Contro il razzismo Una folla in festa che si è rappresentata in piazza con determinazione
Lingue diverse e migliaia di storie differenti ma un solo obiettivo: uguaglianza e giustizia
Roma invasa da duecentomila per «il diritto ad esistere»
Un corteo coloratissimo, tra i più grandi della nostra storia recente, che ieri ha illuminato la città con poche parole d’ordine: diritti e integrazione. E accanto ai migranti il popolo della Cgil.
di Giovanni Maria Bellu
Duecentomila. Sì, Roma ha visto manifestazioni anche molto più affollate. Ma se si misurasse il successo delle proteste di piazza dalla quantità di persone che vi aderiscono per la sola ragione di voler protestare (e non per essere iscritte a un sindacato, a un partito, non per il fatto di «far parte» di qualcosa) il coloratissimo corteo che ieri ha illuminato il centro di Roma sarebbe da classificare tra i più grandi della nostra storia recente.
Sicuramente il più variopinto. Con le sole bandiere della Cgil e dell’Arci a dare una qualche continuità cromatica al nastro di folla che ancora non aveva finito di srotolarsi quando è apparso il Colosseo. La coda del corteo, in quel momento, aveva appena cominciato a muoversi da piazza della Repubblica, un paio di chilometri più su.
Sicuramente il più rappresentativo. Se per rappresentatività di una protesta collettiva s’intende la quantità di storie e di esperienze che è capace di far incontrare. Il mondo, in questo caso. Coi suoi dolori e i suoi sogni confluiti in ormai più di vent’anni tanto tempo è trascorso da quando l'eterna «emergenza immigrazione» cominciò nelle nostre strade, nelle nostre aziende e nelle nostre case. Oltre che in altri luoghi i centri di identificazione e di espulsione dove si è dissennatamente pensato di poterlo recludere.
Di certo una delle proteste più chiare quanto a «piattaforma programmatica». L'uguaglianza e la giustizia e il loro modo di declinarsi nelle leggi di un paese. «No al razzismo, al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza», c'era scritto sullo striscione che, firmato dal «Comitato immigrati 17 ottobre», apriva il corteo. E in fondo era già tutto. Anche se poi veniva ripetuto in forme e anche lingue diverse: «I veri criminali non sono gli immigrati, ma sono i mafiosi a capo degli Stati», «Cristo è qui, quando ci sarà tutta la Chiesa?».
Quando, nei giorni scorsi, gli organizzatori avevano annunciato l’adesione di circa 500 associazioni e circoli, era sembrata un’esagerazione. Era vero, invece. C’erano sì associazioni consolidate come Amnesty International, Libera, Emergency, Beati costruttori di pace, Pax Christi. Ma ciò che appariva evidente è la frammentazione del mondo dell'immigrazione in una miriade di aggregazioni spontanee, a volte anche piccolissime ed effimere, che trovano il loro fondamento ideale ora nel solidarismo, ora in ciò che resta della sinistra più radicale, ora nei gruppi cattolici di base.
C’erano numerosi esponenti politici e sindacali di primo piano. Ma erano pochi quelli che, come il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, non testimoniavano solo il loro personale impegno ma quello di un’intera grande organizzazione di massa. C’era anche il segretario del Pd Dario Franceschini. «Quella per gli immigrati ha detto è una battaglia nostra da tanto tempo, per la cittadinanza, per il il permesso di soggiorno». Ma il Partito democratico non ha aderito, e alcuni dei manifestanti gliel’hanno fatto notare. È un bel tema da mettere nell'agenda dei prossimi mesi del Pd.
Sarà perché la fatica di apprendere una lingua straniera regala uno speciale timbro alle parole apprese. Ma nei discorsi pronunciati dal palco dai rappresentanti degli immigrati scelti dopo giorni e giorni di estenuanti trattative tra le organizzazioni promotrici certi termini logorati dagli abusi del linguaggio politico ritrovavano il loro significato originario.
La parola «diritto», quando a pronunciarla è chi si vede negata la possibilità di esistere, non evoca le leggi e i codici, ma la vita stessa. E anche certi scandali dell’opulenza e dell’amoralità, sentiti raccontare da chi vive con noi ma non è riconosciuto come uno di noi, prendono una luce nuova. Più fredda e cruda. «Le nostre donne non fiscono nel lettone di Putin ha gridato Abou Bakar Sehoumoro ma lavorano nelle vostre case». Ecco, sono cose che fanno provare un altro sentimento che si va estinguendo: la vergogna.
D’altra parte un tempo, nemmeno tanto lontano, lo si provava davanti alla sola possibilità di essere considerati razzisti. Adesso, invece, ha sottolineato Moni Ovadia, nella capitale d’Italia esistono gruppi razzisti «che si sentono addirittura legittimati dall’amministrazione comunale».
l’Unità 18.10.09
Ida Magli, ma ci faccia il piacere
di Marco Rovelli
Nel vedere quei volti e sentire quelle voci che riempivano le strade di Roma, ho ripensato alle parole che l'antropologa Ida Magli ha scritto sul Giornale, e che un giorno forse verranno ricordate come uno dei manifesti del nuovo razzismo italiano.
Conviene rileggerne qualche brano, perché è impossibile restituirne il grado di aberrazione con altre parole: «Stiamo male perché siamo costretti a vivere nello stesso territorio con popoli diversi da noi, e diversi prima di tutto fisicamente. (...)L'estraneità fisica è la caratteristica maggiore che impedisce agli uomini di potersi "identificare" l'uno nell'altro, sentirsi psicologicamente "simili”. (...È)impossibile per un "bianco" identificarsi in un "nero": comprendere i sentimenti, le percezioni, i gusti, intuire il tipo di intelligenza, le reazioni, gli interessi. Se si aggiunge a questo dato di partenza, la differenza di lingua, di religione, di storia culturale, ci si rende conto che vivere sullo stesso territorio non significa vivere "insieme"».
Ecco, vedendo ieri quei colori mischiati in piazza, mi veniva da sorridere di compassione per la signora Magli e per la sua "brutale" culturalizzazione di un dato naturale. E penso alla mia amicizia con Jessy, nigeriano, che dopo traversie letteralmente incredibili, ha sposato Gloria, slovacca e biondissima, per mettere al mondo una splendida creatura.
Jessy e Gloria, come tante altre coppie miste, e come ancora le sempre più numerose relazioni e legami di qualsiasi tipo indifferenti al colore della pelle, sono la prova vivente di come le parole della Magli siano puro e densissimo razzismo. E per quanto mi riguarda, c'è l'empatia che ho sperimentato e la memoria vivida di tutti i volti che incontrato nei viaggi che ho fatto in quest'Italia già multiculturale, a Ida Magli piacendo.
l’Unità 18.10.09
Al convegno di Asolo le fondazioni Italianieuropei e Farefuturo: superare la paura
Un documento comune per riassumere i temi emersi: a 10 anni il diritto di essere italiani
Cittadinanza e voto, «patto» tra Fini e D’Alema
Superare la paura, dare più diritti a partire da quello di cittadinanza. Questo ed altro in un documento che Italianieuropei e Farefuturo prepareranno a breve. Ieri l’incontro ad Asolo tra Fini e D’Alema
di Susanna Turco
Prima ancora che aprano bocca, sul palco l’effetto cromatico dello spirito dialogante e condivisivo di Asolo è assicurato. Massimo D’Alema è alla sinistra del direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli e porta una cravatta blu sfumatura farefuturo. Gianfranco Fini siede alla destra, e sfoggia una cravatta che vira al rosso italianieuropei. Sono arrivati sin qui insieme, con l’aereo presidenziale, e ripartiranno insieme, dopo aver chiuso il workshop sull’immigrazione organizzato in tandem, per il secondo anno, dalle rispettive fondazioni. E di tanta condivisione non c’è nulla da stupirsi. La simpatia e stima reciproca son cose di vecchia data. Le frequenti telefonate una pratica consolidata. Pupilli di Berlinguer l’uno e di Almirante l’altro, messi dai leader a guidare le rispettive organizzazioni giovanili di partito, i due hanno in comune ben più che la freddezza caratteriale e l’amore per l’ironia. Hanno il passo dei politici puri, il carattere, e la storia – anche da numeri due che si portano dietro, che li accomuna al di là delle ovvie diversità di schieramento.
LEADER POST
Così i due leader “post”, arrivati oggi a un nuovo punto di svolta, esprimono senza difficoltà sul tema dell’immigrazione un punto di vista che parte da storie diverse, ma arriva alle stesse conclusioni: “Serve un disarmo bilaterale delle opposte paure e speranze, una rivoluzione di buonsenso per affrontare oggi la sfida: perché il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, non finirà domani”. Una visione tanto condivisa che, a giorni, le due fondazioni faranno un documento comune, in quattro punti: agevolare l’immigrazione di qualità, modificare i criteri di concessione della cittadinanza, dare la possibilità ai bambini musulmani di studiare la religione islamica a scuola, e diritto di voto amministrativo agli immigrati.
“Quando lo proposi io, quel diritto, fui crocifisso, e non ho certo cambiato idea”, ricorda Fini dal palco. “Non c’è dubbio, invece, che l’integrazione politica potrebbe essere la via italiana all’integrazione”, dice D’Alema, ricordando i tempi dell’immigrazione interna, “quando a San Miniato concessero una casa del popolo ai meridionali, però separata ‘perché non li capiamo’, per poi scoprire che era meglio andare là se si volevano conquistare quei voti”.
INTEGRAZIONE
Fattore di integrazione sarebbe pure una nuova legge per ottenere la cittadinanza, che Fini immagina ricalcando in gran parte la proposta Granata Sarubbi in discussione alla Camera: “La mia proposta è che chi nasce in Italia o ci arriva da piccolissimo e completa un ciclo di studi abbia la cittadinanza. Non è eversivo. Era così anche nella legge del 1912”, dice. Mentre D’Alema, che pur condivide, sposta ancora più a sinistra l’asticella: “Io direi che chi nasce in italia è italiano, senza prove da superare”, spiega. Ironizzando pure sul test di lingua prevista dal Granata-Sarubbi: “Se l’esame lo facessimo pure dove lavoriamo noi, chissà quanti lo supererebbero”.
CONDIVISIONE
Piena condivisione sulla pur altrove contestata proposta Urso: insegnare la religione islamica nelle scuole ai bambini musulmani. Fini e D’Alema, concordando, non perdono occasione per replicare alla Lega. “Io non ci trovo nulla di scandaloso: se un bambino vuol conoscere il Corano e nessuno a scuola glielo spiega, finisce magari che ci pensa qualche estremista”.
E D’Alema, sul punto, sfoggia tutto il suo sarcasmo: “Ho sentito dichiarazioni imbarazzanti, per il carattere primitivo... quasi versi gutturali, direi”, spiega. Fini, intanto, diventa paonazzo dal ridere: da presidente della Camera, è il massimo che si concede.
Repubblica 18.10.09
La vera missione della scuola
di Adriano Prosperi
La proposta di introdurre nelle scuole un insegnamento di religione islamica fatta dal viceministro Urso è un tentativo di rompere il cerchio di un dialogo tra lingue non comunicanti.
Per questo va salutato come un avvio positivo da raccogliere e approfondire. Non tutti sono d´accordo, naturalmente, ma la discussione che è nata è comunque interessante. Per esempio, quando il cardinale Ersilio Tonini rigetta questa idea lo fa con un argomento che si presta invece a sostenerla: «Pensare che l´Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore. L´Islam ha mille espressioni, collegamenti, apparentamenti: insomma con i valori della nostra civiltà non ha niente a che vedere». Proviamo a sostituire nella prima frase la parola «Islam» con la parola «Cristianesimo»: quante sono oggi le espressioni e le interpretazioni del cristianesimo, non solo nella conoscenza e coscienza dei singoli cristiani, nell´etica privata e nelle leggi degli stati, ma anche e soprattutto nelle chiese e nei movimenti che si dichiarano cristiani? Immaginiamo che il cardinale volesse dire «cattolicesimo». Ma il carattere monolitico, anzi totalitario del cattolicesimo, come ebbe a dire Papa Pio XI e come prima di lui scrisse fra Paolo Sarpi che coniò l´antenato del termine totalitarismo («totatus») è proprio quello che all´atto di nascita della tolleranza religiosa valse al cattolicesimo una considerazione a parte: «I papisti - scrisse John Locke nel «Saggio sulla tolleranza» del 1667 - non devono godere i benefici della tolleranza perché, dove essi hanno il potere, si ritengono in obbligo di rifiutarla agli altri». Lo sappiamo bene in Italia. Quanto poi al fatto che l´Islam non abbia niente a che vedere con la nostra civiltà, si tratta di un´affermazione che se fosse fatta da uno studente di storia di scuola media svelerebbe l´esistenza di un preoccupante «debito formativo». Si tratta di schieramenti di battaglia che non portano lontano. Bisogna anche in questo caso accogliere l´invito autorevole lanciato da Gustavo Zagrebelski dalle colonne di questo giornale a mettere un freno allo «scatenamento delle energie peggiori» riflettendo invece al respiro lungo della vita civile che in materie costituzionali deve guardare al di là della durata di un governo e di un leader e non tener conto delle violenze verbali dei leghisti che, ieri pagani oggi cattolici, alzano la voce sulla religione per fare cassetta alle elezioni più vicine. L´obbiettivo che abbiamo di fronte quando di queste cose si parla nel contesto civile e politico e non all´interno di una chiesa è quello di attuare in modo adeguato ai bisogni dei nostri tempi e alla nostra realtà il principio del diritto alla libertà religiosa: un diritto a cui la cultura italiana ha dato un contributo grande e sostanziale fin dai tempi delle guerre di religione del ´500 e che oggi, secondo la Costituzione italiana, significa «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata» (art. 18), inclusa l´istituzione di «scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo stato» (art.33). Certo, con quelle dichiarazioni volute da tutti i padri costituenti è in contrasto una situazione di fatto e di diritto a tutti nota. Nella scuola pubblica c´è oggi un insegnamento denominato «Religione» impartito da insegnanti formati e autorizzati dalla Chiesa cattolica ma pagati dallo stato. Questo insegnamento non è obbligatorio ma l´insegnante concorre alla valutazione dell´allievo insieme agli altri in una forma che - secondo la recentissima dichiarazione del ministro Gelmini - si appresta a diventare quella piena del voto. Ma la realtà del paese cambia: aumentano gli immigrati e i cittadini italiani di altre religioni, e specialmente quelli di religione islamica. Da qui l´idea di spezzare l´autismo di una politica che criminalizza e sfrutta gli immigrati in mille modi, pratica lo scontro di civiltà, alimenta e strumentalizza paure. Si propone un insegnamento scolastico della religione islamica nelle scuole pubbliche come primo passo per l´integrazione dei ragazzi di quella cultura. Lo scopo è eccellente, il mezzo ha difetti evidenti: quell´ora settimanale non solo non garantirebbe parità di trattamento per tutte le religioni ma dividerebbe fisicamente e culturalmente gli allievi islamici dagli altri nel momento fra tutti delicato dell´insegnamento della religione. E la moltiplicazione a raffica degli insegnamenti «religiosi» per garantire i diritti di altre minoranze sarebbe non solo difficile da attuare ma anche controproducente rispetto all´obbiettivo di far dialogare in un´unica scuola pubblica i portatori di culture diverse. Un sistema a compartimenti stagni renderebbe permanenti le divisioni rischiando di far emergere una divisione non solo religiosa ma civile e sociale dai frutti avvelenati. Ne troviamo conferme nella storia e nella cronaca. Le città tedesche che nell´età delle guerre di religione garantirono libertà di culto e spartizione equa di cariche tra cattolici e protestanti pagarono la pace con la perpetuazione della divisione culturale e il blocco dello sviluppo civile. E la cronaca recente ci dice che i terroristi islamici appartengono in genere alla seconda e terza generazione di immigrati e nutrono l´odio di chi, crescendo nei ghetti, si è sentito cittadino di serie B. Ma c´è una frase interessante detta dall´onorevole Urso, che ha parlato di «un´ora di storia della religione islamica». La storia, che per tanto tempo nel paese di Giambattista Vico, di Benedetto Croce, di Antonio Gramsci ha retto l´asse centrale dell´insegnamento scolastico, oggi è avvilita a campo di battaglia tra mute rabbiose intente a marcare opposti territori. Intanto crescono materie di carattere sistematico e astorico: la religione, i diritti, l´etica e così via. Questo è il più grave e più inavvertito segno della peste fondamentalista: si è perso il senso della nostra realtà di esseri immersi nel flusso di quel tacito, infinito andar del tempo che investe e muta ogni cosa, che fa sì che la nostra società e le nostre religioni siano quelle dei nostri tempi e non quelle dei nostri padri. E chi più tuona di voler tutelare l´«identità cattolica» è proprio il neopaganesimo del nostro tempo, se è vero che, come ha scritto uno storico che se ne intende, «il paganesimo è il culto del potere politico, della ricchezza, della forza fisica» (Jan Assmann, «Dio e gli dèi», Il Mulino 2009). Dunque la proposta va formulata meglio: si tratta di portare nella scuola la religione ma all´interno della storia culturale, non all´esterno. Solo qui può esserci posto per una conoscenza dell´Islam e del cristianesimo come realtà storiche portatrici di valori ideali che, se depurati dall´interferenza e dall´intolleranza dei poteri politici ed ecclesiastici, potranno alimentare di nuovi succhi vitali l´Italia di domani.
Repubblica 18.10.09
Il cardinale Poletto: No al relativismo. “Il Corano è estraneo all´Italia riparliamone tra cinquant’anni”
La religione cattolica fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli, l’islam no Non vorrei che si cadesse nel relativismo
di Paolo Griseri
TORINO - La religione cattolica «fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli. L´Islam no. Dunque, credo che sia sbagliato e prematuro istituire l´ora di religione islamica nella scuola pubblica». Il cardinale di Torino, Severino Poletto, esprime il suo punto di vista sulla proposta che sta dividendo la politica italiana. Lo fa con estrema prudenza: «Voglio che sia assolutamente chiaro che è comunque opportuno attendere sull´argomento il pronunciamento della Presidenza della Conferenza episcopale italiana. Il mio è un punto di vista personale».
Cardinale Poletto, perché considera la proposta prematura?
«Perché è una proposta che non tiene conto della società italiana di oggi. Che ha una cultura e una tradizione in cui l´Islam è sostanzialmente estraneo o presente in modo non centrale. Questo non vuol dire che tra cinquanta, cento anni, la situazione non si modifichi radicalmente. E che allora se ne possa parlare».
Non le pare che in questo modo la chiesa cattolica italiana finisca per difendere un antico privilegio, una rendita di posizione nei confronti delle altre religioni?
«Non si tratta di un privilegio, ma di una realtà storica. E se si va a vedere, questa realtà spiega e giustifica il mantenimento dell'ora di religione cattolica, sia pure facoltativa, nell'ordinamento della scuola italiana anche con la revisione del Concordato del 1984. Proprio perché il cattolicesimo fa parte integrante delle nostre radici, quell´ora serve a completare bene il curriculum di studi».
Un´ora che però la chiesa cattolica non vuole venga utilizzata per lo studio della storia delle religioni, come ha recentemente ricordato la Cei, ma solo per l´approfondimento del cattolicesimo. Dunque, non è solo cultura.
«Non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo. Quello si fa in parrocchia. Diciamo, è un inquadramento generale sui valori del cattolicesimo».
Per questo i vescovi pretendono di essere loro a scegliere gli insegnanti?
«Non è una pretesa, è la logica conseguenza del modo con cui è stata pensata quell'ora nella scuola pubblica italiana. Ci si dovrebbe piuttosto lamentare del fatto che manca, sovente, un'ora alternativa per cui spesso i ragazzi scelgono di non avvalersi dell'ora di religione cattolica per poter uscire un'ora prima o entrare un'ora dopo».
Chi sostiene la proposta dell'ora di religione islamica nella scuola pubblica spiega che in questo modo si eviterebbe di lasciare solo alla parte più integralista della comunità il compito di insegnare i principi islamici ai ragazzi. Non le pare un ragionamento condivisibile?
«In linea di principio sarei certamente d´accordo e capisco le buone intenzioni di chi ha pensato a questa soluzione. Ma credo che non siamo davvero preparati a un cambiamento di questo genere. È un problema di gradualità. La società italiana, come tutte le società, ha bisogno di assimilare i cambiamenti poco a poco. Una modifica brusca rischia di creare contraccolpi che possono produrre l´effetto contrario a quello desiderato».
Tempo fa lei si è detto contrario al sorgere di «minareti accanto ai campanili». È contrario alla libertà religiosa?
«Al contrario. Penso che la libertà religiosa sia uno dei fondamenti del vivere civile. Ma proprio per evitare che quella libertà diventi contrapposizione dico che ai simboli è necessario prestare attenzione. Sono assolutamente favorevole al fatto che si individuino luoghi di preghiera per i cittadini di fede musulmana come per quelli delle altre confessioni religiose. Quel che non vorrei è invece che si cadesse nel relativismo. Le città e i paesi italiani sono stati caratterizzati per secoli dalla presenza dei campanili. E credo che sia giusto che il paesaggio non si modifichi radicalmente in pochi anni. Anche perché il sorgere dei minareti, oggi, non sarebbe lo specchio della società italiana».
Non crede che prima o poi si dovrà cominciare a modificare la situazione?
«Penso che con il passare del tempo la situazione si modificherà in modo naturale. E c´è da auspicare che il cambiamento si realizzi anche nei paesi islamici. Provi a far costruire oggi un campanile di fianco a un minareto in Arabia Saudita: la libertà è fatta anche di reciprocità».
l’Unità 18.10.09
Anm Dopo il caso Mesiano, i magistrati proclamano all’unanimità lo stato di agitazione
Sotto attacco «giudici e organi di garanzia». Botta e risposta con Alfano: «Guerra preventiva»
Toghe a un passo dallo sciopero «Difendiamo la Costituzione»
L’Anm in un clima di grande preoccupazione proclama lo stato di agitazione «primo passo di un percorso che può portare allo sciopero». La decisione dopo settimane in cui il premier minaccia riforme a maggioranza.
di Claudia Fusani
La base delle toghe vorrebbe sciopero subito. I vertici mediano e alla fine proclamano «lo stato di agitazione, primo passo di un percorso di protesta» che potrebbe portare tra una-due settimane, anche allo sciopero. Il ministro Alfano li attacca: «Questa è guerra preventiva». Immediata la risposta dei magistrati: «Difendiamo i valori costituzionali». La tregua apparente perchè i segnali di guerra sono tangibili dal 7 ottobre, giorno della pronuncia della Consulta sul Lodo Alfano tra magistrati e governo finisce definitivamente ieri pomeriggio pochi minuti prima delle quindici quando al sesto piano della Cassazione il parlamentino delle toghe proclama all’unanimità «lo stato di agitazione».
ANM, 8284 ISCRITTI
La goccia è stato il video di Canale 5 che ha spiato il giudice Raimondo Mesiano nel suo privatissimo e anonimo quotidiano. Ma la misura si è riempita in fretta nelle ultime due settimane in cui, giorno dopo giorno, il premier proclama di riformare a colpi di maggioranza Costituzione, Csm e carriere dei magistrati. Un conflitto che questa volta sembra essere definitivo. E dove alla fine ci saranno solo vincitori o vinti.
Il Comitato direttivo centrale dell’Anm, il sindacato delle toghe a cui sono iscritti 8284 magistrati su un totale di 8886, era stato convocato ieri mattina per ricordare la scomparsa del procuratore di Asti Maurizio Laudi, magistrato di punta nella lotta al terrorismo. La cronaca ha preso in fretta il sopravvento dopo il video-spionaggio nei confronti di Me-
siano a cui era seguita una lettera dell’Anm al Presidente della Repubblica per allertare sul «grave rischio per le istituzioni» e per denunciare «l’inaccattabile denigrazione». Alla dieci del mattino la sede dell’Anm è affollata, facce preoccupate, nessuna voglia di scherzare, l’occasione è grave e la preoccupazione altissima. «Emergenza democratica» è il concetto ripetuto dai 36 rappresentanti delle quattro correnti, dalla più moderata Unicost, che ha la maggioranza, ai più “ribelli” dei Movimenti per la giustizia. «E’ a serio rischio la tenuta democratica» attacca il presidente dell’Anm, Luca Palamara che apre i lavori del parlamentino. La preoccupazione è massima e riguarda, prosegue il segretario Giuseppe Cascini, «non solo le aggressioni alle massime autorità di garanzia (la Consulta e il Quirinale, ndr) ma anche l’intimidazione» al giudice Mesiano e le riforme «brandite come una clava, a mo’ di ritorsione». Veloce giro di tavolo, 36 aventi diritto di parola, intervengono un po’ tutti. «In gioco non è la sopravvivenza dell’ordine giudiziario ma il destino della democrazia» osserva il segretario di Unicost Marcello Matera che chiama a raccolta tutta la categoria, al di là delle singole correnti, «per una mobilitazione culturale e istituzionale a difesa delle fondamenta dello stato democratico».
Per Rita Sanlorenzo, segretaria di Md, «mai si era arrivati a tal punto di emergenza democratica». Antonietta Fiorillo (Mi) parla di «attacco finale definitivo contro cui serve un messaggio forte perchè sia chiaro che noi magistrati non ci faremo intimidire». Il primo a pronunciare la parola «sciopero» è Valerio Fracassi, segretario dei Movimenti per la giustizia che chiede «uno sciopero per la democrazia».
L’idea è chiara. Lo scenario anche: lo sciopero sarebbe l’unica risposta possibile dopo due settimane di attacchi «inauditi» e la provocazione del video-spionaggio su Mesiano. I ragionamenti, nei capannelli, sono del tipo: «E’ come se passasse il principio che se un giudice fa una sentenza contro qualcuno, questo qualcuno è legittimato a pedinare il giudice e a screditarlo».
Se questo qualcuno è il Presidente del Consiglio che usa la sua tivù per screditare il giudice che lo ha condannato a pagare 750 milioni alla Cir, si capisce perchè una toga come Gioacchino Natoli arrivi ad evocare «la notte dei cristalli». Ma è proprio l’altra corrente di sinistra, Md, la prima a frenare: «Come finire in un fosso» (Nello Rossi), «un autogol» (Anna Canepa). In votazione va una sola mozione: stato di agitazione, assemblee in tutti i distretti e vedere quali provvedimenti farà il governo. Poi decideranno le toghe.Mai come questa volta unite e compatte.❖
l’Unità 18.10.09
I penitenziari e le colpe del governo
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi
Secondo Silvio Berlusconi e Angelino Alfano sono in arrivo, nel giro di due o tre anni, circa 20.000 che ogni tanto diventano 25.000 nuovi posti nel sistema peniten-ziario. Ovvero, il governo starebbe per varare un programma straordinario di edilizia carceraria. Il tutto, dalle prime notizie, dovrebbe costare circa un miliardo e mezzo; e pare che la copertura finanziaria, ad oggi, soddisfi solo un terzo del fabbisogno. Con un po' di algebra, diciamo subito che semmai il governo riuscisse nell'impresa non farebbe che riportare la situazione del sistema penale a condizioni di gravissimo disagio, rispetto alle attuali che, causa sovraffollamento, sono invece di assoluta ed estrema invivibilità. Tuttavia, il premier e il ministro della giustizia non appaiono così sicuri dei loro intenti e dei loro mezzi. Alfano (oltre a meditare l'apertura di strutture private!) è andato a batter cassa in sede comunitaria, sostenendo come l'Europa debba aiutare l'Italia a edificare nuove carceri in virtù dell'alto tasso di presenza di detenuti comunitari ed extracomunitari; e il commissario Ue alla giustizia, Jacques Barrot, gli avrebbe risposto picche, in quanto quella richiesta sarebbe una misura di sostegno non prevista da alcun trattato. Il ministro dimentica che il Consiglio di Europa ha già indicato la propria strategia per il problema del sovraffollamento: non misure di incremento dell'edilizia penitenziaria, ma la depenalizzazione dei reati meno gravi e il maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione. Come ricorda l'associazione Antigone, l'alta presenza di immigrati nei nostri istituti di pena è determinata, per lo più, dal fatto che l'Italia, contravvenendo ai suggerimenti della stessa UE, criminalizza lo status di immigrato a differenza della maggioranza degli altri paesi. In più, ci ricorda ancora Antigone, "l'Italia ha il primato delle presenze di detenuti stranieri in attesa di giudizio (...); ciò significa che nei confronti degli stranieri in Italia esiste una discriminazione processuale e un uso esagerato della carcerazione preventiva". Ma Alfano queste cose non le sa o finge di non saperle; e mentre va fantasticando le nuove mirabili carceri modello new town abruzzese ribadisce il suo credo nella tolleranza zero. Basterebbe adeguare la legislazione italiana a quella europea in materia di immigrazione, invece di avanzare richieste pretestuose all' Unione per riparare i danni che lo stesso governo ha prodotto; e magari attuare ragionevoli, ragionevolissime misure di depenalizzazione (ad esempio, nei confronti del consumo di droghe) e di colpo si ridurrebbe il sovraffollamento. Ma vaglielo a spiegare...
Repubblica 18.10.09
Alle primarie il pugno del partito che non c'è
di Eugenio Scalfari
OGGI ci occuperemo del Partito democratico. Finora in questi articoli domenicali il tema è stato volutamente trascurato, ma ora è diventato di stringente attualità: domenica prossima, 25 ottobre, ci saranno le primarie che decideranno chi sarà il segretario nazionale del Pd, un evento importante non solo per quel partito ma per l´intera opposizione e anche per il sano funzionamento della democrazia italiana.
Il tema è complesso, perciò bisognerà esaminarlo nei suoi vari aspetti. Comincerò da Veltroni, insediato alla segreteria nell´autunno del 2007, pochi mesi prima delle elezioni che portarono alla vittoria di Berlusconi.
L´altro ieri in un «talk show» dell´emittente La7 qualcuno dei presenti in studio ha detto che Veltroni e D´Alema non soltanto sono politicamente irresponsabili, ma anche «due cretini». Proprio così: cretini.
C´è sempre una prima volta e questa è infatti la prima volta che un epiteto del genere è stato affibbiato ad un uomo politico. Non era mai stato usato. Se ne dicono tante sui politici, anche più sanguinose di questa, ma cretino non si era mai sentito in un salotto televisivo. Ma ormai gran parte dei salotti televisivi sono diventati dei «saloon» dove tutti i clienti portano le pistole nella fondina e il coltello nascosto nel risvolto degli stivali. Così va il mondo.
Nella campagna elettorale del 2008 il partito di Forza Italia arrivò al 37,5 per cento; il Pd guidato da Veltroni ottenne il 33,5 e tutti, fuori e dentro di esso, decretarono una solenne sconfitta. Invece non era stata una sconfitta: una formazione politica riformista con alle spalle pochi mesi di vita era arrivata a superare i risultati del Pci che, dalla segreteria di Natta in poi, non era mai riuscito ad andare oltre il 30 per cento. Senza dire che i riformisti italiani di ispirazione liberal-socialista in cent´anni di storia prima monarchica e poi repubblicana non sono mai usciti da un ruolo di pura testimonianza.
Non era dunque una sconfitta ma un punto di partenza più che rispettabile. Non fu vissuta così e questo è stato un grosso errore del quale non fu responsabile quel cretino di Veltroni.
Oggi i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Pd al 30 per cento. Non è molto ma è qualcosa se si pensa che un mese fa la più antica socialdemocrazia europea, l´Spd tedesca, ha ottenuto meno del 23 per cento; i socialisti francesi sono a pezzi; il Labour inglese è in piena tempesta e neanche Zapatero se la passa molto bene. Sembra un paradosso, ma un partito del quale tutti dicono che non esiste più o che è allo sbando, risulta quantitativamente il più forte della sinistra europea. Non è certo consolante per i rapporti di forza nel Parlamento di Strasburgo, ma è un dato di fatto dal quale dobbiamo partire.
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Un altro dato di fatto ancora più significativo emerge dalla votazione di pochi giorni fa per il congresso del Pd. Sulla base dello statuto di quel partito hanno votato i soli iscritti che rivoteranno insieme agli elettori alle primarie del 25 ottobre. I votanti sono stati 450.000 pari al 60 per cento degli iscritti. Mi domando quali sono stati i congressi di grandi partiti in Italia negli ultimi dieci anni e quale di essi - se ce ne sono stati - è riuscito a mandare poco meno di mezzo milione di persone al voto.Un partito che non esiste? Un partito di sfiduciati, di ipercritici, di indifferenti, senza dibattito interno, senza passione, senza speranze, come viene descritto da giornaloni e da giornaletti? Lascio ai lettori la risposta.
È vero però che lo statuto è molto contraddittorio e inutilmente complicato. Chi l´ha redatto e chi lo ha approvato voleva evidentemente accontentare tutti con l´inevitabile conseguenza d´aver prodotto una procedura inadeguata e confusa. Alcuni volevano sottolineare che gli iscritti debbono contare decisamente di più dei simpatizzanti; di qui una prima fase riservata al voto degli iscritti. Una fase tuttavia puramente registrativa poiché la decisione è riservata alle primarie dove iscritti ed elettori voteranno insieme. Pierluigi Bersani è risultato in testa nel voto degli iscritti ma ora è di nuovo in gioco nel voto delle primarie. Che senso ha una procedura così sconclusionata? Credo che, una volta conclusasi questa partita, i nuovi organismi dirigenti che usciranno dal voto delle primarie dovranno rimetterci le mani e renderla più adeguata alle esigenze della chiarezza e della logica.
Come se non bastasse, lo statuto ha anche stabilito che le primarie eleggeranno il segretario soltanto se uno dei tre candidati in lizza otterrà il 50 più uno dei voti espressi. Qualora ciò non avvenisse avrà luogo una terza fase dinanzi all´Assemblea nazionale eletta anch´essa il 25 ottobre. In questa terza fase i candidati rimasti in lizza saranno i primi due votati alle primarie. Il terzo sarà escluso dalla gara ma in realtà sarà il più forte dei tre perché i suoi rappresentanti nell´Assemblea, appoggiando uno dei due candidati in lizza, lo porteranno alla vittoria, naturalmente ponendo le loro condizioni di programma e di potere.
Le regole sono queste e vanno rispettate, ma sono a dir poco scriteriate perché di fatto danno il massimo potere al terzo arrivato. La conseguenza sarebbe quella di produrre un sentimento di frustrazione in tutti gli elettori delle primarie che vedrebbero capovolte le loro indicazioni.
Per evitare un cul di sacco così traumatico ho avanzato giorni fa una proposta. Io non sono un iscritto al Pd e mai mi iscriverò perché faccio un altro mestiere incompatibile con una tessera di partito. Ma parteciperò alle primarie perché sono un elettore e voterò per quel partito. Ho dunque proposto un accordo politico tra i tre candidati: si impegnino anticipatamente e pubblicamente, se nessuno di loro raggiungerà la maggioranza assoluta, a far affluire i propri voti in assemblea su quello dei candidati che ha ottenuto alle primarie la maggioranza relativa. In tal caso il voto delle primarie sarà rispettato, le regole dello statuto anche e - altro risultato non disprezzabile - il segretario nazionale sarà eletto dall´Assemblea all´unanimità. La mia proposta, forse proprio perché veniva da persona esterna al partito, ha avuto successo: l´impegno è stato preso sia da Bersani che da Franceschini. Esso darà maggior sicurezza e maggiore impulso a tutti quelli che si dispongono a votare il 25 ottobre.
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Fin qui abbiamo trattato questioni di procedura. Importanti, perché senza procedure corrette non si ottengono risultati corretti. Ma ora dobbiamo esaminare il merito, cioè le proposte dei vari candidati, quelle che li uniscono e quelle che li dividono. Chi voterà alle primarie lo farà sulle proposte e sulla loro credibilità.A me non pare che ci siano differenze per quanto riguarda la struttura del partito. Per lungo tempo si è discusso tra un partito cosiddetto liquido, cioè affidato soltanto ai simpatizzanti e quindi alla pubblica opinione, oppure un partito strutturalmente insediato sul territorio.
Questa questione mi sembra ormai superata. L´accordo è generale sul fatto che il partito deve essere presente e vivace sul territorio con larghe autonomie della struttura locale, ma entro linee-guida valide per tutti ed elaborate dagli organi centrali. Del resto questa disputa è già stata superata dai fatti: i 450.000 iscritti che sono andati a votare e che ci torneranno per le primarie sono la più evidente dimostrazione che le strutture sul territorio ci sono già; potranno essere utilmente rafforzate e dotate di adeguate funzioni, ma esistono e operano. Non era facile metterle in piedi in così breve tempo. Questo piccolo miracolo è stato compiuto e va riconosciuto a tutti quelli che l´hanno reso possibile.
Sgombrato il campo da questa questione ne restano altre di grande importanza che sono le seguenti: il rapporto tra l´opposizione e la maggioranza berlusconiana e leghista; il rapporto con le altre opposizioni, cioè la politica delle alleanze; il tema della laicità dello Stato; il tema dell´immigrazione e dell´integrazione; la politica economica; la politica della giustizia; la politica della scuola. Infine - ma soprattutto - il tema della libertà di stampa e quello dei grandi valori dai quali nasce la visione del paese e della società che vedremo nel futuro dell´Italia e dell´Europa di cui siamo parte integrante.
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Si tratta d´una massa di problemi che dovranno essere risolti non solo dal Pd ma da un´elaborazione culturale cui debbono collaborare fondazioni, circoli, associazioni che condividano i valori e creino le condizioni culturali per farli crescere nella società. Un partito democratico deve aiutare questa evoluzione affinché il lavoro di semina e di raccolta sia ampio e proficuo. Veltroni - quel cretino a cui abbiamo già accennato - sostiene che è importante vincere ma ancor più importante è cambiare l´Italia risvegliandola dall´ipnosi in cui una parte del paese è caduta e ricondurla a riflettere e operare pensando al futuro e non accucciandosi su un presente precario e appiattito. Personalmente condivido.Sulla politica economica mi sembra che l´accordo sia generale: nell´immediato occorre riversare le risorse disponibili sui lavoratori dipendenti e sulle piccole e piccolissime imprese e partite Iva. Sul medio periodo è necessaria una grande riforma fiscale e un allungamento dell´età di lavoro che tenga conto dell´allungamento della vita.
C´è accordo generale sul clima e sulle energie alternative e pulite. C´è accordo generale sulla riforma della giustizia, della sicurezza e dell´integrazione. La scuola è un campo da studiare. Esiste già un´ampia ricerca in materia ma ancora non è stata messa in discussione e bisognerà che si faccia al più presto.
Anche sulla laicità e sulle politiche della bioetica l´accordo sembra esserci almeno su un punto fondamentale: la Chiesa ha diritto di usare lo spazio pubblico per esporre le sue ragioni. Non ha invece diritto d´imporre il suo punto di vista nella politica, dove le prerogative dello Stato e del Parlamento sono esclusive e dato anche che i parlamentari cattolici hanno rivendicato la loro autonomia. Penso al cattolico adulto Romano Prodi e penso anche al documento che Franceschini diffuse anni fa raccogliendo su di esso sessanta firme di parlamentari cattolici che rivendicavano la loro autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche in materia di decisioni politiche e parlamentari.
C´è qualche dissenso sulla politica delle alleanze, ma francamente mi sembra più di parole che di sostanza. Se il Pd sarà forte le alleanze si faranno intorno a lui; se sarà debole non potrà svolgere la funzione di pilastro centrale delle opposizioni e non potrà raccogliere nuovi consensi sia a sinistra sia al centro. Penso che nessuno dei candidati preferisca un partito debole ad uno robusto e audace.
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Una parola conclusiva sui valori, che include anche il rapporto con il berlusconismo.I valori d´un partito democratico non possono che esser quelli della libertà, dell´eguaglianza e della solidarietà. L´esperienza storica di oltre due secoli ci ha ampiamente insegnato che la libertà senza eguaglianza è fonte di privilegi intollerabili; l´eguaglianza senza libertà è fonte di dittature e totalitarismi; la solidarietà senza gli altri due diventa assistenzialismo ed elemosina. La democrazia che scaturisce da questi valori è quella descritta e tradotta in norme e in giurisprudenza dalla nostra Costituzione.
La Costituzione può essere rivista e modernizzata, ma non può essere cambiata. Lo impediscono l´articolo 1, l´articolo 3, l´articolo 138 e l´articolo 139. Berlusconi non vuole rivedere la Costituzione, vuole cambiarla. Vuole sostituire la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto con una democrazia autoritaria senza organi di controllo e di garanzia ma interamente basata su sistemi di voto plebiscitari. L´intimidazione dei "media" è un elemento indispensabile di questa strategia che ha come obiettivo finale un´immagine del paese riflessa da uno specchio taroccato al servizio del potere.
Si tratta di concezioni antitetiche a quelle d´un partito democratico e questo è un dato preliminare che non consente né mollezza né scorciatoie di furbizia compromissoria.
Da questo punto di vista noi ci auguriamo che alle primarie del 25 ottobre vada una massa di popolo consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità. Non centinaia di migliaia ma milioni di elettori. Perfino quelli che non condividono le tesi riformiste del Pd ma non si rassegnano all´Italia così com´è: votino magari scheda bianca ma vadano. Quei seggi del 25 ottobre saranno anche una prova di forza di tutta l´opposizione e un buon principio per un paese risvegliato.
Corriere della Sera 18.10.09
Il metodo (paradossale) scelto per l’elezione
Il Pd, il segretario e le primarie: è a rischio anche il futuro del partito
di Paolo Franchi
Forse è troppo affermare che il metodo adottato dal Pd per eleggere il proprio segretario è pazzesco. Forse è, più semplicemente, paradossale. E di sicuro è pericoloso. Non per questo o quel candidato, ma per le sorti stesse del partito.
All’apparenza, tutto è molto chiaro, e molto, molto democratico. Nei congressi gli iscritti selezionano, con il loro voto, i candidati che si presenteranno alle primarie. E segretario diventerà chi prevarrà in queste ultime, sempre che ottenga la maggioranza assoluta dei voti. Se nessun candidato dovesse ottenerla, la decisione finale spetterebbe all’assemblea nazionale, eletta nelle primarie medesime. Ma qui le cose già cominciano a complicarsi, e il condizionale è d’obbligo, perché di mezzo c’è il cosiddetto lodo Scalfari, secondo il quale dovrebbe risultare automaticamente eletto chi alle primarie ottenesse anche un solo voto in più dell’avversario: a quel che abbiamo capito, Dario Franceschini è d’accordissimo, Pier Luigi Bersani un po’ meno, Ignazio Marino per nulla.
Nessun problema, allora, lodo Scalfari (eventualmente) a parte? Non sembra. Il problema c’è, e sta, come suol dirsi, a monte. Nessuno dei contendenti può dirlo chiaramente, perché questo meccanismo lo hanno accettato tutti (Massimo D’Alema compreso), perché a sostenerlo adesso si rischia di passare per nemici della democrazia e soprattutto perché ormai è troppo tardi. Ma le primarie hanno un senso e un valore quando si tratta di scegliere un candidato premier, non ne hanno alcuno quando si tratta di scegliere il segretario di un partito. Nei partiti in cui la leadership è, come in democrazia dovrebbe risultare fisiologico, contendibile (come è noto, non lo è dappertutto: per fare il caso più eclatante non lo è quasi per definizione nel Pdl), a deciderla provvedono gli iscritti, seguendo un percorso che culmina nel congresso. Storie del passato, scampoli di Novecento? Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito in cui a decidere la leadership sia una platea indifferenziata di cittadini, tenuti solo a dichiararsi elettori del partito medesimo e a versare qualche spicciolo. Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito disponibile a correre, e per propria libera scelta, il rischio di mettere in aperto contrasto la volontà dei propri iscritti e quella dei propri elettori. Per il banalissimo motivo che se il «partito degli elettori» rovesciasse le decisioni del «partito degli iscritti», quest’ultimo, che, piaccia o no, è l’unico partito in carne e ossa che c’è, uscirebbe dalla contesa non solo sconfitto, ma profondamente delegittimato e, in ultima analisi, dissolto.
Una delle principali obiezioni a queste (ovvie) considerazioni è che il Pd è una sorta di work in progress: i suoi iscritti sono una realtà ben diversa dai militanti di un tempo, i cittadini che parteciperanno alle primarie sono elettori particolarmente attivi, attenti e appassionati, e la forma del partito che verrà sarà un mélange, oggi impossibile da definire nei dettagli, tra i primi e i secondi. E vero, ma al Pd si chiede di stare in campo oggi, non domani o dopodomani. Un’altra, e più concreta, obiezione è che il voto del «partito degli iscritti» (in specie, ma non solo, nel Mezzogiorno) è fortemente condizionato da una quantità di fattori, non tutti propriamente commendevoli, e quindi esprime i reali intendimenti del «popolo democratico» assai meno di quello delle primarie, molto più largo e molto più libero da condizionamenti (è in fondo questo, ci pare, il messaggio del manifesto fatto affiggere da Franceschini, sul quale il candidato, che, ricordiamolo, è pur sempre il segretario uscente, ci guarda dallo sfondo, e lo slogan recita: «Adesso decidi tu»). Può darsi.
Ma, quale che sia il giudizio sulla limpidezza del confronto interno al partito, è lecito contro-obiettare che anche il voto delle primarie è esposto a pressioni, sconfinamenti e incursioni esterne che possono condizionarlo e indirizzarlo verso risultati imprevedibili. Per influenzarne l’esito, non c’è bisogno che vadano a votare gli elettori del Pdl e, in fondo, nemmeno quelli di Di Pietro: con il passare dei giorni, si moltiplicano gli endorsement non solo degli amici e dei compagni di strada, ma persino quelli degli avversari dichiarati, e chiedersi quale sia il più efficace e quale il più controproducente è già diventato una specie di gioco di società.
In conclusione: per calcolo, per imperizia o per distrazione, o per tutte e tre le cose insieme, è stata innescata, potenzialmente, una specie di bomba ad orologeria. Se un augurio si può fare al Pd è che il timer, per un motivo o per l’altro, vada in tilt.
E che, superate le primarie, vincitori e vinti riescano a ritrovare, e a far ritrovare agli elettori, le ragioni dello stare insieme. Al momento, nonostante tutte le assicurazioni in senso contrario, la cosa non è scontata.
Corriere della Sera 18.10.09
La delibera Il testo che sarà approvato domani per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
«Ru 486, ricoverate fino all’aborto»
L’Agenzia: sì alla pillola ma con tempi più lunghi rispetto all’intervento tradizionale
di Margherita De Bac
ROMA — «L’impiego del farmaco deve trovare applicazione nel rigoroso rispetto dei precetti normativi della legge 194 a garanzia e tutela della salute della donna. In particolare deve essere garantito il ricovero in una delle strutture sanitarie dal momento dell’assunzione fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento ». E’ uno dei principi stabiliti nella delibera sulla pillola abortiva che domani il consiglio di amministrazione dell’Aifa (agenzia del farmaco) consegnerà al direttore generale, Guido Rasi, perché venga pubblicata nella Gazzetta Ufficiale con un ultimo atto formale chiamato «determina». Il provvedimento finale di «immissione in commercio» andrà in stampa entro 30-40 giorni. Quindi uscirà quando la Commissione Sanità del Senato avrà terminato l’inchiesta conoscitiva. Concomitanza non casuale che risparmia ai dirigenti Aifa l’imbarazzo di anticipare gli esiti di un’iniziativa istituzionale e scansa il sospetto di aver subito le pressioni della politica. «L’inchiesta finirà entro il 19 novembre — conferma il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi —. Dobbiamo verificare la compatibilità della 194 con la pillola e con l’aborto farmacologico che peraltro non è fatto solo di Ru 486». La delibera, approvata il 30 luglio e poi licenziata il 30 settembre dopo la rilettura del verbale, fissa alcuni paletti e dovrebbe tranquillizzare chi denuncia il rischio che l’aborto si trasformi in una pratica domiciliare. La donna resterà in ospedale fino al termine dell’interruzione di gravidanza. In genere tra l’assunzione dei Mifegyne (nome commerciale) e l’espulsione (determinata dall’effetto di un secondo farmaco) passano tre giorni. Nulla vieta alla donna di firmare il registro della dimissione e tornare a casa in qualsiasi momento, come per ogni altro ricovero. La delibera insiste sulla comunicazione: «Tutto il percorso abortivo deve avvenire sotto la sorveglianza di un medico del servizio ostetrico ginecologico cui è demandata la corretta informazione sull’utilizzo del medicinale, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative e sui possibili rischi connessi nonché l’attento monitoraggio onde ridurre al minimo le reazioni avverse segnalate, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali». Mifegyne dovrà essere presa «entro la settima settimana di amenorrea». Dunque in tempi più brevi rispetto alle nove settimane previste in altri Paesi. L’Aifa ha deciso di introdurre la restrizione per «i rischi teratogeni connessi alla possibilità di fallimento dell’interruzione farmacologica di gravidanza e il sensibile aumento del tasso di complicazioni in rapporto alla durata della gestazione ». La prossima settimana Rasi notificherà la delibera all’azienda farmaceutica, la francese Exelgyne, che invierà all’Aifa il foglietto illustrativo, con le modifiche necessarie. Poi manderà la «determina» alla Gazzetta Ufficiale. La RU 486 entra ufficialmente in Italia. Sul piano delle polemiche non sembra essere finita qui. La Commissione del Senato presieduta da Antonio Tomassini potrebbe esprimere dubbi sull’impiego off label (non previsto dal foglietto illustrativo) del Citotec, il farmaco registrato in Italia come gastroprotettore, che provoca l’espulsione e va preso a 48 ore dal primo.
Repubblica 18.10.09
Il delirio di onnipotenza
di Piero Ottone
Succede quasi sempre, è quasi una legge fisica. Chi partendo da zero raccoglie successi strabilianti è colto, prima o dopo, dal delirio di onnipotenza: fa allora un passo falso, che sarà la sua rovina. Succede ai grandi uomini: Napoleone vince tutte le battaglie, crede che vincerà anche l´ultima, parte per la campagna di Russia, ed è la fine. Succede (se vogliamo scendere a esempi più casalinghi) ai capipopolo fortunati, a Cola di Rienzo, a Masaniello: il successo trionfale li accieca, sarà la loro rovina. Succede anche al piccolo imprenditore arricchito che fa un investimento di troppo, e fallisce. Succede a tutti, insomma. E Silvio Berlusconi? Si poteva credere che lui fosse immune. Mai l´imprudenza, nel suo caso. Mai il passo fatale. Fino a ieri. Ma forse la legge fisica, adesso, ha funzionato anche per lui.
Forse. Può darsi che il momento fatale sia venuto in seguito alle ultime elezioni. Un successo trionfale: cinque anni sicuri al governo, senza opposizione. Il vincitore avrebbe potuto valersi della maggioranza di ferro per smantellare certi interessi costituiti, per mettere in cantiere le famose riforme, invocate dalle persone di buona volontà. Ha invece optato per quella che comunemente, e forse a torto, si chiama la dolce vita. I festini. Le ragazze a decine. Chi sa quali altre stravaganze. Può darsi che i lussi e gli eccessi siano per lui (come per Cola di Rienzo, dicono gli storici) fonte di piacere. Che siano irresistibili. Ma credo che il fenomeno da cui è stato travolto sia più complesso. Ciò che lo inebriava, più ancora dei piaceri di varia natura che poteva concedersi, era la prova che ormai, padrone d´Italia, era in grado di permettersi tutto: la vita del sultano, come ha detto Giovanni Sartori. L´harem. Nessuna distinzione fra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, fra aerei privati e aerei di Stato. Il capriccio di designare le concubine per questo o quel parlamento, di affidare i ministeri alle amiche. La dimostrazione, insomma, che poteva fare tutto quel che voleva: il delirio di onnipotenza. La legge fisica ha funzionato ancora una volta. Non con la campagna di Russia, ma con Marisa e Noemi.
Il passo falso (se questa lettura degli eventi è giusta) non porta direttamente alla perdita del potere. La maggioranza in parlamento è sempre lì, intatta. Forse è intatto, o limato di poco, il sostegno popolare (anche se i favori del popolo possono cambiare molto in fretta). Ma lo scandalo, quando è scoppiato, ha provocato nel personaggio un fenomeno di destabilizzazione. All´improvviso Berlusconi non è più lo stesso: sereno e sorridente fino a ieri, ora sembra ossessionato dagli attacchi, si difende e inveisce ogni volta che apre bocca, contrattacca, glorifica se stesso, ripete che è scelto dal popolo, che è il più bravo nella storia, che non ha rivali. La bocciatura del lodo Alfano, il risarcimento a De Benedetti di settecentocinquanta milioni hanno aggravato la situazione, hanno inasprito in lui la sensazione di isolamento. Il verdetto dei magistrati è anch´esso segno di indebolimento ? Sarebbe stato diverso qualche mese fa? Chi sa. Certo è che le disgrazie non vengono mai sole.
Resta da vedere, adesso, quali saranno le conseguenze del passo falso e della destabilizzazione. La stampa internazionale (surrogando quella italiana, la cui prudenza, tranne eccezioni, è un fenomeno preoccupante) scrive da vari giorni che un presidente del Consiglio in questo stato d´animo, un presidente ferito, nuoce al paese, è insostenibile. È possibile che lo pensino anche gli uomini intorno a lui, e ne traggano prima o dopo le conseguenze. Un uomo politico, Casini, gli ha consigliato di prendere una camomilla: quelli che condividono il potere potrebbero indurlo, più seriamente, a farsi da parte. L´altra possibilità (come ritiene Eugenio Scalfari) è che il comportamento del personaggio, invece che un fenomeno di destabilizzazione, sia deciso a mente fredda, nell´ambito di una strategia. Può darsi che voglia lanciare nuove formule politiche, temerarie riforme costituzionali: l´elezione diretta del Primo ministro, la repubblica presidenziale.
Ma gli osservatori stranieri probabilmente hanno ragione. La situazione attuale, così com´è, non può durare a lungo.
Repubblica 18.10.09
Taccuini di viaggio
La calda estate del Marocco dove il velo nasconde e svela
di Tahar Ben Jelloun
Una donna bellissima con una sottoveste leggera spunta dall´oceano trasformata in sirena luccicante Accanto, un gruppo di ragazze si tuffano completamente vestite. Nelle città la moda riempie le vetrine dei negozi di manichini nudi ma con foulard colorati sulla testa
Cose viste quest´estate in Marocco. Una spiaggia di sabbia fine, bianca, calda, meravigliosa. Un mare blu. Perfino la schiuma ha tracce di azzurro. Solo il rumore delle onde lente, appena visibili. Pochi bagnanti. Sportivi che corrono. Un cane che va a zonzo. La spiaggia è pulita, o quasi; delle navi hanno scaricato i liquami lontano dalle coste mediterranee. C´è catrame sulla sabbia.
Improvvisamente la mia attenzione è attratta da una giovane coppia che si accinge a entrare nell´acqua. Lui con costume lungo, cappellino e macchina fotografica. Lei in una camicia da notte celeste particolarmente aderente. Si indovinano le forme. Avanza nel mare, si immerge tutta vestita e ne esce come una sirena trasparente. L´uomo la fotografa, le chiede di tuffarsi di nuovo. La donna si ferma e si gira verso di lui, verso di me. Ha un petto splendido. Si distingue bene la forma dei seni, con i capezzoli neri. Sotto la camicia da notte indossa mutandine di cotone bianco. L´uomo è occupato a fotografarla e io ammiro quella bellezza uscita dal mare con la stoffa appiccicata alla pelle, si intravede un triangolo nero, il famoso paradiso profumato. L´uomo si volta e noto che ha la barba. Sua moglie non deve essere vista da altri uomini. Mentre indietreggio mi lancia un´occhiata minacciosa. La donna gioca con l´acqua, lancia manciate di schiuma. È magnifica. L´uomo si precipita verso di lei e la copre con un immenso telo da bagno. Fine dello spettacolo. Fine del film erotico. Continuo la mia passeggiata ripensando a quella sirena che stava al gioco.
Un po´ più in là, un gruppo di giovani donne, tutte vestite, si immergono nell´acqua. Sono sole, non ci sono uomini con loro. Si divertono, rotolano sulla sabbia, escono ridendo. Il fatto di non essere in costume da bagno non sembra disturbarle. Escono dall´acqua come naufraghi stanchi, si buttano sulla spiaggia e aspettano di asciugarsi. Lì accanto si sistema una famiglia di emigrati. Il padre pianta un ombrellone e si piazza all´ombra. Legge un giornale in arabo. La madre si occupa dei bambini, due adolescenti e tre bambine: la più grande indossa un due pezzi, le altre due restano vestite. Tra di loro parlano in tedesco. Non capisco una parola ma vedo che sono allegre. Insieme ai fratelli, giocano a pallavolo con una rete immaginaria. Il padre non dice nulla, la madre prepara il pranzo. Scambia qualche parola con il marito, a volte in arabo e a volte in berbero. Le tre bambine fanno il bagno, giocano, gridano, si divertono. Non si direbbe in nessun momento che le due sorelle vestite possano sentirsi scomode o a disagio. Valli a capire. Una in costume da bagno sexy, le altre due in abiti grigi.
Vado alla posta a ritirare un pacco. Odio andare alla posta. Fa caldo. Mi metto in coda e osservo che nella fila accanto c´è più gente, ma la mia non avanza. Un tipo mi fa: «Vieni di qua, passerai più in fretta». Gli chiedo perché. Mi risponde: «Qui c´è una sorella musulmana allo sportello. È più seria e più efficiente. L´altra mastica il chewing-gum e lavora brontolando». Mi avevano già fatto notare che i fondamentalisti tengono a mostrare quanto siano seri e integri. E un modo di militare per il partito che li rappresenta.
A Tangeri mi siedo al Café de Paris, in place de France. Sono con un amico spagnolo. Mi chiede perché ho scelto questo caffè. Perché è un eccellente punto d´osservazione. Tutti passano di lì. Decidiamo di contare il numero delle donne velate e di quelle non velate. Dopo un quarto d´ora smettiamo di contare: il velo vince di gran lunga. Significa che tutte le donne con un foulard in testa sono fondamentaliste? No. È la moda, d´altronde sulla "kissaria" (mercato di abiti e tessuti da donna) hanno aperto negozi che vendono solo foulard, di tutti i colori e di tutte le forme. In vetrina, i manichini di plastica sono nudi ma incappucciati da eleganti foulard.
Ho visto uomini neri, ben vestiti, passeggiare per la medina di Tangeri. Una volta tanto non si tratta di sventurati clandestini inseguiti dalla polizia. Sono comparse sulla scena di un film che si svolge in Africa, con Leonardo di Caprio protagonista. Hanno allestito un mercato africano di fronte al teatro Cervantes, in rovina da oltre cinquant´anni. È lì che girano il film. La sera ho visto Di Caprio cenare con sua madre al ristorante Mirage. Parlava con lei in tedesco.
Il primo giorno del Ramadan il volto della città è cambiato. Le vie sono quasi vuote fino alle dieci del mattino. Tutti fanno il digiuno, anche quelli che non lo fanno. È inimmaginabile che un marocchino musulmano esca per strada fumando o mangiando un pezzo di pane. La legge lo vieta e la gente non lo permetterebbe. La città comincia ad animarsi verso l´una del pomeriggio, subito dopo la preghiera di metà giornata. Più il tramonto si avvicina (quest´anno è verso le sette), più la gente si muove, si irrita, litiga e corre in tutte le direzioni. Stare senza mangiare, bere, fumare e avere relazioni sessuali, in breve cambiare da cima a fondo il modo di vivere, rende la gente irascibile. Siamo lontani dal senso spirituale del digiuno, considerato dall´islam come un momento di raccoglimento, di meditazione, di introspezione e di preghiera.
Alla rottura del digiuno si mangia molto, troppi dolciumi, pasticcini al miele, uova sode. Si mangia in fretta e troppo. La sera è il momento più simpatico del Ramadan. La gente è rilassata, si incontra e si diverte fino al sorgere del sole, il momento preciso in cui comincia il digiuno. Tra le otto e le dieci di sera, si riempiono le moschee per ascoltare i teologi parlare dell´islam e della vita. Queste sedute, dette "tarawihe", sono in pratica lezioni e prediche più approfondite.
È durante il mese di Ramadan che alcuni musulmani si recano alla Mecca per l´Omra, (il piccolo pellegrinaggio). Quest´anno, la minaccia dell´influenza non ha avuto alcun effetto su chi sognava di fare quel viaggio. Si vedrà al ritorno. Gli albergatori e gli operatori turistici sono contrariati: quest´anno il Ramadan è cominciato il 21 agosto; l´anno prossimo inizierà l´8 agosto, l´anno dopo il 28 luglio… Gli affari ne risentiranno per almeno cinque estati. Ma la fede è più forte del commercio!
Traduzione di Elda Volterrani
Repubblica Firenze 18.10.09
Il manicomio di Tobino
Follia e letteratura, un mondo da salvare
di Laura Montanari
Abbiamo visitato l´immensa struttura a pochi chilometri da Lucca dove lo scrittore-psichiatra visse e lavorò con i suoi malati
A Maggiano, in un´ala del manicomio, lo scrittore ha abitato per quarant´anni, «ora per ora con i matti» fino al capolinea della legge Basaglia. «Anche in questo momento mentre sono con la penna in mano mi arrivano le parole dei malati (...), qui sotto la mia finestra e distinguo la voce di Gianni che fischia come una carrucola di pozzo, il pigolio da canarino di Sanesi... «si legge negli «Ultimi giorni di Magliano».
La casa dello scrittore, «due stanzette, tugurio e villa» stava andando alla malora come il resto degli edifici intorno, una deriva di infissi che sbattevano al vento, stanze ancora piene di arredi, la sua branda, la macchina da scrivere, una poltrona, una lampada, il tavolo dello studio. Dieci anni senza più un inquilino: è un tempo capace di lasciare segni e ferite indelebili. A salvare questo posto, crocevia di malattia, esclusione e letteratura, è stata la Fondazione Tobino che è riuscita a rastrellare i fondi necessari per fasciare di impalcature l´ala dell´immobile che era la casa dello scrittore e la biblioteca del manicomio. Un luogo simbolo sulla collina di Santa Maria delle Grazie (a pochi chilometri da Lucca) che diventerà la sede della fondazione, museo e centro studi collegato alle università. La nuova casa alla memoria di Mario Tobino sarà consegnata nei prossimi mesi in occasione del centenario (1910-2010) della sua nascita. Sarà come la vecchia, ma ritinteggiata e ristrutturata. «I lavori sono stati finanziati per un milione e 200 mila euro arrivati dal ministero e altri 600 mila dalla Regione Toscana» spiega Tagliasacchi che fa strada assieme al primario dell´ospedale psichiatrico di Lucca, Enrico Marchi e a Marco Natalizi direttore della Fondazione: prende le chiavi. Riapre una dopo l´altra, fra mille cautele, le porte di questo «pozzo di reclusione», dove il silenzio resta popolato di presenze: la Marzi che voleva uccidersi buttandosi di sotto, la Berlucchi che si è trapassata il petto con l´ago della calza, il Tono, la Benni e molte altre e altri «dannati della malattia mentale». «Ombre con le radici fuori dalla realtà, ma hanno la nostra immagine, mia e tua, oh lettore» scriveva Tobino nelle «Libere donne di Magliano». Donne che di libero non avevano più niente e per capirlo basta scendere poche scale in questo edificio abbandonato e trovarsi davanti, dopo gli stanzoni con le finestre piombate dalle sbarre, i loculi del reparto delle «agitate». C´è ancora il telaio in ferro di qualche letto, ci sono le porte di legno con le serrature pesanti e un piccolo oblò al centro da dove le infermiere spiavano le pazienti «all´alga», cioè quelle che potevano stare solo nude nelle smanie della follia, lasciate al vuoto di uno spazio di reclusione soltanto con lo spiffero di un termosifone nell´inverno e con cumuli di alghe marine essiccate per giaciglio.
Androni, chiavistelli, soffitti con le travi, grandi finestre che danno sui chiostri, le cucine in cui è cresciuta l´erba. Mancano le grida, ma sono rimpiazzate dal silenzio e l´effetto, lo sgomento, è lo stesso: «Eppure qui - spiega il professor Marchi - rispetto ad altri manicomi c´era una maggiore apertura verso l´esterno. Ad esempio, negli anni Cinquanta si organizzò persino un festival di musica pop dove i cantanti erano pazienti che venivano dagli ospedali psichiatrici di tutta Italia». La Fondazione - creata nel 2006 dalla Provincia di Lucca, Comune di Viareggio, Usl 2, dagli eredi dello scrittore, con la collaborazione del Gabinetto Vieusseux di Firenze, due fondazioni bancarie (Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lucca) e di recente il Comune - organizzerà borse di studio, convegni e rileggerà soprattutto quel Tobino che nell´Italia dei Basaglia e degli anti-Basaglia è stato frettolosamente sistemato nei perdenti, fra quelli che non volevano chiudere i manicomi. Per capire lo scrittore viareggino non basta probabilmente oggi rileggerlo, bisogna salire su questo versante della collina e camminare nelle stanze che ha abitato «gomito a gomito» con le persone che curava. Quarant´anni così, a guardare dentro la follia, ma sempre, come ha scritto Eugenio Borgna, «nella sua radicale dimensione umana».
Corriere della Sera 18.10.09
Retrospettive Londra: l’artista anglo-indiano alla Royal Academy
Kapoor? Un simbolista d’oggi
di Giorgio Cortenova
Anish Kapoor sostiene che il rosso è il colore del sole che tramonta e che il blu rivela e custodisce la profondità più ancora del nero. Ha ragione, perché la profondità che egli ricerca non è quella fisica e visiva, ma quella psichica, carica di brividi e di presagi. Del resto è cosa che gli artisti hanno sempre sottolineato, da Munch a Bacon.
Ma il blu, il rosso, come d’altra parte il giallo di Kapoor, ricordano i toni cangianti delle carrozzerie delle auto e attingono magie ed evocazioni dalle lacche indiane che gli sono naturalmente familiari.
Anish è nato infatti nel 1954 a Bombay (oggi Mumbai) da padre indiano e madre ebrea irachena, insomma da due culture incrociate che da sole formano un intrigante tessuto ricco di sollecitazioni.
Nel ’74 si trasferisce a Londra, dove studia all’Hornsey College, e nell’ 80 ha il suo battesimo con il sistema dell’arte in una mostra parigina presso Patrice Alexandre.
Il suo talento esplode assieme a quello dei Gormley e dei Cragg. Ma Kapoor è diverso. Più mite ed evocativo: non cerca le provocazioni o lo sberleffo e preferisce gli enigmi racchiusi in forme semplici, spesso di legno intagliato e reso policromo con pigmenti tipicamente indiani.
A suo modo è un «filosofo» e malgrado le molte interpretazioni che si sono sviluppate attorno alle sue ipotetiche letture, da Fichte a Schlegel, è comunque cosa certa che i suoi testi di riferimento sono quelli del vecchio Platone: una luce orientale incisa nel cuore dell'Occidente. Adesso Londra gli dedica una retrospettiva.
Dagli anni Novanta in poi Kapoor si serve delle resine, dell’acciaio corten, dell’alluminio: gigantesche forme concave, a tromba, laccate in rosso, come Untitle (2007), un vortice che converge nella centralità del buio e ti risucchia nel richiamo fascinoso del mistero. Il successo lo premia fino agli eccessi di un mercato impazzito e ben manovrato, che nel suo caso sembra ancora a prova di crisi.
Kapoor non è un artista «neo-concettuale » o genericamente «mentale », definizioni spesso di comodo che riempiono la bocca del nulla da cui spesso nascono. E’ invece un simbolista contemporaneo, che attinge emozioni dalla storia, a partire da Redon e da Kubin, e naturalmente dal pensiero veggente dell’India e di quell’Oriente insonne che attrae il corpo per restituirci l’anima.
ANISH KAPOOR Londra, Royal Academy, sino all'11 dicembre. Tel. +44/20-73008000
Corriere della Sera 18.10.09
Antologiche Zurigo: settantacinque fra dipinti e disegni preparatori, dal 1875 al 1890, del «puntinista» Seurat alla Kunsthaus
A Georges piaceva dividere i colori
Precursore delle ricerche della Bauhaus e dell’Optical art
di Sebastiano Grasso
Georges Seurat ha vissuto solo 32 anni (1859-1891). Qualche anno in meno di Van Gogh (37: 1853-1890) e di Gauguin (55: 1848-1903). Entrambi gli devono qualcosa. Nato in una famiglia agiata, Seurat può dedicarsi alla pittura.
Nel 1878 si iscrive alla Scuola di Belle arti e nel 1883 esordisce con un disegno al Salon des Indépendants . Ne seguono altri: ha negli occhi i paesaggi di Millet. Nei rimanenti otto anni, dipinge decine e decine di grandi quadri, cui si affiancano 583 disegni e 163 schizzi preparatori.
Che cosa avrebbe potuto fare se fosse vissuto una decina d’anni in più? Domanda valida per moltissimi altri, naturalmente (e viene in mente Vincenzo Bellini, morto a soli 34 anni: Sonnambula, Norma, Puritani, Pirata, Capuleti e Montecchi, Beatrice di Tenda ).
Seurat si rende conto che l’Impressionismo — che sino a quel momento ha avuto il merito di attrarre a sé tutte le avanguardie — dà segni di stanchezza. Nel 1886, all’ottava e ultima, conclusiva mostra degli impressionisti, organizzata dal gallerista Durand-Ruel, neppure l’ombra di Monet, Renoir e Sisley. Ci sono, invece, Pissarro, Seurat e Signac.
Già da qualche tempo, Pissarro rifiuta «la pastosità, la morbidezza, la libertà, la spontaneità e la freschezza della nostra arte impressionista»; Seurat, che da un po’ di tempo s’è dedicato a testi sui fenomeni ottici, tenta di coniugare arte e scienza; Signac, anche se più giovane di Seurat di soli quattro anni, lo segue a ruota.
Divisi i colori in «primari» (blu, giallo, rosso) e «secondari» (verde, violetto, arancione), Seurat ne vuole applicare, sulla tela, il «contrasto simultaneo ». Come? Non mischiandoli, ma accostandoli. Piccoli punti separati.
Ecco l’inizio del cosiddetto puntinismo ( pointillisme ). Primo esempio, Una domenica all’isola della Grande Jatte. Il critico Felix Fenelon lo definisce «neoimpressionista» e «manifesto di una nuova tecnica».
La definizione non garba a Seurat. Avrebbe preferito: «impressionista luminista » o «cromo luminista». Tant’è. Non tutti gradiscono il dipinto, però, anche se per molti questo indica una svolta nella pittura made in France .
Grande successo, invece, fra gli scrittori simbolisti, anche perché contemporaneamente appare il loro Manifesto.
Seurat approfondisce la propria ricerca sui fenomeni ottici. Guardando alla scultura egizia e a Piero della Francesca, semplifica l’architettura di scene e figure. Si vedano le marine, l’ambientazione degli spettacoli popolari di piazza, le vedute del circo, le passeggiate mattutine, la rivisitazione della Torre Eiffel. La figura non è più a sé stante, ma viene inquadrata in armonia con lo spazio geometrico.
Ed è appunto questa la chiave di lettura della rassegna che Zurigo dedica a Seurat: 75 fra dipinti e disegni, dal 1875 al 1890. Una sorta di retrospettiva, curata da Christoph Becker e Julia Burckhardt. Buona parte dei dipinti sono accompagnati dagli studi preparatori, in modo che il visitatore possa rendersi conto dei vari passaggi.
Se in vita Seurat è certamente un artista di successo, non altrettanto lo è dopo la morte. Anzi, per un lungo periodo, su di lui s’è stesa una coltre di oblio. Dopo un certo interesse da parte del Futurismo (Balla, soprattutto), la ripresa avviene circa trent’anni dopo, attraverso gli aderenti alla scuola tedesca della Bauhaus, fondata da Gropius. Ad essa si riallaccerà l’Optical art, nel momento in cui riprende le ricerche di Moholy-Nagy ed Albers.
Georges Seurat non aveva seminato invano.
GEORGES SEURAT Zurigo, Kunsthaus, sino al 17 gennaio. Tel. +41/44-2538484
Corriere della Sera 18.10.09
Seurat. Pulviscolo sonoro
di Duilio Coureir
Il pittore Georges Seurat (1859-1891)Sotto la spinta d’invenzione ed energia di Georges Seurat e dei suoi amici d’avventura estetica (da Signac a Pissarro) si afferma quel movimento che ha preso il nome di pointillisme e che in dieci anni, fra il 1880 e il 1890, rende più decisa la sua presenza nella cultura francese, sino ad arrivare negli atelier dove si fanno le prove del Cubismo, del movimento fauve e di ogni altra possibile avanguardia con nuove inattese scoperte.
Il percorso del pointillisme , però, non appartiene soltanto alla storia figurativa, ma trova un suo spazio nei territori della musica da cui, per la verità, non pare sia stato mai assente.
Nella musica il pointillisme si realizza con atteggiamenti diversissimi. Il mondo delle note, infatti, offre notevoli esempi di frammentazione sonora, interrotta da pause amplissime e lontane — da Monteverdi alla Secessione viennese e da Gustav Mahler a Sciarrino, per dare alcune indicazioni significative — senza dimenticare che si tratta pur sempre di una meditazione fatta in gran parte da ipotesi ed interrogativi.
La prima traccia, forse un’ipotesi assai azzardata, di pointillisme, si trova nella raccolta delle opere monteverdiane, una canzonetta a tre voci che è un pulviscolo sia nelle note che nelle sillabe, un gioco magistrale di frammentazione.
Occorre dire che gli eventi d’un linguaggio possono presentarsi separati dal tempo e dallo spazio e che le trasmissioni avvengono sotterraneamente.
Sicuramente questi fenomeni possono essere vissuti senza la consapevolezza critica d’un Seurat e compagni. Il compositore russo Peter Illic Ciaikovskij nello scherzo della Quarta sinfonia si impegna a comporre figure con degli staccati e colloca il tempo prima della fine, facendone un movimento di evasione e di ricerca. Nella Sonata op. 14 n.2, Beethoven si serve del pointillisme per creare non delle note, ma delle cellule spezzate per un bisogno di sperimentazione.
Bizet può essere citato in questo contesto per la durezza intrinseca della sua Carmen, e per la metallicità del contrappunto che anticipa la stagione della Nuova oggettività.
Discorso diverso per Gustav Mahler: uomo delle pause, delle attese, della tensione delle attese che si rivolgono verso situazioni screziate. Il procedere della scrittura mahleriana si aggroviglia in un incessante flusso suscitato e tracciato da suoni slegati che provocano uno stato di aspettativa e di corrispondenze che si rinnovano all’infinito.
Per concludere questa esplorazione — dove restano aperte molte ipotesi — rivolgiamoci ad un protagonista della musica contemporanea come Salvatore Sciarrino, che cerca ed inventa la musica con ogni mezzo. Il famoso pulviscolo sonoro del compositore siciliano è tale perché egli passa attraverso fonti nobili. Nel pezzo eseguito da Sciarrino a San Petronio, a Bologna, per le Feste musicali, vive il culto della grande musica, ma non si sente neppure una melodia.
La partitura ha questa specie di ansietà: uscire dalle privazioni del canto. Si ascoltano brandelli di melodie interrotte, realizzate con improvvisi incrementi di suono o con battute lunghe per rendere più espressivo il discorso nei momenti di maggiore tensione; soluzioni che fanno sentire la vicinanza del pointillisme, anche se non si avverte più il clima storico di quella stagione intellettuale legata a Seurat.