lunedì 19 ottobre 2009

Repubblica 19.10.09
Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo
Grossman: "Così ho vinto la paura dell'altro"
Il mondo non è un nemico


Mi piace il cambiamento, il movimento rapido Viaggiare ti porta a vivere nuove realtà
Bisogna avere il coraggio di capire, bisogna non temere di andare nei posti più dolorosi

GERUSALEMME. David Grossman, la trama di A un cerbiatto somiglia il mio amore è incentrata su un viaggio in Galilea. In altri suoi lavori compare il tema del viaggio. Che cosa rappresenta per lei? È una fuga dalla realtà o un incerto percorso verso una migliore conoscenza dell´altro e di se stesso?
«Un viaggio non è mai una fuga, penso piuttosto che ti costringa ad affrontare nuove realtà, nuove persone, evochi nuovi elementi dentro di te. Mi piace il cambiamento, il movimento rapido. Il viaggiare è un continuo porsi delle domande, perché in un viaggio le condizioni cambiano ogni momento, non sei preparato. Ricordo quando camminavo in Galilea... Non avevo mai fatto prima una cosa del genere, camminare da solo, e per così grandi distanze. Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: il fatto stesso che fossi stato in grado di farlo, la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento a cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori... Tutte queste cose mi erano completamente nuove».
Quando lei dice che un viaggio non è mai una fuga è perché, in fondo, si parte sempre per ritornare?
«Forse all´inizio si tratta sì di una fuga da qualcosa, ma pensi al profeta Giona, nella Bibbia. Lui scappava, voleva scappare dalla profezia che Dio gli aveva imposto, ma immediatamente si è trovato in una situazione così diversa e così tanto più drammatica di quella da cui stava fuggendo. Sto pensando ad altri libri che ho scritto e che sono anche libri "che corrono". Il primo libro che ho pubblicato in ebraico si chiamava Ratz, L´uomo che corre, e in Vedi alla voce: amore vi è anche il viaggio dei salmoni nel mare. So di avere questa duplicità in me, perché di solito la mia esistenza è composta da situazioni molto "passive": posso stare seduto delle ore e scrivere, poi, all´improvviso sento la necessità di movimento, e il bisogno di uscire, di incontrare gente e di espormi al mondo».
È una necessità sia fisica che psicologica?
«Penso di sì, anche se la gran parte della mia ispirazione mi viene quando sono a casa, seduto nella mia stanza. Non so più dove l´ho letto, penso che sia stato Albert Camus, che una volta disse che se una persona fosse stata a contatto con il mondo per un giorno e poi in seguito fosse stato imprigionato per il resto della sua vita, avrebbe avuto comunque abbastanza materia da masticare, da digerire».
Esiste in letteratura un viaggio che le ha lasciato un segno?
«Non so. Da bambini, ovviamente, abbiamo tutti letto Jules Verne, ma da adulto... mi ricordo del libro di Xavier de Maistre, un savoiardo vissuto nel Regno di Sardegna nel XVIII secolo, che fu rinchiuso nella sua stanza per 42 giorni e scrisse un libro meraviglioso, intitolato Viaggio intorno alla mia camera. Se una persona è abbastanza aperta di mente, non ha bisogno di molte attrattive esterne. Posso pensare inoltre all´Odissea, al ritorno a casa, a Itaca. Mi chiedo quanto della cultura occidentale sia influenzata dalle storie di Agamennone e della Guerra di Troia, di Giasone e degli Argonauti, e ovviamente di Ulisse. Anche l´Ulisse di Joyce è un viaggio. E quanto gli scrittori abbiano viaggiato, fra l´altro molti di loro proprio in Italia. Sto pensando ai viaggi in Italia di Goethe, di Thomas Mann, di Virginia Wolf...».
È vero, l´Italia è uno dei paesi più visitati del mondo, ma Gerusalemme non è da meno.
«Sì, Gerusalemme è come una calamita. Vi sono diverse città nel mondo che sono come un magnete e penso che questi siano luoghi che, quando li visiti, ti cambiano qualcosa dall´interno. L´ho sentito quando sono stato a Praga, che qualcosa dentro di me era cambiato. E lo stesso mi è successo al Cairo».
In che senso, esattamente?
«Sono arrivato in un paese che era stato un nemico. Avevo preso parte alla guerra contro l´Egitto (Guerra del Kippur, ottobre 1973, ndr), e all´improvviso mi sono ritrovato in un paese di cui avevo solo una conoscenza superficiale e dei pregiudizi. E mi sono trovato all´improvviso a camminare per le strade, a guardare le facce della gente e vedere la quotidianità della loro vita, la loro normalità».
Che cosa l´ha impressionata, la folla del Cairo?
«La folla, questa enorme quantità di persone che si muove come un fiume, tutto il tempo, giorno e notte, e questa mistura tra una cultura molto antica, gloriosa con i suoi faraoni e le sue piramidi e la povertà di oggi. È stata un´emozione molto forte».
C´è un luogo dove non è stato e che vorrebbe vedere presto?
«Damasco è un posto del genere. Circa venti anni fa, quando fu pubblicato in inglese il mio libro Un popolo invisibile, mi telefonò il vice direttore del National Geografic e mi disse: "Abbiamo letto il suo libro e siamo pronti a mandarla dovunque lei voglia" e io risposi immediatamente: "A Damasco". Rimase sorpreso e mi chiese: "Perché Damasco?". Gli risposi: "Perché Damasco mi fa paura"».
Perché paura?
«Perché da quando sono nato sono stato programmato a vedere nei siriani i nostri nemici più feroci. Sapevo che se fossi andato in un posto da cui ero così terrorizzato e mi fossi concesso la possibilità di "essere là" completamente, di vedere la complessità della situazione, mi avrebbe spinto con forza a scrivere di tutto ciò, avrebbe creato in me qualcosa di nuovo. Normalmente, quando scrivo, "vado" in posti che mi spaventano, tocco sempre temi che mi sono difficili, minacciosi. In quasi tutti i miei libri da Vedi alla voce: amore, con l´incubo della Shoah, o Il libro della grammatica interiore, in cui ero così ossessionato, per anni, dalle questioni del corpo e da come noi dobbiamo adattarci al nostro corpo, che non abbiamo scelto...».
E c´è un posto dove è stato e in cui non vorrebbe mai più tornare?
«No. Forse dovrei spiegare una cosa: mi hanno cresciuto facendomi credere che tutto il mondo era un nemico. Sono stato un bambino nell´Israele degli anni Cinquanta ed è così che la nostra generazione è stata cresciuta, con questo messaggio: "Il mondo è un nemico, stai attento, sii sospettoso. La gente tenterà di imbrogliarti, di manipolarti". I nostri genitori ci hanno davvero avvolti nella bambagia, hanno tentato di tenerci molto vicini a loro, cosa perfettamente comprensibile, se si pensa alla loro esperienza negli anni Quaranta. Da quando però ho cominciato a viaggiare per il mondo, ho scoperto l´esatto opposto. Ovviamente, qua e là si possono trovare imbroglioni o cattivi soggetti, ma più vado nel mondo e più ci vado disarmato, deliberatamente, e più incontro gente e ci parlo, più la mia impressione è l´esatto contrario. Persino in questo viaggio a piedi in Galilea, in cui ho camminato da solo. Di solito incontravo gente che andava in coppia o in piccoli gruppi, al massimo di una decina di persone. La maggioranza della gente che camminava allora, parlo di sei anni fa, in quella parte di Israele, erano coloni. Hanno questa ideologia. Mi dicevano: "I vostri figli vanno in esplorazione in Sud America, noi esploriamo il nostro Paese". Penso che in qualsiasi altro contesto io e loro ci fossimo incontrati, la cosa si sarebbe sviluppata in una lite, in uno scontro. Trovandoci nella natura, incontrandoci nella natura, con la generosità della natura...».
La natura ha mitigato gli animi, ha fatto da mediatore?
«Sì, e la gente ha davvero parlato con me».
Da Il vento giallo a Vedi alla voce: amore, dai racconti per bambini ad A un cerbiatto somiglia il mio amore sembra che lei abbia compiuto un lungo percorso. Come riassumerebbe il suo viaggio personale di scrittore?
«È una domanda molto seria. È il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino miei nemici, che mi possono sfidare o essere pericolose per me. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista. È non temere di andare in posti che possano fare paura, o che possano essere molto dolorosi, o addirittura nei posti più dolorosi».

Repubblica 19.10.09
Ebrei favorevoli all’ora di religione islamica
Il Pdl "molla" Urso: un´idea sbagliata. La Libia applaude la proposta
Il rabbino di Roma "Il problema è che i musulmani non hanno una rappresentanza visibile"
di Orazio La Rocca


ROMA - «Non vedo perché non si dovrebbe prevedere nelle scuole pubbliche quello che già è previsto per ebrei e cattolici, cioè anche l´insegnamento dell´islam». Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni non è pregiudizialmente contrario all´ora musulmana negli istituti scolastici pubblici italiani proposta dal vice ministro Adolfo Urso. Pur senza negare che per un tema così importante e delicato le «difficoltà da superare non sono poche».
«Noi ebrei abbiamo già da tempo risolto parzialmente il problema dell´insegnamento dell´ebraismo nelle scuole pubbliche con l´intesa sottoscritta tra lo Stato italiano e l´Unione delle comunità ebraiche italiane, che però, a differenza dei cattolici, si sono fatto carico dell´onere di pagare gli insegnanti. Per cui non vedo perché ad altri non si debba concedere di fare altrettanto. Il problema vero è invece - puntualizza Di Segni - come questa legge è stata concepita, come dimostra il diverso modo con cui viene affrontato il pagamento degli insegnanti e a chi spetta far fronte a questo onere. Non va nemmeno sottovalutato il fatto che gli ebrei sono rappresentati dall´Unione delle comunità. Lo stesso non si può dire per i musulmani».
Sulla proposta-Urso ieri, intanto, sono intervenuti i rappresentanti di quasi tutti i partiti. Per il ministro Roberto Calderoli «è una mattana di cui non abbiamo bisogno»; il presidente dei deputati del Carroccio Roberto Cota assicura che «con la Lega Nord al governo proposte come quella dell´insegnamento dell´ora di religione islamica verranno rispedite al mittente». Distinguo anche dalla stessa area politica del vice ministro Urso. Per Italo Bocchino, presidente Pdl alla Camera, "la proposta Urso è palesemente non percorribile». Bocchino invita a «non commettere l´errore di fare dell´ora islamica oggetto di scontro politico nel Pdl o nella maggioranza».
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa il quale pur «comprendendo la ragione» non crede che «in Italia l´insegnamento dell´islam sia un problema prioritario». Ma pure il ministro Andrea Ronchi parla di «idea inattuabile per tanti motivi, a partire dalla necessità di dover difendere le radici cristiane della nostra società». Per «evitare che nel nostro paese prendano piede imam fai-da-te e prolifichino preghiere fondamentaliste», è tempo ormai che «sia il ministero dell´Istruzione - suggerisce Ronchi - che si faccia carico di preparare docenti di storie delle religioni con corsi rigorosi e altamente formativi». Contrari Andrea Sarubbi (Pd) e Fabio Granata (Pdl), primi firmatari di una proposta di legge bipartisan sulla cittadinanza agli immigrati.
Divisi i partiti d´opposizione. Al sì convinto di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell´Italia dei Valori - che parla di «valido strumento di arricchimento culturale e di conoscenza» - , risponde il leader dell´Udc Pier Ferdinando Casini secondo il quale «l´idea è senz´altro generosa, ma rischia di essere avventata». A sorpresa, Urso, in visita ieri a Tripoli, ha incassato il plauso del ministro libico Mohammed Al Huweji, il quale lo ha ringraziato per «aver avanzato una proposta che evidenzia come tra Libia ed Italia non ci sono differenze perché siamo tutti figli di Abramo e adoriamo Dio».

Corriere della Sera 19.10.09
Religioni
L’ora di Islam? Un’idea senza senso
di Vittorio Messori


L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica

Ancora una volta, riecco l’invocazione scaramantica: «Ci vorrebbe l’ora di…». Stavolta, quella nuova, da istituire subito nelle scuole pubbliche, sarebbe «l’ora di Islam». C’è qualcosa di drammati­co, ma anche di grotte­sco, nella parabola, vec­chia ormai di due secoli, delle funzioni che si so­gna di affidare alla «scuo­la di Stato». C’è, qui, un mito nato — come tanti — dagli schemi ideologi­ci di giacobini e girondi­ni.
Non lo scettico Voltaire ma il fervoroso Rousseau fu il maestro di quei signori: si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo.
Sorgono difficoltà sempre nuove? Ma dov’è il problema?
Basterà inserire nella scuola pubblica delle apposite «ore di…» che educhino al bene e al buono i nuovi virgulti; e tutto sarà ripianato. Da noi, il Cuore deamicisiano è l’icona caricaturale di questi nuovi templi di un’umanità plasmata dalla Ragione e strappata alla superstizione. Succede, però, che proprio nell’Occidente laicamente formato, abbiano trovato folle entusiaste le ideologie mortifere che hanno devastato i due secoli seguiti al trionfo delle utopie roussoiane. Ma poiché gli ideologi hanno per motto «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», il mito ha continuato ad agire. Il sesso fra gli adolescenti crea gravidanze incongrue e favorisce violenze? Si istituiscano nelle scuole «corsi di educazione sessuale». Alcol e droghe devastano i giovanissimi? Ecco gli esperti per gli appositi «corsi contro le dipendenze». C’è strage su moto e automobili? Subito «corsi di educazione stradale».
La convivenza sociale è sempre più turbolenta? Ecco dei bei «corsi di educazione civica».
Si potrebbe continuare, ma la realtà è chiara: a ogni problema, una risposta affidata alla scuola. Con il risultato, segnalato da pedagogisti ovviamente inascoltati, o di effetti irrilevanti o addirittura di aggravamento delle situazioni: il confuso istinto di ribellione dei giovani porta a sperimentare e a praticare ciò che è condannato nelle prediche degli adulti, soprattutto se insegnanti.
Trasgredire al professore dà tanto gusto come, un tempo, trasgredire al parroco.
E ora, tocca all’Islam, la cui presenza tra noi, ogni giorno in crescita, è tra gli eventi che meritano l’inflazionato aggettivo di «storico». Non siamo davanti a una immigrazione, ma a una di quelle migrazioni che si verificano una o due volte in un millennio. Per quanto importa, sono tra i convinti che, sulla lunga durata, l’Occidente si rivelerà per l’islamismo una trappola mortale. I nostri valori e, più ancora, i nostri vizi, corroderanno e, alla fine, faranno implodere una fede il cui Testo fondante non è per nulla in grado di affrontare la critica cui sono state sottoposte le Scritture ebraico-cristiane.
Una fede che, in 1400 anni, non è mai riuscita ad uscire durevolmente dalle zone attorno ai tropici, essendo una Legge nata per remote organizzazioni tribali. Una fede che, priva di clero e di un’organizzazione unitaria, impossibilitata a interpretare il Corano — da applicare sempre e solo alla lettera — è incapace di affrontare le sfide della modernità e deve rinserrarsi dietro le sue mura, tentando di esorcizzare la paura con l’aggressività. Ma poi: panini al prosciutto, vini e liquori, minigonne e bikini, promiscuità sessuale, pornografia, aborti liberi e gratuiti, «orgogli» omosessuali, persino la convivenza con cani e gatti, esseri impuri, e tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo — nel bene e nel male — farà sì che chi si credeva conquistatore si ritroverà conquistato.
Ma questo, dicevo, in una prospettiva storica: per arrivarci passerà molto tempo e molti saranno i travagli, magari i drammi. Per adesso, che fare?
Sorprende che, proprio da destra, si proponga lo pseudorimedio che è, da sempre, quello caro alle sinistre: nelle scuole «corsi di Islam», quello buono, quello politically correct . L’idea non ha né capo né coda.
Brevemente: poiché, a parte casi particolari, gli allievi islamici sono ancora pochi in ogni classe, bisognerebbe riunirli tutti assieme in una classe sola, almeno per quelle ore. Ed ecco pronta la madrassa, la scuola coranica, che esige che i credenti in Allah stiano unicamente con altri credenti. Stretti in comunità, a cura della nostra Repubblica, chi farà loro lezione? E che gli si insegnerà? Gli ingenui, o insipienti, promotori della proposta si cullano forse nel mito di un «Islam moderato», pensano che esistano schiere di intellettuali musulmani «laici, pluralisti, democratici», pronti ad affrontare concorsi per cattedre di Islam «corretto»?
Ignorano che incorrerebbe in una fatwa di morte il muslìm che presentasse la sua religione come una verità tra le altre?
Non sanno che relativismo e neutralità religiosa sono frutti dell’illuminismo europeo, ma bestemmie per il credente coranico? Ignorano che l’anno islamico inizia da Maometto e che il tempo e il mondo sono solo del suo Allah? Non sanno che è impensabile il concetto stesso di «storia delle religioni» per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere? I politici pensano, allora, di affidare le «ore di Islam» a non islamici, di far spiegare il Corano — in modo «laico e neutrale» — a chi non lo crede la Parola eterna e immutabile di Dio?
Fossi un assicuratore, mai stipulerei una polizza sulla vita per simili, improbabili, introvabili docenti. Se l’insegnamento nelle istituende «madrasse della Repubblica italiana» differisse anche di poco da quello delle moschee, l’esplosione di violenza sarebbe inevitabile. E, come troppo spesso è successo con i fautori delle «ore di…», le buone intenzioni produrrebbero frutti disastrosi.

l’Unità 19.10.09
Ma perché i professori 70enni non diventano «flessibili»?
Una legge dell’ex ministro dell’Università Fabio Mussi cancellava lo stipendio per i docenti «fuori ruolo» ultrasettantenni. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sui ricorsi
di Michele Ciliberto


Docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa
L’Università italiana attraversa un periodo difficile. Sono ormai decenni che il nostro sistema è in una situazione di crisi e di decadenza né, qualunque sia il giudizio che si voglia dare su di essi, hanno avuto un serio effetto riformatore, le politiche fatte in questo periodo.
Ora è il turno del Ministro Gelmini che, dopo alcuni interventi frammentari, si è proposto di presentare una riforma organica dell’Università imperniandola sulla valorizzazione del principio del merito, che dovrebbe essere la nuova bussola del sistema. Sul merito si è fatta moltissima retorica in questi anni; personalmente sono convinto che debba essere tenuto strettamente fermo con altrettanto rigore il principio dell’eguaglianza, secondo i dettami della Costituzione. L’Italia è un paese che diventa sempre più diseguale, intrecciando alle vecchie diseguaglianze di ordine sociale nuove diseguaglianze di carattere politico, sociale e perfino territoriale. Si è giunti perfino a parlare nuovamente di gabbie salariali.
Ragionare dell’Università italiana non significa affrontare un problema di carattere settoriale: si tratta di una questione nazionale, strettamente connessa all’idea che si ha dell’Italia, del rapporto tra l’Italia e l’Europa e della funzione del nostro paese nell’epoca della globalizzazione. E si tratta di problemi al tempo stesso culturali, istituzionali ed economici. Faccio solamente un esempio. Uno dei problemi di fondo della nostra Università è il suo rinnovamento: bisogna aprire l’Università alle nuove generazioni che allo stato attuale o sono respinte oppure vanno via dal nostro paese. Ma per riaprire le porte dell’Università è necessario trovare nuove risorse o fare delle economie mettendo fine a vecchi privilegi, compresi quelli dei docenti.
Gran parte delle Università è in una difficilissima situazione economica anche per la spesa esorbitante destinata al pagamento del personale docente, anche in conseguenza delle sciagurate politiche di reclutamento fatte negli ultimi anni, che si sono intrecciate a una disorganica e caotica proliferazione sia di nuove Università che di inediti – talvolta inauditi – corsi di laurea. Per l’urgenza di queste difficoltà le Università, anche le più prestigiose, sono state costrette a ripensare i criteri generali di spesa, condizione indispensabile per ottenere nuovi finanziamenti. Per questo esse si sono giovate di un importante, e misconosciuto, provvedimento del Ministro Mussi, il quale ha eliminato quel privilegio feudale che è il fuori ruolo dei professori universitari. Esso lo ricordo a chi non lo sapesse consisteva nel diritto dei professori di continuare a fruire dello stipendio anche quando avessero compiuto 70 anni e fossero usciti dai ruoli dell’insegnamento. Stipendio che ricadeva interamente sul bilancio delle Università dei singoli docenti contribuendo ad accentuare il loro stato di disagio. Il Ministro Mussi ha dunque compiuto un’azione buona e giusta per la nostra Università.
Questo provvedimento è stato però duramente contestato dai docenti colpiti, che hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, la quale nei primi giorni di novembre si riunirà per esaminarlo ed emettere una sentenza definitiva sul problema. Ma se quanto si è detto è giusto, ritornare al fuori ruolo avrebbe due effetti nefasti:
1. Diminuire le possibilità di apertura delle porte delle Università alle nuove generazioni;
2. Respingere la maggior parte delle Università italiane in una situazione di difficoltà economica dalla quale si stanno risollevando con grande fatica.
Naturalmente il problema è culturale, non solo di ordine economico. È opportuno che le università continuino a servirsi di quegli studiosi che, arrivati ai settanta anni, sono in grado di illustrarle con la loro personalità e di formare nuove generazioni di studiosi. Ma esse oggi hanno nuovi strumenti a loro disposizione per ottenere questo obiettivo e continuare a mantenere nell’attività didattica studiosi di alto rilievo e qualità. Possono ricorrere ai contratti, che hanno molte qualità: sono flessibili; meno onerosi per le Università; preziosi per l’attività didattica degli atenei, che possono così continuare a giovarsi delle energie di colleghi autorevoli i quali, invece di essere collocati nella riserva del fuori ruolo, possono continuare a svolgere, in piena autonomia, la propria missione scientifica e didattica; e tutto questo senza pregiudicare il reclutamento di nuovi docenti. Speriamo che la Corte costituzionale mostri anche in questo caso la saggezza che ha saputo mostrare in altre delicate situazioni.

l’Unità 19.10.09
Venerdì prossimo sciopero dei Cobas Fermi scuola e trasporti


Il 23 ottobre, venerdì, sciopero generale di tutte le categorie del lavoro dipendente indetto da Cobas, Cub e Sdl, e in questo quadro i Cobas hanno convocato lo sciopero generale della scuola per l’intera giornata. Lo rende noto Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas. «I protagonisti della scuola spiega diranno “No” ai tagli, alle controriforme Tremonti-Gelmini, all’espulsione dei precari e ai contratti di disponibilità», e chiederanno massicci investimenti nella scuola pubblica. Sciopero di 24 ore anche per tutto il settore trasporti: aereo, ferroviario, marittimo e pubblico locale (articolato a livello territoriale).

Repubblica 19.10.09
Stamane delibera dell'Agenzia del farmaco. In vigore entro un mese
Ru486, oggi il via libera. Avvenire: morte a domicilio
di Mario Reggio


ROMA - Si riunisce stamattina il Consiglio di amministrazione dell´Agenzia italiana del farmaco. All´ordine del giorno l´approvazione definitiva della delibera che autorizza la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Ed al massimo entro il prossimo 19 novembre il testo verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed il farmaco sarà a disposizione delle strutture sanitarie pubbliche.
In attesa dell´evento il presidente dei senatori Maurizio Gasparri avverte: «L´ok dell´Aifa non conclude l´iter, intanto la commissione sta portando avanti in Senato l´indagine conoscitiva e comunque l´utilizzo della Ru486 dovrà avvenire solo in ospedale. Se qualcuno verrà scoperto per aver favorito l´aborto in casa passerà i suoi guai». Ed a poche ore dal voto del Cda dell´Aifa, che ormai sembra scontato, il quotidiano l´Avvenire, organo della Conferenza episcopale, avvisa: «I vertici dell´Aifa non possono e non devono mettere la loro firma sotto la liberalizzazione della morte a domicilio. Se la delibera dell´Aifa non dovesse chiaramente stabilire che il farmaco va somministrato in regime di ricovero ospedaliero, scardinerebbe anche le garanzie della legge 194». Un principio ribadito più volte dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi che assicura: «Entro il 19 novembre le commissione d´indagine avrà finito di sicuro i suoi lavori». Un principio, quello del ricovero ospedaliero, irrinunciabile per il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella. Di certo la Ru486 ha prodotto un nuovo effetto: ha convinto politici e non, che da sempre osteggiano la legge 194, a difenderla. Cosa accadrà oggi? Lo spiega chiaramente il direttore generale dell´Aifa Guido Rasi: «Si tratta di un passaggio formale a conferma della delibera già approvata lo scorso 30 luglio. L´Aifa ha il compito di redigere il regolamento che stabilisce le modalità di erogazione. Sarà poi il Parlamento a stabilire le modalità di somministrazione della pillola e la compatibilità con la 194».

l’Unità 19.10.09
«Il regno birbonico è finito, ma non il berlusconismo»
Profezie «Il mio libro e spettacolo “Va’ dove ti porta il clito” è attuale perché parodiava “Va’ dove ti porta il cuore” e le premesse dell’odierna deriva fascistoide erano lì»
Intervista a Daniele Luttazzi di Francesca Fornario


Dal giorno in cui Pippo Baudo lo ha intervistato sulla censura e poi, al montaggio, ha tagliato le battute più caustiche, Daniele Luttazzi concede interviste solo con domande e risposte scritte. «Non mi piace essere riassunto con parole altrui» dice. Lo dice al telefono, quindi non dovrei scriverlo. Lo scrivo perché le domande di questa intervista devono essere ridondanti e prolisse come il programma dell’Unione del 2006. Così, se c’è qualcosa da tagliare si possono tagliare le domande invece delle risposte. Lo so che suona marzulliano: «Si faccia una domanda e si dia una risposta». Troppo comodo, sono capaci tutti. Sì, ma Luttazzi è l’unico capace di farsi domande scomode e darsi risposte scomode. Quindi, via così. Di nuovo in teatro con «Va’ dove ti porta il clito» (dopo Roma va a Milano, Firenze, Napoli, Genova. Calendario su www.danieleluttazzi.it), romanzo del 1994 e spettacolo del 1995 che le è costato una duplice causa per plagio da Susanna Tamaro. I giudici hanno dato torto alla scrittrice: «il libro incriminato era una parodia», hanno detto. Una parodia del sentimentalismo e dei valori sbandierati con troppa ipocrisia. Perché «Va’ dove ti porta il clito» è ancora attuale?
«Quel mondo di valori decrepiti è diventato programma di governo e incubo esistenziale per molti. E da allora si sono moltiplicate le cause civili contro chi fa satira e informazione. È istruttivo vedere come le premesse culturali della attuale deriva fascistoide fossero tutte riassunte nel libercolo parodiato. Non a caso l’autrice oggi scrive su Famiglia cristiana. Chi si identificava in quel libro, poi votava in un certo modo. Ecco perché andava demolito con una parodia come dico io: profetica e ancora attualissima».
Il Parlamento ha limitato la procreazione assistita e la diffusione della pillola del giorno dopo, negato i Pacs e respinto la legge contro l’omofobia. Siamo un paese sessuofobico? Colpa della società o di chi la governa? «Controllando il sesso si controllano le persone. Lo spiegava Foucault 40 anni fa».
Siamo anche un paese retto da un premier che scende in piazza per il Family Day e si fa fotografare per mano alla moglie ma poi frequenta prostitute e sedicenti ragazze immagine che vengono candidate nelle liste legate al suo partito e ricompensate con denaro, gioielli e immobili. O è solo gossip, come sostiene il direttore del Tg1? «Portare a letto donne promettendo incarichi pubblici è un reato grave, specie per un sedicente Presidente del consiglio. Buttarla sul gossip è banalizzare la questione. Il massimo l’hanno raggiunto i maggiordomi come Carlo Rossella, che si è spinto a ridefinire il concetto di “minorenne”: è un salto di qualità perfino per un bieco propagandista della guerra criminale in Iraq come lui».
Perché ci si indigna di più per i rapporti sessuali di Berlusconi che per i suoi legami con la mafia? «La domanda andrebbe girata ai giornali cattolici: dopo avergli tirato la volata elettorale per anni, si sono messi a fargli la morale per vicende sessuali. Questo capita, in un mondo di beghine e colli torti». Luttazzi, sulla sua testa pende ancora l’editto bulgaro che ha cancellato «Satyricon» per le domande rivolte a Travaglio (Berlusconi, Fininvest, Mediaset e Forza Italia la querelano per diffamazione chiedendo 41 miliardi. Dopo anni di processi, lei vince tutte e quattro le cause perché i fatti raccontati nell’intervista erano veri). Anche La7, dopo 5 puntate, ha cancellato il suo «Decameron» senza rispettare il contratto (tranquilli, c’è una causa anche per questo). Da allora le vietano l’accesso in tv. All’estero la satira politicamente scorretta va proprio in tv, e in prima serata. Dove abbiamo sbagliato?
«Un regime si instaura strappo dopo strappo. All’editto bulgaro contro Biagi, Santoro “e quell’altro” tutta la stampa e la società civile dovevano scendere in piazza e protestare duramente. Era il 2002: nessuno si mosse. Il resto è solo una conseguenza. Gli italiani se lo meritano, Berlusconi. Tutti furbissimi». Mediaset ha trasmesso la canzone su Patrizia D’Addario di Checco Zalone. Secondo lei, perché?
«Perché la canzone, mettendo in burla fatti ormai non più occultabili, ma secondari, distrae dall’arrosto: il caso Mills. Berlusconi, da capo del governo, coprì un suo reato (la corruzione della GdF) con un altro reato (la corruzione di Mills). Bocciato il lodo Alfano, Berlusconi andrà a processo. La legge è uguale per tutti. Fine del Regno Birbonico».
«La fase finale del Berlusconismo è cominciata. Durerà 10 anni? «Berlusconi è già finito. Il berlusconismo invece è vivissimo, non essendo che l’ennesima espressione dell’eterno fascismo italico. In Italia la Resistenza dev’essere permanente. Troppi colpi di sonno hanno permesso una grave infestazione di pantegane».
Si faccia una domanda cattiva e si dia una risposta. «Quale bestemmia tirerebbe se fosse un cassintegrato oggi? “PD”».

Corriere della Sera 19.10.09
Polanski e le regole della legalità che il tempo non può cambiare
di Vittorio Grevi


Ha diviso profondamente l’opi­nione pubblica, e soprattutto il mondo degli intellettuali, a fine settem­bre, la notizia dell’arresto in Svizzera di Roman Polanski, a seguito di un’esplicita richiesta dell’autorità giudiziaria america­na, diretta ad ottenerne l’estradizione con riferimento alla vicenda che lo ha vi­sto accusato in California (e reo confesso, nell’udienza di patteggiamento) per lo stupro di una ragazzina tredicenne risa­lente al 1977. Ed il successivo rigetto, nei giorni scorsi, della sua istanza di libertà dietro cauzione, motivato dall’elevato pe­ricolo di fuga, ha ulteriormente rinfocola­to le divergenze di opinioni, provocando ulteriori prese di posizione (specialmen­te negli ambienti della gauche radicale francese, già distintasi ai tempi dell’«affa­re Battisti») in favore del regista fran­co- polacco, sulla base di varie argomenta­zioni: ora con riguardo ai suoi meriti cine­matografici, ora in ragione del lungo tem­po ormai trascorso dal fatto delittuoso.
Si tratta di posizioni di cui è difficile condividere il fondamento. Certamente le doti artistiche di una persona, per quanto geniale, non la esimono dal rispet­tare le leggi (il binomio «genio e sregola­tezza » non può mai fungere da causa di giustificazione), né la esentano dall’esse­re processata, e quindi punita, ove la sua colpevolezza venga accertata. Quanto al decorso del tempo, sembra proprio che, nel caso di Polanski, tutto sia dipeso dalla circostanza che, nell’arco di oltre trent’an­ni, egli si è sempre sottratto alla magistra­tura statunitense, vivendo in sostanza da latitante. È assurdo pensare che una con­dotta del genere debba essere premiata, al punto da esonerarlo dal pagare i suoi debiti con la giustizia.
Chi ragiona così non è un bieco «giusti­zialista », ma semplicemente aspira ad af­fermare le regole della legalità, al di là del­le furbizie individuali. Ma ciò che vale per Polanski deve valere per tutti, anche nel nostro Paese. Dove sono ancora molti, an­zi troppi, quelli che fanno di tutto per sot­trarsi all’accertamento delle loro (even­tuali) responsabilità, o si nascondono die­tro lo schermo opaco della prescrizione.

Corriere della Sera 19.10.09
Polanski alla sbarra, un processo tardivo
Risponde Sergio Romano


Il caso del regista Roman Polanski è davvero molto penoso. Sul piano umano, è triste che una persona di 76 anni venga perseguita per un reato che ha commesso trent’anni prima. Sul piano sociale, la mobilitazione del mondo del cinema a difesa di un suo appartenente evidenzia, se mai ce ne fosse bisogno, come gli atteggiamenti di critica sociale che il cinema pretende di esprimere guardino non all’etica ma al botteghino.
Infine, il più penoso di tutti è l’atteggiamento che si esprime nell’assunto: gli stupratori non sono tutti uguali. Se si considera che in Italia è stato condannato a due anni un uomo reo di avere messo le mani sulle natiche di una donna appare chiaro il paradosso di difendere chi ha abusato di una ragazzina tredicenne.
Francesco Deambrois

Caro Deambrois,
Anche a me non è piaciu­to lo spirito con cui al­cuni intellettuali, uomi­ni politici e rappresentanti del mondo dello spettacolo sono accorsi alla difesa di Roman Polanski. Lo hanno fatto con spirito di corporazione e, im­plicitamente, con la convinzio­ne romantica che il genio ab­bia diritto alle sue sregolatez­ze: un atteggiamento che in questa vicenda mi è parso completamente fuori luogo.
Debbo confessarle tuttavia che altri aspetti di questa sto­ria mi sono piaciuti ancora me­no. Non mi è piaciuta ad esem­pio l’improvvisa insistenza del procuratore californiano in un caso che, a giudicare dalle cir­costanze, era stato per molti anni informalmente archivia­to. Non mi è piaciuto che la magistratura svizzera abbia te­nuto in prigione sino al ricove­ro in ospedale, prima di pro­nunciarsi sulla richiesta di estradizione, un uomo che ri­siede nella Confederazione e avrebbe potuto facilmente ot­tenere gli arresti domiciliari. In un articolo apparso sul Ri­formista del 1˚ ottobre Franco Debenedetti osserva che la Svizzera è sempre stata «terra d’asilo» e si chiede se l’atteg­giamento assunto verso Polan­ski non abbia qualche rappor­to con le difficoltà della Confe­derazione dopo l’offensiva del Tesoro americano contro i con­ti segreti di una delle maggiori banche svizzere. Non mi è pia­ciuto infine che un vecchio rea­to venga giudicato oggi con criteri alquanto diversi da quelli che prevalevano nel pe­riodo in cui fu commesso. Sa­rebbe giusto ricordare che gli anni Settanta furono quelli del­la «liberazione» sessuale, del­l’amore libero, dei «figli dei fiori», delle battaglie per la le­galizzazione della droga. Sareb­be giusto osservare che la vitti­ma, a quanto pare con l’assen­so della madre, frequentava re­gisti e produttori cinematogra­fici nella speranza di un provi­no. Un articolo recente del New York Times ricorda che in «Manhattan», un film del 1979, una ragazza dice all’uo­mo di cui è l’amante da qual­che anno (Woody Allen nella parte di un quarantaduenne sceneggiatore televisivo): «Og­gi ho compiuto 18 anni. Sono legale eppure mi sento ancora una ragazzina». Si potrà osser­vare che la Lolita di Woody Al­len, a differenza della tredicen­ne di Polanski, era consenzien­te. Per questo appunto Polan­ski, se non fosse fuggito, avrebbe passato in prigione 41 giorni. Oggi, tuttavia, non se la caverebbe probabilmente con meno di cinque anni.
È questa la ragione per cui esistono (e dovrebbero essere restaurate là dove sono state soppresse) le prescrizioni. An­che la morale è soggetta alle mode, agli umori del tempo, alle correnti di opinione. Noi stiamo attraversando oggi, a dispetto di certe libertà e licen­ze conquistate negli ultimi trent’anni, un periodo partico­larmente puritano. E la senten­za di Polanski, se venisse estra­dato, sarebbe puritana. Ma ciò che appare giusto oggi non sarebbe stato giusto 33 anni fa.

Corriere della Sera 19.10.09
Il controverso reperto è nel caveau della Compagnia di San Paolo di Torino. Forse finirà all’Archeologico
Artemidoro in cerca di un museo
L’Egizio avrebbe respinto il «papiro sospetto»: non si può esporre
di Pierluigi Panza


Una ipotesi può essere quella di destinare il papiro alle collezioni delle antichità della città sabauda Restituzioni
Una norma dello Stato egiziano prevede la restituzione delle opere uscite dal Paese dopo gli anni Settanta

Acinque anni esatti dall’ac­quisto, il cosiddetto Papi­ro di Artemidoro non ha ancora trovato né pace né casa. La Fondazione per l’Arte della Com­pagnia di San Paolo di Torino lo acquistò nell’ottobre del 2004 co­me frammento del I secolo a.C. della «Geografia» di Artemidoro e lo espose in mostra nella primave­ra del 2006. Ma progressivamente sull’autenticità del reperto si sono addensate ombre, sino alla presen­tazione di prove della sua inauten­ticità esposte in più convegni e ar­ticoli dall’antichista Luciano Can­fora, secondo il quale il papiro si deve all’abilissimo falsario greco dell’Ottocento Costantino Simoni­dis.
Il reperto che, come scrisse Maurizio Calvesi, resta al minimo «un documento affascinante del XIX secolo di non trascurabile inte­resse culturale», sembrava potes­se uscire dal caveau dalla Compa­gnia di San Paolo di Torino, dove è custodito, per trovare casa nel rinnovato Museo Egizio. Ma come ogni buon giallo di egittologia che si rispetti, anche qui sarebbe fini­to al centro di discussioni che avrebbero portato il consiglio di amministrazione della Fondazio­ne del museo a «non accoglierlo». La decisione sarebbe stata assunta in un blindato Consiglio di ammi­nistrazione della scorsa settimana e solo nei prossimi giorni si po­tranno avere ulteriori conferme e conoscere meglio i dettagli. Il con­siglio, del quale fanno parte, oltre al presidente Alain Elkann nume­rosi rappresentanti delle istituzio­ni locali, avrebbe deliberato di non accoglierlo anche sulla base del parere del Consiglio scientifi­co presieduto da Alessandro Roc­cati (uno dei nostri maggiori egit­tologi) che avrebbe definito «so­spetto » il papiro. Una barriera scientifica all’accoglimento sareb­be venuta anche dalla direttrice del museo, Elena Vassilika, in con­trasto per altri reperti con il «mer­cante » armeno al quale andrebbe ascritta la scoperta del papiro.
Lo scenario che si apre ora, oblio a parte, è la ricerca di una di­versa collocazione, che potrebbe essere quella del Museo di antichi­tà e collezioni archeologiche di To­rino, che conserva il patrimonio delle collezioni sabaude. Ma in re­lazione a questa soluzione potreb­bero sorgere due ulteriori contro­versie. La prima resta quella del­l’autenticità: può essere esposto un reperto al centro di una simile controversia? La seconda una eventuale — se si attestasse per ul­teriori analisi una autenticità a questo punto sorprendente — ri­chiesta di restituzione da parte del­l’Egitto. Una legge stabilisce che tutti i reperti usciti da quel Paese dopo il 1971 devono essere restitui­ti. E la Compagnia di San Paolo ha dichiarato che il reperto era «arri­vato alla conoscenza di una ristret­ta cerchia di esperti e poi sul mer­cato sul finire degli anni ’90 dello scorso secolo». Ma anche sulle modalità di ritrovamento del re­perto ci sarebbero interpretazioni oscure. Con i papiri, del resto, non poteva andare diversamente.

Corriere della Sera 19.10.09
Le prove dell’archeologo Andrea Carandini: ecco dove si trovava l’abitazione del futuro imperatore
Qui, nella casa di Tito, c’era il Laocoonte
di Paolo Conti


Forse per essere buoni archeologi occorre allevare un doppio, quel­lo del detective. Altrimenti non si potrebbe approdare alle conclusioni che oggi alle 17.30 Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali e docente di Archeologia classica a «La Sapienza» di Roma, esporrà agli Uffizi di Firenze in occasio­ne del restauro del Laocoonte di Baccio Bandinelli realizzato grazie agli Amici degli Uffizi e i Friends of Uffizi Gallery inc. La copia di Baccio fu scolpita nel 1520 dopo il ritrovamento dell’originale ellenistico del I secolo avanti Cristo (Pli­nio la attribuisce a Agesandro, Atanado­ro e Polidoro, tre scultori di Rodi) avve­nuto nel 1506 vicino alla Domus Aurea, dissepolto alla presenza di Michelange­lo e di Giuliano da Sangallo. Il clamore per la scoperta fu immenso per l’epoca, ecco perché Baccio Bandinelli ricevette dalla corte pontificia la commissione di una riproduzione da offrire a Francesco I di Francia.
Per individuare quella che a suo avvi­so è la Casa di Tito sul Colle Oppio (e «nella Casa di Tito», fino a oggi mai identificata, stando a Plinio, era espo­sto il Laocoonte) Carandini si è armato di due fondamentali piante romane. Ov­vero la marmorea Forma Urbis Romae degli inizi del III secolo dopo Cristo e quella realizzata da Giambattista Nolli nel 1748. Racconta Carandini: «Studian­do la Forma Urbis mi sono imbattuto in un atrio di forma arcaica a crociera, con un gigantesco tablino e con un accesso che apre su uno spazio porticato con al centro un tempietto. Che strano, mi so­no detto, un atrio così antico rimasto in­tatto sulla pianta per tanti secoli». Ma una ragione, per il professore, c’è. Ed è legata al culto di Servio Tullio, penulti­mo re di Roma assassinato dal genero Tarquinio il Superbo: «Sappiamo dalle fonti che la sua casa era in periferia, sul­la cima del Colle Oppio. Dopo la sua morte e quella di Tarquinio il Superbo, la repubblica fondò il suo culto come vecchio re filo-popolare. Venne il tem­pietto ».
Ed eccoci a un nuovo capitolo, al pri­mo Prefetto del Pretorio Seio Strabone, capo delle guardie del palazzo imperia­le sotto Augusto: «Guardando la pian­ta, si nota che intorno alla casa e al tem­pietto si costruisce un grande edificio. Si deve a Aelio Seiano, suo figlio, Prefet­to del Pretorio sotto Tiberio, che poi lo farà uccidere nel palazzo imperiale. Lì sorge infatti il Tempio della Fortuna se­iana, visibile sulla pianta, e coperta se­condo le fonti dalle toghe di Servio Tul­lio conservate fino a quel momento».
Tutto torna, dunque, per Carandini: la conservazione dell’antichissimo edifi­cio fino all’età imperiale per il culto di Servio Tullio, il luogo (la cima del Colle Oppio). Ed eccoci al punto, la casa di Ti­to, finora mai identificata: «Con tutta evidenza quel complesso era diventato di fatto 'la' casa del Prefetto del Preto­rio. E quando il futuro imperatore Tito diventa Prefetto del Pretorio sotto suo padre, l’imperatore Vespasiano, quel­l’agglomerato diventa a tutti gli effetti 'la casa di Tito'. Nerone, lì accanto alla Domus Aurea, aveva ampliato l’edificio aggiungendo una grande aula con due absidi, la struttura è visibile sul Colle Oppio. Un luogo di rappresentanza ma anche, con ogni probabilità, uno spazio per amministrare la giustizia».
Secondo Carandini il Laocoonte era lì, in una delle due absidi. E nell’altra? Tesi pronta: «Laocoonte muore per la 'colpa' di essersi opposto all’ingresso del Cavallo di Troia nella sua città. A Pompei, nella Casa del Menandro c’è una situazione identica. Un ambiente dove è dipinto Laocoonte. In quello di fronte c’è Cassandra, altro personaggio 'colpevole' di aver profetizzato la fine di Troia e di essersi quindi opposta, co­me Laocoonte, all’arrivo del Cavallo. Se­condo me nell’altra abside c’era una Cassandra. Entrambi alludevano alla Nuova Troia, cioè Roma».
Altro tassello: sovrapponendo la pianta del Nolli alla Forma Urbis si sco­pre che il luogo del ritrovamento, la «Vi­gna delle Capocce», non lontano dalla Cisterna delle Sette Sale, coincide con quella che per Carandini è «la casa di Tito». All’epoca del Nolli, tutto faceva parte degli Orti di San Pietro in Vincoli. A questo punto, Carandini lancia una sfida personale: «Scommetto che, sca­vando lì, potremmo ritrovare il basa­mento del Laocoonte. Un progetto già c’è ma mancano i soldi e urgerebbe uno sponsor». E in quanto all’ipotizzata Cassandra? «Chissà». L’archeologo sor­ride, enigmatico. È in arrivo un’altra scoperta del suo doppio, il detective?

Repubblica 19.10.09
PARIGI, James Ensor al Musée d'Orsay. Dal 20 ottobre


Organizzata in collaborazione con il MoMa di New York, la mostra invita a riflettere sull'opera del grande pittore e incisore belga, a partire da un tratto distintivo del suo fare, il gioco di rottura e di continuità con il passato che l'autore mette perpetuamente in atto. Forte di novanta opere, tra dipinti, disegni e incisioni, la rassegna prende avvio con i lavori dell'esordio, caratterizzato dal ripudio dell'insegnamento dell'Accademia di Bruxelles e dal ritorno a Ostenda, sua città natale. In questo periodo l'artista è interessato all'Impressionismo e si dedica contemporaneamente a una sottile variazione grafica sui temi del simbolismo e decadentismo. Ben presto inizia una ricerca più personale che nell'arco di una decina d'anni lo porta a svolgere un ruolo fondamentale nel rinnovamento dell'arte belga e anticipatore dell'Espressionismo. In aperta frizione con la cultura del suo tempo, Ensor si avvia in solitudine nel mondo del fantastico e del grottesco, dipingendo nature morte popolate di maschere e interni abitati da scheletri e demoni, opere che vanno lette come satire del compassato mondo borghese.

Repubblica 19.10.09
BILBAO, Frank Lloyd Wright al Guggenheim Museum. Dal 22 ottobre


Una bella immagine ritrae il grande architetto sul cantiere del Solomon Guggenheim Museum di New York, considerato un capolavoro della museografia contemporanea per il suo originale sviluppo a spirale. Ora una mostra, allestita nel museo progettato da Frank O. Gehry e divenuto anch'esso un'opera cardine del genere, ripercorre l'attività del maestro, sottolineando l'importanza del suo pensiero spaziale e analizzando il suo influsso sull'organizzazione della vita moderna. Protagonista dell'architettura organica, Wright procede infatti all'eliminazione degli spazi interni e alla proiezione degli edifici sull'esterno, grazie a tetti piatti e a terrazze largamente bagnate dalla luce naturale. Il percorso espositivo raccoglie ottanta progetti per abitazioni private, edifici pubblici, religiosi, teatri e strutture urbane.

Repubblica 19.10.09
ROMA, Alexander Calder al Palazzo delle Esposizioni. Dal 23 ottobre


Esuberanza, allegria, vigore, umorismo, inteso come forza vitale. Questi i tratti distintivi dell'opera del grande americano, considerato uno dei fondatori della scultura moderna. Formatosi a contatto con l'avanguardia parigina negli anni Venti, nel decennio successivo Calder realizza infatti i suoi primi Mobile . Si tratta di sculture, così definite da Duchamp e ottenute lavorando artigianalmente lastre di metallo di fattura industriale, in cui forma, colore e movimento interagiscono tra loro, formando una sorta di magico universo. La mostra propone cento opere importanti, che documentano tutto l'arco creativo di Calder, a partire dalle prime sculture eseguite in filo di ferro e dai lavori che segnano l'adesione all'astrattismo, avvenuta dopo la visita all'atelier parigino di Mondrian.

domenica 18 ottobre 2009

l’Unità 18.10.09
Contro il razzismo Una folla in festa che si è rappresentata in piazza con determinazione
Lingue diverse e migliaia di storie differenti ma un solo obiettivo: uguaglianza e giustizia
Roma invasa da duecentomila per «il diritto ad esistere»
Un corteo coloratissimo, tra i più grandi della nostra storia recente, che ieri ha illuminato la città con poche parole d’ordine: diritti e integrazione. E accanto ai migranti il popolo della Cgil.
di Giovanni Maria Bellu


Duecentomila. Sì, Roma ha visto manifestazioni anche molto più affollate. Ma se si misurasse il successo delle proteste di piazza dalla quantità di persone che vi aderiscono per la sola ragione di voler protestare (e non per essere iscritte a un sindacato, a un partito, non per il fatto di «far parte» di qualcosa) il coloratissimo corteo che ieri ha illuminato il centro di Roma sarebbe da classificare tra i più grandi della nostra storia recente.
Sicuramente il più variopinto. Con le sole bandiere della Cgil e dell’Arci a dare una qualche continuità cromatica al nastro di folla che ancora non aveva finito di srotolarsi quando è apparso il Colosseo. La coda del corteo, in quel momento, aveva appena cominciato a muoversi da piazza della Repubblica, un paio di chilometri più su.
Sicuramente il più rappresentativo. Se per rappresentatività di una protesta collettiva s’intende la quantità di storie e di esperienze che è capace di far incontrare. Il mondo, in questo caso. Coi suoi dolori e i suoi sogni confluiti in ormai più di vent’anni tanto tempo è trascorso da quando l'eterna «emergenza immigrazione» cominciò nelle nostre strade, nelle nostre aziende e nelle nostre case. Oltre che in altri luoghi i centri di identificazione e di espulsione dove si è dissennatamente pensato di poterlo recludere.
Di certo una delle proteste più chiare quanto a «piattaforma programmatica». L'uguaglianza e la giustizia e il loro modo di declinarsi nelle leggi di un paese. «No al razzismo, al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza», c'era scritto sullo striscione che, firmato dal «Comitato immigrati 17 ottobre», apriva il corteo. E in fondo era già tutto. Anche se poi veniva ripetuto in forme e anche lingue diverse: «I veri criminali non sono gli immigrati, ma sono i mafiosi a capo degli Stati», «Cristo è qui, quando ci sarà tutta la Chiesa?».
Quando, nei giorni scorsi, gli organizzatori avevano annunciato l’adesione di circa 500 associazioni e circoli, era sembrata un’esagerazione. Era vero, invece. C’erano sì associazioni consolidate come Amnesty International, Libera, Emergency, Beati costruttori di pace, Pax Christi. Ma ciò che appariva evidente è la frammentazione del mondo dell'immigrazione in una miriade di aggregazioni spontanee, a volte anche piccolissime ed effimere, che trovano il loro fondamento ideale ora nel solidarismo, ora in ciò che resta della sinistra più radicale, ora nei gruppi cattolici di base.
C’erano numerosi esponenti politici e sindacali di primo piano. Ma erano pochi quelli che, come il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, non testimoniavano solo il loro personale impegno ma quello di un’intera grande organizzazione di massa. C’era anche il segretario del Pd Dario Franceschini. «Quella per gli immigrati ha detto è una battaglia nostra da tanto tempo, per la cittadinanza, per il il permesso di soggiorno». Ma il Partito democratico non ha aderito, e alcuni dei manifestanti gliel’hanno fatto notare. È un bel tema da mettere nell'agenda dei prossimi mesi del Pd.
Sarà perché la fatica di apprendere una lingua straniera regala uno speciale timbro alle parole apprese. Ma nei discorsi pronunciati dal palco dai rappresentanti degli immigrati scelti dopo giorni e giorni di estenuanti trattative tra le organizzazioni promotrici certi termini logorati dagli abusi del linguaggio politico ritrovavano il loro significato originario.
La parola «diritto», quando a pronunciarla è chi si vede negata la possibilità di esistere, non evoca le leggi e i codici, ma la vita stessa. E anche certi scandali dell’opulenza e dell’amoralità, sentiti raccontare da chi vive con noi ma non è riconosciuto come uno di noi, prendono una luce nuova. Più fredda e cruda. «Le nostre donne non fiscono nel lettone di Putin ha gridato Abou Bakar Sehoumoro ma lavorano nelle vostre case». Ecco, sono cose che fanno provare un altro sentimento che si va estinguendo: la vergogna.
D’altra parte un tempo, nemmeno tanto lontano, lo si provava davanti alla sola possibilità di essere considerati razzisti. Adesso, invece, ha sottolineato Moni Ovadia, nella capitale d’Italia esistono gruppi razzisti «che si sentono addirittura legittimati dall’amministrazione comunale».

l’Unità 18.10.09
Ida Magli, ma ci faccia il piacere
di Marco Rovelli


Nel vedere quei volti e sentire quelle voci che riempivano le strade di Roma, ho ripensato alle parole che l'antropologa Ida Magli ha scritto sul Giornale, e che un giorno forse verranno ricordate come uno dei manifesti del nuovo razzismo italiano.
Conviene rileggerne qualche brano, perché è impossibile restituirne il grado di aberrazione con altre parole: «Stiamo male perché siamo costretti a vivere nello stesso territorio con popoli diversi da noi, e diversi prima di tutto fisicamente. (...)L'estraneità fisica è la caratteristica maggiore che impedisce agli uomini di potersi "identificare" l'uno nell'altro, sentirsi psicologicamente "simili”. (...È)impossibile per un "bianco" identificarsi in un "nero": comprendere i sentimenti, le percezioni, i gusti, intuire il tipo di intelligenza, le reazioni, gli interessi. Se si aggiunge a questo dato di partenza, la differenza di lingua, di religione, di storia culturale, ci si rende conto che vivere sullo stesso territorio non significa vivere "insieme"».
Ecco, vedendo ieri quei colori mischiati in piazza, mi veniva da sorridere di compassione per la signora Magli e per la sua "brutale" culturalizzazione di un dato naturale. E penso alla mia amicizia con Jessy, nigeriano, che dopo traversie letteralmente incredibili, ha sposato Gloria, slovacca e biondissima, per mettere al mondo una splendida creatura.
Jessy e Gloria, come tante altre coppie miste, e come ancora le sempre più numerose relazioni e legami di qualsiasi tipo indifferenti al colore della pelle, sono la prova vivente di come le parole della Magli siano puro e densissimo razzismo. E per quanto mi riguarda, c'è l'empatia che ho sperimentato e la memoria vivida di tutti i volti che incontrato nei viaggi che ho fatto in quest'Italia già multiculturale, a Ida Magli piacendo.

l’Unità 18.10.09
Al convegno di Asolo le fondazioni Italianieuropei e Farefuturo: superare la paura
Un documento comune per riassumere i temi emersi: a 10 anni il diritto di essere italiani
Cittadinanza e voto, «patto» tra Fini e D’Alema
Superare la paura, dare più diritti a partire da quello di cittadinanza. Questo ed altro in un documento che Italianieuropei e Farefuturo prepareranno a breve. Ieri l’incontro ad Asolo tra Fini e D’Alema
di Susanna Turco


Prima ancora che aprano bocca, sul palco l’effetto cromatico dello spirito dialogante e condivisivo di Asolo è assicurato. Massimo D’Alema è alla sinistra del direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli e porta una cravatta blu sfumatura farefuturo. Gianfranco Fini siede alla destra, e sfoggia una cravatta che vira al rosso italianieuropei. Sono arrivati sin qui insieme, con l’aereo presidenziale, e ripartiranno insieme, dopo aver chiuso il workshop sull’immigrazione organizzato in tandem, per il secondo anno, dalle rispettive fondazioni. E di tanta condivisione non c’è nulla da stupirsi. La simpatia e stima reciproca son cose di vecchia data. Le frequenti telefonate una pratica consolidata. Pupilli di Berlinguer l’uno e di Almirante l’altro, messi dai leader a guidare le rispettive organizzazioni giovanili di partito, i due hanno in comune ben più che la freddezza caratteriale e l’amore per l’ironia. Hanno il passo dei politici puri, il carattere, e la storia – anche da numeri due che si portano dietro, che li accomuna al di là delle ovvie diversità di schieramento.
LEADER POST
Così i due leader “post”, arrivati oggi a un nuovo punto di svolta, esprimono senza difficoltà sul tema dell’immigrazione un punto di vista che parte da storie diverse, ma arriva alle stesse conclusioni: “Serve un disarmo bilaterale delle opposte paure e speranze, una rivoluzione di buonsenso per affrontare oggi la sfida: perché il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, non finirà domani”. Una visione tanto condivisa che, a giorni, le due fondazioni faranno un documento comune, in quattro punti: agevolare l’immigrazione di qualità, modificare i criteri di concessione della cittadinanza, dare la possibilità ai bambini musulmani di studiare la religione islamica a scuola, e diritto di voto amministrativo agli immigrati.
“Quando lo proposi io, quel diritto, fui crocifisso, e non ho certo cambiato idea”, ricorda Fini dal palco. “Non c’è dubbio, invece, che l’integrazione politica potrebbe essere la via italiana all’integrazione”, dice D’Alema, ricordando i tempi dell’immigrazione interna, “quando a San Miniato concessero una casa del popolo ai meridionali, però separata ‘perché non li capiamo’, per poi scoprire che era meglio andare là se si volevano conquistare quei voti”.
INTEGRAZIONE
Fattore di integrazione sarebbe pure una nuova legge per ottenere la cittadinanza, che Fini immagina ricalcando in gran parte la proposta Granata Sarubbi in discussione alla Camera: “La mia proposta è che chi nasce in Italia o ci arriva da piccolissimo e completa un ciclo di studi abbia la cittadinanza. Non è eversivo. Era così anche nella legge del 1912”, dice. Mentre D’Alema, che pur condivide, sposta ancora più a sinistra l’asticella: “Io direi che chi nasce in italia è italiano, senza prove da superare”, spiega. Ironizzando pure sul test di lingua prevista dal Granata-Sarubbi: “Se l’esame lo facessimo pure dove lavoriamo noi, chissà quanti lo supererebbero”.
CONDIVISIONE
Piena condivisione sulla pur altrove contestata proposta Urso: insegnare la religione islamica nelle scuole ai bambini musulmani. Fini e D’Alema, concordando, non perdono occasione per replicare alla Lega. “Io non ci trovo nulla di scandaloso: se un bambino vuol conoscere il Corano e nessuno a scuola glielo spiega, finisce magari che ci pensa qualche estremista”.
E D’Alema, sul punto, sfoggia tutto il suo sarcasmo: “Ho sentito dichiarazioni imbarazzanti, per il carattere primitivo... quasi versi gutturali, direi”, spiega. Fini, intanto, diventa paonazzo dal ridere: da presidente della Camera, è il massimo che si concede.

Repubblica 18.10.09
La vera missione della scuola
di Adriano Prosperi


La proposta di introdurre nelle scuole un insegnamento di religione islamica fatta dal viceministro Urso è un tentativo di rompere il cerchio di un dialogo tra lingue non comunicanti.
Per questo va salutato come un avvio positivo da raccogliere e approfondire. Non tutti sono d´accordo, naturalmente, ma la discussione che è nata è comunque interessante. Per esempio, quando il cardinale Ersilio Tonini rigetta questa idea lo fa con un argomento che si presta invece a sostenerla: «Pensare che l´Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore. L´Islam ha mille espressioni, collegamenti, apparentamenti: insomma con i valori della nostra civiltà non ha niente a che vedere». Proviamo a sostituire nella prima frase la parola «Islam» con la parola «Cristianesimo»: quante sono oggi le espressioni e le interpretazioni del cristianesimo, non solo nella conoscenza e coscienza dei singoli cristiani, nell´etica privata e nelle leggi degli stati, ma anche e soprattutto nelle chiese e nei movimenti che si dichiarano cristiani? Immaginiamo che il cardinale volesse dire «cattolicesimo». Ma il carattere monolitico, anzi totalitario del cattolicesimo, come ebbe a dire Papa Pio XI e come prima di lui scrisse fra Paolo Sarpi che coniò l´antenato del termine totalitarismo («totatus») è proprio quello che all´atto di nascita della tolleranza religiosa valse al cattolicesimo una considerazione a parte: «I papisti - scrisse John Locke nel «Saggio sulla tolleranza» del 1667 - non devono godere i benefici della tolleranza perché, dove essi hanno il potere, si ritengono in obbligo di rifiutarla agli altri». Lo sappiamo bene in Italia. Quanto poi al fatto che l´Islam non abbia niente a che vedere con la nostra civiltà, si tratta di un´affermazione che se fosse fatta da uno studente di storia di scuola media svelerebbe l´esistenza di un preoccupante «debito formativo». Si tratta di schieramenti di battaglia che non portano lontano. Bisogna anche in questo caso accogliere l´invito autorevole lanciato da Gustavo Zagrebelski dalle colonne di questo giornale a mettere un freno allo «scatenamento delle energie peggiori» riflettendo invece al respiro lungo della vita civile che in materie costituzionali deve guardare al di là della durata di un governo e di un leader e non tener conto delle violenze verbali dei leghisti che, ieri pagani oggi cattolici, alzano la voce sulla religione per fare cassetta alle elezioni più vicine. L´obbiettivo che abbiamo di fronte quando di queste cose si parla nel contesto civile e politico e non all´interno di una chiesa è quello di attuare in modo adeguato ai bisogni dei nostri tempi e alla nostra realtà il principio del diritto alla libertà religiosa: un diritto a cui la cultura italiana ha dato un contributo grande e sostanziale fin dai tempi delle guerre di religione del ´500 e che oggi, secondo la Costituzione italiana, significa «diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata» (art. 18), inclusa l´istituzione di «scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo stato» (art.33). Certo, con quelle dichiarazioni volute da tutti i padri costituenti è in contrasto una situazione di fatto e di diritto a tutti nota. Nella scuola pubblica c´è oggi un insegnamento denominato «Religione» impartito da insegnanti formati e autorizzati dalla Chiesa cattolica ma pagati dallo stato. Questo insegnamento non è obbligatorio ma l´insegnante concorre alla valutazione dell´allievo insieme agli altri in una forma che - secondo la recentissima dichiarazione del ministro Gelmini - si appresta a diventare quella piena del voto. Ma la realtà del paese cambia: aumentano gli immigrati e i cittadini italiani di altre religioni, e specialmente quelli di religione islamica. Da qui l´idea di spezzare l´autismo di una politica che criminalizza e sfrutta gli immigrati in mille modi, pratica lo scontro di civiltà, alimenta e strumentalizza paure. Si propone un insegnamento scolastico della religione islamica nelle scuole pubbliche come primo passo per l´integrazione dei ragazzi di quella cultura. Lo scopo è eccellente, il mezzo ha difetti evidenti: quell´ora settimanale non solo non garantirebbe parità di trattamento per tutte le religioni ma dividerebbe fisicamente e culturalmente gli allievi islamici dagli altri nel momento fra tutti delicato dell´insegnamento della religione. E la moltiplicazione a raffica degli insegnamenti «religiosi» per garantire i diritti di altre minoranze sarebbe non solo difficile da attuare ma anche controproducente rispetto all´obbiettivo di far dialogare in un´unica scuola pubblica i portatori di culture diverse. Un sistema a compartimenti stagni renderebbe permanenti le divisioni rischiando di far emergere una divisione non solo religiosa ma civile e sociale dai frutti avvelenati. Ne troviamo conferme nella storia e nella cronaca. Le città tedesche che nell´età delle guerre di religione garantirono libertà di culto e spartizione equa di cariche tra cattolici e protestanti pagarono la pace con la perpetuazione della divisione culturale e il blocco dello sviluppo civile. E la cronaca recente ci dice che i terroristi islamici appartengono in genere alla seconda e terza generazione di immigrati e nutrono l´odio di chi, crescendo nei ghetti, si è sentito cittadino di serie B. Ma c´è una frase interessante detta dall´onorevole Urso, che ha parlato di «un´ora di storia della religione islamica». La storia, che per tanto tempo nel paese di Giambattista Vico, di Benedetto Croce, di Antonio Gramsci ha retto l´asse centrale dell´insegnamento scolastico, oggi è avvilita a campo di battaglia tra mute rabbiose intente a marcare opposti territori. Intanto crescono materie di carattere sistematico e astorico: la religione, i diritti, l´etica e così via. Questo è il più grave e più inavvertito segno della peste fondamentalista: si è perso il senso della nostra realtà di esseri immersi nel flusso di quel tacito, infinito andar del tempo che investe e muta ogni cosa, che fa sì che la nostra società e le nostre religioni siano quelle dei nostri tempi e non quelle dei nostri padri. E chi più tuona di voler tutelare l´«identità cattolica» è proprio il neopaganesimo del nostro tempo, se è vero che, come ha scritto uno storico che se ne intende, «il paganesimo è il culto del potere politico, della ricchezza, della forza fisica» (Jan Assmann, «Dio e gli dèi», Il Mulino 2009). Dunque la proposta va formulata meglio: si tratta di portare nella scuola la religione ma all´interno della storia culturale, non all´esterno. Solo qui può esserci posto per una conoscenza dell´Islam e del cristianesimo come realtà storiche portatrici di valori ideali che, se depurati dall´interferenza e dall´intolleranza dei poteri politici ed ecclesiastici, potranno alimentare di nuovi succhi vitali l´Italia di domani.

Repubblica 18.10.09
Il cardinale Poletto: No al relativismo. “Il Corano è estraneo all´Italia riparliamone tra cinquant’anni”
La religione cattolica fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli, l’islam no Non vorrei che si cadesse nel relativismo
di Paolo Griseri


TORINO - La religione cattolica «fa parte della storia d´Italia, ne ha impregnato la cultura per secoli. L´Islam no. Dunque, credo che sia sbagliato e prematuro istituire l´ora di religione islamica nella scuola pubblica». Il cardinale di Torino, Severino Poletto, esprime il suo punto di vista sulla proposta che sta dividendo la politica italiana. Lo fa con estrema prudenza: «Voglio che sia assolutamente chiaro che è comunque opportuno attendere sull´argomento il pronunciamento della Presidenza della Conferenza episcopale italiana. Il mio è un punto di vista personale».
Cardinale Poletto, perché considera la proposta prematura?
«Perché è una proposta che non tiene conto della società italiana di oggi. Che ha una cultura e una tradizione in cui l´Islam è sostanzialmente estraneo o presente in modo non centrale. Questo non vuol dire che tra cinquanta, cento anni, la situazione non si modifichi radicalmente. E che allora se ne possa parlare».
Non le pare che in questo modo la chiesa cattolica italiana finisca per difendere un antico privilegio, una rendita di posizione nei confronti delle altre religioni?
«Non si tratta di un privilegio, ma di una realtà storica. E se si va a vedere, questa realtà spiega e giustifica il mantenimento dell'ora di religione cattolica, sia pure facoltativa, nell'ordinamento della scuola italiana anche con la revisione del Concordato del 1984. Proprio perché il cattolicesimo fa parte integrante delle nostre radici, quell´ora serve a completare bene il curriculum di studi».
Un´ora che però la chiesa cattolica non vuole venga utilizzata per lo studio della storia delle religioni, come ha recentemente ricordato la Cei, ma solo per l´approfondimento del cattolicesimo. Dunque, non è solo cultura.
«Non è solo cultura, ma non è nemmeno catechismo. Quello si fa in parrocchia. Diciamo, è un inquadramento generale sui valori del cattolicesimo».
Per questo i vescovi pretendono di essere loro a scegliere gli insegnanti?
«Non è una pretesa, è la logica conseguenza del modo con cui è stata pensata quell'ora nella scuola pubblica italiana. Ci si dovrebbe piuttosto lamentare del fatto che manca, sovente, un'ora alternativa per cui spesso i ragazzi scelgono di non avvalersi dell'ora di religione cattolica per poter uscire un'ora prima o entrare un'ora dopo».
Chi sostiene la proposta dell'ora di religione islamica nella scuola pubblica spiega che in questo modo si eviterebbe di lasciare solo alla parte più integralista della comunità il compito di insegnare i principi islamici ai ragazzi. Non le pare un ragionamento condivisibile?
«In linea di principio sarei certamente d´accordo e capisco le buone intenzioni di chi ha pensato a questa soluzione. Ma credo che non siamo davvero preparati a un cambiamento di questo genere. È un problema di gradualità. La società italiana, come tutte le società, ha bisogno di assimilare i cambiamenti poco a poco. Una modifica brusca rischia di creare contraccolpi che possono produrre l´effetto contrario a quello desiderato».
Tempo fa lei si è detto contrario al sorgere di «minareti accanto ai campanili». È contrario alla libertà religiosa?
«Al contrario. Penso che la libertà religiosa sia uno dei fondamenti del vivere civile. Ma proprio per evitare che quella libertà diventi contrapposizione dico che ai simboli è necessario prestare attenzione. Sono assolutamente favorevole al fatto che si individuino luoghi di preghiera per i cittadini di fede musulmana come per quelli delle altre confessioni religiose. Quel che non vorrei è invece che si cadesse nel relativismo. Le città e i paesi italiani sono stati caratterizzati per secoli dalla presenza dei campanili. E credo che sia giusto che il paesaggio non si modifichi radicalmente in pochi anni. Anche perché il sorgere dei minareti, oggi, non sarebbe lo specchio della società italiana».
Non crede che prima o poi si dovrà cominciare a modificare la situazione?
«Penso che con il passare del tempo la situazione si modificherà in modo naturale. E c´è da auspicare che il cambiamento si realizzi anche nei paesi islamici. Provi a far costruire oggi un campanile di fianco a un minareto in Arabia Saudita: la libertà è fatta anche di reciprocità».

l’Unità 18.10.09
Anm Dopo il caso Mesiano, i magistrati proclamano all’unanimità lo stato di agitazione
Sotto attacco «giudici e organi di garanzia». Botta e risposta con Alfano: «Guerra preventiva»
Toghe a un passo dallo sciopero «Difendiamo la Costituzione»
L’Anm in un clima di grande preoccupazione proclama lo stato di agitazione «primo passo di un percorso che può portare allo sciopero». La decisione dopo settimane in cui il premier minaccia riforme a maggioranza.
di Claudia Fusani


La base delle toghe vorrebbe sciopero subito. I vertici mediano e alla fine proclamano «lo stato di agitazione, primo passo di un percorso di protesta» che potrebbe portare tra una-due settimane, anche allo sciopero. Il ministro Alfano li attacca: «Questa è guerra preventiva». Immediata la risposta dei magistrati: «Difendiamo i valori costituzionali». La tregua apparente perchè i segnali di guerra sono tangibili dal 7 ottobre, giorno della pronuncia della Consulta sul Lodo Alfano tra magistrati e governo finisce definitivamente ieri pomeriggio pochi minuti prima delle quindici quando al sesto piano della Cassazione il parlamentino delle toghe proclama all’unanimità «lo stato di agitazione».
ANM, 8284 ISCRITTI
La goccia è stato il video di Canale 5 che ha spiato il giudice Raimondo Mesiano nel suo privatissimo e anonimo quotidiano. Ma la misura si è riempita in fretta nelle ultime due settimane in cui, giorno dopo giorno, il premier proclama di riformare a colpi di maggioranza Costituzione, Csm e carriere dei magistrati. Un conflitto che questa volta sembra essere definitivo. E dove alla fine ci saranno solo vincitori o vinti.
Il Comitato direttivo centrale dell’Anm, il sindacato delle toghe a cui sono iscritti 8284 magistrati su un totale di 8886, era stato convocato ieri mattina per ricordare la scomparsa del procuratore di Asti Maurizio Laudi, magistrato di punta nella lotta al terrorismo. La cronaca ha preso in fretta il sopravvento dopo il video-spionaggio nei confronti di Me-
siano a cui era seguita una lettera dell’Anm al Presidente della Repubblica per allertare sul «grave rischio per le istituzioni» e per denunciare «l’inaccattabile denigrazione». Alla dieci del mattino la sede dell’Anm è affollata, facce preoccupate, nessuna voglia di scherzare, l’occasione è grave e la preoccupazione altissima. «Emergenza democratica» è il concetto ripetuto dai 36 rappresentanti delle quattro correnti, dalla più moderata Unicost, che ha la maggioranza, ai più “ribelli” dei Movimenti per la giustizia. «E’ a serio rischio la tenuta democratica» attacca il presidente dell’Anm, Luca Palamara che apre i lavori del parlamentino. La preoccupazione è massima e riguarda, prosegue il segretario Giuseppe Cascini, «non solo le aggressioni alle massime autorità di garanzia (la Consulta e il Quirinale, ndr) ma anche l’intimidazione» al giudice Mesiano e le riforme «brandite come una clava, a mo’ di ritorsione». Veloce giro di tavolo, 36 aventi diritto di parola, intervengono un po’ tutti. «In gioco non è la sopravvivenza dell’ordine giudiziario ma il destino della democrazia» osserva il segretario di Unicost Marcello Matera che chiama a raccolta tutta la categoria, al di là delle singole correnti, «per una mobilitazione culturale e istituzionale a difesa delle fondamenta dello stato democratico».
Per Rita Sanlorenzo, segretaria di Md, «mai si era arrivati a tal punto di emergenza democratica». Antonietta Fiorillo (Mi) parla di «attacco finale definitivo contro cui serve un messaggio forte perchè sia chiaro che noi magistrati non ci faremo intimidire». Il primo a pronunciare la parola «sciopero» è Valerio Fracassi, segretario dei Movimenti per la giustizia che chiede «uno sciopero per la democrazia».
L’idea è chiara. Lo scenario anche: lo sciopero sarebbe l’unica risposta possibile dopo due settimane di attacchi «inauditi» e la provocazione del video-spionaggio su Mesiano. I ragionamenti, nei capannelli, sono del tipo: «E’ come se passasse il principio che se un giudice fa una sentenza contro qualcuno, questo qualcuno è legittimato a pedinare il giudice e a screditarlo».
Se questo qualcuno è il Presidente del Consiglio che usa la sua tivù per screditare il giudice che lo ha condannato a pagare 750 milioni alla Cir, si capisce perchè una toga come Gioacchino Natoli arrivi ad evocare «la notte dei cristalli». Ma è proprio l’altra corrente di sinistra, Md, la prima a frenare: «Come finire in un fosso» (Nello Rossi), «un autogol» (Anna Canepa). In votazione va una sola mozione: stato di agitazione, assemblee in tutti i distretti e vedere quali provvedimenti farà il governo. Poi decideranno le toghe.Mai come questa volta unite e compatte.❖

l’Unità 18.10.09
I penitenziari e le colpe del governo
di Luigi Manconi, Andrea Boraschi


Secondo Silvio Berlusconi e Angelino Alfano sono in arrivo, nel giro di due o tre anni, circa 20.000 che ogni tanto diventano 25.000 nuovi posti nel sistema peniten-ziario. Ovvero, il governo starebbe per varare un programma straordinario di edilizia carceraria. Il tutto, dalle prime notizie, dovrebbe costare circa un miliardo e mezzo; e pare che la copertura finanziaria, ad oggi, soddisfi solo un terzo del fabbisogno. Con un po' di algebra, diciamo subito che semmai il governo riuscisse nell'impresa non farebbe che riportare la situazione del sistema penale a condizioni di gravissimo disagio, rispetto alle attuali che, causa sovraffollamento, sono invece di assoluta ed estrema invivibilità. Tuttavia, il premier e il ministro della giustizia non appaiono così sicuri dei loro intenti e dei loro mezzi. Alfano (oltre a meditare l'apertura di strutture private!) è andato a batter cassa in sede comunitaria, sostenendo come l'Europa debba aiutare l'Italia a edificare nuove carceri in virtù dell'alto tasso di presenza di detenuti comunitari ed extracomunitari; e il commissario Ue alla giustizia, Jacques Barrot, gli avrebbe risposto picche, in quanto quella richiesta sarebbe una misura di sostegno non prevista da alcun trattato. Il ministro dimentica che il Consiglio di Europa ha già indicato la propria strategia per il problema del sovraffollamento: non misure di incremento dell'edilizia penitenziaria, ma la depenalizzazione dei reati meno gravi e il maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione. Come ricorda l'associazione Antigone, l'alta presenza di immigrati nei nostri istituti di pena è determinata, per lo più, dal fatto che l'Italia, contravvenendo ai suggerimenti della stessa UE, criminalizza lo status di immigrato a differenza della maggioranza degli altri paesi. In più, ci ricorda ancora Antigone, "l'Italia ha il primato delle presenze di detenuti stranieri in attesa di giudizio (...); ciò significa che nei confronti degli stranieri in Italia esiste una discriminazione processuale e un uso esagerato della carcerazione preventiva". Ma Alfano queste cose non le sa o finge di non saperle; e mentre va fantasticando le nuove mirabili carceri modello new town abruzzese ribadisce il suo credo nella tolleranza zero. Basterebbe adeguare la legislazione italiana a quella europea in materia di immigrazione, invece di avanzare richieste pretestuose all' Unione per riparare i danni che lo stesso governo ha prodotto; e magari attuare ragionevoli, ragionevolissime misure di depenalizzazione (ad esempio, nei confronti del consumo di droghe) e di colpo si ridurrebbe il sovraffollamento. Ma vaglielo a spiegare...

Repubblica 18.10.09
Alle primarie il pugno del partito che non c'è
di Eugenio Scalfari


OGGI ci occuperemo del Partito democratico. Finora in questi articoli domenicali il tema è stato volutamente trascurato, ma ora è diventato di stringente attualità: domenica prossima, 25 ottobre, ci saranno le primarie che decideranno chi sarà il segretario nazionale del Pd, un evento importante non solo per quel partito ma per l´intera opposizione e anche per il sano funzionamento della democrazia italiana.
Il tema è complesso, perciò bisognerà esaminarlo nei suoi vari aspetti. Comincerò da Veltroni, insediato alla segreteria nell´autunno del 2007, pochi mesi prima delle elezioni che portarono alla vittoria di Berlusconi.
L´altro ieri in un «talk show» dell´emittente La7 qualcuno dei presenti in studio ha detto che Veltroni e D´Alema non soltanto sono politicamente irresponsabili, ma anche «due cretini». Proprio così: cretini.
C´è sempre una prima volta e questa è infatti la prima volta che un epiteto del genere è stato affibbiato ad un uomo politico. Non era mai stato usato. Se ne dicono tante sui politici, anche più sanguinose di questa, ma cretino non si era mai sentito in un salotto televisivo. Ma ormai gran parte dei salotti televisivi sono diventati dei «saloon» dove tutti i clienti portano le pistole nella fondina e il coltello nascosto nel risvolto degli stivali. Così va il mondo.
Nella campagna elettorale del 2008 il partito di Forza Italia arrivò al 37,5 per cento; il Pd guidato da Veltroni ottenne il 33,5 e tutti, fuori e dentro di esso, decretarono una solenne sconfitta. Invece non era stata una sconfitta: una formazione politica riformista con alle spalle pochi mesi di vita era arrivata a superare i risultati del Pci che, dalla segreteria di Natta in poi, non era mai riuscito ad andare oltre il 30 per cento. Senza dire che i riformisti italiani di ispirazione liberal-socialista in cent´anni di storia prima monarchica e poi repubblicana non sono mai usciti da un ruolo di pura testimonianza.
Non era dunque una sconfitta ma un punto di partenza più che rispettabile. Non fu vissuta così e questo è stato un grosso errore del quale non fu responsabile quel cretino di Veltroni.
Oggi i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Pd al 30 per cento. Non è molto ma è qualcosa se si pensa che un mese fa la più antica socialdemocrazia europea, l´Spd tedesca, ha ottenuto meno del 23 per cento; i socialisti francesi sono a pezzi; il Labour inglese è in piena tempesta e neanche Zapatero se la passa molto bene. Sembra un paradosso, ma un partito del quale tutti dicono che non esiste più o che è allo sbando, risulta quantitativamente il più forte della sinistra europea. Non è certo consolante per i rapporti di forza nel Parlamento di Strasburgo, ma è un dato di fatto dal quale dobbiamo partire.
* * *
Un altro dato di fatto ancora più significativo emerge dalla votazione di pochi giorni fa per il congresso del Pd. Sulla base dello statuto di quel partito hanno votato i soli iscritti che rivoteranno insieme agli elettori alle primarie del 25 ottobre. I votanti sono stati 450.000 pari al 60 per cento degli iscritti. Mi domando quali sono stati i congressi di grandi partiti in Italia negli ultimi dieci anni e quale di essi - se ce ne sono stati - è riuscito a mandare poco meno di mezzo milione di persone al voto.
Un partito che non esiste? Un partito di sfiduciati, di ipercritici, di indifferenti, senza dibattito interno, senza passione, senza speranze, come viene descritto da giornaloni e da giornaletti? Lascio ai lettori la risposta.
È vero però che lo statuto è molto contraddittorio e inutilmente complicato. Chi l´ha redatto e chi lo ha approvato voleva evidentemente accontentare tutti con l´inevitabile conseguenza d´aver prodotto una procedura inadeguata e confusa. Alcuni volevano sottolineare che gli iscritti debbono contare decisamente di più dei simpatizzanti; di qui una prima fase riservata al voto degli iscritti. Una fase tuttavia puramente registrativa poiché la decisione è riservata alle primarie dove iscritti ed elettori voteranno insieme. Pierluigi Bersani è risultato in testa nel voto degli iscritti ma ora è di nuovo in gioco nel voto delle primarie. Che senso ha una procedura così sconclusionata? Credo che, una volta conclusasi questa partita, i nuovi organismi dirigenti che usciranno dal voto delle primarie dovranno rimetterci le mani e renderla più adeguata alle esigenze della chiarezza e della logica.
Come se non bastasse, lo statuto ha anche stabilito che le primarie eleggeranno il segretario soltanto se uno dei tre candidati in lizza otterrà il 50 più uno dei voti espressi. Qualora ciò non avvenisse avrà luogo una terza fase dinanzi all´Assemblea nazionale eletta anch´essa il 25 ottobre. In questa terza fase i candidati rimasti in lizza saranno i primi due votati alle primarie. Il terzo sarà escluso dalla gara ma in realtà sarà il più forte dei tre perché i suoi rappresentanti nell´Assemblea, appoggiando uno dei due candidati in lizza, lo porteranno alla vittoria, naturalmente ponendo le loro condizioni di programma e di potere.
Le regole sono queste e vanno rispettate, ma sono a dir poco scriteriate perché di fatto danno il massimo potere al terzo arrivato. La conseguenza sarebbe quella di produrre un sentimento di frustrazione in tutti gli elettori delle primarie che vedrebbero capovolte le loro indicazioni.
Per evitare un cul di sacco così traumatico ho avanzato giorni fa una proposta. Io non sono un iscritto al Pd e mai mi iscriverò perché faccio un altro mestiere incompatibile con una tessera di partito. Ma parteciperò alle primarie perché sono un elettore e voterò per quel partito. Ho dunque proposto un accordo politico tra i tre candidati: si impegnino anticipatamente e pubblicamente, se nessuno di loro raggiungerà la maggioranza assoluta, a far affluire i propri voti in assemblea su quello dei candidati che ha ottenuto alle primarie la maggioranza relativa. In tal caso il voto delle primarie sarà rispettato, le regole dello statuto anche e - altro risultato non disprezzabile - il segretario nazionale sarà eletto dall´Assemblea all´unanimità. La mia proposta, forse proprio perché veniva da persona esterna al partito, ha avuto successo: l´impegno è stato preso sia da Bersani che da Franceschini. Esso darà maggior sicurezza e maggiore impulso a tutti quelli che si dispongono a votare il 25 ottobre.
* * *
Fin qui abbiamo trattato questioni di procedura. Importanti, perché senza procedure corrette non si ottengono risultati corretti. Ma ora dobbiamo esaminare il merito, cioè le proposte dei vari candidati, quelle che li uniscono e quelle che li dividono. Chi voterà alle primarie lo farà sulle proposte e sulla loro credibilità.
A me non pare che ci siano differenze per quanto riguarda la struttura del partito. Per lungo tempo si è discusso tra un partito cosiddetto liquido, cioè affidato soltanto ai simpatizzanti e quindi alla pubblica opinione, oppure un partito strutturalmente insediato sul territorio.
Questa questione mi sembra ormai superata. L´accordo è generale sul fatto che il partito deve essere presente e vivace sul territorio con larghe autonomie della struttura locale, ma entro linee-guida valide per tutti ed elaborate dagli organi centrali. Del resto questa disputa è già stata superata dai fatti: i 450.000 iscritti che sono andati a votare e che ci torneranno per le primarie sono la più evidente dimostrazione che le strutture sul territorio ci sono già; potranno essere utilmente rafforzate e dotate di adeguate funzioni, ma esistono e operano. Non era facile metterle in piedi in così breve tempo. Questo piccolo miracolo è stato compiuto e va riconosciuto a tutti quelli che l´hanno reso possibile.
Sgombrato il campo da questa questione ne restano altre di grande importanza che sono le seguenti: il rapporto tra l´opposizione e la maggioranza berlusconiana e leghista; il rapporto con le altre opposizioni, cioè la politica delle alleanze; il tema della laicità dello Stato; il tema dell´immigrazione e dell´integrazione; la politica economica; la politica della giustizia; la politica della scuola. Infine - ma soprattutto - il tema della libertà di stampa e quello dei grandi valori dai quali nasce la visione del paese e della società che vedremo nel futuro dell´Italia e dell´Europa di cui siamo parte integrante.
* * *
Si tratta d´una massa di problemi che dovranno essere risolti non solo dal Pd ma da un´elaborazione culturale cui debbono collaborare fondazioni, circoli, associazioni che condividano i valori e creino le condizioni culturali per farli crescere nella società. Un partito democratico deve aiutare questa evoluzione affinché il lavoro di semina e di raccolta sia ampio e proficuo. Veltroni - quel cretino a cui abbiamo già accennato - sostiene che è importante vincere ma ancor più importante è cambiare l´Italia risvegliandola dall´ipnosi in cui una parte del paese è caduta e ricondurla a riflettere e operare pensando al futuro e non accucciandosi su un presente precario e appiattito. Personalmente condivido.
Sulla politica economica mi sembra che l´accordo sia generale: nell´immediato occorre riversare le risorse disponibili sui lavoratori dipendenti e sulle piccole e piccolissime imprese e partite Iva. Sul medio periodo è necessaria una grande riforma fiscale e un allungamento dell´età di lavoro che tenga conto dell´allungamento della vita.
C´è accordo generale sul clima e sulle energie alternative e pulite. C´è accordo generale sulla riforma della giustizia, della sicurezza e dell´integrazione. La scuola è un campo da studiare. Esiste già un´ampia ricerca in materia ma ancora non è stata messa in discussione e bisognerà che si faccia al più presto.
Anche sulla laicità e sulle politiche della bioetica l´accordo sembra esserci almeno su un punto fondamentale: la Chiesa ha diritto di usare lo spazio pubblico per esporre le sue ragioni. Non ha invece diritto d´imporre il suo punto di vista nella politica, dove le prerogative dello Stato e del Parlamento sono esclusive e dato anche che i parlamentari cattolici hanno rivendicato la loro autonomia. Penso al cattolico adulto Romano Prodi e penso anche al documento che Franceschini diffuse anni fa raccogliendo su di esso sessanta firme di parlamentari cattolici che rivendicavano la loro autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche in materia di decisioni politiche e parlamentari.
C´è qualche dissenso sulla politica delle alleanze, ma francamente mi sembra più di parole che di sostanza. Se il Pd sarà forte le alleanze si faranno intorno a lui; se sarà debole non potrà svolgere la funzione di pilastro centrale delle opposizioni e non potrà raccogliere nuovi consensi sia a sinistra sia al centro. Penso che nessuno dei candidati preferisca un partito debole ad uno robusto e audace.
* * *
Una parola conclusiva sui valori, che include anche il rapporto con il berlusconismo.
I valori d´un partito democratico non possono che esser quelli della libertà, dell´eguaglianza e della solidarietà. L´esperienza storica di oltre due secoli ci ha ampiamente insegnato che la libertà senza eguaglianza è fonte di privilegi intollerabili; l´eguaglianza senza libertà è fonte di dittature e totalitarismi; la solidarietà senza gli altri due diventa assistenzialismo ed elemosina. La democrazia che scaturisce da questi valori è quella descritta e tradotta in norme e in giurisprudenza dalla nostra Costituzione.
La Costituzione può essere rivista e modernizzata, ma non può essere cambiata. Lo impediscono l´articolo 1, l´articolo 3, l´articolo 138 e l´articolo 139. Berlusconi non vuole rivedere la Costituzione, vuole cambiarla. Vuole sostituire la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto con una democrazia autoritaria senza organi di controllo e di garanzia ma interamente basata su sistemi di voto plebiscitari. L´intimidazione dei "media" è un elemento indispensabile di questa strategia che ha come obiettivo finale un´immagine del paese riflessa da uno specchio taroccato al servizio del potere.
Si tratta di concezioni antitetiche a quelle d´un partito democratico e questo è un dato preliminare che non consente né mollezza né scorciatoie di furbizia compromissoria.
Da questo punto di vista noi ci auguriamo che alle primarie del 25 ottobre vada una massa di popolo consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità. Non centinaia di migliaia ma milioni di elettori. Perfino quelli che non condividono le tesi riformiste del Pd ma non si rassegnano all´Italia così com´è: votino magari scheda bianca ma vadano. Quei seggi del 25 ottobre saranno anche una prova di forza di tutta l´opposizione e un buon principio per un paese risvegliato.

Corriere della Sera 18.10.09
Il metodo (paradossale) scelto per l’elezione
Il Pd, il segretario e le primarie: è a rischio anche il futuro del partito
di Paolo Franchi


Forse è troppo affermare che il metodo adottato dal Pd per eleggere il proprio segretario è pazzesco. Forse è, più semplicemente, paradossale. E di sicuro è pericoloso. Non per questo o quel candidato, ma per le sorti stesse del partito.
All’apparenza, tutto è molto chiaro, e molto, molto democratico. Nei congressi gli iscritti selezionano, con il loro voto, i candidati che si presenteranno alle primarie. E segretario diventerà chi prevarrà in queste ultime, sempre che ottenga la maggioranza assoluta dei voti. Se nessun candidato dovesse ottenerla, la decisione finale spetterebbe all’assemblea nazionale, eletta nelle primarie medesime. Ma qui le cose già cominciano a complicarsi, e il condizionale è d’obbligo, perché di mezzo c’è il cosiddetto lodo Scalfari, secondo il quale dovrebbe risultare automaticamente eletto chi alle primarie ottenesse anche un solo voto in più dell’avversario: a quel che abbiamo capito, Dario Franceschini è d’accordissimo, Pier Luigi Bersani un po’ meno, Ignazio Marino per nulla.
Nessun problema, allora, lodo Scalfari (eventualmente) a parte? Non sembra. Il problema c’è, e sta, come suol dirsi, a monte. Nessuno dei contendenti può dirlo chiaramente, perché questo meccanismo lo hanno accettato tutti (Massimo D’Alema compreso), perché a sostenerlo adesso si rischia di passare per nemici della democrazia e soprattutto perché ormai è troppo tardi. Ma le primarie hanno un senso e un valore quando si tratta di scegliere un candidato premier, non ne hanno alcuno quando si tratta di scegliere il segretario di un partito. Nei partiti in cui la leadership è, come in democrazia dovrebbe risultare fisiologico, contendibile (come è noto, non lo è dappertutto: per fare il caso più eclatante non lo è quasi per definizione nel Pdl), a deciderla provvedono gli iscritti, seguendo un percorso che culmina nel congresso. Storie del passato, scampoli di Novecento? Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito in cui a decidere la leadership sia una platea indifferenziata di cittadini, tenuti solo a dichiararsi elettori del partito medesimo e a versare qualche spicciolo. Non sembrerebbe, se è vero che è difficile immaginare un partito disponibile a correre, e per propria libera scelta, il rischio di mettere in aperto contrasto la volontà dei propri iscritti e quella dei propri elettori. Per il banalissimo motivo che se il «partito degli elettori» rovesciasse le decisioni del «partito degli iscritti», quest’ultimo, che, piaccia o no, è l’unico partito in carne e ossa che c’è, uscirebbe dalla contesa non solo sconfitto, ma profondamente delegittimato e, in ultima analisi, dissolto.
Una delle principali obiezioni a queste (ovvie) considerazioni è che il Pd è una sorta di work in progress: i suoi iscritti sono una realtà ben diversa dai militanti di un tempo, i cittadini che parteciperanno alle primarie sono elettori particolarmente attivi, attenti e appassionati, e la forma del partito che verrà sarà un mélange, oggi impossibile da definire nei dettagli, tra i primi e i secondi. E vero, ma al Pd si chiede di stare in campo oggi, non domani o dopodomani. Un’altra, e più concreta, obiezione è che il voto del «partito degli iscritti» (in specie, ma non solo, nel Mezzogiorno) è fortemente condizionato da una quantità di fattori, non tutti propriamente commendevoli, e quindi esprime i reali intendimenti del «popolo democratico» assai meno di quello delle primarie, molto più largo e molto più libero da condizionamenti (è in fondo questo, ci pare, il messaggio del manifesto fatto affiggere da Franceschini, sul quale il candidato, che, ricordiamolo, è pur sempre il segretario uscente, ci guarda dallo sfondo, e lo slogan recita: «Adesso decidi tu»). Può darsi.
Ma, quale che sia il giudizio sulla limpidezza del confronto interno al partito, è lecito contro-obiettare che anche il voto delle primarie è esposto a pressioni, sconfinamenti e incursioni esterne che possono condizionarlo e indirizzarlo verso risultati imprevedibili. Per influenzarne l’esito, non c’è bisogno che vadano a votare gli elettori del Pdl e, in fondo, nemmeno quelli di Di Pietro: con il passare dei giorni, si moltiplicano gli endorsement non solo degli amici e dei compagni di strada, ma persino quelli degli avversari dichiarati, e chiedersi quale sia il più efficace e quale il più controproducente è già diventato una specie di gioco di società.
In conclusione: per calcolo, per imperizia o per distrazione, o per tutte e tre le cose insieme, è stata innescata, potenzialmente, una specie di bomba ad orologeria. Se un augurio si può fare al Pd è che il timer, per un motivo o per l’altro, vada in tilt.
E che, superate le primarie, vincitori e vinti riescano a ritrovare, e a far ritrovare agli elettori, le ragioni dello stare insieme. Al momento, nonostante tutte le assicurazioni in senso contrario, la cosa non è scontata.

Corriere della Sera 18.10.09
La delibera Il testo che sarà approvato domani per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
«Ru 486, ricoverate fino all’aborto»
L’Agenzia: sì alla pillola ma con tempi più lunghi rispetto all’intervento tradizionale
di Margherita De Bac




ROMA — «L’impiego del far­maco deve trovare applicazio­ne nel rigoroso rispetto dei pre­cetti normativi della legge 194 a garanzia e tutela della salute della donna. In particolare de­ve essere garantito il ricovero in una delle strutture sanitarie dal momento dell’assunzione fino alla verifica dell’espulsio­ne del prodotto del concepi­mento ». E’ uno dei principi stabiliti nella delibera sulla pillola abor­tiva che domani il consiglio di amministrazione dell’Aifa (agenzia del farmaco) conse­gnerà al direttore ge­nerale, Guido Rasi, perché venga pubbli­cata nella Gazzetta Ufficiale con un ulti­mo atto formale chia­mato «determina».

Il provvedimento fi­nale di «immissione in commercio» an­drà in stampa entro 30-40 giorni. Quindi uscirà quando la Commissione Sanità del Senato avrà termina­to l’inchiesta conoscitiva. Con­comitanza non casuale che ri­sparmia ai dirigenti Aifa l’imba­razzo di anticipare gli esiti di un’iniziativa istituzionale e scansa il sospetto di aver subi­to le pressioni della politica. «L’inchiesta finirà entro il 19 novembre — conferma il mini­stro del Welfare, Maurizio Sac­coni —. Dobbiamo verificare la compatibilità della 194 con la pillola e con l’aborto farma­cologico che peraltro non è fat­to solo di Ru 486».

La delibera, approvata il 30 luglio e poi licenziata il 30 set­tembre dopo la rilettura del verbale, fissa alcuni paletti e dovrebbe tranquillizzare chi denuncia il rischio che l’aborto si trasformi in una pratica do­miciliare. La donna resterà in ospedale fino al termine del­l’interruzione di gravidanza. In genere tra l’assunzione dei Mi­fegyne (nome commerciale) e l’espulsione (determinata dal­­l’effetto di un secondo farma­co) passano tre giorni. Nulla vieta alla donna di firmare il re­gistro della dimissione e torna­re a casa in qualsiasi momen­to, come per ogni altro ricove­ro.

La delibera insiste sulla co­municazione: «Tutto il percor­so abortivo deve avvenire sot­to la sorveglianza di un medi­co del servizio ostetrico gineco­logico cui è demandata la cor­retta informazione sull’utilizzo del medicinale, sui farmaci da associare, sulle metodiche al­ternative e sui possibili rischi connessi nonché l’attento mo­nitoraggio onde ridurre al mi­nimo le reazioni avverse segna­late, quali emorragie, infezioni ed eventi fatali».

Mifegyne dovrà essere pre­sa «entro la settima settimana di amenorrea». Dunque in tem­pi più brevi rispetto alle nove settimane previste in altri Pae­si. L’Aifa ha deciso di introdur­re la restrizione per «i rischi te­ratogeni connessi alla possibili­tà di fallimento dell’interruzio­ne farmacologica di gravidan­za e il sensibile aumento del tasso di complicazioni in rap­porto alla durata della gestazio­ne ».

La prossima settimana Rasi notificherà la delibera all’azien­da farmaceutica, la francese Exelgyne, che invierà all’Aifa il foglietto illustrativo, con le mo­difiche necessarie. Poi mande­rà la «determina» alla Gazzetta Ufficiale. La RU 486 entra uffi­cialmente in Italia. Sul piano delle polemiche non sembra essere finita qui. La Commis­sione del Senato presieduta da Antonio Tomassini potrebbe esprimere dubbi sull’impiego off label (non previsto dal fo­glietto illustrativo) del Citotec, il farmaco registrato in Italia come gastroprotettore, che provoca l’espulsione e va pre­so a 48 ore dal primo. 



Repubblica 18.10.09
Il delirio di onnipotenza
di Piero Ottone


Succede quasi sempre, è quasi una legge fisica. Chi partendo da zero raccoglie successi strabilianti è colto, prima o dopo, dal delirio di onnipotenza: fa allora un passo falso, che sarà la sua rovina. Succede ai grandi uomini: Napoleone vince tutte le battaglie, crede che vincerà anche l´ultima, parte per la campagna di Russia, ed è la fine. Succede (se vogliamo scendere a esempi più casalinghi) ai capipopolo fortunati, a Cola di Rienzo, a Masaniello: il successo trionfale li accieca, sarà la loro rovina. Succede anche al piccolo imprenditore arricchito che fa un investimento di troppo, e fallisce. Succede a tutti, insomma. E Silvio Berlusconi? Si poteva credere che lui fosse immune. Mai l´imprudenza, nel suo caso. Mai il passo fatale. Fino a ieri. Ma forse la legge fisica, adesso, ha funzionato anche per lui.
Forse. Può darsi che il momento fatale sia venuto in seguito alle ultime elezioni. Un successo trionfale: cinque anni sicuri al governo, senza opposizione. Il vincitore avrebbe potuto valersi della maggioranza di ferro per smantellare certi interessi costituiti, per mettere in cantiere le famose riforme, invocate dalle persone di buona volontà. Ha invece optato per quella che comunemente, e forse a torto, si chiama la dolce vita. I festini. Le ragazze a decine. Chi sa quali altre stravaganze. Può darsi che i lussi e gli eccessi siano per lui (come per Cola di Rienzo, dicono gli storici) fonte di piacere. Che siano irresistibili. Ma credo che il fenomeno da cui è stato travolto sia più complesso. Ciò che lo inebriava, più ancora dei piaceri di varia natura che poteva concedersi, era la prova che ormai, padrone d´Italia, era in grado di permettersi tutto: la vita del sultano, come ha detto Giovanni Sartori. L´harem. Nessuna distinzione fra Palazzo Chigi e Palazzo Grazioli, fra aerei privati e aerei di Stato. Il capriccio di designare le concubine per questo o quel parlamento, di affidare i ministeri alle amiche. La dimostrazione, insomma, che poteva fare tutto quel che voleva: il delirio di onnipotenza. La legge fisica ha funzionato ancora una volta. Non con la campagna di Russia, ma con Marisa e Noemi.
Il passo falso (se questa lettura degli eventi è giusta) non porta direttamente alla perdita del potere. La maggioranza in parlamento è sempre lì, intatta. Forse è intatto, o limato di poco, il sostegno popolare (anche se i favori del popolo possono cambiare molto in fretta). Ma lo scandalo, quando è scoppiato, ha provocato nel personaggio un fenomeno di destabilizzazione. All´improvviso Berlusconi non è più lo stesso: sereno e sorridente fino a ieri, ora sembra ossessionato dagli attacchi, si difende e inveisce ogni volta che apre bocca, contrattacca, glorifica se stesso, ripete che è scelto dal popolo, che è il più bravo nella storia, che non ha rivali. La bocciatura del lodo Alfano, il risarcimento a De Benedetti di settecentocinquanta milioni hanno aggravato la situazione, hanno inasprito in lui la sensazione di isolamento. Il verdetto dei magistrati è anch´esso segno di indebolimento ? Sarebbe stato diverso qualche mese fa? Chi sa. Certo è che le disgrazie non vengono mai sole.
Resta da vedere, adesso, quali saranno le conseguenze del passo falso e della destabilizzazione. La stampa internazionale (surrogando quella italiana, la cui prudenza, tranne eccezioni, è un fenomeno preoccupante) scrive da vari giorni che un presidente del Consiglio in questo stato d´animo, un presidente ferito, nuoce al paese, è insostenibile. È possibile che lo pensino anche gli uomini intorno a lui, e ne traggano prima o dopo le conseguenze. Un uomo politico, Casini, gli ha consigliato di prendere una camomilla: quelli che condividono il potere potrebbero indurlo, più seriamente, a farsi da parte. L´altra possibilità (come ritiene Eugenio Scalfari) è che il comportamento del personaggio, invece che un fenomeno di destabilizzazione, sia deciso a mente fredda, nell´ambito di una strategia. Può darsi che voglia lanciare nuove formule politiche, temerarie riforme costituzionali: l´elezione diretta del Primo ministro, la repubblica presidenziale.
Ma gli osservatori stranieri probabilmente hanno ragione. La situazione attuale, così com´è, non può durare a lungo.

Repubblica 18.10.09
Taccuini di viaggio
La calda estate del Marocco dove il velo nasconde e svela
di Tahar Ben Jelloun


Una donna bellissima con una sottoveste leggera spunta dall´oceano trasformata in sirena luccicante Accanto, un gruppo di ragazze si tuffano completamente vestite. Nelle città la moda riempie le vetrine dei negozi di manichini nudi ma con foulard colorati sulla testa

Cose viste quest´estate in Marocco. Una spiaggia di sabbia fine, bianca, calda, meravigliosa. Un mare blu. Perfino la schiuma ha tracce di azzurro. Solo il rumore delle onde lente, appena visibili. Pochi bagnanti. Sportivi che corrono. Un cane che va a zonzo. La spiaggia è pulita, o quasi; delle navi hanno scaricato i liquami lontano dalle coste mediterranee. C´è catrame sulla sabbia.
Improvvisamente la mia attenzione è attratta da una giovane coppia che si accinge a entrare nell´acqua. Lui con costume lungo, cappellino e macchina fotografica. Lei in una camicia da notte celeste particolarmente aderente. Si indovinano le forme. Avanza nel mare, si immerge tutta vestita e ne esce come una sirena trasparente. L´uomo la fotografa, le chiede di tuffarsi di nuovo. La donna si ferma e si gira verso di lui, verso di me. Ha un petto splendido. Si distingue bene la forma dei seni, con i capezzoli neri. Sotto la camicia da notte indossa mutandine di cotone bianco. L´uomo è occupato a fotografarla e io ammiro quella bellezza uscita dal mare con la stoffa appiccicata alla pelle, si intravede un triangolo nero, il famoso paradiso profumato. L´uomo si volta e noto che ha la barba. Sua moglie non deve essere vista da altri uomini. Mentre indietreggio mi lancia un´occhiata minacciosa. La donna gioca con l´acqua, lancia manciate di schiuma. È magnifica. L´uomo si precipita verso di lei e la copre con un immenso telo da bagno. Fine dello spettacolo. Fine del film erotico. Continuo la mia passeggiata ripensando a quella sirena che stava al gioco.
Un po´ più in là, un gruppo di giovani donne, tutte vestite, si immergono nell´acqua. Sono sole, non ci sono uomini con loro. Si divertono, rotolano sulla sabbia, escono ridendo. Il fatto di non essere in costume da bagno non sembra disturbarle. Escono dall´acqua come naufraghi stanchi, si buttano sulla spiaggia e aspettano di asciugarsi. Lì accanto si sistema una famiglia di emigrati. Il padre pianta un ombrellone e si piazza all´ombra. Legge un giornale in arabo. La madre si occupa dei bambini, due adolescenti e tre bambine: la più grande indossa un due pezzi, le altre due restano vestite. Tra di loro parlano in tedesco. Non capisco una parola ma vedo che sono allegre. Insieme ai fratelli, giocano a pallavolo con una rete immaginaria. Il padre non dice nulla, la madre prepara il pranzo. Scambia qualche parola con il marito, a volte in arabo e a volte in berbero. Le tre bambine fanno il bagno, giocano, gridano, si divertono. Non si direbbe in nessun momento che le due sorelle vestite possano sentirsi scomode o a disagio. Valli a capire. Una in costume da bagno sexy, le altre due in abiti grigi.
Vado alla posta a ritirare un pacco. Odio andare alla posta. Fa caldo. Mi metto in coda e osservo che nella fila accanto c´è più gente, ma la mia non avanza. Un tipo mi fa: «Vieni di qua, passerai più in fretta». Gli chiedo perché. Mi risponde: «Qui c´è una sorella musulmana allo sportello. È più seria e più efficiente. L´altra mastica il chewing-gum e lavora brontolando». Mi avevano già fatto notare che i fondamentalisti tengono a mostrare quanto siano seri e integri. E un modo di militare per il partito che li rappresenta.
A Tangeri mi siedo al Café de Paris, in place de France. Sono con un amico spagnolo. Mi chiede perché ho scelto questo caffè. Perché è un eccellente punto d´osservazione. Tutti passano di lì. Decidiamo di contare il numero delle donne velate e di quelle non velate. Dopo un quarto d´ora smettiamo di contare: il velo vince di gran lunga. Significa che tutte le donne con un foulard in testa sono fondamentaliste? No. È la moda, d´altronde sulla "kissaria" (mercato di abiti e tessuti da donna) hanno aperto negozi che vendono solo foulard, di tutti i colori e di tutte le forme. In vetrina, i manichini di plastica sono nudi ma incappucciati da eleganti foulard.
Ho visto uomini neri, ben vestiti, passeggiare per la medina di Tangeri. Una volta tanto non si tratta di sventurati clandestini inseguiti dalla polizia. Sono comparse sulla scena di un film che si svolge in Africa, con Leonardo di Caprio protagonista. Hanno allestito un mercato africano di fronte al teatro Cervantes, in rovina da oltre cinquant´anni. È lì che girano il film. La sera ho visto Di Caprio cenare con sua madre al ristorante Mirage. Parlava con lei in tedesco.
Il primo giorno del Ramadan il volto della città è cambiato. Le vie sono quasi vuote fino alle dieci del mattino. Tutti fanno il digiuno, anche quelli che non lo fanno. È inimmaginabile che un marocchino musulmano esca per strada fumando o mangiando un pezzo di pane. La legge lo vieta e la gente non lo permetterebbe. La città comincia ad animarsi verso l´una del pomeriggio, subito dopo la preghiera di metà giornata. Più il tramonto si avvicina (quest´anno è verso le sette), più la gente si muove, si irrita, litiga e corre in tutte le direzioni. Stare senza mangiare, bere, fumare e avere relazioni sessuali, in breve cambiare da cima a fondo il modo di vivere, rende la gente irascibile. Siamo lontani dal senso spirituale del digiuno, considerato dall´islam come un momento di raccoglimento, di meditazione, di introspezione e di preghiera.
Alla rottura del digiuno si mangia molto, troppi dolciumi, pasticcini al miele, uova sode. Si mangia in fretta e troppo. La sera è il momento più simpatico del Ramadan. La gente è rilassata, si incontra e si diverte fino al sorgere del sole, il momento preciso in cui comincia il digiuno. Tra le otto e le dieci di sera, si riempiono le moschee per ascoltare i teologi parlare dell´islam e della vita. Queste sedute, dette "tarawihe", sono in pratica lezioni e prediche più approfondite.
È durante il mese di Ramadan che alcuni musulmani si recano alla Mecca per l´Omra, (il piccolo pellegrinaggio). Quest´anno, la minaccia dell´influenza non ha avuto alcun effetto su chi sognava di fare quel viaggio. Si vedrà al ritorno. Gli albergatori e gli operatori turistici sono contrariati: quest´anno il Ramadan è cominciato il 21 agosto; l´anno prossimo inizierà l´8 agosto, l´anno dopo il 28 luglio… Gli affari ne risentiranno per almeno cinque estati. Ma la fede è più forte del commercio!
Traduzione di Elda Volterrani

Repubblica Firenze 18.10.09
Il manicomio di Tobino
Follia e letteratura, un mondo da salvare
di Laura Montanari


Abbiamo visitato l´immensa struttura a pochi chilometri da Lucca dove lo scrittore-psichiatra visse e lavorò con i suoi malati

A Maggiano, in un´ala del manicomio, lo scrittore ha abitato per quarant´anni, «ora per ora con i matti» fino al capolinea della legge Basaglia. «Anche in questo momento mentre sono con la penna in mano mi arrivano le parole dei malati (...), qui sotto la mia finestra e distinguo la voce di Gianni che fischia come una carrucola di pozzo, il pigolio da canarino di Sanesi... «si legge negli «Ultimi giorni di Magliano».
La casa dello scrittore, «due stanzette, tugurio e villa» stava andando alla malora come il resto degli edifici intorno, una deriva di infissi che sbattevano al vento, stanze ancora piene di arredi, la sua branda, la macchina da scrivere, una poltrona, una lampada, il tavolo dello studio. Dieci anni senza più un inquilino: è un tempo capace di lasciare segni e ferite indelebili. A salvare questo posto, crocevia di malattia, esclusione e letteratura, è stata la Fondazione Tobino che è riuscita a rastrellare i fondi necessari per fasciare di impalcature l´ala dell´immobile che era la casa dello scrittore e la biblioteca del manicomio. Un luogo simbolo sulla collina di Santa Maria delle Grazie (a pochi chilometri da Lucca) che diventerà la sede della fondazione, museo e centro studi collegato alle università. La nuova casa alla memoria di Mario Tobino sarà consegnata nei prossimi mesi in occasione del centenario (1910-2010) della sua nascita. Sarà come la vecchia, ma ritinteggiata e ristrutturata. «I lavori sono stati finanziati per un milione e 200 mila euro arrivati dal ministero e altri 600 mila dalla Regione Toscana» spiega Tagliasacchi che fa strada assieme al primario dell´ospedale psichiatrico di Lucca, Enrico Marchi e a Marco Natalizi direttore della Fondazione: prende le chiavi. Riapre una dopo l´altra, fra mille cautele, le porte di questo «pozzo di reclusione», dove il silenzio resta popolato di presenze: la Marzi che voleva uccidersi buttandosi di sotto, la Berlucchi che si è trapassata il petto con l´ago della calza, il Tono, la Benni e molte altre e altri «dannati della malattia mentale». «Ombre con le radici fuori dalla realtà, ma hanno la nostra immagine, mia e tua, oh lettore» scriveva Tobino nelle «Libere donne di Magliano». Donne che di libero non avevano più niente e per capirlo basta scendere poche scale in questo edificio abbandonato e trovarsi davanti, dopo gli stanzoni con le finestre piombate dalle sbarre, i loculi del reparto delle «agitate». C´è ancora il telaio in ferro di qualche letto, ci sono le porte di legno con le serrature pesanti e un piccolo oblò al centro da dove le infermiere spiavano le pazienti «all´alga», cioè quelle che potevano stare solo nude nelle smanie della follia, lasciate al vuoto di uno spazio di reclusione soltanto con lo spiffero di un termosifone nell´inverno e con cumuli di alghe marine essiccate per giaciglio.
Androni, chiavistelli, soffitti con le travi, grandi finestre che danno sui chiostri, le cucine in cui è cresciuta l´erba. Mancano le grida, ma sono rimpiazzate dal silenzio e l´effetto, lo sgomento, è lo stesso: «Eppure qui - spiega il professor Marchi - rispetto ad altri manicomi c´era una maggiore apertura verso l´esterno. Ad esempio, negli anni Cinquanta si organizzò persino un festival di musica pop dove i cantanti erano pazienti che venivano dagli ospedali psichiatrici di tutta Italia». La Fondazione - creata nel 2006 dalla Provincia di Lucca, Comune di Viareggio, Usl 2, dagli eredi dello scrittore, con la collaborazione del Gabinetto Vieusseux di Firenze, due fondazioni bancarie (Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lucca) e di recente il Comune - organizzerà borse di studio, convegni e rileggerà soprattutto quel Tobino che nell´Italia dei Basaglia e degli anti-Basaglia è stato frettolosamente sistemato nei perdenti, fra quelli che non volevano chiudere i manicomi. Per capire lo scrittore viareggino non basta probabilmente oggi rileggerlo, bisogna salire su questo versante della collina e camminare nelle stanze che ha abitato «gomito a gomito» con le persone che curava. Quarant´anni così, a guardare dentro la follia, ma sempre, come ha scritto Eugenio Borgna, «nella sua radicale dimensione umana».

Corriere della Sera 18.10.09
Retrospettive Londra: l’artista anglo-indiano alla Royal Academy
Kapoor? Un simbolista d’oggi
di Giorgio Cortenova


Anish Kapoor sostiene che il rosso è il colore del sole che tramonta e che il blu rivela e custodisce la profondità più ancora del nero. Ha ragione, perché la pro­fondità che egli ricerca non è quella fisica e visiva, ma quella psichica, ca­rica di brividi e di presagi. Del resto è cosa che gli artisti hanno sempre sot­tolineato, da Munch a Bacon.

Ma il blu, il rosso, come d’altra par­te il giallo di Kapoor, ricordano i toni cangianti delle carrozzerie delle auto e attingono magie ed evocazioni dal­le lacche indiane che gli sono natural­mente familiari.

Anish è nato infatti nel 1954 a Bom­bay (oggi Mumbai) da padre indiano e madre ebrea irachena, insomma da due culture incrociate che da sole for­mano un intrigante tessuto ricco di sollecitazioni.

Nel ’74 si trasferisce a Londra, do­ve studia all’Hornsey College, e nel­l’ 80 ha il suo battesimo con il siste­ma dell’arte in una mostra parigina presso Patrice Alexandre.

Il suo talento esplode assieme a quello dei Gormley e dei Cragg. Ma Kapoor è diverso. Più mite ed evocati­vo: non cerca le provocazioni o lo sberleffo e preferisce gli enigmi rac­chiusi in forme semplici, spesso di le­gno intagliato e reso policromo con pigmenti tipicamente indiani.

A suo modo è un «filosofo» e mal­grado le molte interpretazioni che si sono sviluppate attorno alle sue ipo­tetiche letture, da Fichte a Schlegel, è comunque cosa certa che i suoi testi di riferimento sono quelli del vec­chio Platone: una luce orientale inci­sa nel cuore dell'Occidente. Adesso Londra gli dedica una retrospettiva.

Dagli anni Novanta in poi Kapoor si serve delle resine, dell’acciaio cor­ten, dell’alluminio: gigantesche for­me concave, a tromba, laccate in ros­so, come Untitle (2007), un vortice che converge nella centralità del bu­io e ti risucchia nel richiamo fascino­so del mistero. Il successo lo premia fino agli eccessi di un mercato impaz­zito e ben manovrato, che nel suo ca­so sembra ancora a prova di crisi.

Kapoor non è un artista «neo-con­cettuale » o genericamente «menta­le », definizioni spesso di comodo che riempiono la bocca del nulla da cui spesso nascono. E’ invece un sim­bolista contemporaneo, che attinge emozioni dalla storia, a partire da Re­don e da Kubin, e naturalmente dal pensiero veggente dell’India e di quell’Oriente insonne che attrae il corpo per restituirci l’anima.

ANISH KAPOOR Londra, Royal Academy, sino all'11 dicembre. Tel. +44/20-73008000

Corriere della Sera 18.10.09
Antologiche Zurigo: settantacinque fra dipinti e disegni preparatori, dal 1875 al 1890, del «puntinista» Seurat alla Kunsthaus
A Georges piaceva dividere i colori
Precursore delle ricerche della Bauhaus e dell’Optical art
di Sebastiano Grasso


Georges Seurat ha vissuto solo 32 anni (1859-1891). Qualche anno in meno di Van Gogh (37: 1853-1890) e di Gauguin (55: 1848-1903). Entrambi gli devono qualcosa. Nato in una famiglia agiata, Seurat può dedicarsi alla pittura.

Nel 1878 si iscrive alla Scuola di Bel­le arti e nel 1883 esordisce con un dise­gno al Salon des Indépendants . Ne se­guono altri: ha negli occhi i paesaggi di Millet. Nei rimanenti otto anni, di­pinge decine e decine di grandi qua­dri, cui si affiancano 583 disegni e 163 schizzi preparatori.

Che cosa avrebbe potuto fare se fos­se vissuto una decina d’anni in più? Do­manda valida per moltissimi altri, natu­ralmente (e viene in mente Vincenzo Bellini, morto a soli 34 anni: Sonnam­bula, Norma, Puritani, Pirata, Capule­ti e Montecchi, Beatrice di Tenda ).

Seurat si rende conto che l’Impres­sionismo — che sino a quel momento ha avuto il merito di attrarre a sé tutte le avanguardie — dà segni di stanchez­za. Nel 1886, all’ottava e ultima, conclu­siva mostra degli impressionisti, orga­nizzata dal gallerista Durand-Ruel, nep­pure l’ombra di Monet, Renoir e Sisley. Ci sono, invece, Pissarro, Seurat e Si­gnac.

Già da qualche tempo, Pissarro rifiu­ta «la pastosità, la morbidezza, la liber­tà, la spontaneità e la freschezza della nostra arte impressionista»; Seurat, che da un po’ di tempo s’è dedicato a testi sui fenomeni ottici, tenta di coniu­gare arte e scienza; Signac, anche se più giovane di Seurat di soli quattro an­ni, lo segue a ruota.

Divisi i colori in «primari» (blu, gial­lo, rosso) e «secondari» (verde, violet­to, arancione), Seurat ne vuole applica­re, sulla tela, il «contrasto simulta­neo ». Come? Non mischiandoli, ma ac­costandoli. Piccoli punti separati.

Ecco l’inizio del cosiddetto puntini­smo ( pointillisme ). Primo esempio, Una domenica all’isola della Grande Jatte. Il critico Felix Fenelon lo defini­sce «neoimpressionista» e «manifesto di una nuova tecnica».

La definizione non garba a Seurat. Avrebbe preferito: «impressionista lu­minista » o «cromo luminista». Tant’è. Non tutti gradiscono il dipinto, pe­rò, anche se per molti questo indica una svolta nella pittura made in Fran­ce .

Grande successo, invece, fra gli scrittori simbolisti, anche perché con­temporaneamente appare il loro Mani­festo.

Seurat approfondisce la propria ri­cerca sui fenomeni ottici. Guardando alla scultura egizia e a Piero della Fran­cesca, semplifica l’architettura di sce­ne e figure. Si vedano le marine, l’am­bientazione degli spettacoli popolari di piazza, le vedute del circo, le passeg­giate mattutine, la rivisitazione della Torre Eiffel. La figura non è più a sé stante, ma viene inquadrata in armo­nia con lo spazio geometrico.

Ed è appunto questa la chiave di let­tura della rassegna che Zurigo dedica a Seurat: 75 fra dipinti e disegni, dal 1875 al 1890. Una sorta di retrospettiva, curata da Christoph Becker e Julia Bur­ckhardt. Buona parte dei dipinti sono accompagnati dagli studi preparatori, in modo che il visitatore possa render­si conto dei vari passaggi.

Se in vita Seurat è certamente un ar­tista di successo, non altrettanto lo è dopo la morte. Anzi, per un lungo peri­odo, su di lui s’è stesa una coltre di oblio. Dopo un certo interesse da parte del Futurismo (Balla, soprattutto), la ri­presa avviene circa trent’anni dopo, at­traverso gli aderenti alla scuola tede­sca della Bauhaus, fondata da Gropius. Ad essa si riallaccerà l’Optical art, nel momento in cui riprende le ricerche di Moholy-Nagy ed Albers.

Georges Seurat non aveva seminato invano.

GEORGES SEURAT Zurigo, Kunsthaus, sino al 17 gennaio. Tel. +41/44-2538484

Corriere della Sera 18.10.09
Seurat. Pulviscolo sonoro
di Duilio Coureir


Il pittore Georges Seurat (1859-1891)Sotto la spinta d’in­venzione ed energia di Georges Seurat e dei suoi amici d’av­ventura estetica (da Signac a Pissarro) si afferma quel movimento che ha preso il nome di pointillisme e che in dieci anni, fra il 1880 e il 1890, rende più decisa la sua presenza nella cultura francese, sino ad arrivare negli atelier dove si fanno le prove del Cubismo, del movimento fauve e di ogni altra possibile avanguardia con nuove inattese scoper­te.

Il percorso del pointilli­sme , però, non appartiene soltanto alla storia figurati­va, ma trova un suo spazio nei territori della musica da cui, per la verità, non pa­re sia stato mai assente.

Nella musica il pointilli­sme si realizza con atteggia­menti diversissimi. Il mon­do delle note, infatti, offre notevoli esempi di fram­mentazione sonora, inter­rotta da pause amplissime e lontane — da Montever­di alla Secessione viennese e da Gustav Mahler a Sciar­rino, per dare alcune indi­cazioni significative — sen­za dimenticare che si tratta pur sempre di una medita­zione fatta in gran parte da ipotesi ed interrogativi.

La prima traccia, forse un’ipotesi assai azzardata, di pointillisme, si trova nel­la raccolta delle opere mon­teverdiane, una canzonetta a tre voci che è un pulvisco­lo sia nelle note che nelle sillabe, un gioco magistra­le di frammentazione.

Occorre dire che gli even­ti d’un linguaggio possono presentarsi separati dal tempo e dallo spazio e che le trasmissioni avvengono sotterraneamente.

Sicuramente questi feno­meni possono essere vissu­ti senza la consapevolezza critica d’un Seurat e compa­gni. Il compositore russo Peter Illic Ciaikovskij nello scherzo della Quarta sinfo­nia si impegna a comporre figure con degli staccati e colloca il tempo prima del­la fine, facendone un movi­mento di evasione e di ri­cerca. Nella Sonata op. 14 n.2, Beethoven si serve del pointillisme per creare non delle note, ma delle cellule spezzate per un bi­sogno di sperimentazione.

Bizet può essere citato in questo contesto per la durezza intrinseca della sua Carmen, e per la metal­licità del contrappunto che anticipa la stagione della Nuova oggettività.

Discorso diverso per Gu­stav Mahler: uomo delle pause, delle attese, della tensione delle attese che si rivolgono verso situazioni screziate. Il procedere del­la scrittura mahleriana si aggroviglia in un incessan­te flusso suscitato e traccia­to da suoni slegati che provocano uno stato di aspet­tativa e di corri­spondenze che si rinnovano all’infi­nito.

Per concludere questa esplorazio­ne — dove resta­no aperte molte ipotesi — rivolgia­moci ad un prota­gonista della musi­ca contemporanea come Salvatore Sciarrino, che cer­ca ed inventa la musica con ogni mezzo. Il famoso pulviscolo sonoro del compositore siciliano è tale perché egli passa attra­verso fonti nobili. Nel pez­zo eseguito da Sciarrino a San Petronio, a Bologna, per le Feste musicali, vive il culto della grande musi­ca, ma non si sente neppu­re una melodia.

La partitura ha questa specie di ansietà: uscire dalle privazioni del canto. Si ascoltano brandelli di melodie interrotte, realizza­te con improvvisi incre­menti di suono o con battu­te lunghe per rendere più espressivo il discorso nei momenti di maggiore ten­sione; soluzioni che fanno sentire la vicinanza del pointillisme, anche se non si avverte più il clima stori­co di quella stagione intel­lettuale legata a Seurat.