto, è lo sposo e ora, dopo aver lanciato il giavellotto, l’assassino; i sandali di lei hanno strisce intrecciate e incrociate, lì accanto veglia, triste, il bel cane scuro.
«Così si sollevano i mondi. Andromede, Atalante, nel sonno o in attesa, nude o coperte da pelli, adorne di perle, di fiori e davanti a specchi. Forme candide, rigogliose, le cosce alzate, spesso accanto a salvatori dalle fulgide corazze. Ma nella maggior parte sono molto solitarie, molto raccolte in sé, non si espandono dalla pallida carne bombata; attendono, ma si schermiscono di fronte a ogni vampa, a ogni piacere. Molto rattenute: Cerere con la corona di spighe, silenziosa come le sementi; e una figura contadina, foriera dell’autunno, con zappa, grappoli d’uva, tralci di vite, tutt’altro che ebbra, lo sguardo abbassato, uno sguardo amaro e inappagato.
«Approdano Galatee con delfini, scendono dalla grande conchiglia, calcano la riva in solitudine o in compagnia di Nereidi e Centauri. E di nuovo le colombe, anche i serpenti, anche le conchiglie, e là il pavone, qui la barca, su tutte le spiagge, su tutti i declivi — indugiano e si dileguano.
«L’esperienza immediata si ritrae. Ardono le immagini, il loro sogno inesauribile, protetto. Rapiscono. Lo sguardo fisico giunge solamente fino ai bastioni, oltre il piazzale — ma la tristezza si spinge più in là, nella profondità della pianura, oltre i boschi, i colli vuoti, nella sera, nell’immaginario; non tornerà più a casa, rimane lì, in cerca di qualcosa che però si è disfatto, e allora deve prendere congedo nella luce di cieli infranti —, questi però portano via, portano lontano, portano a casa».
L’amico Oelze rimase molto colpito da questa pagina e ne scrisse a Benn, il quale colse subito l’occasione per tornare sul tema (lettera del 30 marzo 1949): «Caro Signor Oelze, l’osservazione che ha appena fatto sullo 'Sguardo sommario' (nel Fenotipo ) mi ha singolarmente interessato. Il mio sguardo cade ogni volta su quel passo, quando penso a quel frammento. Di fatto esso contiene nel modo più compiuto ciò che mi balenava quando ho sviluppato questo soprastile. Omettere totalmente i preliminari psicologici e lasciar sgorgare subito la massa visionaria (dopo la frase introduttiva e l’accenno alle circostanze). L’antecedente è questo: avevo un libro — La bellezza del corpo femminile, un’opera di storia dell’arte estremamente seria, con circa 200 fotografie di quadri (Botticelli, Paolo Veronese, Rubens, ecc.), credo edito da Bruckmann. E nello sfogliare entrai in un’ebbrezza non certo per via dei corpi nudi, che mi lasciavano del tutto freddo, ma per l’incommensurabile ricchezza di dettagli, fiori, colombe, cani, corazze, pellicce — in una parola di elementi materiali (quelli che qui tanto mi mancano) e che potevano venire subito trasposti in parole, frasi, ritmi. Tutti questi accadimenti, eventi, movimenti, connessioni, scioglimenti, passioni, passati — raccolte della bellezza e della melanconia — così tangibili — visioni sempre nuove, già materializzate, questo mi stordiva. Io sfogliavo e basta, e collegavo questo a parole, lo accatastavo, distribuivo gli accenti in ogni frase: tutto. Il principio della prosa assoluta, dove nessuna frase è più connessa con una provenienza psicologica o fattuale, era il principio che mi sembrava veritiero. In ogni frase: tutto. Queste frasi non vanno capite, contengono soltanto se stesse. Suppongo che la prosa futura conterrà qualcosa di questa nuda assolutezza».
A tanto si può giungere partendo dall’atto di sfogliare pagine con immagini: gesto che è stato considerato irrilevante nell’etogramma della specie umana finché Benn non lo ha illuminato. E tutto sulla base di un singolo libro sfogliato in giorni di alta cupezza in un «fortino nel deserto ». Non era dell’editore Bruckmann ma di Diederichs (doveva anche essere stato piuttosto popolare se la prima edizione fu di quindicimila copie nell’anno 1912). L’autore, Hanns Schulze, attraversava la storia dell’arte europea in una sequenza di figure femminili, da Masolino a Tiepolo, riprodotte in bianco e nero, e tutte incorniciate allo stesso modo, come in uno schedario. Ma non c’era bisogno d’altro. Sfogliando quel libro, Benn non aveva reagito in termini di storia dell’arte.
Anche se certi dipinti — di Piero di Cosimo o di Francesco del Cossa — si possono riconoscere dalle sue descrizioni, i nomi dei pittori sono taciuti, sommersi. Ciò che rimane è l’evocazione politeista, la dominante afroditica, l’allucinazione degli oggetti. E i nomi. Di questa materia — Benn ci vuole persuadere — è fatta una certa prosa, nella sua «nuda assolutezza» (non dissimile da quella che Mandel’štam aveva praticato). Era una indicazione testamentaria. Ma, di là dalla prosa, ciò a cui Benn accennava era un certo modo di trattare i fantasmi — e di lasciarsene invadere. Tutto sta nel giungere al punto in cui «ardono le immagini». Occorre una sorta di rabdomanzia estetica, un silenzioso acrobatismo psichico. Ma perché Benn usava l’aggettivo «sommario»? Non solo per accennare alla rapidità e cursorietà del gesto, ma perché quello sguardo ha qualche somiglianza con un giudizio sommario: scarta i passaggi, toglie via i secoli, le filologie, le categorizzazioni. Rimangono solo i profili: di figure, di oggetti. Perché, se non riescono ad agire da soli, nessuna dottrina mai li saprà recuperare, salvare.
Nella impaginazione austera del libro di Schulze, assimilati dal formato e dalla mancanza del colore, i quadri tendevano a presentarsi come una pura evocazione di corpi e materie inanimate. Scorrendo fra le dita, offrivano un’occasione perché sgorgasse la «massa visionaria». E non si trattava di un accidente marginale, dovuto alle circostanze della solitudine e desolazione di un poeta. Era un accenno al modo primario e primordiale in cui si manifestano e agiscono le immagini, precedente — in senso metafisico e psichico — al loro disporsi in drappelli nei recinti della storia. Se spinto all’estremo, ogni rapporto con le immagini si fonda su qualcosa che è affine all’atto dello sfogliare pagine descritto da Benn. Prima di rivestirsi con un qualsiasi altro nome — fosse anche divino —, ogni immagine è fantasma mentale. E, dopo aver circolato per il mondo assumendo epiteti, etichette, funzioni e poteri, e depositandosi in simulacri, alla fine torna a immergersi nel continuo mentale. È la perenne Anadiomene — come i Greci seppero percepire gloriosamente: più di altri, con più nettezza di altri.
Fosse anche soltanto per questo motivo, sarebbe ora di tornare a parlare dell’unicità dei Greci. Dopo decenni di autoflagellazione in cui i classicisti si sono premurati di affermare, sulla soglia di ogni discorso, che i Greci erano come tutti gli altri — una cultura come tante altre —, perciò immeritevoli di essere assunti a esempio perenne, come faceva invece quasi ogni professore nelle aule del «ginnasio umanistico» ancora nella Germania di Bismarck, sempre più si impone come evidenza, all’occhio che guarda o che legge, l’irriducibile singolarità di ciò che è accaduto, nel corso di pochi secoli, all’interno di una penisola frastagliata, di alcune isole e di una frangia di costa asiatica – e che già i contemporanei chiamavano la cosa ellenica (tò hellenikón ), in quanto si distaccava da ogni altra.
Se oggi si dovesse tentare di avvicinarsi di nuovo a definire quella unicità, non sarebbe neppure al lógos, immancabilmente succedente al mythos come nei passi di una quadriglia, che si vorrebbe ricorrere, se non altro per il tedio e la prevedibilità che da quella concezione emanano. Rimarrebbe l’immagine, l’ eídolon, l’ ágalma, il simulacro.
Occorrerebbe allora chiedersi, per esempio, come mai, a differenza di ogni altra civiltà mediterranea, i Greci abbiano insistito — con stupefacente concentrazione in un breve arco di decenni — a profilare sui loro vasi migliaia e migliaia di immagini di dèi, eroi e personaggi anonimi su un fondo compatto e uniforme, prima rosso e poi nero. Il vaso, nelle sue molteplici forme, era innanzitutto lo strumento dell’offerta, nell’unico atto rituale che accomunava gli uomini e gli dèi: la libagione. Ed era proprio su quegli oggetti che si addensavano le immagini, come se l’atto di offrire, versando un liquido, e quello di sprigionare fantasmi fossero indissolubilmente connessi. E forse dipendenti uno dall’altro.
Già questo riconduce allo «sguardo sommario ». Ci sono ancora, in Europa, alcuni musei dall’ordinamento antiquato, dove entrare nelle sale o nelle gallerie dei vasi greci può dare facilmente una sensazione di vertigine. In ciascuna di quelle vetrine, su quelle superfici curve di cui spesso si riescono a vedere solo alcune zone, avvengono storie. È un incessante ripetersi di episodi nella vita degli dèi e degli eroi — e induce a pensare che alla fisiologia di quelle storie appartenesse la necessità di ripetersi e riconfigurarsi in varianti. Spesso, perché chi guardava non si smarrisse e nulla andasse perduto, accompagnate dai loro nomi. Quasi per dire: Attenti, questa è Atena, questo è Hermes... Come se, in assenza di quelle figure dipinte, l’atto dell’assorbire o dell’offrire un liquido, atto vitale per eccellenza, non potesse darsi. Le storie si accavallavano. Occorreva il mitografo per stesserle e ritesserle. E, un giorno, sarebbe occorsa l’acribia di J.D. Beazley per riconoscere le mani degli innumerevoli vasai che le avevano narrate. Ma sia il vasaio, sia il mitografo, sia lo studioso, sia l’ignoto spettatore o lettore avranno ugualmente bisogno di esercitare l’arte dello sguardo sommario. Almeno se desiderano, come accadde a Benn, che torni a sgorgare quella «massa visionaria» che tuttora preme su ciascuno di noi, come le acque celesti che spettò a Indra liberare.
Accedere a quel liquido continuum è una sorta di autoiniziazione. A Eleusi, avvicinandosi al Telesterion, che era il luogo della epopteía — della visione misterica —, i devoti passavano davanti a una statua di Core dal cui ventre sporgeva una conca marmorea, colma di acqua pura. I fedeli vi immergevano le dita, per purificarsi, prima di penetrare fra le colonne del Telesterion. Come in India, profonda commistione di mistero e di sesso. Ma soltanto greca la capacità di predisporre in quel modo la scena per un gesto così semplice e così audace. Fra le pieghe delicate di un chitone con maniche, là dove il ventre si incurva spuntava quella cavità di marmo, che garantiva al tempo stesso la purezza e il contatto con la Fanciulla, Core, con colei il cui ritorno si era accorsi a celebrare.