martedì 20 ottobre 2009

l’Unità 20.10.09
L’ora di religione islamica Una storia lunga più di 100 anni


A proposito della controversa «ora di religione islamica», auspicata dal viceministro Adolfo Urso, la storia è lunga e istruttiva. 29 settembre 1870: la circolare del ministro della Pubblica Istruzione, stabilisce che l'istruzione religiosa venga impartita solo su richiesta dei genitori. 1888: la relazione della Commissione per i nuovi programmi della scuola elementare afferma che «lo Stato non può fare, né direttamente né indirettamente una professione di fede». Ma le cose sono destinate a cambiare. 1923: un Regio decreto rende obbligatorio l'insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare. 1929: il concordato, che pure estende l’insegnamento obbligatorio alle scuole medie e superiori, consente ai genitori di chiedere l’esonero per i propri figli. 1930: un decreto Regio, permette a «i padri di famiglia professanti un culto diverso dalla religione di stato di ottenere locali scolastici per l'insegnamento religioso dei loro figli». E infine la Costituzione italiana. All’articolo 8 si afferma che: «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. (Quelle) diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico». Dopo la revisione del concordato del 1984, le intese sottoscritte tra lo Stato italiano e alcune confessioni, regolamentano, appunto, l’insegnamento scolastico. Come si vede, è l’intero apparato normativo dello Stato italiano nei suoi principi ispiratori a prevedere che «l’ora di religione islamica» possa essere realizzata. Poi, certo, intervengono altre considerazioni e, in particolare un approccio liberale che privilegerebbe, piuttosto, l’insegnamento della storia delle diverse religioni.

l’Unità 20.10.09
Il partito che voleva volare
Cosa fermò la corsa del Pci: la mano della storia o gli errori del gruppo dirigente? «Il sarto di Ulm» e la risposta di Lucio Magri
di Nicola Tranfaglia


Bertold Brecht aveva scritto un apologo intitolato Il sarto di Ulm. In quell’apologo parlava di un sarto che aveva messo a punto, così credeva, un apparecchio che avrebbe permesso all’uomo di volare. Lo mostrò al proprio vescovo dicendogli: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo portò sulla finestra più alta del palazzo e lo invitò a lanciarsi nel vuoto. Il sarto lo fece e si schiantò sulla strada. La conclusione di Brecht era ottimistica. Erano passati alcuni secoli ma gli uomini erano riusciti effettivamente a volare.
Da un’utopia così realizzata, parte Lucio Magri che, dopo aver fatto politica per oltre mezzo secolo, ha scritto una lunga riflessione sulla storia del partito comunista in Italia. Il libro, di quasi cinquecento pagine, ripercorre le vicende del suo partito, dedicando particolare attenzione al “partito nuovo” fondato da Togliatti con la svolta di Salerno nel 1944. «Al centro della nuova strategia abbozzata da Togliatti osserva Magri era il nesso tra rivoluzione e riforme, tra autonomia e unità, conflitto sociale e politica istituzionale, come un lungo processo, un’avanzata per tappe».
Ma alcune contraddizioni l’autore deve riconoscerlo minavano una soluzione che pure era quella giusta. Vale la pena elencarle: mancava una visione più precisa del tipo di società alla quale si aspirava. Occorreva inoltre trasformare le masse subalterne in una classe dirigente alternativa capace di organizzare la lotta sociale e di gestire i parziali spazi di potere via via conquistati. E questo secondo aspetto, malgrado il numero assai alto di iscritti raggiunti un anno dopo la Liberazione due milioni di persone, donne, uomini e giovani, che ne fecero subito il primo partito comunista dell’Europa era particolarmente evidente. Ma soprattutto si profilava il vero ostacolo alla realizzazione di quella strategia: la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti da un’aspra guerra fredda e la collocazione dell’Italia nel blocco filoamericano mentre il Pci era per la sua storia legato da un vincolo di ferro all’Unione Sovietica.
Una simile contraddizione avrebbe caratterizzato la storia del primo quarantennio repubblicano. Il partito cattolico non a caso avrebbe privilegiato, nella prima fase dopo la rottura postbellica dei governi di unità nazionale e la scissione del movimento sindacale, l’alleanza con i partiti della destra. Avrebbe, quindi, compiuto l’apertura a sinistra con i governi Dc-Psi negli anni sessanta, ma si sarebbe fermata di fronte alla prospettiva di una nuova unità nazionale contro i terrorismi e la crisi economica, fallendo di fatto, in meno di tre anni, quel difficile “compromesso storico” che un leader centrista come Enrico Berlinguer aveva annunciato di fronte al colpo di stato appoggiato dalla Cia in Cile contro Allende .
Magri ricostruisce, con notevole chiarezza, l’evoluzione pur contraddittoria del partito comunista, l’indubbia creatività di Togliatti e la sua morte precoce di fronte alla crisi di Ungheria, alla destalinizzazione parziale di Kruscev e al successivo irrigidimento del modello sovietico. E le grandi novità, maturate nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II che coincidono con la sconfitta di Pietro Ingrao nel Pci (1966) e uno scontro che non apre la strada alla segreteria di Giorgio Amendola ma favorisce l’avvento prima di Longo, continuatore di Togliatti, e poi di Enrico Berlinguer, candidatura di mediazione e di compromesso, all’interno di un gruppo dirigente diviso e incerto sull’atteggiamento da tenere di fronte al colosso sovietico.
Magri dedica la sua attenzione ai mutamenti del conflitto sociale provocati dal miracolo economico, alle conseguenze del lungo sessantotto prima studentesco, poi anche operaio, che sono in qualche modo anche all’origine dell’oscura nascita, prima del terrorismo nero fomentato dall’appoggio sotterraneo degli apparati dello Stato legati alla destra, poi della nascita di quello “rosso”, ancor più influenzato dal gioco grande dei servizi segreti italiani e stranieri che sfociano nell’ancor misterioso delitto di Aldo Moro.
Quali conclusioni? L’autore le affida a un saggio scritto vent’anni fa quando nel Pci si formava una corrente che venne definita del “no” e che fu alla base delle forze interne al partito che diedero vita nel ’91 al partito della Rifondazione comunista. Leggendo con attenzione quelle pagine, Magri insiste su due aspetti della battaglia politica attuale che, anche a mio avviso, sarebbero ancor oggi fondamentali per una efficace opposizione al populismo autoritario: un profondo rinnovamento dell’istruzione in Italia che ne faccia una istituzione creativa delle nuove generazioni e un partito che si affacci a quella “funzione pedagogica”, così centrale nella riflessione di Antonio Gramsci.

l’Unità 20.10.09
L’agenzia del farmaco dice no all’uso improprio della pillola abortiva
Spetterà a Stato e Regioni stabilire le disposizioni per l’utilizzo nelle strutture sanitarie
L’Aifa dà il via libera all’uso della Ru486 negli ospedali
Via libera dall’Aifa alla commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Si potrà utilizzare solo nelle strutture ospedaliere, nel dettato della legge 194, dando massima tutela alla salute della donna.
di Maria Zagarelli


Via libera definitivo dal Consiglio di amministrazione dell’Agenzia del Farmaco italiano per l’uso negli ospedali della pillola abortiva Ru486. Spetterà al direttore generale Guido Rasi avviare l’iter per la pubblicazione in Gazzetta ufficiale relativa all’emissione del farmaco sul mercato che dovrà essere esecutiva entro un mese. A prescindere dall’indagine conoscitiva pretesa dalla maggioranza. «Il percorso seguito è stato assolutamente rispettoso dell’iter procedurale previsto dall’Ente regolatorio europeo per il mutuo riconoscimento di un farmaco, verificandone efficacia scrive l’Aifa -, sicurezza e compatibilità con le leggi nazionali nel rispetto e a tutela della salute delle donna. Condividendo le preoccupazioni di carattere etico che anche questo metodo di interruzione volontaria della gravidanza comporta», l’Aifa inoltre rimanda a Stato e regioni le relative disposizioni per il corretto percorso di utilizzo «clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero» così come prevede la legge 194. Le restrizioni all’utilizzo sono dunque dettate dall’esigenza di «massima tutela del cittadino» e nelle intenzioni dell’Aifa -, sgombrano il campo «da qualsiasi possibile interpretazione di banalizzazione dell’aborto e dal suo impiego come metodo contraccettivo».
LE REAZIONI
La sottosegretaria Eugenia Roccella si dice «pienamente soddisfatta», per quel «chiaro no a protocolli che prevedono il day Hospital e introducono in Italia l’aborto a domicilio», mentre il ministro della Salute, Maurizio Sacconi puntualizza: «Il Parlamento avrà modo comunque di esprimersi prima dell'effettiva entrata in commercio della pillola cioè prima della delibera e della determina tecnica che dovrà essere assunta, in conseguenza, dal direttore generale». Esulta Maurizio Gasparri: l’Aifa sposa appieno la linea della maggioranza e boccia quella delle opposizioni. Le truppe romane della Giovine Italia (pdl) sono già in campo davanti a scuole e università per raccogliere le firme per il blocco della commercializzazione della pillola. Infine: oltretevere il cardinale José Lozano Barragan, presidente emerito del pontificio consiglio per la Pastorale per la Salute invita i medici all’obiezione di coscienza.
Dal fronte Pd la capogruppo in Commissione Sanità Dorina Bianchi ribadisce «l’importanza dell’indagine conoscitiva», mentre Anna Finocchiaro, presidente dei senatori democratici, osserva che l’Aifa «ha preso la sua decisione in piena autonomia» e al Pdl ricorda «che l’aborto facile o la banalizzazione dell’aborto, non sono mai stati in discussione». Livia Turco risponde a Gasparri: «Pretesti interamente inventati da chi voleva impedire l’utilizzo della Ru486 e che oggi è stato pienamente sconfitto». «Inaudite e fuori luogo» per Vittoria Franco le «pressioni» di esponenti di governo e maggioranza all’Aifa andate avanti fino a ieri mattina.

l’Unità 20.10.09
L’inesorabile distruzione delle nostre radici culturali
Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti Su questi temi, come per altri, si sta tagliando Il ministero sta annientando le competenze antropologiche
di Sandra Puccini


Il cambio. Chi fa le leggi si inventa miti celtici e altra paccottiglia volgare
Revisionismo- Un paese che si vergogna della sua storia, “revisionismo”
UNESCO. Ha classificato come “patrimonio dell’umanità” i nostri beni storico-artistici. Un riconoscimento che fa dell’Italia un paese unico in Europa. Non dimentichiamolo.

Nel 1911 si teneva a Roma l’Esposizione universale per celebrare il cinquantenario dell’Unificazione italiana. In quella occasione, in un tempo nel quale la diversità degli italiani era considerata un valore e una ricchezza per comporre i lineamenti dell’identità nazionale, accanto a mostre d’arte e di architettura, venne allestita nella capitale la più grande raccolta di oggetti popolari mai realizzata nel nostro paese. Artefice e organizzatore della Mostra fu Lamberto Loria: un celebre etnografo che, dopo dieci anni di viaggi tra i popoli extraeuropei, aveva deciso di rivolgere alla cultura delle nostre classi subalterne la sua esperienza.
Sono passati quasi cento anni e ci avviciniamo velocemente alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario di quell’evento. Ma siamo ben lontani dall’entusiasmo di allora: lo dimostrano i ritardi, le rimozioni, le polemiche e le discussioni anche aspre che circondano la preparazione dell’anniversario. Ma c’è poco da stupirsi: i tempi sono oggi cambiati e la diversità (ogni tipo di diversità) è inquietante, fa paura e serve a mettere paura. Del resto molti di coloro che ci governano sono imprigionati in una visione dell’identità meschina e ristretta pari solo all’ignoranza gretta che guida le loro proposte politiche (straparlano di dialetti, evocano il nome di Cattaneo che certo si rivolterà nella tomba e si vantano di usare il tricolore come carta igienica). Competenze e interessi etno-antropologici avevano preso forma e rilievo dal 1869, quando a Firenze erano sorti insieme la prima cattedra di Antropologia e il suo Museo Nazionale (tra i primi a nascere nel mondo occidentale), saldandosi agli studi folklorici: così da documentare a tutto campo tanto la ric-
chezza dei così detti “beni immateriali”, quanto la vita dei popoli. Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti, feste e poi cibi, usi, attrezzi di lavoro, abiti e apparati cerimoniali. Nell’insieme, un patrimonio enorme fatto di oggetti, immagini, narrazioni, comportamenti che l’Unesco ha classificato come “patrimonio dell’umanità” e che – proprio come i nostri beni storico-artistici – fa dell’Italia un paese unico in Europa. Un patrimonio vitale, la cui tutela e organizzazione richiede ovviamente competenze disciplinari specifiche e aggiornate. Nel nostro paese sono almeno un migliaio i musei della civiltà, del mondo o del lavoro contadino, delle tradizioni popolari, del folklore, etnografici, antropologici e via continuando con le molte denominazioni che essi assumono (e che hanno assunto) nel tempo e nello spazio. Naturalmente questi luoghi, per essere allestiti, promossi, gestiti, richiedono l’uso di saperi particolari: precisamente quelli che vanno sotto il nome di demo-etno-antropologici, che si formano attraverso corsi universitari e scuole di specializzazione. Conoscenze professionali riconosciute dallo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tutti i tipi di musei che ho ricordato sono luoghi della trasmissione della memoria, vere macchine del tempo che mettono in comunicazione il passato con il presente, i bambini con gli anziani, le tradizioni degli altri con le nostre. E forse, proprio attraverso il contatto con le piccole e le grandi cose della vita quotidiana, aiutano ad immaginare un futuro radicato nella realtà storica e antropologica della nostra società.
Il lungo preambolo era necessario. Parlo di temi culturali, che non hanno a che fare con la perdita di posti di lavoro o con la precarietà: ma che tuttavia impoveriscono le nostre possibilità di conoscenza. Già da qualche anno la direzione dell’Istituto Centrale per la Demoantropologia è stata affidata a storici dell’arte: un nonsenso, malgrado molti musei etno-antropologici abbiano anche un notevole valore estetico. Ma in questi giorni il Ministero dei Beni culturali (con l’avallo dei sindacati di categoria) ha stabilito che i nuovi profili professionali dei dipendenti non comprendano più le competenze antropologiche, accorpandole a quelle a quelle storico-artistiche. Se questo progetto si realizzasse, non solo verrebbero mortificate le professionalità di tutti quelli che lavorano nei nostri musei, ma si farebbe tabula rasa della storia ultracentenaria legata allo sviluppo delle discipline antropologiche italiane. Inoltre si amputerebbe il nostro patrimonio culturale di quelle conoscenze specifiche che sono state (e continuano ad essere) legate alla rappresentazione della vita delle classi subalterne. Naturalmente, il mondo dei museografi e delle istituzioni antropologiche prepara iniziative e mobilitazioni. Ma mi chiedo – e vi chiedo – se non sia questa, in un paese che sembra vergognarsi della sua storia, l’ennesima forma di “revisionismo” o meglio, di obliterazione delle nostre radici culturali. Intanto dall’altra parte dalla parte di chi fa le leggi e probabilmente i regolamenti – si inventano miti celtici e altra paccottiglia volgare.

l’Unità 20.10.09
Allearsi o no con Linke e Verdi? I tormenti di Spd dopo la sconfitta elettorale
La sconfitta elettorale del 27 settembre è stata micidiale, di quelle che lasciano tramortiti. Ma la Spd prova a ripartire azzerando la dirigenza e cercando risposte alle questioni sul tappeto. Un percorso che sarà lungo e difficile.
di Gherardo Ugolini


BERLINO. Sbaglia chi pensa che una batosta elettorale, per quanto pesante, possa significare la fine della socialdemocrazia tedesca: la più vecchia organizzazione della sinistra europea, ha passato burrasche ben peggiori senza dissolversi. Ha attraversato indenne gli anni della fragile democrazia della Repubblica di trasformarsi e aggiornarsi, come accadde nel celebre congresso di Bad Godesberg del 1959 quando diede l’addio al marxismo.
La resa dei conti all’interno del gruppo dirigente ha dimissionato il presidente Franz Müntefering, sostituito dal cinquantenne Sigmar Gabriel, già governatore della Bassa Sassonia e ministro dell’Ambiente nel governo di Grosse Koalition. Un cambiamento all’insegna della continuità: Gabriel è un delfino di Schröder ed ha costruito la propria carriera politica all’ombra dell’ex cancelliere. Come segretario generale è stata scelta Andrea Nahles, combattiva esponente dell’ala sinistra. Tra i vicepresidenti anche il borgomastro di Berlino Klaus Wowereit e Hannelore Kraft, leader Spd del Land Nord-Reno-Vestfalia. Il candidato alla cancelleria Frank-Walter-Steinmeier sarà il capogruppo parlamentare al Bundestag.
LE ALLEANZE REGIONALI
Le nuove cariche saranno ratificate dal prossimo congresso nazionale, a Dresda dal 13 al 15 novembre, che dovrà stabilire la strategia. Dopo undici anni ininterrotti di governo per la Spd si pone la questione di come affrontare il lavoro di opposizione e come costruire un’alternativa credibile alla maggioranza Cdu-Fdp vincitrice delle elezioni.
Il dilemma da risolvere resta quello del rapporto con la Linke di Lafontaine, un tormentone mediatico ma un vero incubo per i leader dell’Spd. Finora i socialdemocratici hanno oscillato tra timorose offerte di collaborazione a livello locale e differenziazione a livello nazionale. Anche dopo lo smacco elettorale non si vede all’orizzonte una prospettiva condivisa. Anzi, il partito è più spaccato che mai. L’ala riformista continua a demonizzare Oskar il rosso e Franz Müntefering non perde occasione per addossargli la responsabilità della sconfitta socialdemocratica. «Lafontaine ha abbandonato il partito, poi ci ha tradito e ci ha preso di mira: per miserabili motivi personali» ha dichiarato Müntefering al settimanale Die Zeit rivangando le dimissioni improvvise dell’allora ministro delle Finanze nel primo governo Schröder. Dall’altra parte c’è l’ala sinistra dell’Spd, quella di Wowereit e della Nahles, disposta a una robusta correzione di rotta su pensioni e welfare per aprire alla Linke, col rischio però di una deriva populista.
Una cosa è certa: per costruire un fronte unito delle sinistre Spd, Linke ed eventualmente Verdi in grado di competere alle politiche del 2013 è necessario passare attraverso la sperimentazione in qualche realtà regionale. A parte la città-stato di Berlino, dove da due legislature c’è un governo rosso-rosso, per il momento solo il Land del Brandeburgo è avviato verso questa prospettiva. Il governatore socialdemocratico Matthias Platzeck, forte della maggioranza relativa, ha optato per una coalizione con la Linke anziché continuare a collaborare con la Cdu. Ma il caso del Branbeburgo è isolato. In altre due regioni dove pure i numeri avrebbero reso possibile un governo di sinistra, si è scelto diversamente: in Turingia la Spd ha preferito continuare la coalizione con la Cdu, e nella Saar i Verdi si sono schierati con CdueFdp.

l’Unità 20.10.09
Un pool di studiosi nel libro «Storia negata» analizza un decennio di mistificazioni
Nell’introduzione che qui pubblichiamo Del Boca ricostruisce la metamorfosi di Pansa
Il revisionismo è agli sgoccioli? Ecco tutti i danni che ha causato
Isnenghi, De Luna e altri contro le «distorsioni»
di Angelo Del Boca


Appuntamento domani alle 18, alla Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani in via F. Sforza 7, a Milano, con Angelo Del Boca e Sergio Romano, introdotti da Erminia Dell’Oro, per la presentazione-dibattito della «Storia negata: il revisionismo e il suo uso politico», libro in uscita per Neri Pozza.
Si tratta di un volume collettivo di grande interesse, in cui un drappello di storici coordinati da Del Boca riprendono in mano alcuni dei nodi su cui, nell’ultimo decennio, più si è accanito il cosiddetto «revisionismo». Se «sottoporre a revisione la storia è il compito stesso degli studiosi», scrive Del Boca, il «revisionismo» è altro, è appunto «un uso politico della storia». Aldo Agosti, Lucia Ceci, Enzo Collotti, Giovanni De Luna, Angelo D’Orsi, Mimmo Franzinelli, Mario Isnenghi, Nicola Labanca, Giorgio Rochat, Nicola Tranfaglia sono gli studiosi che analizzano le distorsioni che in questi anni si sono accumulate su Risorgimento, fascismo, guerre coloniali, Resistenza, 8 settembre, ruolo politico della Chiesa. Nell’introduzione Del Boca dedica alcune appassionate pagine al «revisionismo» di Giampaolo Pansa, che qui anticipiamo.

Il revisionismo è agli sgoccioli? Sì, forse perché non c’è più nulla da demolire e infangare. Un drappello di studiosi fa il punto su un decennio in cui l’uso politico della storia ha raggiunto i vertici. Eccone l’introduzione

Il 13 aprile 2008 il Pdl stravince le elezioni e acquisisce una maggioranza tale in Parlamento da permettersi ogni battaglia, ma Dell’Utri non ripropone la censura dei libri di testo. Del resto si tratta di un’operazione rischiosa e del tutto inutile, perché l’onda lunga del revisionismo ha ormai raggiunto anche i lidi piú lontani e protetti. A partire dal 2000, come si è già detto, si avverte un proliferare di storici assai poco dotati, che prendono d’assalto i punti nodali della nostra storia nazionale con il preciso intento di offrirne una versione edulcorata (...).
Si prenda, ad esempio, Faccetta nera. Storia della conquista dell’impero, di Arrigo Petacco, un autore che puntualmente ogni anno sforna un libro di piacevole lettura, ma senza note e con una modesta bibliografia. È difficile, in meno di 230 pagine, accumulare tanti errori, tante lacune, tanti giudizi e valutazioni non corrette. Una spietata aggressione a uno Stato sovrano, che causa la morte di oltre 300.000 etiopici, viene contrabbandata come un’impresa necessaria e urgente, tanto piú che l’aggredito, l’imperatore Hailé Selassié, era, come precisa Petacco, soltanto «un ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista». Per giustificare, infine, le stragi, le deportazioni, l’impiego sistematico (e non soltanto «in situazioni particolari», come sostiene l’autore) degli aggressivi chimici, Petacco scrive: «È forse opportuno ricordare che, nella breve vita dell’impero italiano, ciò che fu fatto, di bene e di male, accadeva o era accaduto anche negli altri imperi coloniali. Di conseguenza, prima di esprimere frettolosi giudizi radicali sulle nostre responsabilità, non si deve dimenticare qual era la morale del tempo».
L’IDEOLOGIA DI VESPA
(...) Questa produzione di libri-strenna, in cofanetto o riccamente rilegati, è stata inaugurata da Indro Montanelli già negli anni Sessanta, e ha oggi come assidui cultori Bruno Vespa e Giampaolo Pansa. Denunciando la «penosa inconsistenza storiografica e l’insidiosa valenza ideologica» di Vincitori e vinti, di Bruno Vespa, Sergio Luzzatto ne delinea il meccanismo arbitrario: «La guerra di liberazione come una carneficina altrettanto sanguinolenta che gratuita; gli eccidi perpetrati dai neri ampiamente compensati da quelli perpetrati dai rossi (...)». «Quanto agli storici di mestiere» continua Luzzatto «pochi fra loro avranno il coraggio di prendere in mano Vincitori e vinti e di guardarci dentro, magari per riflettere intorno ai guasti morali e civili di una storia raccontata da dilettanti».
Il caso di Giampaolo Pansa è molto piú grave. Allievo di Guido Quazza, che lo «guida sino alla laurea con sollecitudine affettuosa» e gli fa pubblicare la tesi, Guerra partigiana fra Genova e il Po, da Laterza, il giovane studioso monferrino si innamora del filone resistenziale e dà alle stampe alcuni libri di notevole spessore, come L’esercito di Salò, per il quale utilizza per la prima volta i notiziari quotidiani della Guardia Nazionale Repubblicana, o per i quali sfodera una pazienza certosina come quando compila La Resistenza in Piemonte, guida bibliografica 1943-1963 (...).
La sua adesione ai valori dell’antifascismo e della Resistenza è sincera e totale. Per Italo Pietra e il sottoscritto, entrambi partigiani, e rispettivamente direttore e redattore capo de Il Giorno di Milano, Pansa è il nostro fiore all’occhiello, al quale affidiamo le inchieste piú delicate e difficili. E quando ci lascia per andare a la Repubblica, attratto come altre grandi firme dalla ventata di novità del quotidiano romano, ne siamo veramente dispiaciuti. Ma anche per Pansa il distacco dal Giorno e dalla sua direzione non è indolore. Nel dedicarmi L’esercito di Salò scrive: «Ad Angelo Del Boca, con amicizia (e un po’ di rimpianto)». Egli non può dimentica-
re, infatti, le notti in redazione, le lunghe e appassionate conversazioni sui temi della Resistenza, lui infaticabile ricercatore e io testimone e protagonista di una guerra per la libertà e, nello stesso tempo, formidabile occasione per diventare uomo.
Che cosa accade nella sua psiche e per quale ragione, quando, di colpo, demolisce il patrimonio di valori, di certezze, di emozioni, accumulato in vent’anni, e passa dall’altra parte della barricata e con Il sangue dei vinti comincia a gettare fango, a piene mani, sull’antifascismo e la Resistenza? Egli sa benissimo, nel calcare la mano su certi lati oscuri della guerra di liberazione, di non rivelare nulla di nuovo, nulla di essenziale, nulla di indispensabile, perché lo hanno preceduto, sul piano narrativo, Fenoglio, Calvino e il sottoscritto, e, nell’ambito della ricerca scientifica, storici di professione come Claudio Pavone, Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi, Ermanno Gorrieri. Dunque Pansa sa benissimo, lui che ha compilato con amore e pazienza la Guida bibliografica della Resistenza in Piemonte, di non fare nulla di inedito e tantomeno di eroico nel dare la parola «a chi è stato costretto a tacere per anni dall’arroganza dei vincitori della guerra civile». E visto lo straordinario successo di vendita
de Il sangue dei vinti, ogni anno sforna un nuovo volume, piú o meno con gli stessi ingredienti, la stucchevole forma narrativa, le stesse storie che grondano sangue, con un crescendo di insulti per chi lo critica e lo rimprovera. Poco a poco Pansa si convince che la sua è un’autentica, benedetta missione, e quando Rizzoli gli chiede di scrivere un’autobiografia accetta senza indugi e la intitola Il revisionista. (...) Ma questo Pansa, che oggi si vanta di revisionare la storia a suo piacimento, per darla in pasto ai nostalgici del fascio e di Salò, è lo stesso Pansa che mi sedeva dinanzi, nel mio studio in via Fava, al Giorno, e visibilmente si emozionava nell’ascoltare storie sulla guerra di liberazione? È proprio lui? Conservo qualche dubbio.

l’Unità 20.10.09
Storia di quest’Italia volgare Dal Pnf alla videocrazia un saggio di Guido Crainz
Quando e come nasce l’Italia volgare di questi anni? Uno storico, Guido Crainz, ha scritto un saggio per capirlo. E individua un filo che unisce il fascismo, la partitocrazia, i «dorati» anni ‘80, la videocrazia.
di Riccardo De Gennaro


Lo scopo dichiarato dell’ultimo libro di Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica, (Donzelli, euro 16,50, pp. 239), è ambizioso e suggestivo. La domanda, in soldoni, è la seguente: quand’è che l’Italia ha cominciato a diventare un paese così volgare? La risposta non è semplice, la causa del mutamento non è una sola. Crainz delimita il campo d’azione. È convinto che la risposta non vada cercata nei pressi di Machiavelli e Guicciardini, né che si debbano scandagliare i fondali dell’unità d’Italia («continuità ingannevoli»). È sufficiente, a suo parere, risalire al crollo del fascismo e alla nascita della Repubblica, momento a partire dal quale si possono viceversa individuare «continuità intriganti». Ecco una prima pista: la «compenetrazione» tra partito e Stato nasce prima della democrazia, con il partito nazionale fascista. È difficile sostenere – scrive Crainz – che il suo carattere «onnivoro» sia scomparso senza lasciar tracce all’indomani della Liberazione. Al partito unico subentrano i partiti, alla dittatura la democrazia, ma la commistione tra partiti e Stato resta. Così come il medesimo codice penale, i medesimi questori, prefetti, magistrati e alti gradi dell’esercito.
L’occupazione dello Stato da parte dei partiti negli anni diventerà così opprimente, che si parlerà di «partitocrazia» e toccherà alla magistratura attivare la «valvola di sfogo» di Mani Pulite. Per evitare che il malato muoia sotto i ferri, il pool di Milano è tuttavia costretto a frenare l’utilizzo del bisturi, quasi a fermarlo. Di qui una seconda pista per rintracciare le radici della crisi morale di oggi: la mancanza di reale discontinuità tra Prima e Seconda Repubblica.
Con quell’elemento di novità: una mutazione antropologica orientata all’egoismo e alla volgarità. Perché?
Crainz passa in rassegna con particolare attenzione gli anni ‘80, l’epoca in cui politica e impegno cedono il passo al privato, al divertimento, al corpo, alla moda, complice una «falsa tolleranza edonistica», come aveva previsto Pasolini. Dal punto di vista culturale, non sono che una reazione agli eccessi ideologici e all’assemblearismo degli anni ‘70, un tentativo di liberazione individuale dalla cappa di piombo formatasi con lo stragismo di Stato e la lotta armata: «È un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato», diceva una canzonetta del 1983. Negli anni ‘80 si afferma quel «protagonismo senza qualità», che dura tuttora. Ammesso e non concesso che il ’68 in Italia sia durato un decennio, la sottocultura della tv commerciale dura da 25 anni almeno, come dimostra anche Videocracy.
DC SENZA ALTERNATIVA
Le responsabilità non sono solo della destra, ma anche della sinistra, il cui declino, secondo Crainz, ha inizio nel 1979: «Per la prima volta dopo il ‘48 il Pci perdeva consensi alle elezioni politiche, soprattutto tra i giovani che ne avevano garantito il successo». La causa principale del distacco? La scelta del «compromesso storico», che escludeva per la prima volta ogni ipotesi di alternativa politica alla Dc. Proprio in quel momento cominciarono «i sotterranei percorsi che porteranno alla tendenziale scomparsa della sinistra». Mollata la cima della questione morale, la nave Italia comincia ad affondare. Attraverso le testimonianze quotidiane soprattutto di due grandi giornalisti – Bocca e Scalfari – Crainz dimostra che da metà degli anni ‘70 la politica utilizza sempre di più la leva pubblica come strumento d’interesse privato. La cosa più grave è che manca ormai una cultura diffusa dell’onestà che faccia da contrappeso. Se Berlusconi cade poi si rialza. I suoi successi elettorali hanno molte spiegazioni, non ultima quella della rapida diffusione di una «corruzione inconsapevole», come dice Saviano.

l’Unità 20.10.09
La Carta vince sempre
di Giancarlo De Cataldo


In tutte le democrazie c’è una legge-cardine, la Costituzione. Ad essa devono armonizzarsi tutte le altre leggi. Ma può accadere che il Parlamento adotti leggi contrarie alla Costituzione. Tutte le democrazie prevedono adeguati rimedi. Il fatto è che nessuna democrazia tollera la coesistenza di una Costituzione e di leggi che ne tradiscano la lettera e, soprattutto, lo spirito. Perché delle due l’una: o le leggi incostituzionali vengono spazzate via, o la Costituzione perde senso. Le strade che si possono seguire per evitare che il Parlamento legiferi contro la Costituzione sono di due tipi: un filtro preventivo che impedisca l’approvazione di leggi incostituzionali o la loro rimozione, in un momento successivo, attraverso l’intervento di un “giudice della costituzionalità delle leggi”. L’Italia in un’assemblea costituente nella quale erano rappresentate tutte le forze politiche e sociali del tempo, dalla Destra ai comunisti, passando per i liberali e la maggioranza cattolica adottò questa seconda soluzione. L’intervento preventivo rimesso al Presidente della Repubblica e alla Camera è limitato a una prima valutazione dei potenziali aspetti di contrasto con la Costituzione, ma i risvolti tecnici più complessi, sono delegati alla Corte Costituzionale: il “giudice delle leggi” al quale spetta l’ultima parola. È un sistema che il pensiero autodefinitosi “liberal-democratico”, ma che in realtà ha in mente un modello pre-repubblicano, critica da almeno quarant’anni, non foss’altro perché consente a ogni singolo giudice, d’ufficio o se investito della questione da una parte processuale, di attivare la Corte. Il sistema si può anche cambiare a colpi di maggioranza, ma la questione di fondo resta comunque ineludibile: finché si vareranno leggi contrarie alla Costituzione, qualcuno dovrà porvi rimedio.

Repubblica 20.10.09
I padri costituenti e la difesa della arta
di Nadia Urbinati


Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all´allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell´Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell´oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un´esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell´Assemblea costitutiva della nostra democrazia.
Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un´identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell´opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione – proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C´è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell´attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell´equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell´esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa». La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l´autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell´Articolo 50) non passò l´esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall´attenzione dell´Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.

Repubblica 20.10.09
La Corte: "Il premier non è al di sopra dei ministri"


ROMA - «Il presidente del Consiglio è primus inter pares». È una delle frasi contenute nelle 58 pagine di motivazioni che ieri, dodici giorni dopo la bocciatura del Lodo Alfano, la Corte Costituzionale ha reso note in tarda serata. La Consulta spiega che «il premier non è al di sopra dei ministri» e che per derogare dall´articolo 3 della Costituzione («la legge è uguale per tutti») è necessario servirsi di una legge costituzionale. Inoltre i giudici della Suprema Corte sottolineano che non c´è stata alcuna «discontinuità» tra la bocciatura del Lodo Alfano e quella del Lodo Schifani nel 2004: allora il problema della legge costituzionale fu ritenuto «assorbito» dalle altre questioni. Intanto, il deputato del Pdl Giuseppe Valentino ha proposto una legge per il ripristino dell´immunità parlamentare.

La Corte Costituzionale: bocciatura per aver attribuito alle quattro alte cariche dello Stato una prerogativa che viola il principio di uguaglianza
"Chiesto uno status protettivo eccezionale ma il premier non è al di sopra dei ministri"
Nella sentenza del 2004 "assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale"
La Consulta ha accolto in pieno il ricorso presentato dalla procura di Milano

ROMA - Una bocciatura senza appello. Per non aver usato una legge costituzionale e per aver attribuito alle quattro alte cariche dello Stato una prerogativa che viola il principio di uguaglianza. Un invito a utilizzare le leggi che già esistono, come le norme sul legittimo impedimento.
La sentenza del 2004. Gli alti giudici respingono al mittente (cioè al premier) l´accusa di aver preso una decisione diversa da quella del gennaio 2004 quando non si pronunciarono sulla necessità di una legge costituzionale. E lo spiegano così: «La Corte allora ha privilegiato l´esame dei fondamentali profili di uguaglianza e ragionevolezza e ha dichiarato "assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale", lasciando impregiudicata la questione dell´articolo 138», cioè proprio la necessità di una legge costituzionale.
Legge costituzionale. Scrive la Corte: «Il lodo Alfano attribuisce ai titolari delle quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale». È il primo colpo alla legge approvata il 23 luglio dell´anno scorso e fatta su misura per tutelare Berlusconi e congelare i suoi processi milanesi, Mills e diritti tv. La Consulta accoglie in pieno il ricorso presentato dalla procura di Milano e caldeggiato dall´avvocato Alessandro Pace. E spiega l´impossibilità di ricorrere a una legge ordinaria, come quella utilizzata per il lodo: «Il legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato».
Il confronto con le altre immunità. La Corte cita i tre casi in cui la stessa Costituzione prevede un trattamento diverso per i parlamentari con l´articolo 68 sull´insindacabilità, il 90 sull´irresponsabilità del presidente della Repubblica, il 96 per i reati ministeriali. E precisa: «Le suddette prerogative sono sistematicamente regolate con norme di rango costituzionale».
Violato il principio di uguaglianza. Come aveva già scritto nella sentenza del gennaio 2004 sul lodo Schifani il nuovo lodo Alfano non rispetta il principio di uguaglianza per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Spiegano i giudici: «La legge sul lodo è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un´evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione.
Premier è primus inter pares. L´aveva sostenuto Gaetano Pecorella, uno dei tre avvocati di Berlusconi, durante l´udienza pubblica, «Berlusconi non è come tutti gli altri ministri, ha più impegni e compiti, quindi ha diritto a maggiori prerogative». La Corte non la pensa così «perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del governo, ma si limita a mantenerne l´unità, promuovendo e coordinando l´attività dei ministri, e ricopre perciò una posizione tradizionalmente definita di "primus inter pares"». Il lodo dunque avrebbe dovuto essere allargato anche a tutti i singoli ministri.
Lodo per tutti i parlamentari. La stessa annotazione vale anche per i singoli deputati e senatori. Tant´è che la Corte così annota: «Non è configurabile una significativa preminenza dei presidenti delle Camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano all´esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della nazione e, in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell´articolo 68 della Costituzione», cioè quello che concede soltanto l´insindacabilità e la richiesta di un´autorizzazione per arresto e per l´uso delle intercettazioni.
Il legittimo impedimento. È il capitolo più delicato perché d´immediata attualità visto che Berlusconi, forse con un decreto legge, ne vuole ampliare l´applicazione. Secondo la Consulta esso «ha già rilevanza nel processo penale» e quindi non è necessario un lodo Alfano per bloccare i processi delle alte cariche.
(l.mi.)

Repubblica 20.10.09
Dyson: Siate eretici come Newton
di Piergiorgio Odifreddi


L´ultimo libro del matematico ottantacinquenne raccoglie i suoi contributi per la "New York Review of Books"
"Uno degli esempi da seguire è Feynman: l´ho amato sfiorando l´idolatria"
"Non si può essere complici del potere, la nostra ricerca deve servire ad aiutare i poveri"

Ogni secolo può vantare solo una manciata di persone come Freeman Dyson, dotate di un´intelligenza luciferina, una cultura enciclopedica, uno stile magistrale e un carattere provocatorio. Una combinazione esplosiva, che può portare la stessa persona a vincere nel 2000 il premio Templeton per i legami fra scienza e religione, nel 1996 il premio Thomas Lewis per lo scienziato-poeta, nel 1981 il premio Wolf per la fisica, e a mancare nel 1965 il premio Nobel per la stessa materia soltanto perché lo si assegna al massimo a tre persone: lo presero dunque Richard Feynman, Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga ma non lui, che a soli ventisei anni aveva dimostrato la cosiddetta quantoelettrodinamica o QED.
Queste onorificenze potrebbero far pensare che Dyson sia un teologo, un letterato o un fisico in libera uscita nelle altre due discipline, e invece è un matematico: molto eclettico, naturalmente, all´insegna del motto di Terenzio humani nihil a me alienum, «nulla di umano mi è alieno». E questo eclettismo gli ha permesso di pubblicare libri meravigliosi, in ciascuno dei quali risplendono appunto l´intelligenza, la cultura, lo stile e il carattere: dalle discussioni sugli armamenti di Armi e speranza (Bollati Boringhieri, 1984) alle teorie biologiche delle Origini della vita (Bollati Boringhieri, 1987), dalle visioni futuriste di Infinito in ogni direzione (Rizzoli, 1989) alle pagine autobiografiche di Turbare l´universo (Bollati Boringhieri, 1999).
Lo scienziato come ribelle (Longanesi, pagg. 304, euro 20) è il suo ultimo libro: non solo nel senso che è stato appena pubblicato, ma anche, e purtroppo, perché l´ottantacinquenne Dyson ha dichiarato che non ne pubblicherà più altri. Ed è uno dei suoi più vari e affascinanti, in quanto raccoglie gli originali contributi per la New York Review of Books.
Il titolo, ammicchevolmente autoreferenziale, descrive il credo di Dyson nei confronti della scienza e degli scienziati: secondo lui, ciò che definisce l´una e accomuna gli altri è «la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura localmente dominante, occidentale o orientale che sia». Naturalmente molti scienziati, per non dire la maggioranza di essi, accettano di «servire il popolo», o di asservirsi ad esso, ma questo libro non si cura di loro. Gli eroi di Dyson sono altri, dal professore immaginario del film L´attimo fuggente, che si scontra coi piani di studi e il preside della scuola, al reale Lord James di Rusholme, dal quale l´autore da giovane imparò che «non c´è contraddizione fra uno spirito ribelle e un inflessibile perseguimento dell´eccellenza in una disciplina intellettuale rigorosa»: in altre parole, e checché ne pensino i dandy del pensiero, la ribellione intellettuale e la competenza professionale possono benissimo andare d´accordo.
Come si può dunque immaginare, gli schizzi biografici del libro si disinteressano degli scienziati che si sono piegati al potere religioso o politico, come il nolente Galileo o il volente John von Neumann, e si interessano invece delle personalità che hanno preferito l´eresia all´abiura, come Isaac Newton, o il pacifismo al collaborazionismo, come Norbert Wiener. Ma in alcuni schizzi Dyson non disdegna di affrontare la complessità umana di colleghi ambigui come Robert Oppenheimer o Edward Teller, che avendo conosciuto bene di persona è in grado di tratteggiare nei colori della biografia, e non solo nel bianco e nero della mitologia.
Il ribelle dei ribelli, al quale va il tributo più emotivo e personale, è però sicuramente Richard Feynman, che il giovane Dyson descrisse ai genitori in una lettera come «mezzo genio e mezzo buffone», e che l´anziano Dyson definisce nel capitolo «Un uomo saggio» (purtroppo cassato dall´edizione italiana, insieme a una mezza dozzina d´altri) come «una volpe», da contrapporre a «un istrice» alla Albert Einstein: nel senso che «le volpi conoscono molti trucchi e gli istrici uno solo, le volpi sono interessate a tutto e gli istrici a poche cose, le volpi corrono in superficie e gli istrici scavano in profondità».
Il Novecento ha visto molti scienziati geniali, ma solo Einstein e Feynman (e forse Stephen Hawking) sono diventati icone pubbliche: secondo Dyson, perché «per diventare un´icona non basta che uno scienziato sia un genio, deve anche essere un attore capace di lavorarsi il pubblico, di godere del suo tributo e di annullare la barriera che separa un genio dalla gente comune». Ma un´icona deve anche saper trasmettere saggezza, e Dyson ritrova quella di Feynman in due libri: Il senso delle cose (Adelphi, 1999), che recensisce, e Il piacere di scoprire (Adelphi, 2002), nella prefazione per il quale confessa di «aver amato quell´uomo sfiorando l´idolatria».
Nel primo dei due libri Feynman vede, molto apertamente, «un conflitto tra la religione che impone agli studenti di credere senza discutere e l´etica della scienza che impone di mettere tutto in discussione», e ritiene che l´unica soluzione per la coesistenza pacifica sia una religione vaga e senza dogmi precisi: cioè, l´esatto contrario del cattolicesimo. L´argomento è centrale anche per Dyson, egli concorda con l´affermazione del premio Nobel Steven Weinberg, che «i buoni fanno il bene e i cattivi il male, ma per far fare il male ai buoni ci vuole la religione», aggiungendo però che anche «per far fare il bene ai cattivi ci vuole la religione». La sua opinione sul conflitto tra scienza e religione è netta: «La scienza tratta di cose, la teologia di parole. E le cose si comportano nello stesso modo dovunque, ma le parole no». Quanto ai miracoli, dimostra facilmente la cosiddetta legge di Littlewood: che se definiamo come miracoloso un evento significativo che accade con frequenza inferiore a uno su un milione, allora a ogni persona normale accadono miracoli al ritmo di uno al mese (come paragone, secondo la Chiesa a Lourdes ne sono accaduti meno di uno ogni due anni).
Gli argomenti ai quali abbiamo accennato, cioè la storia scientifica e la religione, non esauriscono comunque che una metà di questo libro così denso. Un altro quarto è dedicato ai problemi di «guerra e pace»: questa è la parte (dimezzata) che ha più sofferto dei tagli editoriali dell´edizione italiana, ma è anche quella meno nuova, perché salva il salvabile di Armi e speranza, ristampando i pochi capitoli non resi obsoleti dal crollo dell´Unione Sovietica.
Sparse nel rimanente quarto del libro sono infine alcune delle pagine più stimolanti, in cui Dyson ci offre il meglio delle sue conoscenze non convenzionali e delle sue idee avveniristiche. Ad esempio, quando ci fa sapere di una lettera di Newton recentemente ritrovata, che mostra il suo influsso sul pensiero politico (!) di Locke. O dell´altrettanto recente scoperta che nel Cambriano, quando ci fu l´omonima esplosione di forme viventi, l´asse di rotazione terrestre subì una rotazione di novanta gradi che scambiò l´equatore con un meridiano. O quando sogna che l´ingegneria genetica riuscirà a produrre organismi artificiali in grado di fornirci materie prime ed eliminare i rifiuti, quali ostriche in grado di secernere perle d´oro estratto dall´acqua di mare o animali progettati per digerire automobili usate. O che la vita nello spazio passerà da una cometa all´altra, finché avremo reso verde l´intera galassia con alberi riprogrammati per crescere senza atmosfera.
Lo scienziato come ribelle contiene molti altri argomenti affascinanti e molte altre pagine memorabili, ma soprattutto costituisce l´appassionata perorazione etica di uno dei grandi scienziati e dei grandi ribelli del Novecento, che ha il coraggio di osservare che «il mercato giudica le tecnologie in base alla loro efficacia nel raggiungere lo scopo che si sono prefisse, ma il vero problema è chiedersi se tale scopo è degno di essere raggiunto», e il coraggio di affermare che «la scienza è malvagia quando produce giocattoli per i ricchi, ed è buona quando supplisce alle necessità dei poveri». Godiamo dunque della sua brillante intelligenza, impariamo dalle sue profonde conoscenze, apprezziamo le sue eloquenti parole, e accettiamo le sue stimolanti provocazioni: non ci sono molte menti come la sua, né molti libri come questo.

Repubblica 20.10.09
Marc Augé "Così la storia viene abolita"
di Michele Smargiassi


Nel suo ultimo libro l´antropologo francese spiega i pericoli di un mondo da cui viene espulsa qualsiasi narrazione distruggendo il senso degli avvenimenti
Viviamo un tempo chiuso, orfano delle lezioni del passato e delle speranze dell´avvenire
I migranti espropriati della propria identità si devono riappropriare dei miti dell´origine

Ogni impero sogna di abolire la storia. Saper fermare il tempo è la prova d´esame del potere assoluto: riuscire a cancellare assieme il rimpianto del passato e la speranza del futuro è la sua garanzia di perennità. Così ogni dittatura sul presente inaugura, inevitabilmente, una dittatura del presente. Ed è questa "presentizzazione" assoluta la minaccia che Marc Augé intravede dietro la maschera ottimista della globalizzazione e la sua eccitante coalescenza di tempi e di spazi. Un destino che l´"etnologo nel metrò" paventa e denuncia in questo suo ultimo Che fine ha fatto il futuro? (Elèuthera, 110 pagine, 12 euro; ma il calembour del titolo originale, Où est passé l´avenir?, allude anche alla scomparsa del passato).
Già da questi accenni si dovrebbe capire che nonostante la sua mole esigua non si tratta di un libro semplice. Va letto tutto con attenzione, tranne il sottotitolo inventato dall´editore italiano, Dai nonluoghi al nontempo, infondato (nel testo la parola nontempo non compare neppure una volta) e anzi dannoso perché accetta di ridurre una definizione seriamente fondata - nonluoghi - il cui travolgente successo ha rischiato di sommergerne la genialità, a una formula rivendibile all´infinito sotto copertine sempre nuove. Non è così, per nostra fortuna.
Che fine ha fatto il futuro? è un libro intenso, percorso da tensione etica e anche politica, che forse deluderà chi si è fatto di Augé l´immagine semplificata di un antropologo del quotidiano alla divertita esplorazione di metropolitane, aeroporti e parchi gioco.
Che fine ha fatto il futuro? è invece un testo dall´orizzonte filosofico, ed è forse quello in cui Augé prende più nettamente le distanze dall´interpretazione postmodernista della contemporaneità, di cui pure condivide il presupposto, ovvero che là dove la modernità aveva distrutto ogni mito delle origini, la postmodernità ha distrutto anche ogni utopia avvenirista.
Ma nel suo entusiasmo per la presunta libertà che la «fine delle narrazioni» ci donerebbe, il postmodernismo sembra ad Augé «la versione cool ed ecologista della "fine della storia"». Alla postmodernità ottimista Augé contrappone la preoccupata visione di quella che chiama, non da oggi, surmodernità, frutto del collasso dello spazio e dell´accelerazione del tempo in un pianeta sovracomunicante. Questo presente orfano delle lezioni del passato e delle speranze nel futuro, insomma, non gli appare affatto più leggero di prima, ma più denso, claustrofobico, saturo fino alla nausea dei surrogati della storia perduta: le immagini rese ubique da Internet, le rovine (che dissociano il senso del tempo dal suo scorrere), il turismo che unifica geografia e cronologia riducendo entrambe a spettacolo.
Questo presente è prepotente ma fragile, oppresso com´è da ansie e paure. La prima e più terrificante delle quali, ovviamente, è la resurrezione di ciò che si è cercato di abolire: la storia.
Ogni società dominata dal presente teme l´evento come la peste. Lo esorcizza fin che può, sciogliendolo nelle spiegazioni di lungo periodo, negandone l´unicità e la rilevanza. Quando non può, perché l´evento è troppo poderoso, allora il potere cambia strategia: per reagire all´insopprimibile eventualità dell´11 settembre George W. Bush resuscitò un cadavere sepolto da oltre sessant´anni, la dichiarazione di guerra (al Terrore), che è sempre stata la regina della storia évenémentielle, ma ora diventa il suo opposto, il ritorno alla rassicurante continuità (era una guerra enduring, perenne), evento che nega l´evento e promette di risolverlo e annullarlo.
Ma proprio per questo la sfida si fa più dura e rischiosa. I frammenti di genere umano espropriati dalla storia, gli esiliati e i migranti costretti ad abbandonare la propria identità in un passato che viene ora dichiarato estinto, per rifondersi in identità straniere il cui futuro è programmaticamente bloccato, non hanno altra speranza di rivalsa se non riappropriarsi dei miti dell´origine come arma, e dei miti del futuro come programma d´azione, facendo ripartire la storia a colpi di eventi che non si possano sterilizzare, dunque sempre più violenti ed evidenti.
Augé, che resta un umanista, cerca di chiudere il libro su una nota di volonteroso illuminismo, immaginando «le condizioni di un´utopia dell´educazione» che disinneschino la bomba. Purtroppo, ben più realistica suona la sua profezia di poche pagine prima su ciò che sta maturando ai margini della surmodernità: «Se ciò da cui sono esclusi è la storia, non bisogna stupirsi se il rischio di vederli rientrare nella storia per le vie più pericolose e folli non è lontano».

Repubblica 20.10.09
Veterana debuttante
"La mia eroina contro tutte le censure"
Presenta per la prima volta il suo lavoro sulla poetessa del Trecento
L’attrice diventa regista con il film "Christine Cristina"
di Natalia Aspesi


ROMA. Alla manifestazione romana per la libertà di stampa Stefania Sandrelli c´era, in mezzo a migliaia di persone. «È stata una conquista così dura e difficile, in passato, che bisogna difenderla a tutti i costi». Christine de Pisan, colta poetessa e filosofa medioevale, di nascita veneziana e di vita parigina, l´ha conquistata per questo: «perchè si oppose ad ogni censura sul suo pensiero e i suoi scritti, in tempi in cui per questo si rischiava la vita. Non smise mai di esprimere le sue idee allora rivoluzionarie e blasfeme sulla dura e ingiusta condizione femminile. In un´epoca di analfabetismo diffuso e in cui ancora non esisteva la stampa, scrisse migliaia di versi, decine di libri, dalla ‘Ballata delle vedove´ al ‘Libro della Pace´, al ‘Libro dei fatti d´armi e dei cavalieri´».
Le ha dedicato un film, il suo primo film da regista, ed è ovvio che non si sia trovato di meglio da chiederle che «Come mai?». Come mai una bella signora che ha attraversato con grande successo quasi cinquant´anni di cinema e trenta di televisione, con la sua bellezza carnale, l´ironia gentile, l´apparente sventatezza, il talento leggero, accanto a grandi attori, con grandi registi, commedie, tragedie, film storici e film erotici, abbia deciso di affrontare la sua prima regia per raccontare di un personaggio medioevale, oggi sconosciuto ai più e per di più intellettuale? «Mi piaceva nelle miniature che la ritraggono, la sua figurina eterea, vestita di azzurro, con quei copricapi a cono che noi attribuiamo alle fate, mentre scrive, o suona, o con altre dame fa il muratore per costruire la sua utopica ‘Città delle dame´ abitata solo da donne. Ho sentito quel legame che unisce le donne alla loro storia, mi ha incantato sapere del suo coraggio e della sua forza, mi hanno commosso i suoi versi: ‘Sono sola e sola voglia rimanere, sono sola, mi ha lasciato il dolce amico…». Di questo suo Christine, Cristina, fuori concorso al Festival di Roma, la Sandrelli parla quasi umilmente: «è un piccolo film, con una piccola storia, anche se il personaggio è grande, anche se raccontarla consente di ricordare come la libertà di parola, delle idee, sia sempre in pericolo, anche oggi: lo fu anche per Christine, che era in odore di stregoneria per aver osato contestare la misoginia dell´epoca. Nei suoi scritti incoraggia i principi ad aiutare le vedove, e lei stessa lo era con tre figli da mantenere, condanna chi usando l´amore inganna e diffama le donne, e incoraggia le stesse ad osare, ad uscire dalla prigione della domesticità».
Cosa inaudita, dava la parola alle donne, in anni (è vissuta tra il 1362 e il 1431) in cui per questo si poteva finire sul rogo. Cristina aveva vissuto con il padre, medico e astrologo, nella ricchezza e cultura della corte di re Carlo V di Francia. Sposata a 15 anni, a 25 anni era vedova, orfana e con tre figli, e il nuovo re, Carlo VI il pazzo, la allontanò dal palazzo, poverissima. «Il mio film comincia qui, quando Cristina inizia la sua vita di donna che deve mantenere sé e i suoi figli, e lo fa, cosa eccezionale per l´epoca, con la scrittura: tra l´altro lei fu la sola persona a scrivere un poema su Giovanna d´Arco mentre la Pulzella era ancora in vita». Amanda Sandrelli, con la sua altera semplicità, è perfetta per il ruolo di Christine, si adombra una certo casta passione per lei da parte di Alessio Boni nel saio di Jean de Gerson, che in realtà era un intransigente teologo che condannava a morte i sospettati di eresie. Alessandro Haber è un poeta popolare che andrà al patibolo per i suoi versi e non manca naturalmente la furba e spietata Chiesa ufficiale rappresentata da Roberto Herlitzka, che teme ed ammira la poetessa guastafeste. Negli anni ‘70 il femminismo fece di Chirstine de Pisan una delle tante star della muta storia delle donne: e non è certo un caso che Stefania Sandrelli ce la racconti con tanta passione e intelligenza, in tempi in cui alle donne si torna a chiedere di non pensare, non dare fastidio, stare al loro posto, zitte e sorridenti.

Liberazione 18.10.09
«Contro Berlusconi e la crisi
l'opposizione si manifesti»
intervista a Paolo Ferrero di Checchino Antonini


Di assalti e vie d'uscita. Assalti alla Costituzione, alla Fiom, alle pensioni, alla Giustizia. La crisi, vista da questo scorcio d'autunno, appare a Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, come «l'incrocio di due questioni: la pesantezza della situazione economica, una vera crisi di sistema, e il tentativo di Berlusconi di uscire dal quadro democratico sancito dalla Costituzione. Insomma, non esiste alcun "new deal" all'orizzonte, nessuna idea di qualificazione del modello di sviluppo e di innalzamento dei salari. La risposta del governo alla crisi è fatta di aumento della precarietà, bassi salari, ricatto del lavoro nero e uso dello Stato per fare soldi. Penso alle grandi opere, alle privatizzazioni delle municipalizzate. Nel 1929 negli Usa si rispose col new deal, il nuovo corso, mentre i fascismi in Europa attuarono politiche di compressione dei salari e della democrazia, degli spazi del sindacato. Anche oggi governo e confindustria spingono verso l'impoverimento del Paese. Di questo sfondamento complessivo ci parla l'attacco alla Fiom. Poi c'è la tendenza del berlusconismo di chiudere definitivamente il secondo dopoguerra. A destra, per la prima volta, è chiara un'ipotesi politica eversiva per cambiare tutto dopo un lungo lavoro di revisionismo. Quello che arriva oggi è, concretamente, il piano della P2. La Seconda Repubblica è stata solo una transizione, qui c'è l'idea di un cambio di regime».

Una tendenza di cui fa parte anche Fini?
Fini è oggi la destra che vuole stare dentro il quadro costituzionale.

E Berlusconi?
Quello di Berlusconi è un piano eversivo in cui si intrecciano gli attacchi alla Costituzione e al sindacato di classe e alla contrattazione collettiva. I due processi si incrociano e si sostengono a vicenda. Infatti, se impoverisci il Paese è difficile pensare di governarlo in forme democratiche. L'obiettivo è quello di una gestione autoritaria della frantumazione sociale, dell'imbarbarimento che produce. Razzismo e omofobia servono a creare una cultura a supporto della gestione autoritaria. E il mito della delega plebiscitaria serve a ricomporre quello che il razzismo ha disgregato. Lo diceva Louis Althusser, l'ideologia è uno dei livelli in cui si esercitano i conflitti, ed in particolare il conflitto di classe, è forza materiale, cambia le cose. E la destra berlusconiana ha un programma sociale, uno politico e un'ideologia forte.

Eppure la bocciatura del lodo Alfano sembrava aver inceppato il cammino del premier.
Invece, proprio come la crisi, lo obbliga a un'accelerazione, a una radicalizzazione a destra, perché ora, per tutelarsi, deve smontare un intero sistema. E' quello che succede con lo scarso consenso per la missione in Afghanistan che li obbliga ad accentuare i toni dello scontro di civiltà, lì con le armi, qui con le leggi sull'immigrazione. Il punto di cemento di quel blocco sono gli interessi di Berlusconi sulla giustizia e quelli della Lega sul federalismo. Fini, per ora, non sembra in grado di fare la differenza.

Ma è un quadro che può saltare?
Solo se ci sarà un'iniziativa sociale e politica molto forte. Berlusconi, infatti, regge benissimo la polemica con Franceschini e Di Pietro perché gli sono speculari. E regge benissimo gli attacchi di Repubblica . Altra cosa è la contraddizione sociale, la costruzione certosina di movimento, nelle scuole, in fabbrica, tra i precari. Quello gli fa male. Berlusconi ha smesso di fare i bagni di folla da Viareggio, da quando prende fischi. Se il popolo lo fischia il suo progetto populista non funziona. Il conflitto è il vero meccanismo di rottura dell'agenda politica. Come alla Innse, come stanotte all'Agc di Cuneo: la lotta paga ma ancora manca un'iniziativa generale, che metta assieme la forza. Occorre stimolare e curare la nascita e lo sviluppo di lotte specifiche, di resistenza, da cui partire per costruire un movimento generale su democrazia e uscita dalla crisi. La Fiom sta facendo cose egregie, il nostro appoggio è totale. Ma insisto col dire che la Cgil manca di iniziativa: non basta una manifestazione, occorre costruire una vertenza generale, come fu il "piano del lavoro" di Di Vittorio, perché la crisi non la paghino solo i lavoratori. Serve discontinuità rispetto alle logiche difensive. E c'è un deficit totale dell'opposizione parlamentare. Pd e Idv non sono portatori di un disegno alternativo a quello di Confindustria.

Eppure si fa un gran parlare della svolta "operaista" di Di Pietro.
Di Pietro riesce a stare dalla parte dei lavoratori senza essere contro i padroni. Anche la sua è una forma populista.

Insomma, una certa disponibilità al conflitto esiste. Il Prc è stato tra i metalmeccanici, con i precari della scuola, sui tetti, tra i migranti contro il razzismo, con il mondo glbtq. Cosa propone però Rifondazione a proposito del salto di qualità che evocavi?
Propongo a tutte le forze dell'opposizione una manifestazione che dica "Via Berlusconi, democrazia nel Paese e nei luoghi di lavoro, giustizia sociale". E' una proposta che serve a "stanare" i partiti, per organizzare una massa critica, e fuoriuscire dal battibecco perdente con Berlusconi. Questione sociale e questione democratica non possono essere separate e non deve passare l'idea che quella sociale sia un sottoinsieme della questione democratica. Più è forte l'attacco sulle questioni di vita, più i ceti popolari - senza un'organizzazione collettiva - diventano massa di manovra per un'ipotesi populista su cui s'è costruito un immaginario preciso. Basta discutere di escort, stiamo lavorando per costruire le condizioni di una larga mobilitazione unitaria.

Tra le urgenze c'è anche quella di una fuoriuscita dal bipolarismo. Su questo esiste una interlocuzione con settori del Pd?
Certo, ma di questo è bene parlarne dopo il 25. La proposta che avanziamo è di separare il problema della sconfitta delle destre da quello del governo del Paese. Noi dobbiamo battere Berlusconi, che per smontare la democrazia, il sindacato e i diritti produce razzismo, omofobia, un Paese dove la gente si odia, una guerra civile strisciante in cui hanno sdoganato il peggio del "cattivismo". Però sappiamo che il centrosinistra non è autonomo dal progetto di Confindustria e quindi non si può governare con loro. Sconfiggere il bipolarismo vuol dire operare per la sconfitta di Berlusconi senza farsi arruolare per governare con Casini. Per questo proponiamo un accordo per battere Berlusconi, finalizzato ad una legge elettorale proporzionale e sul conflitto di interesse, senza un accordo di governo. Abbiamo bisogno che l'antiberlusconismo non si arruoli nel "partito di Repubblica".

Tutto ciò non può succedere senza Rifondazione e una sinistra d'alternativa.
Bisogna dire che ha funzionato il nostro lavoro "in basso a sinistra": il partito sociale, le brigate di solidarietà, il mutualismo, l'internità ai movimenti, da L'Aquila a Ponteranica fino al corteo di oggi, passando per i tetti delle fabbriche in crisi. Ora è il momento della Federazione della sinistra d'alternativa. Dallo scioglimento del Pci la nostra è una storia di scissioni, dai comunisti democratici del '94 fino ai verdi ieri. Tutto ciò ha minato radicalmente la nostra credibilità. La Federazione, al contrario, apre un processo di aggregazione. Sarà decisivo che non sia la costituzione di un partito, come Sinistra e libertà che, mettendo assieme tutti, liberisti e antiliberisti, comunisti e anticomunisti, senza un'ipotesi forte, finora ha prodotto solo scissioni. Ha spaccato noi, i verdi, i socialisti. La Federazione vuol dire che ti metti d'accordo sull'essenziale, sulla costituzione di una forza di alternativa strategica alle socialdemocrazie, autonoma dal Pd. Che non vuol dire che non puoi mai fare accordi ma che sei tu a stabilirne le condizioni, che non sei la sinistra del Pd. La Federazione sarà una forza anticapitalista, femminista, ecologista in continuità con la storia della sinistra di questo Paese. E' il contrario dell'impostazione occhettiana. L'idea che bisogna distruggere per ricostruire è nichlista. Il progetto di SeL, mi pare che mostri elementi di crisi. Noi gli proponiamo, come anche ai compagni di Sinistra critica e del Pcl, la Federazione come spazio pubblico della sinistra d'alternativa, autonomo dalla socialdemocrazia come la Linke.

Ma se non è un partito, che cos'è?
Una Federazione di partiti, organizzazioni, comitati, singole persone. Guardiamo all'America Latina: Rifondazione Comunista resta ma in un contesto di relazioni stabili, nella federazione. Lì sono nati, e hanno vinto, fori sociali, fronti uniti dove coesistono tendenze diverse. Alla fine di novembre ci sarà l'assemblea che darà vita al processo costituente della Federazione, sarà aperta alle associazioni, ai territori, ad altri soggetti. I soci fondatori (Prc, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro/solidarietà) non ne definiscono il perimetro, sono solo quelle che innestano un processo che deve incrociare le reti di movimento e dell'associazionismo che sono più ampie delle forze organizzate dei partiti. Sarà un processo aperto e che durerà un anno. Da gennaio, inoltre, uscirà la rivista "per la rifondazione comunista" e sarà diretta da Lidia Menapace. Servirà a contribuire a decolonizzare l'immaginario da Berlusconi, a dire che chi è ricco non ha ragione e chi è povero non ha colpa. E se lotta sta facendo la cosa giusta.

Intanto, però, in primavera ci saranno le regionali.
La crisi cambia tutto e mettiamo al centro del nostro progetto le politiche regionali per l'occupazione, il rilancio della sanità pubblica e l'ambiente, contro il nucleare. Il governo dirà solo dopo le elezioni dove intende costruire le nuove centrali per questo è necessario che le Regioni si dichiarino contrarie subito. Accanto a questo vi è la questione morale (con punti di degrado del centrosinistra che non sono più tollerabili) sia l'urgenza dell'ampliamento delle forme della democrazia, a livello regionale, contro il bipolarismo. Per quanto riguarda la presentazioni, a partire dalla lista unitaria delle europee proponiamo di lavorare per evitare la frantumazione della sinistra di alternativa. In questa situazione è decisivo che i voti di sinistra non vadano dispersi e si dia un segno di forza e di speranza.

Liberazione 18.10.09
L'assemblea "costitutiva", coi delegati provinciali, eleggerà il gruppo dirigente
Sinistra e Libertà: a dicembre nasce (quasi) il nuovo partito


Non è proprio quello che si auguravano i dirigenti del Movimento politico per la sinistra - il movimento che fa capo a Nichi Vendola, per capire - ma non è neanche lo "stallo" che auspicavano i socialisti

Non è proprio quello che si auguravano i dirigenti del Movimento politico per la sinistra - il movimento che fa capo a Nichi Vendola, per capire - ma non è neanche lo "stallo" che auspicavano i socialisti. Convinti che le decisioni si sarebbero dovute prendere dopo le elezioni regionali. Magari valutandone l'esito.
Così, dopo un tour de force durato quasi una settimana - dove si è sempre stati sull'orlo della rottura - ora le sorti di Sinistra e Libertà sono affidate all'assemblea "costitutiva" che si terrà a metà dicembre. Ma anche la definizione di quest'appuntamento è costato discussioni estenuanti, trattative lunghissime.
La vicenda è nota. Le forze e le associazioni che avevano dato vita alla lista elettorale - che sei mesi fa aveva raccolto un milione e trecentomila voti -, a settembre decisero un "percorso" che le avrebbe portate a sciogliersi e a dar vita ad un partito. Tappe lunghe ma dettagliate. Dando tempo a ciascuna formazione di svolgere i propri congressi.
Sembrava tutto deciso, quando invece - pochi giorni fa - alle assise dei verdi c'è stato un inaspettato cambio di maggioranza. Una delle componenti del Sole che ride - che rivendica la necessità di una presenza dei verdi autonoma, visibile e che non è disposta a rinunciare al proprio simbolo - ha presentato una mozione per sancire la fine dell'esperienza unitaria. E su questa ha raccolto il voto dei delegati.
A quel punto, dentro Sinistra e Libertà si è aperta una discussione: accelerare, con il gruppo dei vendoliani che ha spinto per dar vita ad un congresso vero e proprio entro la fine dell'anno, o lasciar perdere. Visto che anche l'adesione dei socialisti s'era fatta incerta.
Da qui, il confronto di queste ore. Teso, serrato. Alla fine la decisione. A dicembre ci sarà un'assemblea "costitutiva". Che non è un congresso ma ci assomigliamolto.
I delegati verranno scelti e votati provincia per provincia e saranno proporzionali ai voti ottenuti da Sinistra e Libertà alla sua unica apparizione elettorale. Questi delegati si riuniranno ed eleggeranno i gruppi dirigenti e il portavoce. Che, tutto fa capire, sarà Nichi Vendola. Contemporaneamente, si avvierà la raccolta delle adesioni e le formazioni cederanno il diritto di veto sull'uso del simbolo. Da dicembre, insomma, non saranno le segreterie dei gruppi a decidere come e se usare il logo di SeL ma saranno i nuovi gruppi dirigenti. Se non è un nuovo partito, poco ci manca.

lunedì 19 ottobre 2009

Repubblica 19.10.09
Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo
Grossman: "Così ho vinto la paura dell'altro"
Il mondo non è un nemico


Mi piace il cambiamento, il movimento rapido Viaggiare ti porta a vivere nuove realtà
Bisogna avere il coraggio di capire, bisogna non temere di andare nei posti più dolorosi

GERUSALEMME. David Grossman, la trama di A un cerbiatto somiglia il mio amore è incentrata su un viaggio in Galilea. In altri suoi lavori compare il tema del viaggio. Che cosa rappresenta per lei? È una fuga dalla realtà o un incerto percorso verso una migliore conoscenza dell´altro e di se stesso?
«Un viaggio non è mai una fuga, penso piuttosto che ti costringa ad affrontare nuove realtà, nuove persone, evochi nuovi elementi dentro di te. Mi piace il cambiamento, il movimento rapido. Il viaggiare è un continuo porsi delle domande, perché in un viaggio le condizioni cambiano ogni momento, non sei preparato. Ricordo quando camminavo in Galilea... Non avevo mai fatto prima una cosa del genere, camminare da solo, e per così grandi distanze. Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: il fatto stesso che fossi stato in grado di farlo, la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento a cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori... Tutte queste cose mi erano completamente nuove».
Quando lei dice che un viaggio non è mai una fuga è perché, in fondo, si parte sempre per ritornare?
«Forse all´inizio si tratta sì di una fuga da qualcosa, ma pensi al profeta Giona, nella Bibbia. Lui scappava, voleva scappare dalla profezia che Dio gli aveva imposto, ma immediatamente si è trovato in una situazione così diversa e così tanto più drammatica di quella da cui stava fuggendo. Sto pensando ad altri libri che ho scritto e che sono anche libri "che corrono". Il primo libro che ho pubblicato in ebraico si chiamava Ratz, L´uomo che corre, e in Vedi alla voce: amore vi è anche il viaggio dei salmoni nel mare. So di avere questa duplicità in me, perché di solito la mia esistenza è composta da situazioni molto "passive": posso stare seduto delle ore e scrivere, poi, all´improvviso sento la necessità di movimento, e il bisogno di uscire, di incontrare gente e di espormi al mondo».
È una necessità sia fisica che psicologica?
«Penso di sì, anche se la gran parte della mia ispirazione mi viene quando sono a casa, seduto nella mia stanza. Non so più dove l´ho letto, penso che sia stato Albert Camus, che una volta disse che se una persona fosse stata a contatto con il mondo per un giorno e poi in seguito fosse stato imprigionato per il resto della sua vita, avrebbe avuto comunque abbastanza materia da masticare, da digerire».
Esiste in letteratura un viaggio che le ha lasciato un segno?
«Non so. Da bambini, ovviamente, abbiamo tutti letto Jules Verne, ma da adulto... mi ricordo del libro di Xavier de Maistre, un savoiardo vissuto nel Regno di Sardegna nel XVIII secolo, che fu rinchiuso nella sua stanza per 42 giorni e scrisse un libro meraviglioso, intitolato Viaggio intorno alla mia camera. Se una persona è abbastanza aperta di mente, non ha bisogno di molte attrattive esterne. Posso pensare inoltre all´Odissea, al ritorno a casa, a Itaca. Mi chiedo quanto della cultura occidentale sia influenzata dalle storie di Agamennone e della Guerra di Troia, di Giasone e degli Argonauti, e ovviamente di Ulisse. Anche l´Ulisse di Joyce è un viaggio. E quanto gli scrittori abbiano viaggiato, fra l´altro molti di loro proprio in Italia. Sto pensando ai viaggi in Italia di Goethe, di Thomas Mann, di Virginia Wolf...».
È vero, l´Italia è uno dei paesi più visitati del mondo, ma Gerusalemme non è da meno.
«Sì, Gerusalemme è come una calamita. Vi sono diverse città nel mondo che sono come un magnete e penso che questi siano luoghi che, quando li visiti, ti cambiano qualcosa dall´interno. L´ho sentito quando sono stato a Praga, che qualcosa dentro di me era cambiato. E lo stesso mi è successo al Cairo».
In che senso, esattamente?
«Sono arrivato in un paese che era stato un nemico. Avevo preso parte alla guerra contro l´Egitto (Guerra del Kippur, ottobre 1973, ndr), e all´improvviso mi sono ritrovato in un paese di cui avevo solo una conoscenza superficiale e dei pregiudizi. E mi sono trovato all´improvviso a camminare per le strade, a guardare le facce della gente e vedere la quotidianità della loro vita, la loro normalità».
Che cosa l´ha impressionata, la folla del Cairo?
«La folla, questa enorme quantità di persone che si muove come un fiume, tutto il tempo, giorno e notte, e questa mistura tra una cultura molto antica, gloriosa con i suoi faraoni e le sue piramidi e la povertà di oggi. È stata un´emozione molto forte».
C´è un luogo dove non è stato e che vorrebbe vedere presto?
«Damasco è un posto del genere. Circa venti anni fa, quando fu pubblicato in inglese il mio libro Un popolo invisibile, mi telefonò il vice direttore del National Geografic e mi disse: "Abbiamo letto il suo libro e siamo pronti a mandarla dovunque lei voglia" e io risposi immediatamente: "A Damasco". Rimase sorpreso e mi chiese: "Perché Damasco?". Gli risposi: "Perché Damasco mi fa paura"».
Perché paura?
«Perché da quando sono nato sono stato programmato a vedere nei siriani i nostri nemici più feroci. Sapevo che se fossi andato in un posto da cui ero così terrorizzato e mi fossi concesso la possibilità di "essere là" completamente, di vedere la complessità della situazione, mi avrebbe spinto con forza a scrivere di tutto ciò, avrebbe creato in me qualcosa di nuovo. Normalmente, quando scrivo, "vado" in posti che mi spaventano, tocco sempre temi che mi sono difficili, minacciosi. In quasi tutti i miei libri da Vedi alla voce: amore, con l´incubo della Shoah, o Il libro della grammatica interiore, in cui ero così ossessionato, per anni, dalle questioni del corpo e da come noi dobbiamo adattarci al nostro corpo, che non abbiamo scelto...».
E c´è un posto dove è stato e in cui non vorrebbe mai più tornare?
«No. Forse dovrei spiegare una cosa: mi hanno cresciuto facendomi credere che tutto il mondo era un nemico. Sono stato un bambino nell´Israele degli anni Cinquanta ed è così che la nostra generazione è stata cresciuta, con questo messaggio: "Il mondo è un nemico, stai attento, sii sospettoso. La gente tenterà di imbrogliarti, di manipolarti". I nostri genitori ci hanno davvero avvolti nella bambagia, hanno tentato di tenerci molto vicini a loro, cosa perfettamente comprensibile, se si pensa alla loro esperienza negli anni Quaranta. Da quando però ho cominciato a viaggiare per il mondo, ho scoperto l´esatto opposto. Ovviamente, qua e là si possono trovare imbroglioni o cattivi soggetti, ma più vado nel mondo e più ci vado disarmato, deliberatamente, e più incontro gente e ci parlo, più la mia impressione è l´esatto contrario. Persino in questo viaggio a piedi in Galilea, in cui ho camminato da solo. Di solito incontravo gente che andava in coppia o in piccoli gruppi, al massimo di una decina di persone. La maggioranza della gente che camminava allora, parlo di sei anni fa, in quella parte di Israele, erano coloni. Hanno questa ideologia. Mi dicevano: "I vostri figli vanno in esplorazione in Sud America, noi esploriamo il nostro Paese". Penso che in qualsiasi altro contesto io e loro ci fossimo incontrati, la cosa si sarebbe sviluppata in una lite, in uno scontro. Trovandoci nella natura, incontrandoci nella natura, con la generosità della natura...».
La natura ha mitigato gli animi, ha fatto da mediatore?
«Sì, e la gente ha davvero parlato con me».
Da Il vento giallo a Vedi alla voce: amore, dai racconti per bambini ad A un cerbiatto somiglia il mio amore sembra che lei abbia compiuto un lungo percorso. Come riassumerebbe il suo viaggio personale di scrittore?
«È una domanda molto seria. È il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino miei nemici, che mi possono sfidare o essere pericolose per me. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista. È non temere di andare in posti che possano fare paura, o che possano essere molto dolorosi, o addirittura nei posti più dolorosi».

Repubblica 19.10.09
Ebrei favorevoli all’ora di religione islamica
Il Pdl "molla" Urso: un´idea sbagliata. La Libia applaude la proposta
Il rabbino di Roma "Il problema è che i musulmani non hanno una rappresentanza visibile"
di Orazio La Rocca


ROMA - «Non vedo perché non si dovrebbe prevedere nelle scuole pubbliche quello che già è previsto per ebrei e cattolici, cioè anche l´insegnamento dell´islam». Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni non è pregiudizialmente contrario all´ora musulmana negli istituti scolastici pubblici italiani proposta dal vice ministro Adolfo Urso. Pur senza negare che per un tema così importante e delicato le «difficoltà da superare non sono poche».
«Noi ebrei abbiamo già da tempo risolto parzialmente il problema dell´insegnamento dell´ebraismo nelle scuole pubbliche con l´intesa sottoscritta tra lo Stato italiano e l´Unione delle comunità ebraiche italiane, che però, a differenza dei cattolici, si sono fatto carico dell´onere di pagare gli insegnanti. Per cui non vedo perché ad altri non si debba concedere di fare altrettanto. Il problema vero è invece - puntualizza Di Segni - come questa legge è stata concepita, come dimostra il diverso modo con cui viene affrontato il pagamento degli insegnanti e a chi spetta far fronte a questo onere. Non va nemmeno sottovalutato il fatto che gli ebrei sono rappresentati dall´Unione delle comunità. Lo stesso non si può dire per i musulmani».
Sulla proposta-Urso ieri, intanto, sono intervenuti i rappresentanti di quasi tutti i partiti. Per il ministro Roberto Calderoli «è una mattana di cui non abbiamo bisogno»; il presidente dei deputati del Carroccio Roberto Cota assicura che «con la Lega Nord al governo proposte come quella dell´insegnamento dell´ora di religione islamica verranno rispedite al mittente». Distinguo anche dalla stessa area politica del vice ministro Urso. Per Italo Bocchino, presidente Pdl alla Camera, "la proposta Urso è palesemente non percorribile». Bocchino invita a «non commettere l´errore di fare dell´ora islamica oggetto di scontro politico nel Pdl o nella maggioranza».
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa il quale pur «comprendendo la ragione» non crede che «in Italia l´insegnamento dell´islam sia un problema prioritario». Ma pure il ministro Andrea Ronchi parla di «idea inattuabile per tanti motivi, a partire dalla necessità di dover difendere le radici cristiane della nostra società». Per «evitare che nel nostro paese prendano piede imam fai-da-te e prolifichino preghiere fondamentaliste», è tempo ormai che «sia il ministero dell´Istruzione - suggerisce Ronchi - che si faccia carico di preparare docenti di storie delle religioni con corsi rigorosi e altamente formativi». Contrari Andrea Sarubbi (Pd) e Fabio Granata (Pdl), primi firmatari di una proposta di legge bipartisan sulla cittadinanza agli immigrati.
Divisi i partiti d´opposizione. Al sì convinto di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell´Italia dei Valori - che parla di «valido strumento di arricchimento culturale e di conoscenza» - , risponde il leader dell´Udc Pier Ferdinando Casini secondo il quale «l´idea è senz´altro generosa, ma rischia di essere avventata». A sorpresa, Urso, in visita ieri a Tripoli, ha incassato il plauso del ministro libico Mohammed Al Huweji, il quale lo ha ringraziato per «aver avanzato una proposta che evidenzia come tra Libia ed Italia non ci sono differenze perché siamo tutti figli di Abramo e adoriamo Dio».

Corriere della Sera 19.10.09
Religioni
L’ora di Islam? Un’idea senza senso
di Vittorio Messori


L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica

Ancora una volta, riecco l’invocazione scaramantica: «Ci vorrebbe l’ora di…». Stavolta, quella nuova, da istituire subito nelle scuole pubbliche, sarebbe «l’ora di Islam». C’è qualcosa di drammati­co, ma anche di grotte­sco, nella parabola, vec­chia ormai di due secoli, delle funzioni che si so­gna di affidare alla «scuo­la di Stato». C’è, qui, un mito nato — come tanti — dagli schemi ideologi­ci di giacobini e girondi­ni.
Non lo scettico Voltaire ma il fervoroso Rousseau fu il maestro di quei signori: si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo.
Sorgono difficoltà sempre nuove? Ma dov’è il problema?
Basterà inserire nella scuola pubblica delle apposite «ore di…» che educhino al bene e al buono i nuovi virgulti; e tutto sarà ripianato. Da noi, il Cuore deamicisiano è l’icona caricaturale di questi nuovi templi di un’umanità plasmata dalla Ragione e strappata alla superstizione. Succede, però, che proprio nell’Occidente laicamente formato, abbiano trovato folle entusiaste le ideologie mortifere che hanno devastato i due secoli seguiti al trionfo delle utopie roussoiane. Ma poiché gli ideologi hanno per motto «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», il mito ha continuato ad agire. Il sesso fra gli adolescenti crea gravidanze incongrue e favorisce violenze? Si istituiscano nelle scuole «corsi di educazione sessuale». Alcol e droghe devastano i giovanissimi? Ecco gli esperti per gli appositi «corsi contro le dipendenze». C’è strage su moto e automobili? Subito «corsi di educazione stradale».
La convivenza sociale è sempre più turbolenta? Ecco dei bei «corsi di educazione civica».
Si potrebbe continuare, ma la realtà è chiara: a ogni problema, una risposta affidata alla scuola. Con il risultato, segnalato da pedagogisti ovviamente inascoltati, o di effetti irrilevanti o addirittura di aggravamento delle situazioni: il confuso istinto di ribellione dei giovani porta a sperimentare e a praticare ciò che è condannato nelle prediche degli adulti, soprattutto se insegnanti.
Trasgredire al professore dà tanto gusto come, un tempo, trasgredire al parroco.
E ora, tocca all’Islam, la cui presenza tra noi, ogni giorno in crescita, è tra gli eventi che meritano l’inflazionato aggettivo di «storico». Non siamo davanti a una immigrazione, ma a una di quelle migrazioni che si verificano una o due volte in un millennio. Per quanto importa, sono tra i convinti che, sulla lunga durata, l’Occidente si rivelerà per l’islamismo una trappola mortale. I nostri valori e, più ancora, i nostri vizi, corroderanno e, alla fine, faranno implodere una fede il cui Testo fondante non è per nulla in grado di affrontare la critica cui sono state sottoposte le Scritture ebraico-cristiane.
Una fede che, in 1400 anni, non è mai riuscita ad uscire durevolmente dalle zone attorno ai tropici, essendo una Legge nata per remote organizzazioni tribali. Una fede che, priva di clero e di un’organizzazione unitaria, impossibilitata a interpretare il Corano — da applicare sempre e solo alla lettera — è incapace di affrontare le sfide della modernità e deve rinserrarsi dietro le sue mura, tentando di esorcizzare la paura con l’aggressività. Ma poi: panini al prosciutto, vini e liquori, minigonne e bikini, promiscuità sessuale, pornografia, aborti liberi e gratuiti, «orgogli» omosessuali, persino la convivenza con cani e gatti, esseri impuri, e tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo — nel bene e nel male — farà sì che chi si credeva conquistatore si ritroverà conquistato.
Ma questo, dicevo, in una prospettiva storica: per arrivarci passerà molto tempo e molti saranno i travagli, magari i drammi. Per adesso, che fare?
Sorprende che, proprio da destra, si proponga lo pseudorimedio che è, da sempre, quello caro alle sinistre: nelle scuole «corsi di Islam», quello buono, quello politically correct . L’idea non ha né capo né coda.
Brevemente: poiché, a parte casi particolari, gli allievi islamici sono ancora pochi in ogni classe, bisognerebbe riunirli tutti assieme in una classe sola, almeno per quelle ore. Ed ecco pronta la madrassa, la scuola coranica, che esige che i credenti in Allah stiano unicamente con altri credenti. Stretti in comunità, a cura della nostra Repubblica, chi farà loro lezione? E che gli si insegnerà? Gli ingenui, o insipienti, promotori della proposta si cullano forse nel mito di un «Islam moderato», pensano che esistano schiere di intellettuali musulmani «laici, pluralisti, democratici», pronti ad affrontare concorsi per cattedre di Islam «corretto»?
Ignorano che incorrerebbe in una fatwa di morte il muslìm che presentasse la sua religione come una verità tra le altre?
Non sanno che relativismo e neutralità religiosa sono frutti dell’illuminismo europeo, ma bestemmie per il credente coranico? Ignorano che l’anno islamico inizia da Maometto e che il tempo e il mondo sono solo del suo Allah? Non sanno che è impensabile il concetto stesso di «storia delle religioni» per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere? I politici pensano, allora, di affidare le «ore di Islam» a non islamici, di far spiegare il Corano — in modo «laico e neutrale» — a chi non lo crede la Parola eterna e immutabile di Dio?
Fossi un assicuratore, mai stipulerei una polizza sulla vita per simili, improbabili, introvabili docenti. Se l’insegnamento nelle istituende «madrasse della Repubblica italiana» differisse anche di poco da quello delle moschee, l’esplosione di violenza sarebbe inevitabile. E, come troppo spesso è successo con i fautori delle «ore di…», le buone intenzioni produrrebbero frutti disastrosi.

l’Unità 19.10.09
Ma perché i professori 70enni non diventano «flessibili»?
Una legge dell’ex ministro dell’Università Fabio Mussi cancellava lo stipendio per i docenti «fuori ruolo» ultrasettantenni. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sui ricorsi
di Michele Ciliberto


Docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa
L’Università italiana attraversa un periodo difficile. Sono ormai decenni che il nostro sistema è in una situazione di crisi e di decadenza né, qualunque sia il giudizio che si voglia dare su di essi, hanno avuto un serio effetto riformatore, le politiche fatte in questo periodo.
Ora è il turno del Ministro Gelmini che, dopo alcuni interventi frammentari, si è proposto di presentare una riforma organica dell’Università imperniandola sulla valorizzazione del principio del merito, che dovrebbe essere la nuova bussola del sistema. Sul merito si è fatta moltissima retorica in questi anni; personalmente sono convinto che debba essere tenuto strettamente fermo con altrettanto rigore il principio dell’eguaglianza, secondo i dettami della Costituzione. L’Italia è un paese che diventa sempre più diseguale, intrecciando alle vecchie diseguaglianze di ordine sociale nuove diseguaglianze di carattere politico, sociale e perfino territoriale. Si è giunti perfino a parlare nuovamente di gabbie salariali.
Ragionare dell’Università italiana non significa affrontare un problema di carattere settoriale: si tratta di una questione nazionale, strettamente connessa all’idea che si ha dell’Italia, del rapporto tra l’Italia e l’Europa e della funzione del nostro paese nell’epoca della globalizzazione. E si tratta di problemi al tempo stesso culturali, istituzionali ed economici. Faccio solamente un esempio. Uno dei problemi di fondo della nostra Università è il suo rinnovamento: bisogna aprire l’Università alle nuove generazioni che allo stato attuale o sono respinte oppure vanno via dal nostro paese. Ma per riaprire le porte dell’Università è necessario trovare nuove risorse o fare delle economie mettendo fine a vecchi privilegi, compresi quelli dei docenti.
Gran parte delle Università è in una difficilissima situazione economica anche per la spesa esorbitante destinata al pagamento del personale docente, anche in conseguenza delle sciagurate politiche di reclutamento fatte negli ultimi anni, che si sono intrecciate a una disorganica e caotica proliferazione sia di nuove Università che di inediti – talvolta inauditi – corsi di laurea. Per l’urgenza di queste difficoltà le Università, anche le più prestigiose, sono state costrette a ripensare i criteri generali di spesa, condizione indispensabile per ottenere nuovi finanziamenti. Per questo esse si sono giovate di un importante, e misconosciuto, provvedimento del Ministro Mussi, il quale ha eliminato quel privilegio feudale che è il fuori ruolo dei professori universitari. Esso lo ricordo a chi non lo sapesse consisteva nel diritto dei professori di continuare a fruire dello stipendio anche quando avessero compiuto 70 anni e fossero usciti dai ruoli dell’insegnamento. Stipendio che ricadeva interamente sul bilancio delle Università dei singoli docenti contribuendo ad accentuare il loro stato di disagio. Il Ministro Mussi ha dunque compiuto un’azione buona e giusta per la nostra Università.
Questo provvedimento è stato però duramente contestato dai docenti colpiti, che hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, la quale nei primi giorni di novembre si riunirà per esaminarlo ed emettere una sentenza definitiva sul problema. Ma se quanto si è detto è giusto, ritornare al fuori ruolo avrebbe due effetti nefasti:
1. Diminuire le possibilità di apertura delle porte delle Università alle nuove generazioni;
2. Respingere la maggior parte delle Università italiane in una situazione di difficoltà economica dalla quale si stanno risollevando con grande fatica.
Naturalmente il problema è culturale, non solo di ordine economico. È opportuno che le università continuino a servirsi di quegli studiosi che, arrivati ai settanta anni, sono in grado di illustrarle con la loro personalità e di formare nuove generazioni di studiosi. Ma esse oggi hanno nuovi strumenti a loro disposizione per ottenere questo obiettivo e continuare a mantenere nell’attività didattica studiosi di alto rilievo e qualità. Possono ricorrere ai contratti, che hanno molte qualità: sono flessibili; meno onerosi per le Università; preziosi per l’attività didattica degli atenei, che possono così continuare a giovarsi delle energie di colleghi autorevoli i quali, invece di essere collocati nella riserva del fuori ruolo, possono continuare a svolgere, in piena autonomia, la propria missione scientifica e didattica; e tutto questo senza pregiudicare il reclutamento di nuovi docenti. Speriamo che la Corte costituzionale mostri anche in questo caso la saggezza che ha saputo mostrare in altre delicate situazioni.

l’Unità 19.10.09
Venerdì prossimo sciopero dei Cobas Fermi scuola e trasporti


Il 23 ottobre, venerdì, sciopero generale di tutte le categorie del lavoro dipendente indetto da Cobas, Cub e Sdl, e in questo quadro i Cobas hanno convocato lo sciopero generale della scuola per l’intera giornata. Lo rende noto Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas. «I protagonisti della scuola spiega diranno “No” ai tagli, alle controriforme Tremonti-Gelmini, all’espulsione dei precari e ai contratti di disponibilità», e chiederanno massicci investimenti nella scuola pubblica. Sciopero di 24 ore anche per tutto il settore trasporti: aereo, ferroviario, marittimo e pubblico locale (articolato a livello territoriale).

Repubblica 19.10.09
Stamane delibera dell'Agenzia del farmaco. In vigore entro un mese
Ru486, oggi il via libera. Avvenire: morte a domicilio
di Mario Reggio


ROMA - Si riunisce stamattina il Consiglio di amministrazione dell´Agenzia italiana del farmaco. All´ordine del giorno l´approvazione definitiva della delibera che autorizza la commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Ed al massimo entro il prossimo 19 novembre il testo verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed il farmaco sarà a disposizione delle strutture sanitarie pubbliche.
In attesa dell´evento il presidente dei senatori Maurizio Gasparri avverte: «L´ok dell´Aifa non conclude l´iter, intanto la commissione sta portando avanti in Senato l´indagine conoscitiva e comunque l´utilizzo della Ru486 dovrà avvenire solo in ospedale. Se qualcuno verrà scoperto per aver favorito l´aborto in casa passerà i suoi guai». Ed a poche ore dal voto del Cda dell´Aifa, che ormai sembra scontato, il quotidiano l´Avvenire, organo della Conferenza episcopale, avvisa: «I vertici dell´Aifa non possono e non devono mettere la loro firma sotto la liberalizzazione della morte a domicilio. Se la delibera dell´Aifa non dovesse chiaramente stabilire che il farmaco va somministrato in regime di ricovero ospedaliero, scardinerebbe anche le garanzie della legge 194». Un principio ribadito più volte dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi che assicura: «Entro il 19 novembre le commissione d´indagine avrà finito di sicuro i suoi lavori». Un principio, quello del ricovero ospedaliero, irrinunciabile per il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella. Di certo la Ru486 ha prodotto un nuovo effetto: ha convinto politici e non, che da sempre osteggiano la legge 194, a difenderla. Cosa accadrà oggi? Lo spiega chiaramente il direttore generale dell´Aifa Guido Rasi: «Si tratta di un passaggio formale a conferma della delibera già approvata lo scorso 30 luglio. L´Aifa ha il compito di redigere il regolamento che stabilisce le modalità di erogazione. Sarà poi il Parlamento a stabilire le modalità di somministrazione della pillola e la compatibilità con la 194».

l’Unità 19.10.09
«Il regno birbonico è finito, ma non il berlusconismo»
Profezie «Il mio libro e spettacolo “Va’ dove ti porta il clito” è attuale perché parodiava “Va’ dove ti porta il cuore” e le premesse dell’odierna deriva fascistoide erano lì»
Intervista a Daniele Luttazzi di Francesca Fornario


Dal giorno in cui Pippo Baudo lo ha intervistato sulla censura e poi, al montaggio, ha tagliato le battute più caustiche, Daniele Luttazzi concede interviste solo con domande e risposte scritte. «Non mi piace essere riassunto con parole altrui» dice. Lo dice al telefono, quindi non dovrei scriverlo. Lo scrivo perché le domande di questa intervista devono essere ridondanti e prolisse come il programma dell’Unione del 2006. Così, se c’è qualcosa da tagliare si possono tagliare le domande invece delle risposte. Lo so che suona marzulliano: «Si faccia una domanda e si dia una risposta». Troppo comodo, sono capaci tutti. Sì, ma Luttazzi è l’unico capace di farsi domande scomode e darsi risposte scomode. Quindi, via così. Di nuovo in teatro con «Va’ dove ti porta il clito» (dopo Roma va a Milano, Firenze, Napoli, Genova. Calendario su www.danieleluttazzi.it), romanzo del 1994 e spettacolo del 1995 che le è costato una duplice causa per plagio da Susanna Tamaro. I giudici hanno dato torto alla scrittrice: «il libro incriminato era una parodia», hanno detto. Una parodia del sentimentalismo e dei valori sbandierati con troppa ipocrisia. Perché «Va’ dove ti porta il clito» è ancora attuale?
«Quel mondo di valori decrepiti è diventato programma di governo e incubo esistenziale per molti. E da allora si sono moltiplicate le cause civili contro chi fa satira e informazione. È istruttivo vedere come le premesse culturali della attuale deriva fascistoide fossero tutte riassunte nel libercolo parodiato. Non a caso l’autrice oggi scrive su Famiglia cristiana. Chi si identificava in quel libro, poi votava in un certo modo. Ecco perché andava demolito con una parodia come dico io: profetica e ancora attualissima».
Il Parlamento ha limitato la procreazione assistita e la diffusione della pillola del giorno dopo, negato i Pacs e respinto la legge contro l’omofobia. Siamo un paese sessuofobico? Colpa della società o di chi la governa? «Controllando il sesso si controllano le persone. Lo spiegava Foucault 40 anni fa».
Siamo anche un paese retto da un premier che scende in piazza per il Family Day e si fa fotografare per mano alla moglie ma poi frequenta prostitute e sedicenti ragazze immagine che vengono candidate nelle liste legate al suo partito e ricompensate con denaro, gioielli e immobili. O è solo gossip, come sostiene il direttore del Tg1? «Portare a letto donne promettendo incarichi pubblici è un reato grave, specie per un sedicente Presidente del consiglio. Buttarla sul gossip è banalizzare la questione. Il massimo l’hanno raggiunto i maggiordomi come Carlo Rossella, che si è spinto a ridefinire il concetto di “minorenne”: è un salto di qualità perfino per un bieco propagandista della guerra criminale in Iraq come lui».
Perché ci si indigna di più per i rapporti sessuali di Berlusconi che per i suoi legami con la mafia? «La domanda andrebbe girata ai giornali cattolici: dopo avergli tirato la volata elettorale per anni, si sono messi a fargli la morale per vicende sessuali. Questo capita, in un mondo di beghine e colli torti». Luttazzi, sulla sua testa pende ancora l’editto bulgaro che ha cancellato «Satyricon» per le domande rivolte a Travaglio (Berlusconi, Fininvest, Mediaset e Forza Italia la querelano per diffamazione chiedendo 41 miliardi. Dopo anni di processi, lei vince tutte e quattro le cause perché i fatti raccontati nell’intervista erano veri). Anche La7, dopo 5 puntate, ha cancellato il suo «Decameron» senza rispettare il contratto (tranquilli, c’è una causa anche per questo). Da allora le vietano l’accesso in tv. All’estero la satira politicamente scorretta va proprio in tv, e in prima serata. Dove abbiamo sbagliato?
«Un regime si instaura strappo dopo strappo. All’editto bulgaro contro Biagi, Santoro “e quell’altro” tutta la stampa e la società civile dovevano scendere in piazza e protestare duramente. Era il 2002: nessuno si mosse. Il resto è solo una conseguenza. Gli italiani se lo meritano, Berlusconi. Tutti furbissimi». Mediaset ha trasmesso la canzone su Patrizia D’Addario di Checco Zalone. Secondo lei, perché?
«Perché la canzone, mettendo in burla fatti ormai non più occultabili, ma secondari, distrae dall’arrosto: il caso Mills. Berlusconi, da capo del governo, coprì un suo reato (la corruzione della GdF) con un altro reato (la corruzione di Mills). Bocciato il lodo Alfano, Berlusconi andrà a processo. La legge è uguale per tutti. Fine del Regno Birbonico».
«La fase finale del Berlusconismo è cominciata. Durerà 10 anni? «Berlusconi è già finito. Il berlusconismo invece è vivissimo, non essendo che l’ennesima espressione dell’eterno fascismo italico. In Italia la Resistenza dev’essere permanente. Troppi colpi di sonno hanno permesso una grave infestazione di pantegane».
Si faccia una domanda cattiva e si dia una risposta. «Quale bestemmia tirerebbe se fosse un cassintegrato oggi? “PD”».

Corriere della Sera 19.10.09
Polanski e le regole della legalità che il tempo non può cambiare
di Vittorio Grevi


Ha diviso profondamente l’opi­nione pubblica, e soprattutto il mondo degli intellettuali, a fine settem­bre, la notizia dell’arresto in Svizzera di Roman Polanski, a seguito di un’esplicita richiesta dell’autorità giudiziaria america­na, diretta ad ottenerne l’estradizione con riferimento alla vicenda che lo ha vi­sto accusato in California (e reo confesso, nell’udienza di patteggiamento) per lo stupro di una ragazzina tredicenne risa­lente al 1977. Ed il successivo rigetto, nei giorni scorsi, della sua istanza di libertà dietro cauzione, motivato dall’elevato pe­ricolo di fuga, ha ulteriormente rinfocola­to le divergenze di opinioni, provocando ulteriori prese di posizione (specialmen­te negli ambienti della gauche radicale francese, già distintasi ai tempi dell’«affa­re Battisti») in favore del regista fran­co- polacco, sulla base di varie argomenta­zioni: ora con riguardo ai suoi meriti cine­matografici, ora in ragione del lungo tem­po ormai trascorso dal fatto delittuoso.
Si tratta di posizioni di cui è difficile condividere il fondamento. Certamente le doti artistiche di una persona, per quanto geniale, non la esimono dal rispet­tare le leggi (il binomio «genio e sregola­tezza » non può mai fungere da causa di giustificazione), né la esentano dall’esse­re processata, e quindi punita, ove la sua colpevolezza venga accertata. Quanto al decorso del tempo, sembra proprio che, nel caso di Polanski, tutto sia dipeso dalla circostanza che, nell’arco di oltre trent’an­ni, egli si è sempre sottratto alla magistra­tura statunitense, vivendo in sostanza da latitante. È assurdo pensare che una con­dotta del genere debba essere premiata, al punto da esonerarlo dal pagare i suoi debiti con la giustizia.
Chi ragiona così non è un bieco «giusti­zialista », ma semplicemente aspira ad af­fermare le regole della legalità, al di là del­le furbizie individuali. Ma ciò che vale per Polanski deve valere per tutti, anche nel nostro Paese. Dove sono ancora molti, an­zi troppi, quelli che fanno di tutto per sot­trarsi all’accertamento delle loro (even­tuali) responsabilità, o si nascondono die­tro lo schermo opaco della prescrizione.

Corriere della Sera 19.10.09
Polanski alla sbarra, un processo tardivo
Risponde Sergio Romano


Il caso del regista Roman Polanski è davvero molto penoso. Sul piano umano, è triste che una persona di 76 anni venga perseguita per un reato che ha commesso trent’anni prima. Sul piano sociale, la mobilitazione del mondo del cinema a difesa di un suo appartenente evidenzia, se mai ce ne fosse bisogno, come gli atteggiamenti di critica sociale che il cinema pretende di esprimere guardino non all’etica ma al botteghino.
Infine, il più penoso di tutti è l’atteggiamento che si esprime nell’assunto: gli stupratori non sono tutti uguali. Se si considera che in Italia è stato condannato a due anni un uomo reo di avere messo le mani sulle natiche di una donna appare chiaro il paradosso di difendere chi ha abusato di una ragazzina tredicenne.
Francesco Deambrois

Caro Deambrois,
Anche a me non è piaciu­to lo spirito con cui al­cuni intellettuali, uomi­ni politici e rappresentanti del mondo dello spettacolo sono accorsi alla difesa di Roman Polanski. Lo hanno fatto con spirito di corporazione e, im­plicitamente, con la convinzio­ne romantica che il genio ab­bia diritto alle sue sregolatez­ze: un atteggiamento che in questa vicenda mi è parso completamente fuori luogo.
Debbo confessarle tuttavia che altri aspetti di questa sto­ria mi sono piaciuti ancora me­no. Non mi è piaciuta ad esem­pio l’improvvisa insistenza del procuratore californiano in un caso che, a giudicare dalle cir­costanze, era stato per molti anni informalmente archivia­to. Non mi è piaciuto che la magistratura svizzera abbia te­nuto in prigione sino al ricove­ro in ospedale, prima di pro­nunciarsi sulla richiesta di estradizione, un uomo che ri­siede nella Confederazione e avrebbe potuto facilmente ot­tenere gli arresti domiciliari. In un articolo apparso sul Ri­formista del 1˚ ottobre Franco Debenedetti osserva che la Svizzera è sempre stata «terra d’asilo» e si chiede se l’atteg­giamento assunto verso Polan­ski non abbia qualche rappor­to con le difficoltà della Confe­derazione dopo l’offensiva del Tesoro americano contro i con­ti segreti di una delle maggiori banche svizzere. Non mi è pia­ciuto infine che un vecchio rea­to venga giudicato oggi con criteri alquanto diversi da quelli che prevalevano nel pe­riodo in cui fu commesso. Sa­rebbe giusto ricordare che gli anni Settanta furono quelli del­la «liberazione» sessuale, del­l’amore libero, dei «figli dei fiori», delle battaglie per la le­galizzazione della droga. Sareb­be giusto osservare che la vitti­ma, a quanto pare con l’assen­so della madre, frequentava re­gisti e produttori cinematogra­fici nella speranza di un provi­no. Un articolo recente del New York Times ricorda che in «Manhattan», un film del 1979, una ragazza dice all’uo­mo di cui è l’amante da qual­che anno (Woody Allen nella parte di un quarantaduenne sceneggiatore televisivo): «Og­gi ho compiuto 18 anni. Sono legale eppure mi sento ancora una ragazzina». Si potrà osser­vare che la Lolita di Woody Al­len, a differenza della tredicen­ne di Polanski, era consenzien­te. Per questo appunto Polan­ski, se non fosse fuggito, avrebbe passato in prigione 41 giorni. Oggi, tuttavia, non se la caverebbe probabilmente con meno di cinque anni.
È questa la ragione per cui esistono (e dovrebbero essere restaurate là dove sono state soppresse) le prescrizioni. An­che la morale è soggetta alle mode, agli umori del tempo, alle correnti di opinione. Noi stiamo attraversando oggi, a dispetto di certe libertà e licen­ze conquistate negli ultimi trent’anni, un periodo partico­larmente puritano. E la senten­za di Polanski, se venisse estra­dato, sarebbe puritana. Ma ciò che appare giusto oggi non sarebbe stato giusto 33 anni fa.

Corriere della Sera 19.10.09
Il controverso reperto è nel caveau della Compagnia di San Paolo di Torino. Forse finirà all’Archeologico
Artemidoro in cerca di un museo
L’Egizio avrebbe respinto il «papiro sospetto»: non si può esporre
di Pierluigi Panza


Una ipotesi può essere quella di destinare il papiro alle collezioni delle antichità della città sabauda Restituzioni
Una norma dello Stato egiziano prevede la restituzione delle opere uscite dal Paese dopo gli anni Settanta

Acinque anni esatti dall’ac­quisto, il cosiddetto Papi­ro di Artemidoro non ha ancora trovato né pace né casa. La Fondazione per l’Arte della Com­pagnia di San Paolo di Torino lo acquistò nell’ottobre del 2004 co­me frammento del I secolo a.C. della «Geografia» di Artemidoro e lo espose in mostra nella primave­ra del 2006. Ma progressivamente sull’autenticità del reperto si sono addensate ombre, sino alla presen­tazione di prove della sua inauten­ticità esposte in più convegni e ar­ticoli dall’antichista Luciano Can­fora, secondo il quale il papiro si deve all’abilissimo falsario greco dell’Ottocento Costantino Simoni­dis.
Il reperto che, come scrisse Maurizio Calvesi, resta al minimo «un documento affascinante del XIX secolo di non trascurabile inte­resse culturale», sembrava potes­se uscire dal caveau dalla Compa­gnia di San Paolo di Torino, dove è custodito, per trovare casa nel rinnovato Museo Egizio. Ma come ogni buon giallo di egittologia che si rispetti, anche qui sarebbe fini­to al centro di discussioni che avrebbero portato il consiglio di amministrazione della Fondazio­ne del museo a «non accoglierlo». La decisione sarebbe stata assunta in un blindato Consiglio di ammi­nistrazione della scorsa settimana e solo nei prossimi giorni si po­tranno avere ulteriori conferme e conoscere meglio i dettagli. Il con­siglio, del quale fanno parte, oltre al presidente Alain Elkann nume­rosi rappresentanti delle istituzio­ni locali, avrebbe deliberato di non accoglierlo anche sulla base del parere del Consiglio scientifi­co presieduto da Alessandro Roc­cati (uno dei nostri maggiori egit­tologi) che avrebbe definito «so­spetto » il papiro. Una barriera scientifica all’accoglimento sareb­be venuta anche dalla direttrice del museo, Elena Vassilika, in con­trasto per altri reperti con il «mer­cante » armeno al quale andrebbe ascritta la scoperta del papiro.
Lo scenario che si apre ora, oblio a parte, è la ricerca di una di­versa collocazione, che potrebbe essere quella del Museo di antichi­tà e collezioni archeologiche di To­rino, che conserva il patrimonio delle collezioni sabaude. Ma in re­lazione a questa soluzione potreb­bero sorgere due ulteriori contro­versie. La prima resta quella del­l’autenticità: può essere esposto un reperto al centro di una simile controversia? La seconda una eventuale — se si attestasse per ul­teriori analisi una autenticità a questo punto sorprendente — ri­chiesta di restituzione da parte del­l’Egitto. Una legge stabilisce che tutti i reperti usciti da quel Paese dopo il 1971 devono essere restitui­ti. E la Compagnia di San Paolo ha dichiarato che il reperto era «arri­vato alla conoscenza di una ristret­ta cerchia di esperti e poi sul mer­cato sul finire degli anni ’90 dello scorso secolo». Ma anche sulle modalità di ritrovamento del re­perto ci sarebbero interpretazioni oscure. Con i papiri, del resto, non poteva andare diversamente.

Corriere della Sera 19.10.09
Le prove dell’archeologo Andrea Carandini: ecco dove si trovava l’abitazione del futuro imperatore
Qui, nella casa di Tito, c’era il Laocoonte
di Paolo Conti


Forse per essere buoni archeologi occorre allevare un doppio, quel­lo del detective. Altrimenti non si potrebbe approdare alle conclusioni che oggi alle 17.30 Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali e docente di Archeologia classica a «La Sapienza» di Roma, esporrà agli Uffizi di Firenze in occasio­ne del restauro del Laocoonte di Baccio Bandinelli realizzato grazie agli Amici degli Uffizi e i Friends of Uffizi Gallery inc. La copia di Baccio fu scolpita nel 1520 dopo il ritrovamento dell’originale ellenistico del I secolo avanti Cristo (Pli­nio la attribuisce a Agesandro, Atanado­ro e Polidoro, tre scultori di Rodi) avve­nuto nel 1506 vicino alla Domus Aurea, dissepolto alla presenza di Michelange­lo e di Giuliano da Sangallo. Il clamore per la scoperta fu immenso per l’epoca, ecco perché Baccio Bandinelli ricevette dalla corte pontificia la commissione di una riproduzione da offrire a Francesco I di Francia.
Per individuare quella che a suo avvi­so è la Casa di Tito sul Colle Oppio (e «nella Casa di Tito», fino a oggi mai identificata, stando a Plinio, era espo­sto il Laocoonte) Carandini si è armato di due fondamentali piante romane. Ov­vero la marmorea Forma Urbis Romae degli inizi del III secolo dopo Cristo e quella realizzata da Giambattista Nolli nel 1748. Racconta Carandini: «Studian­do la Forma Urbis mi sono imbattuto in un atrio di forma arcaica a crociera, con un gigantesco tablino e con un accesso che apre su uno spazio porticato con al centro un tempietto. Che strano, mi so­no detto, un atrio così antico rimasto in­tatto sulla pianta per tanti secoli». Ma una ragione, per il professore, c’è. Ed è legata al culto di Servio Tullio, penulti­mo re di Roma assassinato dal genero Tarquinio il Superbo: «Sappiamo dalle fonti che la sua casa era in periferia, sul­la cima del Colle Oppio. Dopo la sua morte e quella di Tarquinio il Superbo, la repubblica fondò il suo culto come vecchio re filo-popolare. Venne il tem­pietto ».
Ed eccoci a un nuovo capitolo, al pri­mo Prefetto del Pretorio Seio Strabone, capo delle guardie del palazzo imperia­le sotto Augusto: «Guardando la pian­ta, si nota che intorno alla casa e al tem­pietto si costruisce un grande edificio. Si deve a Aelio Seiano, suo figlio, Prefet­to del Pretorio sotto Tiberio, che poi lo farà uccidere nel palazzo imperiale. Lì sorge infatti il Tempio della Fortuna se­iana, visibile sulla pianta, e coperta se­condo le fonti dalle toghe di Servio Tul­lio conservate fino a quel momento».
Tutto torna, dunque, per Carandini: la conservazione dell’antichissimo edifi­cio fino all’età imperiale per il culto di Servio Tullio, il luogo (la cima del Colle Oppio). Ed eccoci al punto, la casa di Ti­to, finora mai identificata: «Con tutta evidenza quel complesso era diventato di fatto 'la' casa del Prefetto del Preto­rio. E quando il futuro imperatore Tito diventa Prefetto del Pretorio sotto suo padre, l’imperatore Vespasiano, quel­l’agglomerato diventa a tutti gli effetti 'la casa di Tito'. Nerone, lì accanto alla Domus Aurea, aveva ampliato l’edificio aggiungendo una grande aula con due absidi, la struttura è visibile sul Colle Oppio. Un luogo di rappresentanza ma anche, con ogni probabilità, uno spazio per amministrare la giustizia».
Secondo Carandini il Laocoonte era lì, in una delle due absidi. E nell’altra? Tesi pronta: «Laocoonte muore per la 'colpa' di essersi opposto all’ingresso del Cavallo di Troia nella sua città. A Pompei, nella Casa del Menandro c’è una situazione identica. Un ambiente dove è dipinto Laocoonte. In quello di fronte c’è Cassandra, altro personaggio 'colpevole' di aver profetizzato la fine di Troia e di essersi quindi opposta, co­me Laocoonte, all’arrivo del Cavallo. Se­condo me nell’altra abside c’era una Cassandra. Entrambi alludevano alla Nuova Troia, cioè Roma».
Altro tassello: sovrapponendo la pianta del Nolli alla Forma Urbis si sco­pre che il luogo del ritrovamento, la «Vi­gna delle Capocce», non lontano dalla Cisterna delle Sette Sale, coincide con quella che per Carandini è «la casa di Tito». All’epoca del Nolli, tutto faceva parte degli Orti di San Pietro in Vincoli. A questo punto, Carandini lancia una sfida personale: «Scommetto che, sca­vando lì, potremmo ritrovare il basa­mento del Laocoonte. Un progetto già c’è ma mancano i soldi e urgerebbe uno sponsor». E in quanto all’ipotizzata Cassandra? «Chissà». L’archeologo sor­ride, enigmatico. È in arrivo un’altra scoperta del suo doppio, il detective?

Repubblica 19.10.09
PARIGI, James Ensor al Musée d'Orsay. Dal 20 ottobre


Organizzata in collaborazione con il MoMa di New York, la mostra invita a riflettere sull'opera del grande pittore e incisore belga, a partire da un tratto distintivo del suo fare, il gioco di rottura e di continuità con il passato che l'autore mette perpetuamente in atto. Forte di novanta opere, tra dipinti, disegni e incisioni, la rassegna prende avvio con i lavori dell'esordio, caratterizzato dal ripudio dell'insegnamento dell'Accademia di Bruxelles e dal ritorno a Ostenda, sua città natale. In questo periodo l'artista è interessato all'Impressionismo e si dedica contemporaneamente a una sottile variazione grafica sui temi del simbolismo e decadentismo. Ben presto inizia una ricerca più personale che nell'arco di una decina d'anni lo porta a svolgere un ruolo fondamentale nel rinnovamento dell'arte belga e anticipatore dell'Espressionismo. In aperta frizione con la cultura del suo tempo, Ensor si avvia in solitudine nel mondo del fantastico e del grottesco, dipingendo nature morte popolate di maschere e interni abitati da scheletri e demoni, opere che vanno lette come satire del compassato mondo borghese.

Repubblica 19.10.09
BILBAO, Frank Lloyd Wright al Guggenheim Museum. Dal 22 ottobre


Una bella immagine ritrae il grande architetto sul cantiere del Solomon Guggenheim Museum di New York, considerato un capolavoro della museografia contemporanea per il suo originale sviluppo a spirale. Ora una mostra, allestita nel museo progettato da Frank O. Gehry e divenuto anch'esso un'opera cardine del genere, ripercorre l'attività del maestro, sottolineando l'importanza del suo pensiero spaziale e analizzando il suo influsso sull'organizzazione della vita moderna. Protagonista dell'architettura organica, Wright procede infatti all'eliminazione degli spazi interni e alla proiezione degli edifici sull'esterno, grazie a tetti piatti e a terrazze largamente bagnate dalla luce naturale. Il percorso espositivo raccoglie ottanta progetti per abitazioni private, edifici pubblici, religiosi, teatri e strutture urbane.

Repubblica 19.10.09
ROMA, Alexander Calder al Palazzo delle Esposizioni. Dal 23 ottobre


Esuberanza, allegria, vigore, umorismo, inteso come forza vitale. Questi i tratti distintivi dell'opera del grande americano, considerato uno dei fondatori della scultura moderna. Formatosi a contatto con l'avanguardia parigina negli anni Venti, nel decennio successivo Calder realizza infatti i suoi primi Mobile . Si tratta di sculture, così definite da Duchamp e ottenute lavorando artigianalmente lastre di metallo di fattura industriale, in cui forma, colore e movimento interagiscono tra loro, formando una sorta di magico universo. La mostra propone cento opere importanti, che documentano tutto l'arco creativo di Calder, a partire dalle prime sculture eseguite in filo di ferro e dai lavori che segnano l'adesione all'astrattismo, avvenuta dopo la visita all'atelier parigino di Mondrian.