domenica 25 ottobre 2009

Il Fatto Quotidiano 25.10.09
L’intervista
Giorgio Bocca: “Ormai la sinistra copia la destra
di Gian Piero Calapà


Le parole di Giorgio Bocca, uno degli ultimi grandi del giornalismo italiano, spesso sono come aculei che si conficcano in una ferita già aperta. Come lo scorso agosto, quando scrisse su l’Espresso che in Sicilia i carabinieri "fanno parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia". Le sue frasi sono ruvide come può esser ruvido solo un anziano piemontese che ha fatto la Resistenza e che oggi fa fatica a distinguere, neiI’agone politico, il bene dal male. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa parlò di accuse farneticanti, riferendosi a quell'articolo, che Pierferdinando Casini definì "infame". Ora il "caso Marrazzo” e tre uomini dell'Arma arrestati con l'accusa di estorsione. "Sinistra e destra sono senza differenza - spiega Bocca -. Complotto o no, uno che.ricopre un ruolo istituzionale non dovrebbe comportarsi, anche in privato, come ha fallo il governatore del Lazio”.
Forse anche i carabinieri coesistono, ovunque, con una società malata giunta a un punto bassissimo della Storia di questo Paese?
"Ho avuto parecchie noie dopo quell'articolo. Sono stato definito più volte un anti-italiano, preferirei davvero evitare di parlare dei carabinieri. E, aggiungo, se il Fatto pensava, intervistando me sulla vicenda Marrazzo, di voler fare un pezzo di sinistra ha sbagliato a cercare me". .
Nessun intento premeditato da parte nostra. Escludendo i carabinieri dal discorso, non pensa che il governatore sia stato vittima di un complotto?
"Non è questo il punto. Ammesso anche che si sia trattato di un complotto mi pare che Marrazzo fu già vittima di un pedinamento o qualcosa di simile in passato. Il presidente di una Regione dovrebbe essere ben più accorto e assumere dei comportamenti anche consoni al ruolo istituzionale che ricopre. In America non ci sarebbe stato nessun tentennamento sulle dimissioni, qui siamo fatti così”.
Ritiene, quindi, che Marrazzo abbia sbagliato tutto, anche nel comportamento tenuto nelle prime ore a scandalo ormai scoppiato?
"Abbia pazienza: uno che dice che tiene alla sua famiglia e poi va con i trans ... secondo me quanto meno è un tipo strano ... Sarà che sono un piemontese."
Insomma, anche per lei siamo al così fan tutti? Destra e sinistra, tutti uguali. Non pensa sia proprio quello che voleva dimostrare l'apparato che si è messo in moto?
Sì, la sinistra è come la destra. L'apparato non può dimostrar nulla, però, nel caso del giudice Raimondo· Mesiano. Pedinato e sbattuto sù Canale5 mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Ripeto: bisogna essere consci del molo che si ricopre: chi fa il governatore non può e non deve permettersi cose che magari possono anche apparire lecite per un uomo comune. Marrazzo, se è stato vittima, si è prestato ad esser vittima ".
Ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera si spingeva a chiedere a Marrazzo di valutare se fare un passo indietro chiedendosi "quanto sia stata condizionata l'attività pubblica di un presidente che da mesi vive costantemente in una condizione di ricatto". La stessa cosa che alcuni rilevarono per Berlusconi nella vicenda delle escort.
"Premetto che non leggo mai ciò che scrive Battista e ritorno a dire che è uno schifo generale. Prenda l'ex ministro Clemente Mastella quando ammette di aver raccomandato solo amici innocenti, chiedendo che cosa ci fosse di male. Trovo incomprensibile il modo di intendere l'onestà di tutta la nostra classe dirigente. Ci sono due modi di concepire la politica. lo scelgo quello espresso da una figura come Giuliano Vassalli”.
L'Italia è stata sempre così? Oppure ritiene che sia in corso un'escalation tra pedinamenti, dossier e buchi della serratura?
"Non è sempre stato così, nessuno si sognò mai di pedinare Aldo Moro perché c'erano in giro voci di una sua relazione con una cantante".
Vede luce alla fine del tunnel?
"Questo è un Paese in cui non mi riconosco più. Non mi riconosco più negli italiani. Forse hanno fatto bene a detìnirmi anti-italiano”



Repubblica 25.10.09
L’aria torbida di fine regno
di Eugenio Scalfari

L´aria che si respira in questi giorni è di fine della seconda Repubblica. Non è detto che sia anche la fine di Berlusconi perché le due cose non sono necessariamente coincidenti. Può darsi che la fine della seconda Repubblica porti con sé e travolga chi su di essa ha regnato; ma può darsi anche che sia proprio lui ad affossarla sostituendola con una Repubblica autoritaria, senza organi di garanzia capaci di preservare lo Stato di diritto e l´equilibrio tra i vari poteri costituzionali.
Il Partito democratico ha presentato in Parlamento il 22 ottobre, con la firma di Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, una mozione che fotografa con efficacia questa situazione. Se ne è parlato poco sui giornali, ma è l´atto parlamentare più drammaticamente documentato del bivio cui il paese è arrivato, mentre la crisi economica mondiale è ancora ben lontana dall´aver ceduto il posto ad una ripresa.
I sintomi di questa «fin du règne» sono molteplici. Ne elenco i principali: l´attacco martellante e continuativo del presidente del Consiglio contro la Corte costituzionale e la magistratura; la definitiva presa di distanza del medesimo nei confronti del Capo dello Stato; il disagio crescente di Gianfranco Fini verso la linea del Pdl e in particolare verso le candidature dei governatori in alcune regioni e in particolare il Veneto, il Piemonte, la Campania; l´irrigidimento della Lega su Veneto e Piemonte da lei rivendicate.
E poi il dissenso sempre più profondo tra una parte del Pdl (Scajola, Verdini, Baldassarri, Fitto, Gelmini) e Tremonti e la difficoltà di Berlusconi a ricomporre questo scontro che sta spaccando in due il centrodestra; la rivolta degli artigiani del Nordest contro la politica economica del governo; l´analoga rivolta di molti imprenditori lombardi; i casi giudiziari della famiglia Mastella; i casi giudiziari di un gruppo di imprenditori collegati a Formigoni; il caso Marrazzo e le sue possibili conseguenze politiche ed elettorali; gli attacchi dei giornali berlusconiani contro Tremonti e la sua minaccia di dimettersi. Infine la preoccupazione del presidente della Repubblica che aumenta ogni giorno di più e si manifesta in ripetuti e pressanti richiami a mandare avanti le riforme in un clima di condivisione.
L´elenco è lungo e sicuramente incompleto, ma ampiamente sufficiente ad alimentare la percezione di un processo di «disossamento» del paese, d´una guerra di tutti contro tutti, di un´azione di governo basata su frenetici annunci ai quali non segue alcun fatto. Si procede alla cieca. Siamo addirittura ad una sorta di fuga del premier che si è andato a nascondere nella duma personale di Putin e lì sta ancora mentre scriviamo (trattenuto a quanto si dice da una furiosa tempesta di neve della quale peraltro non c´è traccia nel bollettino meteorologico) dopo aver disertato la visita di Stato del re e della regina di Giordania ed aver rinviato a data da destinare il Consiglio dei ministri che era stato convocato per venerdì mattina. Forse per sfuggire al chiarimento con Tremonti?
Di sicuro si sa soltanto che il nostro premier è con il dittatore russo da tre giorni durante i quali hanno parlato «anche» di affari. Insomma, tira un´aria brutta, anzi mefitica.
* * *
Per non correr dietro alle voci sussurrate o gridate, stiamo ai fatti e soprattutto a quelli economici che maggiormente interessano i cittadini, cominciando con l´annuncio (ancora un annuncio) fatto dal premier prima di partire per San Pietroburgo, di voler dare inizio ad un graduale ribasso dell´imposta Irap.
L´annuncio fu lanciato la prima volta nel 2001 e poi rinnovato nel 2005, ma seguiti concreti non ce ne furono. Questa è dunque la terza volta; ma mentre dieci anni fa nessuno si oppose all´interno del centrodestra, questa volta c´è un «no» secco del ministro dell´Economia per mancanza di copertura.
Oltre al suo, c´è anche un «no» della Cgil e delle Regioni, a fronte di un completo appoggio da parte della Confindustria.
Si discute di un´imposta voluta a suo tempo da Vincenzo Visco, che unificò nell´Irap sette imposte precedenti, destinandone il gettito al finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Il gettito attuale dell´imposta rende 37 miliardi l´anno. Grava sulle imprese ed anche sui lavoratori così come vi gravavano le sette imposte precedenti. Il graduale ribasso annunciato da Berlusconi non è stato ancora definito nella sua concretezza, visto che spetterebbe a Tremonti di farlo ma è proprio lui che vi si rifiuta. I consiglieri del premier pensano ad una riduzione dell´imposta tra i tre e i quattro miliardi a vantaggio delle imprese, soprattutto di quelle di piccole dimensioni. I medesimi consiglieri suggeriscono di trovare la copertura utilizzando i fondi accantonati per il Mezzogiorno o quelli derivanti dallo scudo fiscale. Tremonti – l´abbiamo già detto – ha risposto con la minaccia di immediate dimissioni.
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Nel frattempo ha fatto il giro di tutti i giornali un documento anonimo ma proveniente da alcuni «colonnelli» del Pdl, che avanzava una serie di critiche alla linea rigorista del ministro dell´Economia. Non si dovrebbe dar peso ai documenti anonimi senonché proprio ieri è stato presentato un documento con tanto di egregia firma da parte del presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, Baldassarri. In esso la linea rigorista del ministro viene completamente smontata dal vice ministro, il quale propone tagli di spesa e diminuzione di imposte da riversare a vantaggio dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese per un totale della rispettabile cifra di 37 miliardi.
Le dimensioni di questa manovra di fronte alla legge finanziaria del 2010 ancora in discussione in Parlamento, è imponente: 37 miliardi per modificare una Finanziaria che ammonta a un miliardo e mezzo. È evidente che in questo caso non ci saranno compromessi possibili: o viene smentito Baldassarri o se ne va Tremonti.
Ma non è tutto nel campo della politica economica. C´è la questione della Banca del Sud, che sta molto a cuore a Tremonti ed è stata già approvata nell´ultimo Consiglio dei ministri.
Si tratta anche in questo caso di un semplice annuncio sotto forma di un disegno di legge che configura per ora uno scatolone vuoto, del quale non si conoscono neppure i proprietari, cioè gli azionisti. Uno scatolone consimile fu battezzato anche dal medesimo Tremonti nel 2003, ma dopo un paio di mesi la gestazione fu interrotta per procurato aborto: la proposta infatti fu ritirata. Accadrà così anche questa volta?
La proposta (e sembra paradossale ma non lo è) incontra l´opposizione dei ministri meridionali, delle regioni meridionali, e dell´opposizione. Il perché è facile da capire: si tratta d´una banca autorizzata a raccogliere fondi sul mercato usandoli per finanziare imprese nel Sud a tassi particolarmente allettanti per i debitori. Lo Stato si accollerebbe la differenza. Si creerebbe così un circuito creditizio virtuoso per chi riceverà quei prestiti, ma un circuito perverso per le imprese già operanti con tassi tre volte più alti dei clienti della Banca. Clienti è la parola giusta perché si tratterà di una vera e propria clientela facente capo al ministro dell´Economia, fondatore e protettore della Banca in questione.
Va detto che l´agevolazione sui prestiti dovrà preliminarmente ottenere l´ok della Commissione Europea e infine quella della Banca d´Italia, la quale non sembra entusiasta d´una Banca così concepita.
Accenno a qualche altro problema più che mai aperto nella politica economica. Ho parlato prima di una rivolta degli artigiani del Nordest e del disagio tra le molte imprese che operano in Brianza. Si tratta di elettori in gran parte del centrodestra, molti dei quali finora hanno spesso intonato con convinzione il ritornello «meno male che Silvio c´è». Non pare che siano ora così entusiasti. Lamentano soprattutto due cose: la mancanza d´una riduzione fiscale tante volte promessa e mai avvenuta e il tempo maledettamente lungo impiegato dalle pubbliche amministrazioni locali e centrali per pagare i debiti contratti con quelle imprese. Una volta si trattava di 30 giorni, poi di 60; adesso ne passano mediamente 130, cinque mesi, prima di incassare qualche spicciolo.
Per rimediare a questo tardivo spicciolame, cresce vertiginosamente il numero di piccole imprese che imboccano la via del concordato.
Si parla di concordato quando un´azienda si trovi in una situazione di pre-fallimento. Invece di fallire propone un concordato ai creditori. Un tempo il concordato si faceva intorno al 50 per cento dei crediti. Coi tempi che corrono è sceso vertiginosamente: siamo in media intorno al 20 con punte al ribasso che arrivano fino al 7 per cento. I creditori, anziché perder tutto, accettano e l´impresa può riprendere il suo cammino con un vantaggio notevole rispetto ai concorrenti. Proprio per questa ragione sta aumentando il ritmo dei concordati e non è un bel vedere perché scarica sui creditori il peso dell´insolvenza debitoria. I creditori sono in gran parte banche e questo spiega perché il credito bancario si sta progressivamente restringendo e ancor più si restringerà.
Cito un episodio che tutti i giornali hanno pubblicato ma sul quale forse l´opinione pubblica non ha riflettuto abbastanza. Il governo ha concesso notevoli incentivi all´industria automobilistica, soprattutto per quanto riguarda la rottamazione di vecchi modelli e la fabbricazione di auto non inquinanti. L´industria dell´auto ne ha avuto un discreto sollievo ma Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha rivelato che finora (ed è passato quasi un anno) non ha ancora ricevuto un soldo ed ha provveduto finanziando a se stesso (cioè alla Fiat) gli incentivi e scrivendo sul bilancio un credito verso l´erario. Cioè: la Fiat ha chiesto alle banche di finanziarle un credito che lo Stato non ha ancora onorato. Vedete un po´ a che punto siamo.
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Ci vorrebbe un programma di «exit strategy» ma ci pensano in pochi sia in Italia sia in Europa. Trichet, presidente della Banca centrale europea, ci pensa e ne parla. Draghi ci pensa e ne parla. Monti ci pensa e ne parla. Bernanke, presidente della Fed americana, ci pensa e ne parla. E basta. Cioè: ci pensano e ne parlano le autorità monetarie e alcuni esperti informati in materia. I politici di governo annaspano.
La discussione verte su due modelli: un´uscita dalla crisi a forma di L oppure a forma di W. La prima ipotesi è che si fermi la caduta ma la ripresa sia molto lenta e si dilunghi tre o quattro anni. Il secondo modello è invece che vi sia una ripresa consistente ma di breve durata, cui seguirebbe una forte ricaduta e poi una nuova ripresa. La durata di questo secondo modello è di sei o sette anni.
L´economia italiana, che procede a bassa produttività, sarebbe in entrambi i casi tra le più sfavorite e lente a dispetto di quanto i due amici-nemici Berlusconi e Tremonti vanno predicando da anni e cioè che noi usciremo dalla crisi meglio di tutti gli altri.
Le politiche necessarie per accelerare senza ricadute la ripresa economica sono diverse tra gli Usa e l´Europa. Senza entrare in troppi dettagli, per l´Europa si consiglia una robusta detrazione fiscale in favore dei consumatori-lavoratori per rilanciare la domanda interna e, insieme, una serie di provvedimenti da trasformare in legge con esecutività postergata per ribassare in misura consistente il debito pubblico. In alternativa un´imposta pro tempore sui patrimoni al di sopra di un limite, con applicazione per due-tre anni al massimo. Oppure un contenimento della spesa corrente che negli ultimi due anni non c´è stato affatto facendola lievitare di ben 35 miliardi.
Questo sì, è un dibattito serio. Il resto sono chiacchiere e annunci sgangherati, sempre più percepiti come bubbole per guadagnar tempo prima di far le valigie e andarsene.
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Non posso chiudere questo mio «domenicale» senza ricordare che mentre leggete questo giornale si stanno svolgendo le primarie del Partito democratico per l´elezione del segretario nazionale e dell´Assemblea.
L´appuntamento è importante e interessa non solo il Pd ma tutta l´opposizione. Seguirò anzi il suggerimento datoci ieri da Andrea Manzella, di scrivere Opposizione, con la maiuscola perché la prova di forza dell´affluenza può anzi dovrebbe interessare l´Opposizione nella sua totalità e non soltanto gli iscritti a quel partito.
Le primarie del Pd offrono infatti all´Opposizione una piattaforma organizzativa. Sento parlare di sondaggi di un milione e mezzo o due milioni di votanti. Secondo me non sono sufficienti. Ce ne vogliono almeno tre milioni e questa sì, sarebbe una prova di forza ben riuscita.
Oggi l´Opposizione si può materializzare con tutta la forza che possiede purché superi indifferenza e scetticismo. Mi auguro che ciò avvenga per la salute della democrazia italiana.

Corriere della Sera 25.10.09
Psicoterapeuta Raffaele Morelli: «Volontà inconscia di essere scoperti. Il viado come una figura mitologica moderna»
«Uomini di potere, trans e la trasgressione come fuga»
di Mario Pappagallo

«A volte il potere diventa una gabbia insostenibile da cui si vuole fuggire, ma inconsciamente. In ap­parenza forti, sempre pronti a deci­dere, sottoposti a pressioni e a scel­te che possono anche non piacere o con le quali si scende a compromes­si, pur di aumentare il proprio pote­re e soddisfare le ambizioni. Nell’in­conscio invece si diventa sempre più sofferenti, pronti a tutto pur di uscire dalla gabbia. Ecco allora che la trasgressione, il rischio, l’annulla­mento delle inibizioni, diventano quella doppia vita spericolata che se va male ti libera e se va bene ti dà una scarica di adrenalina senza pa­ri. E l’inconscio del potente 'logora­to' cerca lo scandalo liberatorio. Un autolesionismo che riporta alle pro­prie radici, alla felicità della sempli­cità, a una normalità scordata ma mai tanto desiderata. L’essere sco­perti diventa urlo liberatorio».

Il caso del governatore Piero Mar­razzo ricorda quanto accaduto ad al­tre personalità di potere. Raffaele Morelli, psicoterapeuta e direttore di Riza Psicosomatica , apre la porta alle riflessioni: «I veri grandi uomi­ni restano semplici, umili, con ami­ci e famiglia al fianco, in una norma­lità che li preserva dal potere che dà alla testa. Altri, invece, senza accor­gersene, perdono il contatto con i valori più semplici, entrano nella gabbia. Ed è solo cadendo rovinosa­mente a terra che ritrovano quel­­l’identità che non sanno di aver per­so. E che inconsciamente ridesidera­no ».

Chi non è consapevole della gab­bia in cui si trova, «usa» quindi l’in­conscio come grimaldello? «In un certo senso è così. La trasgressione a rischio diventa una droga: conti­nue scariche di adrenalina che per­mettono di sopportare la gabbia. Al­lora, ecco che è l’incon­scio a creare la situazio­ne liberatoria. Le condi­zioni in cui si rischia sempre più di essere scoperti, di essere ricat­tabili per qualcosa di scandaloso. L’incon­scio apre violentemen­te la gabbia».

Va bene Morelli, ma perché sem­pre più spesso sono i transessuali l’oggetto del desiderio proibito? «E’ l’inconscio di tipo erotico che entra in gioco: rapporti non convenziona­li, a forte rischio, trasgressivi, di to­tale abbandono ma anche di totale ambiguità. Il massimo è un partner dalla sessualità 'artificiale', non co­dificabile. E’ come avere un rappor­to con un essere mitologico o una divinità. Il trans, infatti, è espressio­ne di quest’epoca: esiste grazie alla chirurgia e alla chimica. Fisicamen­te un uomo costretto a prendere sempre ormoni femminilizzanti, ma con una voce che non perde mai del tutto il timbro maschile. Donne con genitali maschili, uomini con genitali femminili. E, quando si fan­no operare, uomini (85%) e donne (15%) che restano del proprio sesso pur avendo genitali dell’altro creati artificialmente... ». Sesso «virtuale» che si materializza? Una Second Life trasgressiva diventata reale? «In un certo senso. Il concetto è che con un trans si va oltre la trasgressio­ne ». Spesso si aggiungono droga e alcol. «È la ricerca della scarica d’adrenalina che si ottiene quando si sfida la morte. La stessa sensazio­ne che si ha un attimo dopo essere sopravvissuti indenni a un inciden­te mortale. Ecco, al sesso trasgressi­vo si aggiungono i rischi di un in­contro in strada (dove si è più espo­sti), della cocaina, dell’alcol. E far­maci come il viagra. L’obiettivo è raggiungere il massimo del piacere e del pericolo da cui si può anche non uscire indenni». Un cocktail psico-fisico-farmacologico da ri­schio estremo.

E nel passato, quali le sesso-tra­sgressioni? «La bisessualità c’è sem­pre stata. Forse l’amore con gli ado­lescenti, i pochi ermafroditi e le or­ge tra gli antichi romani. Ma le orge sono in aumento anche oggi. Non dimentichiamo il sesso con gli ani­mali: trasgressivo al punto di essere oggetto di leggende mitologiche». E seguendo le parole di Morelli, tor­nano alla mente alcuni affreschi ero­tici pompeiani e i racconti di divini­tà che prendevano sembianze ani­mali, di festini orgiastici tra ninfe, centauri e fauni, la magia erotica delle sirene...

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Sanità La «quota rosa» in camice sta per raggiungere i maschi. E intanto li supera in qualità
Il medico migliore? Una donna
di Franca Porciani

Un’ampia ricerca inglese ha dimostrato i vantaggi della medicina al femminile: meno errori, meno controversie, maggior capacità di lavorare in gruppo. I direttori di grandi ospedali italiani confermano

Professione Una ricerca inglese evidenzia il primato delle «dottoresse»
Cerchi un bravo medico? Speriamo che sia femmina
Meno contenziosi e reclami, più lavoro di équipe

Sul piano privato, il tempo libero è ridotto all’osso, va po­co al cinema e a teatro. Ma non se ne lamenta. Come la maggior parte delle donne che hanno una famiglia e un lavoro oggi in Italia.
La relazione La donna è attenta ai bisogni del paziente più del collega maschio

Prima l’ingresso in sordi­na, poi un’entrata in scena con la forza di un uragano. Le donne medico sono aumenta­te di giorno in giorno fino a diventare oggi quasi le prota­goniste di un mestiere un tempo soltanto maschile; era­no il 57 per cento dei laureati in medicina nel 2000, il 62 per cento nel 2006 (ultimi da­ti disponibili).

Altro che quote rose: sia­mo di fronte ad un’invasione in rosa, che oltre a femmini­lizzare la professione, la sta ingentilendo, «migliorando». Sì perchè le donne in camice funzionano meglio dell’analo­go dell’altro sesso: lo rivela in modo clamoroso (ed inaspet­tato) una ricerca del diparti­mento di valutazione clinica del Servizio sanitario britanni­co, l’NCAS, acronimo di Na­tional Clinical Assessment Service , su un campione di 5.000 medici e dentisti sia ospedalieri che di medicina generale, condotta nell’arco degli ultimi otto anni.

Nell’indagine sono stati re­gistrate le segnalazione arri­vate all’amministrazione del­l’ospedale o dell’ health di­strict (il corrispettivo della nostra Asl) in seguito a con­tenziosi sulla qualità delle prestazioni, sugli errori clini­ci (di diagnosi o di trattamen­to) sui comportamenti all’in­terno dell’équipe, su eventua­li sospensioni dal lavoro e non ultimo, sul livello di gra­dimento dei pazienti. Proble­mi coniugati quasi esclusiva­mente al maschile, visto che le segnalazioni riguardano 3635 uomini e un modesto numero di donne: soltanto 873. La popolazione femmini­le col camice nel servizio sani­tario inglese rappresenta il 40 per cento della forza lavoro, ma prende «brutti voti» un modesto 20 per cento.

Una promozione importan­te, tale da catturare l’attenzio­ne della rivista Lancet che in uno degli ultimi numeri ospi­ta una riflessione dal titolo si­gnificativo: «Le donne sono medici migliori?», che è, in re­altà, un inno ad un cambia­mento che sembra portare so­lo novità positive.

«Sono dati che non mi me­ravigliano — commenta Or­nella Cappelli, presidente del­l’associazione italiana donne medico, specialista in micro­biologia ed igiene di Parma — ; la donna è per talento e per esperienza storica molto più capace dell’uomo di orga­nizzare il lavoro di gruppo; estranea al concetto di gerar­chia tipicamente maschile, ha una maggiore propensio­ne alla collaborazione. Un at­teggiamento che si rivela pro­ficuo in una struttura com­plessa come quella ospedalie­ra, ad esempio nella gestione del personale paramedico».

«C’è poi la grande capacità femminile — prosegue la dot­toressa Cappelli — di essere caregiver , come si dice oggi, ovvero di prendersi cura de­gli altri: il che spiega come mai la donna medico spesso (non sempre, peraltro) ha una maggiore attenzione del collega maschio ai bisogni complessivi del malato e alla comunicazione». Il che si tra­duce in una capacità di ascol­to e di dialogo che allenta le tensioni e riduce le incom­prensioni: ecco perché sono un numero decisamente infe­riore i reclami dell’utente nei confronti del medico donna rispetto al collega maschio.

Attenzione però a non fare della donna il «santino» della professione medica, sottoli­nea Giovanna Vicarelli, pro­fessore di sociologia alla fa­coltà di economia dell’univer­sità politecnica delle Marche, autrice di Donne di medicina (Il Mulino editore), la prima analisi attenta di questo nuo­vo fenomeno: «È un universo variegato quello delle donne medico, con differenze signi­ficative fra le generazioni: la creatività sul piano organizza­tivo e l’attenzione al paziente nella sua globalità caratteriz­zano il modo di lavorare nelle donne fra i quaranta e i cin­quant’anni; molto meno quel­lo delle più giovani, fra i tren­ta e i trentacinque, che sem­brano assai più competitive rispetto a quelle che le hanno precedute: puntano soprattut­to alla carriera». Ma qual è l’identikit della donna medi­co oggi in Italia? La risposta viene da due ricerche condot­te nel 2004 (una su 1160 me­dici di medicina generale, l’al­tra su quelli iscritti all’Ordine di Torino, Cosenza e Ancora, 714 per la precisione) e ripor­tate nel libro della professo­ressa Vicarelli: in media ha un’età fra i 43 e i 48 anni, pro­viene da una famiglia di ceto medio-alto, è sposata con un uomo che appartiene alla sua stessa classe sociale, ha figli. Ha intrapreso la professione perché animata dalla passio­ne per la ricerca scientifica (ma in Italia avrà incontrato non poche delusioni) e da una forte predisposizione alla cura degli altri, ha scelto una specializzazione dell’area me­dica. Svolge l’attività profes­sionale per lo più in forma di­pendente, senza ricoprire in­carichi manageriali a livello di organizzazione sanitaria, è iscritta alle società scientifi­che e al sindacato.

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Le specializzazioni
Soprattutto pediatre, ginecologhe e psichiatre Ma la cardiologia e la chirurgia restano maschili
di F. P.

Quali specialità scelgono le donne oggi? Sono ancora pediatria, anestesia e radiologia come trent’anni fa? Sì e no: la «fotografia» delle scelte emerge molto bene dai dati FNOMCeO (federazione degli ordini dei medici) del 2007 rielaborati dalla sociologa Giovanna Vicarelli.

La strada ancora più popolare è quella della pediatria, seguita dalla ginecologia e ostetricia; in terza posizione troviamo la psichiatria, in quarta l’endocrinologia e le malattie del ricambio, in quinta la dermatologia.

L’anestesia, molto gettonata dalle donne in passato, ora si posiziona all’ottavo posto.

Restano le «cenerentole delle scelte femminili» la cardiologia, la chirurgia generale, l’ortopedia e l’urologia. Ma qualcosa sta cambiando: le donne urologo in Italia oggi sono duecento e all’ultimo congresso nazionale della società della disciplina, hanno organizzato un simposio sulle tematiche della relazione medico-paziente. In questo caso, senz’altro non semplicissima.

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Roma Policlinico Tor Vergata
E’ vero, anche qui sono più precise
di F. P.

Il policlinico Tor Vergata di Roma è giovane: nato pochi anni fa, nel 2002, ha al suo interno una forte componente di universitari. Visto che la scalata del­le donne alle cattedre in medicina è ancora di là da venire, universitari e prevalentemente maschi: 367 contro 237 donne. «D’altro canto abbiamo divisioni come la cardiochirurgia, l’ortopedia e l’urologia, che sono ancora poco familiari alle donne» spiega Mauro Pirazzoli, direttore amministrativo dell’ospe­dale romano. Le richieste di risarcimento per errore clinico sono più di 30 all’anno, «per un totale di 186 dal 2002 ad oggi» precisa Pirazzoli.

Se sono veri anche per l’Italia i dati comparsi nella ricerca condotta in Gran Bretagna, queste ri­chieste sono per la stragran­de maggioranza legate a er­rori compiuti da medici ma­schi. È così?

«In effetti, lo sono nel 90 per cento dei casi. Nel 53 per cento si tratta di errori chirur­gici, nel 34 per cento di dia­gnosi sbagliate, nel 13, di erro­ri nella terapia. Le donne con il loro modestissimo 10 per cento fanno una bella figura, non c’è dubbio. E la fanno an­che nell’ambito dei provvedimenti disciplinari av­viati sia per gli ospedalieri che per gli universitari: le donne sono lo zero assoluto, non vengono mai richiamate».

Ma ci sarà pure un ambito dove anche le donne peccano?

«Sì: nei reclami scritti degli utenti. Nel 2008 ce ne sono stati 26, 12 riferiti a medici donne, 8 ad uomi­ni, 6 senza distinzione di genere. Ma c’è un motivo: nel 90 per cento dei casi i reclami vengono da perso­ne che non sono rimaste soddisfatte del trattamen­to in pronto soccorso, dove lavorano molte più don­ne che uomini. Allora il confronto diventa impari!».

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Criminalità Il libro di uno psicoterapeuta svela la logica mafiosa
I segreti della mente di Cosa Nostra
Dalla «famiglia» al training dell’affiliato: le relazioni in un mondo di potere e di paura
di Angelo de’ Micheli

Le vere priorità
La psicologia della mafia tende soprattutto alla conquista del comando.
Il guadagno è secondario

Nei giorni scorsi si è molto parlato di mafia, di 'papelli', di patti e di pretese, di ipote­si di trattative di non bellige­ranza tra mafia e Stato. Tutto ciò ha riportato l’attenzione sul complesso fenomeno ma­fioso e sulla logica che sostie­ne e regola i comportamenti mafiosi. E non deve stupire che si possa parlare di 'logi­ca' e anche di psicologia del­la mafia. Ne parliamo con il professor Girolamo Lo Ver­so, ordinario di psicoterapia all’Università di Palermo, che da 16 anni studia il fenome­no mafioso e che sul tema ha pubblicato quattro libri, il più recente dei quali si intito­la 'Territori in controluce, ri­cerche psicologiche sul feno­meno mafioso', edito da Franco Angeli.

«La psicologia in ambito mafioso — spiega Lo Verso — studia non solo l’identità del mafioso, ma anche il suo sistema emotivo e relaziona­le. Lo fa, per esempio, condu­cendo colloqui con persone mafiose o che con queste hanno avuto contatti, come giudici, per esempio, o come amministratori e commer­cianti » . «Ad usare la psicologia per capire la mafia fu per primo il giudice Giovanni Falcone; si potrebbe dire che Falcone abbia inventato un metodo 'psicologico-clinico', perché cercava di comprendere il fe­nomeno cogliendolo dall’in­terno, dal punto di vista dei suoi protagonisti — prose­gue l’esperto —. Lo stesso ab­biamo fatto noi, intervistan­do collaboratori di giustizia, giudici antimafia, avvocati, poliziotti, psicoterapeuti sici­liani, calabresi e napoletani che hanno seguito nel tempo componenti di famiglie ma­fiose o casi di persone in odo­re di mafia. E abbiamo appro­fondito il tema analizzando il testo dei colloqui fatti da per­sone mafiose e le perizie psi­chiatriche condotte su di lo­ro, nonché in momenti di ela­borazione dei problemi con gruppi di cittadini di comuni ad alta densità mafiosa, con lo scopo di attivare degli in­terventi psico sociali.

«La nostra ricerca ci ha por­tato, così, ad alcune conclu­sioni. Per esempio, che Cosa Nostra, tramite l’idea di 'fa­miglia' in senso allargato, che si prende cura dei suoi af­filiati, costruisce dalla nasci­ta i suoi adepti, sia uomini che future mogli di mafiosi. Lo fa con una forte trasmis­sione di 'valori', arrivando a quello che si potrebbe defini­re un concepimento fonda­mentalista del bambino co­me futuro mafioso, sottopo­nendolo via via a un training che comincia dalla prima ado­lescenza e che si sviluppa in lunghe fasi di 'carriera'. Una carriera che comprende gli omicidi. Tutto ciò, serve per costruire un perfetto kil­ler- robot agli ordini dell’orga­nizzazione » .

«Cosa Nostra — aggiunge Lo Verso — ha altresì stru­mentalizzato vecchi codici si­ciliani, quali la famiglia e l’onore, al fine di costruire una perfetta azienda crimina­le. Cosa Nostra è la famiglia e così, infatti, si definisce. Nel­la n’drangheta, invece, fami­glia d’origine e mafiosa coin­cidono » . C’è, quindi, una realtà pseudofamiliare che sostitui­sce quella sociale? «Molto di più — dice l’esperto —. Dalle nostre ricerche emerge che la mafia ha come unico vero obiettivo il potere — 'cum­manari è megghiu di futtiri', comandare è meglio che fare sesso, è il detto —, e solo se­condariamente il denaro. Per la relazione affettiva e la ses­sualità c’è, invece, totale di­sinteresse. In sostanza, si trat­ta di un mondo che vive di paura, e che comanda attra­verso la paura, prima ancora che con la violenza. Basti pen­sare all’approccio per intimi­dire i commercianti a cui chiedere il pizzo. Cosa Nostra non è solo un’organizzazione criminale, è una sorta di 'sta­to' che impone il suo control­lo, le sue leggi. E che tratta con pezzi dello Stato e con po­teri politici».

Chi ha fatto parte di questa realtà può modificare la sua prospettiva di vita? «E’ molto difficile. Non è possibile, per esempio, fare una psicotera­pia approfondita ed analitica in un mondo addestrato al­l’omertà, con individui che non riescono a realizzare un’introspezione vera nem­meno quando entrano in cri­si. Noi abbiamo lavorato so­prattutto come supporto psi­coterapeutico ai familiari di collaboratori di giustizia, ai familiari di latitanti, e con persone nelle cui famiglie era­no presenti elementi non ma­fiosi ».

Che cosa dobbiamo aspet­tarci? «E’ importante render­si conto che la mafia è ormai un problema di tutti, a livello nazionale e internazionale— conclude Lo Verso —. E’ co­me avere a che fare con una grande ragnatela, costruita per di più con una trama con­solidata da anni. Una trama ancorata nell’assenza di una struttura sociale organizzata e improntata alla illegalità. Questi vuoti hanno permes­so di creare nel corso di nu­merosi decenni una gerar­chia di valori e di relazioni al­ternative tutt’ora forti e, per­ciò, ancora oggi difficili da sradicare».

sabato 24 ottobre 2009

l’Unità 24.10.09
Il congresso nazionale l’intervento di monsignor Crociata sottolinea il «diritto-dovere»
L’invito della Cei per analogia con quanto è già previsto per il servizio di leva e per i medici
Pillola abortiva, i vescovi chiedono obiezione di coscienza per i farmacisti
Obiezione di coscienza per i farmacisti chiamati a vendere la pillola del giorno dopo o la Ru 468. La chiede la Cei con il segretario monsignor Crociata. Secca reazione degli organismi di categoria. Critiche dalla sinistra.
di Roberto Monteforte

Diritto alla libertà di obiezione di coscienza anche per i farmacisti chiamati a vendere prodotti che possono interrompere la vita, causare aborti come le pillola del giornodopoolaRu486.Anomedei vescovi italiani lo chiede il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata che ieri, intervenendo al congresso nazionale dei farmacisti cattolici dedicato proprio al riconoscimento per questa categoria del «diritto-dovere» all’obiezione di coscienza. Dalla Conferenza episcopale è giunto qualcosa di più di un semplice incoraggiamento a questa battaglia. Un convinto invito ad andare sino in fondo nella loro richiesta di avere una legge che lo consenta e un messaggio chiaro rivolto al mondo politico: consentitelo.
LA CHIESA INVOCA L’«ANALOGIA»
Parte dal fatto che l’aborto è considerato «un delitto» e che l’obiezione di coscienza è consentita in due soli casi, «legati al principio di non uccidere»: per chi è chiamato al servizio di leva obbligatorio e, con la legge 194 che ha introdotto l'interruzione di gravidanza, per il medico e per il personale sanitario coinvolto, ma non per il farmacista. Ora con la «pillola del giorno dopo», accanto all'aborto chirurgico è stato introdotto anche un prodotto farmacologico (nell'eventualità che l'embrione si sia formato, ndr) che lo consente e quindi «per analogia deve spettare anche ai farmacisti lo stesso diritto all'obiezione». «L'obiezione di coscienza è un diritto che deve essere riconosciuto anche ai farmacisti, permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali come l'aborto e l'eutanasia», ha scandito monsignor Crociata. «In Italia ha spiegato il problema è avvertito soprattutto riguardo alla vendita della cosiddetta pillola del giorno dopo». Ma deve riguardare anche i farmacisti ospedalieri che potrebbero somministrare la Ru 486. Argomenta il segretario della Cei. Cita prese di posizione del Comitato nazionale di bioetica, ma non convince l'Ordine dei Farmacisti e di Federfarma. «Massimo rispetto per le preoccupazioni morali della Cei», gli risponde il presidente dell' Ordine Andrea Mandelli ma «credo che questo sia un tema delicato e che debba essere regolamentato da una legge che chiarisca nei dettagli gli ambiti di applicazione all' interno dei quali deve operare un responsabile donne del partito. Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista-sinistra europea denuncia «l'intollerabile ingerenza della Chiesa». Opposte le reazioni dell’Udc che con il presidente, Rocco Buttiglione ha pienamente accolto la richiesta di un diritto all'obiezione di coscienza dei farmacisti, mentre l'on. Luca Volontè, ha accusato il Pd di «intolleranza verso i diritti più intimi e sacri di libertà».❖
LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
www.chiesacattolica.it

l’Unità 24.10.09
Il nazi-pallone
Croci uncinate e teste rasate, boom in curva
Dilagano negli stadi i «tifosi» dell’estrema destra a macchia di leopardo dalla capitale al nord-est Il caso degli Ultras Italia al seguito della Nazionale
di Simone Di Stefano

Trucchi. Le scritte fasciste a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli
Simboli. Gli skinhead ascoltano musica Oi, un derivato dal punk rock
Tendenza. Cani sciolti che cantano canzoni del Ventennio e sniffano cocaina
Controllo I capi ultras sono padroni della curva tra soprusi e intimidazioni

Ultras e Skinheads, «nazismo da stadio» lo chiamano alcuni. Un mix che nelle curve italiane è più che mai attuale. Partiamo dalla curva nord dell'Olimpico di Roma, in occasione di Lazio-Parma del 23 settembre scorso, per denunciare un fenomeno che tuttavia riguarda tutta la penisola e affonda le sue radici in passati ormai remoti. Saluti romani, teste rasate, sciarpe con croci celtiche, in molti si confondono e li si riconosce solo quando sfoderano cori e insulti razzisti. Bevono, fumano spinelli, stanno «fatti» di cocaina, la spacciano a volte, si definiscono «cani sciolti» e i loro cori ricalcano le stesse note delle canzoni del Ventennio, in una parola: odiano. Per lo più sono ragazzi giovani, che si avvicinano all'estrema destra fin dai primi anni di scuola superiore, più perché fa tendenza, perché digrignando i molari ci si fa rispettare. All'Olimpico di Roma gli Irriducibili Lazio comandano le sorti della curva nord e ne gestiscono l'economia. Fin dai rapporti con la società, che soltanto nella recente gestione Lotito ha deciso di utilizzare il pugno duro. Così il patron viene fischiato e insultato, ma non soltanto perché la squadra va male. La nuova sfida ora, per tutti, è la tessera del tifoso. Dall'altra sponda del Tevere è con i Boys e Opposta Fazione, entrambi gruppi romanisti ora confluiti negli Ultras Romani, che affonda le radici il tifo fascista. Cambia il nome del gruppo ma le facce sono quelle, salvo qualche perdita per diffide o arresti. Il loro motto è «Libertà per i detenuti». In passato diversi esponenti di Opposta Fazione, alcuni provenienti dal Fuan, furono indagati per appartenenza ai Nar.
Passata è la tendenza a minacciare giornalisti o imporre presenze nelle trasmissioni radiotelevisive locali, ma riguardo a soprusi e a sentirsi padroni della curva, quella resta. Come in Roma-Fiorentina dello scorso 20 settembre, quando per mettere in atto un esemplare sciopero del tifo i capi ultras hanno imposto all'intero settore della curva sud di restare fuori dello stadio per la prima mezz'ora. Chi non voleva non poteva, quelli che hanno chiesto di entrare in tribuna sono stati insultati e presi a spinte. Sciopero che hanno messo in atto anche gli Irr Lazio durante il primo tempo di Lazio-Parma. Per tutta la prima frazione di gara nessuno poteva cantare, altrimenti veniva insultato o minacciato.
Si sentivano soltanto gli “buu” contro il keniota del Parma, Mariga. Le scritte fasciste sulle bandiere, per lo più sigle, sono a pennarello per evitare i sequestri ai tornelli, mentre le svastiche e le croci celtiche vengono camuffate in perversi intrecci di uncini. Nella curva nord laziale per esempio non è raro individuare bandiere con aquile del Terzo Reich piuttosto che il classico aquilotto biancoceleste. Tante anche le giovani ragazze lungo i muretti delle curve. In passato non sono mancati neanche casi di sfruttamento e prostituzione minorile. In Italia, secondo alcune stime, sarebbero oltre sessanta le sigle ultras legate ad ambienti della destra estrema.
E le aree maggiormente interessate sono Lombardia, Lazio e Veneto. Spesso dietro le facce dei capi ultrà si celano personaggi di spicco degli ambienti politici locali e nazionali. E la domenica tutti nell'arena dell'odio, ad incitare Mussolini, inveire contro «negri» ed «ebrei». Gli slavi automaticamente diventano tutti «zingari». Nella Verona del leghista Tosi dietro all'estremismo dei gruppi ultras di destra c'è lo zampino del Veneto Fronte Skinhead, mentre nella curva sud juventina sia il gruppo dei Fighters, nato dalle ceneri del gruppo di estrema destra dei Drughi, che quello dei Viking, entrano allo stadio con le celtiche. A Bologna, la frustrazione dopo l'accoltellamento di un ragazzo magrebino da parte di Mods bolognesi e Boys romani, nel 1997, fece sbottare l'allora tecnico del Bologna, Ulivieri, chiedendo la chiusura della curva. A Milano, se storicamente la curva rossonera era di sinistra, dopo lo scioglimento della Fossa dei Leoni hanno prevalso gruppi di destra radicale come i Commandos Tigre e le più temute Brigate rossonere, mentre la curva nord del Meazza, quella dell'Inter, è appannaggio degli Irriducibili Inter, forse il gruppo più cruento e anche il meglio organizzato in Italia.
Una loro frangia, gli Skins, sin dal nome che li rappresenta non fa mistero della sua ideologia e lo si desume dal loro simbolo, il cane Muttley che sovrasta una croce celtica. Gli skinheads curvaioli amano l'alcool e ascoltano musica Oi, un derivato del punk rock. Il loro film preferito è Febbre a 90 ̊ di David Evans. «Irriducibili Inter...Quelli che il calcio te lo danno in bocca», uno dei motti del gruppo; «Cuore nero sangue», invece, esplica l'una e l'altra tendenza. Gli Irriducibili Inter nascono nel 1988 e a seguito di vari spostamenti e rimescolamenti con altri gruppi della curva (Viking, Snakes e Shining), si fondono nel 1997 con Zona Nera, diventando il gruppo più influente della curva Nord milanese. Nemici in campionato ma alleati in Nazionale, l'ultimo fenomeno di tifo nero organizzato è targato “Ultras Italia”. Il gruppo organizzato che affonda le sue radici nei Viking Italia, embrione del nucleo di tifo nero nato dall'incontro di più frange: Verona, Trieste, Udine, Treviso, Brescia, alle quali hanno fatto seguito gli Irriducibili Lazio, alcune costole del tifo nero romanista e altri dal sud Italia.
Seguono la Nazionale all'estero vestendo maglie nere col fascio Littorio e dispongono di una mappatura di tifoserie amiche e nemiche. Nell'ottobre 2008, in occasione di Bulgaria-Italia, si sono distinti per cori fascisti, celtiche, fischi all'inno bulgaro e vari episodi di rissa con i tifosi di Sofia. Per l'occasione si scomodò anche l'ambasciata italiana e per poco non si sfiorò il caso diplomatico.❖

Repubblica 24.10.09
I disperati di France Telecom
di Francesco Merlo

Fanny si imbottiva di farmaci. Joël si sentiva perseguitato Jean Paul si è buttato dal ponte dell´autostrada E ancora, Alain il bretone, Guy il poeta, Lyonel che si è accoltellato davanti ai colleghi. Venticinque suicidi in pochi mesi: ecco come si muore di crisi
Le ultime lettere scritte ai parenti "In quell´azienda non servo a niente Meglio farla finita"

Fanny era ingrassata di 25 chili forse perché ingoiava antidepressivi da quando le era morta la mamma, ma da qualche mese era proprio disperata perché aspettava il terzo trasferimento: «A France Telecom non sapevano più dove metterla». Aveva scritto al padre: «Preferisco morire che ricominciare ancora con un altro capo. « Ed era uscita di casa portandosi dietro la carta di donatrice d´organi, «non si sa mai».
Il palazzotto di rue Médéric non è di quelli in vetro e acciaio, ma in mattoni marrone e la zona è elegante. Senza permesso mi fanno sbirciare nell´ufficio: non hanno toccato nulla, dagli scuri pudicamente abbassati penetra la luce umida e stanca dell´autunno di Parigi, ed è come entrare in un museo delle cere, hanno perso vita il tavolo, il computer, le carte e le penne biro: «Si sedeva lì, con le gambe incrociate e guardava fuori come si guarda verso il mare aperto». A cento metri c´è il parco Monseau, nella vicina rue Daru c´è la bellissima cattedrale ortodossa Alexandre Nevski, e dalla finestra di Fanny si vede la scuola alberghiera. Gli allievi cuochi con il lungo cappello bianco da cucina hanno sentito il tonfo e si sono voltati: «Aveva freddo, ha chiesto una coperta e se l´è tirata sopra il viso». Sino alla fine voleva nascondersi. E´ morta in ospedale. Lascia il gatto Frimousse ed il coniglio Zebulon.
In Francia si parla molto di suicidio ma pochissimo dei suicidi, delle loro storie di disperazione e di coraggio: le iniziali, un´età, la funzione, lo stress aziendale. Neppure all´Observatoire du stress et des mobilités forcées è stato facile censire questi 25 morti di France Telecom e i 15 tentati suicidi. Il tentativo più brutale e spettacolare è sicuramente quello di Lyonel Dervin che, in riunione, quando è arrivato il suo turno si è alzato in piedi e si è messo a parlare dei disagi e del malessere dei dipendenti. E mentre parlava, lucidamente e senza tremori, ha tirato fuori il coltello e se l´è infilato nel ventre. Lo hanno salvato e si è fatto intervistare accanto alla moglie, nel salotto di casa con le pareti rosse, in tuta e pantofole, e somigliava maledettamente a se stesso, voglio dire all´immagine che ci si fa di uno che ha tentato il suicidio: alto, stropicciato, il volto grigio e lo sguardo stupefatto di fanciullo innocente dietro gli occhiali. Ma si sa: suicidio e tentato suicidio sono malattie diverse. Di sicuro in Francia chi sopravvive finisce in televisione e ha diritto al nome e al cognome sui giornali. Dicono invece che il silenzio è la maniera migliore di rispettare i morti. E tengono sotto sorveglianza il fenomeno sociale come si tiene sotto sorveglianza il pentolino di latte che scalda al fuoco.
Mai suicidi non hanno scrittori e dunque non ci saranno poeti per l´antillano Joël che a 44 non sognava più di diventare ballerino anche se raccontava di essersi esibito con un gruppo trasgressivo al "Coconut club" e nessuno gli credeva. Era sempre in collera perché a France Telecom si sentiva perseguitato diceva dai razzisti ma tutti sapevano che stava male da 15 anni e infatti le parole gli morivano in gola mentre i suoi occhi sembravano sempre chiedere aiuto. Viveva al sesto piano, nella banlieue, un divano letto di stoffa, pavimento di lineolum... Ha mandato per mail il suo "testamento": parole di odio per France Telecom. Si è gettato giù ed è morto sul colpo.
Come i morti dell´influenza A, i suicidi di France Telecom non hanno diritto al "coccodrillo" né alla colonna di amabile prosa funeraria che i quotidiani consacrano agli scomparsi, ma solo agli istogrammi e alle astrazioni nei libri dei sociologi: "Lavorare per morire", "Orange Stressata", "Suicidio e lavoro: che fare?". E ancora: "Sanità mentale e lavoro", "La nuova fabbrica", "La depressione degli oppressi". Deve essere vero che la libreria è il luogo dove la realtà è come vorresti che fosse, ordinata, linda, riflessiva, elegante e dunque rispettosa. Ma nessuna risposta trova in libreria una domanda cieca come questa: «Perché Jean Paul prima di uccidersi aveva comprato un biglietto del cinema?».
Jean Paul ha fermato la sua vettura sull´autostrada A41 e si è gettato da un ponte. Aveva 51 anni, una moglie e due figli. Sulla vettura hanno trovato una letteranella quale accusa France Telecom: «Mi hanno ucciso loro, rendendomi la vita impossibile». Al funerale la famiglia non ha voluto i dirigenti della società né i giornalisti. La vedova ha solo detto che Jean Paul era depresso perché lo avevano trasferito, degradandolo da tecnico a centralinista. I suoi amici raccontano che Jean Paul a 51 anni pensava di essere rimbambito. RicordaGilbert: «Diceva che quando uno rimbambisce mica se ne accorge. E io gli rispondevo: ma quando se ne accorge vuol dire che non rimbambisce». E´ il suicida numero 24. In tasca aveva quel biglietto di cinema. «Signore, io sono Jean Paul, quello che voleva vedere il film di Tarantino».
Forse Jean Paul potrebbe mettersi alla testa di questi suicidi per attraversare tutti insieme, come immaginava Fabrizio De Andrè, «l´ultimo vecchio ponte» verso il Paradiso. De Andrè tentava di celebrare, contro la grettezza del tempo (era il 1968) la dignità dei «morti per oltraggio/che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio». Compose dunque la dolente poesia del suicidio, che magari può diventare anche una forma estrema di lotta di classe, come ora lasciano intendere i sociologi non solo francesi, ma è soprattutto sfida all´ordine delle cose, atto contro la metafisica, dichiarazione di guerra a Dio e alla natura, riscatto dell´individuo concreto rispetto all´assoluto.
Sicuramente su quell´ultimo vecchio ponte transita Nicholas che a soli 28 anni si è impiccato nel suo garage a Besançon dopo aver cercato di telefonare alla sua ragazza. Con lei si sentiva infelice ma era molto in collera con France Telecom anche perché il capo e i colleghi «non rispondono mai quando si ha bisogno di loro». Secondo la procura, leggendo la lettera che Nicholas ha scritto prima di morire «è impossibile stabilire un legame formale di causalità tra i suoi problemi professionali e il suo gesto fatale». Di sicuro aveva smesso di ridere di sé e di frequentare il cliccatissimo sito di autoderisione che diverte i ragazzi che si sentono infelici come si sentiva lui, e capita spesso che i ragazzi si sentano infelici. Si chiama viedemerde.fr (vitadimerda.fr), tre milioni di visitatori al mese, uno dei più grossi affari della pubblicità sul web in un paese dove ogni anno i suicidi sono più di diecimila (24 su ogni centomila abitanti di sesso maschile, contro gli 8 dell´Italia). Anche Nicholas, come tutti, lasciava il suo aneddoto di (mala) vita su questo sito come ormai si dice di losers, di perdenti (in Inghilterra il sito corrispondente si chiama fuckmylife.co.uk). Gli aneddoti di Nicholas erano di questo genere: «Oggi incontro un amico per strada. Non mi vede e allora gli telefono. Lui tira fuori il portatile, guarda chi chiama, sospira e non risponde». O ancora: «Oggi è il mio anniversario e i miei colleghi di France Telecom mi hanno offerto un deodorante». Ecco: «Signore, io sono Nicholas, quello che per vivere si autoderideva».
Di Alain invece gli allievi scout ora dicono che «forse un giorno sarebbe diventato antico ma mai vecchio»: dipingeva i paesaggi della sua Bretagna, aveva 48 anni, tre figli, era un ingegnere di Lannion, magnifico borgo medievale attraversato da un fiume e dominato dalle rovine di un castello. Alain aveva il sorriso fiero e allegro dei bretoni, amava le barche e le maree, ma da quando avevano sospeso la sua promozione a Rennes «era completamente a terra». Si era ammalato, da luglio non andava più al lavoro. Si è impiccato di mattina quando non c´era nessuno in casa, ha dato un gran calcio allo sgabello... Gli scout gli hanno dedicato pensieri, lacrime, poesie: per loro era "il pittore", «innamorato delle nostre coste, della pietra e della sabbia... a te dobbiamo la nostra creatività, ci hai insegnato la fantasia... Ma chi eri tu alla fine? Nostro padre? Nostro amico? Nostro fratello? Eri un artista a tempo pieno...».
Un artista come Guy che ha scritto e mandato ai colleghi, ai superiori e ai clienti, una poesia mail sulla morte che voleva darsi: «Fine di me». Riposa sulla collina di France Telecom il tecnico che, mandato al centro di ascolto, si era messo a fare l´apprendista idraulico perché voleva cambiare mestiere. E sull´ultimo ponte c´è ovviamente Jean-Michel, 53 anni, che usava troppo il telefono, anche mentre mangiava, e dunque lo ha fatto anche mentre moriva. Dopo avere chiamato mezzo mondo si è messo a parlare con la collega Anne-Marie, le diceva che si sarebbe ucciso e lei cercava di tirarlo su. Finché Anne-Marie ha sentito il fischio del treno sotto il quale Jean-Michel si buttava.
Il fratello e la sorella di Fanny, la ragazza che sta in cima a questa nostra Telecom river, ma soprattutto il padre, Guy, 63 anni, non perdona France Telecom: «Ci sono epiloghi che sono scritti nel prologo». E´ un po´ troppo dire che «è stata uccisa dalla Francia, è morta per la Francia» come hanno scritto i suoi colleghi in un cartello, ma nessuno può ridurla a due iniziali e al segmento di un diagramma. Ci sono lacrime che devono essere versate: "E se non piangi ora, di che pianger suoli?". In rue Médéric hanno pianto in tanti e in tanti hanno gridato quando Fanny ha toccato terra, anche gli impiegati dell´agenzia di viaggi, quelli della chiesa svedese, i giapponesi del ristorante "Sol Levante": piccoli gridi soffocati, gridi nervosi, gridi che sono diventati singhiozzi. Forse una vera Telecom River dovrebbe cominciare con l´elogio del pianto e della sofferenza gridata, sino al velo nero e alla madri meridionali che urlano. L´amore ha le sue leggi biologiche: si può piangere in privato o in pubblico, al balcone o con la testa sotto il cuscino, ma ci sono momenti in cui "bisogna" piangere. Il pianto e il grido di dolore sono civiltà e dignità, anche nel paese dell´anonima suicidi.

Corriere della Sera 24.10.09
Ritratto del Paese Lo storico inglese giudica i mali della politica e le ragioni della cronica debolezza della nostra democrazia
La maledizione dei guelfi e ghibellini
Insicurezza e astratto idealismo: alle radici dell’eterno estremismo italiano
di Christopher Duggan

Nel XIX secolo
Decenni di aspri conflitti hanno fatto sì che i patrioti risorgimentali apprezzassero l’unità e temessero la diversità Anni Novanta Il vuoto ideologico seguito alla perdita di credibilità del Pci è stato occupato dall’estrema destra e dalle forze della Chiesa

Se da Parliament Square, nel centro di Londra, si va verso l’abbazia e il palaz­zo di Westminster, e si prosegue poi passando davanti alle statue di ex pri­mi ministri come Robert Peel, Benjamin Disra­eli, Lord Palmerston, David Lloyd George e Winston Churchill, arrivando a Whitehall, a Downing Street, al Cenotafio e alla Banque­ting Hall — da cui in una fredda mattina di gennaio del 1649 uscì re Carlo I per essere giu­stiziato — a ogni passo si è portati a ricordare quanto l’autorità dello Stato britannico e dei suoi rappresentanti si fondi sulla sua storia. Gordon Brown e gli altri 645 membri del Parla­mento debbono il loro potere alla storia alme­no quanto agli elettori.

Viene però da fare anche un’altra considera­zione. Se i re come Carlo I sostenevano di esse­re legittimati per diritto divino, le democrazie liberali, nell’era della sovranità popolare, capi­rono che per ottenere il consenso dell’elettora­to la sacralità doveva essere sostituita da qual­cos’altro: da una visibile dimostrazione che si sta perseguendo il bene pubblico. Nel Diciotte­simo secolo la politica britannica era notoria­mente corrotta; nel Diciannovesimo secolo fu­rono introdotti dei rigidi codici di imparzialità e probità e i personaggi pubblici che non vi si adeguavano erano costretti a dimettersi. Se quei codici non erano costantemente applica­ti — e soprattutto se si aveva l’impressione che non lo fossero — l’autorità dello Stato si affievoliva.

Dato che la storia non è stata particolarmen­te benevola nei confronti dell’Italia moderna — che ha vissuto due drammatiche fratture negli anni 1922-25 e 1943-46 — sembrerebbe fondamentale che la Repubblica dovesse salva­guardare l’autorità dello Stato esercitando una costante vigilanza sulla reputazione delle isti­tuzioni. Ma questo non è avvenuto. Nella mag­gior parte delle democrazie sarebbe stato im­possibile per Berlusconi diventare primo mini­stro, per il suo conflitto di interessi; e l’opinio­ne pubblica avrebbe da tempo costretto a di­mettersi una persona indagata per tante pre­sunzioni di reato. Come si è giunti a questa si­tuazione, apparentemente anomala? E perché il clima politico è oggi così pericolosamente lacerato e avvelenato?

Per rispondere a queste domande gli storici possono provare a partire dalla problematica condizione del liberalismo in Italia. Il liberali­smo si fonda sul rispetto delle opinioni altrui e sulla convinzione che gli interessi della socie­tà nel suo insieme sono garantiti al meglio se si dà spazio a una pluralità di voci. La storia italiana del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo non è stata però caratterizzata dalla tol­leranza, dalla varietà e dall’empirismo, ma da una ricorrente tendenza all’estremismo, scatu­rita da un misto di insicurezza e di astratto ide­alismo. Anche la paura del passato ha giocato un ruolo: secoli di aspri conflitti tra città-stato e tra fazioni come i Guelfi e i Ghibellini hanno fatto sì che i patrioti italiani del Diciannovesi­mo secolo apprezzassero «l’unità» e temesse­ro la «diversità».

Mazzini era in fondo un intransigente: la formula «Dio e il popolo» era profondamente illiberale. Molti democratici condividevano il suo estremismo ideologico, anche perché cre­devano che il modo migliore di mobilitare le masse cattoliche fosse quello di offrire loro l’alternativa di una «religione della nazione». Alcune figure del Risorgimento sperarono che dopo il 1860 la libertà potesse creare un clima di pluralismo e di moderazione, ma presto si resero conto che questa era un’illusione peri­colosa, a fronte dell’inflessibile sfida del catto­licesimo e del repubblicanesimo.

Nel Ventesimo secolo il clima di polarizza­zione si accentuò. Mentre in Gran Bretagna, Francia e Germania tra il 1900 e il 1920 il socia­lismo perse molta della sua forza rivoluziona­ria, in Italia l’intransigenza dell’estrema sini­stra si intensificò. Venne poi il fascismo. Se si leggono i diari di persone comuni degli anni Venti e Trenta si è sorpresi dalla quasi totale assenza di riferimenti al liberalismo o di no­stalgia per quel periodo — perfino dopo che l’inconsistenza del fascismo, nel 1940-42, era divenuta brutalmente evidente. Leggendo il diario di Piero Calamandrei si è ugualmente colpiti da un uomo consapevole di essere una voce che grida nel deserto.

Quanto sono cambiate le cose dopo il 1945? La Costituzione del 1948 era un inno al liberali­smo e alla democrazia, ma la misura in cui ne­gli anni seguenti ne sono stati violati sia lo spi­rito che la lettera fa pensare che si trattasse in buona parte di una dichiarazione di intenti, se non di un’aspirazione alla riconciliazione o a mitigare la riprovazione internazionale. In re­altà nei successivi quarant’anni la cultura poli­tica italiana è di nuovo stata dominata dal­l’estremismo. A partire dagli anni Cinquanta il Pci e la Dc sembrarono prendere le distanze da Mosca e dal Vaticano, ma questo non dimi­nuì il clima di incomprensione, odio e timore reciproci — sentimenti che potevano essere ci­nicamente manipolati da persone prive di scrupoli.

La caduta del Muro di Berlino sembrò apri­re la strada a una cultura politica nuova e per qualche tempo, all’inizio degli anni Novanta, parve che nella psiche della nazione si verifi­casse un cambiamento epocale. Ma le culture politiche non si rinnovano facilmente. La per­dita di credibilità del Pci diede la possibilità agli eredi dell’estrema destra e alle forze della Chiesa — la cui relazione con il liberalismo era inevitabilmente sempre stata molto proble­matica — di occupare il vuoto ideologico. Le vecchie ideologie politiche sembravano scom­parse, ma la lingua dell’intolleranza, del trion­falismo e del vittimismo continuava a risonare in orecchie storicamente più sensibili alle pre­se di posizione che al dibattito.

Paradossalmente l’estremismo ideologico porta in sé la tendenza a creare decadimento morale. Dopo il 1860 le deboli forze del liberali­smo cedettero rapidamente, per mantenere il potere, alla tentazione di chiudere un occhio sull’illegalità — sulla violenza di Stato, sui bro­gli elettorali, sulle alleanze con mafiosi e ca­morristi. La brutalità e, in seguito, la diffusa corruzione dello Stato fascista si erano assicu­rate un largo consenso usando il linguaggio della «fede» rivoluzionaria. E quanti scandali della Prima Repubblica sono stati giustificati dall’elettorato e dalle élite politiche appellan­dosi all’idea di una guerra di religione contro le forze del male?

Tra le vittime di questa situazione ci sono le istituzioni pubbliche — istituzioni la cui repu­tazione di imparzialità, nel Diciannovesimo se­colo, era considerata da Stati liberali come la Gran Bretagna vitale per la propria credibilità in un’epoca in cui vigeva la sovranità popola­re. Se le istituzioni diventano (o vengono accu­sate di essere diventate) strumenti di parte per la promozione di una causa ideologica, che credibilità possono avere agli occhi dell’insie­me degli elettori? In queste circostanze, deve forse sorprendere che la gente cominci a rivol­gersi, con buona dose di disperazione, a un «uomo» che sostiene di offrire qualche spe­ranza di salvezza?

(Traduzione di Maria Sepa)

Repubblica 24.10.09
Calder. L´ingegnere bambino che fece volare la scultura
di Barbara Briganti

La passione per il circo lo portò a realizzare piccoli lavori semoventi con il fil di ferro
L´esposizione racconta anche il personaggio con le fotografie scattate da Ugo Mulas

ROMA Forse è l´artista più riconoscibile del novecento. Le sue macchine aeree snodate e colorate - talvolta enormi, altre tascabili -, i cosiddetti mobiles che, appesi a fili invisibili, si muovono con leggerezza danzante grazie ad un sistema perfetto di equilibri calcolati, sono diventati familiari al punto di avere perfino ispirato una forma di giocattolo.
Oggi queste stesse immense farfalle o se vogliamo ironici sistemi planetari, o ancora ninnoli incommensurabili o macchine surrealisticamente inutili, o comunque si possano definire i mobiles, vengono ospitati negli algidi spazi pseudoclassici del Palazzo delle Esposizioni (la mostra si è aperta ieri, ed è curata da Alexander S.C. Rower). Alexander Calder, lo scultore americano nato nel 1898 e morto nel 1976, era uomo di straordinaria simpatia e di infinita arguzia e avrebbe senza dubbio apprezzato molto la cornice di questa grande mostra dedicata all´insieme della sua opera. Forse proprio grazie a quella sua disponibilità all´umorismo, alla sua leggendaria gentilezza e generosità, Calder fu ritenuto un uomo fortunato ed apparentemente felice. Venne al mondo in una famiglia di artisti. Ebbe la fortuna di disporre, sin dall´età della scuola elementare, di uno studio proprio. Lì il piccolo Alexander, come tanti altri bambini, cominciò a ritagliare paperelle articolate. Solamente, le sue erano già di metallo.
Questi inizi promettenti non gli impedirono di affrontare serissimi studi di ingegneria. E come ogni bravo ragazzo americano, si misurò con un´infinità di mestieri stravaganti. Le esperienze che contribuirono alla maturazione della sua sensibilità artistica risalgono agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Ci fu un episodio al quale Calder attribuì una particolare importanza. Un giorno, in navigazione su un cargo al largo del Guatemala, vide bilanciarsi ai due estremi dell´orizzonte la sfera infuocata del sole nascente e quella candida della luna piena. Fu una visione che non smise mai di citare come sua personale fonte di inspirazione. Il secondo stimolo alla sua creatività venne dall´incarico di seguire e documentare gli spettacoli del circo Barnum. La passione per il circo lo portò a creare una quantità di piccole sculture semoventi: clowns, belve, ballerine e domatori, realizzati con filo di ferro e "objets trouvés", quel meraviglioso materiale a metà strada tra la spazzatura e i tesori infantili da cui traevano ispirazione i surrealisti. Con queste figurine, che conservava in due valigie di fibra, dava vita ad uno spettacolo, di cui restano antichi filmati, che riscuoteva immenso successo tra i suoi nuovi amici. Perché nel frattempo, siamo verso la metà degli anni Venti, Alexander Calder si era trasferito a Parigi dove frequentava Mirò, Léger, Duchamp, Man Ray.
Fu in quel periodo che incominciò a costruire le sue prime sculture: si trattava di disegni tridimensionali, in cui il filo metallico ritorto era simile ad una penna che non si stacca mai dal foglio. Con una leggerezza che sembra disegnare l´aria, Calder dà forma ad un singolare bestiario nel quale spicca una straordinaria Lupa, completa di Gemelli, in filo di ferro e pomoli di legno, che giustamente troneggia nella sede della mostra.
I mobiles nacquero poco dopo, grazie ad una visita nello studio di Piet Mondrian: uno stanzone con i muri decorati da centinaia di cartoncini colorati che il pittore olandese usava per studiare le sue composizioni. «Si potrebbero fare muovere» suggerì Calder. «Non ce n´è bisogno, si muovono da soli» rispose freddamente Mondrian. Ma Calder, ormai totalmente catturato dall´arte astratta, li riprodusse, li ritagliò nella lamiera metallica, usando quegli stessi colori primari, e li fece muovere. In un primo momento grazie a dei meccanismi a manovella, una intuizione in largo anticipo sull´arte cinetica, poi solamente con l´uso sapiente di correnti d´aria e dell´equilibrio dei pesi.
Sospese o poggiate a terra le sculture che Calder continuò a creare tra il 1931-´32 e la fine della sua vita, assomigliano a lenti e dignitosi animali preistorici - almeno così li vedeva uno dei suoi estimatori, il filosofo Jean Paul Sartre – ad astrolabi futuribili, a sistemi solari, a sciami di volatili. Oggetti che decorano con ammiccante umorismo atrii di musei, aereoporti, aule magne universitarie in tutto il mondo. Giocosi e ironicamente inquietanti si ergono come un inno alla perenne infantile meraviglia che sottende la creazione dell´artista.
Ai mobiles, che devono il loro nome a Duchamp, seguirono pochi anni dopo gli stabiles. Questa volta fu Jean Arp a battezzarli. Stabiles sono strutture metalliche che nel corso del tempo Calder immaginò sempre più grandi e comunque destinate a luoghi aperti. Anche in questo caso il protagonista è lo spazio, o se vogliamo l´aria. In realtà non sono più le sculture che si muovono, cambiando aspetto a seconda della posizione assunta, bensì sono le città e i loro abitanti a penetravi dando loro vita. Tra le prime, anzi la prima in assoluto, nel 1962, fu il Teodelapio di Spoleto, di cui a Roma si può vedere una delle maquettes di studio. Questa altissima struttura che ricorda veramente una sorta di immane monumento equestre, tra le zampe del quale scorre il traffico cittadino, si arricchisce di una storia, raccontata dallo stesso Calder. Il quale in un primo momento aveva chiamato semplicemente "l´oggetto" quella grande scultura. Fu solo in un secondo tempo, quando vide un´immagine ottocentesca che raffigurava un leggendario duca longobardo con un copricapo irto di punte, tale Teodelapio, duca di Spoleto, che Calder ribattezzò il monumento.
Fu un´artista dell´aria, del gioco, della percezione istantanea, del movimento, dell´eterna meraviglia infantile davanti all´apparente casualità delle forme. Ma fu altresì un uomo che lasciò dietro di sé una traccia di umanità fuori dall´ordinario.
Al Palazzo delle Esposizioni (da poche settimane guidato dal presidente Emmanuele Emanuele) l´artista e il personaggio sono anche raccontati da una mostra di fotografie scattate, nel corso degli anni, da Ugo Mulas. Un lungo, commovente e bellissimo lavoro biografico su questo protagonista del Novecento.

Repubblica 24.10.09
Il diario segreto di Jünger
Hitler è solo una marionetta
di Ernst Junger

Così lo scrittore e filosofo, che militò nella Wehrmacht, descrisse la fine del nazismo e la disfatta dei suoi carnefici
"Il nostro mondo non ha solo zone e periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta"
"In fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto"

Anticipiamo un brano tratto da "La capanna nella vigna. Gli anni dell´occupazione, 1945-1948" di , in uscita oggi da Guanda

Kirchhorst, 1° maggio 1945
In serata la radio ha dato la notizia della morte di Hitler, oscura come tutto ciò che lo circonda. Avevo l´impressione che quell´uomo, come pure Mussolini, da tempo fosse solo una marionetta mossa da mani altrui, da forze estranee. La bomba di Stauffenberg non gli ha tolto la vita, ma di certo gli ha tolto l´aura; lo si avvertiva anche nella sua voce. Un attacco simile, mosso tra l´altro da un uomo di un´antica casata, me l´ero aspettato sin dall´inizio - come pure il fatto che potesse avere effetto solo fallendo. L´avevo descritto nei dettagli sin dal 1939, nel personaggio del principe Sunmyra.
Si dice che il grand´uomo si sia avvelenato. Ma questo sarebbe in contrasto con la visione che Ziegler mi raccontò a Parigi, credo nel 1942. La sua compagna aveva visto Hitler giacere a terra in un luogo buio, dalla bocca gli scorreva un rivolo di sangue. Anni prima, aveva visto l´incendio del grande dirigibile a Lakehurst nell´ora siderale.
Se ripenso a quella seduta, mi prende un senso di sventura. Fu al Café de la Paix.
[* * *]
Kirchhorst, 7 maggio 1945
A quanto dicono i russi, hanno ritrovato a Berlino i corpi del dottor Goebbels e della sua famiglia. Sono morti avvelenati, per loro stessa mano.
Ho ripensato alle varie tappe della nostra conoscenza. Incominciò col disaccordo di Spandau ed è finita sei settimane fa, quando vietò alla stampa di menzionare il mio compleanno.
Franke, che in seguito morì al comando di una cannoniera sudamericana, continuava a insistere perché partecipassi alle riunioni di Goebbels, sebbene sapesse quant´erano esigue le mie aspettative. Una volta però andammo insieme a Spandau. Non può essere stato molto tempo dopo l´arrivo del «Dottore» a Berlino. Fu oltremodo istruttivo, tuttavia, il modo in cui il piccolo coboldo tenne in pugno la massa radunata laggiù - in larga parte «comunisti» - , seppe scuoterla e renderla furiosa. Una cosa così dalle nostre parti, specialmente in Prussia, non s´era mai vista. I socialdemocratici, in confronto, erano scienziati illuministi. I comunisti videro bene che cosa si erano lasciati sfuggire in quell´occasione, e cercarono di imitarlo, ma arrivarono troppo tardi. In quell´occasione sentii anche il discorso in cui Thälmann si appellava a Ulrich von Hutten e alla libertà tedesca. Dieci anni prima, all´epoca della Corazzata Potëmkin, la cosa avrebbe fatto furore. (...)
La voce del dottore non era sgarbata e aggressiva. Era modulata con finezza, sottilmente affilata, disciplinata. Non era la voce dei grandi tribuni, del tutto certi del loro compito, della loro missione. Il discorso che pronunciava aveva un timbro ponderato: lasciava intuire studi accurati, coltivati durante ascetiche veglie notturne. Era la stessa voce dei pubblicitari, delle «macchine per vendere» che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili. Le immagini erano superficiali, ma dotate di una certa grossolana efficacia, tipo «la fronte e il pugno» invece di «la testa e la mano». L´insieme era al di sopra del livello dell´uditore, ma non al di là della sua capacità di comprenderlo. Il dottore era anche vestito con cura, indossava un abito blu, di buona fattura. Anche quello però faceva senza alcun dubbio parte del personaggio; in una famiglia di meccanici, potrebbe presentarsi così «il fratello che ha studiato».
Fu una delle cerimonie in cui si scoprì la società senza classi, e la cosa determinò un forte slancio, un grande afflusso di energia. La si avvertiva ribollire nell´ampia sala. Per quel che riguarda la forza elementare, la materia prima della storia e il suo dispiegamento, lo spettacolo era piuttosto sorprendente. Quanto alla propaganda e alle sue tecniche, erano molto più avanti dei borghesi, come pure dei comunisti, ancora profondamente radicati in uno stato classista. Dal punto di vista ideologico, invece, emergevano solo i luoghi comuni dei XIX secolo, riarrangiati in modo nuovo, o forse nemmeno, bensì semplicemente ricondotti alla loro origine, perché la democrazia si era in primo luogo riconosciuta nel loro carattere nazionale. In tal senso restavano un passo indietro rispetto al marxismo. Ma in fondo non importava poi così tanto di che cosa parlasse quel vispo ometto. A tratti avevo l´impressione che egli, come un maestro di cappella, dirigesse il coro con lievi cenni della mano. E me ne andai prima della fine della riunione.
[* * *]
Kirchhorst, 23 maggio 1945
(...) La radio annuncia che Himmler è stato arrestato camuffato da un travestimento. Forse, per la prima volta, non era travestito - il comandante supremo delle SS nei panni di un vagabondo, di un accattone con un occhio guercio. Sic transit gloria. Mentre lo catturavano, ha morso la fiala di acido cianidrico che teneva in bocca. Che simili bonbon facessero parte del corredo, del nécessaire dei veri potenti, ormai privi di qualsiasi scrupolo, mi era chiaro fin dall´inizio.
Ciò che invece mi ha sempre colpito in modo singolare in questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un´aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre la porta un ispettore in prepensionamento.
Tutto questo però mette bene in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. E´ il progresso dell´astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere. Chi già non se ne accorga negli atri delle stazioni ferroviarie, o nel keep smiling delle commesse, si muove come un daltonico nel nostro mondo. Esso non ha soltanto certe zone e certi periodi spaventosi: è spaventoso fin dalle fondamenta.
C´è poi anche un altro aspetto che dà da pensare. Le idee pallide, l´ordinaria bruttezza di simili figure sono la spia del ruolo subalterno che è loro assegnato nel regno del male. Il pensiero che milioni di persone perdano la vita perché un signor Himmler aziona le leve della macchina della morte è un´ottimistica illusione. Se la neve cade per un intero, lungo inverno, basta la zampa di una lepre a far scendere a valle una slavina.
Non sappiamo che cosa c´è dall´altra parte. Nel momento in cui la vittima varca le porte della gloria, dimentica il suo carnefice; se lo lascia alle spalle come un fantasma dell´orrore, un usciere infilato nella livrea del tempo.

(© Klett-Cotta 1958, 1979
J.G Cotta´sche
Buchhandlung Nachfolger
GmbH, Stuttgart
2009 Ugo Guanda
Editore S.p.A.
Traduzione di
Alessandra Iadicicco)

venerdì 23 ottobre 2009

Repubblica 23.10.09
Cervello. Di destra o di sinistra? Ora lo decidono le neuroscienze
di Enrico Franceschini

David Cameron ha voluto esperti comportamentali e della mente come consiglieri in vista delle elezioni Recenti studi hanno infatti collegato le reazioni "cerebrali" con le scelte progressiste o conservatrici degli individui

Esistono basi neurologiche della morale: dall´altruismo alle virtù civiche

Di sinistra si nasce o si diventa? La medesima domanda, naturalmente, vale per chi è di destra. E la risposta è duplice: di destra, o di sinistra, si nasce e si diventa. La novità è che nuove ricerche sul cervello e sullo studio del comportamento umano vengono incorporate nell´analisi politica, per capire cosa spinge un elettore a votare in un senso o nell´altro. L´annuncio che David Cameron, leader dei conservatori britannici e, stando agli attuali sondaggi, prossimo primo ministro dopo le elezioni della primavera 2010, ha arruolato tra i suoi consiglieri degli esperti di neuroscienza e di economia comportamentale è un segnale dell´importanza che questo genere di studi hanno assunto nelle sfide elettorali del ventunesimo secolo. «Lo facevamo anche noi», rivela Matthew Taylor, ex-collaboratore di Tony Blair a Downing street.
In un articolo per il mensile Prospect Taylor racconta che negli anni del blairismo il governo laburista prendeva come modello l´Homo economicus: «Offri alla gente una scelta e la gente agirà nel proprio interesse, e nel fare ciò farà anche funzionare il sistema in modo migliore per tutti». Ma oggi, sostiene il politologo, la scienza ha fatto un ulteriore passo avanti, permettendo ai politici di analizzare le caratteristiche che spingono un cervello a simpatizzare per la sinistra piuttosto che per la destra, o viceversa. Finora, afferma, i dibattiti sulla natura umana erano ristretti ai comportamenti criminali e ad altre patologie. Adesso le reazioni "cerebrali" vengono studiate anche in relazione alle scelte politiche.
Prendiamo il Cervello Progressista. «L´altruismo ci rende felici», osserva Taylor. «Una comunità solidale crea persone migliori. Ineguaglianza e discriminazione ci privano di questo potenziale. Una buona guida ci aiuta a compiere decisioni sagge per il lungo termine». Morale: se una persona si sente sicura del proprio destino e assistita da uno stato e da una comunità solidali e ben funzionanti, è più propensa a votare per una politica che si identifica con questi valori. L´analisi del Cervello Conservatore secondo Taylor parte dalla constatazione che la morale ha una base neurologica: un forte istinto di giustizia che il nuovo leader dei Tory intende sfruttare per fare avanzare il suo progetto di un "conservatorismo sociale", intenzionato ad apparire moderno sulle questioni sociali e sulla scienza pur riaffermando i valori tradizionali della destra in difesa delle virtù civiche, delle istituzioni e delle tradizioni.
Il precedente tentativo di superare la divisione ideologica destra-sinistra e individuare un nuovo interlocutore era stato la Terza Via, l´idea del sociologo Anthony Giddens che ha portato al potere il New Labour di Blair in Gran Bretagna e forze riformiste in tutta Europa. Il concetto che i cittadini d´oggi non si vedono come oggetti di religioni, partiti, ma come autori delle proprie vite. L´ingresso della neuroscienza in politica, prevede Matthew Taylor, rappresenta un ulteriore passo avanti. Non bastano gli spin-master, gli esperti di manipolazione mediatica, per vincere le elezioni: servono anche gli psicologi del comportamento umano.

Repubblica 23.10.09
Parla Piero Ignazi, politologo: "Bisogna essere molto cauti nell´utilizzare queste teorie. Ma siamo solo all´inizio"
"Sono ricerche recenti, aspettiamo i risultati"
di Massimiliano Panarari

Piero Ignazi, politologo del Mulino e docente a Bologna, cosa pensa dell´intreccio tra neuroscienze e politica?
«Sarei molto cauto al riguardo perché siamo solamente ai primi passi di questo tipo di studi. A distanza di trent´anni dal loro debutto, avvenuto sostanzialmente con il libro Sociobiologia di Edward O. Wilson, pubblicato nel ´75 e che suscitò un enorme dibattito negli Usa, queste ricerche non forniscono ancora risposte convincenti o attendibili».
Anche in prospettiva?
«Per cultura e formazione, sono un razionalista, fiducioso nella scienza e, quindi, attendo qualcosa di più solido a questo proposito, perché al momento non disponiamo di alcuna certezza sulle determinanti biologiche dei comportamenti sociali (e, dunque, politici)».
Intravede qualche pericolo in questi approcci di "neuropolitica"?
«Sì, decisamente. Questo dibattito è, di fatto, una riproposizione di un´eterna querelle, la contrapposizione tra determinismo e libera scelta. Pensare che un ambito di scelte dell´agire umano possa venire determinato da fattori strutturali interni all´individuo e alla sua mente, significa, per esempio, negare l´influenza del contesto e dell´ambiente esterno. Col rischio, quindi, di prestarsi a strumentalizzazioni (come ai tempi di Wilson) o, peggio ancora, di consegnarci a un futuro assai fosco, alla Minority Report».


Repubblica 23.10.09
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
Violenza, errori e memoria Cosa sono stati gli anni ´70
di Simonetta Fiori

"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l´invito dell´autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione

Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall´«epica brigatista» e ancora da «un´ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo). Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell´impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell´evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell´impegno politico. Allo sguardo del testimone s´affianca così la lente dello storico, fino a produrre un´analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un´occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l´anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia. Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l´accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l´opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell´invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l´esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l´inganno» insite nella segretezza. Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.
L´ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l´universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all´esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l´assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene». Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l´invito dello storico, ma l´esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti». Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d´una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.

l’Unità 23.10.09
Intrigo internazionale per Vasari Il governo vende l’archivio ai russi
di Alessandro Bindi

Con una laconica lettera il ministro ai Beni culturali annuncia la vendita per 150 milioni di euro Sotto choc il Comune di Arezzo: ́Chiediamo la verifica degli atti alla Procura della Repubblica

Giorgio Vasari, adesso, parla russo. Gli atti formali di vendita sono in fase di traduzione ma con 150 milioni di euro il suo archivio di Arezzo è passato ad una società russa. L'hanno venduto gli eredi della famiglia Festari che ne deteneva la proprietà. La notizia è arrivata improvvisa ad Arezzo con una laconica lettera di notifica che il ministero dei beni culturali si è premurato di inviare al sindaco Giuseppe Fanfani. Immediata e accorata la reazione del primo cittadino, sotto choc per una notizia che arriva alla vigilia delle celebrazioni del cinquecentenario della nascita di Vasari che cade il 2011: «Il governo ne impedisca il trasferimento tuona Fanfani -. Un paese civile non vende la sua memoria e il suo patrimonio culturale». Nella lettera del ministero, all' amministrazione aretina è stato comunicato anche che la documentazione, costituita da carte autografe di Giorgio Vasari e dei più importanti personaggi contemporanei tra cui Michelangelo Buonarroti, è stata ceduta per 150 milioni di euro sempre che l'ente entro 90 giorni non sia intenzionato ad esercitare il diritto di prelazione. Come dire, se il Comune di Arezzo vuole mantenere l’Archivio in città sa come fare: si fruga in tasca e sborsa 150 milioni di euro.
DALL’ENEIDE AI PAPI
Del fantomatico acquirente russo si sa pochissimo. Si parla di una società della quale però non è stato reso noto il nome. Il prezioso archivio conservato in via XX settembre ad Arezzo, contiene anche la corrispondenza tra Giorgio Vasari e Annibal Caro, traduttore in endecasillabi sciolti dell'Eneide di Virgilio, della Poetica di Aristotele e delle Lettere a Lucilio di Seneca; inoltre ci sono anche molte epistole tra Vasari e i papi del tempo e tutta una serie di carteggi che offrono spaccati su aspetti molto interessanti come la società e l'economia della sua epoca. Tra i documenti compaiono anche i bilanci e i conti economici delle proprietà agricole di Giorgio Vasari. «Siamo di fronte ad un evento disastroso, da scongiurare in ogni modo sottolinea il sindaco -. È gravissimo che il ministero, attraverso la Soprintendenza archivistica della Toscana, abbia comunicato in maniera fredda e burocratica a noi, alla Provincia di Arezzo ed alla Regione Toscana questo fatto gravissimo. Non solo: ci ricorda che abbiamo a disposizione novanta giorni per esercitare il diritto di prelazione. Questo come se un Comune di dimensioni come Arezzo potesse avere a disposizione 150 milioni di euro sull’unghia».Per scongiurare la perdita di questo importantissimo patrimonio Fanfani ha scritto al presidente del consiglio, a Bondi, a Putin attraverso l’ambasciata a Roma, ai parlamentari eletti nel collegio aretino, a Claudio Martini, all'assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi. La deputata Pd Donella Mattesini si è subito detta pronta ad attivarsi in sede parlamentare. Aggiunge Fanfani: «Mi meraviglia che questa vicenda sia stata gestita in maniera puramente burocratica come si trattasse della vendita di un qualsiasi bene sottoposto a tutela, nel silenzio generale». Il sindaco è pronto a tutto: «Se l’Archivio passerà di mano l'amministrazione comunale è intenzionata a chiedere una verifica degli atti e delle procedure alla Procura della Repubblica».
Il mistero si è poi infittito in serata, quando è giunta una nota del ministero dei beni culturali, che annuncia di aver informato l'Autorità giudiziaria. Questo perché l’operazione «ha evidentemente sollevato numerose perplessità, non solo per l'enormità della somma pattuita ma soprattutto perchè l'archivio Vasari, chiunque ne sia il proprietario, è soggetto ad un vincolo pertinenziale e pertanto non può essere spostato dal luogo in cui attualmente è collocato ad Arezzo». E ancora: «Al di là di ogni allarmismo, la notifica dell’atto al Comune costituisce un semplice adempimento previsto dal Codice dei beni culturali».●

l’Unità 23.10.09
Radio radicale lancia l’allarme: rischiamo di chiudere

L’emendamento. 202 senatori di tutti i partiti: rinnovare la convenzione

«Attenzione, incombe il pericolo dell’eliminazione di Radio Radicale», avverte una mezza pagina a pagamento pubblicata ieri dal Foglio. La questione è reale. Il 21 novembre scade la convenzione tra il ministero dello Sviluppo e la radio per la trasmissione delle sedute del Parlamento. È dal 1976 che l’emittente assicura il servizio, dal 1994 è in vigore la convenzione che attualmente garantisce 10 milioni di euro lordi l’anno. I radicali si sono mobilitati, e hanno raccolto oltre 200 firme di senatori di vari partiti (tutto il gruppo del Pd, tranne la teodem Baio Dossi, ma ci sono anche vari big del Pdl come Nania, Baldassarri e Vizzini) in calce a un emendamento alla Finanziaria che garantisce il rinnovo della convenzione. «Il ministro Scajola ha dato delle rassicurazioni ma in Senato non si sa mai come va a finire...», spiegano i radicali. «Anche il sottosegretario Letta si è formalmente impegnato nella stessa direzione, e ci è stato autorevolmente assicurato che lo stesso presidente del Consiglio è d’accordo». Eppure Pannella, Bonino e il direttore Bordin non si fidano. «La situazione si è un po’ ingarbugliata, per questo lanciamo un appello al governo». Nel Pdl, del resto, non mancano voci contrarie, come Alessio Butti: «Dal 1998, data di inizio dei programmi di Gr Parlamento, Radio Radicale risulta un “doppione” e come tale viene meno la necessità del finanziamento da parte dello Stato». E proprio in risposta a Butti, nel dicembre 2008, il viceministro alle Comunicazioni Romani aveva spiegato che «allo scadere della convenzione verranno considerate la piena operatività della rete Rai dedicata ai lavori parlamentari e le esigenze di riduzione della spesa». A Butti replica Pannella: «Calunnie e menzogne, lo sfido a un confronto pubblico». A.C.

Corriere della Sera 23.10.09
Democrazia liberale e scontro di civiltà
Quel che resta della «fine della storia» vent’anni dopo la caduta del Muro
di Francis Fukuyama

«Stiamo assistendo non solo alla fine della Guerra fredda, o al superamento di un particolare periodo della storia postbellica, bensì alla fine della storia come tale: ovvero, siamo al termine dell’evoluzione ideologica dell’umanità, dove inizia l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come la forma finale di governo umano». Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, quali aspetti del mio saggio «La fine della storia e l’ultimo uomo» (Rizzoli) restano ancora validi? E che cosa è cambiato?

Il punto fondamentale — che la democrazia liberale rappresenta la forma finale di governo — regge ancora.

Ovviamente esistono alternative, come la Repubblica islamica dell’Iran o l’autoritarismo cinese. Ma non credo che molti siano convinti che queste sono forme di civiltà superiori ai governi che esistono in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e nelle altre democrazie sviluppate, tutte società che assicurano ai loro cittadini un alto livello di prosperità e di libertà personale.

La questione non è se la democrazia liberale rappresenti o meno un sistema perfetto, né se il capitalismo sia esente da problemi. Dopo tutto, siamo stati colpiti da questa immensa recessione globale proprio per il fallimento dei mercati svincolati da ogni regola. La vera questione è se sia emerso un qualsiasi altro sistema di governo negli ultimi vent’anni a scardinare la mia tesi. E la risposta resta negativa.

Il mio saggio fu scritto nell’inverno del 1988-89, appena prima della caduta del Muro di Berlino. A mio avviso tutto il pessimismo riguardante la nostra civiltà, in seguito ai terribili eventi del ventesimo secolo, con i suoi genocidi, gulag e guerre mondiali, non rappresentava il quadro completo. In realtà, il mondo era percorso da molte tendenze positive, tra cui la nascita della democrazia laddove erano esistite dittature. Samuel Huntington la chiamava «la terza ondata».

Tutto prese avvio nel Sud dell’Europa negli anni Settanta, con il ritorno alla democrazia in Spagna e Portogallo. Nello stesso periodo, si assistette alla fine di quasi tutte le dittature in America del Sud, eccetto a Cuba. Poi ci fu il crollo del Muro di Berlino e l’apertura dell’Europa dell’Est.

Ancora oltre, la democrazia ha rimpiazzato i regimi autoritari in Corea del Sud e a Taiwan. Siamo passati da un’ottantina di democrazie nei primi anni Settanta a 130 o 140 due decenni più tardi.

Certo, non c’è stata una progressione lineare. Oggi assistiamo a una specie di recessione della democrazia. Ci sono state inversioni di tendenza in Paesi importanti, come la Russia, dove vediamo il ritorno di un duro sistema autoritario senza rispetto della legalità, oppure in Venezuela e in altri Paesi dell’America latina governati da regimi populisti.

È chiaro che il grande slancio verso la democrazia ha toccato i suoi limiti. In alcuni luoghi, oggi si verifica una reazione antidemocratica. Ma questo non significa che la corrente più consistente non sia ancora verso la democrazia.

È stato Samuel Huntington a fornire il principale argomento contro la teoria della «fine della storia». Lungi dalla convergenza ideologica, sosteneva, si assiste a uno «scontro di civiltà», nel quale cultura e religione si trasformano nei principali focolai di conflitto dopo la Guerra fredda. Per molti, l’11 settembre e le sue conseguenze hanno confermato la tesi di Huntington di uno scontro tra Islam e Occidente. Ma nel complesso, occorre capire se le caratteristiche culturali sono talmente radicate da escludere ogni possibilità di sviluppare valori universali o una convergenza di valori. Qui sta la questione. E su questo punto sono in disaccordo con lui.

La tesi di Huntington è che la democrazia, l’individualismo e i diritti umani non sono concetti universali, bensì riflessi di una cultura che affonda le radici nel cristianesimo occidentale. Storicamente è vero, ma occorre aggiungere che questi valori si sono diffusi ben al di là delle loro origini.

Sono stati accolti da società provenienti da tradizioni culturali molto diverse. Basta guardare gli esempi del Giappone, Taiwan, Corea del Sud e Indonesia.

Le società fondate su radici culturali diverse hanno condiviso questi valori non certo perché sono i valori degli Stati Uniti, ma perché funzionano anche per loro. Forniscono il meccanismo della responsabilità di governo e consentono alle società di allontanare i leader poco affidabili quando la situazione peggiora. È un enorme vantaggio a disposizione delle società democratiche, e la Cina ne è sprovvista. In questo momento la Cina può contare su leader competenti, ma prima aveva Mao. Non c’è nulla che possa impedire, in futuro, l’ascesa di un nuovo Mao se non si instaura qualche forma di responsabilità democratica.

È impossibile avere un buon governo senza responsabilità democratica. E credere altrimenti è un’illusione pericolosa.

testo raccolto da Nathan Gardels traduzione di Rita Baldassarre © Global Viewpoint

Corriere della Sera 23.10.09
Uruguay José Mujica favorito nelle elezioni di domenica
Pepe il «tupamaro» l’ex guerrigliero che vuole la presidenza
«Essere socialdemocratico è una codardia»
di Rocco Cotroneo 



RIO DE JANEIRO — «Dammi retta Pepe, mettiti una giacca. Non c’è niente di male. Ne ho per­se tre di elezioni perché giravo in camicia, poi alla quarta ho vin­to ». José Mujica, per tutti Pepe, ha accettato il consiglio dell’ami­co Lula. Smesse le guayaberas cu­bane e i giubbotti in stile country, ha tenuto duro solo sulla cravat­ta. Ma se domenica prossima — come tutto lascia pensare — vin­cerà le elezioni presidenziali in Uruguay, non lo si potrà accusare di trasformismo.

Nell’America Latina dei leader con un’altra vita alle spalle — l’operaio, il vescovo, il parà — Mujica si definisce con orgoglio un tupamaro, e il nome del cele­bre movimento guerrigliero degli anni Settanta figura tuttora sulla scheda elettorale. Ovviamente, a 74 anni suonati, non è più un com­battente in armi, attività per la quale ha pagato un prezzo terribi­le durante la dittatura militare in Uruguay: quindici anni di galera, buona parte in una cella lugubre sotto terra, e la minaccia quotidia­na di venire ammazzato se i suoi compagni in libertà avessero ripre­so a combattere.

Non ha bisogno di test di demo­crazia, Mujica, e non solo perché la sua coalizione, il Fronte Ampio, governa già l’Uruguay da quattro anni, con il moderato Tabaré Vázquez. «Ho già riconosciuto la codardia di essere diventato social­democratico », scherza. È stato de­putato, senatore e ministro, nel settore dove ne capisce di più, l’agricoltura e l’allevamento. Atti­vità che ancora costituiscono la ba­se produttiva del piccolo Paese su­damericano, appena tre milioni di abitanti, «in un angolo importan­te del mondo all’incrocio tra alcu­ni fiumi», definizione sua. Dice che l’Uruguay ha tutte le condizio­ni per trasformarsi in un gioielli­no del Sud del mondo, un Paese agro-intelligente, una sofisticata fattoria sotto la linea dell’equato­re, come quella dove vive a mez­z’ora di strada da Montevideo. Del denaro e dei consumi, perso­nalmente non gli importa nulla. Il mio sogno di vita? Pescare, cu­rare le piante e sedermi all’om­bra di un albero. Quando fu elet­to deputato, rinunciò allo stipen­dio e continuò a vendere fiori ai mercati. Per settimane dovette penare per convincere gli uscieri del Parlamento a farlo entrare nel garage con una vecchia moto, sempre sporca di fango.

Ma se il gusto retrò aiuta il per­sonaggio, attrae per coerenza e ser­ve a creare nei discorsi buone me­tafore contadine, sono le odierne passioni di Mujica a sostenere la sua candidatura. La scienza, la tec­nologia, lo spirito imprenditoria­le, le idee nuove. Arrivando a ca­valcare persino i luoghi comuni che dipingono l’Uruguay come un Paese sonnolento e triste, e i suoi concittadini attaccati alle certezze e alla rassegnazione di un buon impiego statale. «Abbiamo tutti bi­sogno di una scossa, ci vorrebbe­ro un po’ di emigrati stranieri nei nostri campi. I nostri fanno ben poco», ammette. E ce n’è anche per i dirimpettai del Rio de la Pla­ta: «Gli argentini? Un popolo di idioti, isterici e paranoici, che ama­no farsi governare da ladri e mafio­si », disse in un’intervista che poi uscì in un libro, qualche mese fa. Da Buenos Aires volarono fulmini e lui, già candidato, dovette fare marcia indietro con la solita scusa delle «parole estratte da un conte­sto » e chiedendo scusa. Ma la vec­chia rivalità tra i due Paesi, che si allarga dal tango al futebol passan­do per le vacche, male non cade in politica, e l'episodio è stato veloce­mente archiviato. Per domenica, il dubbio pare es­sere solo uno, se «Pepe» ce la farà o meno al primo turno. I sondaggi gli attribuiscono il 44-45% dei vo­ti e manca poco per evitare il bal­lottaggio. Il suo rivale di centrode­stra Luis Lacalle è fermo al 30-31%. 

La lotta alla dittatura 
Il nome Tupamaros: da Tupac Amaru, l’ultimo leader degli Indios del Perù Guerriglia Protagonisti di azioni di guerriglia negli anni ’60 e inizio dei ’70.
L’azione più clamorosa: il rapimento e l’uccisione dell’agente Cia Dan Mitrione
Carcere Sottoposti a torture e carcere duro durante la dittatura Svolta democratica Nel 1985, con la fine del regime, si trasformarono in Movimiento de Participación Popular 
Ci chiamavano guerriglieri ma eravamo un movimento politico armato.
La violenza era giustificata: c’era troppa ingiustizia

Corriere della Sera 23.10.09
Cinema e politica L’attrice: la violenza è colpa anche di certi film
La Kidman all’attacco: Hollywood vuole soltanto donne oggetto
di Alessandra Farkas

E il presidente Obama: i mariti sono ottusi

NEW YORK — L’iniquo su­perlavoro delle mamme in fa­miglia? «Colpa dei mariti ottu­si », secondo Barack Obama. La violenza che subiscono le donne nel mondo? «Colpa di Hollywood», a detta di Nicole Kidman.

Neppure si fossero messi d’accordo in anticipo, il presi­dente degli Stati Uniti e la star del cinema ieri hanno fatto a gara tutto il giorno nel domi­nare il dibattito Web con i loro cliccatissimi excursus all’inter­no del pianeta donna.

Nel suo ruolo di ambasciatri­ce dell’Unifem (Fondo Onu di Sviluppo per la Donna) la Kid­man è stata ascoltata a Washing­ton da una sottocommissione della Camera dei Rappresentan­ti che cerca di far adottare l’In­ternational Violence Against Women Act, un progetto di leg­ge volto a influenzare la politica estera Usa verso i Paesi dove i di­ritti delle donne sono violati.

«Hollywood ha certamente un ruolo nella violenza che su­biscono le donne», ha dichiara­to la star di The Hours rispon­dendo alla domanda della de­putata repubblicana Dana Rohrabacher, «perché il cine­ma le dipinge come oggetti sessuali deboli». Alcune ore più tardi, intervistato dalla Nbc , il presidente Obama face­va mea culpa per non essere stato sempre all’altezza come marito e come padre.

«Michelle ha dovuto fare molti più sacrifici di me, so­prattutto nel tirar su le nostre due figlie», ha detto, primo presidente americano della storia ad aver osato tanto. «Ogni tanto ho avuto bisogno di essere richiamato all’ordine — ha scherzato —. 'Perché, mi chiedeva in passato Michel­le, se le bambine hanno biso­gno di andare a comperare un vestito deve essere un compi­to mio e non tuo? O se si am­malano, tocca sempre a me as­sentarmi dal lavoro per corre­re a prelevarle a scuola?'». Dal particolare, Obama arriva al generale: tutti gli uomini ame­ricani che non capiscono quan­to sgobbano le loro mogli so­no «ottusi».

Nicole va più in là e dice che «la violenza contro le don­ne e le bambine è una delle violazioni dei diritti umani più diffuse nel mondo. Perché non conosce frontiere, né di­stinzione di razza o classe». Nel libretto che tiene in mano ci sono le prove sconvolgenti di ciò che ha appena detto: una donna su tre è picchiata o violentata nel corso della sua vita. Più della metà delle ag­gressioni sessuali avvengono ai danni delle minori di quindi­ci anni. Negli Stati Uniti sono stati denunciati 89 mila stupri nel solo 2008.

«Io non sono responsabile di tutto quel che fa Hollywo­od, ma lo sono per quel che ri­guarda la mia carriera — con­clude la Kidman — per questo non sono interessata ad inter­pretare ruoli degradanti di donne». Sarà. Ma in passato non ha esitato a farlo e adesso la blogosfera le presenta il con­to della spesa. «Nicole è un’ipocrita — tuona Al sul blog PopEater — non ha esita­to a recitare in Ore 10: Calma piatta , l’horror thriller dell'89 in cui interpreta il ruolo di una donna in balia di un mani­aco omicida. Per non parlare di Dogville », il controverso film di Lars Von Trier che la ve­de nei panni di una giovane soggetta a violenze di ogni ti­po da parte addirittura di un’intera città.

Ma anche Obama negli ulti­mi giorni è stato accusato di parlare bene e razzolare male per aver organizzato una parti­ta a basket con alcuni parla­mentari e ministri senza invita­re neanche una donna. «È una sciocchezza — ha sdrammatiz­zato il presidente nell’intervi­sta alla Nbc —, non era niente più che una partita di pallaca­nestro » . 


Corriere della Sera 23.10.09
Stavolta non è un dibattito da radical chic
di Maria Laura Rodotà

Bè, prendiamola come una buona notizia. Ni­cole Kidman (e ha un senso: proprio lei, in «To Die For» di Gus Van Sant, interpretò al meglio il ruolo della ragazza-vittima della cultura pop, co­sì desiderosa di stare in tv da uccidere) denun­cia la mercificazione hollywoodiana delle don­ne e le colpe dello show business nel rappresen­tarle come oggetti sessuali, potenziali oggetti di violenza. Obama (e ha senso per questo: è mari­to di Michelle, femmina formidabile che surclas­serebbe buona parte dei maschi medi del piane­ta; i quali lo sanno) esalta le multiple capacità delle donne contemporanee. L’uno/due acciden­tale ma riuscito è una buona notizia perché fa notizia: sono esternazioni Vip; perciò fanno il gi­ro di tg, giornali e siti di tutto il mondo. E fanno discutere gente inconsapevole, disinteressata, o (nel caso delle donne) spesso ammutolita.

Risultato: un’improvvisa, enorme risonanza mediatica per cause generalmente considerate da povere disgraziate ossessive. Succede in Ita­lia e ovunque; in fondo che c’è di male a mostra­re belle ragazze molto disponibili (niente; ma perché quasi sempre solo quelle?); cosa c’è di strano se un marito non dà retta alla moglie che lavora e deve stare anche dietro a casa e bambi­ni? Non è strano; però ha stra-ragione Obama a far notare che a furia di faticare e organizzarsi, le mogli diventano più brave dei mariti. Ora c’è da vedere quante obamiane convinte prenderan­no «a pugni in testa» i loro coniugi, come sugge­rito dal presidente degli Stati Uniti (l’espressio­ne è un po’ forte, ma in un momento di calo di popolarità può renderlo simpatico a molte elet­trici, è indubbio).

Quindi tutto bene. Discutiamo delle parole di Obama, e pure dell’intervento di Nicole Kid­man. Con un’unica preoccupazione. Che, dopo la sorpresa, il battage, le conversazioni sul te­ma, quella delle donne diventi una causa da bel­li- e-famosi. Piuttosto ganza, su cui spendere qualche bella parola; per poi antipatizzare, ma­gari con la facile obiezione «avete visto? E’ un argomento radical chic». Non lo è. Lo si capisce anche ripensando alle storie dei due personag­gi. Prima di diventare una diva, Kidman è stata una ragazzetta-carne da cannone nel mondo del­lo spettacolo. Se è riuscito a diventare presiden­te, Obama deve ringraziare l’esempio e l’aiuto di donne tostissime, la moglie, la madre, la nonna. Prendiamoci a pugni in testa, per favore, se pen­siamo sia una causetta Vip.

Corriere della Sera 23.10.09
Domani a Firenze
A Roberto Benigni il Premio Galileo in Santa Croce
di Laura Antonini

La Basilica di Santa Croce a Firenze, luogo delle sepolture dei grandi rese immortali da Ugo Foscolo, domani diventa teatro di eventi e si apre alla città. L’occasione è la XIII edizione del Premio Galileo, manifestazione ideata da Alfonso De Virgiliis quest’anno incentrata sui temi di Arte, Scienza, Fede. Tra i premiati Roberto Benigni (nella foto), l’astrofisico tedesco Reinhard Genzel, il cardinal Renato R. Martino, presidente del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace e il maestro Seiji Ozawa. La serata esclusiva, suddivisa in tre momenti, si snoderà dalla vicina Biblioteca Nazionale dove gli ospiti tra spettacoli e coreografie di danza potranno ammirare opere e disegni autografi di Galileo, per approdare al Chiostro brunelleschiano attrezzato con telescopi puntati sulla Luna e su Giove. Da qui, attraversando il Chiostro di Arnolfo, gli invitati entreranno nella basilica per assistere alla premiazione tra i fronteggianti sepolcri di Galileo e Michelangelo animati da un dialogo immaginario per voce della soprintendente al polo museale Cristina Acidini e dell’ex rettore dell’ateneo fiorentino Paolo Blasi. Quando le porte di Santa Croce si apriranno sul sagrato illuminato per accogliere sulle note dell’Ave Maria di Schubert l’esibizione del ballerino spagnolo Angel Corella, premiato per la danza.

Agi 23.10.09
Poesia: Il ritorno di Lilith scritto con le unghie da Haddad

(AGI) - Roma, 23 ott. - Le piace dire che scrive con le unghie perche' scava, va in profondita' ma anche per sferzare le donne: perche' non fate sentire le vostre voci? Non mostrate le vostre unghie? E' questa Joumana Haddad, giornalista e scrittrice libanese che con il suo ultimo libro, prima opera integrale in italiano, 'Il ritorno di Lilith' (Ed. L'Asino d'oro), che sara' presentato martedi' prossimo a Milano alla libreria Feltrinelli, vuole aprire una 'speranza' per le donne arabe oppresse ma anche di altri paesi, Italia compresa: del resto l'oppressione della donna non necessariamente fisica, pur se con modalita' diverse e' la stessa come intenzionalita'. Joumana gia' intervistata da numerose testate radiofoniche e televisive, oltre che da riviste e quotidiani, ha raccontato la leggenda, il mito di Lilith, la prima donna creata che non si sottomise non si ridusse cioe' in schiavitu' ad Adamo. Un libro scritto "con le unghie", perche'? "Scrivere e' innanzitutto un atto fisico, violento e aggressivo ma solamente - ha risposto la poetessa libanese - soprattutto nei confronti di me stessa. E' qualcosa come scavare con le unghie nella carne per andare a pescare segreti, misteri e parole nascoste che ci sono in me". E questo libro e' frutto anche del coraggio di Joumana, della sua sfida a dogmi e tabu' sulla sessualita'. Infatti, "molti credono che mi sia gettata - nel fuoco", ha chiosato. E sul settimanale 'Left' in edicola va oltre: "sii bella e vota", rivolgendosi alle donne non solo del suo paese, il Libano ormai soprannominato la "repubblica del silicone". "I nostri partiti politici non dovrebbero, prima di chiedere i voti delle donne, candidarle? Oppure la donna per loro si limita ad avere un unico ruolo e un solo valore, ovvero essere elettrice soltanto - scrive Joumana - la strada davanti a lei e' ancora lunghissima prima di meritare di far parte degli eletti (e delle elette)?". Ma si pone la caporedattrice della rivista libanese 'Jasad', anche la questione in termini italiani: "Perche' sto facendo questa domanda ora, e qui? Perche' lo stato delle cose in Italia, purtroppo, non e' molto diverso dallo stato delle cose a Beirut. E il Libano non e' l'unica repubblica di silicone nel mondo moderno. Infatti, la strumentalizzazione della donna li' non e' molto diversa - continua - dalla strumentalizzazione della donna qui, anche se riveste delle maschere differenti. Quali posti decisivi occupano le donne, sia libanesi, sia italiane, sulla scena politica?". Infine la sferzata alle donne, "ribellatevi: perche' non fate sentire la vostra voce? Perche' non mostrate le unghie?". (AGI) Pat