«Oggi tutti in piazza perché vogliamo vivere in un’Italia felice»
A Roma la manifestazione nazionale per dire no a razzismo e omofobia Contro la «cultura preistorica» di chi aggredisce le persone per il colore della pelle o solo perché le accusa di essere diverse. Per un paese migliore
di Igiaba Scego
Capello, sciarpa, guanti, la bandiera della pace e un ombrello. Le previsioni meteo minacciano pioggia. Ma non sarà certo questo a fermarmi. Il mio ombrello è verde quindi ci sta anche bene, ha il colore della speranza. È proprio la speranza (insieme a una sana voglia di cambiamento) che mi spinge verso la piazza. Questa di oggi non è solo una manifestazione contro il razzismo e l’omofobia, per me è soprattutto una manifestazione di persone che sono stufe di essere tristi nell'Italia disillusa che ci vogliono propinare in Tv e nei talk show urlanti. L'Italia non è il luna park dei reality, l'Italia per me è una realtà plurale che sogna e ama.
Io e tanti altri scenderemo in piazza per la nostra felicità, per la felicità di tutti coloro che amiamo e ameremo. L'idea di un'Italia preistorica, fobica, che non fa ricerca, che aggredisce persone per il colore della pelle o la religione, che non investe sulla cultura, che fa marcire i suoi monumenti storici (vedi Pompei), che taglia la scuola, che taglia i salari, che arricchisce solo i più ricchi, che ingrassa la mafia, a me non piace.
Manifesto per la felicità di tutti e per i bambini. La polemica sui bambini figli di migranti nelle scuole è un segno nefasto dei nostri tempi tristi. Bambini stranieri? Ma se molti sono nati in Italia, di quali stranieri stiamo parlando? E a quelli davvero venuti da fuori come fai ad insegnare la lingua se hanno tagliato tutti i fondiper l’italiano? Invece di potenziare la scuola, di dare una mano agli insegnanti che devono fronteggiare sfide sempre nuove, di istituire corsi di formazione, si fa la propaganda antistraniero perché è più facile aizzare la gente attanagliata dalla crisi e dai problemi.
Questo governo taglia le nostre vite, ci toglie ossigeno e ci fa respirare l'anidride carbonica dell'odio che non ci porterà tanto lontano.
L'Italia plurale, di italiani, migranti, figli di migranti è una sfida che il nostro paese deve vincere per essere nel futuro alla pari, competitivo ed europeo.
Dobbiamo creare un paese che investe sulla conoscenza reciproca, che crea servizi, che affronta le problematiche non con fatalismo ma con professionalità. La convivenza non è facile. Non è facile in una coppia che si ama, come non lo è in una città, in un paese. Ma chi soffia sul razzismo vuole solo vederci tristi, poveri e soli. Io non ci sto. Il razzismo è davvero una brutta storia come ho letto su una maglietta giorni fa. Questa volta non facciamoci fregare. ❖
l’Unità 17.10.09
Il Consiglio dei diritti umani approva il rapporto di Goldstone
Gerusalemme protesta, i palestinesi esultano: è la nostra rivincita
Guerra di Gaza Primo sì dell’Onu alla condanna di Israele e Hamas
di Umberto De Giovannangeli
Con 25 voti a favore, 6 contro tra cui l’Italia e 11 astenuti, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato il rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Israele si ribella, i palestinesi plaudono.
Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato ieri il rapporto Goldstone che accusa Israele e Hamas di aver commesso crimini di guerra nell'operazione «Piombo fuso» nella Striscia di Gaza. Dei 47 membri del Consiglio, 25 hanno votato a favore della risoluzione che critica Israele per non aver cooperato con la missione dell'Onu guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone che ha indagato sulla guerra, in 6 hanno votato contro Italia, Stati Uniti, Olanda, Ungheria, Slovacchia e Ungheria mentre 11 si sono astenuti.
ACCUSE RECIPROCHE
Con l'adozione della risoluzione, il Consiglio dei Diritti Umani passa «urgentemente» la questione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che potrebbe raccomandare il coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Durissima la reazione dello Stato ebraico. Il rapporto Goldstone è «iniquo» e incoraggia «le organizzazioni terroriste in tutto il mondo», denuncia una nota ufficiale del ministero degli Esteri israeliano. «L'adozione di questa risoluzione pregiudica tanto gli sforzi per proteggere i diritti umani secon-do il diritto internazionale, come gli sforzi per promuovere la pace in Medio Oriente», si legge ancora nella nota. «Israele conclude il comunicato del ministero degli Esteri di Gerusalemme continuerà ad esercitare il suo diritto all'autodifesa e a prendere le azioni necessarie per proteggere la vita dei suoi cittadini». Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite «affosserà» la decisione della Commissione Diritti Umani dell'Onu sul Rapporto Goldstone: ne è certo Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele a Roma e portavoce del governo di Gerusalemme che spiega: «Non siamo sorpresi afferma in questa commissione c'è una maggioranza di Paesi contro Israele, molti Paesi hanno votato contro, come l'Italia, o si sono astenuti. E così hanno fatto tutti i Paesi democratici. Da questo punto di vista è una vittoria israeliana. Ora il testo andrà al Consiglio di Sicurezza e sono sicuro che gli amici di Israele useranno il diritto di veto per affossare questa decisione. Il voto di oggi (ieri, ndr) è solo l'ennesima manifestazione d'odio nei confronti di Israele da parte di questa commissione che più volte si è distinta per un atteggiamento anti-israeliano».
L’ANP SODDISFATTA
Di segno opposto la reazione palestinese. «La decisione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu di adottare il rapporto Goldstone è una rivincita del popolo palestinese», commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La decisione del Consiglio, prosegue il portavoce dell'Anp «dimostra il sostegno internazionale alla causa palestinese» ed è un gesto di «incoraggiamento da parte comunità internazionale per rafforzare la fiducia popolo palestinese nella giustizia e nei diritti». Infine, per Rudeineh, si tratta di un «precedente che può aiutare il popolo palestinese a difendersi da qualsiasi attacco futuro da parte di Israele». Ora, gli fa eco Yasser Abed Rabbo, segretario del comitato esecutivo dell’Olp, «è bene che il rapporto sia discusso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Da Gaza parla Hamas: «Ci auguriamo che il voto di Ginevra costituisca il primo passo per arrivare a processare i criminali di guerra israeliani», dichiara Fawzi Barhum, portavoce del movimento integralista palestinese.❖
Corriere della Sera 17.10.09
Consiglio per i diritti umani Accuse a Israele per l’operazione «Piombo fuso» e ad Hamas
L’Onu: «crimini di guerra» a Gaza
Approvato il rapporto Goldstone. Usa e Italia votano contro
di Francesco Battistini
GERUSALEMME — Criminale di guerra. E contro l'umanità. Per avere fatto un uso sproporzionato della forza. Per le violenze a Gerusalemme Est. E aver inflitto una punizione collettiva ai palestinesi di Gaza.
Venticinque palline bianche impallinano Israele, al Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Venticinque sì che adottano le 575 pagine del Rapporto Goldstone e, dopo nove mesi, mettono al mondo la prima sentenza su quei 22 giorni di bombe dell'operazione Piombo Fuso: «Una grave violazione del diritto umanitario internazionale».
Il pronunciamento, del tutto scontato, stabilisce che i 10 mila documenti allegati, le 1.200 foto, le 200 interviste, i cinque mesi d'indagine del giudice sudafricano Richard Goldstone e dei suoi collaboratori, un'inglese, un irlandese e una pakistana, tutto questo è credibile. E dice che Israele deve presentare una sua inchiesta altrettanto credibile, entro sei mesi. Altrimenti, il Consiglio di sicurezza discuterà d'un vero processo internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità.
Il Rapporto per la verità contiene accuse anche a Hamas, per le violazioni dei diritti nella Striscia, l'uso di scudi umani e gli oltre 10 mila razzi Qassam lanciati in dieci anni sulle città del Sud israeliano. Ma di questo, la sessione ginevrina dell'Onu s'è occupata solo a margine: il documento d’azione punta il dito soprattutto sui 1.300 morti della guerra, indicando per Hamas un generico obbligo d'indagare. Lo stesso Goldstone, che è d'origine ebraica e ha ricevuto violenti attacchi dalla destra israeliana, se n'è lamentato: «Questa risoluzione mi rattrista: si riferisce solo alle accuse contro Israele. Non c'è una frase che condanni Hamas, com'è invece nel mio rapporto».
Giustizia è quasi fatta, esultano i palestinesi: «L'importante è che queste parole si traducano in maggior sicurezza per noi» (Nabil Abu Rdeneh, portavoce di Abu Mazen); «speriamo che questo voto porti a un processo degli occupanti sionisti» (Taher Al Nounou, Hamas). È un premio al terrorismo mondiale e una minaccia al processo di pace, avverte il governo Netanyahu: «L'esercito israeliano ha usato i guanti di velluto sui civili di Gaza» (Eli Yishai, ministro dell'Interno); «Chi ha votato sì sappia che la prossima volta toccherà alla Nato in Afghanistan o ai russi in Cecenia».
Numeri e dichiarazioni non spiegano ogni cosa, però. Innanzi tutto perché Netanyahu temeva un risultato peggiore: le febbrili consultazioni degli ultimi giorni hanno evitato che ai 25 scontati sì di Cina e Russia, Paesi arabi e islamici, s'aggiungessero anche i voti di tutta l'Unione europea, del Giappone, della Sud Corea. Invece, oltre ai 6 no traghettati da Stati Uniti e Italia, sono spuntate 11 astensioni, e pure da Paesi tradizionalmente antisraeliani come Norvegia o Belgio.
«Che si schierassero contro di noi Djibuti o il Bangladesh — confida l'ambasciatore israeliano a Ginevra, Aharo Leshno-Yaar —, lo sapevamo. La nostra paura era che si schierassero anche gli altri ». Non è accaduto. O meglio, non in misura massiccia. Un po' perché solo gli Usa avevano criticato apertamente il Rapporto, ma solo Londra l'aveva difeso. Un po' perché la stessa Autorità palestinese aveva spinto per un rinvio del voto (c'è in ballo il processo di pace e la mediazione di Obama), salvo ripensarci per le proteste di piazza. E poi perché a Ginevra sapevano benissimo tutti che questo voto non porta a granché: in Consiglio di sicurezza, basterà il veto Usa a farlo rimanere un'impallinata a salve, o poco più.
«È vero, sono solo 25 palline — dice Ahmed Tibi, deputato arabo della Knesset —. Ma servono a contare il nostro onore».
Repubblica 17.10.09
Volontà di potenza
di Carlo Galli
Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.
Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d´amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare´) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell´azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" – se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa – allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l´istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l´italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva´, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell´amore (ricambiato) del leader per la "gente".
A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l´opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l´alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l´esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l´immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme – della giustizia, e forse della Costituzione – si hanno da fare da soli, e non dialogando con l´opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).
Da una parte, insomma, Berlusconi propone l´immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide – grazie a un rapporto affettivo col capo – valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello – aperto e proclamato – degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.
A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte´ – tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte´, ma soltanto secondo precisi limiti –, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall´energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.
Sembra a volte di avere a che fare con un´applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico´ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un´energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.
Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà – come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza – la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde´ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda´, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell´amore, è un´inversione quasi perfetta dell´Abc della moderna democrazia: è l´immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.
Repubblica 17.10.09
Guerre di carta e libertà di stampa
di Giovanni Valentini
Non è forse vero che la democrazia di un Paese si misura dalla possibilità che viene concessa ai suoi cittadini di conoscere tutto ciò che accade all´interno dei "palazzi"?
(da "Troppi farabutti" di Oreste Flamminii Minuto – Baldini Castoldi Dalai editore, 2009 – pagg. 171-172)
Che significa «esposizione mediatica»? E a che cosa allude il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, quando dichiara che proprio in ragione di questa il presidente del Consiglio potrebbe «essere oggetto di contestazioni in occasione di eventi pubblici» e anche di «gesti violenti di mitomani isolati»? Qual è, insomma, il nesso fra l´esposizione mediatica, gli eventi pubblici e questi eventuali gesti violenti?
In risposta a un´interrogazione presentata al "question time" della Camera dal deputato del Pd Emanuele Fiano, membro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che vigila sui servizi segreti, il ministro Vito ha rivelato l´esistenza di un´informativa dei nostri 007 sui rischi di possibili mitomani. Era stato lo stesso Silvio Berlusconi, del resto, a parlare recentemente di minacce alla sua persona. Mentre la settimana scorsa il settimanale Panorama, di cui è proprietario attraverso la Mondadori, aveva pubblicato addirittura una copertina intitolata Kill Silvio (in inglese, Uccidere Silvio), riferendosi agli attacchi mediatici contro di lui.
Diciamo subito che, al di là di ogni polemica, qualsiasi rischio, pericolo o minaccia per l´incolumità del presidente del Consiglio, si tratti di Berlusconi o di chiunque altro, merita senz´altro la massima allerta da parte degli apparati di sicurezza, delle forze dell´ordine, della magistratura e dell´opinione pubblica. Non c´è contrapposizione politica che possa mai giustificare il ricorso alla violenza. E a volte, anzi, progetti o atti del genere finiscono solo per rafforzare ulteriormente le figure che si vorrebbero colpire.
Nel buio degli anni di piombo, l´Italia ha già dovuto subire troppe vittime per non prendere oggi in seria considerazione il minimo allarme. Il terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese non può e non deve tornare per nessuna ragione. Né vogliamo dimenticare che spesso in passato il mondo politico s´è ritrovato solidale e compatto, all´indomani di un attentato o di una strage, per difendere, celebrare o rivalutare – come eroi nazionali, servitori dello Stato o statisti – personaggi considerati fino ad allora da una parte o dall´altra nemici del popolo e della democrazia.
Torniamo, allora, alla domanda iniziale: che cosa c´entra l´«esposizione mediatica» di Berlusconi, come l´ha chiamata il ministro Vito, con il rischio di contestazioni o di gesti violenti contro di lui? Se questa espressione vuole riferirsi (impropriamente) alla partecipazione del capo del governo a manifestazioni o eventi pubblici, per invitarlo «ad evitare contatti ravvicinati con il pubblico, soprattutto in circostanze occasionali e non pianificate», non si può che essere d´accordo: la prudenza non è mai troppa, soprattutto in certe situazioni. Se invece per «esposizione mediatica» qualcuno intende la visibilità sui mass media, le polemiche o gli attacchi di cui il premier è oggetto da parte dei giornali, italiani e stranieri, il discorso sarebbe necessariamente diverso.
Le "guerre di carta" non hanno nulla a che fare con le guerre civili o incivili che lo stesso presidente del Consiglio ha innescato e alimentato intorno a sé, con i suoi comportamenti, le sue azioni e omissioni, le sue dichiarazioni intimidatorie e le sue iniziative giudiziarie contro la libertà d´opinione e di critica. E con l´assalto sistematico alla Rai o meglio a quel poco che resta del servizio pubblico. Fino all´assurda accusa ai giornali stranieri di «sputtanare» (testuale) l´Italia o di calunniare la sua persona.
È vero che formalmente la libertà di stampa non è stata ancora abolita nel nostro Paese. Ma è altrettanto vero che ormai è ridotta ai minimi termini, sottoposta a censure e autocensure. Oggi è una libertà vigilata, a rischio, in pericolo. E proprio per questo occorre difenderne la sopravvivenza. Non tanto per ciò che attiene al dovere dei giornalisti di informare, quanto per ciò che riguarda il diritto dei cittadini a essere informati.
Ai politici, ai nostri colleghi e a tutti coloro che ritengono infondato o eccessivo l´allarme, si raccomanda il libro di Oreste Flamminii Minuto, avvocato di professione e d´impegno civile, citato all´inizio di questa rubrica. Contiene un inventario completo delle limitazioni e dei condizionamenti che gravano sulla libertà di stampa: dalle vecchie norme del Codice Rocco mai abrogate alla disciplina dei segreti o a quella della diffamazione, dalle pubblicazioni oscene alla satira. Per arrivare, infine, al giro di vite sulle intercettazioni telefoniche, alla stretta sulla cronaca giudiziaria e al minaccioso annuncio di una riforma della giustizia da realizzare a furor di popolo.
Su questo terreno scoperto, occorre fare fronte comune. Non solo all´interno della nostra corporazione professionale, mettendo da parte magari divisioni editoriali tanto strumentali quanto pretestuose, come se si trattasse di due eserciti contrapposti. Ma soprattutto fra i giornalisti e i lettori, fra chi fa informazione e chi la riceve, fra produttori e destinatari delle notizie. La libertà di stampa, come ammoniscono i classici del pensiero liberale, è un bene tanto prezioso che bisogna sopportarne anche gli eventuali abusi.
sabatorepubblica.it
Repubblica 17.10.09
Ru486, via libera senza aspettare l'inchiesta
L’Aifa: in Gazzetta ufficiale entro il 19 novembre. L'indagine del Senato si chiuderà il 25
Il direttore dell'Agenzia del farmaco: lunedì l'ultimo sì, non si tornerà più indietro
di Michele Bocci
Il via alla pillola abortiva sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale entro il 19 novembre, l´indagine del Senato sulla Ru486 non bloccherà l´iter ormai concluso dell´organo tecnico, cioè dell´Aifa. Dopo settimane di silenzio, ieri il direttore generale dell´Agenzia italiana per il farmaco Guido Rasi è uscito allo scoperto a margine del congresso della Federazione medici di famiglia a Santa Margherita di Pula, in Sardegna. Lo ha fatto per dire che non si torna indietro, che il Parlamento non può più fermare l´approvazione del farmaco: «Il 19 ottobre il consiglio di amministrazione confermerà la delibera del 30 luglio». Cioè l´atto che ha deciso l´ingresso nel nostro sistema sanitario della pillola abortiva. Lunedì prossimo il Cda darà dunque mandato al direttore generale di inviare la determina alla Gazzetta Ufficiale. Tra l´altro Rasi non potrà apportare alcun cambiamento a quel testo. E anzi, se dovesse ritardarne la trasmissione potrebbe incorrere in un´omissione di atti di ufficio.
«Il passaggio del 19 - ha spiegato ieri Rasi - è formale, si leggerà il verbale di una decisione già presa il 30 luglio. Dopodiché la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avrà i tempi tecnici, 20-30 giorni». L´Aifa in queste settimane è stata sottoposta a enormi pressioni politiche per spingere i vertici a bloccare, o rallentare, la già lentissima procedura che porterà all´utilizzo del discusso farmaco negli ospedali italiani. Il 22 settembre è stata istituita una commissione di indagine in Senato che ha invitato a parlare Rasi e il presidente Sergio Pecorelli nei primi giorni di ottobre. Quando il Cda dell´Agenzia, dopo l´ennesima sofferta riunione sulla Ru486, ha deciso di aspettare quelle audizioni in segno di rispetto istituzionale e rivedersi il 19 per la determina, la commissione del Senato ha posticipato l´incontro con Rasi al 21 ottobre. «Lo spostamento è stato proposto dal senatore Pd Lionello Cosentino e votato all´unanimità», precisa Antonio Tomassini (Pdl), che presiede la commissione e annuncia per il 25 novembre le ultime audizioni e la relazione conclusiva.
Il cambiamento della data, visto come un ennesimo tentativo di rimandare l´atto definitivo, la determina, avrebbe creato più di un mal di pancia dentro l´Aifa. Non senza malessere si è deciso per la rottura: la riunione del 19 è stata confermata. «Con tutto il rispetto che si deve alla commissione - ha detto ieri Rasi - noi procederemo, anche perché di fatto prima della pubblicazione in Gazzetta avrà tutto il tempo di sentire e approfondire tutti gli aspetti». È vero, ma a determina già scritta i senatori non potranno più fermare la procedura tecnica. «L´Aifa stabilisce le modalità di erogazione - prosegue Rasi- dopodiché il Parlamento o gli organi che hanno il potere di farlo stabiliscono le modalità di somministrazione e la compatibilità con la 194. Noi abbiamo fatto alcuni passaggi obbligati per il mutuo riconoscimento. La nostra delibera ha fatto in modo che invece di importarla legalmente ma in maniera scoordinata e fuori dalla legge 194 adesso la Ru486 venga canalizzata nell´ambito della legge sull´aborto».
L´uscita del direttore dell´Aifa è stata commentata, in modo piuttosto cauto, da Raffaele Calabrò (Pdl) componente della commissione sanità del Senato. «Non erano presenti speranze, né da parte mia né da parte del senatore Tomassini di rimandare il lavoro dell´Aifa. Quello che stiamo facendo è l´indagine conoscitiva, su quali sono le caratteristiche, le funzioni, le complicanze, i rischi di questo farmaco, e soprattutto su come questo farmaco può essere utilizzato senza andare contro a ciò che la legge 194 prevede. La nostra preoccupazione è che una serie di precauzioni che la 194 prevede, e che vogliamo che si mantengano, siano invece superate dalla Ru486».
Repubblica 17.10.09
Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute: l´Agenzia deve fornire indicazioni precise
"Il Parlamento non può intervenire ma la pillola va data solo in ospedale"
di Mario Reggio
Il passaggio della delibera non è un puro atto formale. Ci sono pareri del Consiglio superiore da rispettare
L´indagine conoscitiva servirà a capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194
ROMA - «Non è vero, come dice il direttore generale dell´Aifa Guido Rasi, che il passaggio della delibera nel Consiglio d´amministrazione è un puro atto formale. Aspettiamo di leggere cosa dirà. Ci sono i due pareri del Consiglio superiore di sanità che parlano di terapia della Ru496 da seguire solo in ospedale. É su questo che l´Agenzia italiana del farmaco deve dare un´indicazione». Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute con delega alle questioni bioetiche, non sembra avere dubbi. Anche se mostra meno sicurezza rispetto ai mesi scorsi, quando sparava a zero sulla pillola Ru486.
L´indagine conoscitiva decisa dalla maggioranza ha allungato i tempi delle audizioni, ma l´Aifa ha deciso di andare avanti nelle procedure che autorizzano la commercializzazione del farmaco.
«Le procedure dell´Aifa seguono il loro iter. Il Parlamento non può intervenire. Ma l´indagine conoscitiva serve per capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194 sull´aborto».
Che giudizio dà sulla 194?
«La legge ha dato buoni risultati proprio perché, gestita dalle strutture pubbliche a differenza di Spagna e Inghilterra, ha ridotto il numero degli aborti. Resta il problema delle donne immigrate che oggi costituiscono il 40 per cento delle donne che in Italia ricorrono all´interruzione di gravidanza. Serve, anche per loro, una campagna di prevenzione che eviti il ricorso all´aborto ad ogni costo».
Se l´Aifa decidesse che la Ru486 può essere assunta non solo in ospedale?
«Sarebbe in contrasto con due pareri, in tempi diversi, del Consiglio superiore di sanità ed anche con la legge 194, che parla chiaramente dell´insostituibilità della struttura pubblica».
La Chiesa, nei giorni scorsi, ha lanciato il suo decalogo contro la Ru486 assieme alla consueta condanna dell´aborto come abominio.
«La posizione della Chiesa cattolica non è nuova. Ma è anche vero che l´uso della Ru486 comporta una serie di rischi seri. A partire dall´aborto a domicilio. È una procedura che dura 15 giorni ed è fuori dal controllo medico. In questi 15 giorni è la donna che deve decidere se un improvviso afflusso di sangue necessita di un ricorso in ospedale. Una realtà che ritengo estranea alla legge 194, che parla dell´ aborto come di un problema che si deve assumere a livello sociale. In questa maniera la Ru486 sarebbe sottoposta a una forma di privatizzazione in rotta di collisione con la legge. E su questo l´indagine conoscitiva sarà sicuramente utile».
Lei sarebbe stata contenta se la Ru486 con fosse mai arrivata in Italia.
«In Italia la 194 ha prodotto una significativa diminuzione degli aborti; in Francia, con l´uso domiciliare della Ru486, è successo il contrario. Per non parlare di Spagna e Inghilterra dove la crescita è stata esponenziale».
Repubblica 17.10.09
La Ru486 tra scienza, fede e ideologia
risponde Corrado Augias
Caro Augias, ho letto della disputa tra il teologo Kung e Benedetto XVI. Se la Chiesa Cattolica è contraria, e lo è, all'aborto e all'uso della pillola RU486 fa bene a dirlo, e i suoi fedeli ne facciano tesoro. Mi sembra deprecabile che personaggi politici avallino l'affermazione di parte cattolica sulla pericolosità della pillola RU486. L'aborto è stata una vera iattura sociale quando a effettuarlo era una mammana, ma ora che viene praticato in strutture ospedaliere la pericolosità è rientrata nella norma delle operazioni semplici. Il sen. Gasparri che cerca di ritardare, e ci riesce, l'approvazione dell'uso della RU486, a mio avviso rinvia l'utilizzo di un metodo per l'interruzione della gravidanza più scuro e molto meno cruento. La sua pericolosità è stata giudicata una fanfaluca dai sistemi sanitari di tutti i Paesi europei. Naturalmente questi impacci stanno facendo slittare i tempi di approvazione prevaricando il volere di quei cittadini che non si ritengono tenuti a osservare i precetti della Chiesa. Noi atei infatti non diciamo che le donne incinte debbano abortire chirurgicamente o con la RU486, ce ne guardiamo bene e quindi ci aspettiamo che anche i vertici della Chiesa cattolica o di qualsivoglia religione, si comportino nello stesso e identico modo.
Arturo Martinoli arturo.martinoli@alice.it
Il punto di vista della Chiesa è lampante. Chiaro per esempio che la natura chimica e non chirurgica dello strumento abortivo, non cambia la sostanza del gesto. Su questo siamo tutti d'accordo. Il timore è che il gesto si banalizzi proprio perché meno cruento e meno doloroso, quindi che un maggior numero di donne vi ricorrano. L a logica è analoga a quella che ha impedito i Pacs o Dico, come nel resto d'Europa, perché avrebbero potuto banalizzare il matrimonio. L'altra affermazione è che la RU486 non è un farmaco, al contrario di quanto si afferma per la nutrizione forzata artificiale che sarebbe invece un farmaco. Nel primo caso quindi i medici possono non prescriverla, nel secondo sono invece costretti a praticarla anche a costo di violentare la volontà del povero paziente. La Chiesa tratta i temi medici da un profilo solo ideologico, ignorando l'opinione del mondo scientifico, arrivando al punto di dichiarare la RU486 molto pericolosa al contrario di quanto stabiliscono numerose aggiornate statistiche cliniche. «Il Papa riporta la Chiesa al medioevo», ha affermato Hans Kung uno dei massimi teologi cattolici (dissidente) nell'intervista a Stern . Ha anche precisato che Benedetto XVI agisce «sulla base della sua fede bavarese» ovvero «in modo premoderno e populistico». Non ci sarebbe da preoccuparsi troppo se non fosse l'ansia di servizio di alcuni parlamentari che si mettono a disposizione al fine di acquisire meriti per sé o per altri.
Repubblica 17.10.09
Dal mito alla realtà "Il vero labirinto non era a Cnosso"
di Enrico Franceschini
Una spedizione di archeologi anglo-greca ha scoperto tunnel e stanze segrete trenta chilometri più a sud Il re di Creta Minosse avrebbe rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, nelle grotte di Gortyna
Ladri avevano piazzato esplosivi sotto terra per far affiorare la "stanza del tesoro"
Londra. Ci siamo perduti, per qualche millennio, nel labirinto sbagliato. Quello originale non era a Cnosso, sede del palazzo mitologico di re Minosse, bensì a Gortyna, una trentina di chilometri più a sud, la capitale dell´isola di Creta durante la dominazione romana.
È la tesi di una spedizione archeologica anglo-greca, che scavando in un complesso di caverne nella nuova località ha scoperto una rete di tunnel, stanze e complicati passaggi sotterranei e lo ha identificato come il più probabile sito del labirinto. Le 600mila persone che ogni anno visitano Cnosso immaginando di trovarsi nel luogo del mito, afferma il professor Nicholas Howart, geografo della Oxford University, potrebbero essersi recate dunque nel posto sbagliato.
L´esistenza delle caverne di Gortyna era nota da secoli. Sono quasi quattro chilometri di tunnel sotterranei, evidentemente frutto di un lavoro umano, collegati da stanze, cunicoli, passaggi. Fin dal Medioevo giungevano visitatori interessati a esplorarle. Ma poi, tra il 1900 e il 1935, un ricco archeologo britannico, sir Arthur Evans, diresse un´imponente ricerca a Cnosso, annunciando al mondo di avere ritrovato il labirinto in cui Minosse aveva rinchiuso il Minotauro, lo spaventoso mostro metà uomo e metà toro. Da allora, per gli storici come il turismo di massa, non ci sono stati dubbi su dove fosse il labirinto di Cnosso: a Cnosso, per l´appunto. Ossia nel luogo menzionato da Omero.
«Il problema è che oggi la gente va a Cnosso per soddisfare il romantico desiderio di connettersi con l´era degli eroi della mitologia», dice il professor Howart, «senza domandarsi abbastanza se quello sia davvero il labirinto di Minosse. E così facendo si escludono altre ipotesi che sono altrettanto o più credibili. Un´altra possibilità indagata dagli studiosi, per esempio, è che il labirinto fosse a Skotino, dove è stata scoperta un´altra serie di caverne collegate tra loro. E questa estate noi abbiamo approfondito per la prima volta le ricerche a Gortyna, che dai nostri studi risulta forse la sede più probabile».
Gli archeologi anglo-greci hanno trovato tracce della presenza di ladri, che avevano piazzato perfino esplosivi sotto terra nella speranza di aprire una breccia nel labirinto e fare affiorare una presunta "stanza del tesoro" di Minosse. «È un luogo pericoloso», avverte il ricercatore, e del resto fu proprio lì che i nazisti nascosero un deposito di munizioni durante la seconda guerra mondiale, che secondo alcuni non fu completamente rimosso dopo la fine del conflitto.
Non tutti gli specialisti della materia sono convinti dall´annuncio del docente di Oxford, naturalmente. «La tradizione classica indica Cnosso come il sito originale del labirinto», osserva Andrew Shapland, curatore dell´era del bronzo greca al British Museum, «ed è lecito supporre che il labirinto originale, quello che ispirò il mito, fosse lì. Ammesso che sia mai esistito».
Lo stesso scopritore del nuovo labirinto, il professor Howart, precisa che secondo lui il labirinto era a Gortyna, «se il mito era davvero basato su un labirinto reale». Il rebus del labirinto, predice il curatore del British Museum, «è destinato a continuare». Bisognerebbe trovare il filo di Arianna, per risolverlo.
Corriere della Sera 17.10.09
«L’Altro di Sansonetti dovrà cambiare nome»
MILANO — Sansonetti e l’editrice Big dovranno cambiare nome all’ Altro . È la decisione del tribunale di Roma nella causa civile promossa dalla Gecem, editrice de l’Altro quotidiano, e dal direttore Ennio Simeone. Il giudice ha accolto la tesi dei legali della Gecem (tra i quali figura Romano Vaccarella che difende la Fininvest nel processo Sme) sul «pericolo di confondibilità tra le due testate» creato da Sansonetti e dalla Big per la denominazione scelta— dopo la registrazione di quella della Gecem — e la «sussistenza di violazione del diritto d’autore e concorrenza sleale» di un quotidiano, l’Altro , che reca sotto la testata la scritta 'la sinistra quotidiana'». Sansonetti e soci dovranno pagare 5mila euro per ogni violazione e inosservanza del provvedimento e un’ulteriore penale di 500 euro al giorno per l’eventuale ritardo nel cambio di testata. Oggi il giornale sarà in edicola. I legali della testata: «La redazione sta cercando di trovare il modo di rispettare la decisione del giudice».
Corriere della Sera 17.10.09
Socialisti riuniti a Volpedo Nasce il Manifesto dei valori
MILANO — Si riuniranno nella patria di Pellizza da Volpedo, oggi, i socialisti che si ritrovano nell’idea di creare una sinistra riformatrice e moderna. Il progetto è lanciato dal Gruppo di Volpedo (costituito lo scorso anno da una quindicina di circoli socialisti e libertari di Piemonte, Liguria e Lombardia). Ci saranno i socialisti del progetto di Sinistra e libertà (Riccardo Nencini, Claudio Fava, la presidente dell’Internazionale socialista donne Pia Locatelli), parteciperanno anche esponenti del vecchio Psi ora nel Pd: da Giusi La Ganga a Nerio Nesi. Quanto ai contenuti, sarà approvato il manifesto dei valori.
Corriere della Sera 17.10.09
Il «cupio dissolvi» dei democratici
La sindrome del nemico in casa
di Francesco Verderami
Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi» .
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta colonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Specie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversario è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tutti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vecchio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segreteria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fossero al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democratici avevano lanciato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sanatorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifonico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al confronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — commenta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centralismo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una cosa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaffezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «partito mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una volta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi mali. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il dopo chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizione al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va messa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il direttore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvivranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riaccenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavaliere.
Corriere della Sera 17.10.09
Distrutto nei bombardamenti, ora vuole sfidare il Louvre
Berlino: riapre il Museo chiuso da settant’anni, ecco Nefertiti (e le critiche)
di D. Ta.
Il restauro del britannico Chipperfield bocciato dai tradizionalisti
233 Milioni di euro, la cifra spesa per la ristrutturazione del Museo egizio: i lavori sono durati 11 anni
BERLINO — Non è impossibile celebrare anniversari nazionali con qualcosa di notevole. Vent’anni dopo la caduta del Muro, per esempio, oggi riapre a Berlino il Neues Museum, chiuso da 70 anni. Non è solo una ristrutturazione straordinaria, non è solo la collezione egizia della città, Busto di Nefertiti in testa, che torna nella sua casa: è il quinto e definitivo degli edifici museali neoclassici a riapre le porte sull’Isola dei Musei, ex parte Est della città, oggi pieno centro. Un complesso che vuole rivaleggiare con il Louvre, nelle intenzioni esplicite della Fondazione per il patrimonio culturale prussiano, un progetto che ha a che fare con un Paese che sa di dovere realizzare cose importanti.
La ristrutturazione — 233 milioni di euro — pensata e gestita dall’architetto britannico David Chipperfield è partita dal presupposto che la storia dell’edificio non potesse essere cancellata o nascosta.
Il problema era che il museo, costruito nel 1847, fu pesantemente bombardato nel 1943 (era già stato chiuso e svuotato delle opere nel 1939) e da allora abbandonato a se stesso perché, dopo la guerra, la Germania Est non aveva il denaro per rimetterlo in funzione. Negli Anni Novanta, quando il governo e la città— riunificati — decisero di ristrutturarlo, molti pensavano si dovesse semplicemente fare tornare l’edificio com’era settant’anni fa. Chipperfield, invece, ha inserito elementi moderni dove c’era da ricostruire, ha recuperato gli originali recuperabili e ha lasciato visibili le tracce della storia, che è poi quella tedesca, cioè i danni delle bombe e dell’incuria dei decenni della Ddr. La grande scalinata, che è il cuore del museo, è stata rifatta con disegno e materiali moderni. Gli affreschi sono stati recuperati nelle parti visibili, mentre il resto è stato lasciato bianco. Una serie di archi sono stati ricostruiti con mattoni a vista. Alcune colonne sono nuove ma restano molti capitelli originali.
I buchi fatti dai bombardamenti sono ovviamente stati chiusi ma rimangono riconoscibili. Le pareti scrostate, alcune rosse alcune verdi, sono state restaurate ma i segni dell’intonaco caduto lasciati bianchi. Il risultato, a opinione di gran parte dei berlinesi che hanno visitato l’edificio vuoto durante due giorni di apertura la scorsa primavera, è straordinario. Quando l’ha inaugurato, ieri, la cancelliera Angela Merkel sembrava sinceramente impressionata. «È un progetto del quale i nostri figli non potranno non essere felici», dice Dietrich Wildung, il direttore della collezione egizia che — assieme all’arte preistorica e a un pezzo di filo spinato del Muro di Berlino — è ospitata nelle sale del Neues Museum.
Non che tutti siano soddisfatti. Anzi, durante gli 11 anni di ristrutturazione le polemiche sono state feroci. Nel 2007, un gruppo di cittadini tradizionalisti raccolse firme su una petizione — «Salviamo l’Isola dei Musei» — che però ricevette solo seimila adesioni. Poi, la Società per l’antica Berlino accusò Chipperfield, un altro britannico, di continuare la distruzione iniziata dai bombardamenti e ora ha scritto all’Unesco per invitarla a mettere l’Isola dei Musei nella lista dei Siti patrimonio dell’umanità a rischio di perdere questo titolo. Anche perché, sempre sulla Museumsinsel, Chipperfield dovrebbe ora costruire un nuovo edificio che funzionerà da reception per i cinque musei.
Poi, tra il 2011 e il 2026, saranno ristrutturati anche il Pergamonmuseum e l’Altes Museum, il che porterà il costo dell’intervento sull’intera Isola a un miliardo. Si può fare.
Corriere della Sera 17.10.09
Nel suo romanzo Massimo Nava racconta, oltre all’eroe, i due fratelli meno noti
La saga dei Bixio senza Garibaldi
Non solo il patriota: ci furono anche un politico e un missionario
di Matteo Collura
Tre fratelli, un cognome celebre: Bixio. E subito viene in mente il generale elogiato da Garibaldi come «primo dei Mille». Ed è comprensibile che sia lui, Nino (Girolamo all’anagrafe) a essere ricordato come il più importante dei Bixio. Ma i suoi due fratelli, Alessandro e Giuseppe, meritano di essere conosciuti non meno del loro congiunto più famoso. Lo dimostra una biografia di Massimo Nava, giornalista, corrispondente del «Corriere della Sera» da Parigi, che intreccia le tre vite con un racconto romanzesco non ascrivibile alla tipica narrativa di casa nostra, a partire dall’originalità d’impianto e dalla resa espressiva: La gloria è il sole dei morti (Ponte alle Grazie). È il generale garibaldino, già un vecchio a cinquant’anni, ad aprire e chiudere il romanzo, ma, grazie a ben congegnati flashback , le rispettive vite dei tre fratelli s’impongono come esperienze memorabili degne di essere raccontate autonomamente. Nel 1872, quando Nino Bixio entra nella casa di Rue Jacob, a Parigi, dove il fratello Alessandro è morto da sette anni, è come se per lui si aprissero le porte di un museo (le stesse che si schiudono alla fantasia del lettore). Il generale non sa più quante cicatrici ha in corpo, si sente vecchio e stanco. Ma un ambizioso progetto lo tiene ancora in piedi: farsi costruire una nave, armarla, e con essa solcare le acque dell’Estremo Oriente, laggiù tra le isole dell’Indonesia. Cosa ne penserebbe il fratello «francese »? Muovendosi in quella che ormai gli appare come una casa-museo, accolto da un nipote che ne conosce le gesta dai racconti del padre, ora può misurare la distanza che lo separa da Alessandro, ma riconoscere anche l’ammirazione che ha sempre avuto per lui. Nato a Chiavari nel 1808, terzogenito di sette fratelli (Nino, di tredici anni più giovane, era ultimo), Alessandro aveva studiato a Parigi, dove aveva intrapreso una brillante carriera politica, divenendo, tra il 1848 e il 1851, membro dell’Assemblea Costituente e della Legislativa. Un francese illustre, «Alexandre» Bixio, la cui agiata casa era divenuta sede di riunioni conviviali talmente importanti per la cultura e la politica da passare alla storia come i Dîners académiques. Vi partecipavano funzionari di governo, deputati, banchieri, diplomatici, intellettuali, artisti; lo scrittore Dumas padre tra i più assidui. Alessandro aveva aiutato il fratello minore, finanziandone imprese e pagandone i debiti. Lui aveva ricambiato con l’ingratitudine del suo orgoglio. Sempre. Ma ora, reduce da troppe avventure, sazio di vita, il generale sa in che parte del cuore custodire la memoria del fratello, trarre dai suoi consigli un viatico. Con questa convinzione può partire per l’Inghilterra dove, accumulando debiti su debiti, riuscirà a farsi costruire la nave dei sogni e a prendere il mare, primo comandante italiano ad attraversare il canale di Suez. Anche un altro fratello, pure lui staccatosi ragazzo dalla famiglia, sarebbe bello sapesse della sua nuova impresa. Ma Giuseppe Bixio si trova da qualche parte negli Stati Uniti, missionario gesuita. E qui Nava apre un altro capitolo che ha dell’incredibile per la varietà di avventure di cui è protagonista il gesuita «Joseph» Bixio. Basti dire che, come cappellano, si trovò a partecipare alla guerra di secessione e che, anche lui spinto dal carattere ardito, viaggiò in Australia, facendo poi ritorno negli Usa, dove fu tra i fondatori dell’università cattolica di San Francisco. Una triplice biografia, dunque, il romanzo di Massimo Nava. Ma è anche altro. Soprattutto un modo diverso di raccontare la vita di uno dei nostri eroi nazionali, per farne risaltare la vocazione marinara, fin da quando, ragazzo scacciato da una scuola di Genova per motivi disciplinari, Nino si era imbarcato come mozzo, destinazione i mari d’Oriente. Sfuggito agli squali e ai pirati malesi, dopo essere stato venduto come schiavo e poi liberato, aveva iniziato la carriera di avventuriero pronto ad accorrere, classico eroe dell’Ottocento, al richiamo della patria. E siamo all’epopea garibaldina di cui Nino Bixio fu protagonista indiscusso. Anche per i noti fatti di Bronte, in Sicilia, dove il generale ligure, dopo un processo sommario, fece sbrigativamente fucilare cinque imputati ritenuti capi della sanguinosa rivolta (due di loro, tra cui lo scemo del paese, innocenti). Ma quell’episodio, sembra volerci dire Nava, è piccola cosa nella vita di Bixio. Il generale non se ne sarebbe neanche ricordato, quando, divorato dalla febbre e prosciugato dalla diarrea, sarebbe morto di colera nel 1873, nella cabina della sua nave, nelle acque dell’isola di Sumatra, proprio là dov’era naufragato da ragazzo.