giovedì 22 ottobre 2009

l’Unità 22.10.09
L’Agenzia del farmaco: sulla Ru486 nessuna pressione
di Nedo Canetti

Guido Rasi ascoltato ieri nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva. Il presidente dell’Aifa ha difeso l’operato dell’Agenzia: «Il via libera dopo un iter procedurale ineccepibile».

Il via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva RU486 è arrivato al termine di «un iter procedurale ineccepibile» da parte dell’Agenzia del farmaco. Lo ha affermato ieri il direttore generale dell’Aifa, Guido Rasi, nel corso di un’audizione alla commissione Sanità del Senato, nell’ambito dell’avviata indagine conoscitiva. «La pubblicazione sulla G.U. ha proseguito è un atto dovuto, non posso modificare di una virgola la delibera approvata». Ha poi sostenuto di non aver ricevuto alcuna pressione, tanto è vero che l’Aifa «non ha fermato di un giorno la propria macchina», stabilendo che la pillola è «teoricamente compatibile con la 194, essendo un metodo abortivo come un altro». «La lettera del sen. Tommasini, presidente della commissione (proponeva di attendere, per la decisione, la fine dell’indagine del Senato, ndr) ha precisato non imponeva lo stop dell’approvazione , ed infatti non è stata recepita». Il Pd, ha ricordato la senatrice Fiorenza Bassoli, aveva protestato per la lettera ed è «decisamente contrario alle motivazioni che la destra assegna alla commissione, ispirate a una volontà di controllo e di messa in discussione delle competenze dell’Aifa». «Come Pd ha sottolineato riteniamo che unico scopo dell’indagine sia quello di accertare quali siano le procedure e le pratiche cliniche migliori per la salute della donna e più coerenti con la legge 194». In merito alle procedure, il dr. Rasi ha affermato che non spetta alla sua Agenzia definire le modalità di somministrazione del farmaco. «È un atto medico ha detto e, nell’ambito ospedaliero, definire le modalità spetta a governo e regioni». E le «indicazioni e linee guida ha annunciato il sottosegretario Eugenia Rocella, presente all’audizione saranno emesse dal governo «in compatibilità con la 194» e «secondo la delibera dell’Aifa» (ricovero ospedaliero fino ad aborto avvenuto e intera procedura praticata in ospedale). Diverse regioni, come la Campania, il Veneto e l’Emilia Romagna hanno annunciato che stanno procedendo.

l’Unità 22.10.09
SCUOLA E TRASPORTI
Sciopero
Sciopero generale dei sindacati di base per la giornata di domani. Manifestazioni a Milano, Torino e Roma. Interessati scuola, trasporti pubblici, sanità e trasporto aereo.

l’Unità 22.10.09
La storia di un medico
Autobiografia sui generis Un viaggio nel mestiere di chirurgo scritto a quattro mani
L’etica del lavoro L’oncologo più famoso d’Italia e il suo rapporto con i pazienti in un decalogo
Veronesi: la vita particolare dell’uomo con il camice bianco
di Luca Landò

È in libreria «L’uomo con il camice bianco», semi autobiografia di Umberto Veronesi, scritta insieme ad Alberto Costa, che ripercorre la carriera del celebre oncologo e, soprattutto, dei suoi rapporti con i pazienti.

«La prima volta che vedi il bisturi affondare svieni». Non sappiamo se Umberto Veronesi, l’oncologo più famoso d’Italia e uno dei più noti al mondo, sia davvero svenuto. Ma chi lo conosce non ha dubbi: il giorno dopo si presentò fresco e riposato con il «solito» quarto d’ora di anticipo. Perché tra le caratteristiche di questo giovane di ottanta anni spicca, da sempre, la voglia di battere il tempo. Come il vizio di andare nelle sale dei congressi, per primo e da solo, a controllare la disposizione delle sedie e delle diapositive. O l’abitudine di scendere prima dell’orario in sala operatoria a scambiare due chiacchiere col paziente e gli infermieri.
IL TRUCCO
Il trucco? Dormire poco, dormire sempre. Stare sveglio la notte per leggere e approfittare di ogni pausa del giorno per infilare brevi ma intensi momenti di sonno. «Sono diventato così bravo che dormo durante il rosso dei semafori», dice scherzando ad Alberto Costa, per vent’anni il suo più stretto collaboratore e adesso autore, con lui, de L’uomo con il camice bianco, scritto con Alberto Costa (pp. 216, euro 17,50, Rizzoli). Un’insolita «autobiografia a quattro mani» ma soprattutto un viaggio, duro e concreto, in quella quarta dimensione che è la chirurgia. «Non sono religioso. Ma la sala operatoria ha qualcosa del luogo sacro, della chiesa, della
Umberto Veronesi nel suo studio sinagoga. Nelle sale operatorie si avvertono sensazioni che solo i medici e gli infermieri (i sacerdoti del tempio) sanno riconoscere». Concentrazione, preparazione. E consapevolezza di quello che stai per fare. «Noi medici siamo come atleti impegnati a battere il record del mondo. Tutto è molto veloce e si hanno pochi minuti per decidere. È vero quello che si dice dei chirurghi: che non studiano abbastanza, che guadagnano troppo, che soffrono di onnipotenza. Ma vuole farsi avanti qualcun altro a prendersi sulle spalle il peso di quello che facciamo?».
La solitudine dei numeri primi, solo che questo non è un romanzo. E nemmeno una puntata di ER o del Dr. House dove tutti tornano sempre a casa guariti e contenti. Da qui, a volte, non si torna affatto. «Oggi nella mia mente c’è una gigantesca fossa comune. Ho visto morire molte persone. Troppe». E proprio questo, forse, ha spinto Veronesi a inventarsi l’Airc, l’associazione che raccoglie fondi dai cittadini per fare quello che lo Stato fa poco e male: finanziare la ricerca sul cancro. O a dar vita all’Istituto Europeo di Oncologia, una struttura di eccellenza dove i medici curano sia pazienti privati che quelli a carico del servizio pubblico. O ancora a spingerlo in politica, prima come senatore, poi come ministro della Sanità. «Un periodo indimenticabile ma il difficile fu ritrovarsi parte di un governo con colleghi che avevano idee molto diverse se non opposte dalle mie: sul nucleare, sugli Ogm, sul testamento biologico».
Da ministro riuscì a varare la legge che proibiva il fumo nei locali pubblici («il secondo Paese in Europa dopo l’Irlanda») e a porre la spinosa questione dei nostri centri di cura: «il trenta per cento degli ospedali italiani è troppo vecchio o troppo piccolo o troppo isolato». Un problema enorme anche per un chirurgo-ministro convinto che efficienza medica e diritti del malato debbano andare di pari passo. Gli ospedali sono rimasti quelli di prima, ma i diritti dei pazienti cominciano a farsi strada. Come il decalogo del malato, lanciato proprio Veronesi e riportato nel libro.
Dieci punti semplici ma fondamentali, come il diritto a essere informati («perché tanti medici trattano i pazienti come dei bambini?»), il diritto alla privacy e alla dignità, senza i quali il paziente viene trasformato in un numero (Porta la padella al quindici) o in un argomento di anatomia (Abbiamo due tiroidi da operare). Il diritto a non soffrire: «Ho imparato da una suora che il dolore non santifica. All’ottavo piano dell’Istituto dei Tumori suor Luigina diceva spesso: Il dolore fa arrabbiare. E fa anche venire voglia di bestemmiare. Meglio una fiala di morfina».
Una vita particolare, quella di Veronesi. Come particolare fu la quadrantectomia, la tecnica che mise a punto negli anni Settanta e che oggi permette alle donne con un tumore diagnosticato per tempo, dunque piccolo, di sottoporsi all’intervento chirurgico senza perdere il seno. Fu una rivoluzione, anche perché convinse le donne a cambiare atteggiamento verso gli esami di controllo, prima di allora rinviati o addirittura evitati. L’Italia entrò all’improvviso tra i Paesi più importanti nel campo dell’oncologia, mentre Veronesi divenne una star dei convegni e un inquilino volante dell’Alitalia: «A volte andavo al Cairo giusto il tempo di una cena o a Tokio solo per un’ora di lezione».
ALL’AEROPORTO
In valigia, oltre al passaporto, l’ormai consunta lastra del torace, unico modo per passare senza problemi i controlli degli aeroporti. Il motivo? Colpa di una mina che gli esplose accanto quando aveva diciott’anni. Duecento ferite in tutto il corpo e un frammento d’acciaio che finì troppo vicino al cuore per essere rimosso. È ancora lì, nel corpo del medico più famoso d’Italia. Che quando il metal detector suona, mostra rapido la radiografia.

Repubblica 22.10.09
In Toscana i preti del genocidio
Arrestati due sacerdoti ruandesi: "Hanno massacrato i tutsi"
Dopo Seromba, finisce in carcere anche Uwayezu, vice parroco vicino ad Empoli: "Sono innocente"
di Laura Montanari

FIRENZE - Stessa accusa, genocidio. E stesso rifugio, le chiese della diocesi fiorentina. Dopo padre Athanase Seromba, condannato all´ergastolo per i massacri della guerra civile in Ruanda, l´ultimo caso è quello che ha portato nel carcere di Sollicciano padre Emanuel Uwayezu, 47 anni, il sacerdote ruandese di etnia hutu, vice parroco in una chiesa di Ponzano (Empoli). Uwayezu è stato arrestato dai militari in esecuzione di un mandato di cattura internazionale: la procura generale in Ruanda lo accusa di essere coinvolto nel massacro dei tutsi nel maggio 1994, una primavera di sangue con centinaia di migliaia di vittime.
Padre Emanuel era direttore della scuola di Misericordia di Maria di Kibeho: ottanta studenti fra i 12 e i 20 anni tutsi vennero uccisi. Secondo la denuncia dell´Africa Rights, ong con sede a Londra, il sacerdote non avrebbe fatto nulla per difendere quei giovani circondati dai miliziani hutu e finiti a colpi di machete senza che i gendarmi schierati in loro difesa intervenissero. In pochissimi si salvarono. Uwayezu si è sempre proclamato innocente e l´ha ribadito anche ieri: «Non ero al collegio, ma a colloquio con il vescovo proprio per cercare un modo per mettere in salvo i ragazzi». Il sacerdote ruandese dopo il massacro si è rifugiato prima in Congo e poi è arrivato in Toscana grazie a una convenzione fra le diocesi, Fidei donum. La stessa che soltanto pochi anni prima aveva probabilmente portato a Firenze un altro sacerdote ruandese accusato e poi condannato nel 2008 per genocidio, padre Athanase Seromba. Anche Seromba si era sempre dichiarato innocente ed era scappato dal Paese trovando rifugio prima a Prato e poi a Firenze. Aveva cambiato nome, ma era stato individuato e denunciato dal procuratore del tribunale dell´Onu e alla fine si era costituito. Condannato in primo grado a 15 anni di carcere nella sentenza d´appello la corte del tribunale internazionale per il Ruanda (con sede in Tanzania) aveva trasformato la pena in ergastolo. La presenza di sacerdoti stranieri in Italia, di solito legata alla mancanza del clero necessario a coprire tutte le esigenze pastorali, è regolata da accordi fra vescovi. I legali di don Uwayezu, presenteranno oggi alla corte d´appello di Firenze l´istanza per ottenere gli arresti domiciliari.

Repubblica 22.10.09
Bucarest. Il sangue dell’89
Così cacciammo Ceausescu
di Bernardo Valli

Sul balcone del palazzo, Nicolae Ceausescu si avvicina al microfono, pronuncia le prime parole Dalla folla si levano grida ostili, il dittatore resta a bocca aperta. Nessuno lo aveva mai interrotto Erano le 12,30 del 21 dicembre: quel momento annunciò al mondo la fine del regime
Fu l´ultimo capitolo, e l´unico cruento, di quell´anno cruciale Il racconto di Ion Iliescu, oggi quasi ottantenne, l´uomo che guidò il Paese fuori dal comunismo alla testa del Fronte di Salvezza

La rivoluzione rumena (o la rivolta o il complotto o la congiura internazionale, secondo le varie tesi) fu l´ultimo capitolo, e il solo bagno di sangue, del 1989, l´anno in cui la storia d´Europa ha girato pagina, essendo il comunismo reale entrato in un´agonia irreversibile. Gli atti notarili chiedono tempo e il decesso ufficiale sarà registrato due anni dopo con la dissoluzione dell´Unione Sovietica. Ma l´estremo ictus è il tragico episodio del Natale rumeno, vissuto alla televisione, quasi in diretta, non solo dall´Europa ma dal mondo. Bucarest era in grande ritardo rispetto alle altre capitali satelliti dell´impero in decomposizione. A Varsavia, a Budapest, a Praga, nella stessa vicina Sofia, era già avvenuta la transizione incruenta; a Berlino, il 9 novembre, era caduto il Muro.
Gli occidentali avevano da tempo voltato le spalle a Ceausescu, dopo averlo a lungo adulato per assecondare le sua insubordinazione nazionalista nei confronti di Mosca. E nella stessa Unione Sovietica, dopo una burrascosa visita di Gorbaciov a Bucarest, nell´87, si sopportava sempre meno il caparbio, a tratti sprezzante, rifiuto del regime rumeno ad accettare la decisiva svolta del Cremlino, basata sulla perestrojka e la glasnost (la revisione economica e la trasparenza politica). Ceausescu appariva come l´estremo baluardo di un comunismo irriformabile, ancorato a un dittatore, il cui carattere assumeva sempre più aspetti psichiatrici. E il Paese era sull´orlo di un´esplosione.
Dal 1980 scarseggiava persino il pane. L´industria costava di più di quel che produceva. Con uno scatto d´orgoglio Ceausescu aveva deciso di rimborsare al più presto i debiti accumulati dal Paese. E allora cominciò il calvario. La gente non moriva di fame, ma la malnutrizione allungava le file, anche notturne, davanti ai negozi d´alimentari vuoti. Nei mesi d´inverno, durante i quali mancava spesso la corrente, i rumeni dormivano vestiti, con i guanti. E poi c´era stata la proibizione dell´aborto, che aveva moltiplicato le tragedie, poiché gli aborti, spesso per evitare figli che non si potevano mantenere, venivano fatti clandestinamente e senza sicurezza. In quegli stessi anni di miseria, Ceausescu aveva fatto costruire uno dei palazzi più grandi del mondo, foderato di legni preziosi e di marmi. E nel cantiere avevano lavorato operai malpagati e denutriti. Schiavi del XX secolo.
Cosi si arriva al dicembre dell´89. La cronologia degli ultimi avvenimenti è scrupolosa. Non sgarra di un minuto. Oscuro, incerto, resta invece il retroscena di quei fatti. Ed enigmatico il ruolo dei protagonisti. Alle 14,50 del giorno di Natale, in una caserma a neppure cento chilometri da Bucarest, sono sbrigativamente fucilati Nicolae ed Elena Ceausescu e con loro si spegne il comunismo paranoico, alla cui testa non c´era più da tempo il partito ma la famiglia: la famiglia dei coniugi Ceausescu. La quale, come se cercasse il riscatto di una lunga sinistra megalomania, ha un sussulto di dignità davanti alla morte. Marito e moglie negano la legittimità di chi li sta giudicando, respingono gli avvocati difensori e l´idea di un appello, che comunque sarebbe stato negato, e affrontano senza batter ciglio il plotone di esecuzione.
Esecuzione che avviene dopo un processo durato cento minuti e dieci minuti dopo la sentenza, nella città di Dracula: a Targoviste, che si stende sulla riva del fiume Lalomita, ed è l´antica capitale della Valacchia, dove nel Quattrocento governò il crudele Vlad Tepes (chiamato l´Impalatore perché impalava appunto i prigionieri). È alla sua storia che si è ispirato il mito di Dracula. Sulla cui terra immaginaria sono morti sul serio i coniugi Ceausescu.
Quattro giorni prima dell´esecuzione di Targoviste, nel pomeriggio del 21 dicembre, quando Petre Roman esce dal Politecnico e si imbatte nella fragile barricata nei pressi dell´Hotel Intercontinental, che lo coinvolge nella rivolta, Bucarest vive ore di grande tensione. Nella tarda mattina, alle 11,55 (le riprese televisive garantiscono tempi tanto esatti) Nicolae Ceausescu appare sul balcone che si allunga su quasi tutta la facciata, al primo piano, della sede del Comitato centrale. Accanto a lui ci sono la moglie Elena e alcuni eminenti membri della direzione del partito. I quali prendono a turno la parola davanti alla folla compatta, ordinata che riempie la piazza, e condannano unanimi i tumulti di Timisoara.
All´origine di quei tumulti, cominciati a metà dicembre nella città della Transilvania, c´è l´ordine di espulsione per un pastore luterano di origine ungherese, Laszlo Toekes, accusato di pronunciare sermoni irriverenti per il regime. E la popolazione è insorta in sua difesa. La repressione ha fatto e continua a fare decine di morti. E la cifra già alta delle vittime, moltiplicata ad arte, e diffusa dai media internazionali, suscita una forte emozione in Occidente e nei Paesi appena usciti dal comunismo. Al punto da indurre alcune capitali a sollecitare un intervento sovietico per fermare il massacro. Ma non sono più i tempi della "dottrina Breznev", della sovranità limitata mascherata da solidarietà internazionalista. Mosca rifiuta di intervenire, anche perché i suoi servizi segreti sono già in azione. Si dirà più tardi che numerosi agenti del Kgb erano entrati in Romania con l´approvazione, non del tutto passiva, della Cia. Nella nuova Europa che stava emergendo Ceausescu costituiva un´anomalia, un tumore, da estirpare.
Ma il Conducator, come è chiamato Ceausescu, resiste. Conta ancora sull´appoggio del popolo. Per questo ha convocato la manifestazione del 21 dicembre. Dopo i discorsi impacciati dei collaboratori, il dittatore si accosta a sua volta al microfono (sono le 12,30), pronuncia le prime parole e subito dalla folla partono grida che suonano ostili; o rivelano il panico, poiché nello stesso momento migliaia di uomini e donne cominciano ad agitarsi, e a riversarsi nelle strade vicine. Ceausescu tace, resta a bocca aperta, stupito. Dal 1965, quando è succeduto a Gheorghiu-Dej alla testa del partito, non gli è mai accaduto di essere interrotto in pubblico, in modo cosi plateale. Gira lo sguardo smarrito verso destra per seguire i movimenti della folla che cerca di disertare la piazza spinta dalla paura della rituale repressione. Sul balcone Elena Ceausescu dice ad alta voce: «Vine Secu!». Che vuol dire appunto: «La Securitate arriva». Ma l´annuncio non ha un seguito immediato.
L´immagine diffusa dalle televisioni di tutto il mondo annuncia chiaramente la fine del dittatore e del regime. Anche se Ceausescu riprende poi il discorso ed esorta alla lotta per l´indipendenza del Paese («minacciata da forze straniere»), e promette un aumento dei salari del 10 per cento, e degli assegni familiari e delle pensioni. Ma è troppo tardi per comperare il potere sfuggito di mano. A qualche centinaio di metri dalla piazza si alzano le prime barricate di Bucarest. Dietro una di queste c´è Petre Roman.
Ion Iliescu porta bene i quasi ottant´anni, e il peso della lunga agitata esistenza di militante e dirigente comunista, e poi di primo presidente della Repubblica rumena postcomunista (riconfermato nella carica per un secondo mandato). La mattina del 22 dicembre 1989 - mi racconta Iliescu - lui era nel suo ufficio di direttore delle Edizioni tecniche. Là era stato relegato, come ingegnere e professore del Politecnico, e come sorvegliato dalla Securitate in quanto elemento «accusato di intellettualismo», dopo essere stato via via privato di tutti gli alti incarichi ricoperti nel partito e nel governo. Verso mezzogiorno lo avvertono che degli elicotteri si sono posati sul tetto del palazzo del Comitato centrale. E allora si mette davanti a un televisore. Curiosamente la «rivoluzione» continua ad essere trasmessa in diretta.
Nella notte tra il 21 e il 22 dicembre, il Conducator si rende conto di essere ormai isolato. I suoi ordini non sono più eseguiti. L´esercito e la Securitate sono intervenuti per contenere le manifestazioni, hanno moltiplicato i morti, ma la loro azione si è rivelata troppo fiacca o scoordinata. Nella mattina del 22, il ministro della Difesa, Vasile Milea, viene trovato morto in un ufficio che non è il suo, e si dice che si sia suicidato. Ceausescu si sente tradito, ma compie un ultimo tentativo: convoca il Comitato politico esecutivo e proclama lo stato di guerra su tutto il territorio nazionale. La decisione non suscita reazione nei presenti. Le sue parole non contano più. E allora, armato di un altoparlante, il Conducator si affaccia al balcone del Comitato centrale e si rivolge alla folla assiepata sulla piazza. Ma la folla è ormai apertamente ostile e non vuole ascoltarlo. La sua voce è coperta da un altoparlante più potente che sotto il balcone ripete: «Non dategli retta. Non deve aprir bocca». Cosi nessuno conoscerà mai l´ultimo appello di Ceausescu. Alle 12,08, insieme alla moglie Elena, sale su un elicottero che si alza dal tetto del Comitato centrale e si dirige verso nord.
Ion Iliescu vede sullo schermo l´elicottero che si invola, portando con se la coppia presidenziale, e subito si dà da fare per formare il Consiglio del Fronte di salvezza nazionale (estraneo al vecchio Fronte clandestino che diffondeva scritti contro la dittatura). Il compito del nuovo organismo, in apparenza creato sui due piedi, è di assumere il potere abbandonato dal dittatore in fuga. Il primo appuntamento è davanti alle telecamere, che senza esitazione inquadrano Ilieuscu quale naturale capo del Fronte, di cui non si conoscono ancora i componenti. I candidati sono tanti, sono sempre più numerosi da quando l´elicottero dei Ceausescu è scomparso nel cielo di Bucarest, ma molti vengono respinti, perché troppo compromessi col regime. In quelle ore gli annunci rivoluzionari ricalcano il linguaggio di sempre: si condanna il dittatore in fuga, non ancora il comunismo. Anzi alcuni gli rimproverano di avere tradito il comunismo. Coloro che cavalcano al momento la rivolta sono tutti comunisti, o perlomeno sono iscritti al partito, in procinto di passare dalla tessera del pc alla tessera del Fronte.
Mentre la folla, esaltata dalla partenza di Ceausescu, invade il palazzo del Comitato centrale senza più incontrare una seria resistenza di poliziotti e militari, in città si continua a sparare. Iliescu ricorda: «Era già scuro, verso le sei e mezza di sera, e le pallottole fischiavano da tutte le parti, tanto che abbiamo dovuto interrompere una riunione del Consiglio appena formato». La confusione è tale che, non sapendo se reprimere o ribellarsi, nella notte i reparti della polizia e dell´esercito si scontrano e si uccidono tra di loro. Sui 1.033 morti di quei giorni, 270 sono militari. Il traffico di cadaveri è intenso. A Timisoara vengono riesumati quelli ricuciti dopo un´autopsia e spacciati per "freschi", al fine di gonfiare il numero delle vittime dell´esercito e della Securitate. A Bucarest Elena Ceausescu ordina, ed è stata una delle sue ultime decisioni, di incenerire quaranta corpi, per nascondere le vittime dell´esercito e della Securitate.
Al Consiglio di trenta e più membri, scelti «a caso o a memoria», appartiene anche Petre Roman. La sua presenza su una delle prime barricate non è passata inosservata. Il professore quarantenne ha saputo arringare operai e studenti. Oltre alla sua capacità di comando, ha colpito l´abilità di parlare alla gente. Il suo nome non era certo sconosciuto all´"aristocrazia" comunista di cui il padre, morto cinque anni prima, aveva fatto parte con alterna fortuna, e di cui lui stesso era inevitabilmente un esponente, pur non avendo mai partecipato direttamente al potere. Era iscritto al partito, ma gli iscritti erano più di quattro milioni, e un professore universitario doveva avere la tessera. La società politica di Bucarest era abbastanza ristretta. Quarant´anni di comunismo avevano intrecciato solidarietà e ostilità, dosate dalla buona o cattiva sorte, dalle svolte politiche e dalle scelte ideologiche, oltre che dagli umori del despota e di sua moglie. Le frequentazioni e le complicità erano come un labirinto.
Ion Iliescu e Petre Roman, pur non essendo legati da un rapporto particolare, sono diventati il presidente e il primo ministro della Romania subito dopo la morte di Ceausescu. Entrambi sostengono la tesi della rivoluzione, dell´insurrezione spontanea. Escludono quella del colpo di Stato. O della congiura internazionale. Non hanno del tutto torto. Come si chiama, se non rivoluzione, un cambio di regime, di sistema politico e sociale, sia pur graduale, a singhiozzo, accompagnato da una rivolta popolare, sia pur confusa? Quando gli ho ricordato l´ingresso in Romania, all´inizio del dicembre 1989, di numerosi agenti russi, Iliescu ha reagito dicendo che in una situazione come quella di vent´anni fa era inevitabile che affluisse nel Paese una vasta varietà di servizi segreti. Dal Kgb alla Cia.
E la sbrigativa esecuzione dei coniugi Ceausescu? Fu il Consiglio del Fronte di Salvezza a decidere il processo speditivo di Targovistele. Elena e Nicolae Ceausescu erano stati catturati e tenuti prigionieri in quella città. Era una decisione politica inevitabile, perché la morte del dittatore avrebbe messo fine allo spargimento di sangue nel Paese. È quel che sostengono Iliescu e Roman, in quelle ore uniti, ma poi diventati avversari politici.
D´accordo, è stata una rivoluzione. Ma l´immediata scelta di Ion Iliescu come capo del Fronte di Salvezza nazionale fa inevitabilmente pensare a una rivoluzione preparata, guidata. Come del resto la rapida ascesa del professor Petre Roman, che si distingue sulle barricate, e pochi giorni dopo è primo ministro. Ion Iliescu era conosciuto da Gorbaciov. Avevano frequentato insieme l´Istituto Molotov di Mosca. Era un dirigente comunista colto (ingegnere idraulico, professore universitario, poliglotta), al contrario di Ceausescu che, come la moglie, nonostante i titoli accademici che si era attribuito, leggendo i discorsi inciampava spesso in grossolani errori di grammatica e sintassi. Dei quali si vantava perché ricordavano le sue umili origini.
Iliescu era stato un apparatchik modello fino al 1971. Era allora, diciotto anni prima, ministro della Gioventù e segretario per l´ideologia del Comitato centrale. La sua disgrazia comincia con un viaggio in Estremo Oriente, a fianco di Ceausescu. Il quale si entusiasma, a Pechino, durante l´incontro con Mao che gli spiega la rivoluzione culturale. Anche lui, Ceausescu, farà la sua in Romania. Ma qualche giorno dopo, a Pyongyang, è affascinato da Kim Il Sung. Ammira il culto della personalità di cui si circonda il presidente nordcoreano. Guarda con invidia i palazzi in cui vive ed esercita il potere. E decide che Kim Il Sung è il leader comunista cui ispirarsi. Iliescu lo contraddice, cerca di dissuaderlo dal prendere come esempio il satrapo asiatico. È una follia. Ceausescu lo accusa di intellettualismo. E via via lo mette in disparte. Nel 1989 Ion Ilieuscu è l´uomo su cui possono contare coloro che (soprattutto a Mosca) vogliono togliere di mezzo l´incontrollabile Conducator.

Repubblica 22.10.09
Sonno. Con una pillola puoi farne a meno
La soluzione del team Usa interviene sull´area dell´ippocampo
di Elena Dusi

Ricercatori dell´Università della Pennsylvania sperimentano un farmaco che manipola gli enzimi del cervello Scopo: far riposare anche chi non riesce a dormire. Un´emergenza che riguarda il 55 per cento degli adulti

Per chi considera il sonno un nemico, si apre la strada per barattare una notte di riposo con una pillola. Una medicina capace di ridare smalto a una testa appesantita da troppe ore a occhi aperti è in sperimentazione all´università della Pennsylvania, a Filadelfia. Promette, manipolando gli enzimi del cervello, di mimare gli effetti del dormire, illuminando ancora di più notti già colonizzate da lavoro, studio o voglia di divertimento. E punta a risolvere quello che sembra essere diventato oggi uno dei problemi principali della società: restare svegli.
Finora della pillola contro la carenza di sonno hanno beneficiato alcuni topolini di laboratorio, sottoposti ai test preliminari nel corso degli ultimi mesi. Ma Ted Abel, il coordinatore dell´équipe di ricercatori americani, si rende perfettamente conto delle enormi potenzialità che il suo farmaco ha, andando a toccare, come spiega, "uno dei problemi più importanti della nostra società, cronicamente affetta da carenza di sonno". I risultati preliminari dei suoi studi sono pubblicati oggi su Nature.
La mancanza di riposo – riportavano a giugno i dati del congresso degli esperti di medicina del sonno americani – riguarda il 55 per cento degli adulti, che dorme non più di 7 ore contro le 8 consigliate. In Italia 41 milioni di persone usano il caffè per tenersi svegli, e in 4 milioni superano la dose massima consigliata di 5 tazzine al giorno, come segnalano i dati dell´Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione. Ecco allora che i neuroscienziati sono partiti alla caccia di una preda ghiotta: un´alternativa alla caffeina, un composto chimico in grado di mimare gli effetti del riposo, concentrando 8 ore di quello che è considerato "tempo improduttivo" nei pochi secondi necessari a inghiottire una pillola.
La soluzione che Abel propone va a toccare l´ippocampo, l´area del cervello che interviene nel processo di memorizzazione, e una di quelle più compromesse dalla mancanza di riposo. "Abbiamo identificato – spiegano i ricercatori – il meccanismo attraverso il quale la mancanza di sonno altera il funzionamento dell´ippocampo. La carenza di riposo causa nel cervello l´aumento dell´enzima Pde4 che a sua volta distrugge la molecola cAmp, il cui ruolo è quello di rendere efficiente il processo di memorizzazione". Già in passato si era scoperto che una buona nottata di sonno rende più facile lo studio e l´apprendimento, al contrario delle ore trascorse sotto a una lampadina prima degli esami.
Con una medicina capace di contrastare gli effetti di Pde4, riportando in alto i livelli di cAmp, Abel ha ripristinato in parte la memoria nell´ippocampo. Il principio attivo usato si chiama rolipram, è stato iniettato nei topolini costretti a dormire non più di 5 ore e poi sottoposti a test cognitivi. Si tratta di una sostanza già nota come antiinfiammatorio e non è il primo ritrovato che gli scienziati americani sperano di usare per combattere gli effetti dell´insonnia. A febbraio del 2008 alla Columbia University annunciarono dei risultati positivi con la stimolazione magnetica transcranica e a dicembre dell´anno prima fu la Wake Forest University a iniettare nelle scimmie private del riposo una sostanza detta orexina.
Ma il mondo del sonno, in realtà, è assai più complesso del gioco di una coppia di enzimi e la caccia a un valido sostituto del riposo notturno è ben lungi dall´essere vicina alla meta. Del dormire in fondo non si sono ancora comprese le ragioni. Dire che il sonno riposa è una risposta troppo generica e c´è chi ipotizza addirittura che stare fermi durante le ore buie avesse un tempo lo scopo di tenerci alla larga dai predatori. Oggi si è scoperto che dormire poco non ha effetti solo su memoria e apprendimento, ma favorisce obesità, depressione e alterazione dei cicli ormonali. Un gioco, quello del dormire, assai più complesso e ramificato dell´azione di una singola pillola.

Repubblica 22.10.09
Le piccole donne di Lombroso
Così la misoginia diventò una scienza
Esce la nuova edizione della monumentale opera dello studioso
di Natalia Aspesi

Viene fatta una divisione in tre categorie: delinquenti, prostitute e normali
"Ma anche quando sono spose esemplari hanno caratteri da creature selvagge"

Con il massimo tempismo, Cesare Lombroso torna tra noi: la nuova casa editrice, "et al.", ripubblica il suo celebre e funereo La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, scritto assieme al giovane Guglielmo Ferrero (assatanato disprezzatore delle donne, che poi divenne suo genero sposando la figlia Gina), testo fondamentale e monumentale (640 pagine, euro 32) della misoginia positivista, uscito per la prima volta e con gran successo internazionale nel 1893 dall´editore torinese Roux. Sarebbe esagerato dire, data la quantità di bizzarrie, e offese e deliri che accumula occupandosi delle donne, che pare scritto oggi, ma insomma… Oggi, il tempo delle volgarità verso le donne non asservite, delle escort invitate in politica, delle minorenni in carriera orizzontale, dell´esposizione mediatica dei corpi femminili, del favore erotico dei potenti verso le donne destinate al loro servizio, della sudditanza adorante di molte al maschio-padrone, del consolidarsi di un muro maschile che non sa più indignarsi e reagire al dileggio, alle provocazioni, al disprezzo verso le donne: come se la maschera civile e democratica stesse cadendo e finalmente si potesse tornare a quel convulso e arcigno ordine patriarcale che tra fine Ottocento e primi del Novecento riuscì, con gran sollievo maschile a sancire scientificamente e quindi inappellabilmente, (allora) l´inferiorità delle donne.
Questa nuova e integrale edizione italiana è arricchita dalla dottissima prefazione della storica Mary Gibson e della criminologa Nicole Hahn Rafter tradotta dal testo pubblicato dalla Duke University Press. Rallegra subito qualche simpatica contumelia verso le donne che, non essendo apertamente criminali e nemmeno prostitute (in questo caso doppiamente criminali, tenendo conto anche che l´adultera è una specie di prostituta), vengono definite "normali". Anche in questo caso però, la donna che si immagina sposa e madre esemplare «ha molti caratteri che l´avvicinano al selvaggio, al fanciullo, e quindi al criminale: irosità, vendetta, gelosia, vanità». La sua atavica perversità anche se inavvertibile, si accentua in certi periodi: «Durante le mestruazioni nulla è più frequente che la menzogna, unita con la cattiveria e l´astuzia, le sleali maldicenze, le delazioni calunniose, le trame perfide, l´invenzione di favole (citato da Icard)».
Quanto all´aspetto tendente alla degenerazione anche nella donna onesta, «sopra 560 donne in un pubblico passeggio, io ne rinvenni: 37 con nei e barba, 34 con mandibole voluminose, 9 con il tipo completo degenerativo». E così per un terzo dell´elefantiaco studio, più tutto il resto dedicato alle criminali e alle prostitute-nate o occasionali, con una mole immensa di citazioni, parametri, scoperte, riferimenti antropometrici, vaneggiamenti. Prima di tutto basta guardarle e misurarle, questa mascalzone, del resto come i maschi nella sua precedente opera L´uomo delinquente (1876): per esempio il pelo. «In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15%, mentre nel normale era il 6% e nelle criminali il 5%. Viceversa la peluria che va al 6% nelle prostitute russe e nel 2% nelle omicide, manca nelle oneste e nelle ladre».
Cesare Lombroso, medico, psichiatra, antropologo, criminologo, cosmopolita e colto, nato a Verona da famiglia ebrea nel 1835, era cresciuto nel fervore del Risorgimento, da giovane si era arruolato volontario nella seconda guerra d´Indipendenza, in opposizione alla chiesa cattolica era un fervente sostenitore dell´evoluzionismo darwiniano, si era battuto per alleviare la spaventosa miseria del proletariato meridionale, aveva aderito al socialismo. Mentre stava scrivendo La donna delinquente, quasi tutte le sera, a Torino, Lombroso e la famiglia cenavano con la rivoluzionaria e femminista russa Anna Kuliscioff. Era quindi un progressista sincero, purché il progresso non si applicasse alle donne, arrivando anche a sostenere la tesi che, se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini. La donna criminale ebbe un immediato successo anche all´estero. Proprio in quegli anni la violenza misogina si era fatta impressionante e praticamente tutte le forme della scienza, compresa la nuova sessuologia, parevano impegnate a stabilire l´inferiorità e la pericolosità delle donne, che avevano cominciato a reclamare diritti, istruzione, voto, parità giuridica, lavoro. I testi in questo senso sono montagne: e non sono pochi gli studiosi ad arrivare a conclusioni queste sì criminali, come Paul Adam che in un articolo pubblicato nel 1895 sulla Revue Blanche scrive che l´erotismo della donna è già evidente nel comportamento della bambina. Infatti le bambine tra gli 8 e i 13 anni «provano un perverso piacere mentre per pochi centesimi guardano uomini di mezza età che mostrano le loro nudità».
La paura da parte di Lombroso e dei tanti maschi col potere di far passare per scienza i loro incubi socio-sessuali, si stava spostando dalla prostituta nata, creatura aberrante e criminale, alle donne che smettevano di essere "normali" per sovvertire ogni ordine civile con le rivendicazioni femministe. Può sembrare strano che nei decenni successivi L´uomo delinquente dopo essere stato contestato e sbeffeggiato, scomparve quasi del tutto, mentre La donna delinquente continuò ad essere apprezzato e diffuso nelle università. Il fascismo se ne servì, con i suoi nuovi scienziati, per ribadire l´inferiorità della donna, il suo ruolo esclusivamente familiare e per escluderla dalla vita pubblica e dal lavoro fuori casa. Dagli anni ‘70 le studiose femministe della criminalità femminile, scelsero di ignorare Lombroso, se non per l´uso che ancora dominava nelle aule di giustizia, tra periti, avvocati e giudici. E oggi? Ci resta a conforto la fisiognomica: guardare in televisione certe facce, certi zigomi, certe calvizie, certi lobi dell´orecchio, certi deformazioni craniche, fa venire i brividi, ma può servire a metterci in guardia.

Corriere della Sera 22.10.09
Un convegno nel centenario dell’autore
L’eredità negata di Romano Bilenchi
di Paolo Di Stefano

Romano Bilenchi è uno dei grandi scrit­tori del ’900 purtrop­po quasi spariti dalla memoria dei lettori. Ben venga­no dunque le iniziative che, in occasione del centenario della nascita (il 9 novembre), ne ri­portino a galla il ricordo. Tra queste, un convegno sul per­corso editoriale, che si tiene og­gi all’Università Statale di Mila­no (ore 9.30, via Festa del Per­dono), organizzato da Alberto Cadioli. Cui si aggiungerà a bre­ve la riproposta, per la Bur e a cura di Benedetta Centovalli, delle sue opere, nate nel solco della lezione toscana di Tozzi. Con una prosa dalla geometria limpida e scarna, consegnata a veri e propri capolavori brevi come il romanzo Conservato­rio di Santa Teresa o i racconti

La siccità, La miseria e Il gelo.

All’incontro milanese (parle­ranno, tra gli altri, Corrado Stajano, Piero Gelli, Goffredo Fofi, Maria Antonietta Grigna­ni, Ermanno Paccagnini) si ag­giungerà, il 12 e 13 novembre, un nuovo convegno a Colle Val d’Elsa (luogo di nascita di Bilen­chi).

Bilenchi non è stato scritto­re di bestseller e lo dimostra­no, sin dagli anni Trenta i suoi accidentati percorsi editoriali che verranno illustrati da Anna Longoni. Fu un inizio non faci­le, testimoniato da un ricco epi­stolario: a proposito del suo primo libro, Il capofabbrica, che uscirà nel ’35 per le edizio­ni «Circoli», Bilenchi ricordò che dovette modificarne la fine «perché non apparisse così 'sovversivo' come molti aveva­no intuito». Persino Vallecchi e Bompiani lo rifiutarono. Ma pur militando sempre a sini­stra, e fino ai fatti d’Ungheria nel Pci, Bilenchi non fu mai un vero «sovversivo». Uno dei suoi massimi estimatori, Gian­franco Contini, ebbe qualche rimpianto perché l’attività gior­nalistica (prima al «Nuovo Cor­riere » e poi alla «Nazione») aveva finito per sacrificare il Bi­lenchi narratore.

È vero che la sua opera si rac­coglie in pochi volumi, ma il suo periodare «primitivista» e la ricerca artigianale della scrit­tura non avrebbero forse potu­to produrre molto di più. Ci so­no però le lettere. Nicoletta Trotta, indagando nell’epistola­rio consegnato al Fondo Mano­scritti di Pavia (i suoi autografi furono la prima acquisizione di Maria Corti), mette a fuoco i rapporti intensi che Bilenchi ebbe con gli amici scrittori, che vanno da Gadda a Bigon­giari, da Palazzeschi a Caproni, dalla Morante a Luzi in un arco cronologico di oltre un cin­quantennio fino alla morte, av­venuta il 18 novembre 1989.

Se qualcuno avesse bisogno di un suggerimento autorevole per accostarsi ai suoi racconti, ascolti l’entusiasmo con cui gli si rivolge Elsa Morante nel ’41, dopo averlo ringraziato per un delizioso panforte senese: «Au­guri di buon lavoro, caro Bilen­chi, e di scrivere presto qualco­sa di così bello come La sicci­tà .

Non potrei dirle qualcosa di più bello, perché davvero mi pare difficile. Voglio dire, Lei potrà raccontare molte altre co­se, ma in questo libro possiede il senso ideale di come le cose vanno raccontate. Se il mio en­tusiasmo per questo libro Le potesse venire significato in modo tangibile, Lei si trovereb­be addirittura in mezzo a un te­atro, fra migliaia di applausi».

Aki-Adnkronos 21.10.09
Libri: Haddad, da "Il ritorno di Lilith" una speranza per tutte le donne oppresse
"Spero sia punto d'incontro tra Medioriente e Occidente


Roma, 21 ott. -(Aki) - "Spero che questo libro rappresenti una speranza per la donne arabe oppresse, ma anche per quelle italiane, e che sia un punto d'incontro tra Medioriente e Occidente". E' quanto ha affermato ad AKI - ADNKRONOS INTERNATIONAL la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per presentare il suo nuovo volume 'Il ritorno di Lilith' (ed. L'asino d'oro), disponibile da domani in libreria.
La poetessa spiega i motivi che l'hanno spinta a scrivere un'opera in cui viene riportato alla memoria dei lettori il mito antichissimo di Lilith, la prima donna creata, che non volle sottomettersi ad Adamo, ma che anzi lo abbandonò nel paradiso con un atto di disobbedienza. "Ci sono tanti cliché sulla donna araba in Occidente - afferma la Haddad - la maggior parte ritiene che tutte le donne arabe sono oppresse e velate. E' una tendenza a generalizzare, mentre in verità ci sono molte più sfumature e c'è anche un altro modello di donna nella società araba, emancipata e libera, che si batte per i suoi diritti".
'Il ritorno di Lilith', la prima opera integrale della Haddad in italiano, è un libro scritto "con le unghie", secondo la poetessa libanese per la quale "scrivere è innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo, ma solamente nei confronti di me stessa". "E' qualcosa - afferma - come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare i segreti, i misteri, le parole nascoste che ci sono in me".
La Haddad in Libano è caporedattrice di 'Jasad', una rivista in lingua araba specializzata nella letteratura e nelle arti del corpo, all'interno della quale vengono trattati argomenti come la sessualità e i diritti delle donne, temi di cui è difficile parlare nella società araba. "Jasad è una rivista per uomini e donne - afferma la Haddad - che affronta il tema del corpo, anche se non è facile trattare questo argomento nella mia lingua e nel mio mondo. Eppure, se torniamo ad alcuni scritti in lingua araba di mille anni fa ci sono testi che parlano del corpo e dell'erotismo con una semplicità che scioccherebbe anche lo scrittore occidentale più aperto".
La poetessa libanese non teme ritorsioni da parte dei gruppi religiosi più estremisti. "Quando ho scritto 'Il ritorno di Lilith' non ho pensato che gli estremisti fossero un ostacolo alla sua realizzazione - sostiene - Ero appassionata dall'idea di scrivere quest'opera e l'ho fatto, anche se molti credono che mi sia gettata nel fuoco".
L'ultimo pensiero della Haddad è per Rania, la regina di Giordania, in visita ufficiale a Roma. "Ho tanto rispetto e ammirazione per la regina Rania - dichiara la scrittrice - perché non accetta il modello stereotipato della donna araba oppressa che non ha potere e che vive lasciandosi andare al volere dell'uomo".
(Spi/AKI)

mercoledì 21 ottobre 2009

Corriere della Sera 21.10.09
Riletture «L’Osservatore» e la «Civiltà Cattolica»: un pensatore in via d’estinzione, non lasciamolo alla sinistra
«Salviamo Marx». La riflessione del Vaticano
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — A colpire l’atten­zione basterebbe l’immagine ironica del vol­to barbuto di Karl Marx disegnato sul corpo d’un panda, tale e quale a quello del Wwf. Un pensatore a rischio di estinzione e tutta­via da salvare? Almeno in parte, sì: parola dell’ Osservatore Romano e della Civiltà Cat­tolica, l’autorevole rivista dei gesuiti (le cui bozze, prima della pubblicazione, vengono approvate dalla Segreteria di Stato vaticana) che nel numero appena uscito dedica al filo­sofo di Treviri un articolo ripreso oggi, con tanto di vignetta, dal quotidiano della Santa Sede. Titolo: «Quel che resta di Marx».

Perché qualcosa, va da sé, resta anche a vent’anni dalla caduta del Muro, ed è bene che resti: «I poteri dittatoriali socialisti han­no sfigurato le concezioni del Marx storico fino a renderle in parte irriconoscibili», no­ta il padre gesuita tedesco Georg Sans, auto­re dell’articolo nonché docente di Storia del­la filosofia contemporanea all’università Gregoriana. «Sarebbe un grossolano errore ritenere che lo spirito che sta dietro l’avven­to del comunismo coinvolga in ogni caso Karl Marx». Padre Sans, con piglio filosofi­co, distingue il pensiero di Marx da quello di Engels, dall’immagine che lo stesso En­gels ha dato delle idee dell’amico (formule come «materialismo storico» e «concezio­ne materialista della storia», nota l’autore, sono engelsiane) e infine dal marxismo-leni­nismo che diventa una «concezione univer­sale della realtà», la «dogmatizzazione» di partito seguita alla rivoluzione d’Ottobre.

È insomma «indispensabile distinguere il Marx del partito comunista e del suo ami­co Engels» dal vero volto del filosofo di Tre­viri: «il Marx giovane» dei Manoscritti pari­gini del 1844 e l’autore del Capitale , e «dare la preminenza all’osservatore critico rispet­to al dogmatico rigido». Certo, «nessuno più troverà convincente la concezione mate­rialistica della storia» ed è «troppo riduttiva la visione materialista dell’uomo». Però lo stesso non si può dire delle riflessioni sul «lavoro alienante», né è risolto «il proble­ma dell’origine del plusvalore». Con tutte le correzioni del caso, ad esempio, «proprio se si tiene conto della problematica della globalizzazione, almeno su due punti non gli si possono muovere obiezioni», scrive padre Sans: «L’idea che non corrisponde al­la natura dell’uomo intendere il lavoro retri­buito come semplice mezzo per assicurarsi l’esistenza fisica» e «il riconoscere che la for­ma del lavoro, come la spartizione tra pover­tà e ricchezza, non sono dati naturali, ma l’espressione di strutture create dall’uomo, delle quali egli stesso deve essere reso re­sponsabile » . No, in certe cose «Marx non può ritenersi superato». Per dire: «Non sembra finora contraddetta la tesi marxiana che alla fine è sempre il lavoro reale degli uni quello che crea la ricchezza eccessiva degli altri». Vale la pena riflettere, conclude lo studioso: «Non conviene, oggi come in passato, lascia­re semplicemente alla sinistra la critica del­l’economia politica di Marx».


l’Unità 21.10.09
Il rapporto di Reporters sans frontieres: lo scorso anno era al 44 ̊ posto. È dietro agli africani
p Sotto accusa le minacce ai giornalisti, il controllo di Berlusconi sui media, il ddl intercettazioni
Libertà di stampa L’Italia arretra al 49ºposto nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporters sans Frontières. Questo per interferenze, pressioni e intimidazioni da parte di Berlusconi. Salgono gli Usa di Obama.
di Natalia Lombardo

Italia declassata al 49 ̊ posto per la libertà di stampa, nella classifica mondiale stilata per il 2009 da Reporters sans Frontières. L’anno scorsoeraal44 ̊,maintreanniilnostro paese è sceso di ben quattordici posizioni: era al 35 ̊ nel 2007. Ora si colloca appena prima della Romania e dopo Hong Kong; retrocedono anche la Francia e la Spagna (posti 43 e 44), mentre l’America di Obama guadagna venti punti salendo al 20 ̊ posto della classifica, che esamina le violazioni sulla libertà di stampa effettuate tra il primo settembre 2008 e il 31 agosto 2009.
Per l’Italia si parla di «degrado», dovuto «alle vessazioni di Berlusconi nei confronti dei media; le ingerenze crescenti, le violenze della mafia contro i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata», e anche per il disegno di legge sulle intercettazioni approvato alla Camera e che passerà al Senato, ddl che «ridurrebbe drasticamente la possibilità dei media di pubblicare intercettazioni telefoniche».
Tutto questo ha fatto perdere punti all’Italia in questi anni. Il segretario generale di Rsf, organizzazione internazionale indipendente, Jean-François Julliard, commenta che «è sconcertante vedere alcune democrazie europee, come la Francia, l’Italia e la Slovacchia perdere, anno dopo anno, dei posti nella nostra classifica».
EUROPA REPRESSIVA
Insomma, la vecchia Europa, «che dovrebbe essere di esempio per le libertà civili», limita la libertà, spiega Rsf, in contraddizione con le condanne verso le violazioni dei diritti umani all’estero. Lo stesso centrodestra italiano, infatti, come ricorda Beppe Giulietti di Articolo21, «osanna a Reporters sans Frontières solo quando condanna la Cina, Cuba o il venezuelano Chavez, osannato a Venezia». Ma già nella conferenza stampa di Rsf l primo ottobre, Silvio Berlusconi stava per essere inserito nella lista dei «predatori della libertà di stampa». Questo per il controllo delle televisioni di sua proprietà e le interferenze sulla tv pubblica, per gli attacchi diretti ai media, le citazioni in giudizio a l’Unità e a Repubblica con richieste milionarie di risarcimento danni, le minacce di querela a El Pais per la pubblicazione delle foto o ai media del gruppo Murdoch. E ancora, spiegava Rsf, le pressioni esercitate sulle sue tv Mediaset per imporre una visione «edulcorata e positiva del suo operato, e quelle sulla Rai per ritardare programmi o intralciarne la messa in onda (compreso il divieto imposto alla Rai di trasmettere il trailer di Videocracy). Poi le minacce dirette a giornalisti, e persino per il tentativo di condizionare la posizione della Commissione Europea sull’immigrazione. E oggi a Strasburgo l’Europarlamento vota sulla libertà d’informazione in Italia.
LA TRAGEDIA RUSSA
In testa alla classifica di Reporters sans Frontières ci sono Danimarca, Finlandia e Irlanda: le prime tredici caselle restano occupate da paesi europei, ma la Slovacchia precipita di 37 posti, ( pur sempre prima dell’Italia al 44 ̊). Scende anche la Francia, per le inchieste giudiziarie su alcuni giornalisti, le perquisizioni nelle redazioni e le «ingerenze di politici» compreso Sarkozy. Spiccano le giovani repubbliche del Baltico: al 6 ̊ posto l’Estonia, poi Lituania e Lettonia (10 e 13), L’Europa si è fatta superare dalle «giovani democrazie africane», Mali, Sudafrica e Ghana, e latino americane: Uruguay, Trinidad e Tobago (tra il 25 ̊ e il 35 ̊ posto). Perde ben 47 caselle Israele, che dopo l’offensiva «Piombo Fuso» va a quota 93. La Russia è sotto la voce «tragedia»: scende al 153 ̊ posto, ne perde 12 a causa delle uccisioni di giornalisti, tre anni dopo l’assassinio di Anna Politkovskaya, con l’aumento di censura e impunità per mandanti e killer.
L’Iran a 172 è quartultimo nel «trio infernale» dei paesi con violenze, arresti illegali e censure contro giornalisti e blogger (Turkmenistan al 173, Corea del Nord 174 e, ultima, l’Eritrea al 175 ̊ posto.❖

Repubblica 21.10.09
L’amicizia col leader russo tra affinità nell´uso del potere, populismo e culto della personalità
Il Cavaliere va dal gemello Putin e salta l´incontro col Re di Giordania
Il premier: "Qui in Russia mi sento come a casa mia" E Vladimir ricambia a Villa Certosa
Colbacchi, matrioske e testosterone: il sogno comune è la “demokratura”
di Filippo Ceccarelli

«Tra le nuove matrioske spuntate nei mercatini dell´Est europeo annunciava con una specie di sollievo la didascalia di Libero nel novembre del 2008 ecco anche quella di Silvio Berlusconi». La foto, scattata su una bancarella di Chisimau, in Moldavia, mostrava l´oggetto accanto a una matrioska gemella con l´immagine di Medvedev. E questo rientra certamente nel folclore.
Sennonché, alla vigilia della visita del Cavaliere all´amico Putin, una specie di fuga d´amore che l´ha spinto a dare buca perfino al re di Giordania, niente più incontro con un leader chiave del Medio Oriente, niente attenzione alle iniziative della regina Ranja, via di corsa a Mosca, ecco, mentre il Cavaliere, carico di preziosi vini s´appresta ad abbracciare «il nostro grande Wladimir» varrà la pena di far presente che lo staff berlusconiano si era a tal punto appassionato all´idea della matrioska da produrne una celebrativa in seimila esemplari, con dentro i sei o sette leader del centrosinistra sconfitti. In vendita al congresso fondativo del Pdl.
Purtroppo non si potè mai vedere perché alla Fiera di Roma, segregati com´erano in un recinto e dentro una sala stampa che poi fungeva da ricco refettorio, i giornalisti erano impediti a muoversi. E anche in questo assai restrittivo rapporto con i media, nel volerli sempre tenere lontani e quindi a bada, il berlusconismo finisce per assomigliare un bel po´ ai regimi post-comunisti.
«Qui in Russia mi sento a casa mia» ha detto il presidente italiano a Mosca nel maggio scorso. Anche Putin si è sempre sentito a suo agio a casa Berlusconi, con Apicella e il Bagaglino a villa Certosa, a torso nudo sotto il sole della vacanza, manovre militari sul mare della Sardegna, sfarzo e magnificenza da esibire, commerci e negozi vari. La leggenda palatina ha certificato l´intensità dell´amicizia nel dono del celebre lettone a baldacchino detto «di Putin» che poi secondo la recente testimonianza dell´«Ape regina» sarebbe in realtà un immane giaciglio che il Cavaliere si è fatto fabbricare sulla base di un quadro recapitato in regalo, questo sì, dal presidente russo al fastoso anfitrione di Palazzo Grazioli. Quando fiorirono le storie dei festini e delle escort, la Komsomolskaya Pravda fu uno dei pochissimi giornali a difendere a spada tratta Berlusconi: «Perché prendersela con un uomo vero che usa il testosterone alla grande? Si dovrebbe essere fieri di un primo ministro che ha 72 anni, ma è in forma brillante ed è sempre circondato da donne avvenenti che non solo brillano di bellezza, ma fanno pure carriera».
Sulla reciproca cordialità tra il Cavaliere e Putin fantastiche immagini oscurano qualsiasi dubbio: eccoli imbacuccati per allegre merende sotto zero, machisti e spensierati a un incontro di lotta libera, addirittura con un cavallino nano tra i piedi. Ma non è solo la diplomazia dell´abbraccio, né il comune gusto di stupire l´interlocutore e nemmeno l´affarone del gasdotto, che pure deve stargli parecchio a cuore.
Nuda e cruda, l´iconografia rivela qualcosa di più sottile e decisivo che trascende l´origine dei due potenti, la televisione commerciale e l´intelligence dell´ex Urss. Un´affinità estetica. Una corrispondenza di intenti e di idiosincrasie. Una consonanza nel modo di concepire, rappresentare e utilizzare il potere, miscuglio sovrano di impicci privati e necessità statali, populismo evoluto e culto della personalità a reti unificate.
Accomuna Berlusconi e Putin un´energia antica e tecnologica, quella loro concezione assai limitativa della democrazia che tende a risolversi in una «demokratura», preoccupante crasi di democrazia e nomenklatura, foglia di fico di una libertà plebiscitaria, apparente e sorvegliatissima. Il Cavaliere si definisce «l´avvocato» di Putin, che in risposta lo proclama «mediatore ideale». Me entrambi avvertono un certo disagio, se non fastidio per le istituzioni, i bilanciamenti, i contropoteri, gli imprevisti, le lentezze, gli scocciatori (fra questi ultimi, certamente, eccellono i giornalisti).
«Berlusconistan», come una delle tante repubbliche nata dall´esplosione dell´impero sovietico, ha definito l´Italia il settimanale Time. Sempre più appare risucchiato dall´oriente, antico e moderno, vicino e lontanto, il presidente del Consiglio: sultano, satrapo, despota asiatico, gemello e modello di leader post-comunista e tu guarda che sorprese offre lo scorrere della storia.

Corriere della Sera 21.10.09
Università Cattolica, la corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’esclusione di Lombardi Vallauri
La rivincita del professore «eretico»
di Marco Ventura

Il caso Accolto il ricorso del docente Luigi Lombardi Vallauri
L’Europa: violati i diritti del filosofo «eretico» escluso dalla Cattolica
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia

L’Europa, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, condanna l’Italia: violati i diritti del filosofo Luigi Lombardi Vallauri, escluso dall’univer­sità Cattolica di Milano per le sue posi­zioni «nettamente contrarie al cattolice­simo ». Lombardi Vallauri non doveva più insegnare nell’ateneo «per rispetto della verità, del bene degli studenti e di quello dell’università». La Cattolica: condannato lo Stato italiano, non la no­stra università, ora valuteremo.

Luigi Lombardi Vallauri si sedet­te per terra. Lo stupore corse tra studenti e colleghi presenti in aula, a Bari, per la sua confe­renza. «Del Dio che emoziona non mi sento di parlare seduto su una sedia — spiegò lui — quindi mentre parlerò di questo Dio starò seduto per terra». Era il 19 aprile 1996. Filosofo del diritto al­l’Università di Firenze, l’allora sessan­tenne Lombardi Vallauri insegnava an­che, dal 1976, presso l’Università del Sa­cro Cuore di Milano. Il rinnovo annuale del contratto con la Cattolica era divenu­to mano a mano più spinoso. L’incon­tro di Lombardi Vallauri con le religioni orientali aveva inasprito la sua critica del cattolicesimo. Seduto per terra in quella mattinata barese, Lombardi Val­lauri celebrò «il Gange dell’umanità in cui si gettava come affluente il Tevere del cattolicesimo romano». Poi, finita la meditazione sul «Dio che emozio­na », passò «al Dio professionale filosofi­co, di cui si può benissimo parlare sedu­ti a un tavolo congressuale». E da lì, dal tavolo congressuale, smontò l’ortodos­sia, la tradizione. La teologia naturale tomista, soprattutto: «Ircocervo consi­stito nell’attribuire all’etnico, geloso, fu­riosotenero, bellicamente e giuridica­mente feroce, idiosincraticissimo Yahvè e al dolcissimo-spietato 'Padre' impassibili attributi ontologici desunti da una ingegnosamente violentata onto­logia generale aristotelica».

Questo Lombardi Vallauri, inconteni­bile nello stile e nella sostanza, fu con­vocato in Vaticano due anni dopo, il 23 ottobre 1998, per un colloquio presso la Congregazione per l’Educazione cattoli­ca. Quando i colleghi della Cattolica si riunirono, dieci giorni dopo, il preside comunicò la decisione vaticana: per le sue posizioni «nettamente contrarie al­la dottrina cattolica», Lombardi Vallau­ri non doveva più insegnare nell’Univer­sità Cattolica «per rispetto della verità, del bene degli studenti e di quello del­l’Università ». Dopo vent’anni di rinno­vi, l’incarico cessava. Lombardi Vallauri ricorse al Tar della Lombardia, poi al Consiglio di Stato. Facile la risposta dei giudici amministrativi: non sindachia­mo quello che decide la Chiesa; così vuole il Concordato, così vuole la Corte costituzionale, già pronunciatasi nel 1972 sull’analogo caso Cordero. Rimane­va solo la Corte di Strasburgo. E ieri mat­tina la Corte europea dei diritti dell’uo­mo ha deciso.

Il ricorso di Lombardi Vallauri è sta­to accolto. L’Italia è stata condannata per aver violato la libertà d’espressione del professore e il suo diritto a un giu­sto processo. La vera condannata è l’Università Cattolica, invano costituita­si di fronte alla Corte europea; soprat­tutto quel pezzo di Cattolica che in un fatale consiglio di facoltà, ricostruito dai giudici europei, respinse a risicata maggioranza la mozione in cui si do­mandavano chiarimenti alla Santa Se­de. Per la Corte di Strasburgo, quella de­gli organi accademici milanesi contro Lombardi Vallauri fu una decisione «priva di motivazione e presa in assen­za di un reale contraddittorio». Dall’esa­me della Corte europea esce male an­che la giustizia amministrativa italiana: censurata da Strasburgo per aver abdi­cato al suo dovere di vaglio dell’atto in­criminato, per essersi nascosta dietro un comodo rinvio alla decisione della Santa Sede.

Due traiettorie s’intrecciano. Quella personale di Lombardi Vallauri. E quel­la collettiva dei diritti e delle religioni in Europa. Lombardi Vallauri è un pen­satore di genio. Originale; controcor­rente. Non un buffone, non un eretico a tutti costi. Ha maturato con fatica le sue posizioni. Ben dentro un cattolicesi­mo cui lo legano, tra l’altro, parentele illustri. La collisione con le autorità cat­toliche è seria. A causa del rigore anali­tico nella denuncia di quel naturalismo teologico in cui è caduto, secondo il fi­losofo, il pensiero cattolico. E per il mo­do: per quel lavorio intellettuale che si fa immaginazione, contemplazione; per l’alleanza tra ragione e stupore con­tro un discorso su Dio squadrato, razio­nale, politico. Senza contraddittorio. Analoga traiettoria oppone in Europa il vecchio ordine dei concordati, della lai­cità francese, delle nordiche Chiese di Stato — i vecchi modelli Stato/Chiesa, insomma — al nuovo paesaggio. Caoti­co e pieno di opportunità. Non basta più dire la parola magica «concorda­to »; né arretrare di fronte alla sovranità della Santa Sede, all’intoccabilità del di­ritto canonico. Lo ha compreso Bene­detto XVI, molto attento all’incontro di lunedì scorso col neo ambasciatore del­la Commissione europea. Non lo ha an­cora compreso l’Italia, già condannata dalla Corte nel 2001 in un caso simile a quello di Lombardi Vallauri. L’arena eu­ropea impone nuove regole alla vec­chia partita tra ideologie e fedi, Chiese e Stati. Alla Corte europea ci son giudi­ci, come il dissenziente portoghese Bar­reto, per i quali il Concordato è sacro quanto è sacra la religione. Ma anche giudici per i quali è scontato che i dirit­ti valgano più dei Concordati. Giudici che temono di dovere domani al diritto islamico quello che si dà oggi al diritto canonico. Come la belga Tulkens, cen­sore della laicità turca in difesa del dirit­to al velo. O come l’ungherese Sajó, per il quale separare trascendente e pubbli­ci poteri è tanto necessario quanto è ve­ro, come ha scritto di recente, che «i ci­miteri esistono per ragioni di sanità pubblica, non per facilitare la resurre­zione ». L’Europa spariglia il gioco. La ragion di Stato non è più sola. Il diritto canonico, il diritto ebraico, il diritto islamico vanno ormai difesi a Strasbur­go, a Bruxelles.

Luigi Lombardi Vallauri celebra. «Brindo in famiglia, al diritto», dice. Al­le regole del giusto processo, che sono poi «le stesse d’ogni vero dibattito intel­lettuale ». È questo il valore dei diecimi­la euro che lo Stato italiano è stato con­dannato a versargli. Il Dio del filosofo seduto per terra sfida il Dio cattolico. La giustizia europea dei diritti sfida l’or­dine concordatario italiano.

Corriere della Sera 21.10.09
Lo Stato dovrà pagare 10mila euro per aver impedito la celebrazione di un giusto processo dopo il ricorso
L’ateneo: «Nessun commento, valuteremo»

Al momento negli ambienti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore si preferisce non commentare l’accoglimento del ricorso presentato da Luigi Lombardi Vallauri alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da una parte si fa presente la necessità di valutare e analizzare in tutta la sua portata la sentenza emessa a Strasburgo. Dall’altra viene sottolineato che la condanna è stata emessa a carico dello Stato italiano e non dell’Università Cattolica, in quanto i giudici hanno ritenuto che le precedenti sentenze del Tar della Lombardia e del Consiglio di Stato, cui Lombardi Vallauri aveva presentato ricorso contro la decisione di allontanarlo dall’ateneo, abbiano violato i diritti al giusto processo e alla libertà di espressione del docente di Filosofia del diritto. Si tratta ora di vedere se nei prossimi giorni la Cattolica prenderà posizione, visto che all’origine del contenzioso c’è comunque una sua decisione.

Corriere della Sera 21.10.09
Emanuele Severino: «L’università può sospendere chi vuole»
di Armando Torno

Cosa ne pensa Emanuele Severino del caso Lombardi Vallauri? E di quello che vide protagonista Franco Cordero, escluso dall’in­segnamento in Cattolica poco dopo di lui? Risponde il filosofo: «Mi sembra, e per quanto ricordo, che Lombardi Vallauri e Cordero siano stati e rimangano sostanzialmente cristia­ni, e quindi si è trattato di una lite in famiglia. Il mio caso risale alla fine degli Anni 60 e, se i due colleghi non hanno gradito la decisione dell’Università fondata da padre Gemelli, è perché alla Cattolica volevano rimanere».

Cosa capitò, invece, a Severino? Ecco le sue parole: «A differenza di loro, nei miei ri­guardi c’è stato un processo formalmente ana­logo, dal punto di vista giuridico e con le debi­te proporzioni, a quello di Galileo». Insomma, era questione diversa. Per­ché? «Il mio discorso filo­sofico — nota Severino— fa rientrare il cristianesi­mo nella storia del nichili­smo. Non si tratta di una lite in famiglia». Puntua­lizza: «Aggiungo che per le leggi italiane l’Universi­tà Cattolica può sospende­re dall’insegnamento, ma non togliere lo stipendio al docente colpito qualora egli sia un professore che abbia vinto un concorso statale (come il sottoscrit­to, Cordero, Vallauri e tut­ti gli ordinari). Da parte mia, d’accordo con le autorità accademiche ed ecclesiastiche, ho preferito andarmene a Venezia soprattutto perché avevo attorno un gruppo di giovani studiosi, oggi tutti in catte­dra, presidi eccetera, che invece sarebbero ri­masti senza alcun sostentamento qualora io avessi scelto di percepire lo stipendio rinun­ciando a insegnare».

Per quel che riguarda il giudizio europeo sul caso Lombardi Vallauri, Severino osserva: «Ritengo, con tutta la stima per i colleghi, che se un’università libera decide che sia seguito un determinato indirizzo culturale, chi vi inse­gna non debba poi avere la pretesa di sceglier­ne uno diverso». E conclude: «Fortunatamen­te in un’università come quella del San Raffae­le dove insegno, chi la guida, cioè il sacerdote don Luigi Maria Verzé, auspica ma non esige dai docenti un determinato indirizzo cultura­le».

martedì 20 ottobre 2009

l’Unità 20.10.09
L’ora di religione islamica Una storia lunga più di 100 anni


A proposito della controversa «ora di religione islamica», auspicata dal viceministro Adolfo Urso, la storia è lunga e istruttiva. 29 settembre 1870: la circolare del ministro della Pubblica Istruzione, stabilisce che l'istruzione religiosa venga impartita solo su richiesta dei genitori. 1888: la relazione della Commissione per i nuovi programmi della scuola elementare afferma che «lo Stato non può fare, né direttamente né indirettamente una professione di fede». Ma le cose sono destinate a cambiare. 1923: un Regio decreto rende obbligatorio l'insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare. 1929: il concordato, che pure estende l’insegnamento obbligatorio alle scuole medie e superiori, consente ai genitori di chiedere l’esonero per i propri figli. 1930: un decreto Regio, permette a «i padri di famiglia professanti un culto diverso dalla religione di stato di ottenere locali scolastici per l'insegnamento religioso dei loro figli». E infine la Costituzione italiana. All’articolo 8 si afferma che: «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. (Quelle) diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico». Dopo la revisione del concordato del 1984, le intese sottoscritte tra lo Stato italiano e alcune confessioni, regolamentano, appunto, l’insegnamento scolastico. Come si vede, è l’intero apparato normativo dello Stato italiano nei suoi principi ispiratori a prevedere che «l’ora di religione islamica» possa essere realizzata. Poi, certo, intervengono altre considerazioni e, in particolare un approccio liberale che privilegerebbe, piuttosto, l’insegnamento della storia delle diverse religioni.

l’Unità 20.10.09
Il partito che voleva volare
Cosa fermò la corsa del Pci: la mano della storia o gli errori del gruppo dirigente? «Il sarto di Ulm» e la risposta di Lucio Magri
di Nicola Tranfaglia


Bertold Brecht aveva scritto un apologo intitolato Il sarto di Ulm. In quell’apologo parlava di un sarto che aveva messo a punto, così credeva, un apparecchio che avrebbe permesso all’uomo di volare. Lo mostrò al proprio vescovo dicendogli: «Eccolo, posso volare». Il vescovo lo portò sulla finestra più alta del palazzo e lo invitò a lanciarsi nel vuoto. Il sarto lo fece e si schiantò sulla strada. La conclusione di Brecht era ottimistica. Erano passati alcuni secoli ma gli uomini erano riusciti effettivamente a volare.
Da un’utopia così realizzata, parte Lucio Magri che, dopo aver fatto politica per oltre mezzo secolo, ha scritto una lunga riflessione sulla storia del partito comunista in Italia. Il libro, di quasi cinquecento pagine, ripercorre le vicende del suo partito, dedicando particolare attenzione al “partito nuovo” fondato da Togliatti con la svolta di Salerno nel 1944. «Al centro della nuova strategia abbozzata da Togliatti osserva Magri era il nesso tra rivoluzione e riforme, tra autonomia e unità, conflitto sociale e politica istituzionale, come un lungo processo, un’avanzata per tappe».
Ma alcune contraddizioni l’autore deve riconoscerlo minavano una soluzione che pure era quella giusta. Vale la pena elencarle: mancava una visione più precisa del tipo di società alla quale si aspirava. Occorreva inoltre trasformare le masse subalterne in una classe dirigente alternativa capace di organizzare la lotta sociale e di gestire i parziali spazi di potere via via conquistati. E questo secondo aspetto, malgrado il numero assai alto di iscritti raggiunti un anno dopo la Liberazione due milioni di persone, donne, uomini e giovani, che ne fecero subito il primo partito comunista dell’Europa era particolarmente evidente. Ma soprattutto si profilava il vero ostacolo alla realizzazione di quella strategia: la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti da un’aspra guerra fredda e la collocazione dell’Italia nel blocco filoamericano mentre il Pci era per la sua storia legato da un vincolo di ferro all’Unione Sovietica.
Una simile contraddizione avrebbe caratterizzato la storia del primo quarantennio repubblicano. Il partito cattolico non a caso avrebbe privilegiato, nella prima fase dopo la rottura postbellica dei governi di unità nazionale e la scissione del movimento sindacale, l’alleanza con i partiti della destra. Avrebbe, quindi, compiuto l’apertura a sinistra con i governi Dc-Psi negli anni sessanta, ma si sarebbe fermata di fronte alla prospettiva di una nuova unità nazionale contro i terrorismi e la crisi economica, fallendo di fatto, in meno di tre anni, quel difficile “compromesso storico” che un leader centrista come Enrico Berlinguer aveva annunciato di fronte al colpo di stato appoggiato dalla Cia in Cile contro Allende .
Magri ricostruisce, con notevole chiarezza, l’evoluzione pur contraddittoria del partito comunista, l’indubbia creatività di Togliatti e la sua morte precoce di fronte alla crisi di Ungheria, alla destalinizzazione parziale di Kruscev e al successivo irrigidimento del modello sovietico. E le grandi novità, maturate nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II che coincidono con la sconfitta di Pietro Ingrao nel Pci (1966) e uno scontro che non apre la strada alla segreteria di Giorgio Amendola ma favorisce l’avvento prima di Longo, continuatore di Togliatti, e poi di Enrico Berlinguer, candidatura di mediazione e di compromesso, all’interno di un gruppo dirigente diviso e incerto sull’atteggiamento da tenere di fronte al colosso sovietico.
Magri dedica la sua attenzione ai mutamenti del conflitto sociale provocati dal miracolo economico, alle conseguenze del lungo sessantotto prima studentesco, poi anche operaio, che sono in qualche modo anche all’origine dell’oscura nascita, prima del terrorismo nero fomentato dall’appoggio sotterraneo degli apparati dello Stato legati alla destra, poi della nascita di quello “rosso”, ancor più influenzato dal gioco grande dei servizi segreti italiani e stranieri che sfociano nell’ancor misterioso delitto di Aldo Moro.
Quali conclusioni? L’autore le affida a un saggio scritto vent’anni fa quando nel Pci si formava una corrente che venne definita del “no” e che fu alla base delle forze interne al partito che diedero vita nel ’91 al partito della Rifondazione comunista. Leggendo con attenzione quelle pagine, Magri insiste su due aspetti della battaglia politica attuale che, anche a mio avviso, sarebbero ancor oggi fondamentali per una efficace opposizione al populismo autoritario: un profondo rinnovamento dell’istruzione in Italia che ne faccia una istituzione creativa delle nuove generazioni e un partito che si affacci a quella “funzione pedagogica”, così centrale nella riflessione di Antonio Gramsci.

l’Unità 20.10.09
L’agenzia del farmaco dice no all’uso improprio della pillola abortiva
Spetterà a Stato e Regioni stabilire le disposizioni per l’utilizzo nelle strutture sanitarie
L’Aifa dà il via libera all’uso della Ru486 negli ospedali
Via libera dall’Aifa alla commercializzazione della pillola abortiva Ru486. Si potrà utilizzare solo nelle strutture ospedaliere, nel dettato della legge 194, dando massima tutela alla salute della donna.
di Maria Zagarelli


Via libera definitivo dal Consiglio di amministrazione dell’Agenzia del Farmaco italiano per l’uso negli ospedali della pillola abortiva Ru486. Spetterà al direttore generale Guido Rasi avviare l’iter per la pubblicazione in Gazzetta ufficiale relativa all’emissione del farmaco sul mercato che dovrà essere esecutiva entro un mese. A prescindere dall’indagine conoscitiva pretesa dalla maggioranza. «Il percorso seguito è stato assolutamente rispettoso dell’iter procedurale previsto dall’Ente regolatorio europeo per il mutuo riconoscimento di un farmaco, verificandone efficacia scrive l’Aifa -, sicurezza e compatibilità con le leggi nazionali nel rispetto e a tutela della salute delle donna. Condividendo le preoccupazioni di carattere etico che anche questo metodo di interruzione volontaria della gravidanza comporta», l’Aifa inoltre rimanda a Stato e regioni le relative disposizioni per il corretto percorso di utilizzo «clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero» così come prevede la legge 194. Le restrizioni all’utilizzo sono dunque dettate dall’esigenza di «massima tutela del cittadino» e nelle intenzioni dell’Aifa -, sgombrano il campo «da qualsiasi possibile interpretazione di banalizzazione dell’aborto e dal suo impiego come metodo contraccettivo».
LE REAZIONI
La sottosegretaria Eugenia Roccella si dice «pienamente soddisfatta», per quel «chiaro no a protocolli che prevedono il day Hospital e introducono in Italia l’aborto a domicilio», mentre il ministro della Salute, Maurizio Sacconi puntualizza: «Il Parlamento avrà modo comunque di esprimersi prima dell'effettiva entrata in commercio della pillola cioè prima della delibera e della determina tecnica che dovrà essere assunta, in conseguenza, dal direttore generale». Esulta Maurizio Gasparri: l’Aifa sposa appieno la linea della maggioranza e boccia quella delle opposizioni. Le truppe romane della Giovine Italia (pdl) sono già in campo davanti a scuole e università per raccogliere le firme per il blocco della commercializzazione della pillola. Infine: oltretevere il cardinale José Lozano Barragan, presidente emerito del pontificio consiglio per la Pastorale per la Salute invita i medici all’obiezione di coscienza.
Dal fronte Pd la capogruppo in Commissione Sanità Dorina Bianchi ribadisce «l’importanza dell’indagine conoscitiva», mentre Anna Finocchiaro, presidente dei senatori democratici, osserva che l’Aifa «ha preso la sua decisione in piena autonomia» e al Pdl ricorda «che l’aborto facile o la banalizzazione dell’aborto, non sono mai stati in discussione». Livia Turco risponde a Gasparri: «Pretesti interamente inventati da chi voleva impedire l’utilizzo della Ru486 e che oggi è stato pienamente sconfitto». «Inaudite e fuori luogo» per Vittoria Franco le «pressioni» di esponenti di governo e maggioranza all’Aifa andate avanti fino a ieri mattina.

l’Unità 20.10.09
L’inesorabile distruzione delle nostre radici culturali
Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti Su questi temi, come per altri, si sta tagliando Il ministero sta annientando le competenze antropologiche
di Sandra Puccini


Il cambio. Chi fa le leggi si inventa miti celtici e altra paccottiglia volgare
Revisionismo- Un paese che si vergogna della sua storia, “revisionismo”
UNESCO. Ha classificato come “patrimonio dell’umanità” i nostri beni storico-artistici. Un riconoscimento che fa dell’Italia un paese unico in Europa. Non dimentichiamolo.

Nel 1911 si teneva a Roma l’Esposizione universale per celebrare il cinquantenario dell’Unificazione italiana. In quella occasione, in un tempo nel quale la diversità degli italiani era considerata un valore e una ricchezza per comporre i lineamenti dell’identità nazionale, accanto a mostre d’arte e di architettura, venne allestita nella capitale la più grande raccolta di oggetti popolari mai realizzata nel nostro paese. Artefice e organizzatore della Mostra fu Lamberto Loria: un celebre etnografo che, dopo dieci anni di viaggi tra i popoli extraeuropei, aveva deciso di rivolgere alla cultura delle nostre classi subalterne la sua esperienza.
Sono passati quasi cento anni e ci avviciniamo velocemente alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario di quell’evento. Ma siamo ben lontani dall’entusiasmo di allora: lo dimostrano i ritardi, le rimozioni, le polemiche e le discussioni anche aspre che circondano la preparazione dell’anniversario. Ma c’è poco da stupirsi: i tempi sono oggi cambiati e la diversità (ogni tipo di diversità) è inquietante, fa paura e serve a mettere paura. Del resto molti di coloro che ci governano sono imprigionati in una visione dell’identità meschina e ristretta pari solo all’ignoranza gretta che guida le loro proposte politiche (straparlano di dialetti, evocano il nome di Cattaneo che certo si rivolterà nella tomba e si vantano di usare il tricolore come carta igienica). Competenze e interessi etno-antropologici avevano preso forma e rilievo dal 1869, quando a Firenze erano sorti insieme la prima cattedra di Antropologia e il suo Museo Nazionale (tra i primi a nascere nel mondo occidentale), saldandosi agli studi folklorici: così da documentare a tutto campo tanto la ric-
chezza dei così detti “beni immateriali”, quanto la vita dei popoli. Fiabe, leggende, poesie, canti, danze, consuetudini, riti, feste e poi cibi, usi, attrezzi di lavoro, abiti e apparati cerimoniali. Nell’insieme, un patrimonio enorme fatto di oggetti, immagini, narrazioni, comportamenti che l’Unesco ha classificato come “patrimonio dell’umanità” e che – proprio come i nostri beni storico-artistici – fa dell’Italia un paese unico in Europa. Un patrimonio vitale, la cui tutela e organizzazione richiede ovviamente competenze disciplinari specifiche e aggiornate. Nel nostro paese sono almeno un migliaio i musei della civiltà, del mondo o del lavoro contadino, delle tradizioni popolari, del folklore, etnografici, antropologici e via continuando con le molte denominazioni che essi assumono (e che hanno assunto) nel tempo e nello spazio. Naturalmente questi luoghi, per essere allestiti, promossi, gestiti, richiedono l’uso di saperi particolari: precisamente quelli che vanno sotto il nome di demo-etno-antropologici, che si formano attraverso corsi universitari e scuole di specializzazione. Conoscenze professionali riconosciute dallo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tutti i tipi di musei che ho ricordato sono luoghi della trasmissione della memoria, vere macchine del tempo che mettono in comunicazione il passato con il presente, i bambini con gli anziani, le tradizioni degli altri con le nostre. E forse, proprio attraverso il contatto con le piccole e le grandi cose della vita quotidiana, aiutano ad immaginare un futuro radicato nella realtà storica e antropologica della nostra società.
Il lungo preambolo era necessario. Parlo di temi culturali, che non hanno a che fare con la perdita di posti di lavoro o con la precarietà: ma che tuttavia impoveriscono le nostre possibilità di conoscenza. Già da qualche anno la direzione dell’Istituto Centrale per la Demoantropologia è stata affidata a storici dell’arte: un nonsenso, malgrado molti musei etno-antropologici abbiano anche un notevole valore estetico. Ma in questi giorni il Ministero dei Beni culturali (con l’avallo dei sindacati di categoria) ha stabilito che i nuovi profili professionali dei dipendenti non comprendano più le competenze antropologiche, accorpandole a quelle a quelle storico-artistiche. Se questo progetto si realizzasse, non solo verrebbero mortificate le professionalità di tutti quelli che lavorano nei nostri musei, ma si farebbe tabula rasa della storia ultracentenaria legata allo sviluppo delle discipline antropologiche italiane. Inoltre si amputerebbe il nostro patrimonio culturale di quelle conoscenze specifiche che sono state (e continuano ad essere) legate alla rappresentazione della vita delle classi subalterne. Naturalmente, il mondo dei museografi e delle istituzioni antropologiche prepara iniziative e mobilitazioni. Ma mi chiedo – e vi chiedo – se non sia questa, in un paese che sembra vergognarsi della sua storia, l’ennesima forma di “revisionismo” o meglio, di obliterazione delle nostre radici culturali. Intanto dall’altra parte dalla parte di chi fa le leggi e probabilmente i regolamenti – si inventano miti celtici e altra paccottiglia volgare.

l’Unità 20.10.09
Allearsi o no con Linke e Verdi? I tormenti di Spd dopo la sconfitta elettorale
La sconfitta elettorale del 27 settembre è stata micidiale, di quelle che lasciano tramortiti. Ma la Spd prova a ripartire azzerando la dirigenza e cercando risposte alle questioni sul tappeto. Un percorso che sarà lungo e difficile.
di Gherardo Ugolini


BERLINO. Sbaglia chi pensa che una batosta elettorale, per quanto pesante, possa significare la fine della socialdemocrazia tedesca: la più vecchia organizzazione della sinistra europea, ha passato burrasche ben peggiori senza dissolversi. Ha attraversato indenne gli anni della fragile democrazia della Repubblica di trasformarsi e aggiornarsi, come accadde nel celebre congresso di Bad Godesberg del 1959 quando diede l’addio al marxismo.
La resa dei conti all’interno del gruppo dirigente ha dimissionato il presidente Franz Müntefering, sostituito dal cinquantenne Sigmar Gabriel, già governatore della Bassa Sassonia e ministro dell’Ambiente nel governo di Grosse Koalition. Un cambiamento all’insegna della continuità: Gabriel è un delfino di Schröder ed ha costruito la propria carriera politica all’ombra dell’ex cancelliere. Come segretario generale è stata scelta Andrea Nahles, combattiva esponente dell’ala sinistra. Tra i vicepresidenti anche il borgomastro di Berlino Klaus Wowereit e Hannelore Kraft, leader Spd del Land Nord-Reno-Vestfalia. Il candidato alla cancelleria Frank-Walter-Steinmeier sarà il capogruppo parlamentare al Bundestag.
LE ALLEANZE REGIONALI
Le nuove cariche saranno ratificate dal prossimo congresso nazionale, a Dresda dal 13 al 15 novembre, che dovrà stabilire la strategia. Dopo undici anni ininterrotti di governo per la Spd si pone la questione di come affrontare il lavoro di opposizione e come costruire un’alternativa credibile alla maggioranza Cdu-Fdp vincitrice delle elezioni.
Il dilemma da risolvere resta quello del rapporto con la Linke di Lafontaine, un tormentone mediatico ma un vero incubo per i leader dell’Spd. Finora i socialdemocratici hanno oscillato tra timorose offerte di collaborazione a livello locale e differenziazione a livello nazionale. Anche dopo lo smacco elettorale non si vede all’orizzonte una prospettiva condivisa. Anzi, il partito è più spaccato che mai. L’ala riformista continua a demonizzare Oskar il rosso e Franz Müntefering non perde occasione per addossargli la responsabilità della sconfitta socialdemocratica. «Lafontaine ha abbandonato il partito, poi ci ha tradito e ci ha preso di mira: per miserabili motivi personali» ha dichiarato Müntefering al settimanale Die Zeit rivangando le dimissioni improvvise dell’allora ministro delle Finanze nel primo governo Schröder. Dall’altra parte c’è l’ala sinistra dell’Spd, quella di Wowereit e della Nahles, disposta a una robusta correzione di rotta su pensioni e welfare per aprire alla Linke, col rischio però di una deriva populista.
Una cosa è certa: per costruire un fronte unito delle sinistre Spd, Linke ed eventualmente Verdi in grado di competere alle politiche del 2013 è necessario passare attraverso la sperimentazione in qualche realtà regionale. A parte la città-stato di Berlino, dove da due legislature c’è un governo rosso-rosso, per il momento solo il Land del Brandeburgo è avviato verso questa prospettiva. Il governatore socialdemocratico Matthias Platzeck, forte della maggioranza relativa, ha optato per una coalizione con la Linke anziché continuare a collaborare con la Cdu. Ma il caso del Branbeburgo è isolato. In altre due regioni dove pure i numeri avrebbero reso possibile un governo di sinistra, si è scelto diversamente: in Turingia la Spd ha preferito continuare la coalizione con la Cdu, e nella Saar i Verdi si sono schierati con CdueFdp.

l’Unità 20.10.09
Un pool di studiosi nel libro «Storia negata» analizza un decennio di mistificazioni
Nell’introduzione che qui pubblichiamo Del Boca ricostruisce la metamorfosi di Pansa
Il revisionismo è agli sgoccioli? Ecco tutti i danni che ha causato
Isnenghi, De Luna e altri contro le «distorsioni»
di Angelo Del Boca


Appuntamento domani alle 18, alla Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani in via F. Sforza 7, a Milano, con Angelo Del Boca e Sergio Romano, introdotti da Erminia Dell’Oro, per la presentazione-dibattito della «Storia negata: il revisionismo e il suo uso politico», libro in uscita per Neri Pozza.
Si tratta di un volume collettivo di grande interesse, in cui un drappello di storici coordinati da Del Boca riprendono in mano alcuni dei nodi su cui, nell’ultimo decennio, più si è accanito il cosiddetto «revisionismo». Se «sottoporre a revisione la storia è il compito stesso degli studiosi», scrive Del Boca, il «revisionismo» è altro, è appunto «un uso politico della storia». Aldo Agosti, Lucia Ceci, Enzo Collotti, Giovanni De Luna, Angelo D’Orsi, Mimmo Franzinelli, Mario Isnenghi, Nicola Labanca, Giorgio Rochat, Nicola Tranfaglia sono gli studiosi che analizzano le distorsioni che in questi anni si sono accumulate su Risorgimento, fascismo, guerre coloniali, Resistenza, 8 settembre, ruolo politico della Chiesa. Nell’introduzione Del Boca dedica alcune appassionate pagine al «revisionismo» di Giampaolo Pansa, che qui anticipiamo.

Il revisionismo è agli sgoccioli? Sì, forse perché non c’è più nulla da demolire e infangare. Un drappello di studiosi fa il punto su un decennio in cui l’uso politico della storia ha raggiunto i vertici. Eccone l’introduzione

Il 13 aprile 2008 il Pdl stravince le elezioni e acquisisce una maggioranza tale in Parlamento da permettersi ogni battaglia, ma Dell’Utri non ripropone la censura dei libri di testo. Del resto si tratta di un’operazione rischiosa e del tutto inutile, perché l’onda lunga del revisionismo ha ormai raggiunto anche i lidi piú lontani e protetti. A partire dal 2000, come si è già detto, si avverte un proliferare di storici assai poco dotati, che prendono d’assalto i punti nodali della nostra storia nazionale con il preciso intento di offrirne una versione edulcorata (...).
Si prenda, ad esempio, Faccetta nera. Storia della conquista dell’impero, di Arrigo Petacco, un autore che puntualmente ogni anno sforna un libro di piacevole lettura, ma senza note e con una modesta bibliografia. È difficile, in meno di 230 pagine, accumulare tanti errori, tante lacune, tanti giudizi e valutazioni non corrette. Una spietata aggressione a uno Stato sovrano, che causa la morte di oltre 300.000 etiopici, viene contrabbandata come un’impresa necessaria e urgente, tanto piú che l’aggredito, l’imperatore Hailé Selassié, era, come precisa Petacco, soltanto «un ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista». Per giustificare, infine, le stragi, le deportazioni, l’impiego sistematico (e non soltanto «in situazioni particolari», come sostiene l’autore) degli aggressivi chimici, Petacco scrive: «È forse opportuno ricordare che, nella breve vita dell’impero italiano, ciò che fu fatto, di bene e di male, accadeva o era accaduto anche negli altri imperi coloniali. Di conseguenza, prima di esprimere frettolosi giudizi radicali sulle nostre responsabilità, non si deve dimenticare qual era la morale del tempo».
L’IDEOLOGIA DI VESPA
(...) Questa produzione di libri-strenna, in cofanetto o riccamente rilegati, è stata inaugurata da Indro Montanelli già negli anni Sessanta, e ha oggi come assidui cultori Bruno Vespa e Giampaolo Pansa. Denunciando la «penosa inconsistenza storiografica e l’insidiosa valenza ideologica» di Vincitori e vinti, di Bruno Vespa, Sergio Luzzatto ne delinea il meccanismo arbitrario: «La guerra di liberazione come una carneficina altrettanto sanguinolenta che gratuita; gli eccidi perpetrati dai neri ampiamente compensati da quelli perpetrati dai rossi (...)». «Quanto agli storici di mestiere» continua Luzzatto «pochi fra loro avranno il coraggio di prendere in mano Vincitori e vinti e di guardarci dentro, magari per riflettere intorno ai guasti morali e civili di una storia raccontata da dilettanti».
Il caso di Giampaolo Pansa è molto piú grave. Allievo di Guido Quazza, che lo «guida sino alla laurea con sollecitudine affettuosa» e gli fa pubblicare la tesi, Guerra partigiana fra Genova e il Po, da Laterza, il giovane studioso monferrino si innamora del filone resistenziale e dà alle stampe alcuni libri di notevole spessore, come L’esercito di Salò, per il quale utilizza per la prima volta i notiziari quotidiani della Guardia Nazionale Repubblicana, o per i quali sfodera una pazienza certosina come quando compila La Resistenza in Piemonte, guida bibliografica 1943-1963 (...).
La sua adesione ai valori dell’antifascismo e della Resistenza è sincera e totale. Per Italo Pietra e il sottoscritto, entrambi partigiani, e rispettivamente direttore e redattore capo de Il Giorno di Milano, Pansa è il nostro fiore all’occhiello, al quale affidiamo le inchieste piú delicate e difficili. E quando ci lascia per andare a la Repubblica, attratto come altre grandi firme dalla ventata di novità del quotidiano romano, ne siamo veramente dispiaciuti. Ma anche per Pansa il distacco dal Giorno e dalla sua direzione non è indolore. Nel dedicarmi L’esercito di Salò scrive: «Ad Angelo Del Boca, con amicizia (e un po’ di rimpianto)». Egli non può dimentica-
re, infatti, le notti in redazione, le lunghe e appassionate conversazioni sui temi della Resistenza, lui infaticabile ricercatore e io testimone e protagonista di una guerra per la libertà e, nello stesso tempo, formidabile occasione per diventare uomo.
Che cosa accade nella sua psiche e per quale ragione, quando, di colpo, demolisce il patrimonio di valori, di certezze, di emozioni, accumulato in vent’anni, e passa dall’altra parte della barricata e con Il sangue dei vinti comincia a gettare fango, a piene mani, sull’antifascismo e la Resistenza? Egli sa benissimo, nel calcare la mano su certi lati oscuri della guerra di liberazione, di non rivelare nulla di nuovo, nulla di essenziale, nulla di indispensabile, perché lo hanno preceduto, sul piano narrativo, Fenoglio, Calvino e il sottoscritto, e, nell’ambito della ricerca scientifica, storici di professione come Claudio Pavone, Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi, Ermanno Gorrieri. Dunque Pansa sa benissimo, lui che ha compilato con amore e pazienza la Guida bibliografica della Resistenza in Piemonte, di non fare nulla di inedito e tantomeno di eroico nel dare la parola «a chi è stato costretto a tacere per anni dall’arroganza dei vincitori della guerra civile». E visto lo straordinario successo di vendita
de Il sangue dei vinti, ogni anno sforna un nuovo volume, piú o meno con gli stessi ingredienti, la stucchevole forma narrativa, le stesse storie che grondano sangue, con un crescendo di insulti per chi lo critica e lo rimprovera. Poco a poco Pansa si convince che la sua è un’autentica, benedetta missione, e quando Rizzoli gli chiede di scrivere un’autobiografia accetta senza indugi e la intitola Il revisionista. (...) Ma questo Pansa, che oggi si vanta di revisionare la storia a suo piacimento, per darla in pasto ai nostalgici del fascio e di Salò, è lo stesso Pansa che mi sedeva dinanzi, nel mio studio in via Fava, al Giorno, e visibilmente si emozionava nell’ascoltare storie sulla guerra di liberazione? È proprio lui? Conservo qualche dubbio.

l’Unità 20.10.09
Storia di quest’Italia volgare Dal Pnf alla videocrazia un saggio di Guido Crainz
Quando e come nasce l’Italia volgare di questi anni? Uno storico, Guido Crainz, ha scritto un saggio per capirlo. E individua un filo che unisce il fascismo, la partitocrazia, i «dorati» anni ‘80, la videocrazia.
di Riccardo De Gennaro


Lo scopo dichiarato dell’ultimo libro di Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica, (Donzelli, euro 16,50, pp. 239), è ambizioso e suggestivo. La domanda, in soldoni, è la seguente: quand’è che l’Italia ha cominciato a diventare un paese così volgare? La risposta non è semplice, la causa del mutamento non è una sola. Crainz delimita il campo d’azione. È convinto che la risposta non vada cercata nei pressi di Machiavelli e Guicciardini, né che si debbano scandagliare i fondali dell’unità d’Italia («continuità ingannevoli»). È sufficiente, a suo parere, risalire al crollo del fascismo e alla nascita della Repubblica, momento a partire dal quale si possono viceversa individuare «continuità intriganti». Ecco una prima pista: la «compenetrazione» tra partito e Stato nasce prima della democrazia, con il partito nazionale fascista. È difficile sostenere – scrive Crainz – che il suo carattere «onnivoro» sia scomparso senza lasciar tracce all’indomani della Liberazione. Al partito unico subentrano i partiti, alla dittatura la democrazia, ma la commistione tra partiti e Stato resta. Così come il medesimo codice penale, i medesimi questori, prefetti, magistrati e alti gradi dell’esercito.
L’occupazione dello Stato da parte dei partiti negli anni diventerà così opprimente, che si parlerà di «partitocrazia» e toccherà alla magistratura attivare la «valvola di sfogo» di Mani Pulite. Per evitare che il malato muoia sotto i ferri, il pool di Milano è tuttavia costretto a frenare l’utilizzo del bisturi, quasi a fermarlo. Di qui una seconda pista per rintracciare le radici della crisi morale di oggi: la mancanza di reale discontinuità tra Prima e Seconda Repubblica.
Con quell’elemento di novità: una mutazione antropologica orientata all’egoismo e alla volgarità. Perché?
Crainz passa in rassegna con particolare attenzione gli anni ‘80, l’epoca in cui politica e impegno cedono il passo al privato, al divertimento, al corpo, alla moda, complice una «falsa tolleranza edonistica», come aveva previsto Pasolini. Dal punto di vista culturale, non sono che una reazione agli eccessi ideologici e all’assemblearismo degli anni ‘70, un tentativo di liberazione individuale dalla cappa di piombo formatasi con lo stragismo di Stato e la lotta armata: «È un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato», diceva una canzonetta del 1983. Negli anni ‘80 si afferma quel «protagonismo senza qualità», che dura tuttora. Ammesso e non concesso che il ’68 in Italia sia durato un decennio, la sottocultura della tv commerciale dura da 25 anni almeno, come dimostra anche Videocracy.
DC SENZA ALTERNATIVA
Le responsabilità non sono solo della destra, ma anche della sinistra, il cui declino, secondo Crainz, ha inizio nel 1979: «Per la prima volta dopo il ‘48 il Pci perdeva consensi alle elezioni politiche, soprattutto tra i giovani che ne avevano garantito il successo». La causa principale del distacco? La scelta del «compromesso storico», che escludeva per la prima volta ogni ipotesi di alternativa politica alla Dc. Proprio in quel momento cominciarono «i sotterranei percorsi che porteranno alla tendenziale scomparsa della sinistra». Mollata la cima della questione morale, la nave Italia comincia ad affondare. Attraverso le testimonianze quotidiane soprattutto di due grandi giornalisti – Bocca e Scalfari – Crainz dimostra che da metà degli anni ‘70 la politica utilizza sempre di più la leva pubblica come strumento d’interesse privato. La cosa più grave è che manca ormai una cultura diffusa dell’onestà che faccia da contrappeso. Se Berlusconi cade poi si rialza. I suoi successi elettorali hanno molte spiegazioni, non ultima quella della rapida diffusione di una «corruzione inconsapevole», come dice Saviano.

l’Unità 20.10.09
La Carta vince sempre
di Giancarlo De Cataldo


In tutte le democrazie c’è una legge-cardine, la Costituzione. Ad essa devono armonizzarsi tutte le altre leggi. Ma può accadere che il Parlamento adotti leggi contrarie alla Costituzione. Tutte le democrazie prevedono adeguati rimedi. Il fatto è che nessuna democrazia tollera la coesistenza di una Costituzione e di leggi che ne tradiscano la lettera e, soprattutto, lo spirito. Perché delle due l’una: o le leggi incostituzionali vengono spazzate via, o la Costituzione perde senso. Le strade che si possono seguire per evitare che il Parlamento legiferi contro la Costituzione sono di due tipi: un filtro preventivo che impedisca l’approvazione di leggi incostituzionali o la loro rimozione, in un momento successivo, attraverso l’intervento di un “giudice della costituzionalità delle leggi”. L’Italia in un’assemblea costituente nella quale erano rappresentate tutte le forze politiche e sociali del tempo, dalla Destra ai comunisti, passando per i liberali e la maggioranza cattolica adottò questa seconda soluzione. L’intervento preventivo rimesso al Presidente della Repubblica e alla Camera è limitato a una prima valutazione dei potenziali aspetti di contrasto con la Costituzione, ma i risvolti tecnici più complessi, sono delegati alla Corte Costituzionale: il “giudice delle leggi” al quale spetta l’ultima parola. È un sistema che il pensiero autodefinitosi “liberal-democratico”, ma che in realtà ha in mente un modello pre-repubblicano, critica da almeno quarant’anni, non foss’altro perché consente a ogni singolo giudice, d’ufficio o se investito della questione da una parte processuale, di attivare la Corte. Il sistema si può anche cambiare a colpi di maggioranza, ma la questione di fondo resta comunque ineludibile: finché si vareranno leggi contrarie alla Costituzione, qualcuno dovrà porvi rimedio.

Repubblica 20.10.09
I padri costituenti e la difesa della arta
di Nadia Urbinati


Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all´allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell´Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell´oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un´esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell´Assemblea costitutiva della nostra democrazia.
Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un´identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell´opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione – proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C´è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell´attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell´equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell´esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa». La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l´autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell´Articolo 50) non passò l´esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall´attenzione dell´Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.

Repubblica 20.10.09
La Corte: "Il premier non è al di sopra dei ministri"


ROMA - «Il presidente del Consiglio è primus inter pares». È una delle frasi contenute nelle 58 pagine di motivazioni che ieri, dodici giorni dopo la bocciatura del Lodo Alfano, la Corte Costituzionale ha reso note in tarda serata. La Consulta spiega che «il premier non è al di sopra dei ministri» e che per derogare dall´articolo 3 della Costituzione («la legge è uguale per tutti») è necessario servirsi di una legge costituzionale. Inoltre i giudici della Suprema Corte sottolineano che non c´è stata alcuna «discontinuità» tra la bocciatura del Lodo Alfano e quella del Lodo Schifani nel 2004: allora il problema della legge costituzionale fu ritenuto «assorbito» dalle altre questioni. Intanto, il deputato del Pdl Giuseppe Valentino ha proposto una legge per il ripristino dell´immunità parlamentare.

La Corte Costituzionale: bocciatura per aver attribuito alle quattro alte cariche dello Stato una prerogativa che viola il principio di uguaglianza
"Chiesto uno status protettivo eccezionale ma il premier non è al di sopra dei ministri"
Nella sentenza del 2004 "assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale"
La Consulta ha accolto in pieno il ricorso presentato dalla procura di Milano

ROMA - Una bocciatura senza appello. Per non aver usato una legge costituzionale e per aver attribuito alle quattro alte cariche dello Stato una prerogativa che viola il principio di uguaglianza. Un invito a utilizzare le leggi che già esistono, come le norme sul legittimo impedimento.
La sentenza del 2004. Gli alti giudici respingono al mittente (cioè al premier) l´accusa di aver preso una decisione diversa da quella del gennaio 2004 quando non si pronunciarono sulla necessità di una legge costituzionale. E lo spiegano così: «La Corte allora ha privilegiato l´esame dei fondamentali profili di uguaglianza e ragionevolezza e ha dichiarato "assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale", lasciando impregiudicata la questione dell´articolo 138», cioè proprio la necessità di una legge costituzionale.
Legge costituzionale. Scrive la Corte: «Il lodo Alfano attribuisce ai titolari delle quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale». È il primo colpo alla legge approvata il 23 luglio dell´anno scorso e fatta su misura per tutelare Berlusconi e congelare i suoi processi milanesi, Mills e diritti tv. La Consulta accoglie in pieno il ricorso presentato dalla procura di Milano e caldeggiato dall´avvocato Alessandro Pace. E spiega l´impossibilità di ricorrere a una legge ordinaria, come quella utilizzata per il lodo: «Il legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato».
Il confronto con le altre immunità. La Corte cita i tre casi in cui la stessa Costituzione prevede un trattamento diverso per i parlamentari con l´articolo 68 sull´insindacabilità, il 90 sull´irresponsabilità del presidente della Repubblica, il 96 per i reati ministeriali. E precisa: «Le suddette prerogative sono sistematicamente regolate con norme di rango costituzionale».
Violato il principio di uguaglianza. Come aveva già scritto nella sentenza del gennaio 2004 sul lodo Schifani il nuovo lodo Alfano non rispetta il principio di uguaglianza per cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Spiegano i giudici: «La legge sul lodo è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un´evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione.
Premier è primus inter pares. L´aveva sostenuto Gaetano Pecorella, uno dei tre avvocati di Berlusconi, durante l´udienza pubblica, «Berlusconi non è come tutti gli altri ministri, ha più impegni e compiti, quindi ha diritto a maggiori prerogative». La Corte non la pensa così «perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del governo, ma si limita a mantenerne l´unità, promuovendo e coordinando l´attività dei ministri, e ricopre perciò una posizione tradizionalmente definita di "primus inter pares"». Il lodo dunque avrebbe dovuto essere allargato anche a tutti i singoli ministri.
Lodo per tutti i parlamentari. La stessa annotazione vale anche per i singoli deputati e senatori. Tant´è che la Corte così annota: «Non è configurabile una significativa preminenza dei presidenti delle Camere sugli altri componenti, perché tutti i parlamentari partecipano all´esercizio della funzione legislativa come rappresentanti della nazione e, in quanto tali, sono soggetti alla disciplina uniforme dell´articolo 68 della Costituzione», cioè quello che concede soltanto l´insindacabilità e la richiesta di un´autorizzazione per arresto e per l´uso delle intercettazioni.
Il legittimo impedimento. È il capitolo più delicato perché d´immediata attualità visto che Berlusconi, forse con un decreto legge, ne vuole ampliare l´applicazione. Secondo la Consulta esso «ha già rilevanza nel processo penale» e quindi non è necessario un lodo Alfano per bloccare i processi delle alte cariche.
(l.mi.)

Repubblica 20.10.09
Dyson: Siate eretici come Newton
di Piergiorgio Odifreddi


L´ultimo libro del matematico ottantacinquenne raccoglie i suoi contributi per la "New York Review of Books"
"Uno degli esempi da seguire è Feynman: l´ho amato sfiorando l´idolatria"
"Non si può essere complici del potere, la nostra ricerca deve servire ad aiutare i poveri"

Ogni secolo può vantare solo una manciata di persone come Freeman Dyson, dotate di un´intelligenza luciferina, una cultura enciclopedica, uno stile magistrale e un carattere provocatorio. Una combinazione esplosiva, che può portare la stessa persona a vincere nel 2000 il premio Templeton per i legami fra scienza e religione, nel 1996 il premio Thomas Lewis per lo scienziato-poeta, nel 1981 il premio Wolf per la fisica, e a mancare nel 1965 il premio Nobel per la stessa materia soltanto perché lo si assegna al massimo a tre persone: lo presero dunque Richard Feynman, Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga ma non lui, che a soli ventisei anni aveva dimostrato la cosiddetta quantoelettrodinamica o QED.
Queste onorificenze potrebbero far pensare che Dyson sia un teologo, un letterato o un fisico in libera uscita nelle altre due discipline, e invece è un matematico: molto eclettico, naturalmente, all´insegna del motto di Terenzio humani nihil a me alienum, «nulla di umano mi è alieno». E questo eclettismo gli ha permesso di pubblicare libri meravigliosi, in ciascuno dei quali risplendono appunto l´intelligenza, la cultura, lo stile e il carattere: dalle discussioni sugli armamenti di Armi e speranza (Bollati Boringhieri, 1984) alle teorie biologiche delle Origini della vita (Bollati Boringhieri, 1987), dalle visioni futuriste di Infinito in ogni direzione (Rizzoli, 1989) alle pagine autobiografiche di Turbare l´universo (Bollati Boringhieri, 1999).
Lo scienziato come ribelle (Longanesi, pagg. 304, euro 20) è il suo ultimo libro: non solo nel senso che è stato appena pubblicato, ma anche, e purtroppo, perché l´ottantacinquenne Dyson ha dichiarato che non ne pubblicherà più altri. Ed è uno dei suoi più vari e affascinanti, in quanto raccoglie gli originali contributi per la New York Review of Books.
Il titolo, ammicchevolmente autoreferenziale, descrive il credo di Dyson nei confronti della scienza e degli scienziati: secondo lui, ciò che definisce l´una e accomuna gli altri è «la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura localmente dominante, occidentale o orientale che sia». Naturalmente molti scienziati, per non dire la maggioranza di essi, accettano di «servire il popolo», o di asservirsi ad esso, ma questo libro non si cura di loro. Gli eroi di Dyson sono altri, dal professore immaginario del film L´attimo fuggente, che si scontra coi piani di studi e il preside della scuola, al reale Lord James di Rusholme, dal quale l´autore da giovane imparò che «non c´è contraddizione fra uno spirito ribelle e un inflessibile perseguimento dell´eccellenza in una disciplina intellettuale rigorosa»: in altre parole, e checché ne pensino i dandy del pensiero, la ribellione intellettuale e la competenza professionale possono benissimo andare d´accordo.
Come si può dunque immaginare, gli schizzi biografici del libro si disinteressano degli scienziati che si sono piegati al potere religioso o politico, come il nolente Galileo o il volente John von Neumann, e si interessano invece delle personalità che hanno preferito l´eresia all´abiura, come Isaac Newton, o il pacifismo al collaborazionismo, come Norbert Wiener. Ma in alcuni schizzi Dyson non disdegna di affrontare la complessità umana di colleghi ambigui come Robert Oppenheimer o Edward Teller, che avendo conosciuto bene di persona è in grado di tratteggiare nei colori della biografia, e non solo nel bianco e nero della mitologia.
Il ribelle dei ribelli, al quale va il tributo più emotivo e personale, è però sicuramente Richard Feynman, che il giovane Dyson descrisse ai genitori in una lettera come «mezzo genio e mezzo buffone», e che l´anziano Dyson definisce nel capitolo «Un uomo saggio» (purtroppo cassato dall´edizione italiana, insieme a una mezza dozzina d´altri) come «una volpe», da contrapporre a «un istrice» alla Albert Einstein: nel senso che «le volpi conoscono molti trucchi e gli istrici uno solo, le volpi sono interessate a tutto e gli istrici a poche cose, le volpi corrono in superficie e gli istrici scavano in profondità».
Il Novecento ha visto molti scienziati geniali, ma solo Einstein e Feynman (e forse Stephen Hawking) sono diventati icone pubbliche: secondo Dyson, perché «per diventare un´icona non basta che uno scienziato sia un genio, deve anche essere un attore capace di lavorarsi il pubblico, di godere del suo tributo e di annullare la barriera che separa un genio dalla gente comune». Ma un´icona deve anche saper trasmettere saggezza, e Dyson ritrova quella di Feynman in due libri: Il senso delle cose (Adelphi, 1999), che recensisce, e Il piacere di scoprire (Adelphi, 2002), nella prefazione per il quale confessa di «aver amato quell´uomo sfiorando l´idolatria».
Nel primo dei due libri Feynman vede, molto apertamente, «un conflitto tra la religione che impone agli studenti di credere senza discutere e l´etica della scienza che impone di mettere tutto in discussione», e ritiene che l´unica soluzione per la coesistenza pacifica sia una religione vaga e senza dogmi precisi: cioè, l´esatto contrario del cattolicesimo. L´argomento è centrale anche per Dyson, egli concorda con l´affermazione del premio Nobel Steven Weinberg, che «i buoni fanno il bene e i cattivi il male, ma per far fare il male ai buoni ci vuole la religione», aggiungendo però che anche «per far fare il bene ai cattivi ci vuole la religione». La sua opinione sul conflitto tra scienza e religione è netta: «La scienza tratta di cose, la teologia di parole. E le cose si comportano nello stesso modo dovunque, ma le parole no». Quanto ai miracoli, dimostra facilmente la cosiddetta legge di Littlewood: che se definiamo come miracoloso un evento significativo che accade con frequenza inferiore a uno su un milione, allora a ogni persona normale accadono miracoli al ritmo di uno al mese (come paragone, secondo la Chiesa a Lourdes ne sono accaduti meno di uno ogni due anni).
Gli argomenti ai quali abbiamo accennato, cioè la storia scientifica e la religione, non esauriscono comunque che una metà di questo libro così denso. Un altro quarto è dedicato ai problemi di «guerra e pace»: questa è la parte (dimezzata) che ha più sofferto dei tagli editoriali dell´edizione italiana, ma è anche quella meno nuova, perché salva il salvabile di Armi e speranza, ristampando i pochi capitoli non resi obsoleti dal crollo dell´Unione Sovietica.
Sparse nel rimanente quarto del libro sono infine alcune delle pagine più stimolanti, in cui Dyson ci offre il meglio delle sue conoscenze non convenzionali e delle sue idee avveniristiche. Ad esempio, quando ci fa sapere di una lettera di Newton recentemente ritrovata, che mostra il suo influsso sul pensiero politico (!) di Locke. O dell´altrettanto recente scoperta che nel Cambriano, quando ci fu l´omonima esplosione di forme viventi, l´asse di rotazione terrestre subì una rotazione di novanta gradi che scambiò l´equatore con un meridiano. O quando sogna che l´ingegneria genetica riuscirà a produrre organismi artificiali in grado di fornirci materie prime ed eliminare i rifiuti, quali ostriche in grado di secernere perle d´oro estratto dall´acqua di mare o animali progettati per digerire automobili usate. O che la vita nello spazio passerà da una cometa all´altra, finché avremo reso verde l´intera galassia con alberi riprogrammati per crescere senza atmosfera.
Lo scienziato come ribelle contiene molti altri argomenti affascinanti e molte altre pagine memorabili, ma soprattutto costituisce l´appassionata perorazione etica di uno dei grandi scienziati e dei grandi ribelli del Novecento, che ha il coraggio di osservare che «il mercato giudica le tecnologie in base alla loro efficacia nel raggiungere lo scopo che si sono prefisse, ma il vero problema è chiedersi se tale scopo è degno di essere raggiunto», e il coraggio di affermare che «la scienza è malvagia quando produce giocattoli per i ricchi, ed è buona quando supplisce alle necessità dei poveri». Godiamo dunque della sua brillante intelligenza, impariamo dalle sue profonde conoscenze, apprezziamo le sue eloquenti parole, e accettiamo le sue stimolanti provocazioni: non ci sono molte menti come la sua, né molti libri come questo.

Repubblica 20.10.09
Marc Augé "Così la storia viene abolita"
di Michele Smargiassi


Nel suo ultimo libro l´antropologo francese spiega i pericoli di un mondo da cui viene espulsa qualsiasi narrazione distruggendo il senso degli avvenimenti
Viviamo un tempo chiuso, orfano delle lezioni del passato e delle speranze dell´avvenire
I migranti espropriati della propria identità si devono riappropriare dei miti dell´origine

Ogni impero sogna di abolire la storia. Saper fermare il tempo è la prova d´esame del potere assoluto: riuscire a cancellare assieme il rimpianto del passato e la speranza del futuro è la sua garanzia di perennità. Così ogni dittatura sul presente inaugura, inevitabilmente, una dittatura del presente. Ed è questa "presentizzazione" assoluta la minaccia che Marc Augé intravede dietro la maschera ottimista della globalizzazione e la sua eccitante coalescenza di tempi e di spazi. Un destino che l´"etnologo nel metrò" paventa e denuncia in questo suo ultimo Che fine ha fatto il futuro? (Elèuthera, 110 pagine, 12 euro; ma il calembour del titolo originale, Où est passé l´avenir?, allude anche alla scomparsa del passato).
Già da questi accenni si dovrebbe capire che nonostante la sua mole esigua non si tratta di un libro semplice. Va letto tutto con attenzione, tranne il sottotitolo inventato dall´editore italiano, Dai nonluoghi al nontempo, infondato (nel testo la parola nontempo non compare neppure una volta) e anzi dannoso perché accetta di ridurre una definizione seriamente fondata - nonluoghi - il cui travolgente successo ha rischiato di sommergerne la genialità, a una formula rivendibile all´infinito sotto copertine sempre nuove. Non è così, per nostra fortuna.
Che fine ha fatto il futuro? è un libro intenso, percorso da tensione etica e anche politica, che forse deluderà chi si è fatto di Augé l´immagine semplificata di un antropologo del quotidiano alla divertita esplorazione di metropolitane, aeroporti e parchi gioco.
Che fine ha fatto il futuro? è invece un testo dall´orizzonte filosofico, ed è forse quello in cui Augé prende più nettamente le distanze dall´interpretazione postmodernista della contemporaneità, di cui pure condivide il presupposto, ovvero che là dove la modernità aveva distrutto ogni mito delle origini, la postmodernità ha distrutto anche ogni utopia avvenirista.
Ma nel suo entusiasmo per la presunta libertà che la «fine delle narrazioni» ci donerebbe, il postmodernismo sembra ad Augé «la versione cool ed ecologista della "fine della storia"». Alla postmodernità ottimista Augé contrappone la preoccupata visione di quella che chiama, non da oggi, surmodernità, frutto del collasso dello spazio e dell´accelerazione del tempo in un pianeta sovracomunicante. Questo presente orfano delle lezioni del passato e delle speranze nel futuro, insomma, non gli appare affatto più leggero di prima, ma più denso, claustrofobico, saturo fino alla nausea dei surrogati della storia perduta: le immagini rese ubique da Internet, le rovine (che dissociano il senso del tempo dal suo scorrere), il turismo che unifica geografia e cronologia riducendo entrambe a spettacolo.
Questo presente è prepotente ma fragile, oppresso com´è da ansie e paure. La prima e più terrificante delle quali, ovviamente, è la resurrezione di ciò che si è cercato di abolire: la storia.
Ogni società dominata dal presente teme l´evento come la peste. Lo esorcizza fin che può, sciogliendolo nelle spiegazioni di lungo periodo, negandone l´unicità e la rilevanza. Quando non può, perché l´evento è troppo poderoso, allora il potere cambia strategia: per reagire all´insopprimibile eventualità dell´11 settembre George W. Bush resuscitò un cadavere sepolto da oltre sessant´anni, la dichiarazione di guerra (al Terrore), che è sempre stata la regina della storia évenémentielle, ma ora diventa il suo opposto, il ritorno alla rassicurante continuità (era una guerra enduring, perenne), evento che nega l´evento e promette di risolverlo e annullarlo.
Ma proprio per questo la sfida si fa più dura e rischiosa. I frammenti di genere umano espropriati dalla storia, gli esiliati e i migranti costretti ad abbandonare la propria identità in un passato che viene ora dichiarato estinto, per rifondersi in identità straniere il cui futuro è programmaticamente bloccato, non hanno altra speranza di rivalsa se non riappropriarsi dei miti dell´origine come arma, e dei miti del futuro come programma d´azione, facendo ripartire la storia a colpi di eventi che non si possano sterilizzare, dunque sempre più violenti ed evidenti.
Augé, che resta un umanista, cerca di chiudere il libro su una nota di volonteroso illuminismo, immaginando «le condizioni di un´utopia dell´educazione» che disinneschino la bomba. Purtroppo, ben più realistica suona la sua profezia di poche pagine prima su ciò che sta maturando ai margini della surmodernità: «Se ciò da cui sono esclusi è la storia, non bisogna stupirsi se il rischio di vederli rientrare nella storia per le vie più pericolose e folli non è lontano».

Repubblica 20.10.09
Veterana debuttante
"La mia eroina contro tutte le censure"
Presenta per la prima volta il suo lavoro sulla poetessa del Trecento
L’attrice diventa regista con il film "Christine Cristina"
di Natalia Aspesi


ROMA. Alla manifestazione romana per la libertà di stampa Stefania Sandrelli c´era, in mezzo a migliaia di persone. «È stata una conquista così dura e difficile, in passato, che bisogna difenderla a tutti i costi». Christine de Pisan, colta poetessa e filosofa medioevale, di nascita veneziana e di vita parigina, l´ha conquistata per questo: «perchè si oppose ad ogni censura sul suo pensiero e i suoi scritti, in tempi in cui per questo si rischiava la vita. Non smise mai di esprimere le sue idee allora rivoluzionarie e blasfeme sulla dura e ingiusta condizione femminile. In un´epoca di analfabetismo diffuso e in cui ancora non esisteva la stampa, scrisse migliaia di versi, decine di libri, dalla ‘Ballata delle vedove´ al ‘Libro della Pace´, al ‘Libro dei fatti d´armi e dei cavalieri´».
Le ha dedicato un film, il suo primo film da regista, ed è ovvio che non si sia trovato di meglio da chiederle che «Come mai?». Come mai una bella signora che ha attraversato con grande successo quasi cinquant´anni di cinema e trenta di televisione, con la sua bellezza carnale, l´ironia gentile, l´apparente sventatezza, il talento leggero, accanto a grandi attori, con grandi registi, commedie, tragedie, film storici e film erotici, abbia deciso di affrontare la sua prima regia per raccontare di un personaggio medioevale, oggi sconosciuto ai più e per di più intellettuale? «Mi piaceva nelle miniature che la ritraggono, la sua figurina eterea, vestita di azzurro, con quei copricapi a cono che noi attribuiamo alle fate, mentre scrive, o suona, o con altre dame fa il muratore per costruire la sua utopica ‘Città delle dame´ abitata solo da donne. Ho sentito quel legame che unisce le donne alla loro storia, mi ha incantato sapere del suo coraggio e della sua forza, mi hanno commosso i suoi versi: ‘Sono sola e sola voglia rimanere, sono sola, mi ha lasciato il dolce amico…». Di questo suo Christine, Cristina, fuori concorso al Festival di Roma, la Sandrelli parla quasi umilmente: «è un piccolo film, con una piccola storia, anche se il personaggio è grande, anche se raccontarla consente di ricordare come la libertà di parola, delle idee, sia sempre in pericolo, anche oggi: lo fu anche per Christine, che era in odore di stregoneria per aver osato contestare la misoginia dell´epoca. Nei suoi scritti incoraggia i principi ad aiutare le vedove, e lei stessa lo era con tre figli da mantenere, condanna chi usando l´amore inganna e diffama le donne, e incoraggia le stesse ad osare, ad uscire dalla prigione della domesticità».
Cosa inaudita, dava la parola alle donne, in anni (è vissuta tra il 1362 e il 1431) in cui per questo si poteva finire sul rogo. Cristina aveva vissuto con il padre, medico e astrologo, nella ricchezza e cultura della corte di re Carlo V di Francia. Sposata a 15 anni, a 25 anni era vedova, orfana e con tre figli, e il nuovo re, Carlo VI il pazzo, la allontanò dal palazzo, poverissima. «Il mio film comincia qui, quando Cristina inizia la sua vita di donna che deve mantenere sé e i suoi figli, e lo fa, cosa eccezionale per l´epoca, con la scrittura: tra l´altro lei fu la sola persona a scrivere un poema su Giovanna d´Arco mentre la Pulzella era ancora in vita». Amanda Sandrelli, con la sua altera semplicità, è perfetta per il ruolo di Christine, si adombra una certo casta passione per lei da parte di Alessio Boni nel saio di Jean de Gerson, che in realtà era un intransigente teologo che condannava a morte i sospettati di eresie. Alessandro Haber è un poeta popolare che andrà al patibolo per i suoi versi e non manca naturalmente la furba e spietata Chiesa ufficiale rappresentata da Roberto Herlitzka, che teme ed ammira la poetessa guastafeste. Negli anni ‘70 il femminismo fece di Chirstine de Pisan una delle tante star della muta storia delle donne: e non è certo un caso che Stefania Sandrelli ce la racconti con tanta passione e intelligenza, in tempi in cui alle donne si torna a chiedere di non pensare, non dare fastidio, stare al loro posto, zitte e sorridenti.

Liberazione 18.10.09
«Contro Berlusconi e la crisi
l'opposizione si manifesti»
intervista a Paolo Ferrero di Checchino Antonini


Di assalti e vie d'uscita. Assalti alla Costituzione, alla Fiom, alle pensioni, alla Giustizia. La crisi, vista da questo scorcio d'autunno, appare a Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, come «l'incrocio di due questioni: la pesantezza della situazione economica, una vera crisi di sistema, e il tentativo di Berlusconi di uscire dal quadro democratico sancito dalla Costituzione. Insomma, non esiste alcun "new deal" all'orizzonte, nessuna idea di qualificazione del modello di sviluppo e di innalzamento dei salari. La risposta del governo alla crisi è fatta di aumento della precarietà, bassi salari, ricatto del lavoro nero e uso dello Stato per fare soldi. Penso alle grandi opere, alle privatizzazioni delle municipalizzate. Nel 1929 negli Usa si rispose col new deal, il nuovo corso, mentre i fascismi in Europa attuarono politiche di compressione dei salari e della democrazia, degli spazi del sindacato. Anche oggi governo e confindustria spingono verso l'impoverimento del Paese. Di questo sfondamento complessivo ci parla l'attacco alla Fiom. Poi c'è la tendenza del berlusconismo di chiudere definitivamente il secondo dopoguerra. A destra, per la prima volta, è chiara un'ipotesi politica eversiva per cambiare tutto dopo un lungo lavoro di revisionismo. Quello che arriva oggi è, concretamente, il piano della P2. La Seconda Repubblica è stata solo una transizione, qui c'è l'idea di un cambio di regime».

Una tendenza di cui fa parte anche Fini?
Fini è oggi la destra che vuole stare dentro il quadro costituzionale.

E Berlusconi?
Quello di Berlusconi è un piano eversivo in cui si intrecciano gli attacchi alla Costituzione e al sindacato di classe e alla contrattazione collettiva. I due processi si incrociano e si sostengono a vicenda. Infatti, se impoverisci il Paese è difficile pensare di governarlo in forme democratiche. L'obiettivo è quello di una gestione autoritaria della frantumazione sociale, dell'imbarbarimento che produce. Razzismo e omofobia servono a creare una cultura a supporto della gestione autoritaria. E il mito della delega plebiscitaria serve a ricomporre quello che il razzismo ha disgregato. Lo diceva Louis Althusser, l'ideologia è uno dei livelli in cui si esercitano i conflitti, ed in particolare il conflitto di classe, è forza materiale, cambia le cose. E la destra berlusconiana ha un programma sociale, uno politico e un'ideologia forte.

Eppure la bocciatura del lodo Alfano sembrava aver inceppato il cammino del premier.
Invece, proprio come la crisi, lo obbliga a un'accelerazione, a una radicalizzazione a destra, perché ora, per tutelarsi, deve smontare un intero sistema. E' quello che succede con lo scarso consenso per la missione in Afghanistan che li obbliga ad accentuare i toni dello scontro di civiltà, lì con le armi, qui con le leggi sull'immigrazione. Il punto di cemento di quel blocco sono gli interessi di Berlusconi sulla giustizia e quelli della Lega sul federalismo. Fini, per ora, non sembra in grado di fare la differenza.

Ma è un quadro che può saltare?
Solo se ci sarà un'iniziativa sociale e politica molto forte. Berlusconi, infatti, regge benissimo la polemica con Franceschini e Di Pietro perché gli sono speculari. E regge benissimo gli attacchi di Repubblica . Altra cosa è la contraddizione sociale, la costruzione certosina di movimento, nelle scuole, in fabbrica, tra i precari. Quello gli fa male. Berlusconi ha smesso di fare i bagni di folla da Viareggio, da quando prende fischi. Se il popolo lo fischia il suo progetto populista non funziona. Il conflitto è il vero meccanismo di rottura dell'agenda politica. Come alla Innse, come stanotte all'Agc di Cuneo: la lotta paga ma ancora manca un'iniziativa generale, che metta assieme la forza. Occorre stimolare e curare la nascita e lo sviluppo di lotte specifiche, di resistenza, da cui partire per costruire un movimento generale su democrazia e uscita dalla crisi. La Fiom sta facendo cose egregie, il nostro appoggio è totale. Ma insisto col dire che la Cgil manca di iniziativa: non basta una manifestazione, occorre costruire una vertenza generale, come fu il "piano del lavoro" di Di Vittorio, perché la crisi non la paghino solo i lavoratori. Serve discontinuità rispetto alle logiche difensive. E c'è un deficit totale dell'opposizione parlamentare. Pd e Idv non sono portatori di un disegno alternativo a quello di Confindustria.

Eppure si fa un gran parlare della svolta "operaista" di Di Pietro.
Di Pietro riesce a stare dalla parte dei lavoratori senza essere contro i padroni. Anche la sua è una forma populista.

Insomma, una certa disponibilità al conflitto esiste. Il Prc è stato tra i metalmeccanici, con i precari della scuola, sui tetti, tra i migranti contro il razzismo, con il mondo glbtq. Cosa propone però Rifondazione a proposito del salto di qualità che evocavi?
Propongo a tutte le forze dell'opposizione una manifestazione che dica "Via Berlusconi, democrazia nel Paese e nei luoghi di lavoro, giustizia sociale". E' una proposta che serve a "stanare" i partiti, per organizzare una massa critica, e fuoriuscire dal battibecco perdente con Berlusconi. Questione sociale e questione democratica non possono essere separate e non deve passare l'idea che quella sociale sia un sottoinsieme della questione democratica. Più è forte l'attacco sulle questioni di vita, più i ceti popolari - senza un'organizzazione collettiva - diventano massa di manovra per un'ipotesi populista su cui s'è costruito un immaginario preciso. Basta discutere di escort, stiamo lavorando per costruire le condizioni di una larga mobilitazione unitaria.

Tra le urgenze c'è anche quella di una fuoriuscita dal bipolarismo. Su questo esiste una interlocuzione con settori del Pd?
Certo, ma di questo è bene parlarne dopo il 25. La proposta che avanziamo è di separare il problema della sconfitta delle destre da quello del governo del Paese. Noi dobbiamo battere Berlusconi, che per smontare la democrazia, il sindacato e i diritti produce razzismo, omofobia, un Paese dove la gente si odia, una guerra civile strisciante in cui hanno sdoganato il peggio del "cattivismo". Però sappiamo che il centrosinistra non è autonomo dal progetto di Confindustria e quindi non si può governare con loro. Sconfiggere il bipolarismo vuol dire operare per la sconfitta di Berlusconi senza farsi arruolare per governare con Casini. Per questo proponiamo un accordo per battere Berlusconi, finalizzato ad una legge elettorale proporzionale e sul conflitto di interesse, senza un accordo di governo. Abbiamo bisogno che l'antiberlusconismo non si arruoli nel "partito di Repubblica".

Tutto ciò non può succedere senza Rifondazione e una sinistra d'alternativa.
Bisogna dire che ha funzionato il nostro lavoro "in basso a sinistra": il partito sociale, le brigate di solidarietà, il mutualismo, l'internità ai movimenti, da L'Aquila a Ponteranica fino al corteo di oggi, passando per i tetti delle fabbriche in crisi. Ora è il momento della Federazione della sinistra d'alternativa. Dallo scioglimento del Pci la nostra è una storia di scissioni, dai comunisti democratici del '94 fino ai verdi ieri. Tutto ciò ha minato radicalmente la nostra credibilità. La Federazione, al contrario, apre un processo di aggregazione. Sarà decisivo che non sia la costituzione di un partito, come Sinistra e libertà che, mettendo assieme tutti, liberisti e antiliberisti, comunisti e anticomunisti, senza un'ipotesi forte, finora ha prodotto solo scissioni. Ha spaccato noi, i verdi, i socialisti. La Federazione vuol dire che ti metti d'accordo sull'essenziale, sulla costituzione di una forza di alternativa strategica alle socialdemocrazie, autonoma dal Pd. Che non vuol dire che non puoi mai fare accordi ma che sei tu a stabilirne le condizioni, che non sei la sinistra del Pd. La Federazione sarà una forza anticapitalista, femminista, ecologista in continuità con la storia della sinistra di questo Paese. E' il contrario dell'impostazione occhettiana. L'idea che bisogna distruggere per ricostruire è nichlista. Il progetto di SeL, mi pare che mostri elementi di crisi. Noi gli proponiamo, come anche ai compagni di Sinistra critica e del Pcl, la Federazione come spazio pubblico della sinistra d'alternativa, autonomo dalla socialdemocrazia come la Linke.

Ma se non è un partito, che cos'è?
Una Federazione di partiti, organizzazioni, comitati, singole persone. Guardiamo all'America Latina: Rifondazione Comunista resta ma in un contesto di relazioni stabili, nella federazione. Lì sono nati, e hanno vinto, fori sociali, fronti uniti dove coesistono tendenze diverse. Alla fine di novembre ci sarà l'assemblea che darà vita al processo costituente della Federazione, sarà aperta alle associazioni, ai territori, ad altri soggetti. I soci fondatori (Prc, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro/solidarietà) non ne definiscono il perimetro, sono solo quelle che innestano un processo che deve incrociare le reti di movimento e dell'associazionismo che sono più ampie delle forze organizzate dei partiti. Sarà un processo aperto e che durerà un anno. Da gennaio, inoltre, uscirà la rivista "per la rifondazione comunista" e sarà diretta da Lidia Menapace. Servirà a contribuire a decolonizzare l'immaginario da Berlusconi, a dire che chi è ricco non ha ragione e chi è povero non ha colpa. E se lotta sta facendo la cosa giusta.

Intanto, però, in primavera ci saranno le regionali.
La crisi cambia tutto e mettiamo al centro del nostro progetto le politiche regionali per l'occupazione, il rilancio della sanità pubblica e l'ambiente, contro il nucleare. Il governo dirà solo dopo le elezioni dove intende costruire le nuove centrali per questo è necessario che le Regioni si dichiarino contrarie subito. Accanto a questo vi è la questione morale (con punti di degrado del centrosinistra che non sono più tollerabili) sia l'urgenza dell'ampliamento delle forme della democrazia, a livello regionale, contro il bipolarismo. Per quanto riguarda la presentazioni, a partire dalla lista unitaria delle europee proponiamo di lavorare per evitare la frantumazione della sinistra di alternativa. In questa situazione è decisivo che i voti di sinistra non vadano dispersi e si dia un segno di forza e di speranza.

Liberazione 18.10.09
L'assemblea "costitutiva", coi delegati provinciali, eleggerà il gruppo dirigente
Sinistra e Libertà: a dicembre nasce (quasi) il nuovo partito


Non è proprio quello che si auguravano i dirigenti del Movimento politico per la sinistra - il movimento che fa capo a Nichi Vendola, per capire - ma non è neanche lo "stallo" che auspicavano i socialisti

Non è proprio quello che si auguravano i dirigenti del Movimento politico per la sinistra - il movimento che fa capo a Nichi Vendola, per capire - ma non è neanche lo "stallo" che auspicavano i socialisti. Convinti che le decisioni si sarebbero dovute prendere dopo le elezioni regionali. Magari valutandone l'esito.
Così, dopo un tour de force durato quasi una settimana - dove si è sempre stati sull'orlo della rottura - ora le sorti di Sinistra e Libertà sono affidate all'assemblea "costitutiva" che si terrà a metà dicembre. Ma anche la definizione di quest'appuntamento è costato discussioni estenuanti, trattative lunghissime.
La vicenda è nota. Le forze e le associazioni che avevano dato vita alla lista elettorale - che sei mesi fa aveva raccolto un milione e trecentomila voti -, a settembre decisero un "percorso" che le avrebbe portate a sciogliersi e a dar vita ad un partito. Tappe lunghe ma dettagliate. Dando tempo a ciascuna formazione di svolgere i propri congressi.
Sembrava tutto deciso, quando invece - pochi giorni fa - alle assise dei verdi c'è stato un inaspettato cambio di maggioranza. Una delle componenti del Sole che ride - che rivendica la necessità di una presenza dei verdi autonoma, visibile e che non è disposta a rinunciare al proprio simbolo - ha presentato una mozione per sancire la fine dell'esperienza unitaria. E su questa ha raccolto il voto dei delegati.
A quel punto, dentro Sinistra e Libertà si è aperta una discussione: accelerare, con il gruppo dei vendoliani che ha spinto per dar vita ad un congresso vero e proprio entro la fine dell'anno, o lasciar perdere. Visto che anche l'adesione dei socialisti s'era fatta incerta.
Da qui, il confronto di queste ore. Teso, serrato. Alla fine la decisione. A dicembre ci sarà un'assemblea "costitutiva". Che non è un congresso ma ci assomigliamolto.
I delegati verranno scelti e votati provincia per provincia e saranno proporzionali ai voti ottenuti da Sinistra e Libertà alla sua unica apparizione elettorale. Questi delegati si riuniranno ed eleggeranno i gruppi dirigenti e il portavoce. Che, tutto fa capire, sarà Nichi Vendola. Contemporaneamente, si avvierà la raccolta delle adesioni e le formazioni cederanno il diritto di veto sull'uso del simbolo. Da dicembre, insomma, non saranno le segreterie dei gruppi a decidere come e se usare il logo di SeL ma saranno i nuovi gruppi dirigenti. Se non è un nuovo partito, poco ci manca.