Il congresso nazionale l’intervento di monsignor Crociata sottolinea il «diritto-dovere»
L’invito della Cei per analogia con quanto è già previsto per il servizio di leva e per i medici
Pillola abortiva, i vescovi chiedono obiezione di coscienza per i farmacisti
Obiezione di coscienza per i farmacisti chiamati a vendere la pillola del giorno dopo o la Ru 468. La chiede la Cei con il segretario monsignor Crociata. Secca reazione degli organismi di categoria. Critiche dalla sinistra.
di Roberto Monteforte
Diritto alla libertà di obiezione di coscienza anche per i farmacisti chiamati a vendere prodotti che possono interrompere la vita, causare aborti come le pillola del giornodopoolaRu486.Anomedei vescovi italiani lo chiede il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata che ieri, intervenendo al congresso nazionale dei farmacisti cattolici dedicato proprio al riconoscimento per questa categoria del «diritto-dovere» all’obiezione di coscienza. Dalla Conferenza episcopale è giunto qualcosa di più di un semplice incoraggiamento a questa battaglia. Un convinto invito ad andare sino in fondo nella loro richiesta di avere una legge che lo consenta e un messaggio chiaro rivolto al mondo politico: consentitelo.
LA CHIESA INVOCA L’«ANALOGIA»
Parte dal fatto che l’aborto è considerato «un delitto» e che l’obiezione di coscienza è consentita in due soli casi, «legati al principio di non uccidere»: per chi è chiamato al servizio di leva obbligatorio e, con la legge 194 che ha introdotto l'interruzione di gravidanza, per il medico e per il personale sanitario coinvolto, ma non per il farmacista. Ora con la «pillola del giorno dopo», accanto all'aborto chirurgico è stato introdotto anche un prodotto farmacologico (nell'eventualità che l'embrione si sia formato, ndr) che lo consente e quindi «per analogia deve spettare anche ai farmacisti lo stesso diritto all'obiezione». «L'obiezione di coscienza è un diritto che deve essere riconosciuto anche ai farmacisti, permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali come l'aborto e l'eutanasia», ha scandito monsignor Crociata. «In Italia ha spiegato il problema è avvertito soprattutto riguardo alla vendita della cosiddetta pillola del giorno dopo». Ma deve riguardare anche i farmacisti ospedalieri che potrebbero somministrare la Ru 486. Argomenta il segretario della Cei. Cita prese di posizione del Comitato nazionale di bioetica, ma non convince l'Ordine dei Farmacisti e di Federfarma. «Massimo rispetto per le preoccupazioni morali della Cei», gli risponde il presidente dell' Ordine Andrea Mandelli ma «credo che questo sia un tema delicato e che debba essere regolamentato da una legge che chiarisca nei dettagli gli ambiti di applicazione all' interno dei quali deve operare un responsabile donne del partito. Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista-sinistra europea denuncia «l'intollerabile ingerenza della Chiesa». Opposte le reazioni dell’Udc che con il presidente, Rocco Buttiglione ha pienamente accolto la richiesta di un diritto all'obiezione di coscienza dei farmacisti, mentre l'on. Luca Volontè, ha accusato il Pd di «intolleranza verso i diritti più intimi e sacri di libertà».❖
LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
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l’Unità 24.10.09
Il nazi-pallone
Croci uncinate e teste rasate, boom in curva
Dilagano negli stadi i «tifosi» dell’estrema destra a macchia di leopardo dalla capitale al nord-est Il caso degli Ultras Italia al seguito della Nazionale
di Simone Di Stefano
Trucchi. Le scritte fasciste a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli
Simboli. Gli skinhead ascoltano musica Oi, un derivato dal punk rock
Tendenza. Cani sciolti che cantano canzoni del Ventennio e sniffano cocaina
Controllo I capi ultras sono padroni della curva tra soprusi e intimidazioni
Ultras e Skinheads, «nazismo da stadio» lo chiamano alcuni. Un mix che nelle curve italiane è più che mai attuale. Partiamo dalla curva nord dell'Olimpico di Roma, in occasione di Lazio-Parma del 23 settembre scorso, per denunciare un fenomeno che tuttavia riguarda tutta la penisola e affonda le sue radici in passati ormai remoti. Saluti romani, teste rasate, sciarpe con croci celtiche, in molti si confondono e li si riconosce solo quando sfoderano cori e insulti razzisti. Bevono, fumano spinelli, stanno «fatti» di cocaina, la spacciano a volte, si definiscono «cani sciolti» e i loro cori ricalcano le stesse note delle canzoni del Ventennio, in una parola: odiano. Per lo più sono ragazzi giovani, che si avvicinano all'estrema destra fin dai primi anni di scuola superiore, più perché fa tendenza, perché digrignando i molari ci si fa rispettare. All'Olimpico di Roma gli Irriducibili Lazio comandano le sorti della curva nord e ne gestiscono l'economia. Fin dai rapporti con la società, che soltanto nella recente gestione Lotito ha deciso di utilizzare il pugno duro. Così il patron viene fischiato e insultato, ma non soltanto perché la squadra va male. La nuova sfida ora, per tutti, è la tessera del tifoso. Dall'altra sponda del Tevere è con i Boys e Opposta Fazione, entrambi gruppi romanisti ora confluiti negli Ultras Romani, che affonda le radici il tifo fascista. Cambia il nome del gruppo ma le facce sono quelle, salvo qualche perdita per diffide o arresti. Il loro motto è «Libertà per i detenuti». In passato diversi esponenti di Opposta Fazione, alcuni provenienti dal Fuan, furono indagati per appartenenza ai Nar.
Passata è la tendenza a minacciare giornalisti o imporre presenze nelle trasmissioni radiotelevisive locali, ma riguardo a soprusi e a sentirsi padroni della curva, quella resta. Come in Roma-Fiorentina dello scorso 20 settembre, quando per mettere in atto un esemplare sciopero del tifo i capi ultras hanno imposto all'intero settore della curva sud di restare fuori dello stadio per la prima mezz'ora. Chi non voleva non poteva, quelli che hanno chiesto di entrare in tribuna sono stati insultati e presi a spinte. Sciopero che hanno messo in atto anche gli Irr Lazio durante il primo tempo di Lazio-Parma. Per tutta la prima frazione di gara nessuno poteva cantare, altrimenti veniva insultato o minacciato.
Si sentivano soltanto gli “buu” contro il keniota del Parma, Mariga. Le scritte fasciste sulle bandiere, per lo più sigle, sono a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli, mentre le svastiche e le croci celtiche vengono camuffate in perversi intrecci di uncini. Nella curva nord laziale per esempio non è raro individuare bandiere con aquile del Terzo Reich piuttosto che il classico aquilotto biancoceleste. Tante anche le giovani ragazze lungo i muretti delle curve. In passato non sono mancati neanche casi di sfruttamento e prostituzione minorile. In Italia, secondo alcune stime, sarebbero oltre sessanta le sigle ultras legate ad ambienti della destra estrema.
E le aree maggiormente interessate sono Lombardia, Lazio e Veneto. Spesso dietro le facce dei capi ultrà si celano personaggi di spicco degli ambienti politici locali e nazionali. E la domenica tutti nell'arena dell'odio, ad incitare Mussolini, inveire contro «negri» ed «ebrei». Gli slavi automaticamente diventano tutti «zingari». Nella Verona del leghista Tosi dietro all'estremismo dei gruppi ultras di destra c'è lo zampino del Veneto Fronte Skinhead, mentre nella curva sud juventina sia il gruppo dei Fighters, nato dalle ceneri del gruppo di estrema destra dei Drughi, che quello dei Viking, entrano allo stadio con le celtiche. A Bologna, la frustrazione dopo l'accoltellamento di un ragazzo magrebino da parte di Mods bolognesi e Boys romani, nel 1997, fece sbottare l'allora tecnico del Bologna, Ulivieri, chiedendo la chiusura della curva. A Milano, se storicamente la curva rossonera era di sinistra, dopo lo scioglimento della Fossa dei Leoni hanno prevalso gruppi di destra radicale come i Commandos Tigre e le più temute Brigate rossonere, mentre la curva nord del Meazza, quella dell'Inter, è appannaggio degli Irriducibili Inter, forse il gruppo più cruento e anche il meglio organizzato in Italia.
Una loro frangia, gli Skins, sin dal nome che li rappresenta non fa mistero della sua ideologia e lo si desume dal loro simbolo, il cane Muttley che sovrasta una croce celtica. Gli skinheads curvaioli amano l'alcool e ascoltano musica Oi, un derivato del punk rock. Il loro film preferito è Febbre a 90 ̊ di David Evans. «Irriducibili Inter...Quelli che il calcio te lo danno in bocca», uno dei motti del gruppo; «Cuore nero sangue», invece, esplica l'una e l'altra tendenza. Gli Irriducibili Inter nascono nel 1988 e a seguito di vari spostamenti e rimescolamenti con altri gruppi della curva (Viking, Snakes e Shining), si fondono nel 1997 con Zona Nera, diventando il gruppo più influente della curva Nord milanese. Nemici in campionato ma alleati in Nazionale, l'ultimo fenomeno di tifo nero organizzato è targato “Ultras Italia”. Il gruppo organizzato che affonda le sue radici nei Viking Italia, embrione del nucleo di tifo nero nato dall'incontro di più frange: Verona, Trieste, Udine, Treviso, Brescia, alle quali hanno fatto seguito gli Irriducibili Lazio, alcune costole del tifo nero romanista e altri dal sud Italia.
Seguono la Nazionale all'estero vestendo maglie nere col fascio Littorio e dispongono di una mappatura di tifoserie amiche e nemiche. Nell'ottobre 2008, in occasione di Bulgaria-Italia, si sono distinti per cori fascisti, celtiche, fischi all'inno bulgaro e vari episodi di rissa con i tifosi di Sofia. Per l'occasione si scomodò anche l'ambasciata italiana e per poco non si sfiorò il caso diplomatico.❖
Repubblica 24.10.09
I disperati di France Telecom
di Francesco Merlo
Fanny si imbottiva di farmaci. Joël si sentiva perseguitato Jean Paul si è buttato dal ponte dell´autostrada E ancora, Alain il bretone, Guy il poeta, Lyonel che si è accoltellato davanti ai colleghi. Venticinque suicidi in pochi mesi: ecco come si muore di crisi
Le ultime lettere scritte ai parenti "In quell´azienda non servo a niente Meglio farla finita"
Fanny era ingrassata di 25 chili forse perché ingoiava antidepressivi da quando le era morta la mamma, ma da qualche mese era proprio disperata perché aspettava il terzo trasferimento: «A France Telecom non sapevano più dove metterla». Aveva scritto al padre: «Preferisco morire che ricominciare ancora con un altro capo. « Ed era uscita di casa portandosi dietro la carta di donatrice d´organi, «non si sa mai».
Il palazzotto di rue Médéric non è di quelli in vetro e acciaio, ma in mattoni marrone e la zona è elegante. Senza permesso mi fanno sbirciare nell´ufficio: non hanno toccato nulla, dagli scuri pudicamente abbassati penetra la luce umida e stanca dell´autunno di Parigi, ed è come entrare in un museo delle cere, hanno perso vita il tavolo, il computer, le carte e le penne biro: «Si sedeva lì, con le gambe incrociate e guardava fuori come si guarda verso il mare aperto». A cento metri c´è il parco Monseau, nella vicina rue Daru c´è la bellissima cattedrale ortodossa Alexandre Nevski, e dalla finestra di Fanny si vede la scuola alberghiera. Gli allievi cuochi con il lungo cappello bianco da cucina hanno sentito il tonfo e si sono voltati: «Aveva freddo, ha chiesto una coperta e se l´è tirata sopra il viso». Sino alla fine voleva nascondersi. E´ morta in ospedale. Lascia il gatto Frimousse ed il coniglio Zebulon.
In Francia si parla molto di suicidio ma pochissimo dei suicidi, delle loro storie di disperazione e di coraggio: le iniziali, un´età, la funzione, lo stress aziendale. Neppure all´Observatoire du stress et des mobilités forcées è stato facile censire questi 25 morti di France Telecom e i 15 tentati suicidi. Il tentativo più brutale e spettacolare è sicuramente quello di Lyonel Dervin che, in riunione, quando è arrivato il suo turno si è alzato in piedi e si è messo a parlare dei disagi e del malessere dei dipendenti. E mentre parlava, lucidamente e senza tremori, ha tirato fuori il coltello e se l´è infilato nel ventre. Lo hanno salvato e si è fatto intervistare accanto alla moglie, nel salotto di casa con le pareti rosse, in tuta e pantofole, e somigliava maledettamente a se stesso, voglio dire all´immagine che ci si fa di uno che ha tentato il suicidio: alto, stropicciato, il volto grigio e lo sguardo stupefatto di fanciullo innocente dietro gli occhiali. Ma si sa: suicidio e tentato suicidio sono malattie diverse. Di sicuro in Francia chi sopravvive finisce in televisione e ha diritto al nome e al cognome sui giornali. Dicono invece che il silenzio è la maniera migliore di rispettare i morti. E tengono sotto sorveglianza il fenomeno sociale come si tiene sotto sorveglianza il pentolino di latte che scalda al fuoco.
Mai suicidi non hanno scrittori e dunque non ci saranno poeti per l´antillano Joël che a 44 non sognava più di diventare ballerino anche se raccontava di essersi esibito con un gruppo trasgressivo al "Coconut club" e nessuno gli credeva. Era sempre in collera perché a France Telecom si sentiva perseguitato diceva dai razzisti ma tutti sapevano che stava male da 15 anni e infatti le parole gli morivano in gola mentre i suoi occhi sembravano sempre chiedere aiuto. Viveva al sesto piano, nella banlieue, un divano letto di stoffa, pavimento di lineolum... Ha mandato per mail il suo "testamento": parole di odio per France Telecom. Si è gettato giù ed è morto sul colpo.
Come i morti dell´influenza A, i suicidi di France Telecom non hanno diritto al "coccodrillo" né alla colonna di amabile prosa funeraria che i quotidiani consacrano agli scomparsi, ma solo agli istogrammi e alle astrazioni nei libri dei sociologi: "Lavorare per morire", "Orange Stressata", "Suicidio e lavoro: che fare?". E ancora: "Sanità mentale e lavoro", "La nuova fabbrica", "La depressione degli oppressi". Deve essere vero che la libreria è il luogo dove la realtà è come vorresti che fosse, ordinata, linda, riflessiva, elegante e dunque rispettosa. Ma nessuna risposta trova in libreria una domanda cieca come questa: «Perché Jean Paul prima di uccidersi aveva comprato un biglietto del cinema?».
Jean Paul ha fermato la sua vettura sull´autostrada A41 e si è gettato da un ponte. Aveva 51 anni, una moglie e due figli. Sulla vettura hanno trovato una letteranella quale accusa France Telecom: «Mi hanno ucciso loro, rendendomi la vita impossibile». Al funerale la famiglia non ha voluto i dirigenti della società né i giornalisti. La vedova ha solo detto che Jean Paul era depresso perché lo avevano trasferito, degradandolo da tecnico a centralinista. I suoi amici raccontano che Jean Paul a 51 anni pensava di essere rimbambito. RicordaGilbert: «Diceva che quando uno rimbambisce mica se ne accorge. E io gli rispondevo: ma quando se ne accorge vuol dire che non rimbambisce». E´ il suicida numero 24. In tasca aveva quel biglietto di cinema. «Signore, io sono Jean Paul, quello che voleva vedere il film di Tarantino».
Forse Jean Paul potrebbe mettersi alla testa di questi suicidi per attraversare tutti insieme, come immaginava Fabrizio De Andrè, «l´ultimo vecchio ponte» verso il Paradiso. De Andrè tentava di celebrare, contro la grettezza del tempo (era il 1968) la dignità dei «morti per oltraggio/che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio». Compose dunque la dolente poesia del suicidio, che magari può diventare anche una forma estrema di lotta di classe, come ora lasciano intendere i sociologi non solo francesi, ma è soprattutto sfida all´ordine delle cose, atto contro la metafisica, dichiarazione di guerra a Dio e alla natura, riscatto dell´individuo concreto rispetto all´assoluto.
Sicuramente su quell´ultimo vecchio ponte transita Nicholas che a soli 28 anni si è impiccato nel suo garage a Besançon dopo aver cercato di telefonare alla sua ragazza. Con lei si sentiva infelice ma era molto in collera con France Telecom anche perché il capo e i colleghi «non rispondono mai quando si ha bisogno di loro». Secondo la procura, leggendo la lettera che Nicholas ha scritto prima di morire «è impossibile stabilire un legame formale di causalità tra i suoi problemi professionali e il suo gesto fatale». Di sicuro aveva smesso di ridere di sé e di frequentare il cliccatissimo sito di autoderisione che diverte i ragazzi che si sentono infelici come si sentiva lui, e capita spesso che i ragazzi si sentano infelici. Si chiama viedemerde.fr (vitadimerda.fr), tre milioni di visitatori al mese, uno dei più grossi affari della pubblicità sul web in un paese dove ogni anno i suicidi sono più di diecimila (24 su ogni centomila abitanti di sesso maschile, contro gli 8 dell´Italia). Anche Nicholas, come tutti, lasciava il suo aneddoto di (mala) vita su questo sito come ormai si dice di losers, di perdenti (in Inghilterra il sito corrispondente si chiama fuckmylife.co.uk). Gli aneddoti di Nicholas erano di questo genere: «Oggi incontro un amico per strada. Non mi vede e allora gli telefono. Lui tira fuori il portatile, guarda chi chiama, sospira e non risponde». O ancora: «Oggi è il mio anniversario e i miei colleghi di France Telecom mi hanno offerto un deodorante». Ecco: «Signore, io sono Nicholas, quello che per vivere si autoderideva».
Di Alain invece gli allievi scout ora dicono che «forse un giorno sarebbe diventato antico ma mai vecchio»: dipingeva i paesaggi della sua Bretagna, aveva 48 anni, tre figli, era un ingegnere di Lannion, magnifico borgo medievale attraversato da un fiume e dominato dalle rovine di un castello. Alain aveva il sorriso fiero e allegro dei bretoni, amava le barche e le maree, ma da quando avevano sospeso la sua promozione a Rennes «era completamente a terra». Si era ammalato, da luglio non andava più al lavoro. Si è impiccato di mattina quando non c´era nessuno in casa, ha dato un gran calcio allo sgabello... Gli scout gli hanno dedicato pensieri, lacrime, poesie: per loro era "il pittore", «innamorato delle nostre coste, della pietra e della sabbia... a te dobbiamo la nostra creatività, ci hai insegnato la fantasia... Ma chi eri tu alla fine? Nostro padre? Nostro amico? Nostro fratello? Eri un artista a tempo pieno...».
Un artista come Guy che ha scritto e mandato ai colleghi, ai superiori e ai clienti, una poesia mail sulla morte che voleva darsi: «Fine di me». Riposa sulla collina di France Telecom il tecnico che, mandato al centro di ascolto, si era messo a fare l´apprendista idraulico perché voleva cambiare mestiere. E sull´ultimo ponte c´è ovviamente Jean-Michel, 53 anni, che usava troppo il telefono, anche mentre mangiava, e dunque lo ha fatto anche mentre moriva. Dopo avere chiamato mezzo mondo si è messo a parlare con la collega Anne-Marie, le diceva che si sarebbe ucciso e lei cercava di tirarlo su. Finché Anne-Marie ha sentito il fischio del treno sotto il quale Jean-Michel si buttava.
Il fratello e la sorella di Fanny, la ragazza che sta in cima a questa nostra Telecom river, ma soprattutto il padre, Guy, 63 anni, non perdona France Telecom: «Ci sono epiloghi che sono scritti nel prologo». E´ un po´ troppo dire che «è stata uccisa dalla Francia, è morta per la Francia» come hanno scritto i suoi colleghi in un cartello, ma nessuno può ridurla a due iniziali e al segmento di un diagramma. Ci sono lacrime che devono essere versate: "E se non piangi ora, di che pianger suoli?". In rue Médéric hanno pianto in tanti e in tanti hanno gridato quando Fanny ha toccato terra, anche gli impiegati dell´agenzia di viaggi, quelli della chiesa svedese, i giapponesi del ristorante "Sol Levante": piccoli gridi soffocati, gridi nervosi, gridi che sono diventati singhiozzi. Forse una vera Telecom River dovrebbe cominciare con l´elogio del pianto e della sofferenza gridata, sino al velo nero e alla madri meridionali che urlano. L´amore ha le sue leggi biologiche: si può piangere in privato o in pubblico, al balcone o con la testa sotto il cuscino, ma ci sono momenti in cui "bisogna" piangere. Il pianto e il grido di dolore sono civiltà e dignità, anche nel paese dell´anonima suicidi.
Corriere della Sera 24.10.09
Ritratto del Paese Lo storico inglese giudica i mali della politica e le ragioni della cronica debolezza della nostra democrazia
La maledizione dei guelfi e ghibellini
Insicurezza e astratto idealismo: alle radici dell’eterno estremismo italiano
di Christopher Duggan
Nel XIX secolo
Decenni di aspri conflitti hanno fatto sì che i patrioti risorgimentali apprezzassero l’unità e temessero la diversità Anni Novanta Il vuoto ideologico seguito alla perdita di credibilità del Pci è stato occupato dall’estrema destra e dalle forze della Chiesa
Se da Parliament Square, nel centro di Londra, si va verso l’abbazia e il palazzo di Westminster, e si prosegue poi passando davanti alle statue di ex primi ministri come Robert Peel, Benjamin Disraeli, Lord Palmerston, David Lloyd George e Winston Churchill, arrivando a Whitehall, a Downing Street, al Cenotafio e alla Banqueting Hall — da cui in una fredda mattina di gennaio del 1649 uscì re Carlo I per essere giustiziato — a ogni passo si è portati a ricordare quanto l’autorità dello Stato britannico e dei suoi rappresentanti si fondi sulla sua storia. Gordon Brown e gli altri 645 membri del Parlamento debbono il loro potere alla storia almeno quanto agli elettori.
Viene però da fare anche un’altra considerazione. Se i re come Carlo I sostenevano di essere legittimati per diritto divino, le democrazie liberali, nell’era della sovranità popolare, capirono che per ottenere il consenso dell’elettorato la sacralità doveva essere sostituita da qualcos’altro: da una visibile dimostrazione che si sta perseguendo il bene pubblico. Nel Diciottesimo secolo la politica britannica era notoriamente corrotta; nel Diciannovesimo secolo furono introdotti dei rigidi codici di imparzialità e probità e i personaggi pubblici che non vi si adeguavano erano costretti a dimettersi. Se quei codici non erano costantemente applicati — e soprattutto se si aveva l’impressione che non lo fossero — l’autorità dello Stato si affievoliva.
Dato che la storia non è stata particolarmente benevola nei confronti dell’Italia moderna — che ha vissuto due drammatiche fratture negli anni 1922-25 e 1943-46 — sembrerebbe fondamentale che la Repubblica dovesse salvaguardare l’autorità dello Stato esercitando una costante vigilanza sulla reputazione delle istituzioni. Ma questo non è avvenuto. Nella maggior parte delle democrazie sarebbe stato impossibile per Berlusconi diventare primo ministro, per il suo conflitto di interessi; e l’opinione pubblica avrebbe da tempo costretto a dimettersi una persona indagata per tante presunzioni di reato. Come si è giunti a questa situazione, apparentemente anomala? E perché il clima politico è oggi così pericolosamente lacerato e avvelenato?
Per rispondere a queste domande gli storici possono provare a partire dalla problematica condizione del liberalismo in Italia. Il liberalismo si fonda sul rispetto delle opinioni altrui e sulla convinzione che gli interessi della società nel suo insieme sono garantiti al meglio se si dà spazio a una pluralità di voci. La storia italiana del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo non è stata però caratterizzata dalla tolleranza, dalla varietà e dall’empirismo, ma da una ricorrente tendenza all’estremismo, scaturita da un misto di insicurezza e di astratto idealismo. Anche la paura del passato ha giocato un ruolo: secoli di aspri conflitti tra città-stato e tra fazioni come i Guelfi e i Ghibellini hanno fatto sì che i patrioti italiani del Diciannovesimo secolo apprezzassero «l’unità» e temessero la «diversità».
Mazzini era in fondo un intransigente: la formula «Dio e il popolo» era profondamente illiberale. Molti democratici condividevano il suo estremismo ideologico, anche perché credevano che il modo migliore di mobilitare le masse cattoliche fosse quello di offrire loro l’alternativa di una «religione della nazione». Alcune figure del Risorgimento sperarono che dopo il 1860 la libertà potesse creare un clima di pluralismo e di moderazione, ma presto si resero conto che questa era un’illusione pericolosa, a fronte dell’inflessibile sfida del cattolicesimo e del repubblicanesimo.
Nel Ventesimo secolo il clima di polarizzazione si accentuò. Mentre in Gran Bretagna, Francia e Germania tra il 1900 e il 1920 il socialismo perse molta della sua forza rivoluzionaria, in Italia l’intransigenza dell’estrema sinistra si intensificò. Venne poi il fascismo. Se si leggono i diari di persone comuni degli anni Venti e Trenta si è sorpresi dalla quasi totale assenza di riferimenti al liberalismo o di nostalgia per quel periodo — perfino dopo che l’inconsistenza del fascismo, nel 1940-42, era divenuta brutalmente evidente. Leggendo il diario di Piero Calamandrei si è ugualmente colpiti da un uomo consapevole di essere una voce che grida nel deserto.
Quanto sono cambiate le cose dopo il 1945? La Costituzione del 1948 era un inno al liberalismo e alla democrazia, ma la misura in cui negli anni seguenti ne sono stati violati sia lo spirito che la lettera fa pensare che si trattasse in buona parte di una dichiarazione di intenti, se non di un’aspirazione alla riconciliazione o a mitigare la riprovazione internazionale. In realtà nei successivi quarant’anni la cultura politica italiana è di nuovo stata dominata dall’estremismo. A partire dagli anni Cinquanta il Pci e la Dc sembrarono prendere le distanze da Mosca e dal Vaticano, ma questo non diminuì il clima di incomprensione, odio e timore reciproci — sentimenti che potevano essere cinicamente manipolati da persone prive di scrupoli.
La caduta del Muro di Berlino sembrò aprire la strada a una cultura politica nuova e per qualche tempo, all’inizio degli anni Novanta, parve che nella psiche della nazione si verificasse un cambiamento epocale. Ma le culture politiche non si rinnovano facilmente. La perdita di credibilità del Pci diede la possibilità agli eredi dell’estrema destra e alle forze della Chiesa — la cui relazione con il liberalismo era inevitabilmente sempre stata molto problematica — di occupare il vuoto ideologico. Le vecchie ideologie politiche sembravano scomparse, ma la lingua dell’intolleranza, del trionfalismo e del vittimismo continuava a risonare in orecchie storicamente più sensibili alle prese di posizione che al dibattito.
Paradossalmente l’estremismo ideologico porta in sé la tendenza a creare decadimento morale. Dopo il 1860 le deboli forze del liberalismo cedettero rapidamente, per mantenere il potere, alla tentazione di chiudere un occhio sull’illegalità — sulla violenza di Stato, sui brogli elettorali, sulle alleanze con mafiosi e camorristi. La brutalità e, in seguito, la diffusa corruzione dello Stato fascista si erano assicurate un largo consenso usando il linguaggio della «fede» rivoluzionaria. E quanti scandali della Prima Repubblica sono stati giustificati dall’elettorato e dalle élite politiche appellandosi all’idea di una guerra di religione contro le forze del male?
Tra le vittime di questa situazione ci sono le istituzioni pubbliche — istituzioni la cui reputazione di imparzialità, nel Diciannovesimo secolo, era considerata da Stati liberali come la Gran Bretagna vitale per la propria credibilità in un’epoca in cui vigeva la sovranità popolare. Se le istituzioni diventano (o vengono accusate di essere diventate) strumenti di parte per la promozione di una causa ideologica, che credibilità possono avere agli occhi dell’insieme degli elettori? In queste circostanze, deve forse sorprendere che la gente cominci a rivolgersi, con buona dose di disperazione, a un «uomo» che sostiene di offrire qualche speranza di salvezza?
(Traduzione di Maria Sepa)
Repubblica 24.10.09
Calder. L´ingegnere bambino che fece volare la scultura
di Barbara Briganti
La passione per il circo lo portò a realizzare piccoli lavori semoventi con il fil di ferro
L´esposizione racconta anche il personaggio con le fotografie scattate da Ugo Mulas
ROMA Forse è l´artista più riconoscibile del novecento. Le sue macchine aeree snodate e colorate - talvolta enormi, altre tascabili -, i cosiddetti mobiles che, appesi a fili invisibili, si muovono con leggerezza danzante grazie ad un sistema perfetto di equilibri calcolati, sono diventati familiari al punto di avere perfino ispirato una forma di giocattolo.
Oggi queste stesse immense farfalle o se vogliamo ironici sistemi planetari, o ancora ninnoli incommensurabili o macchine surrealisticamente inutili, o comunque si possano definire i mobiles, vengono ospitati negli algidi spazi pseudoclassici del Palazzo delle Esposizioni (la mostra si è aperta ieri, ed è curata da Alexander S.C. Rower). Alexander Calder, lo scultore americano nato nel 1898 e morto nel 1976, era uomo di straordinaria simpatia e di infinita arguzia e avrebbe senza dubbio apprezzato molto la cornice di questa grande mostra dedicata all´insieme della sua opera. Forse proprio grazie a quella sua disponibilità all´umorismo, alla sua leggendaria gentilezza e generosità, Calder fu ritenuto un uomo fortunato ed apparentemente felice. Venne al mondo in una famiglia di artisti. Ebbe la fortuna di disporre, sin dall´età della scuola elementare, di uno studio proprio. Lì il piccolo Alexander, come tanti altri bambini, cominciò a ritagliare paperelle articolate. Solamente, le sue erano già di metallo.
Questi inizi promettenti non gli impedirono di affrontare serissimi studi di ingegneria. E come ogni bravo ragazzo americano, si misurò con un´infinità di mestieri stravaganti. Le esperienze che contribuirono alla maturazione della sua sensibilità artistica risalgono agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Ci fu un episodio al quale Calder attribuì una particolare importanza. Un giorno, in navigazione su un cargo al largo del Guatemala, vide bilanciarsi ai due estremi dell´orizzonte la sfera infuocata del sole nascente e quella candida della luna piena. Fu una visione che non smise mai di citare come sua personale fonte di inspirazione. Il secondo stimolo alla sua creatività venne dall´incarico di seguire e documentare gli spettacoli del circo Barnum. La passione per il circo lo portò a creare una quantità di piccole sculture semoventi: clowns, belve, ballerine e domatori, realizzati con filo di ferro e "objets trouvés", quel meraviglioso materiale a metà strada tra la spazzatura e i tesori infantili da cui traevano ispirazione i surrealisti. Con queste figurine, che conservava in due valigie di fibra, dava vita ad uno spettacolo, di cui restano antichi filmati, che riscuoteva immenso successo tra i suoi nuovi amici. Perché nel frattempo, siamo verso la metà degli anni Venti, Alexander Calder si era trasferito a Parigi dove frequentava Mirò, Léger, Duchamp, Man Ray.
Fu in quel periodo che incominciò a costruire le sue prime sculture: si trattava di disegni tridimensionali, in cui il filo metallico ritorto era simile ad una penna che non si stacca mai dal foglio. Con una leggerezza che sembra disegnare l´aria, Calder dà forma ad un singolare bestiario nel quale spicca una straordinaria Lupa, completa di Gemelli, in filo di ferro e pomoli di legno, che giustamente troneggia nella sede della mostra.
I mobiles nacquero poco dopo, grazie ad una visita nello studio di Piet Mondrian: uno stanzone con i muri decorati da centinaia di cartoncini colorati che il pittore olandese usava per studiare le sue composizioni. «Si potrebbero fare muovere» suggerì Calder. «Non ce n´è bisogno, si muovono da soli» rispose freddamente Mondrian. Ma Calder, ormai totalmente catturato dall´arte astratta, li riprodusse, li ritagliò nella lamiera metallica, usando quegli stessi colori primari, e li fece muovere. In un primo momento grazie a dei meccanismi a manovella, una intuizione in largo anticipo sull´arte cinetica, poi solamente con l´uso sapiente di correnti d´aria e dell´equilibrio dei pesi.
Sospese o poggiate a terra le sculture che Calder continuò a creare tra il 1931-´32 e la fine della sua vita, assomigliano a lenti e dignitosi animali preistorici - almeno così li vedeva uno dei suoi estimatori, il filosofo Jean Paul Sartre – ad astrolabi futuribili, a sistemi solari, a sciami di volatili. Oggetti che decorano con ammiccante umorismo atrii di musei, aereoporti, aule magne universitarie in tutto il mondo. Giocosi e ironicamente inquietanti si ergono come un inno alla perenne infantile meraviglia che sottende la creazione dell´artista.
Ai mobiles, che devono il loro nome a Duchamp, seguirono pochi anni dopo gli stabiles. Questa volta fu Jean Arp a battezzarli. Stabiles sono strutture metalliche che nel corso del tempo Calder immaginò sempre più grandi e comunque destinate a luoghi aperti. Anche in questo caso il protagonista è lo spazio, o se vogliamo l´aria. In realtà non sono più le sculture che si muovono, cambiando aspetto a seconda della posizione assunta, bensì sono le città e i loro abitanti a penetravi dando loro vita. Tra le prime, anzi la prima in assoluto, nel 1962, fu il Teodelapio di Spoleto, di cui a Roma si può vedere una delle maquettes di studio. Questa altissima struttura che ricorda veramente una sorta di immane monumento equestre, tra le zampe del quale scorre il traffico cittadino, si arricchisce di una storia, raccontata dallo stesso Calder. Il quale in un primo momento aveva chiamato semplicemente "l´oggetto" quella grande scultura. Fu solo in un secondo tempo, quando vide un´immagine ottocentesca che raffigurava un leggendario duca longobardo con un copricapo irto di punte, tale Teodelapio, duca di Spoleto, che Calder ribattezzò il monumento.
Fu un´artista dell´aria, del gioco, della percezione istantanea, del movimento, dell´eterna meraviglia infantile davanti all´apparente casualità delle forme. Ma fu altresì un uomo che lasciò dietro di sé una traccia di umanità fuori dall´ordinario.
Al Palazzo delle Esposizioni (da poche settimane guidato dal presidente Emmanuele Emanuele) l´artista e il personaggio sono anche raccontati da una mostra di fotografie scattate, nel corso degli anni, da Ugo Mulas. Un lungo, commovente e bellissimo lavoro biografico su questo protagonista del Novecento.
Repubblica 24.10.09
Il diario segreto di Jünger
Hitler è solo una marionetta
di Ernst Junger
Così lo scrittore e filosofo, che militò nella Wehrmacht, descrisse la fine del nazismo e la disfatta dei suoi carnefici
"Il nostro mondo non ha solo zone e periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta"
"In fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto"
Anticipiamo un brano tratto da "La capanna nella vigna. Gli anni dell´occupazione, 1945-1948" di , in uscita oggi da Guanda
Kirchhorst, 1° maggio 1945
In serata la radio ha dato la notizia della morte di Hitler, oscura come tutto ciò che lo circonda. Avevo l´impressione che quell´uomo, come pure Mussolini, da tempo fosse solo una marionetta mossa da mani altrui, da forze estranee. La bomba di Stauffenberg non gli ha tolto la vita, ma di certo gli ha tolto l´aura; lo si avvertiva anche nella sua voce. Un attacco simile, mosso tra l´altro da un uomo di un´antica casata, me l´ero aspettato sin dall´inizio - come pure il fatto che potesse avere effetto solo fallendo. L´avevo descritto nei dettagli sin dal 1939, nel personaggio del principe Sunmyra.
Si dice che il grand´uomo si sia avvelenato. Ma questo sarebbe in contrasto con la visione che Ziegler mi raccontò a Parigi, credo nel 1942. La sua compagna aveva visto Hitler giacere a terra in un luogo buio, dalla bocca gli scorreva un rivolo di sangue. Anni prima, aveva visto l´incendio del grande dirigibile a Lakehurst nell´ora siderale.
Se ripenso a quella seduta, mi prende un senso di sventura. Fu al Café de la Paix.
[* * *]
Kirchhorst, 7 maggio 1945A quanto dicono i russi, hanno ritrovato a Berlino i corpi del dottor Goebbels e della sua famiglia. Sono morti avvelenati, per loro stessa mano.
Ho ripensato alle varie tappe della nostra conoscenza. Incominciò col disaccordo di Spandau ed è finita sei settimane fa, quando vietò alla stampa di menzionare il mio compleanno.
Franke, che in seguito morì al comando di una cannoniera sudamericana, continuava a insistere perché partecipassi alle riunioni di Goebbels, sebbene sapesse quant´erano esigue le mie aspettative. Una volta però andammo insieme a Spandau. Non può essere stato molto tempo dopo l´arrivo del «Dottore» a Berlino. Fu oltremodo istruttivo, tuttavia, il modo in cui il piccolo coboldo tenne in pugno la massa radunata laggiù - in larga parte «comunisti» - , seppe scuoterla e renderla furiosa. Una cosa così dalle nostre parti, specialmente in Prussia, non s´era mai vista. I socialdemocratici, in confronto, erano scienziati illuministi. I comunisti videro bene che cosa si erano lasciati sfuggire in quell´occasione, e cercarono di imitarlo, ma arrivarono troppo tardi. In quell´occasione sentii anche il discorso in cui Thälmann si appellava a Ulrich von Hutten e alla libertà tedesca. Dieci anni prima, all´epoca della Corazzata Potëmkin, la cosa avrebbe fatto furore. (...)
La voce del dottore non era sgarbata e aggressiva. Era modulata con finezza, sottilmente affilata, disciplinata. Non era la voce dei grandi tribuni, del tutto certi del loro compito, della loro missione. Il discorso che pronunciava aveva un timbro ponderato: lasciava intuire studi accurati, coltivati durante ascetiche veglie notturne. Era la stessa voce dei pubblicitari, delle «macchine per vendere» che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili. Le immagini erano superficiali, ma dotate di una certa grossolana efficacia, tipo «la fronte e il pugno» invece di «la testa e la mano». L´insieme era al di sopra del livello dell´uditore, ma non al di là della sua capacità di comprenderlo. Il dottore era anche vestito con cura, indossava un abito blu, di buona fattura. Anche quello però faceva senza alcun dubbio parte del personaggio; in una famiglia di meccanici, potrebbe presentarsi così «il fratello che ha studiato».
Fu una delle cerimonie in cui si scoprì la società senza classi, e la cosa determinò un forte slancio, un grande afflusso di energia. La si avvertiva ribollire nell´ampia sala. Per quel che riguarda la forza elementare, la materia prima della storia e il suo dispiegamento, lo spettacolo era piuttosto sorprendente. Quanto alla propaganda e alle sue tecniche, erano molto più avanti dei borghesi, come pure dei comunisti, ancora profondamente radicati in uno stato classista. Dal punto di vista ideologico, invece, emergevano solo i luoghi comuni dei XIX secolo, riarrangiati in modo nuovo, o forse nemmeno, bensì semplicemente ricondotti alla loro origine, perché la democrazia si era in primo luogo riconosciuta nel loro carattere nazionale. In tal senso restavano un passo indietro rispetto al marxismo. Ma in fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto. A tratti avevo l´impressione che egli, come un maestro di cappella, dirigesse il coro con lievi cenni della mano. E me ne andai prima della fine della riunione.
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Kirchhorst, 23 maggio 1945(...) La radio annuncia che Himmler è stato arrestato camuffato da un travestimento. Forse, per la prima volta, non era travestito - il comandante supremo delle SS nei panni di un vagabondo, di un accattone con un occhio guercio. Sic transit gloria. Mentre lo catturavano, ha morso la fiala di acido cianidrico che teneva in bocca. Che simili bonbon facessero parte del corredo, del nécessaire dei veri potenti, ormai privi di qualsiasi scrupolo, mi era chiaro fin dall´inizio.
Ciò che invece mi ha sempre colpito in modo singolare in questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un´aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre la porta un ispettore in prepensionamento.
Tutto questo però mette bene in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. E´ il progresso dell´astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere. Chi già non se ne accorga negli atri delle stazioni ferroviarie, o nel keep smiling delle commesse, si muove come un daltonico nel nostro mondo. Esso non ha soltanto certe zone e certi periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta.
C´è poi anche un altro aspetto che dà da pensare. Le idee pallide, l´ordinaria bruttezza di simili figure sono la spia del ruolo subalterno che è loro assegnato nel regno del male. Il pensiero che milioni di persone perdano la vita perché un signor Himmler aziona le leve della macchina della morte è un´ottimistica illusione. Se la neve cade per un intero, lungo inverno, basta la zampa di una lepre a far scendere a valle una slavina.
Non sappiamo che cosa c´è dall´altra parte. Nel momento in cui la vittima varca le porte della gloria, dimentica il suo carnefice; se lo lascia alle spalle come un fantasma dell´orrore, un usciere infilato nella livrea del tempo.
(© Klett-Cotta 1958, 1979
J.G Cotta´sche
Buchhandlung Nachfolger
GmbH, Stuttgart
2009 Ugo Guanda
Editore S.p.A.
Traduzione di
Alessandra Iadicicco)