venerdì 23 ottobre 2009

Repubblica 23.10.09
Cervello. Di destra o di sinistra? Ora lo decidono le neuroscienze
di Enrico Franceschini

David Cameron ha voluto esperti comportamentali e della mente come consiglieri in vista delle elezioni Recenti studi hanno infatti collegato le reazioni "cerebrali" con le scelte progressiste o conservatrici degli individui

Esistono basi neurologiche della morale: dall´altruismo alle virtù civiche

Di sinistra si nasce o si diventa? La medesima domanda, naturalmente, vale per chi è di destra. E la risposta è duplice: di destra, o di sinistra, si nasce e si diventa. La novità è che nuove ricerche sul cervello e sullo studio del comportamento umano vengono incorporate nell´analisi politica, per capire cosa spinge un elettore a votare in un senso o nell´altro. L´annuncio che David Cameron, leader dei conservatori britannici e, stando agli attuali sondaggi, prossimo primo ministro dopo le elezioni della primavera 2010, ha arruolato tra i suoi consiglieri degli esperti di neuroscienza e di economia comportamentale è un segnale dell´importanza che questo genere di studi hanno assunto nelle sfide elettorali del ventunesimo secolo. «Lo facevamo anche noi», rivela Matthew Taylor, ex-collaboratore di Tony Blair a Downing street.
In un articolo per il mensile Prospect Taylor racconta che negli anni del blairismo il governo laburista prendeva come modello l´Homo economicus: «Offri alla gente una scelta e la gente agirà nel proprio interesse, e nel fare ciò farà anche funzionare il sistema in modo migliore per tutti». Ma oggi, sostiene il politologo, la scienza ha fatto un ulteriore passo avanti, permettendo ai politici di analizzare le caratteristiche che spingono un cervello a simpatizzare per la sinistra piuttosto che per la destra, o viceversa. Finora, afferma, i dibattiti sulla natura umana erano ristretti ai comportamenti criminali e ad altre patologie. Adesso le reazioni "cerebrali" vengono studiate anche in relazione alle scelte politiche.
Prendiamo il Cervello Progressista. «L´altruismo ci rende felici», osserva Taylor. «Una comunità solidale crea persone migliori. Ineguaglianza e discriminazione ci privano di questo potenziale. Una buona guida ci aiuta a compiere decisioni sagge per il lungo termine». Morale: se una persona si sente sicura del proprio destino e assistita da uno stato e da una comunità solidali e ben funzionanti, è più propensa a votare per una politica che si identifica con questi valori. L´analisi del Cervello Conservatore secondo Taylor parte dalla constatazione che la morale ha una base neurologica: un forte istinto di giustizia che il nuovo leader dei Tory intende sfruttare per fare avanzare il suo progetto di un "conservatorismo sociale", intenzionato ad apparire moderno sulle questioni sociali e sulla scienza pur riaffermando i valori tradizionali della destra in difesa delle virtù civiche, delle istituzioni e delle tradizioni.
Il precedente tentativo di superare la divisione ideologica destra-sinistra e individuare un nuovo interlocutore era stato la Terza Via, l´idea del sociologo Anthony Giddens che ha portato al potere il New Labour di Blair in Gran Bretagna e forze riformiste in tutta Europa. Il concetto che i cittadini d´oggi non si vedono come oggetti di religioni, partiti, ma come autori delle proprie vite. L´ingresso della neuroscienza in politica, prevede Matthew Taylor, rappresenta un ulteriore passo avanti. Non bastano gli spin-master, gli esperti di manipolazione mediatica, per vincere le elezioni: servono anche gli psicologi del comportamento umano.

Repubblica 23.10.09
Parla Piero Ignazi, politologo: "Bisogna essere molto cauti nell´utilizzare queste teorie. Ma siamo solo all´inizio"
"Sono ricerche recenti, aspettiamo i risultati"
di Massimiliano Panarari

Piero Ignazi, politologo del Mulino e docente a Bologna, cosa pensa dell´intreccio tra neuroscienze e politica?
«Sarei molto cauto al riguardo perché siamo solamente ai primi passi di questo tipo di studi. A distanza di trent´anni dal loro debutto, avvenuto sostanzialmente con il libro Sociobiologia di Edward O. Wilson, pubblicato nel ´75 e che suscitò un enorme dibattito negli Usa, queste ricerche non forniscono ancora risposte convincenti o attendibili».
Anche in prospettiva?
«Per cultura e formazione, sono un razionalista, fiducioso nella scienza e, quindi, attendo qualcosa di più solido a questo proposito, perché al momento non disponiamo di alcuna certezza sulle determinanti biologiche dei comportamenti sociali (e, dunque, politici)».
Intravede qualche pericolo in questi approcci di "neuropolitica"?
«Sì, decisamente. Questo dibattito è, di fatto, una riproposizione di un´eterna querelle, la contrapposizione tra determinismo e libera scelta. Pensare che un ambito di scelte dell´agire umano possa venire determinato da fattori strutturali interni all´individuo e alla sua mente, significa, per esempio, negare l´influenza del contesto e dell´ambiente esterno. Col rischio, quindi, di prestarsi a strumentalizzazioni (come ai tempi di Wilson) o, peggio ancora, di consegnarci a un futuro assai fosco, alla Minority Report».


Repubblica 23.10.09
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
Violenza, errori e memoria Cosa sono stati gli anni ´70
di Simonetta Fiori

"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l´invito dell´autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione

Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall´«epica brigatista» e ancora da «un´ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo). Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell´impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell´evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell´impegno politico. Allo sguardo del testimone s´affianca così la lente dello storico, fino a produrre un´analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un´occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l´anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia. Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l´accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l´opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell´invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l´esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l´inganno» insite nella segretezza. Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.
L´ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l´universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all´esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l´assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene». Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l´invito dello storico, ma l´esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti». Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d´una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.

l’Unità 23.10.09
Intrigo internazionale per Vasari Il governo vende l’archivio ai russi
di Alessandro Bindi

Con una laconica lettera il ministro ai Beni culturali annuncia la vendita per 150 milioni di euro Sotto choc il Comune di Arezzo: ́Chiediamo la verifica degli atti alla Procura della Repubblica

Giorgio Vasari, adesso, parla russo. Gli atti formali di vendita sono in fase di traduzione ma con 150 milioni di euro il suo archivio di Arezzo è passato ad una società russa. L'hanno venduto gli eredi della famiglia Festari che ne deteneva la proprietà. La notizia è arrivata improvvisa ad Arezzo con una laconica lettera di notifica che il ministero dei beni culturali si è premurato di inviare al sindaco Giuseppe Fanfani. Immediata e accorata la reazione del primo cittadino, sotto choc per una notizia che arriva alla vigilia delle celebrazioni del cinquecentenario della nascita di Vasari che cade il 2011: «Il governo ne impedisca il trasferimento tuona Fanfani -. Un paese civile non vende la sua memoria e il suo patrimonio culturale». Nella lettera del ministero, all' amministrazione aretina è stato comunicato anche che la documentazione, costituita da carte autografe di Giorgio Vasari e dei più importanti personaggi contemporanei tra cui Michelangelo Buonarroti, è stata ceduta per 150 milioni di euro sempre che l'ente entro 90 giorni non sia intenzionato ad esercitare il diritto di prelazione. Come dire, se il Comune di Arezzo vuole mantenere l’Archivio in città sa come fare: si fruga in tasca e sborsa 150 milioni di euro.
DALL’ENEIDE AI PAPI
Del fantomatico acquirente russo si sa pochissimo. Si parla di una società della quale però non è stato reso noto il nome. Il prezioso archivio conservato in via XX settembre ad Arezzo, contiene anche la corrispondenza tra Giorgio Vasari e Annibal Caro, traduttore in endecasillabi sciolti dell'Eneide di Virgilio, della Poetica di Aristotele e delle Lettere a Lucilio di Seneca; inoltre ci sono anche molte epistole tra Vasari e i papi del tempo e tutta una serie di carteggi che offrono spaccati su aspetti molto interessanti come la società e l'economia della sua epoca. Tra i documenti compaiono anche i bilanci e i conti economici delle proprietà agricole di Giorgio Vasari. «Siamo di fronte ad un evento disastroso, da scongiurare in ogni modo sottolinea il sindaco -. È gravissimo che il ministero, attraverso la Soprintendenza archivistica della Toscana, abbia comunicato in maniera fredda e burocratica a noi, alla Provincia di Arezzo ed alla Regione Toscana questo fatto gravissimo. Non solo: ci ricorda che abbiamo a disposizione novanta giorni per esercitare il diritto di prelazione. Questo come se un Comune di dimensioni come Arezzo potesse avere a disposizione 150 milioni di euro sull’unghia».Per scongiurare la perdita di questo importantissimo patrimonio Fanfani ha scritto al presidente del consiglio, a Bondi, a Putin attraverso l’ambasciata a Roma, ai parlamentari eletti nel collegio aretino, a Claudio Martini, all'assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi. La deputata Pd Donella Mattesini si è subito detta pronta ad attivarsi in sede parlamentare. Aggiunge Fanfani: «Mi meraviglia che questa vicenda sia stata gestita in maniera puramente burocratica come si trattasse della vendita di un qualsiasi bene sottoposto a tutela, nel silenzio generale». Il sindaco è pronto a tutto: «Se l’Archivio passerà di mano l'amministrazione comunale è intenzionata a chiedere una verifica degli atti e delle procedure alla Procura della Repubblica».
Il mistero si è poi infittito in serata, quando è giunta una nota del ministero dei beni culturali, che annuncia di aver informato l'Autorità giudiziaria. Questo perché l’operazione «ha evidentemente sollevato numerose perplessità, non solo per l'enormità della somma pattuita ma soprattutto perchè l'archivio Vasari, chiunque ne sia il proprietario, è soggetto ad un vincolo pertinenziale e pertanto non può essere spostato dal luogo in cui attualmente è collocato ad Arezzo». E ancora: «Al di là di ogni allarmismo, la notifica dell’atto al Comune costituisce un semplice adempimento previsto dal Codice dei beni culturali».●

l’Unità 23.10.09
Radio radicale lancia l’allarme: rischiamo di chiudere

L’emendamento. 202 senatori di tutti i partiti: rinnovare la convenzione

«Attenzione, incombe il pericolo dell’eliminazione di Radio Radicale», avverte una mezza pagina a pagamento pubblicata ieri dal Foglio. La questione è reale. Il 21 novembre scade la convenzione tra il ministero dello Sviluppo e la radio per la trasmissione delle sedute del Parlamento. È dal 1976 che l’emittente assicura il servizio, dal 1994 è in vigore la convenzione che attualmente garantisce 10 milioni di euro lordi l’anno. I radicali si sono mobilitati, e hanno raccolto oltre 200 firme di senatori di vari partiti (tutto il gruppo del Pd, tranne la teodem Baio Dossi, ma ci sono anche vari big del Pdl come Nania, Baldassarri e Vizzini) in calce a un emendamento alla Finanziaria che garantisce il rinnovo della convenzione. «Il ministro Scajola ha dato delle rassicurazioni ma in Senato non si sa mai come va a finire...», spiegano i radicali. «Anche il sottosegretario Letta si è formalmente impegnato nella stessa direzione, e ci è stato autorevolmente assicurato che lo stesso presidente del Consiglio è d’accordo». Eppure Pannella, Bonino e il direttore Bordin non si fidano. «La situazione si è un po’ ingarbugliata, per questo lanciamo un appello al governo». Nel Pdl, del resto, non mancano voci contrarie, come Alessio Butti: «Dal 1998, data di inizio dei programmi di Gr Parlamento, Radio Radicale risulta un “doppione” e come tale viene meno la necessità del finanziamento da parte dello Stato». E proprio in risposta a Butti, nel dicembre 2008, il viceministro alle Comunicazioni Romani aveva spiegato che «allo scadere della convenzione verranno considerate la piena operatività della rete Rai dedicata ai lavori parlamentari e le esigenze di riduzione della spesa». A Butti replica Pannella: «Calunnie e menzogne, lo sfido a un confronto pubblico». A.C.

Corriere della Sera 23.10.09
Democrazia liberale e scontro di civiltà
Quel che resta della «fine della storia» vent’anni dopo la caduta del Muro
di Francis Fukuyama

«Stiamo assistendo non solo alla fine della Guerra fredda, o al superamento di un particolare periodo della storia postbellica, bensì alla fine della storia come tale: ovvero, siamo al termine dell’evoluzione ideologica dell’umanità, dove inizia l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come la forma finale di governo umano». Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, quali aspetti del mio saggio «La fine della storia e l’ultimo uomo» (Rizzoli) restano ancora validi? E che cosa è cambiato?

Il punto fondamentale — che la democrazia liberale rappresenta la forma finale di governo — regge ancora.

Ovviamente esistono alternative, come la Repubblica islamica dell’Iran o l’autoritarismo cinese. Ma non credo che molti siano convinti che queste sono forme di civiltà superiori ai governi che esistono in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e nelle altre democrazie sviluppate, tutte società che assicurano ai loro cittadini un alto livello di prosperità e di libertà personale.

La questione non è se la democrazia liberale rappresenti o meno un sistema perfetto, né se il capitalismo sia esente da problemi. Dopo tutto, siamo stati colpiti da questa immensa recessione globale proprio per il fallimento dei mercati svincolati da ogni regola. La vera questione è se sia emerso un qualsiasi altro sistema di governo negli ultimi vent’anni a scardinare la mia tesi. E la risposta resta negativa.

Il mio saggio fu scritto nell’inverno del 1988-89, appena prima della caduta del Muro di Berlino. A mio avviso tutto il pessimismo riguardante la nostra civiltà, in seguito ai terribili eventi del ventesimo secolo, con i suoi genocidi, gulag e guerre mondiali, non rappresentava il quadro completo. In realtà, il mondo era percorso da molte tendenze positive, tra cui la nascita della democrazia laddove erano esistite dittature. Samuel Huntington la chiamava «la terza ondata».

Tutto prese avvio nel Sud dell’Europa negli anni Settanta, con il ritorno alla democrazia in Spagna e Portogallo. Nello stesso periodo, si assistette alla fine di quasi tutte le dittature in America del Sud, eccetto a Cuba. Poi ci fu il crollo del Muro di Berlino e l’apertura dell’Europa dell’Est.

Ancora oltre, la democrazia ha rimpiazzato i regimi autoritari in Corea del Sud e a Taiwan. Siamo passati da un’ottantina di democrazie nei primi anni Settanta a 130 o 140 due decenni più tardi.

Certo, non c’è stata una progressione lineare. Oggi assistiamo a una specie di recessione della democrazia. Ci sono state inversioni di tendenza in Paesi importanti, come la Russia, dove vediamo il ritorno di un duro sistema autoritario senza rispetto della legalità, oppure in Venezuela e in altri Paesi dell’America latina governati da regimi populisti.

È chiaro che il grande slancio verso la democrazia ha toccato i suoi limiti. In alcuni luoghi, oggi si verifica una reazione antidemocratica. Ma questo non significa che la corrente più consistente non sia ancora verso la democrazia.

È stato Samuel Huntington a fornire il principale argomento contro la teoria della «fine della storia». Lungi dalla convergenza ideologica, sosteneva, si assiste a uno «scontro di civiltà», nel quale cultura e religione si trasformano nei principali focolai di conflitto dopo la Guerra fredda. Per molti, l’11 settembre e le sue conseguenze hanno confermato la tesi di Huntington di uno scontro tra Islam e Occidente. Ma nel complesso, occorre capire se le caratteristiche culturali sono talmente radicate da escludere ogni possibilità di sviluppare valori universali o una convergenza di valori. Qui sta la questione. E su questo punto sono in disaccordo con lui.

La tesi di Huntington è che la democrazia, l’individualismo e i diritti umani non sono concetti universali, bensì riflessi di una cultura che affonda le radici nel cristianesimo occidentale. Storicamente è vero, ma occorre aggiungere che questi valori si sono diffusi ben al di là delle loro origini.

Sono stati accolti da società provenienti da tradizioni culturali molto diverse. Basta guardare gli esempi del Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Indonesia.

Le società fondate su radici culturali diverse hanno condiviso questi valori non certo perché sono i valori degli Stati Uniti, ma perché funzionano anche per loro. Forniscono il meccanismo della responsabilità di governo e consentono alle società di allontanare i leader poco affidabili quando la situazione peggiora. È un enorme vantaggio a disposizione delle società democratiche, e la Cina ne è sprovvista. In questo momento la Cina può contare su leader competenti, ma prima aveva Mao. Non c’è nulla che possa impedire, in futuro, l’ascesa di un nuovo Mao se non si instaura qualche forma di responsabilità democratica.

È impossibile avere un buon governo senza responsabilità democratica. E credere altrimenti è un’illusione pericolosa.

testo raccolto da Nathan Gardels traduzione di Rita Baldassarre © Global Viewpoint

Corriere della Sera 23.10.09
Uruguay José Mujica favorito nelle elezioni di domenica
Pepe il «tupamaro» l’ex guerrigliero che vuole la presidenza
«Essere socialdemocratico è una codardia»
di Rocco Cotroneo 



RIO DE JANEIRO — «Dammi retta Pepe, mettiti una giacca. Non c’è niente di male. Ne ho per­se tre di elezioni perché giravo in camicia, poi alla quarta ho vin­to ». José Mujica, per tutti Pepe, ha accettato il consiglio dell’ami­co Lula. Smesse le guayaberas cu­bane e i giubbotti in stile country, ha tenuto duro solo sulla cravat­ta. Ma se domenica prossima — come tutto lascia pensare — vin­cerà le elezioni presidenziali in Uruguay, non lo si potrà accusare di trasformismo.

Nell’America Latina dei leader con un’altra vita alle spalle — l’operaio, il vescovo, il parà — Mujica si definisce con orgoglio un tupamaro, e il nome del cele­bre movimento guerrigliero degli anni Settanta figura tuttora sulla scheda elettorale. Ovviamente, a 74 anni suonati, non è più un com­battente in armi, attività per la quale ha pagato un prezzo terribi­le durante la dittatura militare in Uruguay: quindici anni di galera, buona parte in una cella lugubre sotto terra, e la minaccia quotidia­na di venire ammazzato se i suoi compagni in libertà avessero ripre­so a combattere.

Non ha bisogno di test di demo­crazia, Mujica, e non solo perché la sua coalizione, il Fronte Ampio, governa già l’Uruguay da quattro anni, con il moderato Tabaré Vázquez. «Ho già riconosciuto la codardia di essere diventato social­democratico », scherza. È stato de­putato, senatore e ministro, nel settore dove ne capisce di più, l’agricoltura e l’allevamento. Atti­vità che ancora costituiscono la ba­se produttiva del piccolo Paese su­damericano, appena tre milioni di abitanti, «in un angolo importan­te del mondo all’incrocio tra alcu­ni fiumi», definizione sua. Dice che l’Uruguay ha tutte le condizio­ni per trasformarsi in un gioielli­no del Sud del mondo, un Paese agro-intelligente, una sofisticata fattoria sotto la linea dell’equato­re, come quella dove vive a mez­z’ora di strada da Montevideo. Del denaro e dei consumi, perso­nalmente non gli importa nulla. Il mio sogno di vita? Pescare, cu­rare le piante e sedermi all’om­bra di un albero. Quando fu elet­to deputato, rinunciò allo stipen­dio e continuò a vendere fiori ai mercati. Per settimane dovette penare per convincere gli uscieri del Parlamento a farlo entrare nel garage con una vecchia moto, sempre sporca di fango.

Ma se il gusto retrò aiuta il per­sonaggio, attrae per coerenza e ser­ve a creare nei discorsi buone me­tafore contadine, sono le odierne passioni di Mujica a sostenere la sua candidatura. La scienza, la tec­nologia, lo spirito imprenditoria­le, le idee nuove. Arrivando a ca­valcare persino i luoghi comuni che dipingono l’Uruguay come un Paese sonnolento e triste, e i suoi concittadini attaccati alle certezze e alla rassegnazione di un buon impiego statale. «Abbiamo tutti bi­sogno di una scossa, ci vorrebbe­ro un po’ di emigrati stranieri nei nostri campi. I nostri fanno ben poco», ammette. E ce n’è anche per i dirimpettai del Rio de la Pla­ta: «Gli argentini? Un popolo di idioti, isterici e paranoici, che ama­no farsi governare da ladri e mafio­si », disse in un’intervista che poi uscì in un libro, qualche mese fa. Da Buenos Aires volarono fulmini e lui, già candidato, dovette fare marcia indietro con la solita scusa delle «parole estratte da un conte­sto » e chiedendo scusa. Ma la vec­chia rivalità tra i due Paesi, che si allarga dal tango al futebol passan­do per le vacche, male non cade in politica, e l'episodio è stato veloce­mente archiviato. Per domenica, il dubbio pare es­sere solo uno, se «Pepe» ce la farà o meno al primo turno. I sondaggi gli attribuiscono il 44-45% dei vo­ti e manca poco per evitare il bal­lottaggio. Il suo rivale di centrode­stra Luis Lacalle è fermo al 30-31%. 

La lotta alla dittatura 
Il nome Tupamaros: da Tupac Amaru, l’ultimo leader degli Indios del Perù Guerriglia Protagonisti di azioni di guerriglia negli anni ’60 e inizio dei ’70.
L’azione più clamorosa: il rapimento e l’uccisione dell’agente Cia Dan Mitrione
Carcere Sottoposti a torture e carcere duro durante la dittatura Svolta democratica Nel 1985, con la fine del regime, si trasformarono in Movimiento de Participación Popular 
Ci chiamavano guerriglieri ma eravamo un movimento politico armato.
La violenza era giustificata: c’era troppa ingiustizia

Corriere della Sera 23.10.09
Cinema e politica L’attrice: la violenza è colpa anche di certi film
La Kidman all’attacco: Hollywood vuole soltanto donne oggetto
di Alessandra Farkas

E il presidente Obama: i mariti sono ottusi

NEW YORK — L’iniquo su­perlavoro delle mamme in fa­miglia? «Colpa dei mariti ottu­si », secondo Barack Obama. La violenza che subiscono le donne nel mondo? «Colpa di Hollywood», a detta di Nicole Kidman.

Neppure si fossero messi d’accordo in anticipo, il presi­dente degli Stati Uniti e la star del cinema ieri hanno fatto a gara tutto il giorno nel domi­nare il dibattito Web con i loro cliccatissimi excursus all’inter­no del pianeta donna.

Nel suo ruolo di ambasciatri­ce dell’Unifem (Fondo Onu di Sviluppo per la Donna) la Kid­man è stata ascoltata a Washing­ton da una sottocommissione della Camera dei Rappresentan­ti che cerca di far adottare l’In­ternational Violence Against Women Act, un progetto di leg­ge volto a influenzare la politica estera Usa verso i Paesi dove i di­ritti delle donne sono violati.

«Hollywood ha certamente un ruolo nella violenza che su­biscono le donne», ha dichiara­to la star di The Hours rispon­dendo alla domanda della de­putata repubblicana Dana Rohrabacher, «perché il cine­ma le dipinge come oggetti sessuali deboli». Alcune ore più tardi, intervistato dalla Nbc , il presidente Obama face­va mea culpa per non essere stato sempre all’altezza come marito e come padre.

«Michelle ha dovuto fare molti più sacrifici di me, so­prattutto nel tirar su le nostre due figlie», ha detto, primo presidente americano della storia ad aver osato tanto. «Ogni tanto ho avuto bisogno di essere richiamato all’ordine — ha scherzato —. 'Perché, mi chiedeva in passato Michel­le, se le bambine hanno biso­gno di andare a comperare un vestito deve essere un compi­to mio e non tuo? O se si am­malano, tocca sempre a me as­sentarmi dal lavoro per corre­re a prelevarle a scuola?'». Dal particolare, Obama arriva al generale: tutti gli uomini ame­ricani che non capiscono quan­to sgobbano le loro mogli so­no «ottusi».

Nicole va più in là e dice che «la violenza contro le don­ne e le bambine è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse nel mondo. Perché non conosce frontiere, né di­stinzione di razza o classe». Nel libretto che tiene in mano ci sono le prove sconvolgenti di ciò che ha appena detto: una donna su tre è picchiata o violentata nel corso della sua vita. Più della metà delle ag­gressioni sessuali avvengono ai danni delle minori di quindi­ci anni. Negli Stati Uniti sono stati denunciati 89 mila stupri nel solo 2008.

«Io non sono responsabile di tutto quel che fa Hollywo­od, ma lo sono per quel che ri­guarda la mia carriera — con­clude la Kidman — per questo non sono interessata ad inter­pretare ruoli degradanti di donne». Sarà. Ma in passato non ha esitato a farlo e adesso la blogosfera le presenta il con­to della spesa. «Nicole è un’ipocrita — tuona Al sul blog PopEater — non ha esita­to a recitare in Ore 10: Calma piatta , l’horror thriller dell'89 in cui interpreta il ruolo di una donna in balia di un mani­aco omicida. Per non parlare di Dogville », il controverso film di Lars Von Trier che la ve­de nei panni di una giovane soggetta a violenze di ogni ti­po da parte addirittura di un’intera città.

Ma anche Obama negli ulti­mi giorni è stato accusato di parlare bene e razzolare male per aver organizzato una parti­ta a basket con alcuni parla­mentari e ministri senza invita­re neanche una donna. «È una sciocchezza — ha sdrammatiz­zato il presidente nell’intervi­sta alla Nbc —, non era niente più che una partita di pallaca­nestro » . 


Corriere della Sera 23.10.09
Stavolta non è un dibattito da radical chic
di Maria Laura Rodotà

Bè, prendiamola come una buona notizia. Ni­cole Kidman (e ha un senso: proprio lei, in «To Die For» di Gus Van Sant, interpretò al meglio il ruolo della ragazza-vittima della cultura pop, co­sì desiderosa di stare in tv da uccidere) denun­cia la mercificazione hollywoodiana delle don­ne e le colpe dello show business nel rappresen­tarle come oggetti sessuali, potenziali oggetti di violenza. Obama (e ha senso per questo: è mari­to di Michelle, femmina formidabile che surclas­serebbe buona parte dei maschi medi del piane­ta; i quali lo sanno) esalta le multiple capacità delle donne contemporanee. L’uno/due acciden­tale ma riuscito è una buona notizia perché fa notizia: sono esternazioni Vip; perciò fanno il gi­ro di tg, giornali e siti di tutto il mondo. E fanno discutere gente inconsapevole, disinteressata, o (nel caso delle donne) spesso ammutolita.

Risultato: un’improvvisa, enorme risonanza mediatica per cause generalmente considerate da povere disgraziate ossessive. Succede in Ita­lia e ovunque; in fondo che c’è di male a mostra­re belle ragazze molto disponibili (niente; ma perché quasi sempre solo quelle?); cosa c’è di strano se un marito non dà retta alla moglie che lavora e deve stare anche dietro a casa e bambi­ni? Non è strano; però ha stra-ragione Obama a far notare che a furia di faticare e organizzarsi, le mogli diventano più brave dei mariti. Ora c’è da vedere quante obamiane convinte prenderan­no «a pugni in testa» i loro coniugi, come sugge­rito dal presidente degli Stati Uniti (l’espressio­ne è un po’ forte, ma in un momento di calo di popolarità può renderlo simpatico a molte elet­trici, è indubbio).

Quindi tutto bene. Discutiamo delle parole di Obama, e pure dell’intervento di Nicole Kid­man. Con un’unica preoccupazione. Che, dopo la sorpresa, il battage, le conversazioni sul te­ma, quella delle donne diventi una causa da bel­li- e-famosi. Piuttosto ganza, su cui spendere qualche bella parola; per poi antipatizzare, ma­gari con la facile obiezione «avete visto? E’ un argomento radical chic». Non lo è. Lo si capisce anche ripensando alle storie dei due personag­gi. Prima di diventare una diva, Kidman è stata una ragazzetta-carne da cannone nel mondo del­lo spettacolo. Se è riuscito a diventare presiden­te, Obama deve ringraziare l’esempio e l’aiuto di donne tostissime, la moglie, la madre, la nonna. Prendiamoci a pugni in testa, per favore, se pen­siamo sia una causetta Vip.

Corriere della Sera 23.10.09
Domani a Firenze
A Roberto Benigni il Premio Galileo in Santa Croce
di Laura Antonini

La Basilica di Santa Croce a Firenze, luogo delle sepolture dei grandi rese immortali da Ugo Foscolo, domani diventa teatro di eventi e si apre alla città. L’occasione è la XIII edizione del Premio Galileo, manifestazione ideata da Alfonso De Virgiliis quest’anno incentrata sui temi di Arte, Scienza, Fede. Tra i premiati Roberto Benigni (nella foto), l’astrofisico tedesco Reinhard Genzel, il cardinal Renato R. Martino, presidente del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace e il maestro Seiji Ozawa. La serata esclusiva, suddivisa in tre momenti, si snoderà dalla vicina Biblioteca Nazionale dove gli ospiti tra spettacoli e coreografie di danza potranno ammirare opere e disegni autografi di Galileo, per approdare al Chiostro brunelleschiano attrezzato con telescopi puntati sulla Luna e su Giove. Da qui, attraversando il Chiostro di Arnolfo, gli invitati entreranno nella basilica per assistere alla premiazione tra i fronteggianti sepolcri di Galileo e Michelangelo animati da un dialogo immaginario per voce della soprintendente al polo museale Cristina Acidini e dell’ex rettore dell’ateneo fiorentino Paolo Blasi. Quando le porte di Santa Croce si apriranno sul sagrato illuminato per accogliere sulle note dell’Ave Maria di Schubert l’esibizione del ballerino spagnolo Angel Corella, premiato per la danza.

Agi 23.10.09
Poesia: Il ritorno di Lilith scritto con le unghie da Haddad

(AGI) - Roma, 23 ott. - Le piace dire che scrive con le unghie perche' scava, va in profondita' ma anche per sferzare le donne: perche' non fate sentire le vostre voci? Non mostrate le vostre unghie? E' questa Joumana Haddad, giornalista e scrittrice libanese che con il suo ultimo libro, prima opera integrale in italiano, 'Il ritorno di Lilith' (Ed. L'Asino d'oro), che sara' presentato martedi' prossimo a Milano alla libreria Feltrinelli, vuole aprire una 'speranza' per le donne arabe oppresse ma anche di altri paesi, Italia compresa: del resto l'oppressione della donna non necessariamente fisica, pur se con modalita' diverse e' la stessa come intenzionalita'. Joumana gia' intervistata da numerose testate radiofoniche e televisive, oltre che da riviste e quotidiani, ha raccontato la leggenda, il mito di Lilith, la prima donna creata che non si sottomise non si ridusse cioe' in schiavitu' ad Adamo. Un libro scritto "con le unghie", perche'? "Scrivere e' innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo ma solamente - ha risposto la poetessa libanese - soprattutto nei confronti di me stessa. E' qualcosa come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare segreti, misteri e parole nascoste che ci sono in me". E questo libro e' frutto anche del coraggio di Joumana, della sua sfida a dogmi e tabu' sulla sessualita'. Infatti, "molti credono che mi sia gettata - nel fuoco", ha chiosato. E sul settimanale 'Left' in edicola va oltre: "sii bella e vota", rivolgendosi alle donne non solo del suo paese, il Libano ormai soprannominato la "repubblica del silicone". "I nostri partiti politici non dovrebbero, prima di chiedere i voti delle donne, candidarle? Oppure la donna per loro si limita ad avere un unico ruolo e un solo valore, ovvero essere elettrice soltanto - scrive Joumana - la strada davanti a lei e' ancora lunghissima prima di meritare di far parte degli eletti (e delle elette)?". Ma si pone la caporedattrice della rivista libanese 'Jasad', anche la questione in termini italiani: "Perche' sto facendo questa domanda ora, e qui? Perche' lo stato delle cose in Italia, purtroppo, non e' molto diverso dallo stato delle cose a Beirut. E il Libano non e' l'unica repubblica di silicone nel mondo moderno. Infatti, la strumentalizzazione della donna li' non e' molto diversa - continua - dalla strumentalizzazione della donna qui, anche se riveste delle maschere differenti. Quali posti decisivi occupano le donne, sia libanesi, sia italiane, sulla scena politica?". Infine la sferzata alle donne, "ribellatevi: perche' non fate sentire la vostra voce? Perche' non mostrate le unghie?". (AGI) Pat

giovedì 22 ottobre 2009

l’Unità 22.10.09
L’Agenzia del farmaco: sulla Ru486 nessuna pressione
di Nedo Canetti

Guido Rasi ascoltato ieri nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva. Il presidente dell’Aifa ha difeso l’operato dell’Agenzia: «Il via libera dopo un iter procedurale ineccepibile».

Il via libera alla commercializzazione in Italia della pillola abortiva RU486 è arrivato al termine di «un iter procedurale ineccepibile» da parte dell’Agenzia del farmaco. Lo ha affermato ieri il direttore generale dell’Aifa, Guido Rasi, nel corso di un’audizione alla commissione Sanità del Senato, nell’ambito dell’avviata indagine conoscitiva. «La pubblicazione sulla G.U. ha proseguito è un atto dovuto, non posso modificare di una virgola la delibera approvata». Ha poi sostenuto di non aver ricevuto alcuna pressione, tanto è vero che l’Aifa «non ha fermato di un giorno la propria macchina», stabilendo che la pillola è «teoricamente compatibile con la 194, essendo un metodo abortivo come un altro». «La lettera del sen. Tommasini, presidente della commissione (proponeva di attendere, per la decisione, la fine dell’indagine del Senato, ndr) ha precisato non imponeva lo stop dell’approvazione , ed infatti non è stata recepita». Il Pd, ha ricordato la senatrice Fiorenza Bassoli, aveva protestato per la lettera ed è «decisamente contrario alle motivazioni che la destra assegna alla commissione, ispirate a una volontà di controllo e di messa in discussione delle competenze dell’Aifa». «Come Pd ha sottolineato riteniamo che unico scopo dell’indagine sia quello di accertare quali siano le procedure e le pratiche cliniche migliori per la salute della donna e più coerenti con la legge 194». In merito alle procedure, il dr. Rasi ha affermato che non spetta alla sua Agenzia definire le modalità di somministrazione del farmaco. «È un atto medico ha detto e, nell’ambito ospedaliero, definire le modalità spetta a governo e regioni». E le «indicazioni e linee guida ha annunciato il sottosegretario Eugenia Rocella, presente all’audizione saranno emesse dal governo «in compatibilità con la 194» e «secondo la delibera dell’Aifa» (ricovero ospedaliero fino ad aborto avvenuto e intera procedura praticata in ospedale). Diverse regioni, come la Campania, il Veneto e l’Emilia Romagna hanno annunciato che stanno procedendo.

l’Unità 22.10.09
SCUOLA E TRASPORTI
Sciopero
Sciopero generale dei sindacati di base per la giornata di domani. Manifestazioni a Milano, Torino e Roma. Interessati scuola, trasporti pubblici, sanità e trasporto aereo.

l’Unità 22.10.09
La storia di un medico
Autobiografia sui generis Un viaggio nel mestiere di chirurgo scritto a quattro mani
L’etica del lavoro L’oncologo più famoso d’Italia e il suo rapporto con i pazienti in un decalogo
Veronesi: la vita particolare dell’uomo con il camice bianco
di Luca Landò

È in libreria «L’uomo con il camice bianco», semi autobiografia di Umberto Veronesi, scritta insieme ad Alberto Costa, che ripercorre la carriera del celebre oncologo e, soprattutto, dei suoi rapporti con i pazienti.

«La prima volta che vedi il bisturi affondare svieni». Non sappiamo se Umberto Veronesi, l’oncologo più famoso d’Italia e uno dei più noti al mondo, sia davvero svenuto. Ma chi lo conosce non ha dubbi: il giorno dopo si presentò fresco e riposato con il «solito» quarto d’ora di anticipo. Perché tra le caratteristiche di questo giovane di ottanta anni spicca, da sempre, la voglia di battere il tempo. Come il vizio di andare nelle sale dei congressi, per primo e da solo, a controllare la disposizione delle sedie e delle diapositive. O l’abitudine di scendere prima dell’orario in sala operatoria a scambiare due chiacchiere col paziente e gli infermieri.
IL TRUCCO
Il trucco? Dormire poco, dormire sempre. Stare sveglio la notte per leggere e approfittare di ogni pausa del giorno per infilare brevi ma intensi momenti di sonno. «Sono diventato così bravo che dormo durante il rosso dei semafori», dice scherzando ad Alberto Costa, per vent’anni il suo più stretto collaboratore e adesso autore, con lui, de L’uomo con il camice bianco, scritto con Alberto Costa (pp. 216, euro 17,50, Rizzoli). Un’insolita «autobiografia a quattro mani» ma soprattutto un viaggio, duro e concreto, in quella quarta dimensione che è la chirurgia. «Non sono religioso. Ma la sala operatoria ha qualcosa del luogo sacro, della chiesa, della
Umberto Veronesi nel suo studio sinagoga. Nelle sale operatorie si avvertono sensazioni che solo i medici e gli infermieri (i sacerdoti del tempio) sanno riconoscere». Concentrazione, preparazione. E consapevolezza di quello che stai per fare. «Noi medici siamo come atleti impegnati a battere il record del mondo. Tutto è molto veloce e si hanno pochi minuti per decidere. È vero quello che si dice dei chirurghi: che non studiano abbastanza, che guadagnano troppo, che soffrono di onnipotenza. Ma vuole farsi avanti qualcun altro a prendersi sulle spalle il peso di quello che facciamo?».
La solitudine dei numeri primi, solo che questo non è un romanzo. E nemmeno una puntata di ER o del Dr. House dove tutti tornano sempre a casa guariti e contenti. Da qui, a volte, non si torna affatto. «Oggi nella mia mente c’è una gigantesca fossa comune. Ho visto morire molte persone. Troppe». E proprio questo, forse, ha spinto Veronesi a inventarsi l’Airc, l’associazione che raccoglie fondi dai cittadini per fare quello che lo Stato fa poco e male: finanziare la ricerca sul cancro. O a dar vita all’Istituto Europeo di Oncologia, una struttura di eccellenza dove i medici curano sia pazienti privati che quelli a carico del servizio pubblico. O ancora a spingerlo in politica, prima come senatore, poi come ministro della Sanità. «Un periodo indimenticabile ma il difficile fu ritrovarsi parte di un governo con colleghi che avevano idee molto diverse se non opposte dalle mie: sul nucleare, sugli Ogm, sul testamento biologico».
Da ministro riuscì a varare la legge che proibiva il fumo nei locali pubblici («il secondo Paese in Europa dopo l’Irlanda») e a porre la spinosa questione dei nostri centri di cura: «il trenta per cento degli ospedali italiani è troppo vecchio o troppo piccolo o troppo isolato». Un problema enorme anche per un chirurgo-ministro convinto che efficienza medica e diritti del malato debbano andare di pari passo. Gli ospedali sono rimasti quelli di prima, ma i diritti dei pazienti cominciano a farsi strada. Come il decalogo del malato, lanciato proprio Veronesi e riportato nel libro.
Dieci punti semplici ma fondamentali, come il diritto a essere informati («perché tanti medici trattano i pazienti come dei bambini?»), il diritto alla privacy e alla dignità, senza i quali il paziente viene trasformato in un numero (Porta la padella al quindici) o in un argomento di anatomia (Abbiamo due tiroidi da operare). Il diritto a non soffrire: «Ho imparato da una suora che il dolore non santifica. All’ottavo piano dell’Istituto dei Tumori suor Luigina diceva spesso: Il dolore fa arrabbiare. E fa anche venire voglia di bestemmiare. Meglio una fiala di morfina».
Una vita particolare, quella di Veronesi. Come particolare fu la quadrantectomia, la tecnica che mise a punto negli anni Settanta e che oggi permette alle donne con un tumore diagnosticato per tempo, dunque piccolo, di sottoporsi all’intervento chirurgico senza perdere il seno. Fu una rivoluzione, anche perché convinse le donne a cambiare atteggiamento verso gli esami di controllo, prima di allora rinviati o addirittura evitati. L’Italia entrò all’improvviso tra i Paesi più importanti nel campo dell’oncologia, mentre Veronesi divenne una star dei convegni e un inquilino volante dell’Alitalia: «A volte andavo al Cairo giusto il tempo di una cena o a Tokio solo per un’ora di lezione».
ALL’AEROPORTO
In valigia, oltre al passaporto, l’ormai consunta lastra del torace, unico modo per passare senza problemi i controlli degli aeroporti. Il motivo? Colpa di una mina che gli esplose accanto quando aveva diciott’anni. Duecento ferite in tutto il corpo e un frammento d’acciaio che finì troppo vicino al cuore per essere rimosso. È ancora lì, nel corpo del medico più famoso d’Italia. Che quando il metal detector suona, mostra rapido la radiografia.

Repubblica 22.10.09
In Toscana i preti del genocidio
Arrestati due sacerdoti ruandesi: "Hanno massacrato i tutsi"
Dopo Seromba, finisce in carcere anche Uwayezu, vice parroco vicino ad Empoli: "Sono innocente"
di Laura Montanari

FIRENZE - Stessa accusa, genocidio. E stesso rifugio, le chiese della diocesi fiorentina. Dopo padre Athanase Seromba, condannato all´ergastolo per i massacri della guerra civile in Ruanda, l´ultimo caso è quello che ha portato nel carcere di Sollicciano padre Emanuel Uwayezu, 47 anni, il sacerdote ruandese di etnia hutu, vice parroco in una chiesa di Ponzano (Empoli). Uwayezu è stato arrestato dai militari in esecuzione di un mandato di cattura internazionale: la procura generale in Ruanda lo accusa di essere coinvolto nel massacro dei tutsi nel maggio 1994, una primavera di sangue con centinaia di migliaia di vittime.
Padre Emanuel era direttore della scuola di Misericordia di Maria di Kibeho: ottanta studenti fra i 12 e i 20 anni tutsi vennero uccisi. Secondo la denuncia dell´Africa Rights, ong con sede a Londra, il sacerdote non avrebbe fatto nulla per difendere quei giovani circondati dai miliziani hutu e finiti a colpi di machete senza che i gendarmi schierati in loro difesa intervenissero. In pochissimi si salvarono. Uwayezu si è sempre proclamato innocente e l´ha ribadito anche ieri: «Non ero al collegio, ma a colloquio con il vescovo proprio per cercare un modo per mettere in salvo i ragazzi». Il sacerdote ruandese dopo il massacro si è rifugiato prima in Congo e poi è arrivato in Toscana grazie a una convenzione fra le diocesi, Fidei donum. La stessa che soltanto pochi anni prima aveva probabilmente portato a Firenze un altro sacerdote ruandese accusato e poi condannato nel 2008 per genocidio, padre Athanase Seromba. Anche Seromba si era sempre dichiarato innocente ed era scappato dal Paese trovando rifugio prima a Prato e poi a Firenze. Aveva cambiato nome, ma era stato individuato e denunciato dal procuratore del tribunale dell´Onu e alla fine si era costituito. Condannato in primo grado a 15 anni di carcere nella sentenza d´appello la corte del tribunale internazionale per il Ruanda (con sede in Tanzania) aveva trasformato la pena in ergastolo. La presenza di sacerdoti stranieri in Italia, di solito legata alla mancanza del clero necessario a coprire tutte le esigenze pastorali, è regolata da accordi fra vescovi. I legali di don Uwayezu, presenteranno oggi alla corte d´appello di Firenze l´istanza per ottenere gli arresti domiciliari.

Repubblica 22.10.09
Bucarest. Il sangue dell’89
Così cacciammo Ceausescu
di Bernardo Valli

Sul balcone del palazzo, Nicolae Ceausescu si avvicina al microfono, pronuncia le prime parole Dalla folla si levano grida ostili, il dittatore resta a bocca aperta. Nessuno lo aveva mai interrotto Erano le 12,30 del 21 dicembre: quel momento annunciò al mondo la fine del regime
Fu l´ultimo capitolo, e l´unico cruento, di quell´anno cruciale Il racconto di Ion Iliescu, oggi quasi ottantenne, l´uomo che guidò il Paese fuori dal comunismo alla testa del Fronte di Salvezza

La rivoluzione rumena (o la rivolta o il complotto o la congiura internazionale, secondo le varie tesi) fu l´ultimo capitolo, e il solo bagno di sangue, del 1989, l´anno in cui la storia d´Europa ha girato pagina, essendo il comunismo reale entrato in un´agonia irreversibile. Gli atti notarili chiedono tempo e il decesso ufficiale sarà registrato due anni dopo con la dissoluzione dell´Unione Sovietica. Ma l´estremo ictus è il tragico episodio del Natale rumeno, vissuto alla televisione, quasi in diretta, non solo dall´Europa ma dal mondo. Bucarest era in grande ritardo rispetto alle altre capitali satelliti dell´impero in decomposizione. A Varsavia, a Budapest, a Praga, nella stessa vicina Sofia, era già avvenuta la transizione incruenta; a Berlino, il 9 novembre, era caduto il Muro.
Gli occidentali avevano da tempo voltato le spalle a Ceausescu, dopo averlo a lungo adulato per assecondare le sua insubordinazione nazionalista nei confronti di Mosca. E nella stessa Unione Sovietica, dopo una burrascosa visita di Gorbaciov a Bucarest, nell´87, si sopportava sempre meno il caparbio, a tratti sprezzante, rifiuto del regime rumeno ad accettare la decisiva svolta del Cremlino, basata sulla perestrojka e la glasnost (la revisione economica e la trasparenza politica). Ceausescu appariva come l´estremo baluardo di un comunismo irriformabile, ancorato a un dittatore, il cui carattere assumeva sempre più aspetti psichiatrici. E il Paese era sull´orlo di un´esplosione.
Dal 1980 scarseggiava persino il pane. L´industria costava di più di quel che produceva. Con uno scatto d´orgoglio Ceausescu aveva deciso di rimborsare al più presto i debiti accumulati dal Paese. E allora cominciò il calvario. La gente non moriva di fame, ma la malnutrizione allungava le file, anche notturne, davanti ai negozi d´alimentari vuoti. Nei mesi d´inverno, durante i quali mancava spesso la corrente, i rumeni dormivano vestiti, con i guanti. E poi c´era stata la proibizione dell´aborto, che aveva moltiplicato le tragedie, poiché gli aborti, spesso per evitare figli che non si potevano mantenere, venivano fatti clandestinamente e senza sicurezza. In quegli stessi anni di miseria, Ceausescu aveva fatto costruire uno dei palazzi più grandi del mondo, foderato di legni preziosi e di marmi. E nel cantiere avevano lavorato operai malpagati e denutriti. Schiavi del XX secolo.
Cosi si arriva al dicembre dell´89. La cronologia degli ultimi avvenimenti è scrupolosa. Non sgarra di un minuto. Oscuro, incerto, resta invece il retroscena di quei fatti. Ed enigmatico il ruolo dei protagonisti. Alle 14,50 del giorno di Natale, in una caserma a neppure cento chilometri da Bucarest, sono sbrigativamente fucilati Nicolae ed Elena Ceausescu e con loro si spegne il comunismo paranoico, alla cui testa non c´era più da tempo il partito ma la famiglia: la famiglia dei coniugi Ceausescu. La quale, come se cercasse il riscatto di una lunga sinistra megalomania, ha un sussulto di dignità davanti alla morte. Marito e moglie negano la legittimità di chi li sta giudicando, respingono gli avvocati difensori e l´idea di un appello, che comunque sarebbe stato negato, e affrontano senza batter ciglio il plotone di esecuzione.
Esecuzione che avviene dopo un processo durato cento minuti e dieci minuti dopo la sentenza, nella città di Dracula: a Targoviste, che si stende sulla riva del fiume Lalomita, ed è l´antica capitale della Valacchia, dove nel Quattrocento governò il crudele Vlad Tepes (chiamato l´Impalatore perché impalava appunto i prigionieri). È alla sua storia che si è ispirato il mito di Dracula. Sulla cui terra immaginaria sono morti sul serio i coniugi Ceausescu.
Quattro giorni prima dell´esecuzione di Targoviste, nel pomeriggio del 21 dicembre, quando Petre Roman esce dal Politecnico e si imbatte nella fragile barricata nei pressi dell´Hotel Intercontinental, che lo coinvolge nella rivolta, Bucarest vive ore di grande tensione. Nella tarda mattina, alle 11,55 (le riprese televisive garantiscono tempi tanto esatti) Nicolae Ceausescu appare sul balcone che si allunga su quasi tutta la facciata, al primo piano, della sede del Comitato centrale. Accanto a lui ci sono la moglie Elena e alcuni eminenti membri della direzione del partito. I quali prendono a turno la parola davanti alla folla compatta, ordinata che riempie la piazza, e condannano unanimi i tumulti di Timisoara.
All´origine di quei tumulti, cominciati a metà dicembre nella città della Transilvania, c´è l´ordine di espulsione per un pastore luterano di origine ungherese, Laszlo Toekes, accusato di pronunciare sermoni irriverenti per il regime. E la popolazione è insorta in sua difesa. La repressione ha fatto e continua a fare decine di morti. E la cifra già alta delle vittime, moltiplicata ad arte, e diffusa dai media internazionali, suscita una forte emozione in Occidente e nei Paesi appena usciti dal comunismo. Al punto da indurre alcune capitali a sollecitare un intervento sovietico per fermare il massacro. Ma non sono più i tempi della "dottrina Breznev", della sovranità limitata mascherata da solidarietà internazionalista. Mosca rifiuta di intervenire, anche perché i suoi servizi segreti sono già in azione. Si dirà più tardi che numerosi agenti del Kgb erano entrati in Romania con l´approvazione, non del tutto passiva, della Cia. Nella nuova Europa che stava emergendo Ceausescu costituiva un´anomalia, un tumore, da estirpare.
Ma il Conducator, come è chiamato Ceausescu, resiste. Conta ancora sull´appoggio del popolo. Per questo ha convocato la manifestazione del 21 dicembre. Dopo i discorsi impacciati dei collaboratori, il dittatore si accosta a sua volta al microfono (sono le 12,30), pronuncia le prime parole e subito dalla folla partono grida che suonano ostili; o rivelano il panico, poiché nello stesso momento migliaia di uomini e donne cominciano ad agitarsi, e a riversarsi nelle strade vicine. Ceausescu tace, resta a bocca aperta, stupito. Dal 1965, quando è succeduto a Gheorghiu-Dej alla testa del partito, non gli è mai accaduto di essere interrotto in pubblico, in modo cosi plateale. Gira lo sguardo smarrito verso destra per seguire i movimenti della folla che cerca di disertare la piazza spinta dalla paura della rituale repressione. Sul balcone Elena Ceausescu dice ad alta voce: «Vine Secu!». Che vuol dire appunto: «La Securitate arriva». Ma l´annuncio non ha un seguito immediato.
L´immagine diffusa dalle televisioni di tutto il mondo annuncia chiaramente la fine del dittatore e del regime. Anche se Ceausescu riprende poi il discorso ed esorta alla lotta per l´indipendenza del Paese («minacciata da forze straniere»), e promette un aumento dei salari del 10 per cento, e degli assegni familiari e delle pensioni. Ma è troppo tardi per comperare il potere sfuggito di mano. A qualche centinaio di metri dalla piazza si alzano le prime barricate di Bucarest. Dietro una di queste c´è Petre Roman.
Ion Iliescu porta bene i quasi ottant´anni, e il peso della lunga agitata esistenza di militante e dirigente comunista, e poi di primo presidente della Repubblica rumena postcomunista (riconfermato nella carica per un secondo mandato). La mattina del 22 dicembre 1989 - mi racconta Iliescu - lui era nel suo ufficio di direttore delle Edizioni tecniche. Là era stato relegato, come ingegnere e professore del Politecnico, e come sorvegliato dalla Securitate in quanto elemento «accusato di intellettualismo», dopo essere stato via via privato di tutti gli alti incarichi ricoperti nel partito e nel governo. Verso mezzogiorno lo avvertono che degli elicotteri si sono posati sul tetto del palazzo del Comitato centrale. E allora si mette davanti a un televisore. Curiosamente la «rivoluzione» continua ad essere trasmessa in diretta.
Nella notte tra il 21 e il 22 dicembre, il Conducator si rende conto di essere ormai isolato. I suoi ordini non sono più eseguiti. L´esercito e la Securitate sono intervenuti per contenere le manifestazioni, hanno moltiplicato i morti, ma la loro azione si è rivelata troppo fiacca o scoordinata. Nella mattina del 22, il ministro della Difesa, Vasile Milea, viene trovato morto in un ufficio che non è il suo, e si dice che si sia suicidato. Ceausescu si sente tradito, ma compie un ultimo tentativo: convoca il Comitato politico esecutivo e proclama lo stato di guerra su tutto il territorio nazionale. La decisione non suscita reazione nei presenti. Le sue parole non contano più. E allora, armato di un altoparlante, il Conducator si affaccia al balcone del Comitato centrale e si rivolge alla folla assiepata sulla piazza. Ma la folla è ormai apertamente ostile e non vuole ascoltarlo. La sua voce è coperta da un altoparlante più potente che sotto il balcone ripete: «Non dategli retta. Non deve aprir bocca». Cosi nessuno conoscerà mai l´ultimo appello di Ceausescu. Alle 12,08, insieme alla moglie Elena, sale su un elicottero che si alza dal tetto del Comitato centrale e si dirige verso nord.
Ion Iliescu vede sullo schermo l´elicottero che si invola, portando con se la coppia presidenziale, e subito si dà da fare per formare il Consiglio del Fronte di salvezza nazionale (estraneo al vecchio Fronte clandestino che diffondeva scritti contro la dittatura). Il compito del nuovo organismo, in apparenza creato sui due piedi, è di assumere il potere abbandonato dal dittatore in fuga. Il primo appuntamento è davanti alle telecamere, che senza esitazione inquadrano Ilieuscu quale naturale capo del Fronte, di cui non si conoscono ancora i componenti. I candidati sono tanti, sono sempre più numerosi da quando l´elicottero dei Ceausescu è scomparso nel cielo di Bucarest, ma molti vengono respinti, perché troppo compromessi col regime. In quelle ore gli annunci rivoluzionari ricalcano il linguaggio di sempre: si condanna il dittatore in fuga, non ancora il comunismo. Anzi alcuni gli rimproverano di avere tradito il comunismo. Coloro che cavalcano al momento la rivolta sono tutti comunisti, o perlomeno sono iscritti al partito, in procinto di passare dalla tessera del pc alla tessera del Fronte.
Mentre la folla, esaltata dalla partenza di Ceausescu, invade il palazzo del Comitato centrale senza più incontrare una seria resistenza di poliziotti e militari, in città si continua a sparare. Iliescu ricorda: «Era già scuro, verso le sei e mezza di sera, e le pallottole fischiavano da tutte le parti, tanto che abbiamo dovuto interrompere una riunione del Consiglio appena formato». La confusione è tale che, non sapendo se reprimere o ribellarsi, nella notte i reparti della polizia e dell´esercito si scontrano e si uccidono tra di loro. Sui 1.033 morti di quei giorni, 270 sono militari. Il traffico di cadaveri è intenso. A Timisoara vengono riesumati quelli ricuciti dopo un´autopsia e spacciati per "freschi", al fine di gonfiare il numero delle vittime dell´esercito e della Securitate. A Bucarest Elena Ceausescu ordina, ed è stata una delle sue ultime decisioni, di incenerire quaranta corpi, per nascondere le vittime dell´esercito e della Securitate.
Al Consiglio di trenta e più membri, scelti «a caso o a memoria», appartiene anche Petre Roman. La sua presenza su una delle prime barricate non è passata inosservata. Il professore quarantenne ha saputo arringare operai e studenti. Oltre alla sua capacità di comando, ha colpito l´abilità di parlare alla gente. Il suo nome non era certo sconosciuto all´"aristocrazia" comunista di cui il padre, morto cinque anni prima, aveva fatto parte con alterna fortuna, e di cui lui stesso era inevitabilmente un esponente, pur non avendo mai partecipato direttamente al potere. Era iscritto al partito, ma gli iscritti erano più di quattro milioni, e un professore universitario doveva avere la tessera. La società politica di Bucarest era abbastanza ristretta. Quarant´anni di comunismo avevano intrecciato solidarietà e ostilità, dosate dalla buona o cattiva sorte, dalle svolte politiche e dalle scelte ideologiche, oltre che dagli umori del despota e di sua moglie. Le frequentazioni e le complicità erano come un labirinto.
Ion Iliescu e Petre Roman, pur non essendo legati da un rapporto particolare, sono diventati il presidente e il primo ministro della Romania subito dopo la morte di Ceausescu. Entrambi sostengono la tesi della rivoluzione, dell´insurrezione spontanea. Escludono quella del colpo di Stato. O della congiura internazionale. Non hanno del tutto torto. Come si chiama, se non rivoluzione, un cambio di regime, di sistema politico e sociale, sia pur graduale, a singhiozzo, accompagnato da una rivolta popolare, sia pur confusa? Quando gli ho ricordato l´ingresso in Romania, all´inizio del dicembre 1989, di numerosi agenti russi, Iliescu ha reagito dicendo che in una situazione come quella di vent´anni fa era inevitabile che affluisse nel Paese una vasta varietà di servizi segreti. Dal Kgb alla Cia.
E la sbrigativa esecuzione dei coniugi Ceausescu? Fu il Consiglio del Fronte di Salvezza a decidere il processo speditivo di Targovistele. Elena e Nicolae Ceausescu erano stati catturati e tenuti prigionieri in quella città. Era una decisione politica inevitabile, perché la morte del dittatore avrebbe messo fine allo spargimento di sangue nel Paese. È quel che sostengono Iliescu e Roman, in quelle ore uniti, ma poi diventati avversari politici.
D´accordo, è stata una rivoluzione. Ma l´immediata scelta di Ion Iliescu come capo del Fronte di Salvezza nazionale fa inevitabilmente pensare a una rivoluzione preparata, guidata. Come del resto la rapida ascesa del professor Petre Roman, che si distingue sulle barricate, e pochi giorni dopo è primo ministro. Ion Iliescu era conosciuto da Gorbaciov. Avevano frequentato insieme l´Istituto Molotov di Mosca. Era un dirigente comunista colto (ingegnere idraulico, professore universitario, poliglotta), al contrario di Ceausescu che, come la moglie, nonostante i titoli accademici che si era attribuito, leggendo i discorsi inciampava spesso in grossolani errori di grammatica e sintassi. Dei quali si vantava perché ricordavano le sue umili origini.
Iliescu era stato un apparatchik modello fino al 1971. Era allora, diciotto anni prima, ministro della Gioventù e segretario per l´ideologia del Comitato centrale. La sua disgrazia comincia con un viaggio in Estremo Oriente, a fianco di Ceausescu. Il quale si entusiasma, a Pechino, durante l´incontro con Mao che gli spiega la rivoluzione culturale. Anche lui, Ceausescu, farà la sua in Romania. Ma qualche giorno dopo, a Pyongyang, è affascinato da Kim Il Sung. Ammira il culto della personalità di cui si circonda il presidente nordcoreano. Guarda con invidia i palazzi in cui vive ed esercita il potere. E decide che Kim Il Sung è il leader comunista cui ispirarsi. Iliescu lo contraddice, cerca di dissuaderlo dal prendere come esempio il satrapo asiatico. È una follia. Ceausescu lo accusa di intellettualismo. E via via lo mette in disparte. Nel 1989 Ion Ilieuscu è l´uomo su cui possono contare coloro che (soprattutto a Mosca) vogliono togliere di mezzo l´incontrollabile Conducator.

Repubblica 22.10.09
Sonno. Con una pillola puoi farne a meno
La soluzione del team Usa interviene sull´area dell´ippocampo
di Elena Dusi

Ricercatori dell´Università della Pennsylvania sperimentano un farmaco che manipola gli enzimi del cervello Scopo: far riposare anche chi non riesce a dormire. Un´emergenza che riguarda il 55 per cento degli adulti

Per chi considera il sonno un nemico, si apre la strada per barattare una notte di riposo con una pillola. Una medicina capace di ridare smalto a una testa appesantita da troppe ore a occhi aperti è in sperimentazione all´università della Pennsylvania, a Filadelfia. Promette, manipolando gli enzimi del cervello, di mimare gli effetti del dormire, illuminando ancora di più notti già colonizzate da lavoro, studio o voglia di divertimento. E punta a risolvere quello che sembra essere diventato oggi uno dei problemi principali della società: restare svegli.
Finora della pillola contro la carenza di sonno hanno beneficiato alcuni topolini di laboratorio, sottoposti ai test preliminari nel corso degli ultimi mesi. Ma Ted Abel, il coordinatore dell´équipe di ricercatori americani, si rende perfettamente conto delle enormi potenzialità che il suo farmaco ha, andando a toccare, come spiega, "uno dei problemi più importanti della nostra società, cronicamente affetta da carenza di sonno". I risultati preliminari dei suoi studi sono pubblicati oggi su Nature.
La mancanza di riposo – riportavano a giugno i dati del congresso degli esperti di medicina del sonno americani – riguarda il 55 per cento degli adulti, che dorme non più di 7 ore contro le 8 consigliate. In Italia 41 milioni di persone usano il caffè per tenersi svegli, e in 4 milioni superano la dose massima consigliata di 5 tazzine al giorno, come segnalano i dati dell´Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione. Ecco allora che i neuroscienziati sono partiti alla caccia di una preda ghiotta: un´alternativa alla caffeina, un composto chimico in grado di mimare gli effetti del riposo, concentrando 8 ore di quello che è considerato "tempo improduttivo" nei pochi secondi necessari a inghiottire una pillola.
La soluzione che Abel propone va a toccare l´ippocampo, l´area del cervello che interviene nel processo di memorizzazione, e una di quelle più compromesse dalla mancanza di riposo. "Abbiamo identificato – spiegano i ricercatori – il meccanismo attraverso il quale la mancanza di sonno altera il funzionamento dell´ippocampo. La carenza di riposo causa nel cervello l´aumento dell´enzima Pde4 che a sua volta distrugge la molecola cAmp, il cui ruolo è quello di rendere efficiente il processo di memorizzazione". Già in passato si era scoperto che una buona nottata di sonno rende più facile lo studio e l´apprendimento, al contrario delle ore trascorse sotto a una lampadina prima degli esami.
Con una medicina capace di contrastare gli effetti di Pde4, riportando in alto i livelli di cAmp, Abel ha ripristinato in parte la memoria nell´ippocampo. Il principio attivo usato si chiama rolipram, è stato iniettato nei topolini costretti a dormire non più di 5 ore e poi sottoposti a test cognitivi. Si tratta di una sostanza già nota come antiinfiammatorio e non è il primo ritrovato che gli scienziati americani sperano di usare per combattere gli effetti dell´insonnia. A febbraio del 2008 alla Columbia University annunciarono dei risultati positivi con la stimolazione magnetica transcranica e a dicembre dell´anno prima fu la Wake Forest University a iniettare nelle scimmie private del riposo una sostanza detta orexina.
Ma il mondo del sonno, in realtà, è assai più complesso del gioco di una coppia di enzimi e la caccia a un valido sostituto del riposo notturno è ben lungi dall´essere vicina alla meta. Del dormire in fondo non si sono ancora comprese le ragioni. Dire che il sonno riposa è una risposta troppo generica e c´è chi ipotizza addirittura che stare fermi durante le ore buie avesse un tempo lo scopo di tenerci alla larga dai predatori. Oggi si è scoperto che dormire poco non ha effetti solo su memoria e apprendimento, ma favorisce obesità, depressione e alterazione dei cicli ormonali. Un gioco, quello del dormire, assai più complesso e ramificato dell´azione di una singola pillola.

Repubblica 22.10.09
Le piccole donne di Lombroso
Così la misoginia diventò una scienza
Esce la nuova edizione della monumentale opera dello studioso
di Natalia Aspesi

Viene fatta una divisione in tre categorie: delinquenti, prostitute e normali
"Ma anche quando sono spose esemplari hanno caratteri da creature selvagge"

Con il massimo tempismo, Cesare Lombroso torna tra noi: la nuova casa editrice, "et al.", ripubblica il suo celebre e funereo La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, scritto assieme al giovane Guglielmo Ferrero (assatanato disprezzatore delle donne, che poi divenne suo genero sposando la figlia Gina), testo fondamentale e monumentale (640 pagine, euro 32) della misoginia positivista, uscito per la prima volta e con gran successo internazionale nel 1893 dall´editore torinese Roux. Sarebbe esagerato dire, data la quantità di bizzarrie, e offese e deliri che accumula occupandosi delle donne, che pare scritto oggi, ma insomma… Oggi, il tempo delle volgarità verso le donne non asservite, delle escort invitate in politica, delle minorenni in carriera orizzontale, dell´esposizione mediatica dei corpi femminili, del favore erotico dei potenti verso le donne destinate al loro servizio, della sudditanza adorante di molte al maschio-padrone, del consolidarsi di un muro maschile che non sa più indignarsi e reagire al dileggio, alle provocazioni, al disprezzo verso le donne: come se la maschera civile e democratica stesse cadendo e finalmente si potesse tornare a quel convulso e arcigno ordine patriarcale che tra fine Ottocento e primi del Novecento riuscì, con gran sollievo maschile a sancire scientificamente e quindi inappellabilmente, (allora) l´inferiorità delle donne.
Questa nuova e integrale edizione italiana è arricchita dalla dottissima prefazione della storica Mary Gibson e della criminologa Nicole Hahn Rafter tradotta dal testo pubblicato dalla Duke University Press. Rallegra subito qualche simpatica contumelia verso le donne che, non essendo apertamente criminali e nemmeno prostitute (in questo caso doppiamente criminali, tenendo conto anche che l´adultera è una specie di prostituta), vengono definite "normali". Anche in questo caso però, la donna che si immagina sposa e madre esemplare «ha molti caratteri che l´avvicinano al selvaggio, al fanciullo, e quindi al criminale: irosità, vendetta, gelosia, vanità». La sua atavica perversità anche se inavvertibile, si accentua in certi periodi: «Durante le mestruazioni nulla è più frequente che la menzogna, unita con la cattiveria e l´astuzia, le sleali maldicenze, le delazioni calunniose, le trame perfide, l´invenzione di favole (citato da Icard)».
Quanto all´aspetto tendente alla degenerazione anche nella donna onesta, «sopra 560 donne in un pubblico passeggio, io ne rinvenni: 37 con nei e barba, 34 con mandibole voluminose, 9 con il tipo completo degenerativo». E così per un terzo dell´elefantiaco studio, più tutto il resto dedicato alle criminali e alle prostitute-nate o occasionali, con una mole immensa di citazioni, parametri, scoperte, riferimenti antropometrici, vaneggiamenti. Prima di tutto basta guardarle e misurarle, questa mascalzone, del resto come i maschi nella sua precedente opera L´uomo delinquente (1876): per esempio il pelo. «In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15%, mentre nel normale era il 6% e nelle criminali il 5%. Viceversa la peluria che va al 6% nelle prostitute russe e nel 2% nelle omicide, manca nelle oneste e nelle ladre».
Cesare Lombroso, medico, psichiatra, antropologo, criminologo, cosmopolita e colto, nato a Verona da famiglia ebrea nel 1835, era cresciuto nel fervore del Risorgimento, da giovane si era arruolato volontario nella seconda guerra d´Indipendenza, in opposizione alla chiesa cattolica era un fervente sostenitore dell´evoluzionismo darwiniano, si era battuto per alleviare la spaventosa miseria del proletariato meridionale, aveva aderito al socialismo. Mentre stava scrivendo La donna delinquente, quasi tutte le sera, a Torino, Lombroso e la famiglia cenavano con la rivoluzionaria e femminista russa Anna Kuliscioff. Era quindi un progressista sincero, purché il progresso non si applicasse alle donne, arrivando anche a sostenere la tesi che, se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini. La donna criminale ebbe un immediato successo anche all´estero. Proprio in quegli anni la violenza misogina si era fatta impressionante e praticamente tutte le forme della scienza, compresa la nuova sessuologia, parevano impegnate a stabilire l´inferiorità e la pericolosità delle donne, che avevano cominciato a reclamare diritti, istruzione, voto, parità giuridica, lavoro. I testi in questo senso sono montagne: e non sono pochi gli studiosi ad arrivare a conclusioni queste sì criminali, come Paul Adam che in un articolo pubblicato nel 1895 sulla Revue Blanche scrive che l´erotismo della donna è già evidente nel comportamento della bambina. Infatti le bambine tra gli 8 e i 13 anni «provano un perverso piacere mentre per pochi centesimi guardano uomini di mezza età che mostrano le loro nudità».
La paura da parte di Lombroso e dei tanti maschi col potere di far passare per scienza i loro incubi socio-sessuali, si stava spostando dalla prostituta nata, creatura aberrante e criminale, alle donne che smettevano di essere "normali" per sovvertire ogni ordine civile con le rivendicazioni femministe. Può sembrare strano che nei decenni successivi L´uomo delinquente dopo essere stato contestato e sbeffeggiato, scomparve quasi del tutto, mentre La donna delinquente continuò ad essere apprezzato e diffuso nelle università. Il fascismo se ne servì, con i suoi nuovi scienziati, per ribadire l´inferiorità della donna, il suo ruolo esclusivamente familiare e per escluderla dalla vita pubblica e dal lavoro fuori casa. Dagli anni ‘70 le studiose femministe della criminalità femminile, scelsero di ignorare Lombroso, se non per l´uso che ancora dominava nelle aule di giustizia, tra periti, avvocati e giudici. E oggi? Ci resta a conforto la fisiognomica: guardare in televisione certe facce, certi zigomi, certe calvizie, certi lobi dell´orecchio, certi deformazioni craniche, fa venire i brividi, ma può servire a metterci in guardia.

Corriere della Sera 22.10.09
Un convegno nel centenario dell’autore
L’eredità negata di Romano Bilenchi
di Paolo Di Stefano

Romano Bilenchi è uno dei grandi scrit­tori del ’900 purtrop­po quasi spariti dalla memoria dei lettori. Ben venga­no dunque le iniziative che, in occasione del centenario della nascita (il 9 novembre), ne ri­portino a galla il ricordo. Tra queste, un convegno sul per­corso editoriale, che si tiene og­gi all’Università Statale di Mila­no (ore 9.30, via Festa del Per­dono), organizzato da Alberto Cadioli. Cui si aggiungerà a bre­ve la riproposta, per la Bur e a cura di Benedetta Centovalli, delle sue opere, nate nel solco della lezione toscana di Tozzi. Con una prosa dalla geometria limpida e scarna, consegnata a veri e propri capolavori brevi come il romanzo Conservato­rio di Santa Teresa o i racconti

La siccità, La miseria e Il gelo.

All’incontro milanese (parle­ranno, tra gli altri, Corrado Stajano, Piero Gelli, Goffredo Fofi, Maria Antonietta Grigna­ni, Ermanno Paccagnini) si ag­giungerà, il 12 e 13 novembre, un nuovo convegno a Colle Val d’Elsa (luogo di nascita di Bilen­chi).

Bilenchi non è stato scritto­re di bestseller e lo dimostra­no, sin dagli anni Trenta i suoi accidentati percorsi editoriali che verranno illustrati da Anna Longoni. Fu un inizio non faci­le, testimoniato da un ricco epi­stolario: a proposito del suo primo libro, Il capofabbrica, che uscirà nel ’35 per le edizio­ni «Circoli», Bilenchi ricordò che dovette modificarne la fine «perché non apparisse così 'sovversivo' come molti aveva­no intuito». Persino Vallecchi e Bompiani lo rifiutarono. Ma pur militando sempre a sini­stra, e fino ai fatti d’Ungheria nel Pci, Bilenchi non fu mai un vero «sovversivo». Uno dei suoi massimi estimatori, Gian­franco Contini, ebbe qualche rimpianto perché l’attività gior­nalistica (prima al «Nuovo Cor­riere » e poi alla «Nazione») aveva finito per sacrificare il Bi­lenchi narratore.

È vero che la sua opera si rac­coglie in pochi volumi, ma il suo periodare «primitivista» e la ricerca artigianale della scrit­tura non avrebbero forse potu­to produrre molto di più. Ci so­no però le lettere. Nicoletta Trotta, indagando nell’epistola­rio consegnato al Fondo Mano­scritti di Pavia (i suoi autografi furono la prima acquisizione di Maria Corti), mette a fuoco i rapporti intensi che Bilenchi ebbe con gli amici scrittori, che vanno da Gadda a Bigon­giari, da Palazzeschi a Caproni, dalla Morante a Luzi in un arco cronologico di oltre un cin­quantennio fino alla morte, av­venuta il 18 novembre 1989.

Se qualcuno avesse bisogno di un suggerimento autorevole per accostarsi ai suoi racconti, ascolti l’entusiasmo con cui gli si rivolge Elsa Morante nel ’41, dopo averlo ringraziato per un delizioso panforte senese: «Au­guri di buon lavoro, caro Bilen­chi, e di scrivere presto qualco­sa di così bello come La sicci­tà .

Non potrei dirle qualcosa di più bello, perché davvero mi pare difficile. Voglio dire, Lei potrà raccontare molte altre co­se, ma in questo libro possiede il senso ideale di come le cose vanno raccontate. Se il mio en­tusiasmo per questo libro Le potesse venire significato in modo tangibile, Lei si trovereb­be addirittura in mezzo a un te­atro, fra migliaia di applausi».

Aki-Adnkronos 21.10.09
Libri: Haddad, da "Il ritorno di Lilith" una speranza per tutte le donne oppresse
"Spero sia punto d'incontro tra Medioriente e Occidente


Roma, 21 ott. -(Aki) - "Spero che questo libro rappresenti una speranza per la donne arabe oppresse, ma anche per quelle italiane, e che sia un punto d'incontro tra Medioriente e Occidente". E' quanto ha affermato ad AKI - ADNKRONOS INTERNATIONAL la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per presentare il suo nuovo volume 'Il ritorno di Lilith' (ed. L'asino d'oro), disponibile da domani in libreria.
La poetessa spiega i motivi che l'hanno spinta a scrivere un'opera in cui viene riportato alla memoria dei lettori il mito antichissimo di Lilith, la prima donna creata, che non volle sottomettersi ad Adamo, ma che anzi lo abbandonò nel paradiso con un atto di disobbedienza. "Ci sono tanti cliché sulla donna araba in Occidente - afferma la Haddad - la maggior parte ritiene che tutte le donne arabe sono oppresse e velate. E' una tendenza a generalizzare, mentre in verità ci sono molte più sfumature e c'è anche un altro modello di donna nella società araba, emancipata e libera, che si batte per i suoi diritti".
'Il ritorno di Lilith', la prima opera integrale della Haddad in italiano, è un libro scritto "con le unghie", secondo la poetessa libanese per la quale "scrivere è innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo, ma solamente nei confronti di me stessa". "E' qualcosa - afferma - come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare i segreti, i misteri, le parole nascoste che ci sono in me".
La Haddad in Libano è caporedattrice di 'Jasad', una rivista in lingua araba specializzata nella letteratura e nelle arti del corpo, all'interno della quale vengono trattati argomenti come la sessualità e i diritti delle donne, temi di cui è difficile parlare nella società araba. "Jasad è una rivista per uomini e donne - afferma la Haddad - che affronta il tema del corpo, anche se non è facile trattare questo argomento nella mia lingua e nel mio mondo. Eppure, se torniamo ad alcuni scritti in lingua araba di mille anni fa ci sono testi che parlano del corpo e dell'erotismo con una semplicità che scioccherebbe anche lo scrittore occidentale più aperto".
La poetessa libanese non teme ritorsioni da parte dei gruppi religiosi più estremisti. "Quando ho scritto 'Il ritorno di Lilith' non ho pensato che gli estremisti fossero un ostacolo alla sua realizzazione - sostiene - Ero appassionata dall'idea di scrivere quest'opera e l'ho fatto, anche se molti credono che mi sia gettata nel fuoco".
L'ultimo pensiero della Haddad è per Rania, la regina di Giordania, in visita ufficiale a Roma. "Ho tanto rispetto e ammirazione per la regina Rania - dichiara la scrittrice - perché non accetta il modello stereotipato della donna araba oppressa che non ha potere e che vive lasciandosi andare al volere dell'uomo".
(Spi/AKI)

mercoledì 21 ottobre 2009

Corriere della Sera 21.10.09
Riletture «L’Osservatore» e la «Civiltà Cattolica»: un pensatore in via d’estinzione, non lasciamolo alla sinistra
«Salviamo Marx». La riflessione del Vaticano
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — A colpire l’atten­zione basterebbe l’immagine ironica del vol­to barbuto di Karl Marx disegnato sul corpo d’un panda, tale e quale a quello del Wwf. Un pensatore a rischio di estinzione e tutta­via da salvare? Almeno in parte, sì: parola dell’ Osservatore Romano e della Civiltà Cat­tolica, l’autorevole rivista dei gesuiti (le cui bozze, prima della pubblicazione, vengono approvate dalla Segreteria di Stato vaticana) che nel numero appena uscito dedica al filo­sofo di Treviri un articolo ripreso oggi, con tanto di vignetta, dal quotidiano della Santa Sede. Titolo: «Quel che resta di Marx».

Perché qualcosa, va da sé, resta anche a vent’anni dalla caduta del Muro, ed è bene che resti: «I poteri dittatoriali socialisti han­no sfigurato le concezioni del Marx storico fino a renderle in parte irriconoscibili», no­ta il padre gesuita tedesco Georg Sans, auto­re dell’articolo nonché docente di Storia del­la filosofia contemporanea all’università Gregoriana. «Sarebbe un grossolano errore ritenere che lo spirito che sta dietro l’avven­to del comunismo coinvolga in ogni caso Karl Marx». Padre Sans, con piglio filosofi­co, distingue il pensiero di Marx da quello di Engels, dall’immagine che lo stesso En­gels ha dato delle idee dell’amico (formule come «materialismo storico» e «concezio­ne materialista della storia», nota l’autore, sono engelsiane) e infine dal marxismo-leni­nismo che diventa una «concezione univer­sale della realtà», la «dogmatizzazione» di partito seguita alla rivoluzione d’Ottobre.

È insomma «indispensabile distinguere il Marx del partito comunista e del suo ami­co Engels» dal vero volto del filosofo di Tre­viri: «il Marx giovane» dei Manoscritti pari­gini del 1844 e l’autore del Capitale , e «dare la preminenza all’osservatore critico rispet­to al dogmatico rigido». Certo, «nessuno più troverà convincente la concezione mate­rialistica della storia» ed è «troppo riduttiva la visione materialista dell’uomo». Però lo stesso non si può dire delle riflessioni sul «lavoro alienante», né è risolto «il proble­ma dell’origine del plusvalore». Con tutte le correzioni del caso, ad esempio, «proprio se si tiene conto della problematica della globalizzazione, almeno su due punti non gli si possono muovere obiezioni», scrive padre Sans: «L’idea che non corrisponde al­la natura dell’uomo intendere il lavoro retri­buito come semplice mezzo per assicurarsi l’esistenza fisica» e «il riconoscere che la for­ma del lavoro, come la spartizione tra pover­tà e ricchezza, non sono dati naturali, ma l’espressione di strutture create dall’uomo, delle quali egli stesso deve essere reso re­sponsabile » . No, in certe cose «Marx non può ritenersi superato». Per dire: «Non sembra finora contraddetta la tesi marxiana che alla fine è sempre il lavoro reale degli uni quello che crea la ricchezza eccessiva degli altri». Vale la pena riflettere, conclude lo studioso: «Non conviene, oggi come in passato, lascia­re semplicemente alla sinistra la critica del­l’economia politica di Marx».


l’Unità 21.10.09
Il rapporto di Reporters sans frontieres: lo scorso anno era al 44 ̊ posto. È dietro agli africani
p Sotto accusa le minacce ai giornalisti, il controllo di Berlusconi sui media, il ddl intercettazioni
Libertà di stampa L’Italia arretra al 49ºposto nella classifica mondiale della libertà di stampa di Reporters sans Frontières. Questo per interferenze, pressioni e intimidazioni da parte di Berlusconi. Salgono gli Usa di Obama.
di Natalia Lombardo

Italia declassata al 49 ̊ posto per la libertà di stampa, nella classifica mondiale stilata per il 2009 da Reporters sans Frontières. L’anno scorsoeraal44 ̊,maintreanniilnostro paese è sceso di ben quattordici posizioni: era al 35 ̊ nel 2007. Ora si colloca appena prima della Romania e dopo Hong Kong; retrocedono anche la Francia e la Spagna (posti 43 e 44), mentre l’America di Obama guadagna venti punti salendo al 20 ̊ posto della classifica, che esamina le violazioni sulla libertà di stampa effettuate tra il primo settembre 2008 e il 31 agosto 2009.
Per l’Italia si parla di «degrado», dovuto «alle vessazioni di Berlusconi nei confronti dei media; le ingerenze crescenti, le violenze della mafia contro i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata», e anche per il disegno di legge sulle intercettazioni approvato alla Camera e che passerà al Senato, ddl che «ridurrebbe drasticamente la possibilità dei media di pubblicare intercettazioni telefoniche».
Tutto questo ha fatto perdere punti all’Italia in questi anni. Il segretario generale di Rsf, organizzazione internazionale indipendente, Jean-François Julliard, commenta che «è sconcertante vedere alcune democrazie europee, come la Francia, l’Italia e la Slovacchia perdere, anno dopo anno, dei posti nella nostra classifica».
EUROPA REPRESSIVA
Insomma, la vecchia Europa, «che dovrebbe essere di esempio per le libertà civili», limita la libertà, spiega Rsf, in contraddizione con le condanne verso le violazioni dei diritti umani all’estero. Lo stesso centrodestra italiano, infatti, come ricorda Beppe Giulietti di Articolo21, «osanna a Reporters sans Frontières solo quando condanna la Cina, Cuba o il venezuelano Chavez, osannato a Venezia». Ma già nella conferenza stampa di Rsf l primo ottobre, Silvio Berlusconi stava per essere inserito nella lista dei «predatori della libertà di stampa». Questo per il controllo delle televisioni di sua proprietà e le interferenze sulla tv pubblica, per gli attacchi diretti ai media, le citazioni in giudizio a l’Unità e a Repubblica con richieste milionarie di risarcimento danni, le minacce di querela a El Pais per la pubblicazione delle foto o ai media del gruppo Murdoch. E ancora, spiegava Rsf, le pressioni esercitate sulle sue tv Mediaset per imporre una visione «edulcorata e positiva del suo operato, e quelle sulla Rai per ritardare programmi o intralciarne la messa in onda (compreso il divieto imposto alla Rai di trasmettere il trailer di Videocracy). Poi le minacce dirette a giornalisti, e persino per il tentativo di condizionare la posizione della Commissione Europea sull’immigrazione. E oggi a Strasburgo l’Europarlamento vota sulla libertà d’informazione in Italia.
LA TRAGEDIA RUSSA
In testa alla classifica di Reporters sans Frontières ci sono Danimarca, Finlandia e Irlanda: le prime tredici caselle restano occupate da paesi europei, ma la Slovacchia precipita di 37 posti, ( pur sempre prima dell’Italia al 44 ̊). Scende anche la Francia, per le inchieste giudiziarie su alcuni giornalisti, le perquisizioni nelle redazioni e le «ingerenze di politici» compreso Sarkozy. Spiccano le giovani repubbliche del Baltico: al 6 ̊ posto l’Estonia, poi Lituania e Lettonia (10 e 13), L’Europa si è fatta superare dalle «giovani democrazie africane», Mali, Sudafrica e Ghana, e latino americane: Uruguay, Trinidad e Tobago (tra il 25 ̊ e il 35 ̊ posto). Perde ben 47 caselle Israele, che dopo l’offensiva «Piombo Fuso» va a quota 93. La Russia è sotto la voce «tragedia»: scende al 153 ̊ posto, ne perde 12 a causa delle uccisioni di giornalisti, tre anni dopo l’assassinio di Anna Politkovskaya, con l’aumento di censura e impunità per mandanti e killer.
L’Iran a 172 è quartultimo nel «trio infernale» dei paesi con violenze, arresti illegali e censure contro giornalisti e blogger (Turkmenistan al 173, Corea del Nord 174 e, ultima, l’Eritrea al 175 ̊ posto.❖

Repubblica 21.10.09
L’amicizia col leader russo tra affinità nell´uso del potere, populismo e culto della personalità
Il Cavaliere va dal gemello Putin e salta l´incontro col Re di Giordania
Il premier: "Qui in Russia mi sento come a casa mia" E Vladimir ricambia a Villa Certosa
Colbacchi, matrioske e testosterone: il sogno comune è la “demokratura”
di Filippo Ceccarelli

«Tra le nuove matrioske spuntate nei mercatini dell´Est europeo annunciava con una specie di sollievo la didascalia di Libero nel novembre del 2008 ecco anche quella di Silvio Berlusconi». La foto, scattata su una bancarella di Chisimau, in Moldavia, mostrava l´oggetto accanto a una matrioska gemella con l´immagine di Medvedev. E questo rientra certamente nel folclore.
Sennonché, alla vigilia della visita del Cavaliere all´amico Putin, una specie di fuga d´amore che l´ha spinto a dare buca perfino al re di Giordania, niente più incontro con un leader chiave del Medio Oriente, niente attenzione alle iniziative della regina Ranja, via di corsa a Mosca, ecco, mentre il Cavaliere, carico di preziosi vini s´appresta ad abbracciare «il nostro grande Wladimir» varrà la pena di far presente che lo staff berlusconiano si era a tal punto appassionato all´idea della matrioska da produrne una celebrativa in seimila esemplari, con dentro i sei o sette leader del centrosinistra sconfitti. In vendita al congresso fondativo del Pdl.
Purtroppo non si potè mai vedere perché alla Fiera di Roma, segregati com´erano in un recinto e dentro una sala stampa che poi fungeva da ricco refettorio, i giornalisti erano impediti a muoversi. E anche in questo assai restrittivo rapporto con i media, nel volerli sempre tenere lontani e quindi a bada, il berlusconismo finisce per assomigliare un bel po´ ai regimi post-comunisti.
«Qui in Russia mi sento a casa mia» ha detto il presidente italiano a Mosca nel maggio scorso. Anche Putin si è sempre sentito a suo agio a casa Berlusconi, con Apicella e il Bagaglino a villa Certosa, a torso nudo sotto il sole della vacanza, manovre militari sul mare della Sardegna, sfarzo e magnificenza da esibire, commerci e negozi vari. La leggenda palatina ha certificato l´intensità dell´amicizia nel dono del celebre lettone a baldacchino detto «di Putin» che poi secondo la recente testimonianza dell´«Ape regina» sarebbe in realtà un immane giaciglio che il Cavaliere si è fatto fabbricare sulla base di un quadro recapitato in regalo, questo sì, dal presidente russo al fastoso anfitrione di Palazzo Grazioli. Quando fiorirono le storie dei festini e delle escort, la Komsomolskaya Pravda fu uno dei pochissimi giornali a difendere a spada tratta Berlusconi: «Perché prendersela con un uomo vero che usa il testosterone alla grande? Si dovrebbe essere fieri di un primo ministro che ha 72 anni, ma è in forma brillante ed è sempre circondato da donne avvenenti che non solo brillano di bellezza, ma fanno pure carriera».
Sulla reciproca cordialità tra il Cavaliere e Putin fantastiche immagini oscurano qualsiasi dubbio: eccoli imbacuccati per allegre merende sotto zero, machisti e spensierati a un incontro di lotta libera, addirittura con un cavallino nano tra i piedi. Ma non è solo la diplomazia dell´abbraccio, né il comune gusto di stupire l´interlocutore e nemmeno l´affarone del gasdotto, che pure deve stargli parecchio a cuore.
Nuda e cruda, l´iconografia rivela qualcosa di più sottile e decisivo che trascende l´origine dei due potenti, la televisione commerciale e l´intelligence dell´ex Urss. Un´affinità estetica. Una corrispondenza di intenti e di idiosincrasie. Una consonanza nel modo di concepire, rappresentare e utilizzare il potere, miscuglio sovrano di impicci privati e necessità statali, populismo evoluto e culto della personalità a reti unificate.
Accomuna Berlusconi e Putin un´energia antica e tecnologica, quella loro concezione assai limitativa della democrazia che tende a risolversi in una «demokratura», preoccupante crasi di democrazia e nomenklatura, foglia di fico di una libertà plebiscitaria, apparente e sorvegliatissima. Il Cavaliere si definisce «l´avvocato» di Putin, che in risposta lo proclama «mediatore ideale». Me entrambi avvertono un certo disagio, se non fastidio per le istituzioni, i bilanciamenti, i contropoteri, gli imprevisti, le lentezze, gli scocciatori (fra questi ultimi, certamente, eccellono i giornalisti).
«Berlusconistan», come una delle tante repubbliche nata dall´esplosione dell´impero sovietico, ha definito l´Italia il settimanale Time. Sempre più appare risucchiato dall´oriente, antico e moderno, vicino e lontanto, il presidente del Consiglio: sultano, satrapo, despota asiatico, gemello e modello di leader post-comunista e tu guarda che sorprese offre lo scorrere della storia.

Corriere della Sera 21.10.09
Università Cattolica, la corte di Strasburgo condanna l’Italia per l’esclusione di Lombardi Vallauri
La rivincita del professore «eretico»
di Marco Ventura

Il caso Accolto il ricorso del docente Luigi Lombardi Vallauri
L’Europa: violati i diritti del filosofo «eretico» escluso dalla Cattolica
La Corte di Strasburgo condanna l’Italia

L’Europa, attraverso una sentenza della Corte di Strasburgo, condanna l’Italia: violati i diritti del filosofo Luigi Lombardi Vallauri, escluso dall’univer­sità Cattolica di Milano per le sue posi­zioni «nettamente contrarie al cattolice­simo ». Lombardi Vallauri non doveva più insegnare nell’ateneo «per rispetto della verità, del bene degli studenti e di quello dell’università». La Cattolica: condannato lo Stato italiano, non la no­stra università, ora valuteremo.

Luigi Lombardi Vallauri si sedet­te per terra. Lo stupore corse tra studenti e colleghi presenti in aula, a Bari, per la sua confe­renza. «Del Dio che emoziona non mi sento di parlare seduto su una sedia — spiegò lui — quindi mentre parlerò di questo Dio starò seduto per terra». Era il 19 aprile 1996. Filosofo del diritto al­l’Università di Firenze, l’allora sessan­tenne Lombardi Vallauri insegnava an­che, dal 1976, presso l’Università del Sa­cro Cuore di Milano. Il rinnovo annuale del contratto con la Cattolica era divenu­to mano a mano più spinoso. L’incon­tro di Lombardi Vallauri con le religioni orientali aveva inasprito la sua critica del cattolicesimo. Seduto per terra in quella mattinata barese, Lombardi Val­lauri celebrò «il Gange dell’umanità in cui si gettava come affluente il Tevere del cattolicesimo romano». Poi, finita la meditazione sul «Dio che emozio­na », passò «al Dio professionale filosofi­co, di cui si può benissimo parlare sedu­ti a un tavolo congressuale». E da lì, dal tavolo congressuale, smontò l’ortodos­sia, la tradizione. La teologia naturale tomista, soprattutto: «Ircocervo consi­stito nell’attribuire all’etnico, geloso, fu­riosotenero, bellicamente e giuridica­mente feroce, idiosincraticissimo Yahvè e al dolcissimo-spietato 'Padre' impassibili attributi ontologici desunti da una ingegnosamente violentata onto­logia generale aristotelica».

Questo Lombardi Vallauri, inconteni­bile nello stile e nella sostanza, fu con­vocato in Vaticano due anni dopo, il 23 ottobre 1998, per un colloquio presso la Congregazione per l’Educazione cattoli­ca. Quando i colleghi della Cattolica si riunirono, dieci giorni dopo, il preside comunicò la decisione vaticana: per le sue posizioni «nettamente contrarie al­la dottrina cattolica», Lombardi Vallau­ri non doveva più insegnare nell’Univer­sità Cattolica «per rispetto della verità, del bene degli studenti e di quello del­l’Università ». Dopo vent’anni di rinno­vi, l’incarico cessava. Lombardi Vallauri ricorse al Tar della Lombardia, poi al Consiglio di Stato. Facile la risposta dei giudici amministrativi: non sindachia­mo quello che decide la Chiesa; così vuole il Concordato, così vuole la Corte costituzionale, già pronunciatasi nel 1972 sull’analogo caso Cordero. Rimane­va solo la Corte di Strasburgo. E ieri mat­tina la Corte europea dei diritti dell’uo­mo ha deciso.

Il ricorso di Lombardi Vallauri è sta­to accolto. L’Italia è stata condannata per aver violato la libertà d’espressione del professore e il suo diritto a un giu­sto processo. La vera condannata è l’Università Cattolica, invano costituita­si di fronte alla Corte europea; soprat­tutto quel pezzo di Cattolica che in un fatale consiglio di facoltà, ricostruito dai giudici europei, respinse a risicata maggioranza la mozione in cui si do­mandavano chiarimenti alla Santa Se­de. Per la Corte di Strasburgo, quella de­gli organi accademici milanesi contro Lombardi Vallauri fu una decisione «priva di motivazione e presa in assen­za di un reale contraddittorio». Dall’esa­me della Corte europea esce male an­che la giustizia amministrativa italiana: censurata da Strasburgo per aver abdi­cato al suo dovere di vaglio dell’atto in­criminato, per essersi nascosta dietro un comodo rinvio alla decisione della Santa Sede.

Due traiettorie s’intrecciano. Quella personale di Lombardi Vallauri. E quel­la collettiva dei diritti e delle religioni in Europa. Lombardi Vallauri è un pen­satore di genio. Originale; controcor­rente. Non un buffone, non un eretico a tutti costi. Ha maturato con fatica le sue posizioni. Ben dentro un cattolicesi­mo cui lo legano, tra l’altro, parentele illustri. La collisione con le autorità cat­toliche è seria. A causa del rigore anali­tico nella denuncia di quel naturalismo teologico in cui è caduto, secondo il fi­losofo, il pensiero cattolico. E per il mo­do: per quel lavorio intellettuale che si fa immaginazione, contemplazione; per l’alleanza tra ragione e stupore con­tro un discorso su Dio squadrato, razio­nale, politico. Senza contraddittorio. Analoga traiettoria oppone in Europa il vecchio ordine dei concordati, della lai­cità francese, delle nordiche Chiese di Stato — i vecchi modelli Stato/Chiesa, insomma — al nuovo paesaggio. Caoti­co e pieno di opportunità. Non basta più dire la parola magica «concorda­to »; né arretrare di fronte alla sovranità della Santa Sede, all’intoccabilità del di­ritto canonico. Lo ha compreso Bene­detto XVI, molto attento all’incontro di lunedì scorso col neo ambasciatore del­la Commissione europea. Non lo ha an­cora compreso l’Italia, già condannata dalla Corte nel 2001 in un caso simile a quello di Lombardi Vallauri. L’arena eu­ropea impone nuove regole alla vec­chia partita tra ideologie e fedi, Chiese e Stati. Alla Corte europea ci son giudi­ci, come il dissenziente portoghese Bar­reto, per i quali il Concordato è sacro quanto è sacra la religione. Ma anche giudici per i quali è scontato che i dirit­ti valgano più dei Concordati. Giudici che temono di dovere domani al diritto islamico quello che si dà oggi al diritto canonico. Come la belga Tulkens, cen­sore della laicità turca in difesa del dirit­to al velo. O come l’ungherese Sajó, per il quale separare trascendente e pubbli­ci poteri è tanto necessario quanto è ve­ro, come ha scritto di recente, che «i ci­miteri esistono per ragioni di sanità pubblica, non per facilitare la resurre­zione ». L’Europa spariglia il gioco. La ragion di Stato non è più sola. Il diritto canonico, il diritto ebraico, il diritto islamico vanno ormai difesi a Strasbur­go, a Bruxelles.

Luigi Lombardi Vallauri celebra. «Brindo in famiglia, al diritto», dice. Al­le regole del giusto processo, che sono poi «le stesse d’ogni vero dibattito intel­lettuale ». È questo il valore dei diecimi­la euro che lo Stato italiano è stato con­dannato a versargli. Il Dio del filosofo seduto per terra sfida il Dio cattolico. La giustizia europea dei diritti sfida l’or­dine concordatario italiano.

Corriere della Sera 21.10.09
Lo Stato dovrà pagare 10mila euro per aver impedito la celebrazione di un giusto processo dopo il ricorso
L’ateneo: «Nessun commento, valuteremo»

Al momento negli ambienti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore si preferisce non commentare l’accoglimento del ricorso presentato da Luigi Lombardi Vallauri alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Da una parte si fa presente la necessità di valutare e analizzare in tutta la sua portata la sentenza emessa a Strasburgo. Dall’altra viene sottolineato che la condanna è stata emessa a carico dello Stato italiano e non dell’Università Cattolica, in quanto i giudici hanno ritenuto che le precedenti sentenze del Tar della Lombardia e del Consiglio di Stato, cui Lombardi Vallauri aveva presentato ricorso contro la decisione di allontanarlo dall’ateneo, abbiano violato i diritti al giusto processo e alla libertà di espressione del docente di Filosofia del diritto. Si tratta ora di vedere se nei prossimi giorni la Cattolica prenderà posizione, visto che all’origine del contenzioso c’è comunque una sua decisione.

Corriere della Sera 21.10.09
Emanuele Severino: «L’università può sospendere chi vuole»
di Armando Torno

Cosa ne pensa Emanuele Severino del caso Lombardi Vallauri? E di quello che vide protagonista Franco Cordero, escluso dall’in­segnamento in Cattolica poco dopo di lui? Risponde il filosofo: «Mi sembra, e per quanto ricordo, che Lombardi Vallauri e Cordero siano stati e rimangano sostanzialmente cristia­ni, e quindi si è trattato di una lite in famiglia. Il mio caso risale alla fine degli Anni 60 e, se i due colleghi non hanno gradito la decisione dell’Università fondata da padre Gemelli, è perché alla Cattolica volevano rimanere».

Cosa capitò, invece, a Severino? Ecco le sue parole: «A differenza di loro, nei miei ri­guardi c’è stato un processo formalmente ana­logo, dal punto di vista giuridico e con le debi­te proporzioni, a quello di Galileo». Insomma, era questione diversa. Per­ché? «Il mio discorso filo­sofico — nota Severino— fa rientrare il cristianesi­mo nella storia del nichili­smo. Non si tratta di una lite in famiglia». Puntua­lizza: «Aggiungo che per le leggi italiane l’Universi­tà Cattolica può sospende­re dall’insegnamento, ma non togliere lo stipendio al docente colpito qualora egli sia un professore che abbia vinto un concorso statale (come il sottoscrit­to, Cordero, Vallauri e tut­ti gli ordinari). Da parte mia, d’accordo con le autorità accademiche ed ecclesiastiche, ho preferito andarmene a Venezia soprattutto perché avevo attorno un gruppo di giovani studiosi, oggi tutti in catte­dra, presidi eccetera, che invece sarebbero ri­masti senza alcun sostentamento qualora io avessi scelto di percepire lo stipendio rinun­ciando a insegnare».

Per quel che riguarda il giudizio europeo sul caso Lombardi Vallauri, Severino osserva: «Ritengo, con tutta la stima per i colleghi, che se un’università libera decide che sia seguito un determinato indirizzo culturale, chi vi inse­gna non debba poi avere la pretesa di sceglier­ne uno diverso». E conclude: «Fortunatamen­te in un’università come quella del San Raffae­le dove insegno, chi la guida, cioè il sacerdote don Luigi Maria Verzé, auspica ma non esige dai docenti un determinato indirizzo cultura­le».