giovedì 15 ottobre 2009

Liberazione 15.10.09
17 ottobre: contro il razzismo per la civiltà
di Alessandro Dal Lago



L e avventure e la disavventure mondane e giudiziarie di Berlusconi stanno assorbendo gran parte della cronaca politica in Italia (e non solo). Con ciò, l'aspirante Presidente del consiglio a vita ha realizzato almeno uno dei suoi obiettivi: deviare l'attenzione pubblica dai contenuti dell'azione del governo. In realtà, in poco più di un anno e mezzo, il governo ha parlato molto e fatto poco, rincorrendo più che altro le emergenze (spazzatura, terremoti, alluvioni), il solo terreno utile per fare propaganda a favore del Cavaliere in una fase in cui la sua figura è ampiamente screditata all'interno e all'estero.
C'è una sola eccezione, il pacchetto-sicurezza o, se vogliamo, il pacchetto anti-immigrati. Se c'è un terreno in cui la Lega dimostra di tenere saldamente in mano il timone, almeno per il momento, si tratta delle misure sull'immigrazione. Qui, l'azione del governo non è casuale e sgangherata, ma premeditata e in tutto e per tutto coerente con la cultura della destra italiana. Facendo dei migranti dei criminali virtuali e nemici potenziali o, nel caso migliore, dei servi tollerati, il governo consegue un certo numero di obiettivi politici di lungo periodo.
Il primo è certamente soddisfare un elettorato che ha trovato nella xenofobia, più o meno esplicita, uno sfogo alle sue paranoie e una risposta all'incertezza provocata dalla globalizzazione e dalla crisi economica. Il secondo è molto più prosaico: un migrante perennemente sul chi vive, pauroso della polizia e delle denunce, oltre che vincolato alla benevolenza del suo datore di lavoro, è prima di tutto, agli occhi del legislatore, un lavoratore che accetta qualsiasi condizione di lavoro senza protestare. In questo senso, l'azione del governo ha soddisfatto quelle migliaia di padroncini che al nord, ma non solo, strepitano contro i migranti, ma sono i primi ad avvalersene.
Esemplare in questo senso è la sanatoria delle badanti, una misura adottata in spregio a qualsiasi senso di giustizia e di uguaglianza, che ha il solo scopo di non danneggiare, in nome della mera xenofobia, gli interessi delle famiglie con anziani. Se finora le regolarizzazioni delle badanti sono state di gran lunga inferiori alle aspettative, non è solo perché i datori di lavoro non vogliono sborsare il relativo contributo, ma perché probabilmente molte straniere semplicemente non si fidano di questo governo e di questo stato, preferendo rimanere nell'ombra dell'irregolarità.
Ma c'è stato probabilmente un altro obiettivo da parte del governo: con il pacchetto-sicurezza, l'equazione immigrazione uguale criminalità, scioccamente favorita nell'ultimo decennio anche dal centro-sinistra, riceve una sanzione ufficiale e definitiva. D'ora in poi, qualsiasi discorso sui diritti dei migranti si scontrerà contro il ricatto dell'insicurezza. Così, la xenofobia trova una giustificazione pubblica che sarà difficilissimo criticare e contrastare.L'effetto di tutto questo è che in Italia alcuni milioni di persone vivono prive di garanzie giuridiche e di diritti civili e sociali, in preda all'ansia per qualunque accidente possa minacciarne lo status di stranieri a malapena tollerati. D'altronde, hanno perfettamente ragione, se è vero che il destino degli irregolari è finire nei Cie e, dopo l'espulsione, nelle mani di Gheddafi, il nuovo e grande amico di Berlusconi.Per tutto questo, la manifestazione di sabato contro il razzismo e per i diritti dei migranti è un'occasione per contrastare una deriva xenofoba e autoritaria in cui il governo Berlusconi svolge un ruolo d'avanguardia.


Repubblica 15.10.09
Il voto di religione
di Adriano Prosperi


Alla democrazia ci pensa il Cavaliere, alla religione ci pensa la ministra Gelmini. Una divisione dei compiti in un lavoro comune: marciare divisi e colpire uniti. La questione è la stessa. Non ci può essere un sistema di garanzia democratica dei diritti individuali dove non c´è libertà di religione. Norberto Bobbio ricordava spesso la passione con cui Francesco Ruffini, lo studioso dei diritti di libertà, tornava sul punto ricordando che storicamente e idealmente la libertà di religione è stata la madre di tutte le libertà. Ma qualcuno penserà che sia eccessivo allarmarsi per le intenzioni ribadite a ogni passo dalla ministra e stavolta aggravate dall´intenzione, dichiarata ieri all´VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, di far presto concorrere alla pari con gli altri voti anche il voto sull´insegnamento della religione.
Si dirà che la libertà religiosa non è in pericolo nel nostro paese: la Costituzione ha accolto e ribadito questo diritto, in Italia accanto ai cattolici abbiamo anche noi i nostri protestanti, insediati storicamente nelle valli alpine dove resistettero nei secoli lontani agli eserciti sabaudi guidati da inquisitori e predicatori gesuiti. E ci sono tante minoranze religiose non cattoliche e non cristiane. Ma l´attacco alla libertà di religione che sta minando passo dopo passo quelle affermazioni teoriche e quelle eredità storiche conquistate dalle minoranze è aperto e grave, svuota di contenuto il dettato costituzionale e impone in materia uno stato di fatto che viola il diritto scritto e poggia solo sulla prepotenza di un potere politico in cerca di favori vaticani. Avviene insediando nella scuola pubblica, vera cittadella della democrazia, una religione dominante insegnata al di fuori del controllo pubblico da insegnanti a cui è richiesto solo il permesso del vescovo. Religione dominante ed esclusiva di fatto: sia perché manca la possibilità concreta di scegliere altri insegnamenti di altre confessioni cristiane o di altre religioni sia perché l´insegnante di cattolicesimo concorre alla formazione del giudizio conclusivo sul rendimento scolastico e – come la ministra adesso si impegna a garantire – disporrà di un vero voto di profitto, con lo stesso peso dell´insegnante di matematica o di inglese.
Si tratta di un attacco portato nel cuore di quella scuola pubblica alla quale hanno accesso tutti i cittadini italiani con tutte le differenze culturali e ideali che si portano dietro. A loro, quale che sia la loro base di partenza personale e familiare, quale che sia la loro volontà di aprirsi nella scuola e grazie alla scuola alla conoscenza del mondo, inclusi i grandi testi fondanti delle religioni dell´umanità dalla Bibbia al Corano, da Confucio a Budda, sarà impartita la visione cattolica del mondo da insegnanti direttamente formati e controllati dalla gerarchia cattolica. Insegnanti, si badi bene, che se perdono il permesso vescovile, passano nel ruolo di docenti di filosofia. Filosofia a braccetto con la religione, dunque, non più col marxismo come denunciava anni fa una preoccupatissima Comunione e Liberazione. Certo, tra gli studenti ci saranno quelli che si asterranno dalle lezioni. Alcuni, una minoranza, rinunceranno eroicamente al voto aggiuntivo dell´insegnante, che alzerà la media dei loro compagni. Ma, anche se l´opportunismo delle famiglie e la corruttibilità di giovani ancora incerti di se stessi non finiranno per avere la meglio, costoro resteranno confinati nel vuoto di una negazione, saranno i "non avvalenti", refrattari all´usignolo della Chiesa cattolica, ma incuriositi e attirati da quei grandi discorsi sul mistero di Dio che è in realtà il mistero che ogni uomo è per se stesso: e la loro refrattarietà sarà sterile, genererà un´inquietudine che potrà un giorno dare luogo a quella "conversione" che la sapienza secolare della Chiesa si aspetta e dalla quale ha raccolto storicamente grandi frutti, fin dai tempi di Sant´Agostino di Ippona. Ma lasciamo che la Chiesa faccia i suoi calcoli e nutra le sue attese. Non è a lei, storicamente avversa alla democrazia e ai diritti di libertà, in lotta perenne col grande nemico, quell´Illuminismo definito "turpe" e "torvo" da autorevoli ecclesiastici, che si rivolge il pensiero del cittadino italiano ma allo stato: lo stato che svende i diritti sacrosanti dei cittadini, primo fra tutti quello alla libertà di coscienza e di religione, sul mercato dei consensi del clero. È vero che questo diritto è stato riconosciuto solennemente dai padri conciliari cattolici del Concilio Vaticano II. Ma quando i concili si chiudono la parola torna alla Curia romana. E qui si ha l´impressione che l´aria che tira nei conflitti religiosi del mondo abbia riportato in auge un clima che sembrava tramontato. Viene in mente quello che disse papa Pio XI a Mussolini nell´incontro dell´11 febbraio 1933, che sancì le intese sull´educazione cattolica degli italiani: il totalitarismo fascista poteva andare d´accordo col "totalitarismo cattolico"; al primo il governo dei corpi, al secondo le anime. L´importante era affermare i principi di ordine, autorità, disciplina, contro il pericolo di una ragione individuale libera di decidere. Eppure c´è stata tanta storia dopo di allora. C´è stata anche la crescita di un mondo cattolico italiano che si è mostrato spesso all´altezza degli appuntamenti culturali e politici del mondo moderno e ha contribuito fin dai tempi dell´assemblea costituente a garantire il rispetto dei diritti di tutti – l´unico modo per tutelare i deboli, le minoranze culturali e religiose e l´indifesa e ancor molle coscienza di bambini e di giovani. È dunque a chi, credente cattolico o diversamente credente, agnostico o ateo, crede però nel diritto di ognuno a elaborare in libertà le sue scelte nel contesto di un´offerta informativa e formativa libera e non coartata, che si rivolge l´appello a non tollerare questa nuova prepotenza, a non lasciar passare questo modo furbesco e prepotente di offrire privilegi a una sola religione e chiesa da parte di una classe di governo autoselezionata, in cambio dell´avallo di una politica che continua a scoraggiare e impoverire le famiglie, a colpire i dannati della terra, a strumentalizzare l´immagine e il corpo femminile, a esaltare miti e a proporre etiche diametralmente opposte a ogni autentica riflessione morale, religiosa o meno.

Repubblica 15.10.09
La democrazia delegittimata
di Gustavo Zagrebelsky


Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro punti concatenati tra loro, dall´astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l´aggressività e l´istinto di sopraffazione che allignano – in uno più, in altro meno – in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po´ di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un giorno, le "prove di forza" che accompagnano, come fantasmi che possono materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul "disagio della civiltà" (1929). È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni s´indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall´ego di coloro che le impersonano e le usano per i loro propri interessi. Oppure – ed è lo stesso – è un ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l´idea che esse siano impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente coperture della lotta politica. In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le istituzioni e il "senso delle istituzioni" non riescono a controllare. Questo è esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che, con un´espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo "delegittimazione". Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La "prova di forza" pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per "istituzionalizzare" il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno le cose per schierarsi dalla "parte giusta". Accanto ai molti indifferenti, presi dell´assillo d´altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c´è chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge, cambiandole a suo uso e consumo. Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di attentato allo stato di diritto, dall´altra. Questa spaccatura è pre-politica. Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti, nei due sensi, l´accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di "golpe", senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando questo veleno entra in circolo, tutto – atti e parole che, nella normalità, sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze – diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione. Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare spazio all´avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste come "dato", come "cosa" che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza ch´esse devono assicurare.
3. "Delegittimazione democratica" delle istituzioni. La minaccia alla convivenza va di pari passo con l´indebolimento delle istituzioni, con la loro "delegittimazione". È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta, con l´affermarsi nella pratica e nel senso comune di un´idea di politica come immedesimazione di un capo nel suo popolo ("voglio essere uno come voi") e di un popolo nel suo capo ("vogliamo essere come te"). Quest´immedesimazione ha assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria, demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di quell´immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall´alto in basso, non concependo che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica come immedesimazione o "identitaria" non ha bisogno d´istituzioni; le sono d´impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci. Nascono movimenti, simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli, esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il "paese reale" per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi "vera democrazia", in contrapposizione a quella "falsa", "formale", "vuota", cioè quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della "vera democrazia" (posso fare quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero a falso che sia), le istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s´immagina neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la Costituzione oppure, per le istituzioni dell´informazione, semplicemente di pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il potere è "di destra", le si accuserà d´essere "di sinistra". Se mai il potere fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare d´essere "di destra". Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle, a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle intimidazioni o – ed è lo stesso – alle seduzioni e, se non basta, via alle riforme per ridurre l´autonomia e l´indipendenza delle istituzioni non allineate. Così, si cambia regime dall´interno, lasciando l´involucro ma svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al "primus inter pares", per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del presidente della Repubblica, per l´intanto da rendere inquilino remissivo, perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della (subordinazione) politica.
4. Tra l´incudine e il martello. La costituzione, da luogo della pacificazione, è così diventata terreno di scontro, lo scontro, per definizione, più distruttivo che possa immaginarsi. Chi assiste con sgomento al volgere degli eventi e ai segni premonitori ch´essi contengono resta sorpreso nel non veder sorgere una forza che, mettendo momentaneamente da parte le legittime diversità di posizione sui tanti e pur urgenti problemi del Paese, non si ponga responsabilmente, come compito prioritario e condizionante tutto il resto, quello di uscire dalla morsa che si sta chiudendo. In quelli che potrebbero, sembra mancare la consapevolezza o abbondare l´indifferenza. Occorre ben altro che la rituale "solidarietà" alle persone che ricoprono funzioni messe sotto tiro. Non basta l´invito al rispetto del galateo. Scadenze importanti incombono. Nel 2011 dovrebbe celebrarsi l´unità nazionale, cioè le istituzioni dell´unità. Che cosa troveremo, di questo passo, quando ci arriveremo?
Quando due fazioni si affrontano con rischio generale, per coloro che avvertono la propria responsabilità autenticamente politica quello è il tempo di mettere provvisoriamente da parte ciò su cui ordinariamente sarebbero portati a dividersi, e di operare insieme nell´interesse superiore alla pace. La nostra è una repubblica parlamentare. Non è, almeno per ora, un regime d´investitura popolare d´un sol uomo. Per quanto si sostenga il contrario, scambiando il desiderio per un diritto acquisito, sono le forze politiche rappresentate in Parlamento a disporre legittimamente del potere di coalizione, per fare e disfare governi, secondo necessità. Un potere al quale, in un momento come questo, corrisponde una grande responsabilità.

Repubblica 15.10.09
Ru486 , il Vaticano detta il suo Decalogo
"Aborto delitto abominevole, pillola pericolosa per le donne"
di Mario Reggio


ROMA La Chiesa sferra un altro attacco alla pillola abortiva Ru486. Ed elenca un decalogo di «buone ragioni» per dire no all´aborto chimico. «La modalità, chimica o chirurgica, non cambia la sua natura di delitto abominevole. La Ru486 non è una medicina ma un veleno, ha solo lo scopo di determinare la morte di un embrione umano». Parola dell´Osservatorio internazionale cardinal Van Thuan sulla dottrina sociale della Chiesa, diretto da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste.
E il vademecum della Chiesa continua: «La pillola banalizza l´aborto e quello chimico non è meno pericoloso di quello chirurgico. La Ru486 pone la donna sola nella gestione dell´aborto. Non essendo un farmaco non si può imporre ai medici di prescriverlo, quindi ogni medico deve essere libero di dissociarsi e rifiutare la prescrizione, la quale sarebbe un´attiva e consapevole cooperazione ad un atto reputato ingiusto e illecito».
Perché questa violenta offensiva che pochi si aspettavano, dopo le polemiche dello scorso luglio e la decisione della Commissione Sanità del Senato di aprire un´indagine conoscitiva malgrado l´Agenzia Italiana del Farmaco fosse sul punto di dare il via libera alla pillola, forte del parere del Consiglio Superiore di Sanità e dell´autorizzazione alla commercializzazione dell´Emea, l´agenzia europea che autorizza i farmaci? La bagarre scatenata dalla destra, in particolare dal capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, ha poi portato alla ufficializzazione di una commissione di indagine del Senato che avrebbe dovuto verificare eventuali contrasti con la legge 194 sull´aborto. Nonostante fosse ad un passo dalla delibera il Consiglio di amministrazione dell´Aifa ha deciso di non creare problemi, con l´accordo che la commissione senatoriale avrebbe concluso le audizioni entro il 19 ottobre 2009. Invece il presidente della Commissione Sanità, il senatore Pdl Antonio Tomassini, decide di far slittare i tempi. Le audizioni partiranno dal 21 ottobre. Dall´Aifa, comunque, non si registra alcuna marcia indietro: «Il Consiglio di amministrazione si riunirà il 19 ottobre, nessun rinvio». Cosa succederà lunedì prossimo? Due gli scenari: accettare un ulteriore rinvio o arrivare alla firma della delibera che dà il via libera alla Ru486, farmaco che viene utilizzato da anni in tutti i Paesi europei.

Repubblica 15.10.09
Il teologo tedesco contro il Papa: la sua politica sarà un fiasco
Kung, attacco a Benedetto XVI "Riporta la Chiesa al medioevo"


ROMA «Il Papa riporta la Chiesa al medioevo», dice il teologo Hans Kung chiamando in causa Benedetto XVI. In un´intervista al settimanale "Stern", Kung, al quale nel 1979 la Congregazione per la dottrina delle Fede revocò la "missio canonica", l´autorizzazione all´insegnamento della teologia cattolica, afferma che sulle questioni della fede, il Papa «sulla base della sua fede bavarese» si esprime in modo «sorprendentemente ingenuo, a volte premoderno e populistico». Kung, che ha 81 anni, prosegue nelle sue critiche spiegando che «l´attuale politica del Vaticano è un fiasco. Il tentativo di costringere la Chiesa a tornare al medioevo la svuota. Non si può tornare ai vecchi tempi».
Nel 1966 era stato Kung a chiamare Joseph Ratzinger ad insegnare all´università di Tubinga e nell´intervista si rammarica che il Pontefice «non ha proseguito sulla via della riforma come ho fatto io. Adesso non ci troveremmo con questa spaccatura della Chiesa cattolica dall´alto e dal basso. Io rappresento quella dal basso, lui quella dall´alto». Nell´intervista, il teologo rivendica il diritto per ogni persona di decidere sulla propria morte. «Non vorrei mancare il momento giusto spiega e questo momento dipende dalla mia responsabilità, non da quella della Chiesa, del Papa, di un prete, di un medico o di un giudice». Kung aggiunge di guardare con serenità alla morte e si dice «curioso di vedere cosa succederà nell´aldilà. Non credo a queste raffigurazioni semplicistiche del cielo, come quella di sedere su una sedia dorata cantando alleluia». Kung dichiara di non credere alla resurrezione della carne, anche se in cielo avrebbe voglia di incontrare volentieri qualcuno, «di preferenza Mozart, invece che Willy Brandt».

l’Unità 15.10.09
I gollisti l’avversarono ferocemente. Ora introducono la comunione dei beni e la reversibilità
La legge pensata per i gay è ora usata da tutti. Nel 2008 le nuove unioni sono state 145mila
Francia, i Pacs 10 anni dopo È boom ma più etero che omo
di Luca Sebastiani


Più solido delle nozze
Il 47% dei matrimoni fallisce, contro il 16% delle unioni civili

L’annuale Fiera dedicato ai matrimoni quest’anno è stato chiamato «Salone del Matrimonio e del Pacs». Non solo abiti bianchi, pizzi e veli, ma anche abbigliamento più sobrio o estroso per un’unione civile in Comune.

PARIGI. Segno del grande successo sociale dei Patti civili di solidarietà, che da un paio di giorni hanno compiuto il loro decimo anno d’età regalandosi un altro record, l’ennesimo. Non c’è stato anno, infatti, in cui il numero di pacs non abbia superato quello dell’anno precedente. Il 2008 non è stato da meno e con un exploit del +45 per cento, ha toccato quota 145mila nuove unioni civili.
Una tendenza ormai consolidata che la dice lunga su come i francesi vivono i pacs. I politici, loro, come sempre sono un poco indietro. Quando il 13 ottobre 1999 il testo che introduceva i patti venne varato dopo un lungo e combattuto percorso parlamentare, sia i fautori, sia gli oppositori del provvedimento non seppero valutarne la portata.
SUCCESSO IMPREVISTO
I socialisti allora al governo con il dream team della gauche plurielle, (guidata da Lionel Jospin), pensarono una legge per inscrivere attraverso i patti le coppie omosessuali nel codice civile invece di introdurre un contratto specifico, considerato discriminatorio. Se è vero che i pacs sono stati uno strumento di visibilità per gli omosessuali, per sconfiggere l’omofobia, oggi si scopre però che riscuotono un grande successo tra gli eterosessuali. Se all’inizio, nel 1999, le coppie omosessuali pacsate erano più del 50%, oggi sono solo il 6.
Se la sinistra sbagliò le previsioni, la destra «passò completamente a lato della questione», confesserà sconsolato Nicolas Sarkozy anni dopo. Allora i gollisti organizzarono una guerriglia parlamentare senza precedenti, depositarono 2161 emendamenti e la loro capofila Christine Boutin, una teodem ante litteram, pronunciò un discorso di cinque ore e mezzo brandendo la Bibbia sotto il naso dei socialisti. Per loro si trattava di un matrimonio per omosessuali, di un mezzo per far saltare il sacro istituto del matrimonio e della famiglia. Insomma, la «fine della civiltà», come urlarono dai banchi dell’Assemblea. Invece oggi si scopre che non solo il pacs non è una minaccia per il matrimonio, ma anzi un trampolino verso le unioni tradizionali. Solo nel primo semestre di quest’anno sono state 3mila le coppie pacsate che hanno fatto il passo ulteriore. Se si guardano le statistiche poi, si vede che la cifra dei matrimoni negli ultimi dieci anni è rimasta pressoché stabile, intorno ai 270mila. Con un paradosso: che il sacro vincolo matrimoniale viene dissolto nel 47 per cento dei casi, contro il 16 nel caso delle unioni civili. Pacs più solido del matrimonio in chiesa? Forse, di certo una forma coniugale sempre più adatta alle esigenze delle coppie di oggi: meno sacrale e soprattutto meno impegnativo da dissolvere.
Il provvedimento è stato un tale successo che negli anni è stata la destra a incaricarsi di migliorarne l’attrattiva. Indotta dalla spinta nella società (6mila i pacs nel 1999, 25mila nel 2002, 77mila nel 2006, 102mila nel 2007), l’Ump ha parificato il regime fiscale di pacs e matrimonio e introdotto la comunione dei beni anche per le unioni civili. L’ultima riforma, quella per introdurre le pensioni di reversibilità per i pacsati, è stata una promessa elettorale di Sarkozy. La prova che le mentalità possono evolvere.

Corriere della Sera 15.10.09
A sorpresa. Insieme nei giardini di Villa Madama. L’ex leader ds scherza sul sottosegretario
Stretta di mano Berlusconi-D’Alema
Letta favorisce l’incontro. Il Cavaliere: ci vorrebbero più occasioni così
di Marco Galluzzo


ROMA — Gianni Letta pren­de per mano Massimo D’Ale­ma. Per un attimo. Gianni con­duce e Massimo lo segue. Fra le aiuole appena potate dei giar­dini di Villa Madama Berlusco­ni è circondato da una decina di persone. Spunta Letta e con lui il suo sorriso, il cordone si apre: il sottosegretario di Palaz­zo Chigi si fa da parte e l’ex lea­der dei Ds si trova davanti al ca­po del governo. Il Cavaliere ha un attimo d’esitazione, il corpo si sbilancia impercettibilmen­te, i tratti del volto tradiscono la sorpresa di un incontro inat­teso.
Ieri mattina all’ora del pran­zo. D’Alema e Berlusconi si stringono la mano. Agli occhi soddisfatti di Gianni Letta si ag­giungono quelli dei presenti: fra gli altri il consigliere Rai Alessio Gorla, il presidente del­l’Enac Vito Riggio, il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona, la senatrice del Pdl Cinzia Bonfri­sco. A rompere il ghiaccio è l’ex premier: «Sono qui perché si discute dell’interesse comu­ne, sulle cose importanti per il Paese io ci sono...». Risponde il Cavaliere, i tratti del viso non più contratti: «Ci vorrebbero più occasioni di trovarsi insie­me per cose simili, nell’interes­se dell’Italia».
Fotografi e giornalisti sono lontani. Perdono i sorrisi reci­proci, l’ironia della conversa­zione, la stretta di mano. È ap­pena terminata la presentazio­ne congiunta degli investimen­ti finanziari che Aeroporti di Roma e Sea, la società aeropor­tuale milanese, compiranno nei prossimi anni. Poco distan­te ci sono anche i sindaci delle due città, Gianni Alemanno e Letizia Moratti, il segretario ge­nerale della Farnesina, Giam­piero Massolo, che ha fatto gli onori di casa.
È Palenzona dal palco a intro­durre l’argomento: «Ho un pic­colo sogno nel cassetto — dice rivolto ai presenti, fra i quali i ministri Altero Matteoli (Infra­strutture) e Sandro Bondi (Be­ni culturali) — e cioè che con l’aiuto della minoranza, alme­no quella responsabile, si pos­sa fare un piano nazionale del­la mobilità per uomini e merci per sbloccare questo benedetto Paese » .
Intorno all’interesse del Pae­se, a quella convergenza strate­gica che finora è mancata nella legislatura, per pochi attimi, a beneficio dei presenti, D’Alema e Berlusconi si trovano d’accor­do.
Nessun accenno alle pole­miche degli ultimi giorni. «Dobbiamo fare altre cose di questo tipo — aggiunge il Cava­liere —, io sono il primo a esse­re felice quando in questo Pae­se si riesce a lavorare insieme, spero in altre occasioni». D’Ale­ma: «Io sono sempre pron­to... ». Poi, scherzando, rivolto a Palenzona, «e con te sono of­feso, guarda che tutta l’opposi­zione, non solo una parte, è fat­ta di gente di buon senso».
Pochi istanti dopo D’Alema si congeda citando ancora Pa­lenzona: «Ora vado a bere un po' d’acqua... di Letta». Il presi­dente di Adr poco prima ha pa­ragonato proprio il sottosegre­tario all’aqua: «Come l’acqua ti accorgi quanto vale quando ti viene a mancare». D’Alema ri­corda che il concetto è una pa­rafrasi di Baudelaire, il poeta lo diceva a proposito dell’amore: «Anche se nel tuo caso — dice rivolto al sottosegretario — il paragone con l’amore mi sem­bra esagerato». Risate. Riggio: «Figuriamoci se non è esagera­to parlare di amore oggi, visto che trattiamo di aeroporti». Chiude la riunione una battuta del premier: «Quando si parla di Letta ormai vivo una crisi di identità. È sempre più bravo di me... » .
D’Alema è già lontano, anco­ra poco e Berlusconi rientrerà a Palazzo Grazioli, dove l’attende il ministro della Giustizia e tut­ti quegli affari, correnti e straor­dinari, che fino a oggi non so­no mai stati trattati da governo e minoranza, «nell’interesse del Paese», di comune accordo.

il Riformista 15.10.09
«Ora basta con questo Pd schizofrenico»
Nicola Latorre. Il vicepresidente dei senatori democratici si dice contrario alla cacciata della deputata teo-dem e chiama in causa la gestione Veltroni-Franceschini
di Stefano Cappellini


«Oscilliamo tra il partito all'americana e il ricorso a strumenti sovietici». Sulla querelle iscritti-elettori: «Discussione astrusa. Evitiamo un doppio voto sul leader e cambiamo lo statuto, che è un mostro». Dario anti-D'Alema? «Se è così, ha già perso».

Senatore Latorre, nel Pd è di nuovo tempo di espulsioni. Anche lei vuol cacciare Paola Binetti?
Non ho condiviso l'atteggiamento di Paola Binetti. Il suo è un errore spiacevole e gravissimo. Ma in questo momento adottare provvedimenti disciplinari non serve a nulla.
Il problema sui temi etici resta. Come se ne esce?
Costruendo davvero il partito e una sua identità definita. Strutturandolo nei suoi aspetti organizzativi, di discussione e confronto. E disciplinando le modalità della nostra presenza nelle istituzioni per tutelare gli interessi collettivi, e non solo la rispettabile coscienza individuale. Ogni qual volta ci si trova a constatare che l'effetto del partito leggero all'americana è il caos si ricorre all'utilizzo di strumenti sovietici. Una schizofrenia cui dobbiamo porre fine con l'elezione del nuovo segretario.
Paola Concia, relatrice della proposta di legge anti-omofobia, rimprovera al gruppo del Pd di aver favorito l'affossamento definitivo del provvedimento anziché il suo ritorno in commissione. Ha prevalso la logica del "tanto peggio, tanto meglio"?
Può essere che qualche comportamento accrediti questa interpretazione, ma se così fosse verrebbe meno uno dei tratti fondamentali di un grande partito di opposizione riformista. Sarebbe un'aberrazione culturale.
A giudicare dalla qualità del dibattito congressuale del Pd l'impressione è che non manchino gli sfascisti.
C'è una differenza impressionante tra la qualità dei congressi di circolo e la rappresentazione che si dà. Posso testimoniare che nelle sezioni, pardon, nei circoli, si sono affrontate due grandi questioni. La prima è come uscire dalla crisi che stanno attraversando tutte le forze di progresso in Europa.
Superando il confine del campo socialista, suggerisce Rutelli.
Ora che i socialisti hanno vinto in Grecia, cosa dovremmo dire, che la socialdemocrazia è risorta? Usciamo da questo modo semplicistico di declinare la discussione, per cui basterebbe cancellare la parola sinistra o la parola socialista per venire a capo della situazione.
E la seconda grande questione?
Come sopravvivere alla crisi della democrazia, cioè al fatto che oggi scontiamo la tendenza a una sempre maggiore prevalenza del ruolo degli esecutivi. Sulla base di questi punti dovremo essere in grado di indicare al paese un progetto percepito come credibile alternativa di governo. E da soli, perché non sarà George Clooney o i giornali anglo-americani a consentirci di sconfiggere il centrodestra. Intanto, smettiamola di crogiolarci in discussioni astruse.
Del tipo?
Se continuiamo a discutere se devono pesare di più gli elettori o gli iscritti ci sono buone possibilità che ci mandino le autoambulanze.
Fassino dice che se vince Bersani non si faranno più le primarie.
Innanzitutto, gli ricordo che se vince Bersani si faranno per la prima volta le primarie per indicare i candidati alle elezioni politiche. Dopodiché, bisogna evitare di replicare situazioni che non hanno senso: non si può votare due volte per il segretario, esponendosi al rischio di avere due esiti diversi. Resto convinto che lo status di un iscritto in termini di diritti e doveri non può esser equiparato a quello di un elettore.
Perché non si è opposto quando è stato votato lo statuto?
Quello statuto è stato frutto del compromesso tra due concezioni del partito che non possono essere riassunte. Il risultato è un piccolo mostro. E dopo il 25 ottobre dobbiamo modificare le regole. Tutti insieme, perché le regole vanno condivise e su questo Bersani è stato chiaro.
Scalfari propone di abolire il quorum alle primarie: vince chi ha un voto in più.
La sua proposta conferma che il meccanismo è letale.
Statuto, Di Pietro, alleanze. Ma com'è possibile che voi dirigenti del Pd vi accorgiate sempre in differita degli errori?
La verità è che abbiamo tutti abbassato la guardia mentre il Pd si costruiva su basi plebiscitarie, producendo spesso tra le varie conseguenze anche un unanimismo di facciata.
Detta così, è colpa di Veltroni. Per Franceschini, però, è colpa di D'Alema e del suo «boicotaggio» interno.
Se la scelta di Franceschini è trasformare le primarie in uno scontro con D'Alema ha già perso, perché il candidato è Bersani, che con la sua onestà e determinazione non si fa condizionare da nessuno. Ma la mossa di Franceschini
mi pare un modo non troppo arguto per sorvolare sulle responsabilità di chi ha effettivamente ha governato il partito in questi due anni. Aggiungo che D'Alema si è preso le sue responsabilità, quando le ha avute, mentre c'è chi ha sempre la capacità di scrollarsele di dosso un minuto prima di doverne dare conto.
Ce l'ha con Veltroni?
Non penso male di Veltroni, ho solo opinioni diverse da lui. Punto e basta. Per il resto contano i risultati: c'è stata una stagione in cui la sinistra è cresciuta ed è andata al governo e una stagione in cui il centrosinistra è crollato. Poi c'è l'immagine dei leader. In questi anni si sono costruiti degli stereotipi dai quali non si è più usciti. C'è chi ha una capacità di trasmettere un immagine di sé di un certo tipo anche quando la realtà va in direzione opposta.
Molti ce l'hanno con lei per la vicenda del "pizzino" passato in diretta a Bocchino.
Ho commesso un gravissimo errore, di cui ho chiesto sinceramente scusa. Ma trovo incomprensibile l'uso che si continua a fare di quella vicenda. Nel merito, io su quel fogliettino ho scritto quel che avevo detto ad alta voce pubblicamente e cioè che tutta la gestione della vicenda Rai da parte del gruppo dirigente era sbagliata. E mi pare che, forse, oggi i risultati mi diano ragione. Quanto al pizzino,personalità più autorevoli di me si son esercitate nel passaggio di fogliettini, con Berlusconi, con Casini, ma in quel caso, chissà perché, nessuno parlò di "pizzini".
A proposito di Casini. Se Binetti sbaglia sull'omofobia, cosa dire dell'Udc con cui volete allearvi?
Sulle questioni economico-sociali l'Udc è spesso vicina alle nostre posizioni, sui diritti civili e la laicità dello Stato siamo ancora distanti. Ma questi temi non sono dirimenti sul piano locale e ci consentono di partire da alleanze già alle regionali. Certo, se dovessimo proporci domani al governo del paese, avremmo dei problemi. Ma per fortuna non è una questione di domattina.
Vi si accusa di voler riportare il trattino tra centro e sinistra.
Sciocchezze. Vale il contrario. Se tu assumi il tema delle alleanze come asset strategico diventi formazione capace di espanderti, perché diventare catalizzatore anche di altre forze è un elemento che consente al Pd di conquistare consensi diretti. Franceschini invece dice di volere un partito a vocazione maggioritaria. E che significa? Significa che quando inevitabilmente scopri di non essere arrivato al 51 per cento, vai a fare shopping in cerca di alleati. Questa concezione sì che produce una tendenza a restringerti e ci espone al rischio di tornare ad alleanze raccogliticcie.

il Riformista 15.10.09
«Espellere la Binetti non sarebbe da laici»
Marramao e i guasti dell'infinito Sessantotto
di Alberto Alfredo Tristano


«Posto che la Binetti per me ha posizioni del tutto imbarazzanti, non mi sembra una decisione propriamente laica immaginare di metterla fuori dal Pd. La laicità comprende, non esclude». Dell'ultima tormenta in casa democratica parla il filosofo Giacomo Marramao, in questa conversazione col Riformista su politica e laicità.
L'Italia è un paese laico? «No, e non lo è mai stato. La laicità nasce dal conflitto religioso, dalla pluralità delle visioni della morale. Noi invece siamo vissuti nel contesto che tratteggiò già Machiavelli, con Santa Madre Chiesa che ripara l'Italia dalle guerre religiose, tenendola però in una incubatrice storica. Peraltro in questo periodo la stessa idea di Unità d'Italia, operazione laica che insegnò Francesco De Sanctis si era realizzata sul piano della letteratura e della cultura molto prima che su quello della politica, mi sembra messa in stato di revoca, non dico nelle intenzioni ma senz'altro nella suggestione, dalle logiche convergenti della Santa Sede e della Lega Nord. Anche in questo occorre una risposta laica, che si concentri sulla tenuta dello spirito nazionale, e che reincanti la politica. Io, nel tempo delle ideologie, sostenevo la necessità del disincanto. Ma oggi, in epoca post-ideologica, quel disincanto rischia di scivolare nel cinismo, in un velo relativistico che copre lo sguardo, quando invece ci sarebbe bisogno del ritorno alle passioni. Certamente non penso che la politica debba consegnare alla società le chiavi della felicità, perché questa è una tipica ambizione totalitaria, ma di sicuro deve indicare un orizzonte di senso. In un recente articolo per Libération scrivevo che il vero nome della fratellanza, per come fu indicata dalla Rivoluzione francese, oggi è responsabilità».
Eppure, su molti temi, dal biotestamento ai diritti per le coppie omosessuali fino al recente affondamento della legge contro l'omofobia, la politica non sembra agire con spirito di responsabilità. «Per restare al caso più recente, e cioè l'omofobia, stiamo semplicemente scontando almeno venticinque anni di deculturalizzazione, di desertificazione della sfera pubblica. È assolutamente necessario riattivare una relazione tra le generazioni, le quali sono passate dal conflitto all'indifferenza. E se vanno individuate delle responsabilità, esse si trovano nei molteplici errori del lunghissimo, infinito Sessantotto italiano, troppo dilatato rispetto al brevissimo omologo francese perché producesse davvero un ricambio. In Italia hanno trionfato i reduci: iper-politicizzati, pervertiti dalla logica dei gruppi, rumorosi in maniera inversamente proporzionale alla loro reale incidenza storica. È ora di voltare pagina».
Marramao ieri ha accompagnato al Teatro Quirino di Roma il premio Nobel portoghese Josè Saramago che ha presentato il suo Quaderno, edito da Bollati Boringhieri dopo il rifiuto a pubblicarlo da parte dell'Einaudi, di proprietà della berlusconiana Mondadori, per via delle critiche dirette al premier italiano: «Un altro atto non proprio laico». Sabato e domenica prossimi sarà a Pescara per il secondo Festival mediterraneo della laicità, di cui è direttore scientifico. Il tema di quest'anno è «Creatività, invenzione, pluralismo. Le sfide del mondo laico all'immobilismo del XXI secolo». «Non c'è dubbio che i laici oggi devono portare la croce che un tempo portavano i cristiani. Per di più in anni come questi nei quali la speculazione filosofica rischia di stagnare rispetto alle evoluzioni della tecnica e della scienza, che modificano non più solo la natura esterna ma anche quella interna, e dunque l'identità stessa dell'individuo. Torniamo dunque a interrogarci su questione ultime. Senza steccati. Un laico deve conoscere la teologia politica, non essere estraneo alla religione. Pur sapendo che quel che determina le scelte oggi è l'appartenenza, il belonging, molto più che la fede, il believing. Un bisogno disperato di riconoscersi, soprattutto tra i giovani, non importa che essi siano in una moschea, una sinagoga o una discoteca».

il Riformista 15.10.09
Contro D'Alema e Bersani e le loro provocazioni
di Marco Pannella


Da diversi giorni Massimo D'Alema lancia deliberatissime provocazioni politiche, che nessuno mostra di raccogliere, men che mai dall'interno del Pd (dove Ignazio Marino è silenziato), dal Partito degli editori in fallimento, e assai comprensibilmente dai resti delle cosiddette "Sinistre Radicali".
Dunque, D'Alema, in meno di una decina di giorni, dichiara: 1) di essere «per una politica laica, non di tradizione comunista ma democristiana»; 2) che l'obiettivo del Pd deve essere quello un po' ultradipietrista di unire "tutte le opposizioni" attuali al Governo Berlusconi, dall'Udc all'Italia dei valori e a Sinistra e Libertà (non nomina, beninteso, al solito i Radicali; e, ora… i Verdi?); 3) che «Nichi Vendola, cui riconosco una leadership indiscussa» dovrebbe chiamare per le elezioni regionali e discutere e lanciare nuove alleanze con «Udc e il Sud di Adriana Poli Bortone; con i quali Vendola dovrà eventualmente discutere la scelta del candidato presidente alla Regione, se non dovesse esserlo lui».
Per conto… suo, il candidato designato per vincere, Pierluigi Bersani completa e precisa questo "progetto" insistendo sulle due radici del suo Pd (quella del cattolicesimo democratico e quella del socialismo riformista) e sulla scelta di una legge elettorale proporzionale, con preferenza "tedesca" cioè Casiniana. Intanto il Pd resta il coautore, con Berlusconi, di leggi elettorali che hanno di fatto, ormai sempre più dal 2005, tolto i diritti politici e civili ai cittadini italiani che non siano acquisiti al selvaggio monopartitismo ("bipolare!") e alle sue due componenti del Regime antidemocratico, populista e antipopolare. Ma, quel che ci appare ancor più grave e chiaro è il non detto dalemian-bersaniano; che riguarda la politica estera e quella comunitaria di piena loro coincidenza "strategica" con le tappe del quotidiano rotolare, per mera forza di gravità, nella totale subalternità al "G1" berlusconiano.
Così «la Libia è strategica» e si fa da anni a gomitate con il Silvio nazionale nella tenda di Gheddafi, si vota "unanimi" e bipolari gli accordi con lui; non si fa una piega sulla politica fraterna con il democraticissimo Putin e i suoi gasdotti; con la sua politica caucasica, non ci si occupa troppo di tibetani, uiuguri, laotiani, delle minoranze vietnamite, cambogiane, mongole e dintorni; di federalismo spinelliano nemmeno più l'ombra, continua ad imperversare la linea dalemian-berlusconiana inaugurata al tempo della "pericolo Bonino".
In Rai si fa fuori Corradino Mineo colpevole solo di aver quadruplicato gli ascolti; e si ottiene senza mostrare di accorgersene che nel periodo che va dal primo settembre a oggi i Radicali non siano andati nemmeno un secondo in voce nei principali tg…
Per finire, l'osservazione più grave: D'Alema conosce benissimo l'origine del "successo" del sanguinario Dittatore libico. Fu quando, nel marzo 2003, operò, letteralmente, come killer del presidente Bush per tentare di impedire la liberazione pacifica dell'Iraq con l'esilio ormai accettato di Saddam Hussein. Quella guerra fu scatenata da Bush, con la collaborazione essenziale di Blair e di Berlusconi, per impedire la liberazione dell'Iraq con la pace, ormai praticamente assicurata. La democrazia e la suprema legge degli Usa, del Regno Unito, della Repubblica italiana furono in quella occasione e a lungo letteralmente tradite. Crimine massimo in qualsiasi Paese civile.
Per questo la nostra e mia responsabilità è chiara e obbligata, e l'assumiamo senza riserve. D'Alema, Bersani, il Pd?

il Riformista 15.10.09
Comunque vada il "caso Binetti" è un guaio per il Pd
di Rina Gagliardi


Se il partito non fa niente rinuncia a esistere, se la caccia lancia un messaggio repressivo di ritorno a liturgie del passato

Esiste davvero un "caso Binetti" o, invece, quel che esiste è piuttosto un "caso Pd"? L'interrogativo non è polemico, ma analitico. E anche la più sommaria delle analisi ci rivela aporie quasi insolubili.
Intanto, questa vicenda ci rinvia, per l'ennesima volta, all'insostenibilità di un progetto il veltronismo che aveva un solo contenuto politico-strategico: vincere. In nome di questo nobile obiettivo, esso aveva cercato di sostituire al logoro contenitore novecentesco il Partito con il suo naturale corredo di valori, interessi sociali, posizioni generali e posizioni programmatiche una sorta di aggregato ecumenico e indistinto, a fortissima leadership personale. Da qui quella che Niccolò da Cusa avrebbe definito l'incarnazione pratica della sua "coincidentia oppositorum": nel Pd veltroniano, c'era proprio tutto e il suo contrario. Imprenditori e operai (in omaggio alla conclamata fine di ogni visione classista della società), neofiti liberisti e vecchi socialdemocratici (in omaggio all'esaurimento delle ideologie del XX secolo), industrialisti e ambientalisti (in omaggio alle teorie confuciane sull'armonia). E, naturalmente, non laici e cattolici, ma laici e clericali, cattolici "adulti" e cattolici fondamentalisti. Perché mai Paola Binetti, donna di chiara collocazione progressista (per esempio su questioni dirimenti di politica sociale), persona schietta e, a suo modo, "impolitica", non avrebbe dovuto collocarsi nelle file della nuova formazione politica? Le sue posizioni di intransigente anti-laicità, così come il suo "posizionamento" vaticano, non solo erano ben note, ma erano precisamente la "dote" che la fondatrice di Scienza e Vita portava al Pd. Non è stato in virtù di questo patrimonio di idee che è stata eletta senatrice nel 2006 e deputata nel 2008? E, soprattutto, non c'era alla base il sottinteso che la soluzione di tutte le contraddizioni che potevano nascere, il compito di dipanare le matasse intricate, il potere, insomma, di decidere, alla fin fine, spettava solo a lui, al leader? Un non-partito in cui sono presenti, allo stato "puro", tutti gli umori, gli interessi, le idee e le gramsciane "credenze" in cui si articola la società. Un capo che si occupa di politica e che, in quanto tale, ne incarna la sintesi. Ma è proprio questo lo schema che non ha funzionato, e non poteva funzionare, perché trascurava una legge essenziale della politica: la scelta. Si può rinviare, si può cercare una "buona mediazione", si può tergiversare, ma un certo punto viene il momento in cui bisogna decidere e scontentare qualcuno.
Seconda e più concreta aporia: l'indisciplina dell'onorevole Binetti. Già nel dicembre 2007 la senatrice teodem votò contro la fiducia al Governo Prodi, sulla base di una motivazione identica (identicamente omofobica) a quella che l'ha condotta, l'altro giorno, a votare in compagnia della destra e dell'Udc. Un anno e mezzo dopo, non ha cambiato idea. Viene da dire: dov'è la notizia? Forse, la notizia è che per strappare qualche voto a Ignazio Marino alle primarie del 25 ottobre Dario Franceschini scopre il centralismo democratico, con connessa voglia di espulsione, e perfino una intransigente laicità. Forse, la notizia è che questa storia della "coscienza" e delle questioni "eticamente sensibili" non regge, è un'altra delle tante insostenibilità della politica attuale. Poiché i confini della "coscienza" in politica sono ben difficili da definire, e poiché nella Weltanschaung dell'onorevole Binetti vi rientrano, nientemeno, che l'intera sfera delle relazioni sociali, i collanti valoriali che ad essa debbono presiedere, nonché lo statuto effettivo della scienza e della libertà della ricerca scientifica; il risultato finale rischia di essere un pasticcio epocale. Insolubile quanto il cubo di Rubik. Se l'indisciplina dell'onorevole Binetti, alla fine, non sarà in alcun modo sanzionata, si sancirà il principio che, nel Pd, nel nome della "coscienza", ognuno potrà fare semplicemente quel che gli pare un principio disgregativo bello e buono per un partito che non pare averne bisogno. Se, all'opposto, l'onorevole Binetti fosse cacciata, non ci saranno soltanto i prevedibili contraccolpi interni, sul fronte cattolico e Vaticano, ma prevarrà un messaggio repressivo, un ritorno alle liturgie del passato. In ogni caso, ahimé, il Pd pagherà un prezzo di credibilità.
Infine, l'ultima aporia riguarda proprio lei, Paola Binetti (che a me, forse lo si è capito, è davvero simpatica). Ieri, in un'intervista al Tg3, ha spiegato con calma il suo diritto a rimanere nel Pd, giacché, ha detto, «la diversità è una ricchezza», non un problema, né tanto meno un problema riducibile a questione disciplinare. Parole sagge. Ma com'è che la parlamentare teo-dem non riesce, non si dirà, ad apprezzare, ma in qualche modo a capire, il valore della diversità di orientamento sessuale? Come è che non sia sfiorata dal dubbio che la sua propria evidente e tenace "diversità" politica, culturale, religiosa non sia la sola titolata a esistere e a godere di diritti pieni? Misteri dell'animo umano, diceva un mio zio molto scettico.

il Riformista 15.10.09
Economisti sul lettino
Tremonti torna e parla di crisi e Rivoluzione
Partecipa con Guido Rossi a un convegno degli psichiatri italiani
di Marco Innocente Furina


Da posizioni diverse, per entrambi la politica deve prevalere sui bilanci. Il ministro, alla prima uscita dopo il litigio con Berlusconi, dice: «Passati "globalité, marché, monnaie", torniamo a "liberté, egalité e fraternité"».

La prima uscita di Giulio Tremonti dopo il gran litigio con il Capo non ha il sapore del pentimento. Anzi. Sembra un affondo. Un altro convegno. E sempre dal titolo, diciamo così, equivocabile. Dopo l'incontro organizzato dall'Aspen Institute, di cui Tremonti è presidente, sui criteri di una moderna leadership, che Berlusconi, notoriamente poco incline a pensare a una successione, aveva interpretato come un atto di lesa maestà, il superministro dell'Economia ha partecipato ieri a un convegno, organizzato questa volta dalla società italiana di psichiatria, intitolato «Antinomie della crisi: fiducia/sfiducia, paura/speranza, competizione/isolamento». Per carità, saremmo in campo neutro: parliamo dei legami tra psiche e economia, un tema molto dibattuto in questi mesi di «crisi percepita», e non certo di fiducia e sfiducia parlamentari. E neppure di competizione-isolamento di un leader. Ma alle volte, si sa, il contesto vale più delle parole. E le compagnie ancora di più. Perché a dibattere con Tremonti c'era un uomo, come Guido Rossi, che non gode esattamente delle simpatie berlusconiane. Segno, se non altro, che il titolare di via XX settembre delle interpretazioni si cura poco.
Giulio Tremonti e Guido Rossi. Due professori, certo. Entrambi di formazione giuridica, ed entrambi convinti della superiorità della norma sulla pratica, del diritto sull'economia. «Il mercato fin quando è possibile, e il governo quando è necessario», è il loro motto. Rossi si batte (da sempre) contro«l'integralismo di mercato», Tremonti sferza (da qualche tempo), il «mercatismo». Due diverse espressioni per dire la stessa cosa: la politica prevalga sull'economia. Ma le analogie finiscono qua.
Perché al di là della simpatia che c'è tra i due, gli uomini non potrebbero essere più diversi. Uno, Guido Rossi, laico e di sinistra, è l'uomo delle regole (senatore per la Sinistra Indipendente nella X legislatura, fu promotore della legislazione antitrust sulle opa sull'insider trading) e poi commissario straordinario della Federcalcio in seguito allo scandalo Calciopoli; l'altro, il superministro berlusconiano dell'Economia, l'uomo dei miracoli contabili, da ultimo convertito a un'economia etica, e col compito difficile di far quadrare i bilanci ai tempi della crisi. Quasi due mondi. Due universi paralleli (che sembravano) destinati a non incontrarsi mai. Sembravano.
Fino a ieri. Quando hanno discusso per un'ora e mezzo con accenti convergenti, delle correlazioni tra psicologia e crisi economica, globalizzazione e mercato. Dove? All'Hotel Marriot, nelle stesse sale dove domenica scorsa si è consumato il frettoloso congresso democratico.
Venendo al dibattito, Rossi ha messo in dubbio una dei paradigmi dell'economia moderna, sostenendo l'irrazionalità dell'homo aeconomicus. Valga per tutti Isaac Newton: «Posso calcolare la velocità degli astri ma non la follia dell'uomo». Ma ha anche sconfessato Marx citando Keynes: «Sul lungo periodo prevalgono le idee non gli interessi consolidati».
Tremonti non è da meno. Riprende Keynes e strappa l'applauso: «Saremmo capaci di spegnere il sole e le stelle perché non producono dividenti». Attacca i contratti derivati, vera causa della crisi, e spiega agli psichiatri che il tonfo, innanzitutto psicologico, dell'economia mondiale è iniziato con le immagini del fallimento di Lehman Brothers. Esalta la funzione regolatrice del diritto («Lo sforzo che stiamo facendo con la Germania è il tentativo di definire una tabula mundi contenente le tavole fondamentali globali, le regole generali»). Ovvero i global legal standards. Rassicura sul debito dell'Italia: «Siamo a medio rischio». Difende l'operato del governo: «Abbiamo mantenuto la coesione sociale". E ripete la messa funebre del liberismo selvaggio: «Finito il periodo di globalité, marché, monnaie (cioè globalità, mercato, moneta, ndr) forse è il caso con spirito laico e civile di tornare a ideali quali liberté, egalité e fraternité».

Repubblica 15.10.09
Piano carceri, ecco l'indulto nascosto
Prevista la modifica al codice penale. In programma 24 nuovi penitenziari
di Giovanna Vitale


Il ritocco alla norma consentirà a tutti i condannati a pene fino a 12 mesi di uscire e scontarle nelle proprie abitazioni

ROMA È una sorta di indulto mascherato il Piano per l´emergenza carceri che, su proposta del guardasigilli Angelino Alfano, verrà approvato oggi in consiglio dei ministri. Oltre alla costruzione di 24 case circondariali tra nuovi edifici e ampliamenti di quelli già esistenti, per la cifra monstre di 1,3 miliardi in tre anni (tutti peraltro ancora da individuare), il programma per decongestionare i penitenziari italiani messo a punto dal capo del Dap Franco Ionta prevede infatti la modifica dell´articolo 385 del codice penale. Un ritocco che consentirà a tutti i condannati a pene fino a 12 mesi di uscire di prigione e di scontarle «nella propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza, e accoglienza».
Evidente il beneficio, dal momento che «secondo stime dell´amministrazione», nel settembre 2009 circa il 32% dei reclusi doveva espiare «pene residue non superiori a un anno». E poiché «a oggi sono presenti nei 206 istituti penitenziari 64.859 detenuti con un inarrestabile trend di crescita» calcolato in circa 800 nuovi "ospiti" al mese, significa che una volta varato il provvedimento torneranno a casa quasi 21mila carcerati. Più o meno gli stessi posti che il Piano di edilizia penitenziaria si prefigge nel contempo di aumentare: 2.372 in più entro quest´anno; 8.804 per il 2010 (grazie alla costruzione di 9 nuove carceri e 8 istituti flessibili; più 5 nuovi padiglioni); 5.596 nel 2011 (25 padiglioni, compreso quello maxi di Rebibbia); 7.029 per il 2012.
E a poco servirà l´altra modifica introdotta a corredo, ossia l´inasprimento delle pene in caso di evasione (raddoppiata nel minimo e triplicata nel massimo) nonché l´esclusione dei reati di mafia, ovvero il 41 bis. La discrezionalità dei Tribunali di sorveglianza sarà pressoché azzerata: «La prosecuzione della pena presso l´abitazione o altro luogo, pubblico o privato, dev´essere concessa, salvo che risulti l´insussistenza dei presupposti di legge», recita il documento.
Ma questa non è l´unica novità. L´altra riguarda le procedure da seguire per l´attuazione del Piano. «Nelle carceri c´è una situazione davvero da dimenticare e incivile», aveva detto ieri Silvio Berlusconi a proposito del sovraffollamento in cella, che ha ormai superato i livelli pre-indulto. Un´affermazione che prelude alla dichiarazione di "emergenza" che verrà deliberata oggi dal consiglio dei ministri, su proposta del premier. Il modello evocato nel Piano è la ricostruzione dell´Aquila. Delegato a gestire l´urgenza sarà con ogni probabilità Franco Ionta, già nominato prima dell´estate commissario straordinario per l´edilizia penitenziaria. Il quale, come già Guido Bertolaso per il terremoto in Abruzzo, avrà le mani libere: potrà «agire in deroga ad ogni disposizione vigente», nominare consulenti esterni e soprattutto godere di quel regime speciale che trattandosi di materie attinenti alla sicurezza nazionale come le carceri «legittima la secretazione delle procedure di affidamento dei contratti pubblici». In sostanza potrà fare tutti gli appalti che vuole, come vuole: tanto l´intera documentazione verrà classificata come "riservatissimo".

Corriere della Sera 15.10.09
In Consiglio dei ministri
Il piano: 24 nuove carceri da Torino a Catania entro la fine del 2012
di D. Mart.


ROMA — Riveduto e corretto, il piano carceri arriva (oggi o la prossi­ma settimana) in consiglio dei mini­stri. Molte le novità: oltre i numeri — 21.479 nuovi posti (80 mila totali a regime) entro il 2012 divisi in car­ceri «leggere» e padiglioni tradizio­nali — c’è la previsione dello «stato di emergenza» e i poteri assoluti, «in deroga ad ogni disposizione vi­gente », per il commissario straordi­nario, Franco ionta (Dap). Che agirà sul modello della Protezione civile in caso di calamità naturale: potrà far coprire con la classificazione «se­gretissimo » gli atti relativi alla «sele­zione degli operatori economici in­teressati agli appalti» e «proteggere la documentazione relativa». Oltre il piano c’è un’ipotesi che deve anco­ra avere il placet della Lega: allarga­re gli arresti domiciliari aprendo le porte del carcere ai detenuti con un residuo pena inferiore a un anno.
Il piano, in premessa, ricorda che la Ue nega i fondi per le carceri e che «la decisione quadro sul trasfe­rimento dei condannati (stranieri, ndr ) del 2008 non inizierà a produr­re effetti prima del dicembre 2011». Ecco la rimodulazione: 9 carceri leg­gere (450 posti, per il costo di 22-24 milioni a modulo, «con l’edi­ficazione di strutture flessibili dota­te di misure di sicurezza e di con­trollo sostitutive rispetto all’azione del personale di Polizia penitenzia­ria ») a Milano, Napoli, Bologna, To­rino, Firenze, Roma, Genova, Cata­nia e Bari. Costruiti «alla stregua della positiva esperienza compiuta nel post terremoto», serviranno ad assorbire il sovraffollamento nelle metropoli «gravate dal notevole af­flusso di detenuti arrestati in fla­granza che spesso permangono nel­le case circondariali per pochi gior­ni ». Altre 8 strutture leggere per la reclusione a Pordenone, Pinerolo, Paliano, Bolzano, Varese, Latina, Brescia: 374-408 milioni di spesa per 7.650 posti. Costruzioni tradi­zionali per Roma, Milano, Nola, Sciacca, Sala Consilina, Venezia e Sa­vona: 613 milioni per 4.429 posti. Ci sono poi 47 padiglioni (200 po­sti) nelle carceri esistenti (9.684 po­sti).

Repubblica 15.10.09
Così tristi e aggressivi il 4,2% dei ragazzi è a rischio bullismo


ROMA Sono come "le due facce opposte della luna": i ragazzi "timidi rabbiosi", con sintomi come ansia, depressione e aggressività, e gli "aggressivi tristi", apparentemente in guerra con il mondo ma che nascondono tristezza e solitudine. Entrambi sono a rischio di manifestare un disturbo psicologico e potrebbero diventare potenziali bulli. Lo conclude una fotografia del disagio giovanile scattata dalla ricerca "La scuola per la vita: promozione della salute mentale in preadolescenza", condotta da Gabriel Levi, direttore del Dipartimento di Scienze neurologiche, psichiatriche e riabilitative dell´età evolutiva della Sapienza. Lo studio che ha coinvolto 2045 studenti e 204 insegnanti delle medie aiuta a valutare i segnali di crisi nel comportamento. Agli studenti è stato chiesto di autovalutarsi (il loro giudizio è stato poi confrontato con quello degli insegnanti), e raccontarsi attraverso temi. Risultato: il 4,2% del campione presenta problematiche sia di tristezza-solitudine che di rabbia-aggressività.

Liberazione 15.10.09
Protagonista nel '22 della difesa della sua città dalle camicie nere, morì in Spagna
Storia di Guido Picelli, ardito del popolo a Parma
di Daniele Barbieri



«Guido Picelli è caduto sul fronte di Madrid, alla testa del battaglione che porta degnamente il nome di Garibaldi». Così Milicia Popular (quotidiano del Quinto reggimento) lo ricorda: «Nell'agosto '22, quasi tutte le bande fasciste del Nord, sotto il comando del generale Balbo, si concentrano su Parma per far cadere questa città che Picelli con i suoi Arditi del popolo ha reso invincibile. Dopo un duro combattimento, le orde fasciste vengono respinte e messe in fuga».
Madre portinaia, padre cocchiere: Picelli nasce a Parma il 9 ottobre 1889, cresce nei borghi dell'Oltretorrente, covo di un popolo ribelle. Fa le medie e poi va a lavorare come orologiaio. La sua passione è il teatro. Ha 17 anni quando dice in casa: «Metti giù il riso che torno». Lo rivedono 6 anni dopo; con la battuta pronta chiede se il riso è cotto, poi racconta le sue avventure di attore girovago. Si trova un lavoro da orologiaio. Tranquillo per un po' ... finché all'orizzonte si affaccia la guerra. Sin da giovanissimo iscritto al Partito socialista, Picelli è contro. Quando inizia la guerra, coerente antimilitarista, si arruola volontario nella Croce Rossa. Ma viene richiamato in fanteria, allora fa domanda da ufficiale. Finisce la guerra da tenente, medaglia di bronzo al valore e zoppicante per una ferita.
Più socialista che mai, capisce il grave problema dell'aiuto a chi è stato colpito dalla guerra e diventa dirigente della "Lega proletaria mutilati, invalidi e vedove dei caduti". Ma sulla scena è apparso il fascismo. Picelli intuisce subito il pericolo.
Quando nasce il Partito comunista, Picelli è in carcere. Ne esce pochi mesi dopo perché eletto deputato (col Psi). Nel '21 in varie città si formano, in modo spontaneo, gli Arditi del popolo, Picelli è da subito in prima fila. Si lagnano le camicie nere che fra l'ottobre 1920 e la marcia su Roma (due anni dopo) cadono 300 fascisti ma le vittime dello squadrismo sono 10 volte tanto, 3mila. Mentre Turati e altri dirigenti invitano alla calma, Picelli scrive: «Occorrono metodi nuovi. Di fronte alla forza armata occorre la forza armata (...) La borghesia per attaccarci non ha creato un partito ma un organismo armato, il fascismo. Noi dobbiamo fare altrettanto».
Nel '22 il terrore fascista dilaga. La risposta è debole, le sinistre divise quasi ovunque ma Parma non cede. «E' l'ultima roccaforte in mano delle forze anti-nazionali» scrive Italo Balbo, uno dei capi fascisti. In agosto parte un attacco in grande stile, guidato da lui. Ma l'Oltretorrente di Parma è pronto a resistere: l'organizzazione difensiva è stata avviata 14 mesi prima. «Per la prima volta», è di nuovo Balbo, «il fascismo si trovava di fronte a un nemico agguerrito, organizzato e deciso a resistere»: e alla fine le camicie nere si ritirano, lasciando 30 morti sul terreno. Non sono riusciti a passare in 20 mila ben addestrati (venuti da mezz'Italia) contro poche centinaia di combattenti ma sostenuti da quasi tutta la città.Vorrebbero ritentare quasi subito ma Mussolini blocca Balbo: la "marcia su Roma" è prossima, la vendetta su Parma può aspettare.
Nel dicembre '22 gli Arditi del popolo si sciolgono, in realtà molti tentano di iniziare, con scarso successo, un'attività clandestina. Intanto Picelli si è avvicinato ai comunisti e alla fine del '23 si iscrive al partito ma è escluso da incarichi direttivi per il suo "libertarismo". Nel '24 sarà rieletto nelle liste di "Unità proletaria" (comunisti e terzinternazionalisti). Il primo maggio 1924 è autore di una beffa clamorosa: issa una bandiera rossa con falce e martello sul palazzo del Parlamento. Dal '26 il regime lo confina a Lipari. Nel novembre '31 è rimesso in libertà, il partito gli ordina di espatriare. Scappa in Francia, poi arriva a Mosca.
Nel luglio '36, con l'aiuto di Hitler e Mussolini, il generale Franco attacca la Repubblica spagnola. Molti italiani accorrono volontari. La parola d'ordine è "Oggi in Spagna, domani in Italia".
In modo fortunoso, senza neanche una valigia, Picelli arriva da solo a Barcellona. Addestra i suoi uomini con passione: «dovete essere disciplinati e coraggiosi». Un volontario (il tipografo Canonica) lo ricorda così: «Picelli è come il correttore di bozze in tipografia: corregge gli sbagli». Finito l'addestramento si va a combattere: il 5 gennaio 1937 Picelli, al comando di due compagnie garibaldine, cade sull'altura di El Matoral.
Diverse le versioni sulla sua morte. C'è chi dice che, spinto dalla sua generosità, disobbedisce alle regole secondo cui chi comanda una compagnia non deve esporsi in azioni d'avanguardia. C'è chi parla di un proiettile alle spalle come accade per altri militanti "non ortodossi" che vengono considerati dagli stalinisti più pericolosi dei fascisti. Di un mistero non risolto - lo ha ricordato Alias-il manifesto , in luglio - parla Gustav Regler, uno dei comandanti delle Brigate internazionali in La grande crociata , scritto nel 1940 (con prefazione di Ernest Hemingway) ma ancora inedito in Italia.
E' in uscita un documentario di Giancarlo Bocchi su Picelli ma intanto chi si recasse in libreria faticherebbe a trovare testi sugli Arditi del Popolo. Le fonti di questo articolo sono soprattutto in Barricate a Parma (Libreria Feltrinelli di Parma, 1972) di Mario De Micheli e Gli Arditi del popolo (Galzerano, 2002) di Luigi Balsamini. Ma è interessante anche Arditi non gendarmi (Bfs edizioni, 1997) che indaga sulla complessa storia che si dipana «dall'arditismo di guerra agli arditi del popolo». Istruttivo confrontare la vittoriosa resistenza di Parma con la sconfitta di Novara del mese precedente, come l'ha raccontata Cesare Bermani in Novara 1922, battaglia al fascismo (Sapere, 1972). E sulla resistenza a Sarzana - con gli Arditi del popolo in prima fila - Luigi Faccini gira nel 1980 Nella città perduta di Sarzana .
Particolarmente significativa, considerando le sue posizioni moderate, la presentazione di Giorgio Amendola (allora dirigente di primo piano del Pci) al libro Barricate a Parma , uscito nel cinquantenario della battaglia dell'Oltretorrente. Amendola scrive che se gli Arditi del Popolo non si sviluppano «dipende anche dal settarismo del Pci» mentre invece la sua «base unitaria» diventa «un'anticipazione di quel movimento che dovrà costituire la base della Resistenza e della vittoria». Pochi mesi prima, esce il quotidiano Lotta continua e come sfondo del titolo sceglie proprio le barricate di Parma: il riferimento non è casuale, perché dopo le stragi e le aggressioni fasciste fra il '69 e il '72, in Italia tira aria di golpe e parte della sinistra (extra-parlamentare e non solo) ritiene che una nuova Resistenza sia necessaria.


Repubblica 15.10.09
Agente Benito al servizio di Sua Maestà
Dagli archivi del capo dell'MI5 a Roma spuntano le ricevute: 100 sterline a settimana
di Enrico Franceschini


LONDR. Il curriculum vitae di Benito Mussolini finora elencava tre professioni: giornalista, uomo politico, dittatore. Adesso ne è saltata fuori una quarta: agente segreto al servizio di Sua Maestà britannica. Nel 1917, mentre dirigeva il quotidiano Popolo d´Italia, il futuro capo del fascismo fu reclutato dall´MI5, il servizio di spionaggio britannico, che gli passava 100 sterline alla settimana per i suoi servigi: una grossa somma di denaro per quell´epoca, equivalente a circa 6.000 sterline d´oggi, e pari a circa 25 mila euro odierni al mese. Il suo lavoro consisteva nel fare opera di propaganda a favore dell´interventismo, ovvero assicurare che l´Italia, alleato di Regno Unito e Francia nella Prima guerra mondiale, non cedesse alle pressioni pacifiste, ritirandosi dal conflitto. Mussolini si impegnò ad adempiere il compito in due modi: pubblicando sul suo giornale articoli favorevoli allo stato di belligeranza; e offrendo di mandare i suoi "ragazzi" a "persuadere" i dimostranti a restare a casa, in occasione di manifestazioni pacifiste contro la guerra.
A scoprire il suo ruolo di agente dell´MI5 è stato un autorevole storico britannico, Peter Martland, docente della Cambridge University, rovistando negli archivi personali di sir Samuel Hoare, capo del servizio segreto di Sua Maestà a Roma negli anni del primo conflitto mondiale. Hoare aveva 100 agenti alle sue dipendenze in Italia in quel periodo. In un libro di memorie pubblicato nel 1954 accennò al reclutamento di Mussolini, ma in mancanza di prove documentate l´affermazione non ricevette rilievo. Le ha trovate ora Martland: le ricevute dei pagamenti a favore di Benito Mussolini.
«Dopo l´abbandono della guerra da parte della Russia, nel 1917 l´Italia era l´alleato di cui la Gran Bretagna si fidava di meno», commenta lo storico, interpellato dal quotidiano Guardian di Londra. «Mussolini fu pagato 100 sterline alla settimana dall´autunno del ‘17, per almeno un anno, per condurre una campagna pro-guerra». La sua disponibilità a usare le maniere forti, oltre agli articoli di giornale, per far restare a casa i pacifisti, osserva il Guardian, sembrava una prova generale per lo squadrismo delle camice nere che sarebbe seguito qualche anno dopo. «L´ultima cosa che la Gran Bretagna voleva erano scioperi pacifisti che tenessero chiuse le fabbriche di Milano», dice Martland.
Nel 1912 Mussolini era diventato direttore dell´Avanti, dalle cui colonne si schierava sulle posizioni dei non-interventisti. Ma poi cambiò idea, fondò il Popolo d´Italia, con il quale sostenne la guerra, e venne espulso dal Psi. Nel 1919 fondò i Fasci di Combattimento, trasformati nel 1921 nel Partito Fascista. L´anno dopo, con la marcia su Roma, prese il potere. Senza che nessuno immaginasse che il Duce era stato un agente di Sua Maestà.

Corriere della Sera 15.10.09
Lo «stipendio» pagato dagli 007 di Londra
Le amicizie inglesi di Benito Mussolini
di Fabio Cavalera


Benito Mussolini fra il 1917 e il 1918 fu messo a libro paga dai servizi segreti britannici: cento sterline alla settimana, versate in contanti da sir Hoare, il capo della sezione che l’intelligence aveva aperto a Roma, affinché l’allora direttore del «Popolo d’Italia» sostenesse la campagna bellica contro Austria e Germania. La notizia è suggestiva e il «Guardian», quotidiano di Londra, ha deciso di rilanciarla in prima pagina innescando una catena di titoli e di interpre­tazioni. La vicenda va però rico­struita per intero e integrata perché, così come è stata divul­gata, presenta alcune lacune che è corretto colmare.
Fonte delle rivelazioni è l’ar­chivio che sir Samuel Hoare ha lasciato in eredità e che dal 1960 è conservato nella bibliote­ca di Cambridge sotto il nome di Templewood Papers. Sir Sa­muel Hoare, visconte di Tem­plewood, aveva lavorato dappri­ma alle dipendenze del capita­no Mansfiel Cumming, diretto­re del controspionaggio inter­no, poi era passato a collabora­re con il capitano Vernon Kell, che invece comandava la sezio­ne estera. E proprio da questi era stato spedito a coordinare le attività della Missione Milita­re Britannica a Roma. Nell’ulti­mo anno della prima guerra mondiale, due mesi dopo la di­sfatta di Caporetto, sir Hoare aveva concentrato le sue atten­zioni su due fronti: le divisioni in Vaticano e la possibilità di organizzare in Italia la propa­ganda in favore degli Alleati, cercando di reclutare quanti fossero in grado di opporsi al­la voce dei pacifisti. E fra que­sti «agenti» di supporto, in cambio di un contributo setti­manale di 100 sterline, Hoare agganciò Benito Mussolini, sia nella veste di giornalista sia nella veste di agitatore e prossi­mo fondatore dei Fasci di com­battimento.
Sir Hoare spediva a Londra regolari rapporti, direttamen­te al suo superiore, capitano Kell. Per quanto riguarda il Vaticano, il capo degli 007 annotava, grazie a un informatore nella Santa Sede, che fra i favorevoli alle potenze nemiche c’era monsignor Pacelli, futuro papa Pio XII, un convinto «sostenitore» della Germania. Per quanto riguarda Mussolini, invece, ne sottolineava l’opera di fiancheggiamento all’Impero. Addirittura in una relazione Hoare spiegava che Mussolini gli aveva promesso di muovere una squadra di veterani per «persuadere a restare a casa» i manifestanti riuniti a Milano contro il conflitto bellico.
Il responsabile del servizio segreto britannico a Roma conservò copia dei documenti e gli eredi ne fecero dono all’università di Cambridge dove sono catalogati minuziosamente per «parti »: la parte terza è titolata «Vaticano e Mussolini». A quasi 50 anni di distanza due professori, entrambi di Cambridge, sono andati a rileggerli. A quanto pare, ognuno a insaputa dell’altro, visto che ne hanno dato annuncio in forme e tempi diversi. Uno, Peter Martland, ha parlato diffusamente coi giornalisti della sua «scoperta». Il secondo, Christopher Andrew, ha scritto un libro di oltre mille pagine (The defence of the realm , che è la «storia autorizzata» del MI5). Un bestseller, uscito da pochi giorni.
Rivalità fra studiosi? Comunque sia, nella poderosa opera di Andrew, si trova traccia del Mussolini «agente degli inglesi » alle pagine 104 e 105. Poche righe. Alle quali però vanno collegate altre due rivelazioni contenute alla pagina 124 e di cui vi deve essere riscontro negli ar­chivi dei servizi segreti britanni­ci che lo storico ha potuto con­sultare. Christopher Andrew so­stiene che fra i politici inglesi non pochi negli anni Venti espressero ammirazione per Mussolini. Cita due frasi. Win­ston Churchill che lo definì: «Il salvatore del suo Paese». E il conservatore Austen Chamber­lain, ministro degli Esteri dal 1924 al 1929, che parlò di «un uomo sincero e di un patriota». Gli eventi presero poi la piega conosciuta ma per un certo peri­odo Londra guardò Mussolini con sguardo tutt’altro che preoc­cupato. C’era chi sapeva che era stato un confidente della «perfi­da Albione».

Corriere della Sera 15.10.09
Da domani a Palazzo Ducale di Genova esposte per la prima volta insieme più di 400 opere, in parte inedite, che documentano la vita di un artista eclettico e sempre in bilico fra «ragione e sentimento»
Hofmann, le geometrie del colore
di Erika Dellacasa


In nome del Bauhaus sfidò ogni totalitarismo Otto Hofmann è nato nel 1907, è morto nel 1996: una lunga vita come una cavalcata attraverso quello che è stato definito il «secolo breve». E questa coincidenza estrema dell’ar­te di Hofmann con la Storia è amplifi­cata dall’essere nato in Germania: l’artista che è stato allievo e protago­nista del Bauhaus è stato censurato dal nazismo, mandato al fronte nella campagna di Russia, fatto prigionie­ro a Leningrado, ha vissuto nella neo­nata Germania dell’Est e ne è fuggito negli anni Cinquanta in piena Guer­ra Fredda, ha vissuto a Parigi nello studio vicino a Giacometti, è tornato in Germania e alla caduta del Muro ha potuto ritrovare le sue opere «pri­gioniere » oltrecortina, ha amato l’Ita­lia dove ha vissuto gli ultimi vent’an­ni.
Genova gli dedica ora a Palazzo Ducale, in collaborazione con il Goe­the Institut — in occasione dei no­vant’anni del Bauhaus — la più com­pleta e ricca retrospettiva, una mo­stra (che si inaugura domani) che do­cumenta la vita e l’arte di Hofmann in ogni sua tappa. Più di quattrocen­to opere, riunite per la prima volta e in parte inedite, dai primi passi al Bauhaus di Dessau, dove arrivò fre­sco studente del Politecnico di Stoc­carda infiammato dagli ideali di quel­la scuola che rivoluzionava il concet­to di Arte, fino ai quadri degli ultimi anni ispirati dalla luce della Riviera Ligure. In Riviera, in una grande casa nel centro storico di Pompeiana, con una terrazza sul mare e gli ulivi, Hof­mann ha lavorato e vissuto con la moglie Marianne.
Otto Hofmann. La Poetica del Bahuau s è un titolo semplice per una mostra complessa, un titolo che con poco dice molto: la Poetica — lo spirito, e una tensione etica che lo porterà a scontrarsi con il nazismo prima e con il regime della Germania dell’Est poi, che avrebbe gradito me­no astrattismo e più realismo sociali­sta — percorre tutta l’opera di Hof­mann.
Fra Giovanni Battista Martini, ge­novese e curatore della mostra del Ducale (e di altre in Germania, nella culla del Bauhaus), e l’artista è nata negli anni un’amicizia. Molto può es­sere raccontato, ma Martini ha nel cuore soprattutto un episodio: «La mia emozione più forte — racconta — è quando Hofmann mi ha conse­gnato la scatola in cui conservava le lettere che aveva inviato alla moglie e agli amici dal fronte, dalla campa­gna di Russia. In quella scatola c’era una pesante parte della sua vita, del­la sua arte, della sua sofferenza e del­le sue speranze, riceverla dalle sue mani mi ha veramente colpito». Nel­le lettere — esposte in una delle sale — Hofmann non ha solo dato parole al suo pensiero ma ha ritagliato uno spazio per il suo primo linguaggio dell’anima, la pittura, tracciando pic­coli acquarelli, grazie ai colori che gli spediva al fronte un amico pittore. Alle lettere si aggiungono almeno cinquanta fotografie di guerra scatta­te da Hofmann con l’occhio di un ar­tista del Bauhaus e di un uomo che odiava quel massacro in una terra, la Russia, patria dell’amico Kandinskij. Anche le foto fanno parte dell’esposi­zione che dedica alle testimonianze dalla Russia un’intera sezione.
Così come è documentata l’attivi­tà di Hofmann nel design, dalla cera­mica ai tessuti. L’artista ha firmato note collezioni di porcellane e cera­miche di Rosenthal e Hutschenreu­ther e ha creato tappezzerie destina­te in particolare al mercato Usa: que­ste sono state riprodotte dai disegni originali conservati nello studio ligu­re, in bianco e nero, poiché non è sta­to possibile recuperare le scale cro­matiche.
«Quello che mi ha sempre colpito di Hofmann — dice Martini — è la sua coerenza, il modo in cui non ha mai perso se stesso e la sua strada ini­ziata al Bauhaus, da quando nel 1933 il nazismo dichiarò la sua arte dege­nerata e gli proibì di dipingere a quando rientrò dalla Svizzera in Ger­mania per amore, per sposarsi, e fu inviato al fronte, fino agli anni ’50, e davanti a ogni rivolgimento che riser­vasse la Storia sul suo cammino. È stato uno spirito libero».
L’astrattismo di Hofmann — che ebbe come maestri Klee e Kandinskij — non è mai freddo ma sempre in bilico, tra «ragione e sentimento», e non è un caso che sia stata la luce par­ticolare del Ponente ligure, amata da tanti artisti, ad averlo infine fermato nel suo pellegrinaggio da artista.

La Repubblica 15.10.09
Intervista ad Angelo Bonelli: "La lezione è servita ci vuole il nuovo Ulivo"


I verdi ricominciano daccapo. Hanno scelto a scrutinio segreto e con un risultato che ha sovvertito il pronostico della vigilia (la favorita era Loredana De Petris, candidata dal presidente uscente Grazia Francescato) di affidare al mite Angelo Bonelli la guida del partito.
In questi due anni è dimagrito molto il Sole che ride.
«Quasi quanto me. Ho perso infatti quindici chili».
La forma si ritrova allora lontano dal Palazzo?
«Il Palazzo spesso ti rende immobile e inconsapevole delle aspettative, delle delusioni e delle speranze di chi è fuori e attende fatti concreti, visibili, certi».
È allora meglio essere lontani dal potere?
«Un ambientalista deve sempre puntare al governo del territorio. È una condizione imprescindibile, un luogo necessitato. Ma è altrettanto vero che il Potere desertifica l´anima, a volte disumanizza. Abbiamo capito la lezione. Cambiamo passo e postura e anche modo di agire in politica. Quando serve coraggiosi, e sempre liberi come delfini in mare aperto».
Ripartite per andare dove e con chi?
«Se col centrodestra è improponibile immaginare qualcosa, col Pd è decisivo chiarirsi. Non esiste più l´idea dell´autosufficienza. È l´ora di un nuovo Ulivo».
Avete pochi voti. Dunque, poca voce.
«I voti? Da qualche tempo non ci presentiamo e non li contiamo. Dovremo riprendere quest´abitudine».
Il nuovo Ulivo come dovrebbe essere?
«Un luogo in cui esiste una forza che raccolga tra gli altri gli ambientalisti del Pd, se decideranno di uscire da quel partito, insieme ai tanti (intellettuali, associazioni) che hanno bisogno di un nuovo riferimento. Sarà una forza essenziale la Costituente ecologista».
Sarà l´ennesimo cantiere nella sinistra?
«Per parte nostra punteremo a interloquire col mondo tumultuoso, disorientato ma vivo dei "grillini". Far capire che l´ecologia è il fondale dove si specchia la nostra anima».
Verdi e francescani.
«Dobbiamo ritornare a occupare una posizione centrale nel dibattito, non mischiarci tra le mille banderuole».
E avanzare come formichine operose...
«Dovremo emulare gli ambientalisti francesi. Il risultato straordinario della loro ripresa elettorale è segno che le nostre battaglie sono dentro la società».

mercoledì 14 ottobre 2009

Corriere della Sera 14.10.09
L’ex leader di Potere operaio sulla rivista della fondazione di D’Alema e Amato
E Toni Negri scrive per «ItalianiEuropei»


ROMA — ( al.t. ) È il primo intervento della rivista, si intitola «Sul futuro delle socialdemocrazie europee» e lo firma Antonio Negri ( foto ). Debutta così su ItalianiEuropei il discusso fondatore di Potere Operaio, che dopo le vicissitudini degli anni ’70 e gli arresti, è diventato un intellettuale noto grazie ai saggi sulla globalizzazione «Impero» e «Moltitudine». «Ho letto sei mesi fa una articolo sul New Yorke r — spiega il direttore della rivista Massimo Bray — e ho pensato che sarebbe stato utile un suo contributo nel dibattito sulla socialdemocrazia». D’Alema e Amato lo sapevano? «Abbiamo una nostra autonomia editoriale» risponde Bray. E Roberto Gualtieri, che fa parte comitato della rivista: «Ospitarlo non vuole dire riabilitarlo o condividere quello che scrive. Però sono d’accordo sul fatto che il deficit di Europa sia una delle cause della crisi della socialdemocrazia». Negri, nel saggio, sostiene che è stato un errore grave non aver rotto il vincolo atlantico. Spiega anche: «Sarà utile programmare uno scontro sul terreno sociale (dal punto di vista politico)». E ricorda che senza il luglio 1960, i moti contro Tambroni, «le socialdemocrazie non si sarebbero mai risollevate dall’aprile del ’48».

l’Unità 14.10.09
VERSO IL 17
«Dall’Italia all’Irlanda, si diffonde l’epidemia dei migranti-schiavi»
L’allarme Osce: è un fenomeno ormai globale quello dello sfruttamento degli immigrati, sempre più sottomessi ai loro “caporali”. Per combatterlo occorre una legge. Che nel nostro Paese ancora non c’è
di Alessandro Leogrande


Alcuni settori della nostra economia globale si fondano ormai sul lavoro di nuovi schiavi. E un recente rapporto dell'Osce sul “lavoro forzato” nel settore agricolo (Human Trafficking for Labour Exploitation in the Agricultural Sector in the Osce Region) lo conferma. Le nuove schiavitù nascono dall'incrocio di vari fattori: vulnerabilità dei lavoratori migranti (che costituiscono in ogni paese dell'Osce, anche in quelli meno ricchi, la base del nuovo bracciantato), brutalità dei rapporti di lavoro, assenza di tutele, bassi salari. Ma benché nasca da queste premesse, il “lavoro forzato” costituisce un salto ulteriore verso l'inferno, una tipologia di sfruttamento che le legislazioni di molti paesi fanno fatica a cogliere, e quindi a combattere: riguarda tutti quei casi in cui al grave sfruttamento lavorativo si aggiunge il controllo feroce sulla nuda vita da parte dei caporali o dei padroni. In Italia, le pesanti condanne
emesse contro 20 caporali del foggiano, che avevano sfruttato centinaia di schiavi polacchi, sono state confermate in secondo grado. Ma il fenomeno è globale, non riguarda solo il nostro paese. Il rapporto Osce racconta di decine di casi simili: rom greci in Inghilterra, giamaicani in New Hampshire o messicani in South Carolina, estoni in Irlanda, romeni in Belgio, uzbeki in Russia, lituani in Portogallo... In tutti i casi riportati, i braccianti stranieri lavoravano a centinaia dall'alba al tramonto quasi sempre senza essere pagati, vivevano a decine in pochi metri quadri e in condizioni igienico-sanitarie degradanti, venivano severamente puniti, picchiati (e in alcuni casi eliminati) ogni qualvolta protestavano. Scappare era impossibile. Il rapporto introduce il concetto di multidipendenza (“multiple dependency”) per descrivere situazioni in cui il lavoratore dipende dal suo sfruttatore per più aspetti essenziali. Non solo il lavoro, ma anche l'alloggio, il cibo, il trasporto.
Queste forme, dice l'Osce, sono epidemiche. E poiché producono – per dirla con un eufemismo – una concorrenza sleale, rischiano di estendersi ulteriormente a macchia d'olio. Sono un fenomeno che nasce nell'agricoltura (benché non riguarda tutto il settore agricolo) e che riguarda gli immigrati (benché non tutti gli immigrati che lavorano in nero siano ridotti in schiavitù). Per combatterle occorre un'azione composita: processi contro i trafficanti e i caporali, tutela delle vittime e reintegrazione sociale, nuove forme di associazioni tra i lavoratori. Alcuni paesi (come il Belgio, l'Olanda e gli Stati Uniti) hanno deciso di inasprire le leggi contro il lavoro forzato e per la tutela delle vittime. In Italia, una legge sul caporalato non è stata ancora fatta, e l'art. 18 della 286 non viene ancora esteso pienamente agli “schiavi da lavoro”. La magistratura nostrana, per condannare i caporali, è ricorsa al reato di riduzione in schiavitù. Ma questo rende i processi più difficili.
Una recente inchiesta curata da Gianluigi De Vito (Tutti giù per terre, Levante editori) conferma come in Puglia, nonostante le maggiori attenzioni contro il caporalato e la legge regionale per l'emersione del lavoro nero, lo sfruttamento del lavoro migrante è ancora la regola. Ci sono (ancora) rumeni ridotti in schiavitù, marocchini che pagano 6.000 euro per avere un permesso di soggiorno dagli stessi padroni da cui percepiscono, se va bene, meno di 20 euro al giorno. E migliaia di casi in cui, quanto meno, non viene applicato alcun contratto.
La Bossi-Fini, che lega rigidamente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, nel mondo nero dell' agricoltura è uno straordinario produttore di clandestinità. Con il nuovo pacchetto sicurezza, la vulnerabilità del lavoratore “clandestino” è accresciuta: chi denuncerebbe mai il proprio caporale, se corre il rischio di finire per 6 mesi in un cie? Lo sfruttamento riguarda anche i comunitari, specie se stagionali. L'economia di Canosa, ad esempio, paesone agricolo pugliese, si fonda sullo sfruttamento dei bulgari e dei romeni. E la piazza centrale restituisce l'apartheid di fatto. I romeni e i bulgari da una parte, gli italiani dall'altra: questo per fare in modo che il datore di lavoro possa sapere subito come comprare manodopera a basso costo. ❖

l’Unità 14.10.09
Zero in laicità è il voto che le dà Donatella Poretti. Dieci, invece, in clericalismo bigotto
Gli studenti «L’ora di religione è un residuo medievale, già oggi chi non la fa è discriminato
Gelmini: mettiamo il voto in religione Pd: è propaganda contro lo stato laico La Consulta ha già stabilito che è un insegnamento facoltativo. E, con il ministro Carfagna vuole vietare il velo, «per identificare le ragazze». Il collega Pdl Consolo: «Si impegnino contro le mutilazioni femminili»
di Jolanda Bufalini


Visto che alla Gelmini piacciono tanto i voti «le diamo zero in laicità e dieci in clericalismo bigotto e baciapile». La battuta è della senatrice radicale-Pd Donatella Poretti. Il ministro infatti se ne è uscita con un’altra spallata all’impianto della scuola pubblica che dovrebbe garantire l’eguaglianza delle diverse religioni o dei non credenti. Ed ha annunciato la reintroduzione del voto in religione: «La mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l'insegnamento della religione», Poi ha messo le mani avanti: «Chiederò un parere al consiglio di Stato».
Ma non si vede perché rendere uniforme in pagella ciò che non è uniforme nel merito, visto che l’ora di religione è facoltativa in forza di quel trattato internazionale che va sotto il nome di Concordato, articolo 9, comma 2: «Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento... senza dar luogo ad alcuna forma di discriminazione». E quindi non può fare media.
Quasi incredule le reazioni. «Cosa fa propaganda?» chiedono dal Pd Manuela Ghizzoni e Maria Coscia, oppure, ipotizzano, «non sa di cosa parla»: c’è una sentenza recente della Corte Costituzionale che «ha già stabilito il principio di facoltatio, nel rispetto della laicità dello Stato e della pari dignità ai ragazzi di ogni culto». «L'ora di religione spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi e, quindi, non può essere valutata come una normale materia curriculare». Pantaleo e il collega della Cisl Francesco Scrima ne approfittano per ricordare che i pesanti tagli hanno falcidiato le ore alternative. Per Scrima, però, «tutto ciò che si fa a scuola, opzionale o obbligatorio, deve fare parte del curricolo e «devono essere garantite alternative altrettanto significative e valide».
DISCRIMINAZIONI
A denunciare che già oggi c’è un atteggiamento discriminatorio sono gli studenti della Rete. L’ora di religione dicono «è un residuo medievale che ha corrispettivi solo nei regimi teocratici» e «va risolto il trattamento già oggi discriminatorio riservato a chi non si avvale dell'ora di religione». Altrettanto duro il responsabile Pdci della scuola Piergiorgio Bergonzi: «Si ricordi di essere un ministro della Repubblica e non un portavoce dell Stato Vaticano, l’ora di religione non dovrebbe proprio esistere».
Ma non è finita qui, perché il ministro ha pure espresso la propra contrarietà non solo al burqa ma anche al velo e al chador a scuola. Non in nome della libertà delle ragazze ma perché «devono poter essere identificate». Per la verità solo il burqa impedisce di vedere il volto. Dice Luca De Zolt della Rete degli studenti: «Sono modi xenofobi» mentre a scuola «non si fa nulla per l’integrazione».❖

Repubblica 14.10.09
Tarquinio Prisco. Ecco la tomba degli antenati etruschi del re di Roma
di Orazio La Rocca


Ritrovato a Tarquinia un grande complesso funerario che apparteneva ad una famiglia regale romana A questa era legato anche il padre del sovrano, un ricco mercante che sarebbe stato sepolto in questa zona
"Questo sepolcro si è rivelato come la più grande struttura a tumulo finora nota in queste zone"

ROMA. Scoperta a Tarquinia la più grande tomba etrusca a tumulo risalente al settimo secolo avanti Cristo. Un complesso sepolcrale di epoca preromana, per tratti, caratteri e stili architettonici, appartenente ad una importante famiglia regale alla quale, secondo i responsabili degli scavi archeologici, molto probabilmente era legato anche uno dei sette re di Roma, Tarquinio Prisco. Ma a rendere ancora più originale questo nuovo sito funerario etrusco è la sorprendente somiglianza che è emersa tra la struttura tombale tarquinense e altre tombe reali caratterizzate da influssi stilistici orientali rinvenute nell´isola di Cipro e, persino, in Bulgaria, nell´antica Tracia, tutte databili intorno all´ottavo-settimo secolo a. C.
L´annuncio è stato dato nel corso del convegno internazionale di etruscologia di Tarquinia, «Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia», coordinato dalla scrittrice Anna Maria Turi. Presenti, tra gli altri, il massimo esperto di etruscologia, Mario Torelli, docente dell´università di Perugia, la professoressa Julia Valeva dell´Accademia delle Scienze bulgara, il professor Alessandro Mandolesi, dell´Università di Torino ed un nutrito gruppo di archeologi e studiosi provenienti da diverse università europee. E´ stato proprio Mandolesi a rivelare le ultime novità degli scavi di Tarquinia nella veste di responsabile dei lavori alla Doganaccia, l´area ha spiegato dove «è stato individuato un sepolcreto antichissimo appartenente ai principi o re di Tarquinia del settimo secolo a. C». Vale a dire proprio l´epoca in cui, «le antiche fonti citano la presenza a Tarquinia di importanti personaggi stranieri, tra cui il padre di Tarquinio Prisco, un ricco mercante greco, Demorato di Corinto che sposò una nobile del posto», che non è da escludere ebbe sepoltura con la famiglia proprio nel sepolcreto reale della Doganaccia. E forse proprio per questo nell´area ci sono 2 grandi complessi funerari denominati «Tumulo del Re» e «Tumulo della Regina». Il primo complesso, quello del Re, fu riportato alla luce con gli scavi del 1928. Quello della Regina è attualmente al vaglio degli scavi dell´Università di Torino e della Sovrintendenza per i Beni archeologici dell´Etruria Meridionale. «Questo sepolcro a detta di Mandolesi si è rivelato come la più grande struttura a tumulo di Tarquinia finora nota». La monumentale tomba ha conservato «nella parte anteriore un largo accesso per le celebrazioni e gli spettacoli in omaggio al nobile defunto». Gli scavi è stato rivelato al convegno internazionale di Tarquinia hanno riportato alla luce una imponente struttura architettonica del diametro di circa 40 metri, certamente appartenuta «a un personaggio di spicco all´interno della comunità tarquinense, di rango aristocratico e di ruolo probabilmente regale, vicino alla figura dei re etruschi, detti lucumoni». Lo stile architettonico del sepolcro richiama «sorprendentemente la necropoli regale di Salamina, sull´isola di Cipro, dove assicura Mandolesi sono presenti tombe con ricchissimi arredi funebri confrontabili direttamente con quelle di Tarquinia». Ma vicino al grande Tumulo della Regina è stata scoperta anche una rarissima tomba a doppia camera che, a parere degli archeologi, era destinata ad ospitare coppie di persone imparentate con il principe o il re (lucumone) sepolto nella necropoli etrusca. Altro importante indizio che avvalorerebbe la suggestiva ipotesi che l´area sepolcrale abbia ospitato anche gli antenati del re Tarquinio Prisco. «Ma le indagini e le ricerche continuano», puntualizza l´etruscologo Mandolesi.

Repubblica 14.10.09
Hopper. Il volto nascosto di quei silenzi


In evidenza gli aspetti meno noti della sua opera, dalle incisioni agli acquerelli
Non c´è solo il cantore della solitudine e degli interni spogli e desolati
Una mostra a Palazzo Reale di Milano ribalta l´immagine più stereotipata del pittore americano
Senza memoria e immaginazione le sue opere restano intrappolate nel voyeurismo

MILANO. La mostra dedicata a Edward Hopper, a Palazzo Reale di Milano, ha il merito di liberare il pittore dall´immagine stereotipata. Non è colpa di Hopper se alcuni dei suoi quadri sono diventati materia di merchandising. L´esposizione evidenzia proprio gli aspetti meno conosciuti dell´opera del pittore: l´acquerello, l´incisione, e il legame tra i disegni preparatori e i dipinti. La genesi di Morning Sun sta tutta in uno straordinario trittico di disegni preparatori, Study for Morning Sun. Divisa in sette sezioni fortunatamente non in ordine cronologico l´esposizione segue un filo tematico che parte con gli autoritratti e il periodo parigino, per arrivare alla sezione dedicata all´essenza dell´artista: tempo, luogo e memoria.
Nyack ha settemila abitanti, dista quaranta chilometri da New York. Al numero 82 di North Broadway, c´è una casa singola ottocentesca, due piani più mansarda. Un cartello marrone ricorda che lì non lontano dai cantieri navali è nato Edward Hopper. Il giovane Hopper vedeva il fiume Hudson dalle finestre di casa. To make it home, direbbe il fotografo americano Robert Adams. Rendilo domestico. Ma gli Stati Uniti sono diventati l´opera di Hopper solo dopo alcuni lunghi viaggi in Francia, nel 1906 e nel 1909 («ai miei tempi dovevi andare a Parigi. Oggi puoi andare anche a Hoboken, va bene lo stesso»). Ritornato negli Stati Uniti, ha continuato nella direzione indicata da Robert Henri, ma ha rifiutato il carattere sociale della pittura del suo maestro. Ha dialogato con altre arti, così da assorbire e influenzare a sua volta la fotografia, il cinema. Chi ha vissuto a Parigi all´inizio del XX secolo e ha acquistato, come Hopper, una macchina fotografica, non può aver ignorato Eugene Atget; chi ha dipinto Gas nel 1940, le pompe americane di benzina, conosceva bene il lavoro di Walker Evans; così come è chiara l´influenza del pittore su generazioni di artisti, fotografi, registi, scrittori: «Le mie costanti sono l´amore per la luce e la decisione di tracciare una catena morale dell´essere». Sembra Hopper, invece è John Cheever.
Hopper ha fatto quello che doveva. Sta a noi superare la barriera della mercificazione, e vedere Hopper. Nell´attraversare le 160 opere esposte ci si sente come in uno dei primi film di Wenders, quando il protagonista di Falso movimento rompe con un pugno la finestra dalla quale guarda una piazza. Vedere è sempre un momento conoscitivo perfino violento, senza compromessi, in cui siamo disposti anche a perdere qualcosa, non solo ad assimilare.
Dovremmo, almeno per un istante, accantonare l´Hopper ufficiale: il cantore del silenzio, della solitudine in interni spogli dimessi, verande assolate, desolate; il cantore dell´alienazione cittadina e suburbana meglio ancora se il suburbano è illuminato dalla luce peninsulare e marina di Cape Cod; il cantore delle piccole cose, delle tavole calde, degli uffici, dei teatri, dei cinema, dei letti sfatti, dei dettagli insignificanti, epici grazie al colore, al taglio di ombra e luce. Hopper non dimentica cosa ci ha condotto là: il fervore vitale e distruttivo, il capitalismo così necessario e capace di rigenerarsi attraverso due guerre mondiali e crisi economiche decennali.
Ecco allora nei quadri la conquista del territorio come parte integrante di un´era: le merci su pescherecci e battelli (l´Hudson d´infanzia); i ponti d´acciaio, le ferrovie e le case lungo le ferrovie, i pali della luce, in legno, topos di tanta fotografia americana; i bovini che attraversano i binari; una strana per l´Hopper più noto moltitudine in attesa, alla stazione ferroviaria. E poi il mare, che quasi mai entra nei quadri di Hopper, se non lateralmente, tipo in Rooms by the sea, dove un appartamento è sospeso sull´acqua, la porta aperta proprio a picco sull´Atlantico: eppure il mare mimetizzato nei quadri attraverso la luce è qualcosa che sta intorno, sembra il punto di vista, la fonte della pittura, così che ogni quadro, anche quello di una stanzetta newyorkese, pare l´approdo dall´acqua alla terra. I personaggi di Hopper sono su una soglia, delimitata da spazi fisici, mentali, definiti da tagli di luce sui muri, in uno stato quasi di ipnosi.
In A woman in the sun, una donna, nuda, in piedi, con la sigaretta accesa, guarda verso la fonte di luce ed è incorniciata da una striscia sottile di sole. I nudi di Hopper non rimandano all´odierna essenza pubblicitaria dei corpi. Forse una delle fortune di Hopper, in questi anni, si è basata su un equivoco: la sensazione di guardare in modo indiscreto qualcuno che non immagina di essere guardato. Ma senza il lavoro di osservazione, immaginazione e memoria, le opere di Hopper rimarrebbero intrappolate nel voyeurismo dilettantesco o pubblicitario. E poi c´è una distrazione nella nudità, che toglie al corpo ogni sottinteso. L´ossessione del particolare, l´intelligenza del dettaglio produce «una deformazione che sembra vera, non una verità che sembra deformata», aveva detto il pittore a proposito di John Sloan. Sotto il letto di A woman in the sun, c´è un paio di scarpe nere con il tacco. La scarpa sinistra è rovesciata su un lato, mostra la suola e comunica il movimento, qualcosa che è appena accaduto, un tonfo lieve, anonimo.
Ecco, se il rumore di una strada cittadina è la somma di tanti suoni: le rotaie scintillanti del tram, l´imprecazione di un uomo che scarica uno scatolone, la sgommata di un alienato, il vento o il tintinnio della pioggia, la musica commerciale di un bar, il ritmo dolente e tragico con cui le tazzine vengono servite sui banconi, il modo scomposto con cui i cucchiaini affondano nel caffè e ruotano, fino alla pazzia e alla grazia, quando tornano nelle lavastoviglie; se il rumore è questo insieme di suoni, e di tutto il nostro attraversare collettivo per quanto disperso, disciolto nell´individuo allora anche la quiete solitaria, silenziosa, può avere un´origine simile. La tranquillità del mondo, di Hopper, la nostra quiete, è custodita nella gigantesca concatenazione di quiete e silenzio di ciascuno: in questa concatenazione collimano la nostra salvezza, e condanna: non essere mai veramente quieti, e soli.

Liberazione 13.10.09
Verdi, Bonelli nuovo segretario
Ha vinto l'ousider "identitario"
di Enrico Colorni



Era entrato a congresso da sconfitto. Sui giornali - quei pochi che si erano occupati della cosa - veniva descritto come un identitario: un poveraccio, insomma. Magari "mite", ma duro e puro, cioè "fuori tempo massimo". Votato alla sconfitta, e per definizione. Qualcuno gli aveva anche detto: senti, caro, sai che c'è? Lascia perdere. Passa la mano. Non è più il tempo per vetusti "richiami della foresta", identità "vetero", tematiche "definite". Oggi come oggi, urge essere "moderni" (anzi, meglio: contemporanei), necessita dimostrarsi "liberi" e "liberati", scevri da condizionamenti (i quali, chissà come mai, son sempre "ideologici"). Insomma, il tempo è adesso. Molla gli ormeggi, salpa con noi, nella fantastica, meravigliosa, nave che punta dritto per dritto al futuro. Alla modernità. Per costruire una Sinistra che sarà, ça va sans dire , "senza aggettivi". "Moderna", appunto. Lui, però, testardo e coriaceo, con quel suo carattere scontroso, quell'aria da valligiano di montagna, neanche vestito à la page come sarebbe d'uopo, non ha proprio voluto ascoltarli. Ha tirato dritto, sulla sua strada. Strada che, guarda caso, era anche di molti di quelli che l'avevano votato, nei congressi di circolo, pur senza avere la maggioranza assoluta dei voti, e pure di quelli "trovati" dentro il congresso. Da lui convinti e richiamati all'orgoglio - che male c'è? - di partito. E galvanizzati a tal punto che hanno deciso di offrire a lui, "dentro" il congresso, e cioè nell'organo deputato, da quando mondo è mondo (con l'eccezione del Pd di adesso, ma il Pd, si sa, è animale strano), a decidere "chi" deve fare il segretario, la maggioranza. E la vittoria. Lasciando, con un palmo di naso, tutti gli altri. Quelli che godevano del supporto organizzato - e organizzato come in uno stadio, settore curva Sud - dei commenti della stampa cd. "borghese"? I quali, silenti, e attoniti, poveretti, subito dopo aver preso la sonora batosta, però, dopo il primo momento di sconforto personale misto a disprezzo verso quei "poveretti" che non ne hanno voluto intendere lo slancio ideale, subito tornavano, come se proprio nulla fosse successo, a dire, anzi a chiedere (anzi: a pretendere) che il cammino così repentinamente interrotto (forse causa il destino, "cinico e baro" di suo, come si sa) riprendesse con nuova e rinnovata lena verso il loro - particolarissimo - "sol dell'avvenire".
Ecco, si diranno i nostri venticinque lettori: Liberazione , dopo che è passato più di un anno, quasi un anno e mezzo, si mette a tessere le lodi - e a "imbrodare" - Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione comunista. No, a dire la verità parlavamo - e parliamo - di Angelo Bonelli "il mite", e cioè dell'ex capogruppo alla Camera dei Verdi, laziale doc, che ha vinto - a onta e disdoro di tutti i pronostici che si accavallavano, negli ultimi mesi, più che settimane e giorni - la contesa a successore di Grazia Francescato, e contro Loredana De Petris, candidata alla segreteria di quest'ultima (cioè della Francescato medesima) nel congresso "federale" di Fiuggi, congresso che si è svolto lo scorso fine settimana, dal 9 all'11 ottobre, tra spintoni, urla, sventolii di bandiere, molto discutere e dibattere, qualche clamore …
I Verdi sono, appunto, un partito "federale" - oltre che, ad oggi, il simbolo più "vecchio" presente sulle schede elettorali d'Italia, visto che si sono presentati la prima volta nel 1987, ai tempi della Prima Repubblica - e cioè un partito che offre (e chiede) molte garanzie e garantisce molti diritti, ai "territori". Un partito strutturato, nel suo piccolo. Si chiama, invece, Loredana De Petris, ed è, appunto, una donna - come la Francescato, di cui è la pupilla, oltre che un'ex senatrice - la candidata che avrebbe dovuto guidare i Verdi allo scioglimento (definitivo) dentro S&L. La De Petris era fortemente voluta non solo dalla Francescato, ma da tutta quell'area dei Verdi che - ex onorevole Paolo Cento "Er Piotta", in testa - non vedeva l'ora di sciogliersi. Come neve fresca, libera e giovane, s'intende, ma sciogliersi. Subito, presto, prestissimo: il "cantiere" della Nuova Sinistra Unita (Sinistra e Libertà, appunto) non poteva (né può?) aspettare. Beh, che dire? Toccherà che aspetti. Almeno un pochino, ecco. Infatti, ha vinto Bonelli. Ribaltando tutti i pronostici della vigilia, certo. Raccogliendo la maggioranza dei voti non "prima" del congresso (non aveva neppure quella relativa …), ma "durante" il congresso (anche qui: se la democrazia collegiale ha un senso, oltre che una storia, che male c'è?), certo. Alleandosi da subito con alcuni storici "senatori" del partito, come l'ex senatore (e antico ex leader di Lotta Continua) Marco Boato, veneto, certo. E, infine, con la terza mozione che pure s'è presentata al congresso, quella dei Verdi-Verdi (pure loro? Sì, pure loro …) diffusi sul territorio, specialmente in due "regioni-chiave" (per i Verdi ma mica solo per loro) come la Campania e il Lazio. Mozione capeggiata da due "giovinotti", Gianluca Carrabs e Francesco Borrelli, entrambi napoletani ed entrambi, a dir la verità, sospettati dai più di essere, "nel" congresso, la longa manus del "convitato di pietra" di ogni congresso dei Verdi dall'inizio degli anni Duemila ad oggi. E cioè dell'ex ministro (Agricoltura prima, Ambiente poi) Alfonso Pecoraro Scanio. Com'è, come non è, Bonelli ha chiamato "banco" ed ha tirato fuori l'asso, facendo poker, anche se i suoi competitor erano già ebbri, forti del loro full. E, appunto, è stato eletto lui, segretario.
Ora, o' mutos delòi (viene dal greco e vuol dire: "la favola dimostra che") dimostra che se hai un programma chiaro, serio, ben convincente e se la "tua" identità la rivendichi, invece di vergognartene, finisce che convinci. E, alla fine, vinci. Il fatto è un male, ci si chiede? Sì, certo, per alcuni sì. E cosa dovrebbe fare chi vede in ciò un male indicibile, neppure necessario? Formare un nuovo partito, ovvio. Dall'identità light, però, talmente light che se ne perdono confini, mappe, idee e ideali. Ecco, per far quello, però, ci permettiamo - sempre molto sommessamente di dire - la "casa" è già bella che pronta. Si chiama il Pd. Ha braccia larghe. E pronte ad accogliere chicchessia. Alcuni verdi - tipo quelli lombardi, dai consiglieri regionali Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro fino a quello milanese, Maurizio Baruffi - l'hanno capito così bene che proprio nel Pd finiranno. Gli altri, vecchi e identitari, vorrebbero solo fare i Verdi. Non è un peccato capitale.

Europa 14.10.09
Sinistra e Libertà, tutti appesi a Nencini
di Gianni Del Vecchio


Nessuno l’avrebbe detto qualche tempo fa. Eppure è così: il futuro del progetto di Sinistra e libertà è tutto nelle mani di Riccardo Nencini, segretario dei socialisti.
Per capire il perché bisogna fare un passo indietro e partire da quello che è successo sabato sera a Fiuggi, al congresso dei Verdi. Lì la favorita della vigilia, Loredana De Petris, è stata sconfitta a sorpresa da Angelo Bonelli. Ha perso la mozione che vedeva un futuro ecologista nella costituzione di Sinistra e libertà dopo le prossime regionali mentre è stata premiata la linea più identitaria e autonomista dell’ex capogruppo alla camera.
Un vero dramma per Vendola e compagni, che si sono visti sfilare in un attimo uno dei soggetti fondatori nonché un bel pezzo di quel 3,1 per cento preso alle ultime europee.
Tanto da costringere il governatore pugliese ad accelerare e chiedere il congresso anticipato, da fare possibilmente a dicembre invece che dopo le regionali, come pattuito all’assemblea nazionale di Bagnoli un mese fa. Ma l’accelerazione non è stata presa bene da tutti. In particolare da Nencini, che da New York, dove è in missione, ha fatto sapere di non essere d’accordo. Il leader dei socialisti ritiene che non è precipitando i tempi che si possono risolvere i mali antichi della sinistra italiana. Secondo lui, infatti, non ci sarebbero le condizioni per modificare un percorso già stabilito né tanto meno improvvisare un congresso su due piedi. Insomma, un niet deciso, che fa nascere più di un sospetto fra le fila dei vendoliani che i socialisti stiano cominciando a ripensare al percorso unitario.
Certamente il risultato del congresso verde rafforza tutta quell’area da sempre scettica della confluenza in Sl, che ha già prodotto la fuoriuscita di gente come Bobo Craxi e Saverio Zavettieri. E un’eventuale defezione del Psi sarebbe un colpo quasi mortale per il nuovo soggetto della sinistra. Infatti ciò che rimarrebbe sarebbe solo un gruppo di dirigenti perdenti, che hanno abbandonato il loro partito di origine a seguito di una battaglia congressuale finita male: gli ex Ds di Fava e Mussi, gli ex Prc di Vendola e Giordano, gli ex Pdci di Guidoni e Belillo, gli ex Verdi (forse) di Francescato e Cento. Non a caso tutti sperano ancora di convincere Nencini a fare il congresso anticipato.
Domani il segretario torna dall’America e ci sarà una riunione fra tutti i “costituenti” di Sl. Solo allora si capirà che aria tira. Anche perché c’è già chi fantastica nuovi inattesi ricongiungimenti. L’ex capogruppo alla camera di Rifondazione, Gennaro Migliore, in un’intervista a L’altro rispolvera «la necessità di un dialogo» con gli odiati fratellicoltelli di Lista comunista, Ferrero e Diliberto.
La vittoria di Bonelli però non è un affare che riguarda solo ciò che si muove a sinistra del Pd. La strategia dei nuovi Verdi è lanciare una costituente ecologista rivolta a tutti quelli che ci stanno, in maniera trasversale, da destra a sinistra.
Un occhio di riguardo però va a proprio al Partito democratico.
Ieri Bonelli ha lanciato un appello agli ecodem affinché escano dal Pd per costruire assieme un forte soggetto ambientalista. Prospettiva questa abbastanza velleitaria nel caso alle primarie venisse eletto Franceschini, appoggiato proprio da Realacci e gli altri. Ma se vincesse Bersani? Le sirene di Bonelli diverrebbero più suadenti? Intanto, della partita fanno parte anche i Radicali. Marco Pannella, il cui (non) intervento di Fiuggi è stato determinante per far pendere la bilancia a favore di Bonelli, ha ribadito «l’oggettiva identità comune fra il simbolo del Sole che ride e quello della non-violenza radicale».
Qualcosa di più di un semplice corteggiamento.

D di Repubblica sabato 10.10.09
La follia che ci abita
risponde Umberto Galimberti


Scrive Kant: "La ragione è un isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale"

Ennesimo dramma della follia: a Varese un uomo uccide la moglie e i due figli per poi togliersi la vita. A parte l'incremento esponenziale di drammi familiari pubblicati dai giornali, non posso fare a meno di notare un generale sproloquio medlatlco, una abuso linguistico e antropologico di termini quali follia, pazzia, tragedia.
Nella maggior parte dei casi di omicidio familiare sembra che non si riesca a trovare altro movente se non quello della pazzia: le madri come novelle Agavi euripidee, invasate da un perverso Dioniso, fanno fuori Pentei infanti, e così via in un grandguignolesco teatro della pazzia.
L'opinione pubblica sembra ripudiare l'idea che una madre, un padre, un familiare stretto possa ucciderne un altro con coscienza, preferendo attribuire il gesto a un non ben definito raptus di follia. Ma è davvero così? Perché ci si rifiuta di ammettere che l'omicidio cosciente e intenzionale può travalicare anche i confini della parentela, specie quando il parente è il proprio figlio o il proprio genitore?
Il grande Michel Foucault nel suo lo Pierre Riviere ... abbatte quella viscida patina di sacralità che pervade il concetto di "famiglia" mostrando come un essere umano possa uccidere un padre, una madre, una sorella, un fratello o perché no, tutti quanti assieme, con lucida cognizione del gesto, e in perfetta sanità mentale, senza che alcun Dioniso debba scomodarsi per invasarlo.
Sia concesso pure che nella fattispecie quel gesto, per quanto non giustificablle, concedeva numerose attenuanti e il giovane Riviere, considerato da tutti il classico "scemo del villaggio" giustificò il massacro del 1835 con l'intento di "liberare" il padre (così disse) dalle persecuzioni della moglie. Arrestato dopo un mese di latitanza, bollato di pazzia e condannato al carcere a vita, concluse la sua esistenza impiccandosi il 20 ottobre 1840. Durante gli anni di prigionia scrisse le sue memorie, fogli di carta che tradiscono i sentimenti di un uomo che tutto può essere definito, fuorché pazzo. Narrano invece di un uomo povero, schiacciato dal consorzio civile prima e dalle grandi istituzioni custodialistiche poi: in nome del primo aveva ucciso, in nome delle seconde si era tolto la vita.
E infine, che tragedie sono queste, dove i drammi satireschi a chiusura di sipario sono ridotti a siparietti da talk show con disgustosi plastici e sedicenti criminologi da dare in pasto a spettatori affamati che la catarsi non sanno nemmeno cosa sia. Cosa ne pensa, professore? Un saluto da un giovane studente nonché suo affezionato lettore!
Gherardo Fabretti

L'umanità ha sempre riferito tutto ciò che fuoriesce dall'ordine razionale a potenze superiori a cui attribuirne la responsabilità, forse allo scopo di salvaguardare la comunità dagli eccessi di violenza e garantirne l'ordinata convivenza, Valga per tutti l'esempio di Agamennone che, per rifarsi della perdita della propria concubina, sottrae ad Achille la sua, Quando si ravvede così si giustifica: "Ma io non ho colpa, bensì Zeus e il destino e le Erinni viaggiatrici nelle tenebre, essi che nell'assemblea mi gettarono nel senno un grande obnubilamento, quel giorno in cui tolsi ad Achille la sua schiava, Ma che potevo io fare? È un Dio che manda a termine tutte le cose", Non è una giustificazione di comodo perché Achille così risponde: "Conosco quanto tremende sono le rovine che gli dèi infliggono alle menti degli uomini, altrimenti mai Agamennone mi avrebbe sottratto la fanciulla" (lliade XIX, 86-137),
Con l'avvento della religione cristiana quanto i Greci riferivano agli dèi viene attribuito al diavolo, e perciò nascono le pratiche esorcistiche per liberare l'anima da tale possessione, Con la nascita della scienza moderna ci si congeda da demoni e dèi, per attribuire quanto di orribile gli uomini possono fare alla follia, Nozione non ben precisata, se è vero che ancora nell'Ottocento gli psichiatri, nel congedare i pazienti dai manicomi apponevano, accanto alla loro firma, la sigla "D.c." (Deo concedente), se il dio concede di abbandonare la mente di qust'uomo, non sarà più necessario un ricovero.
Siamo soliti ritenerci ragionevoli, dimenticando che la ragione è una piccolissima zattera su cui galleggiamo finché la furia delle onde non ia travolge, E allora è la follia e non la ragione il nostro habitat abituale, a cui l'umanità ha cercato di porre degli argini prima con i riti, poi con le religioni, infine con regole di convivenza, leggi, istituzioni, Finché queste strategie tengono, Basta infatti che le pratiche razionali si sospendano, C'ome nel sonno, o sotto l'effetto dell'alcol o della droga, che il teatro della follia, che costantemente ci abita, apre il suo sipario truce e abissale nelle forme della sua devastazione.