domenica 18 ottobre 2009

l’Unità 18.10.09
Contro il razzismo Una folla in festa che si è rappresentata in piazza con determinazione
Lingue diverse e migliaia di storie differenti ma un solo obiettivo: uguaglianza e giustizia
Roma invasa da duecentomila per «il diritto ad esistere»
Un corteo coloratissimo, tra i più grandi della nostra storia recente, che ieri ha illuminato la città con poche parole d’ordine: diritti e integrazione. E accanto ai migranti il popolo della Cgil.
di Giovanni Maria Bellu


Duecentomila. Sì, Roma ha visto manifestazioni anche molto più affollate. Ma se si misurasse il successo delle proteste di piazza dalla quantità di persone che vi aderiscono per la sola ragione di voler protestare (e non per essere iscritte a un sindacato, a un partito, non per il fatto di «far parte» di qualcosa) il coloratissimo corteo che ieri ha illuminato il centro di Roma sarebbe da classificare tra i più grandi della nostra storia recente.
Sicuramente il più variopinto. Con le sole bandiere della Cgil e dell’Arci a dare una qualche continuità cromatica al nastro di folla che ancora non aveva finito di srotolarsi quando è apparso il Colosseo. La coda del corteo, in quel momento, aveva appena cominciato a muoversi da piazza della Repubblica, un paio di chilometri più su.
Sicuramente il più rappresentativo. Se per rappresentatività di una protesta collettiva s’intende la quantità di storie e di esperienze che è capace di far incontrare. Il mondo, in questo caso. Coi suoi dolori e i suoi sogni confluiti in ormai più di vent’anni tanto tempo è trascorso da quando l'eterna «emergenza immigrazione» cominciò nelle nostre strade, nelle nostre aziende e nelle nostre case. Oltre che in altri luoghi i centri di identificazione e di espulsione dove si è dissennatamente pensato di poterlo recludere.
Di certo una delle proteste più chiare quanto a «piattaforma programmatica». L'uguaglianza e la giustizia e il loro modo di declinarsi nelle leggi di un paese. «No al razzismo, al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza», c'era scritto sullo striscione che, firmato dal «Comitato immigrati 17 ottobre», apriva il corteo. E in fondo era già tutto. Anche se poi veniva ripetuto in forme e anche lingue diverse: «I veri criminali non sono gli immigrati, ma sono i mafiosi a capo degli Stati», «Cristo è qui, quando ci sarà tutta la Chiesa?».
Quando, nei giorni scorsi, gli organizzatori avevano annunciato l’adesione di circa 500 associazioni e circoli, era sembrata un’esagerazione. Era vero, invece. C’erano sì associazioni consolidate come Amnesty International, Libera, Emergency, Beati costruttori di pace, Pax Christi. Ma ciò che appariva evidente è la frammentazione del mondo dell'immigrazione in una miriade di aggregazioni spontanee, a volte anche piccolissime ed effimere, che trovano il loro fondamento ideale ora nel solidarismo, ora in ciò che resta della sinistra più radicale, ora nei gruppi cattolici di base.
C’erano numerosi esponenti politici e sindacali di primo piano. Ma erano pochi quelli che, come il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, non testimoniavano solo il loro personale impegno ma quello di un’intera grande organizzazione di massa. C’era anche il segretario del Pd Dario Franceschini. «Quella per gli immigrati ha detto è una battaglia nostra da tanto tempo, per la cittadinanza, per il il permesso di soggiorno». Ma il Partito democratico non ha aderito, e alcuni dei manifestanti gliel’hanno fatto notare. È un bel tema da mettere nell'agenda dei prossimi mesi del Pd.
Sarà perché la fatica di apprendere una lingua straniera regala uno speciale timbro alle parole apprese. Ma nei discorsi pronunciati dal palco dai rappresentanti degli immigrati scelti dopo giorni e giorni di estenuanti trattative tra le organizzazioni promotrici certi termini logorati dagli abusi del linguaggio politico ritrovavano il loro significato originario.
La parola «diritto», quando a pronunciarla è chi si vede negata la possibilità di esistere, non evoca le leggi e i codici, ma la vita stessa. E anche certi scandali dell’opulenza e dell’amoralità, sentiti raccontare da chi vive con noi ma non è riconosciuto come uno di noi, prendono una luce nuova. Più fredda e cruda. «Le nostre donne non fiscono nel lettone di Putin ha gridato Abou Bakar Sehoumoro ma lavorano nelle vostre case». Ecco, sono cose che fanno provare un altro sentimento che si va estinguendo: la vergogna.
D’altra parte un tempo, nemmeno tanto lontano, lo si provava davanti alla sola possibilità di essere considerati razzisti. Adesso, invece, ha sottolineato Moni Ovadia, nella capitale d’Italia esistono gruppi razzisti «che si sentono addirittura legittimati dall’amministrazione comunale».

l’Unità 18.10.09
Ida Magli, ma ci faccia il piacere
di Marco Rovelli


Nel vedere quei volti e sentire quelle voci che riempivano le strade di Roma, ho ripensato alle parole che l'antropologa Ida Magli ha scritto sul Giornale, e che un giorno forse verranno ricordate come uno dei manifesti del nuovo razzismo italiano.
Conviene rileggerne qualche brano, perché è impossibile restituirne il grado di aberrazione con altre parole: «Stiamo male perché siamo costretti a vivere nello stesso territorio con popoli diversi da noi, e diversi prima di tutto fisicamente. (...)L'estraneità fisica è la caratteristica maggiore che impedisce agli uomini di potersi "identificare" l'uno nell'altro, sentirsi psicologicamente "simili”. (...È)impossibile per un "bianco" identificarsi in un "nero": comprendere i sentimenti, le percezioni, i gusti, intuire il tipo di intelligenza, le reazioni, gli interessi. Se si aggiunge a questo dato di partenza, la differenza di lingua, di religione, di storia culturale, ci si rende conto che vivere sullo stesso territorio non significa vivere "insieme"».
Ecco, vedendo ieri quei colori mischiati in piazza, mi veniva da sorridere di compassione per la signora Magli e per la sua "brutale" culturalizzazione di un dato naturale. E penso alla mia amicizia con Jessy, nigeriano, che dopo traversie letteralmente incredibili, ha sposato Gloria, slovacca e biondissima, per mettere al mondo una splendida creatura.
Jessy e Gloria, come tante altre coppie miste, e come ancora le sempre più numerose relazioni e legami di qualsiasi tipo indifferenti al colore della pelle, sono la prova vivente di come le parole della Magli siano puro e densissimo razzismo. E per quanto mi riguarda, c'è l'empatia che ho sperimentato e la memoria vivida di tutti i volti che incontrato nei viaggi che ho fatto in quest'Italia già multiculturale, a Ida Magli piacendo.

l’Unità 18.10.09
Al convegno di Asolo le fondazioni Italianieuropei e Farefuturo: superare la paura
Un documento comune per riassumere i temi emersi: a 10 anni il diritto di essere italiani
Cittadinanza e voto, «patto» tra Fini e D’Alema
Superare la paura, dare più diritti a partire da quello di cittadinanza. Questo ed altro in un documento che Italianieuropei e Farefuturo prepareranno a breve. Ieri l’incontro ad Asolo tra Fini e D’Alema
di Susanna Turco


Prima ancora che aprano bocca, sul palco l’effetto cromatico dello spirito dialogante e condivisivo di Asolo è assicurato. Massimo D’Alema è alla sinistra del direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli e porta una cravatta blu sfumatura farefuturo. Gianfranco Fini siede alla destra, e sfoggia una cravatta che vira al rosso italianieuropei. Sono arrivati sin qui insieme, con l’aereo presidenziale, e ripartiranno insieme, dopo aver chiuso il workshop sull’immigrazione organizzato in tandem, per il secondo anno, dalle rispettive fondazioni. E di tanta condivisione non c’è nulla da stupirsi. La simpatia e stima reciproca son cose di vecchia data. Le frequenti telefonate una pratica consolidata. Pupilli di Berlinguer l’uno e di Almirante l’altro, messi dai leader a guidare le rispettive organizzazioni giovanili di partito, i due hanno in comune ben più che la freddezza caratteriale e l’amore per l’ironia. Hanno il passo dei politici puri, il carattere, e la storia – anche da numeri due che si portano dietro, che li accomuna al di là delle ovvie diversità di schieramento.
LEADER POST
Così i due leader “post”, arrivati oggi a un nuovo punto di svolta, esprimono senza difficoltà sul tema dell’immigrazione un punto di vista che parte da storie diverse, ma arriva alle stesse conclusioni: “Serve un disarmo bilaterale delle opposte paure e speranze, una rivoluzione di buonsenso per affrontare oggi la sfida: perché il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, non finirà domani”. Una visione tanto condivisa che, a giorni, le due fondazioni faranno un documento comune, in quattro punti: agevolare l’immigrazione di qualità, modificare i criteri di concessione della cittadinanza, dare la possibilità ai bambini musulmani di studiare la religione islamica a scuola, e diritto di voto amministrativo agli immigrati.
“Quando lo proposi io, quel diritto, fui crocifisso, e non ho certo cambiato idea”, ricorda Fini dal palco. “Non c’è dubbio, invece, che l’integrazione politica potrebbe essere la via italiana all’integrazione”, dice D’Alema, ricordando i tempi dell’immigrazione interna, “quando a San Miniato concessero una casa del popolo ai meridionali, però separata ‘perché non li capiamo’, per poi scoprire che era meglio andare là se si volevano conquistare quei voti”.
INTEGRAZIONE
Fattore di integrazione sarebbe pure una nuova legge per ottenere la cittadinanza, che Fini immagina ricalcando in gran parte la proposta Granata Sarubbi in discussione alla Camera: “La mia proposta è che chi nasce in Italia o ci arriva da piccolissimo e completa un ciclo di studi abbia la cittadinanza. Non è eversivo. Era così anche nella legge del 1912”, dice. Mentre D’Alema, che pur condivide, sposta ancora più a sinistra l’asticella: “Io direi che chi nasce in italia è italiano, senza prove da superare”, spiega. Ironizzando pure sul test di lingua prevista dal Granata-Sarubbi: “Se l’esame lo facessimo pure dove lavoriamo noi, chissà quanti lo supererebbero”.
CONDIVISIONE
Piena condivisione sulla pur altrove contestata proposta Urso: insegnare la religione islamica nelle scuole ai bambini musulmani. Fini e D’Alema, concordando, non perdono occasione per replicare alla Lega. “Io non ci trovo nulla di scandaloso: se un bambino vuol conoscere il Corano e nessuno a scuola glielo spiega, finisce magari che ci pensa qualche estremista”.
E D’Alema, sul punto, sfoggia tutto il suo sarcasmo: “Ho sentito dichiarazioni imbarazzanti, per il carattere primitivo... quasi versi gutturali, direi”, spiega. Fini, intanto, diventa paonazzo dal ridere: da presidente della Camera, è il massimo che si concede.

Repubblica 18.10.09
La vera missione della scuola
di Adriano Prosperi


La proposta di introdurre nelle scuole un insegnamento di religione islamica fatta dal viceministro Urso è un tentativo di rompere il cerchio di un dialogo tra lingue non comunicanti.
Per questo va salutato come un avvio positivo da raccogliere e approfondire. Non tutti sono d´accordo, naturalmente, ma la discussione che è nata è comunque interessante. Per esempio, quando il cardinale Ersilio Tonini rigetta questa idea lo fa con un argomento che si presta invece a sostenerla: «Pensare che l´Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore. L´Islam ha mille espressioni, collegamenti, apparentamenti: insomma con i valori della nostra civiltà non ha niente a che vedere». Proviamo a sostituire nella prima frase la parola «Islam» con la parola «Cristianesimo»: quante sono oggi le espressioni e le interpretazioni del cristianesimo, non solo nella conoscenza e coscienza dei singoli cristiani, nell´etica privata e nelle leggi degli stati, ma anche e soprattutto nelle chiese e nei movimenti che si dichiarano cristiani? Immaginiamo che il cardinale volesse dire «cattolicesimo». Ma il carattere monolitico, anzi totalitario del cattolicesimo, come ebbe a dire Papa Pio XI e come prima di lui scrisse fra Paolo Sarpi che coniò l´antenato del termine totalitarismo («totatus») è proprio quello che all´atto di nascita della tolleranza religiosa valse al cattolicesimo una considerazione a parte: «I papisti - scrisse John Locke nel «Saggio sulla tolleranza» del 1667 - non devono godere i benefici della tolleranza perché, dove essi hanno il potere, si ritengono in obbligo di rifiutarla agli altri». Lo sappiamo bene in Italia. Quanto poi al fatto che l´Islam non abbia niente a che vedere con la nostra civiltà, si tratta di un´affermazione che se fosse fatta da uno studente di storia di scuola media svelerebbe l´esistenza di un preoccupante «debito formativo». Si tratta di schieramenti di battaglia che non portano lontano. Bisogna anche in questo caso accogliere l´invito autorevole lanciato da Gustavo Zagrebelski dalle colonne di questo giornale a mettere un freno allo «scatenamento delle energie peggiori» riflettendo invece al respiro lungo della vita civile che in materie costituzionali deve guardare al di là della durata di un governo e di un leader e non tener conto delle violenze verbali dei leghisti che, ieri pagani oggi cattolici, alzano la voce sulla religione per fare cassetta alle elezioni più vicine. L´obbiettivo che abbiamo di fronte quando di queste cose si parla nel contesto civile e politico e non all´interno di una chiesa è quello di attuare in modo adeguato ai bisogni dei nostri tempi e alla nostra realtà il principio del diritto alla libertà religiosa: un diritto a cui la cultura italiana ha dato un contributo grande e sostanziale fin dai tempi delle guerre di religione del ´500 e che oggi, secondo la Costituzione italiana, significa «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata» (art. 18), inclusa l´istituzione di «scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo stato» (art.33). Certo, con quelle dichiarazioni volute da tutti i padri costituenti è in contrasto una situazione di fatto e di diritto a tutti nota. Nella scuola pubblica c´è oggi un insegnamento denominato «Religione» impartito da insegnanti formati e autorizzati dalla Chiesa cattolica ma pagati dallo stato. Questo insegnamento non è obbligatorio ma l´insegnante concorre alla valutazione dell´allievo insieme agli altri in una forma che - secondo la recentissima dichiarazione del ministro Gelmini - si appresta a diventare quella piena del voto. Ma la realtà del paese cambia: aumentano gli immigrati e i cittadini italiani di altre religioni, e specialmente quelli di religione islamica. Da qui l´idea di spezzare l´autismo di una politica che criminalizza e sfrutta gli immigrati in mille modi, pratica lo scontro di civiltà, alimenta e strumentalizza paure. Si propone un insegnamento scolastico della religione islamica nelle scuole pubbliche come primo passo per l´integrazione dei ragazzi di quella cultura. Lo scopo è eccellente, il mezzo ha difetti evidenti: quell´ora settimanale non solo non garantirebbe parità di trattamento per tutte le religioni ma dividerebbe fisicamente e culturalmente gli allievi islamici dagli altri nel momento fra tutti delicato dell´insegnamento della religione. E la moltiplicazione a raffica degli insegnamenti «religiosi» per garantire i diritti di altre minoranze sarebbe non solo difficile da attuare ma anche controproducente rispetto all´obbiettivo di far dialogare in un´unica scuola pubblica i portatori di culture diverse. Un sistema a compartimenti stagni renderebbe permanenti le divisioni rischiando di far emergere una divisione non solo religiosa ma civile e sociale dai frutti avvelenati. Ne troviamo conferme nella storia e nella cronaca. Le città tedesche che nell´età delle guerre di religione garantirono libertà di culto e spartizione equa di cariche tra cattolici e protestanti pagarono la pace con la perpetuazione della divisione culturale e il blocco dello sviluppo civile. E la cronaca recente ci dice che i terroristi islamici appartengono in genere alla seconda e terza generazione di immigrati e nutrono l´odio di chi, crescendo nei ghetti, si è sentito cittadino di serie B. Ma c´è una frase interessante detta dall´onorevole Urso, che ha parlato di «un´ora di storia della religione islamica». La storia, che per tanto tempo nel paese di Giambattista Vico, di Benedetto Croce, di Antonio Gramsci ha retto l´asse centrale dell´insegnamento scolastico, oggi è avvilita a campo di battaglia tra mute rabbiose intente a marcare opposti territori. Intanto crescono materie di carattere sistematico e astorico: la religione, i diritti, l´etica e così via. Questo è il più grave e più inavvertito segno della peste fondamentalista: si è perso il senso della nostra realtà di esseri immersi nel flusso di quel tacito, infinito andar del tempo che investe e muta ogni cosa, che fa sì che la nostra società e le nostre religioni siano quelle dei nostri tempi e non quelle dei nostri padri. E chi più tuona di voler tutelare l´«identità cattolica» è proprio il neopaganesimo del nostro tempo, se è vero che, come ha scritto uno storico che se ne intende, «il paganesimo è il culto del potere politico, della ricchezza, della forza fisica» (Jan Assmann, «Dio e gli dèi», Il Mulino 2009). Dunque la proposta va formulata meglio: si tratta di portare nella scuola la religione ma all´interno della storia culturale, non all´esterno. Solo qui può esserci posto per una conoscenza dell´Islam e del cristianesimo come realtà storiche portatrici di valori ideali che, se depurati dall´interferenza e dall´intolleranza dei poteri politici ed ecclesiastici, potranno alimentare di nuovi succhi vitali l´Italia di domani.

Repubblica 18.10.09
Il cardinale Poletto: No al relativismo. “Il Corano è estraneo all´Italia riparliamone tra cinquant’anni”
La religione cattolica fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli, l’islam no Non vorrei che si cadesse nel relativismo
di Paolo Griseri


TORINO - La religione cattolica «fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli. L´Islam no. Dunque, credo che sia sbagliato e prematuro istituire l´ora di religione islamica nella scuola pubblica». Il cardinale di Torino, Severino Poletto, esprime il suo punto di vista sulla proposta che sta dividendo la politica italiana. Lo fa con estrema prudenza: «Voglio che sia assolutamente chiaro che è comunque opportuno attendere sull´argomento il pronunciamento della Presidenza della Conferenza episcopale italiana. Il mio è un punto di vista personale».
Cardinale Poletto, perché considera la proposta prematura?
«Perché è una proposta che non tiene conto della società italiana di oggi. Che ha una cultura e una tradizione in cui l´Islam è sostanzialmente estraneo o presente in modo non centrale. Questo non vuol dire che tra cinquanta, cento anni, la situazione non si modifichi radicalmente. E che allora se ne possa parlare».
Non le pare che in questo modo la chiesa cattolica italiana finisca per difendere un antico privilegio, una rendita di posizione nei confronti delle altre religioni?
«Non si tratta di un privilegio, ma di una realtà storica. E se si va a vedere, questa realtà spiega e giustifica il mantenimento dell'ora di religione cattolica, sia pure facoltativa, nell'ordinamento della scuola italiana anche con la revisione del Concordato del 1984. Proprio perché il cattolicesimo fa parte integrante delle nostre radici, quell´ora serve a completare bene il curriculum di studi».
Un´ora che però la chiesa cattolica non vuole venga utilizzata per lo studio della storia delle religioni, come ha recentemente ricordato la Cei, ma solo per l´approfondimento del cattolicesimo. Dunque, non è solo cultura.
«Non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo. Quello si fa in parrocchia. Diciamo, è un inquadramento generale sui valori del cattolicesimo».
Per questo i vescovi pretendono di essere loro a scegliere gli insegnanti?
«Non è una pretesa, è la logica conseguenza del modo con cui è stata pensata quell'ora nella scuola pubblica italiana. Ci si dovrebbe piuttosto lamentare del fatto che manca, sovente, un'ora alternativa per cui spesso i ragazzi scelgono di non avvalersi dell'ora di religione cattolica per poter uscire un'ora prima o entrare un'ora dopo».
Chi sostiene la proposta dell'ora di religione islamica nella scuola pubblica spiega che in questo modo si eviterebbe di lasciare solo alla parte più integralista della comunità il compito di insegnare i principi islamici ai ragazzi. Non le pare un ragionamento condivisibile?
«In linea di principio sarei certamente d´accordo e capisco le buone intenzioni di chi ha pensato a questa soluzione. Ma credo che non siamo davvero preparati a un cambiamento di questo genere. È un problema di gradualità. La società italiana, come tutte le società, ha bisogno di assimilare i cambiamenti poco a poco. Una modifica brusca rischia di creare contraccolpi che possono produrre l´effetto contrario a quello desiderato».
Tempo fa lei si è detto contrario al sorgere di «minareti accanto ai campanili». È contrario alla libertà religiosa?
«Al contrario. Penso che la libertà religiosa sia uno dei fondamenti del vivere civile. Ma proprio per evitare che quella libertà diventi contrapposizione dico che ai simboli è necessario prestare attenzione. Sono assolutamente favorevole al fatto che si individuino luoghi di preghiera per i cittadini di fede musulmana come per quelli delle altre confessioni religiose. Quel che non vorrei è invece che si cadesse nel relativismo. Le città e i paesi italiani sono stati caratterizzati per secoli dalla presenza dei campanili. E credo che sia giusto che il paesaggio non si modifichi radicalmente in pochi anni. Anche perché il sorgere dei minareti, oggi, non sarebbe lo specchio della società italiana».
Non crede che prima o poi si dovrà cominciare a modificare la situazione?
«Penso che con il passare del tempo la situazione si modificherà in modo naturale. E c´è da auspicare che il cambiamento si realizzi anche nei paesi islamici. Provi a far costruire oggi un campanile di fianco a un minareto in Arabia Saudita: la libertà è fatta anche di reciprocità».

l’Unità 18.10.09
Anm Dopo il caso Mesiano, i magistrati proclamano all’unanimità lo stato di agitazione
Sotto attacco «giudici e organi di garanzia». Botta e risposta con Alfano: «Guerra preventiva»
Toghe a un passo dallo sciopero «Difendiamo la Costituzione»
L’Anm in un clima di grande preoccupazione proclama lo stato di agitazione «primo passo di un percorso che può portare allo sciopero». La decisione dopo settimane in cui il premier minaccia riforme a maggioranza.
di Claudia Fusani


La base delle toghe vorrebbe sciopero subito. I vertici mediano e alla fine proclamano «lo stato di agitazione, primo passo di un percorso di protesta» che potrebbe portare tra una-due settimane, anche allo sciopero. Il ministro Alfano li attacca: «Questa è guerra preventiva». Immediata la risposta dei magistrati: «Difendiamo i valori costituzionali». La tregua apparente perchè i segnali di guerra sono tangibili dal 7 ottobre, giorno della pronuncia della Consulta sul Lodo Alfano tra magistrati e governo finisce definitivamente ieri pomeriggio pochi minuti prima delle quindici quando al sesto piano della Cassazione il parlamentino delle toghe proclama all’unanimità «lo stato di agitazione».
ANM, 8284 ISCRITTI
La goccia è stato il video di Canale 5 che ha spiato il giudice Raimondo Mesiano nel suo privatissimo e anonimo quotidiano. Ma la misura si è riempita in fretta nelle ultime due settimane in cui, giorno dopo giorno, il premier proclama di riformare a colpi di maggioranza Costituzione, Csm e carriere dei magistrati. Un conflitto che questa volta sembra essere definitivo. E dove alla fine ci saranno solo vincitori o vinti.
Il Comitato direttivo centrale dell’Anm, il sindacato delle toghe a cui sono iscritti 8284 magistrati su un totale di 8886, era stato convocato ieri mattina per ricordare la scomparsa del procuratore di Asti Maurizio Laudi, magistrato di punta nella lotta al terrorismo. La cronaca ha preso in fretta il sopravvento dopo il video-spionaggio nei confronti di Me-
siano a cui era seguita una lettera dell’Anm al Presidente della Repubblica per allertare sul «grave rischio per le istituzioni» e per denunciare «l’inaccattabile denigrazione». Alla dieci del mattino la sede dell’Anm è affollata, facce preoccupate, nessuna voglia di scherzare, l’occasione è grave e la preoccupazione altissima. «Emergenza democratica» è il concetto ripetuto dai 36 rappresentanti delle quattro correnti, dalla più moderata Unicost, che ha la maggioranza, ai più “ribelli” dei Movimenti per la giustizia. «E’ a serio rischio la tenuta democratica» attacca il presidente dell’Anm, Luca Palamara che apre i lavori del parlamentino. La preoccupazione è massima e riguarda, prosegue il segretario Giuseppe Cascini, «non solo le aggressioni alle massime autorità di garanzia (la Consulta e il Quirinale, ndr) ma anche l’intimidazione» al giudice Mesiano e le riforme «brandite come una clava, a mo’ di ritorsione». Veloce giro di tavolo, 36 aventi diritto di parola, intervengono un po’ tutti. «In gioco non è la sopravvivenza dell’ordine giudiziario ma il destino della democrazia» osserva il segretario di Unicost Marcello Matera che chiama a raccolta tutta la categoria, al di là delle singole correnti, «per una mobilitazione culturale e istituzionale a difesa delle fondamenta dello stato democratico».
Per Rita Sanlorenzo, segretaria di Md, «mai si era arrivati a tal punto di emergenza democratica». Antonietta Fiorillo (Mi) parla di «attacco finale definitivo contro cui serve un messaggio forte perchè sia chiaro che noi magistrati non ci faremo intimidire». Il primo a pronunciare la parola «sciopero» è Valerio Fracassi, segretario dei Movimenti per la giustizia che chiede «uno sciopero per la democrazia».
L’idea è chiara. Lo scenario anche: lo sciopero sarebbe l’unica risposta possibile dopo due settimane di attacchi «inauditi» e la provocazione del video-spionaggio su Mesiano. I ragionamenti, nei capannelli, sono del tipo: «E’ come se passasse il principio che se un giudice fa una sentenza contro qualcuno, questo qualcuno è legittimato a pedinare il giudice e a screditarlo».
Se questo qualcuno è il Presidente del Consiglio che usa la sua tivù per screditare il giudice che lo ha condannato a pagare 750 milioni alla Cir, si capisce perchè una toga come Gioacchino Natoli arrivi ad evocare «la notte dei cristalli». Ma è proprio l’altra corrente di sinistra, Md, la prima a frenare: «Come finire in un fosso» (Nello Rossi), «un autogol» (Anna Canepa). In votazione va una sola mozione: stato di agitazione, assemblee in tutti i distretti e vedere quali provvedimenti farà il governo. Poi decideranno le toghe.Mai come questa volta unite e compatte.❖

l’Unità 18.10.09
I penitenziari e le colpe del governo
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi


Secondo Silvio Berlusconi e Angelino Alfano sono in arrivo, nel giro di due o tre anni, circa 20.000 che ogni tanto diventano 25.000 nuovi posti nel sistema peniten-ziario. Ovvero, il governo starebbe per varare un programma straordinario di edilizia carceraria. Il tutto, dalle prime notizie, dovrebbe costare circa un miliardo e mezzo; e pare che la copertura finanziaria, ad oggi, soddisfi solo un terzo del fabbisogno. Con un po' di algebra, diciamo subito che semmai il governo riuscisse nell'impresa non farebbe che riportare la situazione del sistema penale a condizioni di gravissimo disagio, rispetto alle attuali che, causa sovraffollamento, sono invece di assoluta ed estrema invivibilità. Tuttavia, il premier e il ministro della giustizia non appaiono così sicuri dei loro intenti e dei loro mezzi. Alfano (oltre a meditare l'apertura di strutture private!) è andato a batter cassa in sede comunitaria, sostenendo come l'Europa debba aiutare l'Italia a edificare nuove carceri in virtù dell'alto tasso di presenza di detenuti comunitari ed extracomunitari; e il commissario Ue alla giustizia, Jacques Barrot, gli avrebbe risposto picche, in quanto quella richiesta sarebbe una misura di sostegno non prevista da alcun trattato. Il ministro dimentica che il Consiglio di Europa ha già indicato la propria strategia per il problema del sovraffollamento: non misure di incremento dell'edilizia penitenziaria, ma la depenalizzazione dei reati meno gravi e il maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione. Come ricorda l'associazione Antigone, l'alta presenza di immigrati nei nostri istituti di pena è determinata, per lo più, dal fatto che l'Italia, contravvenendo ai suggerimenti della stessa UE, criminalizza lo status di immigrato a differenza della maggioranza degli altri paesi. In più, ci ricorda ancora Antigone, "l'Italia ha il primato delle presenze di detenuti stranieri in attesa di giudizio (...); ciò significa che nei confronti degli stranieri in Italia esiste una discriminazione processuale e un uso esagerato della carcerazione preventiva". Ma Alfano queste cose non le sa o finge di non saperle; e mentre va fantasticando le nuove mirabili carceri modello new town abruzzese ribadisce il suo credo nella tolleranza zero. Basterebbe adeguare la legislazione italiana a quella europea in materia di immigrazione, invece di avanzare richieste pretestuose all' Unione per riparare i danni che lo stesso governo ha prodotto; e magari attuare ragionevoli, ragionevolissime misure di depenalizzazione (ad esempio, nei confronti del consumo di droghe) e di colpo si ridurrebbe il sovraffollamento. Ma vaglielo a spiegare...

Repubblica 18.10.09
Alle primarie il pugno del partito che non c'è
di Eugenio Scalfari


OGGI ci occuperemo del Partito democratico. Finora in questi articoli domenicali il tema è stato volutamente trascurato, ma ora è diventato di stringente attualità: domenica prossima, 25 ottobre, ci saranno le primarie che decideranno chi sarà il segretario nazionale del Pd, un evento importante non solo per quel partito ma per l´intera opposizione e anche per il sano funzionamento della democrazia italiana.
Il tema è complesso, perciò bisognerà esaminarlo nei suoi vari aspetti. Comincerò da Veltroni, insediato alla segreteria nell´autunno del 2007, pochi mesi prima delle elezioni che portarono alla vittoria di Berlusconi.
L´altro ieri in un «talk show» dell´emittente La7 qualcuno dei presenti in studio ha detto che Veltroni e D´Alema non soltanto sono politicamente irresponsabili, ma anche «due cretini». Proprio così: cretini.
C´è sempre una prima volta e questa è infatti la prima volta che un epiteto del genere è stato affibbiato ad un uomo politico. Non era mai stato usato. Se ne dicono tante sui politici, anche più sanguinose di questa, ma cretino non si era mai sentito in un salotto televisivo. Ma ormai gran parte dei salotti televisivi sono diventati dei «saloon» dove tutti i clienti portano le pistole nella fondina e il coltello nascosto nel risvolto degli stivali. Così va il mondo.
Nella campagna elettorale del 2008 il partito di Forza Italia arrivò al 37,5 per cento; il Pd guidato da Veltroni ottenne il 33,5 e tutti, fuori e dentro di esso, decretarono una solenne sconfitta. Invece non era stata una sconfitta: una formazione politica riformista con alle spalle pochi mesi di vita era arrivata a superare i risultati del Pci che, dalla segreteria di Natta in poi, non era mai riuscito ad andare oltre il 30 per cento. Senza dire che i riformisti italiani di ispirazione liberal-socialista in cent´anni di storia prima monarchica e poi repubblicana non sono mai usciti da un ruolo di pura testimonianza.
Non era dunque una sconfitta ma un punto di partenza più che rispettabile. Non fu vissuta così e questo è stato un grosso errore del quale non fu responsabile quel cretino di Veltroni.
Oggi i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Pd al 30 per cento. Non è molto ma è qualcosa se si pensa che un mese fa la più antica socialdemocrazia europea, l´Spd tedesca, ha ottenuto meno del 23 per cento; i socialisti francesi sono a pezzi; il Labour inglese è in piena tempesta e neanche Zapatero se la passa molto bene. Sembra un paradosso, ma un partito del quale tutti dicono che non esiste più o che è allo sbando, risulta quantitativamente il più forte della sinistra europea. Non è certo consolante per i rapporti di forza nel Parlamento di Strasburgo, ma è un dato di fatto dal quale dobbiamo partire.
* * *
Un altro dato di fatto ancora più significativo emerge dalla votazione di pochi giorni fa per il congresso del Pd. Sulla base dello statuto di quel partito hanno votato i soli iscritti che rivoteranno insieme agli elettori alle primarie del 25 ottobre. I votanti sono stati 450.000 pari al 60 per cento degli iscritti. Mi domando quali sono stati i congressi di grandi partiti in Italia negli ultimi dieci anni e quale di essi - se ce ne sono stati - è riuscito a mandare poco meno di mezzo milione di persone al voto.
Un partito che non esiste? Un partito di sfiduciati, di ipercritici, di indifferenti, senza dibattito interno, senza passione, senza speranze, come viene descritto da giornaloni e da giornaletti? Lascio ai lettori la risposta.
È vero però che lo statuto è molto contraddittorio e inutilmente complicato. Chi l´ha redatto e chi lo ha approvato voleva evidentemente accontentare tutti con l´inevitabile conseguenza d´aver prodotto una procedura inadeguata e confusa. Alcuni volevano sottolineare che gli iscritti debbono contare decisamente di più dei simpatizzanti; di qui una prima fase riservata al voto degli iscritti. Una fase tuttavia puramente registrativa poiché la decisione è riservata alle primarie dove iscritti ed elettori voteranno insieme. Pierluigi Bersani è risultato in testa nel voto degli iscritti ma ora è di nuovo in gioco nel voto delle primarie. Che senso ha una procedura così sconclusionata? Credo che, una volta conclusasi questa partita, i nuovi organismi dirigenti che usciranno dal voto delle primarie dovranno rimetterci le mani e renderla più adeguata alle esigenze della chiarezza e della logica.
Come se non bastasse, lo statuto ha anche stabilito che le primarie eleggeranno il segretario soltanto se uno dei tre candidati in lizza otterrà il 50 più uno dei voti espressi. Qualora ciò non avvenisse avrà luogo una terza fase dinanzi all´Assemblea nazionale eletta anch´essa il 25 ottobre. In questa terza fase i candidati rimasti in lizza saranno i primi due votati alle primarie. Il terzo sarà escluso dalla gara ma in realtà sarà il più forte dei tre perché i suoi rappresentanti nell´Assemblea, appoggiando uno dei due candidati in lizza, lo porteranno alla vittoria, naturalmente ponendo le loro condizioni di programma e di potere.
Le regole sono queste e vanno rispettate, ma sono a dir poco scriteriate perché di fatto danno il massimo potere al terzo arrivato. La conseguenza sarebbe quella di produrre un sentimento di frustrazione in tutti gli elettori delle primarie che vedrebbero capovolte le loro indicazioni.
Per evitare un cul di sacco così traumatico ho avanzato giorni fa una proposta. Io non sono un iscritto al Pd e mai mi iscriverò perché faccio un altro mestiere incompatibile con una tessera di partito. Ma parteciperò alle primarie perché sono un elettore e voterò per quel partito. Ho dunque proposto un accordo politico tra i tre candidati: si impegnino anticipatamente e pubblicamente, se nessuno di loro raggiungerà la maggioranza assoluta, a far affluire i propri voti in assemblea su quello dei candidati che ha ottenuto alle primarie la maggioranza relativa. In tal caso il voto delle primarie sarà rispettato, le regole dello statuto anche e - altro risultato non disprezzabile - il segretario nazionale sarà eletto dall´Assemblea all´unanimità. La mia proposta, forse proprio perché veniva da persona esterna al partito, ha avuto successo: l´impegno è stato preso sia da Bersani che da Franceschini. Esso darà maggior sicurezza e maggiore impulso a tutti quelli che si dispongono a votare il 25 ottobre.
* * *
Fin qui abbiamo trattato questioni di procedura. Importanti, perché senza procedure corrette non si ottengono risultati corretti. Ma ora dobbiamo esaminare il merito, cioè le proposte dei vari candidati, quelle che li uniscono e quelle che li dividono. Chi voterà alle primarie lo farà sulle proposte e sulla loro credibilità.
A me non pare che ci siano differenze per quanto riguarda la struttura del partito. Per lungo tempo si è discusso tra un partito cosiddetto liquido, cioè affidato soltanto ai simpatizzanti e quindi alla pubblica opinione, oppure un partito strutturalmente insediato sul territorio.
Questa questione mi sembra ormai superata. L´accordo è generale sul fatto che il partito deve essere presente e vivace sul territorio con larghe autonomie della struttura locale, ma entro linee-guida valide per tutti ed elaborate dagli organi centrali. Del resto questa disputa è già stata superata dai fatti: i 450.000 iscritti che sono andati a votare e che ci torneranno per le primarie sono la più evidente dimostrazione che le strutture sul territorio ci sono già; potranno essere utilmente rafforzate e dotate di adeguate funzioni, ma esistono e operano. Non era facile metterle in piedi in così breve tempo. Questo piccolo miracolo è stato compiuto e va riconosciuto a tutti quelli che l´hanno reso possibile.
Sgombrato il campo da questa questione ne restano altre di grande importanza che sono le seguenti: il rapporto tra l´opposizione e la maggioranza berlusconiana e leghista; il rapporto con le altre opposizioni, cioè la politica delle alleanze; il tema della laicità dello Stato; il tema dell´immigrazione e dell´integrazione; la politica economica; la politica della giustizia; la politica della scuola. Infine - ma soprattutto - il tema della libertà di stampa e quello dei grandi valori dai quali nasce la visione del paese e della società che vedremo nel futuro dell´Italia e dell´Europa di cui siamo parte integrante.
* * *
Si tratta d´una massa di problemi che dovranno essere risolti non solo dal Pd ma da un´elaborazione culturale cui debbono collaborare fondazioni, circoli, associazioni che condividano i valori e creino le condizioni culturali per farli crescere nella società. Un partito democratico deve aiutare questa evoluzione affinché il lavoro di semina e di raccolta sia ampio e proficuo. Veltroni - quel cretino a cui abbiamo già accennato - sostiene che è importante vincere ma ancor più importante è cambiare l´Italia risvegliandola dall´ipnosi in cui una parte del paese è caduta e ricondurla a riflettere e operare pensando al futuro e non accucciandosi su un presente precario e appiattito. Personalmente condivido.
Sulla politica economica mi sembra che l´accordo sia generale: nell´immediato occorre riversare le risorse disponibili sui lavoratori dipendenti e sulle piccole e piccolissime imprese e partite Iva. Sul medio periodo è necessaria una grande riforma fiscale e un allungamento dell´età di lavoro che tenga conto dell´allungamento della vita.
C´è accordo generale sul clima e sulle energie alternative e pulite. C´è accordo generale sulla riforma della giustizia, della sicurezza e dell´integrazione. La scuola è un campo da studiare. Esiste già un´ampia ricerca in materia ma ancora non è stata messa in discussione e bisognerà che si faccia al più presto.
Anche sulla laicità e sulle politiche della bioetica l´accordo sembra esserci almeno su un punto fondamentale: la Chiesa ha diritto di usare lo spazio pubblico per esporre le sue ragioni. Non ha invece diritto d´imporre il suo punto di vista nella politica, dove le prerogative dello Stato e del Parlamento sono esclusive e dato anche che i parlamentari cattolici hanno rivendicato la loro autonomia. Penso al cattolico adulto Romano Prodi e penso anche al documento che Franceschini diffuse anni fa raccogliendo su di esso sessanta firme di parlamentari cattolici che rivendicavano la loro autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche in materia di decisioni politiche e parlamentari.
C´è qualche dissenso sulla politica delle alleanze, ma francamente mi sembra più di parole che di sostanza. Se il Pd sarà forte le alleanze si faranno intorno a lui; se sarà debole non potrà svolgere la funzione di pilastro centrale delle opposizioni e non potrà raccogliere nuovi consensi sia a sinistra sia al centro. Penso che nessuno dei candidati preferisca un partito debole ad uno robusto e audace.
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Una parola conclusiva sui valori, che include anche il rapporto con il berlusconismo.
I valori d´un partito democratico non possono che esser quelli della libertà, dell´eguaglianza e della solidarietà. L´esperienza storica di oltre due secoli ci ha ampiamente insegnato che la libertà senza eguaglianza è fonte di privilegi intollerabili; l´eguaglianza senza libertà è fonte di dittature e totalitarismi; la solidarietà senza gli altri due diventa assistenzialismo ed elemosina. La democrazia che scaturisce da questi valori è quella descritta e tradotta in norme e in giurisprudenza dalla nostra Costituzione.
La Costituzione può essere rivista e modernizzata, ma non può essere cambiata. Lo impediscono l´articolo 1, l´articolo 3, l´articolo 138 e l´articolo 139. Berlusconi non vuole rivedere la Costituzione, vuole cambiarla. Vuole sostituire la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto con una democrazia autoritaria senza organi di controllo e di garanzia ma interamente basata su sistemi di voto plebiscitari. L´intimidazione dei "media" è un elemento indispensabile di questa strategia che ha come obiettivo finale un´immagine del paese riflessa da uno specchio taroccato al servizio del potere.
Si tratta di concezioni antitetiche a quelle d´un partito democratico e questo è un dato preliminare che non consente né mollezza né scorciatoie di furbizia compromissoria.
Da questo punto di vista noi ci auguriamo che alle primarie del 25 ottobre vada una massa di popolo consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità. Non centinaia di migliaia ma milioni di elettori. Perfino quelli che non condividono le tesi riformiste del Pd ma non si rassegnano all´Italia così com´è: votino magari scheda bianca ma vadano. Quei seggi del 25 ottobre saranno anche una prova di forza di tutta l´opposizione e un buon principio per un paese risvegliato.

Corriere della Sera 18.10.09
Il metodo (paradossale) scelto per l’elezione
Il Pd, il segretario e le primarie: è a rischio anche il futuro del partito
di Paolo Franchi


Forse è troppo affermare che il metodo adottato dal Pd per eleggere il proprio segretario è pazzesco. Forse è, più semplicemente, paradossale. E di sicuro è pericoloso. Non per questo o quel candidato, ma per le sorti stesse del partito.
All’apparenza, tutto è molto chiaro, e molto, molto democratico. Nei congressi gli iscritti selezionano, con il loro voto, i candidati che si presenteranno alle primarie. E segretario diventerà chi prevarrà in queste ultime, sempre che ottenga la maggioranza assoluta dei voti. Se nessun candidato dovesse ottenerla, la decisione finale spetterebbe all’assemblea nazionale, eletta nelle primarie medesime. Ma qui le cose già cominciano a complicarsi, e il condizionale è d’obbligo, perché di mezzo c’è il cosiddetto lodo Scalfari, secondo il quale dovrebbe risultare automaticamente eletto chi alle primarie ottenesse anche un solo voto in più dell’avversario: a quel che abbiamo capito, Dario Franceschini è d’accordissimo, Pier Luigi Bersani un po’ meno, Ignazio Marino per nulla.
Nessun problema, allora, lodo Scalfari (eventualmente) a parte? Non sembra. Il problema c’è, e sta, come suol dirsi, a monte. Nessuno dei contendenti può dirlo chiaramente, perché questo meccanismo lo hanno accettato tutti (Massimo D’Alema compreso), perché a sostenerlo adesso si rischia di passare per nemici della democrazia e soprattutto perché ormai è troppo tardi. Ma le primarie hanno un senso e un valore quando si tratta di scegliere un candidato premier, non ne hanno alcuno quando si tratta di scegliere il segretario di un partito. Nei partiti in cui la leadership è, come in democrazia dovrebbe risultare fisiologico, contendibile (come è noto, non lo è dappertutto: per fare il caso più eclatante non lo è quasi per definizione nel Pdl), a deciderla provvedono gli iscritti, seguendo un percorso che culmina nel congresso. Storie del passato, scampoli di Novecento? Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito in cui a decidere la leadership sia una platea indifferenziata di cittadini, tenuti solo a dichiararsi elettori del partito medesimo e a versare qualche spicciolo. Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito disponibile a correre, e per propria libera scelta, il rischio di mettere in aperto contrasto la volontà dei propri iscritti e quella dei propri elettori. Per il banalissimo motivo che se il «partito degli elettori» rovesciasse le decisioni del «partito degli iscritti», quest’ultimo, che, piaccia o no, è l’unico partito in carne e ossa che c’è, uscirebbe dalla contesa non solo sconfitto, ma profondamente delegittimato e, in ultima analisi, dissolto.
Una delle principali obiezioni a queste (ovvie) considerazioni è che il Pd è una sorta di work in progress: i suoi iscritti sono una realtà ben diversa dai militanti di un tempo, i cittadini che parteciperanno alle primarie sono elettori particolarmente attivi, attenti e appassionati, e la forma del partito che verrà sarà un mélange, oggi impossibile da definire nei dettagli, tra i primi e i secondi. E vero, ma al Pd si chiede di stare in campo oggi, non domani o dopodomani. Un’altra, e più concreta, obiezione è che il voto del «partito degli iscritti» (in specie, ma non solo, nel Mezzogiorno) è fortemente condizionato da una quantità di fattori, non tutti propriamente commendevoli, e quindi esprime i reali intendimenti del «popolo democratico» assai meno di quello delle primarie, molto più largo e molto più libero da condizionamenti (è in fondo questo, ci pare, il messaggio del manifesto fatto affiggere da Franceschini, sul quale il candidato, che, ricordiamolo, è pur sempre il segretario uscente, ci guarda dallo sfondo, e lo slogan recita: «Adesso decidi tu»). Può darsi.
Ma, quale che sia il giudizio sulla limpidezza del confronto interno al partito, è lecito contro-obiettare che anche il voto delle primarie è esposto a pressioni, sconfinamenti e incursioni esterne che possono condizionarlo e indirizzarlo verso risultati imprevedibili. Per influenzarne l’esito, non c’è bisogno che vadano a votare gli elettori del Pdl e, in fondo, nemmeno quelli di Di Pietro: con il passare dei giorni, si moltiplicano gli endorsement non solo degli amici e dei compagni di strada, ma persino quelli degli avversari dichiarati, e chiedersi quale sia il più efficace e quale il più controproducente è già diventato una specie di gioco di società.
In conclusione: per calcolo, per imperizia o per distrazione, o per tutte e tre le cose insieme, è stata innescata, potenzialmente, una specie di bomba ad orologeria. Se un augurio si può fare al Pd è che il timer, per un motivo o per l’altro, vada in tilt.
E che, superate le primarie, vincitori e vinti riescano a ritrovare, e a far ritrovare agli elettori, le ragioni dello stare insieme. Al momento, nonostante tutte le assicurazioni in senso contrario, la cosa non è scontata.

Corriere della Sera 18.10.09
La delibera Il testo che sarà approvato domani per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
«Ru 486, ricoverate fino all’aborto»
L’Agenzia: sì alla pillola ma con tempi più lunghi rispetto all’intervento tradizionale
di Margherita De Bac




ROMA — «L’impiego del far­maco deve trovare applicazio­ne nel rigoroso rispetto dei pre­cetti normativi della legge 194 a garanzia e tutela della salute della donna. In particolare de­ve essere garantito il ricovero in una delle strutture sanitarie dal momento dell’assunzione fino alla verifica dell’espulsio­ne del prodotto del concepi­mento ». E’ uno dei principi stabiliti nella delibera sulla pillola abor­tiva che domani il consiglio di amministrazione dell’Aifa (agenzia del farmaco) conse­gnerà al direttore ge­nerale, Guido Rasi, perché venga pubbli­cata nella Gazzetta Ufficiale con un ulti­mo atto formale chia­mato «determina».

Il provvedimento fi­nale di «immissione in commercio» an­drà in stampa entro 30-40 giorni. Quindi uscirà quando la Commissione Sanità del Senato avrà termina­to l’inchiesta conoscitiva. Con­comitanza non casuale che ri­sparmia ai dirigenti Aifa l’imba­razzo di anticipare gli esiti di un’iniziativa istituzionale e scansa il sospetto di aver subi­to le pressioni della politica. «L’inchiesta finirà entro il 19 novembre — conferma il mini­stro del Welfare, Maurizio Sac­coni —. Dobbiamo verificare la compatibilità della 194 con la pillola e con l’aborto farma­cologico che peraltro non è fat­to solo di Ru 486».

La delibera, approvata il 30 luglio e poi licenziata il 30 set­tembre dopo la rilettura del verbale, fissa alcuni paletti e dovrebbe tranquillizzare chi denuncia il rischio che l’aborto si trasformi in una pratica do­miciliare. La donna resterà in ospedale fino al termine del­l’interruzione di gravidanza. In genere tra l’assunzione dei Mi­fegyne (nome commerciale) e l’espulsione (determinata dal­­l’effetto di un secondo farma­co) passano tre giorni. Nulla vieta alla donna di firmare il re­gistro della dimissione e torna­re a casa in qualsiasi momen­to, come per ogni altro ricove­ro.

La delibera insiste sulla co­municazione: «Tutto il percor­so abortivo deve avvenire sot­to la sorveglianza di un medi­co del servizio ostetrico gineco­logico cui è demandata la cor­retta informazione sull’utilizzo del medicinale, sui farmaci da associare, sulle metodiche al­ternative e sui possibili rischi connessi nonché l’attento mo­nitoraggio onde ridurre al mi­nimo le reazioni avverse segna­late, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali».

Mifegyne dovrà essere pre­sa «entro la settima settimana di amenorrea». Dunque in tem­pi più brevi rispetto alle nove settimane previste in altri Pae­si. L’Aifa ha deciso di introdur­re la restrizione per «i rischi te­ratogeni connessi alla possibili­tà di fallimento dell’interruzio­ne farmacologica di gravidan­za e il sensibile aumento del tasso di complicazioni in rap­porto alla durata della gestazio­ne ».

La prossima settimana Rasi notificherà la delibera all’azien­da farmaceutica, la francese Exelgyne, che invierà all’Aifa il foglietto illustrativo, con le mo­difiche necessarie. Poi mande­rà la «determina» alla Gazzetta Ufficiale. La RU 486 entra uffi­cialmente in Italia. Sul piano delle polemiche non sembra essere finita qui. La Commis­sione del Senato presieduta da Antonio Tomassini potrebbe esprimere dubbi sull’impiego off label (non previsto dal fo­glietto illustrativo) del Citotec, il farmaco registrato in Italia come gastroprotettore, che provoca l’espulsione e va pre­so a 48 ore dal primo. 



Repubblica 18.10.09
Il delirio di onnipotenza
di Piero Ottone


Succede quasi sempre, è quasi una legge fisica. Chi partendo da zero raccoglie successi strabilianti è colto, prima o dopo, dal delirio di onnipotenza: fa allora un passo falso, che sarà la sua rovina. Succede ai grandi uomini: Napoleone vince tutte le battaglie, crede che vincerà anche l´ultima, parte per la campagna di Russia, ed è la fine. Succede (se vogliamo scendere a esempi più casalinghi) ai capipopolo fortunati, a Cola di Rienzo, a Masaniello: il successo trionfale li accieca, sarà la loro rovina. Succede anche al piccolo imprenditore arricchito che fa un investimento di troppo, e fallisce. Succede a tutti, insomma. E Silvio Berlusconi? Si poteva credere che lui fosse immune. Mai l´imprudenza, nel suo caso. Mai il passo fatale. Fino a ieri. Ma forse la legge fisica, adesso, ha funzionato anche per lui.
Forse. Può darsi che il momento fatale sia venuto in seguito alle ultime elezioni. Un successo trionfale: cinque anni sicuri al governo, senza opposizione. Il vincitore avrebbe potuto valersi della maggioranza di ferro per smantellare certi interessi costituiti, per mettere in cantiere le famose riforme, invocate dalle persone di buona volontà. Ha invece optato per quella che comunemente, e forse a torto, si chiama la dolce vita. I festini. Le ragazze a decine. Chi sa quali altre stravaganze. Può darsi che i lussi e gli eccessi siano per lui (come per Cola di Rienzo, dicono gli storici) fonte di piacere. Che siano irresistibili. Ma credo che il fenomeno da cui è stato travolto sia più complesso. Ciò che lo inebriava, più ancora dei piaceri di varia natura che poteva concedersi, era la prova che ormai, padrone d´Italia, era in grado di permettersi tutto: la vita del sultano, come ha detto Giovanni Sartori. L´harem. Nessuna distinzione fra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, fra aerei privati e aerei di Stato. Il capriccio di designare le concubine per questo o quel parlamento, di affidare i ministeri alle amiche. La dimostrazione, insomma, che poteva fare tutto quel che voleva: il delirio di onnipotenza. La legge fisica ha funzionato ancora una volta. Non con la campagna di Russia, ma con Marisa e Noemi.
Il passo falso (se questa lettura degli eventi è giusta) non porta direttamente alla perdita del potere. La maggioranza in parlamento è sempre lì, intatta. Forse è intatto, o limato di poco, il sostegno popolare (anche se i favori del popolo possono cambiare molto in fretta). Ma lo scandalo, quando è scoppiato, ha provocato nel personaggio un fenomeno di destabilizzazione. All´improvviso Berlusconi non è più lo stesso: sereno e sorridente fino a ieri, ora sembra ossessionato dagli attacchi, si difende e inveisce ogni volta che apre bocca, contrattacca, glorifica se stesso, ripete che è scelto dal popolo, che è il più bravo nella storia, che non ha rivali. La bocciatura del lodo Alfano, il risarcimento a De Benedetti di settecentocinquanta milioni hanno aggravato la situazione, hanno inasprito in lui la sensazione di isolamento. Il verdetto dei magistrati è anch´esso segno di indebolimento ? Sarebbe stato diverso qualche mese fa? Chi sa. Certo è che le disgrazie non vengono mai sole.
Resta da vedere, adesso, quali saranno le conseguenze del passo falso e della destabilizzazione. La stampa internazionale (surrogando quella italiana, la cui prudenza, tranne eccezioni, è un fenomeno preoccupante) scrive da vari giorni che un presidente del Consiglio in questo stato d´animo, un presidente ferito, nuoce al paese, è insostenibile. È possibile che lo pensino anche gli uomini intorno a lui, e ne traggano prima o dopo le conseguenze. Un uomo politico, Casini, gli ha consigliato di prendere una camomilla: quelli che condividono il potere potrebbero indurlo, più seriamente, a farsi da parte. L´altra possibilità (come ritiene Eugenio Scalfari) è che il comportamento del personaggio, invece che un fenomeno di destabilizzazione, sia deciso a mente fredda, nell´ambito di una strategia. Può darsi che voglia lanciare nuove formule politiche, temerarie riforme costituzionali: l´elezione diretta del Primo ministro, la repubblica presidenziale.
Ma gli osservatori stranieri probabilmente hanno ragione. La situazione attuale, così com´è, non può durare a lungo.

Repubblica 18.10.09
Taccuini di viaggio
La calda estate del Marocco dove il velo nasconde e svela
di Tahar Ben Jelloun


Una donna bellissima con una sottoveste leggera spunta dall´oceano trasformata in sirena luccicante Accanto, un gruppo di ragazze si tuffano completamente vestite. Nelle città la moda riempie le vetrine dei negozi di manichini nudi ma con foulard colorati sulla testa

Cose viste quest´estate in Marocco. Una spiaggia di sabbia fine, bianca, calda, meravigliosa. Un mare blu. Perfino la schiuma ha tracce di azzurro. Solo il rumore delle onde lente, appena visibili. Pochi bagnanti. Sportivi che corrono. Un cane che va a zonzo. La spiaggia è pulita, o quasi; delle navi hanno scaricato i liquami lontano dalle coste mediterranee. C´è catrame sulla sabbia.
Improvvisamente la mia attenzione è attratta da una giovane coppia che si accinge a entrare nell´acqua. Lui con costume lungo, cappellino e macchina fotografica. Lei in una camicia da notte celeste particolarmente aderente. Si indovinano le forme. Avanza nel mare, si immerge tutta vestita e ne esce come una sirena trasparente. L´uomo la fotografa, le chiede di tuffarsi di nuovo. La donna si ferma e si gira verso di lui, verso di me. Ha un petto splendido. Si distingue bene la forma dei seni, con i capezzoli neri. Sotto la camicia da notte indossa mutandine di cotone bianco. L´uomo è occupato a fotografarla e io ammiro quella bellezza uscita dal mare con la stoffa appiccicata alla pelle, si intravede un triangolo nero, il famoso paradiso profumato. L´uomo si volta e noto che ha la barba. Sua moglie non deve essere vista da altri uomini. Mentre indietreggio mi lancia un´occhiata minacciosa. La donna gioca con l´acqua, lancia manciate di schiuma. È magnifica. L´uomo si precipita verso di lei e la copre con un immenso telo da bagno. Fine dello spettacolo. Fine del film erotico. Continuo la mia passeggiata ripensando a quella sirena che stava al gioco.
Un po´ più in là, un gruppo di giovani donne, tutte vestite, si immergono nell´acqua. Sono sole, non ci sono uomini con loro. Si divertono, rotolano sulla sabbia, escono ridendo. Il fatto di non essere in costume da bagno non sembra disturbarle. Escono dall´acqua come naufraghi stanchi, si buttano sulla spiaggia e aspettano di asciugarsi. Lì accanto si sistema una famiglia di emigrati. Il padre pianta un ombrellone e si piazza all´ombra. Legge un giornale in arabo. La madre si occupa dei bambini, due adolescenti e tre bambine: la più grande indossa un due pezzi, le altre due restano vestite. Tra di loro parlano in tedesco. Non capisco una parola ma vedo che sono allegre. Insieme ai fratelli, giocano a pallavolo con una rete immaginaria. Il padre non dice nulla, la madre prepara il pranzo. Scambia qualche parola con il marito, a volte in arabo e a volte in berbero. Le tre bambine fanno il bagno, giocano, gridano, si divertono. Non si direbbe in nessun momento che le due sorelle vestite possano sentirsi scomode o a disagio. Valli a capire. Una in costume da bagno sexy, le altre due in abiti grigi.
Vado alla posta a ritirare un pacco. Odio andare alla posta. Fa caldo. Mi metto in coda e osservo che nella fila accanto c´è più gente, ma la mia non avanza. Un tipo mi fa: «Vieni di qua, passerai più in fretta». Gli chiedo perché. Mi risponde: «Qui c´è una sorella musulmana allo sportello. È più seria e più efficiente. L´altra mastica il chewing-gum e lavora brontolando». Mi avevano già fatto notare che i fondamentalisti tengono a mostrare quanto siano seri e integri. E un modo di militare per il partito che li rappresenta.
A Tangeri mi siedo al Café de Paris, in place de France. Sono con un amico spagnolo. Mi chiede perché ho scelto questo caffè. Perché è un eccellente punto d´osservazione. Tutti passano di lì. Decidiamo di contare il numero delle donne velate e di quelle non velate. Dopo un quarto d´ora smettiamo di contare: il velo vince di gran lunga. Significa che tutte le donne con un foulard in testa sono fondamentaliste? No. È la moda, d´altronde sulla "kissaria" (mercato di abiti e tessuti da donna) hanno aperto negozi che vendono solo foulard, di tutti i colori e di tutte le forme. In vetrina, i manichini di plastica sono nudi ma incappucciati da eleganti foulard.
Ho visto uomini neri, ben vestiti, passeggiare per la medina di Tangeri. Una volta tanto non si tratta di sventurati clandestini inseguiti dalla polizia. Sono comparse sulla scena di un film che si svolge in Africa, con Leonardo di Caprio protagonista. Hanno allestito un mercato africano di fronte al teatro Cervantes, in rovina da oltre cinquant´anni. È lì che girano il film. La sera ho visto Di Caprio cenare con sua madre al ristorante Mirage. Parlava con lei in tedesco.
Il primo giorno del Ramadan il volto della città è cambiato. Le vie sono quasi vuote fino alle dieci del mattino. Tutti fanno il digiuno, anche quelli che non lo fanno. È inimmaginabile che un marocchino musulmano esca per strada fumando o mangiando un pezzo di pane. La legge lo vieta e la gente non lo permetterebbe. La città comincia ad animarsi verso l´una del pomeriggio, subito dopo la preghiera di metà giornata. Più il tramonto si avvicina (quest´anno è verso le sette), più la gente si muove, si irrita, litiga e corre in tutte le direzioni. Stare senza mangiare, bere, fumare e avere relazioni sessuali, in breve cambiare da cima a fondo il modo di vivere, rende la gente irascibile. Siamo lontani dal senso spirituale del digiuno, considerato dall´islam come un momento di raccoglimento, di meditazione, di introspezione e di preghiera.
Alla rottura del digiuno si mangia molto, troppi dolciumi, pasticcini al miele, uova sode. Si mangia in fretta e troppo. La sera è il momento più simpatico del Ramadan. La gente è rilassata, si incontra e si diverte fino al sorgere del sole, il momento preciso in cui comincia il digiuno. Tra le otto e le dieci di sera, si riempiono le moschee per ascoltare i teologi parlare dell´islam e della vita. Queste sedute, dette "tarawihe", sono in pratica lezioni e prediche più approfondite.
È durante il mese di Ramadan che alcuni musulmani si recano alla Mecca per l´Omra, (il piccolo pellegrinaggio). Quest´anno, la minaccia dell´influenza non ha avuto alcun effetto su chi sognava di fare quel viaggio. Si vedrà al ritorno. Gli albergatori e gli operatori turistici sono contrariati: quest´anno il Ramadan è cominciato il 21 agosto; l´anno prossimo inizierà l´8 agosto, l´anno dopo il 28 luglio… Gli affari ne risentiranno per almeno cinque estati. Ma la fede è più forte del commercio!
Traduzione di Elda Volterrani

Repubblica Firenze 18.10.09
Il manicomio di Tobino
Follia e letteratura, un mondo da salvare
di Laura Montanari


Abbiamo visitato l´immensa struttura a pochi chilometri da Lucca dove lo scrittore-psichiatra visse e lavorò con i suoi malati

A Maggiano, in un´ala del manicomio, lo scrittore ha abitato per quarant´anni, «ora per ora con i matti» fino al capolinea della legge Basaglia. «Anche in questo momento mentre sono con la penna in mano mi arrivano le parole dei malati (...), qui sotto la mia finestra e distinguo la voce di Gianni che fischia come una carrucola di pozzo, il pigolio da canarino di Sanesi... «si legge negli «Ultimi giorni di Magliano».
La casa dello scrittore, «due stanzette, tugurio e villa» stava andando alla malora come il resto degli edifici intorno, una deriva di infissi che sbattevano al vento, stanze ancora piene di arredi, la sua branda, la macchina da scrivere, una poltrona, una lampada, il tavolo dello studio. Dieci anni senza più un inquilino: è un tempo capace di lasciare segni e ferite indelebili. A salvare questo posto, crocevia di malattia, esclusione e letteratura, è stata la Fondazione Tobino che è riuscita a rastrellare i fondi necessari per fasciare di impalcature l´ala dell´immobile che era la casa dello scrittore e la biblioteca del manicomio. Un luogo simbolo sulla collina di Santa Maria delle Grazie (a pochi chilometri da Lucca) che diventerà la sede della fondazione, museo e centro studi collegato alle università. La nuova casa alla memoria di Mario Tobino sarà consegnata nei prossimi mesi in occasione del centenario (1910-2010) della sua nascita. Sarà come la vecchia, ma ritinteggiata e ristrutturata. «I lavori sono stati finanziati per un milione e 200 mila euro arrivati dal ministero e altri 600 mila dalla Regione Toscana» spiega Tagliasacchi che fa strada assieme al primario dell´ospedale psichiatrico di Lucca, Enrico Marchi e a Marco Natalizi direttore della Fondazione: prende le chiavi. Riapre una dopo l´altra, fra mille cautele, le porte di questo «pozzo di reclusione», dove il silenzio resta popolato di presenze: la Marzi che voleva uccidersi buttandosi di sotto, la Berlucchi che si è trapassata il petto con l´ago della calza, il Tono, la Benni e molte altre e altri «dannati della malattia mentale». «Ombre con le radici fuori dalla realtà, ma hanno la nostra immagine, mia e tua, oh lettore» scriveva Tobino nelle «Libere donne di Magliano». Donne che di libero non avevano più niente e per capirlo basta scendere poche scale in questo edificio abbandonato e trovarsi davanti, dopo gli stanzoni con le finestre piombate dalle sbarre, i loculi del reparto delle «agitate». C´è ancora il telaio in ferro di qualche letto, ci sono le porte di legno con le serrature pesanti e un piccolo oblò al centro da dove le infermiere spiavano le pazienti «all´alga», cioè quelle che potevano stare solo nude nelle smanie della follia, lasciate al vuoto di uno spazio di reclusione soltanto con lo spiffero di un termosifone nell´inverno e con cumuli di alghe marine essiccate per giaciglio.
Androni, chiavistelli, soffitti con le travi, grandi finestre che danno sui chiostri, le cucine in cui è cresciuta l´erba. Mancano le grida, ma sono rimpiazzate dal silenzio e l´effetto, lo sgomento, è lo stesso: «Eppure qui - spiega il professor Marchi - rispetto ad altri manicomi c´era una maggiore apertura verso l´esterno. Ad esempio, negli anni Cinquanta si organizzò persino un festival di musica pop dove i cantanti erano pazienti che venivano dagli ospedali psichiatrici di tutta Italia». La Fondazione - creata nel 2006 dalla Provincia di Lucca, Comune di Viareggio, Usl 2, dagli eredi dello scrittore, con la collaborazione del Gabinetto Vieusseux di Firenze, due fondazioni bancarie (Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lucca) e di recente il Comune - organizzerà borse di studio, convegni e rileggerà soprattutto quel Tobino che nell´Italia dei Basaglia e degli anti-Basaglia è stato frettolosamente sistemato nei perdenti, fra quelli che non volevano chiudere i manicomi. Per capire lo scrittore viareggino non basta probabilmente oggi rileggerlo, bisogna salire su questo versante della collina e camminare nelle stanze che ha abitato «gomito a gomito» con le persone che curava. Quarant´anni così, a guardare dentro la follia, ma sempre, come ha scritto Eugenio Borgna, «nella sua radicale dimensione umana».

Corriere della Sera 18.10.09
Retrospettive Londra: l’artista anglo-indiano alla Royal Academy
Kapoor? Un simbolista d’oggi
di Giorgio Cortenova


Anish Kapoor sostiene che il rosso è il colore del sole che tramonta e che il blu rivela e custodisce la profondità più ancora del nero. Ha ragione, perché la pro­fondità che egli ricerca non è quella fisica e visiva, ma quella psichica, ca­rica di brividi e di presagi. Del resto è cosa che gli artisti hanno sempre sot­tolineato, da Munch a Bacon.

Ma il blu, il rosso, come d’altra par­te il giallo di Kapoor, ricordano i toni cangianti delle carrozzerie delle auto e attingono magie ed evocazioni dal­le lacche indiane che gli sono natural­mente familiari.

Anish è nato infatti nel 1954 a Bom­bay (oggi Mumbai) da padre indiano e madre ebrea irachena, insomma da due culture incrociate che da sole for­mano un intrigante tessuto ricco di sollecitazioni.

Nel ’74 si trasferisce a Londra, do­ve studia all’Hornsey College, e nel­l’ 80 ha il suo battesimo con il siste­ma dell’arte in una mostra parigina presso Patrice Alexandre.

Il suo talento esplode assieme a quello dei Gormley e dei Cragg. Ma Kapoor è diverso. Più mite ed evocati­vo: non cerca le provocazioni o lo sberleffo e preferisce gli enigmi rac­chiusi in forme semplici, spesso di le­gno intagliato e reso policromo con pigmenti tipicamente indiani.

A suo modo è un «filosofo» e mal­grado le molte interpretazioni che si sono sviluppate attorno alle sue ipo­tetiche letture, da Fichte a Schlegel, è comunque cosa certa che i suoi testi di riferimento sono quelli del vec­chio Platone: una luce orientale inci­sa nel cuore dell'Occidente. Adesso Londra gli dedica una retrospettiva.

Dagli anni Novanta in poi Kapoor si serve delle resine, dell’acciaio cor­ten, dell’alluminio: gigantesche for­me concave, a tromba, laccate in ros­so, come Untitle (2007), un vortice che converge nella centralità del bu­io e ti risucchia nel richiamo fascino­so del mistero. Il successo lo premia fino agli eccessi di un mercato impaz­zito e ben manovrato, che nel suo ca­so sembra ancora a prova di crisi.

Kapoor non è un artista «neo-con­cettuale » o genericamente «menta­le », definizioni spesso di comodo che riempiono la bocca del nulla da cui spesso nascono. E’ invece un sim­bolista contemporaneo, che attinge emozioni dalla storia, a partire da Re­don e da Kubin, e naturalmente dal pensiero veggente dell’India e di quell’Oriente insonne che attrae il corpo per restituirci l’anima.

ANISH KAPOOR Londra, Royal Academy, sino all'11 dicembre. Tel. +44/20-73008000

Corriere della Sera 18.10.09
Antologiche Zurigo: settantacinque fra dipinti e disegni preparatori, dal 1875 al 1890, del «puntinista» Seurat alla Kunsthaus
A Georges piaceva dividere i colori
Precursore delle ricerche della Bauhaus e dell’Optical art
di Sebastiano Grasso


Georges Seurat ha vissuto solo 32 anni (1859-1891). Qualche anno in meno di Van Gogh (37: 1853-1890) e di Gauguin (55: 1848-1903). Entrambi gli devono qualcosa. Nato in una famiglia agiata, Seurat può dedicarsi alla pittura.

Nel 1878 si iscrive alla Scuola di Bel­le arti e nel 1883 esordisce con un dise­gno al Salon des Indépendants . Ne se­guono altri: ha negli occhi i paesaggi di Millet. Nei rimanenti otto anni, di­pinge decine e decine di grandi qua­dri, cui si affiancano 583 disegni e 163 schizzi preparatori.

Che cosa avrebbe potuto fare se fos­se vissuto una decina d’anni in più? Do­manda valida per moltissimi altri, natu­ralmente (e viene in mente Vincenzo Bellini, morto a soli 34 anni: Sonnam­bula, Norma, Puritani, Pirata, Capule­ti e Montecchi, Beatrice di Tenda ).

Seurat si rende conto che l’Impres­sionismo — che sino a quel momento ha avuto il merito di attrarre a sé tutte le avanguardie — dà segni di stanchez­za. Nel 1886, all’ottava e ultima, conclu­siva mostra degli impressionisti, orga­nizzata dal gallerista Durand-Ruel, nep­pure l’ombra di Monet, Renoir e Sisley. Ci sono, invece, Pissarro, Seurat e Si­gnac.

Già da qualche tempo, Pissarro rifiu­ta «la pastosità, la morbidezza, la liber­tà, la spontaneità e la freschezza della nostra arte impressionista»; Seurat, che da un po’ di tempo s’è dedicato a testi sui fenomeni ottici, tenta di coniu­gare arte e scienza; Signac, anche se più giovane di Seurat di soli quattro an­ni, lo segue a ruota.

Divisi i colori in «primari» (blu, gial­lo, rosso) e «secondari» (verde, violet­to, arancione), Seurat ne vuole applica­re, sulla tela, il «contrasto simulta­neo ». Come? Non mischiandoli, ma ac­costandoli. Piccoli punti separati.

Ecco l’inizio del cosiddetto puntini­smo ( pointillisme ). Primo esempio, Una domenica all’isola della Grande Jatte. Il critico Felix Fenelon lo defini­sce «neoimpressionista» e «manifesto di una nuova tecnica».

La definizione non garba a Seurat. Avrebbe preferito: «impressionista lu­minista » o «cromo luminista». Tant’è. Non tutti gradiscono il dipinto, pe­rò, anche se per molti questo indica una svolta nella pittura made in Fran­ce .

Grande successo, invece, fra gli scrittori simbolisti, anche perché con­temporaneamente appare il loro Mani­festo.

Seurat approfondisce la propria ri­cerca sui fenomeni ottici. Guardando alla scultura egizia e a Piero della Fran­cesca, semplifica l’architettura di sce­ne e figure. Si vedano le marine, l’am­bientazione degli spettacoli popolari di piazza, le vedute del circo, le passeg­giate mattutine, la rivisitazione della Torre Eiffel. La figura non è più a sé stante, ma viene inquadrata in armo­nia con lo spazio geometrico.

Ed è appunto questa la chiave di let­tura della rassegna che Zurigo dedica a Seurat: 75 fra dipinti e disegni, dal 1875 al 1890. Una sorta di retrospettiva, curata da Christoph Becker e Julia Bur­ckhardt. Buona parte dei dipinti sono accompagnati dagli studi preparatori, in modo che il visitatore possa render­si conto dei vari passaggi.

Se in vita Seurat è certamente un ar­tista di successo, non altrettanto lo è dopo la morte. Anzi, per un lungo peri­odo, su di lui s’è stesa una coltre di oblio. Dopo un certo interesse da parte del Futurismo (Balla, soprattutto), la ri­presa avviene circa trent’anni dopo, at­traverso gli aderenti alla scuola tede­sca della Bauhaus, fondata da Gropius. Ad essa si riallaccerà l’Optical art, nel momento in cui riprende le ricerche di Moholy-Nagy ed Albers.

Georges Seurat non aveva seminato invano.

GEORGES SEURAT Zurigo, Kunsthaus, sino al 17 gennaio. Tel. +41/44-2538484

Corriere della Sera 18.10.09
Seurat. Pulviscolo sonoro
di Duilio Coureir


Il pittore Georges Seurat (1859-1891)Sotto la spinta d’in­venzione ed energia di Georges Seurat e dei suoi amici d’av­ventura estetica (da Signac a Pissarro) si afferma quel movimento che ha preso il nome di pointillisme e che in dieci anni, fra il 1880 e il 1890, rende più decisa la sua presenza nella cultura francese, sino ad arrivare negli atelier dove si fanno le prove del Cubismo, del movimento fauve e di ogni altra possibile avanguardia con nuove inattese scoper­te.

Il percorso del pointilli­sme , però, non appartiene soltanto alla storia figurati­va, ma trova un suo spazio nei territori della musica da cui, per la verità, non pa­re sia stato mai assente.

Nella musica il pointilli­sme si realizza con atteggia­menti diversissimi. Il mon­do delle note, infatti, offre notevoli esempi di fram­mentazione sonora, inter­rotta da pause amplissime e lontane — da Montever­di alla Secessione viennese e da Gustav Mahler a Sciar­rino, per dare alcune indi­cazioni significative — sen­za dimenticare che si tratta pur sempre di una medita­zione fatta in gran parte da ipotesi ed interrogativi.

La prima traccia, forse un’ipotesi assai azzardata, di pointillisme, si trova nel­la raccolta delle opere mon­teverdiane, una canzonetta a tre voci che è un pulvisco­lo sia nelle note che nelle sillabe, un gioco magistra­le di frammentazione.

Occorre dire che gli even­ti d’un linguaggio possono presentarsi separati dal tempo e dallo spazio e che le trasmissioni avvengono sotterraneamente.

Sicuramente questi feno­meni possono essere vissu­ti senza la consapevolezza critica d’un Seurat e compa­gni. Il compositore russo Peter Illic Ciaikovskij nello scherzo della Quarta sinfo­nia si impegna a comporre figure con degli staccati e colloca il tempo prima del­la fine, facendone un movi­mento di evasione e di ri­cerca. Nella Sonata op. 14 n.2, Beethoven si serve del pointillisme per creare non delle note, ma delle cellule spezzate per un bi­sogno di sperimentazione.

Bizet può essere citato in questo contesto per la durezza intrinseca della sua Carmen, e per la metal­licità del contrappunto che anticipa la stagione della Nuova oggettività.

Discorso diverso per Gu­stav Mahler: uomo delle pause, delle attese, della tensione delle attese che si rivolgono verso situazioni screziate. Il procedere del­la scrittura mahleriana si aggroviglia in un incessan­te flusso suscitato e traccia­to da suoni slegati che provocano uno stato di aspet­tativa e di corri­spondenze che si rinnovano all’infi­nito.

Per concludere questa esplorazio­ne — dove resta­no aperte molte ipotesi — rivolgia­moci ad un prota­gonista della musi­ca contemporanea come Salvatore Sciarrino, che cer­ca ed inventa la musica con ogni mezzo. Il famoso pulviscolo sonoro del compositore siciliano è tale perché egli passa attra­verso fonti nobili. Nel pez­zo eseguito da Sciarrino a San Petronio, a Bologna, per le Feste musicali, vive il culto della grande musi­ca, ma non si sente neppu­re una melodia.

La partitura ha questa specie di ansietà: uscire dalle privazioni del canto. Si ascoltano brandelli di melodie interrotte, realizza­te con improvvisi incre­menti di suono o con battu­te lunghe per rendere più espressivo il discorso nei momenti di maggiore ten­sione; soluzioni che fanno sentire la vicinanza del pointillisme, anche se non si avverte più il clima stori­co di quella stagione intel­lettuale legata a Seurat.

sabato 17 ottobre 2009

l’Unità 17.10.09
«Oggi tutti in piazza perché vogliamo vivere in un’Italia felice»
A Roma la manifestazione nazionale per dire no a razzismo e omofobia Contro la «cultura preistorica» di chi aggredisce le persone per il colore della pelle o solo perché le accusa di essere diverse. Per un paese migliore
di Igiaba Scego


Capello, sciarpa, guanti, la bandiera della pace e un ombrello. Le previsioni meteo minacciano pioggia. Ma non sarà certo questo a fermarmi. Il mio ombrello è verde quindi ci sta anche bene, ha il colore della speranza. È proprio la speranza (insieme a una sana voglia di cambiamento) che mi spinge verso la piazza. Questa di oggi non è solo una manifestazione contro il razzismo e l’omofobia, per me è soprattutto una manifestazione di persone che sono stufe di essere tristi nell'Italia disillusa che ci vogliono propinare in Tv e nei talk show urlanti. L'Italia non è il luna park dei reality, l'Italia per me è una realtà plurale che sogna e ama.
Io e tanti altri scenderemo in piazza per la nostra felicità, per la felicità di tutti coloro che amiamo e ameremo. L'idea di un'Italia preistorica, fobica, che non fa ricerca, che aggredisce persone per il colore della pelle o la religione, che non investe sulla cultura, che fa marcire i suoi monumenti storici (vedi Pompei), che taglia la scuola, che taglia i salari, che arricchisce solo i più ricchi, che ingrassa la mafia, a me non piace.
Manifesto per la felicità di tutti e per i bambini. La polemica sui bambini figli di migranti nelle scuole è un segno nefasto dei nostri tempi tristi. Bambini stranieri? Ma se molti sono nati in Italia, di quali stranieri stiamo parlando? E a quelli davvero venuti da fuori come fai ad insegnare la lingua se hanno tagliato tutti i fondiper l’italiano? Invece di potenziare la scuola, di dare una mano agli insegnanti che devono fronteggiare sfide sempre nuove, di istituire corsi di formazione, si fa la propaganda antistraniero perché è più facile aizzare la gente attanagliata dalla crisi e dai problemi.
Questo governo taglia le nostre vite, ci toglie ossigeno e ci fa respirare l'anidride carbonica dell'odio che non ci porterà tanto lontano.
L'Italia plurale, di italiani, migranti, figli di migranti è una sfida che il nostro paese deve vincere per essere nel futuro alla pari, competitivo ed europeo.
Dobbiamo creare un paese che investe sulla conoscenza reciproca, che crea servizi, che affronta le problematiche non con fatalismo ma con professionalità. La convivenza non è facile. Non è facile in una coppia che si ama, come non lo è in una città, in un paese. Ma chi soffia sul razzismo vuole solo vederci tristi, poveri e soli. Io non ci sto. Il razzismo è davvero una brutta storia come ho letto su una maglietta giorni fa. Questa volta non facciamoci fregare. ❖

l’Unità 17.10.09
Il Consiglio dei diritti umani approva il rapporto di Goldstone
Gerusalemme protesta, i palestinesi esultano: è la nostra rivincita
Guerra di Gaza Primo sì dell’Onu alla condanna di Israele e Hamas
di Umberto De Giovannangeli


Con 25 voti a favore, 6 contro tra cui l’Italia e 11 astenuti, il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato il rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Israele si ribella, i palestinesi plaudono.

Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha adottato ieri il rapporto Goldstone che accusa Israele e Hamas di aver commesso crimini di guerra nell'operazione «Piombo fuso» nella Striscia di Gaza. Dei 47 membri del Consiglio, 25 hanno votato a favore della risoluzione che critica Israele per non aver cooperato con la missione dell'Onu guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone che ha indagato sulla guerra, in 6 hanno votato contro Italia, Stati Uniti, Olanda, Ungheria, Slovacchia e Ungheria mentre 11 si sono astenuti.
ACCUSE RECIPROCHE
Con l'adozione della risoluzione, il Consiglio dei Diritti Umani passa «urgentemente» la questione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, che potrebbe raccomandare il coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Durissima la reazione dello Stato ebraico. Il rapporto Goldstone è «iniquo» e incoraggia «le organizzazioni terroriste in tutto il mondo», denuncia una nota ufficiale del ministero degli Esteri israeliano. «L'adozione di questa risoluzione pregiudica tanto gli sforzi per proteggere i diritti umani secon-do il diritto internazionale, come gli sforzi per promuovere la pace in Medio Oriente», si legge ancora nella nota. «Israele conclude il comunicato del ministero degli Esteri di Gerusalemme continuerà ad esercitare il suo diritto all'autodifesa e a prendere le azioni necessarie per proteggere la vita dei suoi cittadini». Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite «affosserà» la decisione della Commissione Diritti Umani dell'Onu sul Rapporto Goldstone: ne è certo Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele a Roma e portavoce del governo di Gerusalemme che spiega: «Non siamo sorpresi afferma in questa commissione c'è una maggioranza di Paesi contro Israele, molti Paesi hanno votato contro, come l'Italia, o si sono astenuti. E così hanno fatto tutti i Paesi democratici. Da questo punto di vista è una vittoria israeliana. Ora il testo andrà al Consiglio di Sicurezza e sono sicuro che gli amici di Israele useranno il diritto di veto per affossare questa decisione. Il voto di oggi (ieri, ndr) è solo l'ennesima manifestazione d'odio nei confronti di Israele da parte di questa commissione che più volte si è distinta per un atteggiamento anti-israeliano».
L’ANP SODDISFATTA
Di segno opposto la reazione palestinese. «La decisione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu di adottare il rapporto Goldstone è una rivincita del popolo palestinese», commenta Nabil Abu Rudeineh, portavoce dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La decisione del Consiglio, prosegue il portavoce dell'Anp «dimostra il sostegno internazionale alla causa palestinese» ed è un gesto di «incoraggiamento da parte comunità internazionale per rafforzare la fiducia popolo palestinese nella giustizia e nei diritti». Infine, per Rudeineh, si tratta di un «precedente che può aiutare il popolo palestinese a difendersi da qualsiasi attacco futuro da parte di Israele». Ora, gli fa eco Yasser Abed Rabbo, segretario del comitato esecutivo dell’Olp, «è bene che il rapporto sia discusso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Da Gaza parla Hamas: «Ci auguriamo che il voto di Ginevra costituisca il primo passo per arrivare a processare i criminali di guerra israeliani», dichiara Fawzi Barhum, portavoce del movimento integralista palestinese.❖

Corriere della Sera 17.10.09
Consiglio per i diritti umani Accuse a Israele per l’operazione «Piombo fuso» e ad Hamas
L’Onu: «crimini di guerra» a Gaza
Approvato il rapporto Goldstone. Usa e Italia votano contro
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Criminale di guerra. E contro l'umanità. Per avere fatto un uso sproporzionato della forza. Per le violenze a Gerusalemme Est. E aver inflitto una punizione collettiva ai palestinesi di Gaza.
Venticinque palline bianche impallinano Israele, al Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Venticinque sì che adottano le 575 pagine del Rapporto Goldstone e, dopo nove mesi, mettono al mondo la prima sentenza su quei 22 giorni di bombe dell'operazio­ne Piombo Fuso: «Una grave violazione del diritto umanita­rio internazionale».
Il pronunciamento, del tut­to scontato, stabilisce che i 10 mila documenti allegati, le 1.200 foto, le 200 interviste, i cinque mesi d'indagine del giudice sudafricano Richard Goldstone e dei suoi collabora­tori, un'inglese, un irlandese e una pakistana, tutto questo è credibile. E dice che Israele de­ve presentare una sua inchie­sta altrettanto credibile, entro sei mesi. Altrimenti, il Consi­glio di sicurezza discuterà d'un vero processo internazio­nale per crimini di guerra e contro l'umanità.
Il Rapporto per la verità con­tiene accuse anche a Hamas, per le violazioni dei diritti nel­la Striscia, l'uso di scudi uma­ni e gli oltre 10 mila razzi Qas­sam lanciati in dieci anni sulle città del Sud israeliano. Ma di questo, la sessione ginevrina dell'Onu s'è occupata solo a margine: il documento d’azio­ne punta il dito soprattutto sui 1.300 morti della guerra, indicando per Hamas un gene­rico obbligo d'indagare. Lo stesso Goldstone, che è d'ori­gine ebraica e ha ricevuto vio­lenti attacchi dalla destra israe­liana, se n'è lamentato: «Que­sta risoluzione mi rattrista: si riferisce solo alle accuse con­tro Israele. Non c'è una frase che condanni Hamas, com'è invece nel mio rapporto».
Giustizia è quasi fatta, esul­tano i palestinesi: «L'impor­tante è che queste parole si tra­ducano in maggior sicurezza per noi» (Nabil Abu Rdeneh, portavoce di Abu Mazen); «speriamo che questo voto porti a un processo degli occu­panti sionisti» (Taher Al Nou­nou, Hamas). È un premio al terrorismo mondiale e una mi­naccia al processo di pace, av­verte il governo Netanyahu: «L'esercito israeliano ha usato i guanti di velluto sui civili di Gaza» (Eli Yishai, ministro dell'Interno); «Chi ha votato sì sappia che la prossima vol­ta toccherà alla Nato in Afgha­nistan o ai russi in Cecenia».
Numeri e dichiarazioni non spiegano ogni cosa, però. In­nanzi tutto perché Netanyahu temeva un risultato peggiore: le febbrili consultazioni degli ultimi giorni hanno evitato che ai 25 scontati sì di Cina e Russia, Paesi arabi e islamici, s'aggiungessero anche i voti di tutta l'Unione europea, del Giappone, della Sud Corea. Invece, oltre ai 6 no traghettati da Stati Uniti e Italia, so­no spuntate 11 asten­sioni, e pure da Paesi tradizionalmente anti­sraeliani come Norve­gia o Belgio.
«Che si schierassero contro di noi Djibuti o il Bangladesh — confida l'amba­sciatore israeliano a Ginevra, Aharo Leshno-Yaar —, lo sape­vamo. La nostra paura era che si schierassero anche gli al­tri ». Non è accaduto. O me­glio, non in misura massiccia. Un po' perché solo gli Usa ave­vano criticato apertamente il Rapporto, ma solo Londra l'aveva difeso. Un po' perché la stessa Autorità palestinese aveva spinto per un rinvio del voto (c'è in ballo il processo di pace e la mediazione di Oba­ma), salvo ripensarci per le proteste di piazza. E poi per­ché a Ginevra sapevano benis­simo tutti che questo voto non porta a granché: in Consi­glio di sicurezza, basterà il ve­to Usa a farlo rimanere un'im­pallinata a salve, o poco più.
«È vero, sono solo 25 palli­ne — dice Ahmed Tibi, depu­tato arabo della Knesset —. Ma servono a contare il no­stro onore».

Repubblica 17.10.09
Volontà di potenza
di Carlo Galli


Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.
Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d´amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare´) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell´azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" – se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa – allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l´istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l´italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva´, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell´amore (ricambiato) del leader per la "gente".
A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l´opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l´alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l´esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l´immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme – della giustizia, e forse della Costituzione – si hanno da fare da soli, e non dialogando con l´opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).
Da una parte, insomma, Berlusconi propone l´immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide – grazie a un rapporto affettivo col capo – valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello – aperto e proclamato – degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.
A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte´ – tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte´, ma soltanto secondo precisi limiti –, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall´energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.
Sembra a volte di avere a che fare con un´applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico´ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un´energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.
Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà – come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza – la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde´ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda´, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell´amore, è un´inversione quasi perfetta dell´Abc della moderna democrazia: è l´immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.

Repubblica 17.10.09
Guerre di carta e libertà di stampa
di Giovanni Valentini


Non è forse vero che la democrazia di un Paese si misura dalla possibilità che viene concessa ai suoi cittadini di conoscere tutto ciò che accade all´interno dei "palazzi"?
(da "Troppi farabutti" di Oreste Flamminii Minuto – Baldini Castoldi Dalai editore, 2009 – pagg. 171-172)
Che significa «esposizione mediatica»? E a che cosa allude il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, quando dichiara che proprio in ragione di questa il presidente del Consiglio potrebbe «essere oggetto di contestazioni in occasione di eventi pubblici» e anche di «gesti violenti di mitomani isolati»? Qual è, insomma, il nesso fra l´esposizione mediatica, gli eventi pubblici e questi eventuali gesti violenti?
In risposta a un´interrogazione presentata al "question time" della Camera dal deputato del Pd Emanuele Fiano, membro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che vigila sui servizi segreti, il ministro Vito ha rivelato l´esistenza di un´informativa dei nostri 007 sui rischi di possibili mitomani. Era stato lo stesso Silvio Berlusconi, del resto, a parlare recentemente di minacce alla sua persona. Mentre la settimana scorsa il settimanale Panorama, di cui è proprietario attraverso la Mondadori, aveva pubblicato addirittura una copertina intitolata Kill Silvio (in inglese, Uccidere Silvio), riferendosi agli attacchi mediatici contro di lui.
Diciamo subito che, al di là di ogni polemica, qualsiasi rischio, pericolo o minaccia per l´incolumità del presidente del Consiglio, si tratti di Berlusconi o di chiunque altro, merita senz´altro la massima allerta da parte degli apparati di sicurezza, delle forze dell´ordine, della magistratura e dell´opinione pubblica. Non c´è contrapposizione politica che possa mai giustificare il ricorso alla violenza. E a volte, anzi, progetti o atti del genere finiscono solo per rafforzare ulteriormente le figure che si vorrebbero colpire.
Nel buio degli anni di piombo, l´Italia ha già dovuto subire troppe vittime per non prendere oggi in seria considerazione il minimo allarme. Il terrorismo rosso e nero che ha insanguinato il nostro Paese non può e non deve tornare per nessuna ragione. Né vogliamo dimenticare che spesso in passato il mondo politico s´è ritrovato solidale e compatto, all´indomani di un attentato o di una strage, per difendere, celebrare o rivalutare – come eroi nazionali, servitori dello Stato o statisti – personaggi considerati fino ad allora da una parte o dall´altra nemici del popolo e della democrazia.
Torniamo, allora, alla domanda iniziale: che cosa c´entra l´«esposizione mediatica» di Berlusconi, come l´ha chiamata il ministro Vito, con il rischio di contestazioni o di gesti violenti contro di lui? Se questa espressione vuole riferirsi (impropriamente) alla partecipazione del capo del governo a manifestazioni o eventi pubblici, per invitarlo «ad evitare contatti ravvicinati con il pubblico, soprattutto in circostanze occasionali e non pianificate», non si può che essere d´accordo: la prudenza non è mai troppa, soprattutto in certe situazioni. Se invece per «esposizione mediatica» qualcuno intende la visibilità sui mass media, le polemiche o gli attacchi di cui il premier è oggetto da parte dei giornali, italiani e stranieri, il discorso sarebbe necessariamente diverso.
Le "guerre di carta" non hanno nulla a che fare con le guerre civili o incivili che lo stesso presidente del Consiglio ha innescato e alimentato intorno a sé, con i suoi comportamenti, le sue azioni e omissioni, le sue dichiarazioni intimidatorie e le sue iniziative giudiziarie contro la libertà d´opinione e di critica. E con l´assalto sistematico alla Rai o meglio a quel poco che resta del servizio pubblico. Fino all´assurda accusa ai giornali stranieri di «sputtanare» (testuale) l´Italia o di calunniare la sua persona.
È vero che formalmente la libertà di stampa non è stata ancora abolita nel nostro Paese. Ma è altrettanto vero che ormai è ridotta ai minimi termini, sottoposta a censure e autocensure. Oggi è una libertà vigilata, a rischio, in pericolo. E proprio per questo occorre difenderne la sopravvivenza. Non tanto per ciò che attiene al dovere dei giornalisti di informare, quanto per ciò che riguarda il diritto dei cittadini a essere informati.
Ai politici, ai nostri colleghi e a tutti coloro che ritengono infondato o eccessivo l´allarme, si raccomanda il libro di Oreste Flamminii Minuto, avvocato di professione e d´impegno civile, citato all´inizio di questa rubrica. Contiene un inventario completo delle limitazioni e dei condizionamenti che gravano sulla libertà di stampa: dalle vecchie norme del Codice Rocco mai abrogate alla disciplina dei segreti o a quella della diffamazione, dalle pubblicazioni oscene alla satira. Per arrivare, infine, al giro di vite sulle intercettazioni telefoniche, alla stretta sulla cronaca giudiziaria e al minaccioso annuncio di una riforma della giustizia da realizzare a furor di popolo.
Su questo terreno scoperto, occorre fare fronte comune. Non solo all´interno della nostra corporazione professionale, mettendo da parte magari divisioni editoriali tanto strumentali quanto pretestuose, come se si trattasse di due eserciti contrapposti. Ma soprattutto fra i giornalisti e i lettori, fra chi fa informazione e chi la riceve, fra produttori e destinatari delle notizie. La libertà di stampa, come ammoniscono i classici del pensiero liberale, è un bene tanto prezioso che bisogna sopportarne anche gli eventuali abusi.
sabatorepubblica.it

Repubblica 17.10.09
Ru486, via libera senza aspettare l'inchiesta
L’Aifa: in Gazzetta ufficiale entro il 19 novembre. L'indagine del Senato si chiuderà il 25
Il direttore dell'Agenzia del farmaco: lunedì l'ultimo sì, non si tornerà più indietro
di Michele Bocci


Il via alla pillola abortiva sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale entro il 19 novembre, l´indagine del Senato sulla Ru486 non bloccherà l´iter ormai concluso dell´organo tecnico, cioè dell´Aifa. Dopo settimane di silenzio, ieri il direttore generale dell´Agenzia italiana per il farmaco Guido Rasi è uscito allo scoperto a margine del congresso della Federazione medici di famiglia a Santa Margherita di Pula, in Sardegna. Lo ha fatto per dire che non si torna indietro, che il Parlamento non può più fermare l´approvazione del farmaco: «Il 19 ottobre il consiglio di amministrazione confermerà la delibera del 30 luglio». Cioè l´atto che ha deciso l´ingresso nel nostro sistema sanitario della pillola abortiva. Lunedì prossimo il Cda darà dunque mandato al direttore generale di inviare la determina alla Gazzetta Ufficiale. Tra l´altro Rasi non potrà apportare alcun cambiamento a quel testo. E anzi, se dovesse ritardarne la trasmissione potrebbe incorrere in un´omissione di atti di ufficio.
«Il passaggio del 19 - ha spiegato ieri Rasi - è formale, si leggerà il verbale di una decisione già presa il 30 luglio. Dopodiché la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avrà i tempi tecnici, 20-30 giorni». L´Aifa in queste settimane è stata sottoposta a enormi pressioni politiche per spingere i vertici a bloccare, o rallentare, la già lentissima procedura che porterà all´utilizzo del discusso farmaco negli ospedali italiani. Il 22 settembre è stata istituita una commissione di indagine in Senato che ha invitato a parlare Rasi e il presidente Sergio Pecorelli nei primi giorni di ottobre. Quando il Cda dell´Agenzia, dopo l´ennesima sofferta riunione sulla Ru486, ha deciso di aspettare quelle audizioni in segno di rispetto istituzionale e rivedersi il 19 per la determina, la commissione del Senato ha posticipato l´incontro con Rasi al 21 ottobre. «Lo spostamento è stato proposto dal senatore Pd Lionello Cosentino e votato all´unanimità», precisa Antonio Tomassini (Pdl), che presiede la commissione e annuncia per il 25 novembre le ultime audizioni e la relazione conclusiva.
Il cambiamento della data, visto come un ennesimo tentativo di rimandare l´atto definitivo, la determina, avrebbe creato più di un mal di pancia dentro l´Aifa. Non senza malessere si è deciso per la rottura: la riunione del 19 è stata confermata. «Con tutto il rispetto che si deve alla commissione - ha detto ieri Rasi - noi procederemo, anche perché di fatto prima della pubblicazione in Gazzetta avrà tutto il tempo di sentire e approfondire tutti gli aspetti». È vero, ma a determina già scritta i senatori non potranno più fermare la procedura tecnica. «L´Aifa stabilisce le modalità di erogazione - prosegue Rasi- dopodiché il Parlamento o gli organi che hanno il potere di farlo stabiliscono le modalità di somministrazione e la compatibilità con la 194. Noi abbiamo fatto alcuni passaggi obbligati per il mutuo riconoscimento. La nostra delibera ha fatto in modo che invece di importarla legalmente ma in maniera scoordinata e fuori dalla legge 194 adesso la Ru486 venga canalizzata nell´ambito della legge sull´aborto».
L´uscita del direttore dell´Aifa è stata commentata, in modo piuttosto cauto, da Raffaele Calabrò (Pdl) componente della commissione sanità del Senato. «Non erano presenti speranze, né da parte mia né da parte del senatore Tomassini di rimandare il lavoro dell´Aifa. Quello che stiamo facendo è l´indagine conoscitiva, su quali sono le caratteristiche, le funzioni, le complicanze, i rischi di questo farmaco, e soprattutto su come questo farmaco può essere utilizzato senza andare contro a ciò che la legge 194 prevede. La nostra preoccupazione è che una serie di precauzioni che la 194 prevede, e che vogliamo che si mantengano, siano invece superate dalla Ru486».

Repubblica 17.10.09
Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute: l´Agenzia deve fornire indicazioni precise
"Il Parlamento non può intervenire ma la pillola va data solo in ospedale"
di Mario Reggio


Il passaggio della delibera non è un puro atto formale. Ci sono pareri del Consiglio superiore da rispettare
L´indagine conoscitiva servirà a capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194

ROMA - «Non è vero, come dice il direttore generale dell´Aifa Guido Rasi, che il passaggio della delibera nel Consiglio d´amministrazione è un puro atto formale. Aspettiamo di leggere cosa dirà. Ci sono i due pareri del Consiglio superiore di sanità che parlano di terapia della Ru496 da seguire solo in ospedale. É su questo che l´Agenzia italiana del farmaco deve dare un´indicazione». Eugenia Roccella, sottosegretaria alla Salute con delega alle questioni bioetiche, non sembra avere dubbi. Anche se mostra meno sicurezza rispetto ai mesi scorsi, quando sparava a zero sulla pillola Ru486.
L´indagine conoscitiva decisa dalla maggioranza ha allungato i tempi delle audizioni, ma l´Aifa ha deciso di andare avanti nelle procedure che autorizzano la commercializzazione del farmaco.
«Le procedure dell´Aifa seguono il loro iter. Il Parlamento non può intervenire. Ma l´indagine conoscitiva serve per capire se la terapia farmacologica contrasta o meno con i principi della legge 194 sull´aborto».
Che giudizio dà sulla 194?
«La legge ha dato buoni risultati proprio perché, gestita dalle strutture pubbliche a differenza di Spagna e Inghilterra, ha ridotto il numero degli aborti. Resta il problema delle donne immigrate che oggi costituiscono il 40 per cento delle donne che in Italia ricorrono all´interruzione di gravidanza. Serve, anche per loro, una campagna di prevenzione che eviti il ricorso all´aborto ad ogni costo».
Se l´Aifa decidesse che la Ru486 può essere assunta non solo in ospedale?
«Sarebbe in contrasto con due pareri, in tempi diversi, del Consiglio superiore di sanità ed anche con la legge 194, che parla chiaramente dell´insostituibilità della struttura pubblica».
La Chiesa, nei giorni scorsi, ha lanciato il suo decalogo contro la Ru486 assieme alla consueta condanna dell´aborto come abominio.
«La posizione della Chiesa cattolica non è nuova. Ma è anche vero che l´uso della Ru486 comporta una serie di rischi seri. A partire dall´aborto a domicilio. È una procedura che dura 15 giorni ed è fuori dal controllo medico. In questi 15 giorni è la donna che deve decidere se un improvviso afflusso di sangue necessita di un ricorso in ospedale. Una realtà che ritengo estranea alla legge 194, che parla dell´ aborto come di un problema che si deve assumere a livello sociale. In questa maniera la Ru486 sarebbe sottoposta a una forma di privatizzazione in rotta di collisione con la legge. E su questo l´indagine conoscitiva sarà sicuramente utile».
Lei sarebbe stata contenta se la Ru486 con fosse mai arrivata in Italia.
«In Italia la 194 ha prodotto una significativa diminuzione degli aborti; in Francia, con l´uso domiciliare della Ru486, è successo il contrario. Per non parlare di Spagna e Inghilterra dove la crescita è stata esponenziale».

Repubblica 17.10.09
La Ru486 tra scienza, fede e ideologia
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto della disputa tra il teologo Kung e Benedetto XVI. Se la Chiesa Cattolica è contraria, e lo è, all'aborto e all'uso della pillola RU486 fa bene a dirlo, e i suoi fedeli ne facciano tesoro. Mi sembra deprecabile che personaggi politici avallino l'affermazione di parte cattolica sulla pericolosità della pillola RU486. L'aborto è stata una vera iattura sociale quando a effettuarlo era una mammana, ma ora che viene praticato in strutture ospedaliere la pericolosità è rientrata nella norma delle operazioni semplici. Il sen. Gasparri che cerca di ritardare, e ci riesce, l'approvazione dell'uso della RU486, a mio avviso rinvia l'utilizzo di un metodo per l'interruzione della gravidanza più scuro e molto meno cruento. La sua pericolosità è stata giudicata una fanfaluca dai sistemi sanitari di tutti i Paesi europei. Naturalmente questi impacci stanno facendo slittare i tempi di approvazione prevaricando il volere di quei cittadini che non si ritengono tenuti a osservare i precetti della Chiesa. Noi atei infatti non diciamo che le donne incinte debbano abortire chirurgicamente o con la RU486, ce ne guardiamo bene e quindi ci aspettiamo che anche i vertici della Chiesa cattolica o di qualsivoglia religione, si comportino nello stesso e identico modo.
Arturo Martinoli arturo.martinoli@alice.it

Il punto di vista della Chiesa è lampante. Chiaro per esempio che la natura chimica e non chirurgica dello strumento abortivo, non cambia la sostanza del gesto. Su questo siamo tutti d'accordo. Il timore è che il gesto si banalizzi proprio perché meno cruento e meno doloroso, quindi che un maggior numero di donne vi ricorrano. L a logica è analoga a quella che ha impedito i Pacs o Dico, come nel resto d'Europa, perché avrebbero potuto banalizzare il matrimonio. L'altra affermazione è che la RU486 non è un farmaco, al contrario di quanto si afferma per la nutrizione forzata artificiale che sarebbe invece un farmaco. Nel primo caso quindi i medici possono non prescriverla, nel secondo sono invece costretti a praticarla anche a costo di violentare la volontà del povero paziente. La Chiesa tratta i temi medici da un profilo solo ideologico, ignorando l'opinione del mondo scientifico, arrivando al punto di dichiarare la RU486 molto pericolosa al contrario di quanto stabiliscono numerose aggiornate statistiche cliniche. «Il Papa riporta la Chiesa al medioevo», ha affermato Hans Kung uno dei massimi teologi cattolici (dissidente) nell'intervista a Stern . Ha anche precisato che Benedetto XVI agisce «sulla base della sua fede bavarese» ovvero «in modo premoderno e populistico». Non ci sarebbe da preoccuparsi troppo se non fosse l'ansia di servizio di alcuni parlamentari che si mettono a disposizione al fine di acquisire meriti per sé o per altri.

Repubblica 17.10.09
Dal mito alla realtà "Il vero labirinto non era a Cnosso"
di Enrico Franceschini


Una spedizione di archeologi anglo-greca ha scoperto tunnel e stanze segrete trenta chilometri più a sud Il re di Creta Minosse avrebbe rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, nelle grotte di Gortyna
Ladri avevano piazzato esplosivi sotto terra per far affiorare la "stanza del tesoro"

Londra. Ci siamo perduti, per qualche millennio, nel labirinto sbagliato. Quello originale non era a Cnosso, sede del palazzo mitologico di re Minosse, bensì a Gortyna, una trentina di chilometri più a sud, la capitale dell´isola di Creta durante la dominazione romana.
È la tesi di una spedizione archeologica anglo-greca, che scavando in un complesso di caverne nella nuova località ha scoperto una rete di tunnel, stanze e complicati passaggi sotterranei e lo ha identificato come il più probabile sito del labirinto. Le 600mila persone che ogni anno visitano Cnosso immaginando di trovarsi nel luogo del mito, afferma il professor Nicholas Howart, geografo della Oxford University, potrebbero essersi recate dunque nel posto sbagliato.
L´esistenza delle caverne di Gortyna era nota da secoli. Sono quasi quattro chilometri di tunnel sotterranei, evidentemente frutto di un lavoro umano, collegati da stanze, cunicoli, passaggi. Fin dal Medioevo giungevano visitatori interessati a esplorarle. Ma poi, tra il 1900 e il 1935, un ricco archeologo britannico, sir Arthur Evans, diresse un´imponente ricerca a Cnosso, annunciando al mondo di avere ritrovato il labirinto in cui Minosse aveva rinchiuso il Minotauro, lo spaventoso mostro metà uomo e metà toro. Da allora, per gli storici come il turismo di massa, non ci sono stati dubbi su dove fosse il labirinto di Cnosso: a Cnosso, per l´appunto. Ossia nel luogo menzionato da Omero.
«Il problema è che oggi la gente va a Cnosso per soddisfare il romantico desiderio di connettersi con l´era degli eroi della mitologia», dice il professor Howart, «senza domandarsi abbastanza se quello sia davvero il labirinto di Minosse. E così facendo si escludono altre ipotesi che sono altrettanto o più credibili. Un´altra possibilità indagata dagli studiosi, per esempio, è che il labirinto fosse a Skotino, dove è stata scoperta un´altra serie di caverne collegate tra loro. E questa estate noi abbiamo approfondito per la prima volta le ricerche a Gortyna, che dai nostri studi risulta forse la sede più probabile».
Gli archeologi anglo-greci hanno trovato tracce della presenza di ladri, che avevano piazzato perfino esplosivi sotto terra nella speranza di aprire una breccia nel labirinto e fare affiorare una presunta "stanza del tesoro" di Minosse. «È un luogo pericoloso», avverte il ricercatore, e del resto fu proprio lì che i nazisti nascosero un deposito di munizioni durante la seconda guerra mondiale, che secondo alcuni non fu completamente rimosso dopo la fine del conflitto.
Non tutti gli specialisti della materia sono convinti dall´annuncio del docente di Oxford, naturalmente. «La tradizione classica indica Cnosso come il sito originale del labirinto», osserva Andrew Shapland, curatore dell´era del bronzo greca al British Museum, «ed è lecito supporre che il labirinto originale, quello che ispirò il mito, fosse lì. Ammesso che sia mai esistito».
Lo stesso scopritore del nuovo labirinto, il professor Howart, precisa che secondo lui il labirinto era a Gortyna, «se il mito era davvero basato su un labirinto reale». Il rebus del labirinto, predice il curatore del British Museum, «è destinato a continuare». Bisognerebbe trovare il filo di Arianna, per risolverlo.

Corriere della Sera 17.10.09
«L’Altro di Sansonetti dovrà cambiare nome»


MILANO — Sansonetti e l’editrice Big dovranno cambiare nome all’ Altro . È la decisione del tribunale di Roma nella causa civile promossa dalla Gecem, editrice de l’Altro quotidiano, e dal direttore Ennio Simeone. Il giudice ha accolto la tesi dei legali della Gecem (tra i quali figura Romano Vaccarella che difende la Fininvest nel processo Sme) sul «pericolo di confondibilità tra le due testate» creato da Sansonetti e dalla Big per la denominazione scelta— dopo la registrazione di quella della Gecem — e la «sussistenza di violazione del diritto d’autore e concorrenza sleale» di un quotidiano, l’Altro , che reca sotto la testata la scritta 'la sinistra quotidiana'». Sansonetti e soci dovranno pagare 5mila euro per ogni violazione e inosservanza del provvedimento e un’ulteriore penale di 500 euro al giorno per l’eventuale ritardo nel cambio di testata. Oggi il giornale sarà in edicola. I legali della testata: «La redazione sta cercando di trovare il modo di rispettare la decisione del giudice».

Corriere della Sera 17.10.09
Socialisti riuniti a Volpedo Nasce il Manifesto dei valori


MILANO — Si riuniranno nella patria di Pellizza da Volpedo, oggi, i socialisti che si ritrovano nell’idea di creare una sinistra riformatrice e moderna. Il progetto è lanciato dal Gruppo di Volpedo (costituito lo scorso anno da una quindicina di circoli socialisti e libertari di Piemonte, Liguria e Lombardia). Ci saranno i socialisti del progetto di Sinistra e libertà (Riccardo Nencini, Claudio Fava, la presidente dell’Internazionale socialista donne Pia Locatelli), parteciperanno anche esponenti del vecchio Psi ora nel Pd: da Giusi La Ganga a Nerio Nesi. Quanto ai contenuti, sarà approvato il manifesto dei valori.

Corriere della Sera 17.10.09
Il «cupio dissolvi» dei democratici
La sindrome del nemico in casa
di Francesco Verderami


Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi» .
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re.

Corriere della Sera 17.10.09
Distrutto nei bombardamenti, ora vuole sfidare il Louvre
Berlino: riapre il Museo chiuso da settant’anni, ecco Nefertiti (e le critiche)
di D. Ta.


Il restauro del britannico Chipperfield bocciato dai tradizionalisti
233 Milioni di euro, la cifra spesa per la ristrutturazione del Museo egizio: i lavori sono durati 11 anni

BERLINO — Non è impossi­bile celebrare anniversari na­zionali con qualcosa di notevo­le. Vent’anni dopo la caduta del Muro, per esempio, oggi riapre a Berlino il Neues Mu­seum, chiuso da 70 anni. Non è solo una ristrutturazione straordinaria, non è solo la col­lezione egizia della città, Bu­sto di Nefertiti in testa, che tor­na nella sua casa: è il quinto e definitivo degli edifici museali neoclassici a riapre le porte sull’Isola dei Musei, ex parte Est della città, oggi pieno cen­tro. Un complesso che vuole ri­valeggiare con il Louvre, nelle intenzioni esplicite della Fon­dazione per il patrimonio cul­turale prussiano, un progetto che ha a che fare con un Paese che sa di dovere realizzare co­se importanti.
La ristrutturazione — 233 milioni di euro — pensata e ge­stita dall’architetto britannico David Chipperfield è partita dal presupposto che la storia dell’edificio non potesse esse­re cancellata o nascosta.
Il problema era che il mu­seo, costruito nel 1847, fu pe­santemente bombardato nel 1943 (era già stato chiuso e svuotato delle opere nel 1939) e da allora abbandonato a se stesso perché, dopo la guerra, la Germania Est non aveva il denaro per rimetterlo in fun­zione. Negli Anni Novanta, quando il governo e la città— riunificati — decisero di ri­strutturarlo, molti pensavano si dovesse semplicemente fare tornare l’edificio com’era set­tant’anni fa. Chipperfield, inve­ce, ha inserito elementi moder­ni dove c’era da ricostruire, ha recuperato gli originali recupe­rabili e ha lasciato visibili le tracce della storia, che è poi quella tedesca, cioè i danni del­le bombe e dell’incuria dei de­cenni della Ddr. La grande scalinata, che è il cuore del museo, è stata rifatta con disegno e materiali moder­ni. Gli affreschi sono stati recu­perati nelle parti visibili, men­tre il resto è stato lasciato bian­co. Una serie di archi sono sta­ti ricostruiti con mattoni a vi­sta. Alcune colonne sono nuo­ve ma restano molti capitelli originali.
I buchi fatti dai bombarda­menti sono ovviamente stati chiusi ma rimangono ricono­scibili. Le pareti scrostate, alcu­ne rosse alcune verdi, sono sta­te restaurate ma i segni dell’in­tonaco caduto lasciati bianchi. Il risultato, a opinione di gran parte dei berlinesi che hanno visitato l’edificio vuoto duran­te due giorni di apertura la scorsa primavera, è straordina­rio. Quando l’ha inaugurato, ieri, la cancelliera Angela Me­rkel sembrava sinceramente impressionata. «È un progetto del quale i nostri figli non po­tranno non essere felici», dice Dietrich Wildung, il direttore della collezione egizia che — assieme all’arte preistorica e a un pezzo di filo spinato del Muro di Berlino — è ospitata nelle sale del Neues Mu­seum.
Non che tutti siano sod­disfatti. Anzi, durante gli 11 anni di ristrutturazio­ne le polemiche sono state feroci. Nel 2007, un gruppo di cittadi­ni tradizionalisti raccolse firme su una petizione — «Salviamo l’Iso­la dei Musei» — che però ricevette solo seimila adesio­ni. Poi, la Società per l’antica Berlino accusò Chipperfield, un altro britannico, di continuare la di­struzione iniziata dai bombar­damenti e ora ha scritto al­l’Unesco per invitarla a mette­re l’Isola dei Musei nella lista dei Siti patrimonio dell’umani­tà a rischio di perdere questo titolo. Anche perché, sempre sulla Museumsinsel, Chipper­field dovrebbe ora costruire un nuovo edificio che funzio­nerà da reception per i cinque musei.
Poi, tra il 2011 e il 2026, sa­ranno ristrutturati anche il Per­gamonmuseum e l’Altes Mu­seum, il che porterà il costo dell’intervento sull’intera Iso­la a un miliardo. Si può fare.

Corriere della Sera 17.10.09
Nel suo romanzo Massimo Nava racconta, oltre all’eroe, i due fratelli meno noti
La saga dei Bixio senza Garibaldi
Non solo il patriota: ci furono anche un politico e un missionario
di Matteo Collura



Tre fratelli, un cognome celebre: Bixio. E subito viene in mente il ge­nerale elogiato da Garibaldi come «primo dei Mille». Ed è comprensi­bile che sia lui, Nino (Girolamo all’anagrafe) a essere ricordato come il più importante dei Bixio. Ma i suoi due fratelli, Alessandro e Giuseppe, meritano di essere conosciuti non meno del loro congiunto più famoso. Lo dimostra una biografia di Massimo Nava, giornalista, corrispondente del «Corriere della Sera» da Parigi, che intreccia le tre vite con un racconto romanzesco non ascrivibile alla tipica narrativa di casa nostra, a partire dall’originalità d’impianto e dalla resa espressiva: La gloria è il sole dei morti (Pon­te alle Grazie).
È il generale garibaldino, già un vec­chio a cinquant’anni, ad aprire e chiu­dere il romanzo, ma, grazie a ben congegnati flashback , le rispettive vi­te dei tre fratelli s’impongono come esperienze memorabili degne di es­sere raccontate autonomamente.
Nel 1872, quando Nino Bixio en­tra nella casa di Rue Jacob, a Pari­gi, dove il fratello Alessandro è morto da sette anni, è come se per lui si aprissero le porte di un museo (le stesse che si schiudo­no alla fantasia del lettore). Il ge­nerale non sa più quante cicatri­ci ha in corpo, si sente vecchio e stanco. Ma un ambizioso pro­getto lo tiene ancora in piedi: far­si costruire una nave, armarla, e con essa solcare le acque dell’Estremo Oriente, laggiù tra le isole dell’Indonesia.
Cosa ne penserebbe il fratello «france­se »? Muovendosi in quella che ormai gli ap­pare come una casa-museo, accolto da un nipote che ne conosce le gesta dai racconti del padre, ora può misurare la distanza che lo separa da Alessandro, ma riconoscere an­che l’ammirazione che ha sempre avuto per lui.
Nato a Chiavari nel 1808, terzogenito di sette fratelli (Nino, di tredici anni più giova­ne, era ultimo), Alessandro aveva studiato a Parigi, dove aveva intrapreso una brillante carriera politica, divenendo, tra il 1848 e il 1851, membro dell’Assemblea Costituente e della Legislativa. Un francese illustre, «Alexandre» Bixio, la cui agiata casa era di­venuta sede di riunioni conviviali talmente importanti per la cultura e la politica da pas­sare alla storia come i Dîners académiques.
Vi partecipavano funzionari di governo, de­putati, banchieri, diplomatici, intellettuali, artisti; lo scrittore Dumas padre tra i più as­sidui.
Alessandro aveva aiutato il fratello mino­re, finanziandone imprese e pagandone i de­biti. Lui aveva ricambiato con l’ingratitudine del suo orgoglio. Sempre. Ma ora, reduce da troppe avventure, sazio di vita, il generale sa in che parte del cuore custodire la memoria del fratello, trarre dai suoi consigli un viati­co. Con questa convinzione può partire per l’Inghilterra dove, accumulando debiti su de­biti, riuscirà a farsi costruire la nave dei so­gni e a prendere il mare, primo comandante italiano ad attraversare il canale di Suez.
Anche un altro fratello, pure lui staccatosi ragazzo dalla famiglia, sarebbe bello sapesse della sua nuova impresa. Ma Giuseppe Bixio si trova da qualche parte negli Stati Uniti, missionario gesuita. E qui Nava apre un al­tro capitolo che ha dell’incredibile per la va­rietà di avventure di cui è protagonista il ge­suita «Joseph» Bixio. Basti dire che, come cappellano, si trovò a partecipare alla guerra di secessione e che, anche lui spinto dal ca­rattere ardito, viaggiò in Australia, facendo poi ritorno negli Usa, dove fu tra i fondatori dell’università cattolica di San Francisco.
Una triplice biogra­fia, dunque, il romanzo di Massimo Nava. Ma è anche altro. Soprattut­to un modo diverso di raccontare la vita di uno dei nostri eroi na­zionali, per farne risal­tare la vocazione mari­nara, fin da quando, ra­gazzo scacciato da una scuola di Genova per motivi disciplinari, Ni­no si era imbarcato co­me mozzo, destinazio­ne i mari d’Oriente. Sfuggito agli squali e ai pirati malesi, dopo es­sere stato venduto co­me schiavo e poi libera­to, aveva iniziato la car­riera di avventuriero pronto ad accorrere, classico eroe dell’Otto­cento, al richiamo della patria.
E siamo all’epopea garibaldina di cui Nino Bixio fu protagonista in­discusso.
Anche per i noti fatti di Bronte, in Sicilia, dove il generale ligure, dopo un pro­cesso sommario, fece sbrigativamente fucila­re cinque imputati ritenuti capi della sangui­nosa rivolta (due di loro, tra cui lo scemo del paese, innocenti). Ma quell’episodio, sem­bra volerci dire Nava, è piccola cosa nella vi­ta di Bixio. Il generale non se ne sarebbe ne­anche ricordato, quando, divorato dalla feb­bre e prosciugato dalla diarrea, sarebbe mor­to di colera nel 1873, nella cabina della sua nave, nelle acque dell’isola di Sumatra, pro­prio là dov’era naufragato da ragazzo.