lunedì 26 ottobre 2009

l’Unità 26.10.09
Italia 2009, così abbiamo inabissato la cultura
Francesi, tedeschi o inglesi leggono molto più di noi, ascoltano più musica, e non credono, come facciamo noi, che «cultura» voglia dire «famiglia» o «religione». I dati impietosi di Commissione europea ed Eurostat.
di Giordano Montecchi

Le cifre Le ricerche europee su fruizione e spesa culturali sono impietose per il nostro paese
Alla parola cultura tedeschi o inglesi associano i termini ‘teatro’ o ‘musica’. Noi pensiamo a ‘famiglia’

Parassiti
Artisti «mantenuti» ricerca umiliata: è un’idea di governo

Perché, si chiede il mondo, la maggioranza degli italiani subisce con tanta noncuranza un disegno autoritario che giorno dopo giorno ne avvelena la democrazia? Si possono chiamare in causa antichi vizi nostrani come l’ignavia o la sfiducia, ma l’alleato forse più prezioso di questa deriva sciagurata è un altro. È la nostra incultura di popolo, mentre di contro, il più grande ostacolo a questo disegno è tutto ciò che alimenta la cultu-ra: fame di conoscenza, autonomia di giudizio, spirito critico, dirittura morale. Etica e cultura: questi sono i veri nemici contro cui Berlusconi e i suoi con un sapiente gioco di squadra combattono quotidianamente, sabotando (o quando gli conviene comprando) tutto ciò che alla cultura dà sostanza e forza: l’educazione, la stampa e l’editoria, il ruolo degli artisti, degli intellettuali, delle stesse istituzioni culturali. L’idea che scuola, università, teatri, orchestre siano soldi buttati; che cineasti, musicisti e artisti in genere siano parassiti; che giornali e giornalisti formino una delinquenza organizzata più pericolosa delle tante mafie presunte e non meglio identificate: tutto ciò ha il suo ricettacolo in quella che potremmo chiamare «Italia profonda», terreno ideale per gli spropositi di una Gelmini, come per i liquami verbali di un Brunetta o del suo capo.
RADIOGRAFIE EUROPEE
Questa presunta «incultura degli italiani» resta però da dimostrare. Ebbene, le prove che ci inchiodano vengono dall’altro grande nemico (l’unico davvero temibile) dell’attuale padrone d’Italia: l’Europa, un cliente troppo difficile da ipnotizzare, da com-
prare o da screditare. Inesorabili, la Commissione Europea ed Eurostat non cessano di promuovere ricerche su come vivono e come pensano gli europei. Migliaia e migliaia di pagine in cui c’è la radiografia di cosa è e cosa significa oggi l’Europa: dal ponderoso Europe in figures l’annuario statistico di cui è appena uscita l’edizione 2009, ai numerosi rapporti sulla cultura quali Economy of Culture in Europe (2006), Financing the Arts and Culture in the European Union (2006) Cultural Statistics (2007), European Cultural Values (2007).
Guidati dallo sforzo costante di superare le difficoltà di confrontare diverse realtà nazionali, questi documenti ritraggono il quadro amaro e surreale dell’anomalia italiana: il bacino più ricco di tesori d’arte e di storia che esista al mondo e, insieme, lo scenario desolante di una popolazione culturalmente indigente, facile preda di un’informazione sempre piu svilita a propaganda. E tanto l’Europa si sforza di acquisire dati sempre più attendibili, tanto il nostro governo è latitante in materia di monitoraggio delle politiche culturali, col conseguente inevitabile balletto di illazioni e stime inattendibili il cui esito è una provvidenziale opacità, un cono d’ombra dove, a parte i ben noti tagli al Fus, non si riesce a valutare esattamente il quadro economico complessivo delle politiche culturali, il cui apporto finanziario più consistente (attorno ai 2/3 del totale) deriva dall’impegno di Regioni ed Enti locali.
LA GIORNATA DELL’ITALIANO
Nei dati dell’Unione Europea, dai quali l’Italia esce a pezzi, è racchiusa invece un’altra atroce conferma: certi ragli anticulturali intonati di recente da qualche esponente del governo corrispondono a ciò che molti italiani pensano o credono o, per meglio dire, ignorano. La giornata dell’italiano medio comincia non leggendo il giornale, prosegue non comprando dischi o libri, e finisce non andando a un concerto o a teatro. Il che spiega come una famiglia italiana spenda per cultura e ricreazione circa la metà di una famiglia inglese o tedesca. Ma tout se tient: in Italia la percentuale di laureati è la metà della media europea, mentre l’editoria dà lavoro a 40.000 dipendenti contro i 180.000 della Germania.
I musicisti sono un branco di lavativi, dice Brunetta. A conti fatti agli italiani sembrano dargli ragione. Nell’ex patria del belcanto il pubblico che frequenta concerti e opera è tragicamente inferiore rispetto alla media europea. La ragione di questo dato così avvilente è profonda: un europeo, quattro volte su dieci, alla parola «cultura» associa la musica e il teatro (in Germania e nel Nord Europa accade addirittura sei-sette volte su dieci). Da noi proprio no: e da lì a sostenere che è il «popolo» a volere il taglio del Fus il passo è breve...
Per gli italiani cultura vuol dire tutt’altro: ad esempio scienza (un miraggio, evidentemente, visto quel il governo spende in ricerca scientifica); ma soprattutto famiglia, in piena sintonia con un’assordante campagna mediatica fra i cui effetti c’è anche la scarsa considerazione per valori quali libertà di opinione o tolleranza, che ai nostri vicini stanno invece molto più a cuore.
Dulcis in fundo: c’è qualcosa in cui primeggiamo. In Europa siamo quelli che in assoluto stimiamo di più imprenditorialità e progresso, valori così cari anche al nostro Primus super pares. Le cui armate mediatiche, da mattina a notte, ci bombardano senza tregua con l’obiettivo di farci a sua immagine e somiglianza. Siamo noi i perseguitati, non lui.❖

l’Unità 26.10.09
Enzo Forcella, giornalista e professore di mass media fuori dal coro mediatico
Nel decennale della scomparsa un seminario a Roma con Guido Crainz, Nello Ajello, Vittorio Emiliani e Marino Sinibaldi, ne ha rievocato la figura. Editorialista, storico, critico della comunicazione. E inventore di Radio 3
di Bruno Gravagnuolo

In un possibile «Dizionario biografico dei giornalisti italiani», la figura di Enzo Forcella, scomparso il 9 febbraio 1999, meriterebbe un discorso a parte. Come nessun altro seppe fare del giornalismo «autoriflessivo». E stare in bilico tra professione, saperi moderni, cultura alta e di massa. Infine, come pochi si oppose alla viltà delle autocensure e ai compromessi morbidamente celati, che stanno nelle pieghe di tante celebrate carriere.
Insomma un critico del potere, molto severo con se stesso, e non amato dal potere. Non per caso malgrado i suoi meriti non fu mai direttore di giornali, fatta salva la bellissima esperienza di Radio 3. Perché si parla di Forcella? Il decennale certo, ma anche un seminario acuminato giovedì scorso a Roma, nella sede della Casa della Memoria in Via San Francesco di Sales, promosso dall’Irsifar, istituto storico per lo studio della Resistenza a Roma, di cui fu animatore con Nicola Gallerano. C’erano storici del calibro di Guido Crainz, Claudio Pavone, giornalisti come Nello Ajello, Vittorio Emiliani, e poi l’erede di Forcella a Radio 3, Marino Sinibaldi, coordinati da Umberto Gentiloni.
Cosa ne è venuto fuori? Intanto il profilo di una generazione di giornalisti antifascisti, passati per Il Mondo, La Stampa, Il Giorno, Repubblica, ben compendiata da Forcella. Un’Italia difficile quella di allora, stretta tra appartenenze, establishment e furori ideologici, dov’ era difficile far valere la libertà critica in una chiave di sinistra laica e progressista, ma senza becero anticomunismo. Poi, il coraggio e le incertezze di Forcella. Il coraggio di andar via dalla Stampa, dopo la nobile esperienza del Mondo di Pannunzio, per il rifiuto di essere messo al margine, sol perché sosteneva nel 1959 la possibilità del centrosinistra (inviso alla Fiat). Una storia raccontata anche in un celebre pamphlet, 1500 lettori, ripubblicato da Donzelli. Dove Forcella narrava delle complicità tra politica e stampa: il circuito mediatico di allora e il gioco di specchi connesso. Le incertezze erano invece il «cruccio» di Enzo: essere stato attendista e aver fatto la Resistenza in convento a Roma. Non per viltà, ma per una natura ossessivamente e squisitamente dubbiosa. Da ultimo il terzo programma. Nel 1976 con Forcella cessò di essere penombra musicale. E si aprì ai conflitti, ai ritmi delle radio private, alle donne e ai grandi temi culturali. Una cifra modernissima che ancora resta. per merito di un giornalista concreto, ma capace di parlare di Marcuse, Adorno, Mac Luhan, Kant ed Hegel, come un vero professore. Roba introvabile ormai.❖

l’Unità 26.10.09
Contratti e decreto Brunetta/ La proposta di Mimmo Pantaleo (FLC CGIL)
Sciopero generale dell’impiego pubblico

Èun attacco senza precedenti. E il sindacato ha il dovere, se non vuole perdere la propria credibilità tra iscritti e cittadini, di reagire invitando lavoratori e persone a mobilitarsi. È un Mimmo Pantaleo battagliero quello che annuncia, come segretario generale della FLC CGIL, la proposta di un grande sciopero nazionale dei settori pubblici. A margine della grande assemblea delle Rsu del comparto della conoscenza che si è tenuta a Roma il 22 ottobre, il sindacalista non ha dubbi: “È giunto il momento – dice – di proporre uno sciopero generale dell’intero comparto pubblico, che va effettuato non oltre la metà di dicembre, in coincidenza con la discussione sulla legge Finanziaria: perché è sulla legge di bilancio che occorre intervenire per recuperare i tagli e ottenere le risorse, che non ci sono, per i contratti nazionali. La mobilitazione sarà lunga e intrecciata con quella che sta portando avanti la CGIL. Il 7 novembre ci sarà l’iniziativa delle “100 piazze”, con la quale porteremo tra la gente i lavoratori della conoscenza, spiegheremo le nostre richieste, terremo lezioni in piazza. Poi avremo, il 19 novembre un'altra iniziativa sulla ricerca, il 21 una grande manifestazione nazionale e, successivamente, entro dicembre, lo sciopero generale che proponiamo”.
Se chiedi a Pantaleo di spiegarti gli altri motivi che rendono ineludibile lo sciopero generale dell’intero comparto pubblico, oltre ai mancati stanziamenti per i contratti, ti risponde un fiume in piena: “È ormai chiaro – scandisce ancora il sindacalista – che siamo di fronte a un attacco senza precedenti al settore pubblico, direi ai beni pubblici. Il perché è sotto gli occhi di tutti: il decreto Brunetta punta a colpire il sindacato e a destrutturare la contrattazione, con il fine di riportare tutto sotto il controllo centralistico e dirigistico, in una forma direi taylorista, della politica. Il vero intento della riforma Brunetta non è quello di migliorare davvero l’efficienza del comparto pubblico, sfida alla quale la CGIL non si sottrarrebbe affatto, ma di punire i lavoratori (i “fannulloni”) e avviare percorsi sempre più evidenti di privatizzazione. Del resto, come si fa a parlare di sviluppo, se poi si tagliano risorse? Ricordo che per i nostri comparti ci saranno 8 miliardi in meno per la scuola e 1,5 miliardi in meno per l’università. Per non parlare del licenziamento confermato di migliaia di precari. Ecco, su questi temi e attraverso queste mobilitazioni, vogliamo costruire una rete che tenga insieme lavoratori, cittadini, studenti e genitori”.

l’Unità 26.10.09
La protesta araba- L’Anp parla di provocazione, Amman denuncia Israele
Battaglia a Gerusalemme Scontri e arresti sulla Spianata delle moschee
di U.D.G.

Sassi, lacrimogeni. Feriti e arresti. La Spianata delle moschee si è trasformata in un campo di battaglia. E Gerusalemme torna a vivere quel clima di tensione che innescò la seconda Intifada. La protesta di Egitto e Giordania.

La Spianata si trasforma in un campo di battaglia. Che rischia di innescare una terza Intifada. La polizia israeliana in assetto antisommossa ha fatto irruzione ieri a Gerusalemme est nella Spianata delle Moschee, uno dei più esplosivi focolai di passioni religiose e nazionalistiche tra arabi e israeliani, per sedare disordini e porre fine a sassaiole da parte di gruppi di giovani musulmani. Da parte palestinese si afferma che circa una ventina di manifestanti sono stati feriti dalla polizia che a sua volta denuncia il ferimento di nove agenti. La polizia ha detto di aver arrestato 18 persone, compreso l'ex ministro dell'Autorità palestinese Hatem Abdel Khader, esponente del Fatah, e un alto dirigente dell' ala più radicale del Movimento Islamico israeliano.
GERUSALEMME BLINDATA
Dopo due settimane di calma relativa gruppi di fedeli islamici palestinesi e reparti della polizia israeliana sono perciò tornati ad affrontarsi nella Spianata delle Moschee: uno dei luoghi più sacri all'Islam, ma anche il più sacro per gli ebrei perché si ritiene si trovi sopra i resti del biblico Tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d.C. dalle legioni romane dell'imperatore Tito. Nella tarda mattina la Spianata è stata chiusa al pubblico, fino a
nuovo ordine. All'interno della moschea di Al Aqsa, assediata dalla polizia, si sono barricati per ore un centinaio di fedeli islamici che hanno poi abbandonato il sito.Apparentemente frutto di questo clima esasperato anche il ferimento, alcune ore dopo, di una guardia accoltellata da una giovane palestinese di Ramallah a un posto di blocco nella periferia nord di Gerusalemme est.
SCAMBI DI ACCUSE
Il capo del distretto di polizia Ilan Franco ha detto che gli agenti sono intervenuti nella Spianata per porre fine a lanci di pietre contro un gruppo di visitatori. Hanno fatto uso di candelotti lacrimogeni e granate assordanti. I responsabili islamici palestinesi hanno avvertito che la situazione potrebbe degenerare ulteriormente e hanno accusato la polizia di comportamento «provocatorio» nella Spianata. Le nuove tensioni sarebbero legate a un convegno di ultraortodossi svoltosi in serata nel settore occidentale di Gerusalemme per rivendicare il diritto degli ebrei di pregare nella Spianata, cosa finora vietata. Molto dure le reazioni dell'Anp a Ramallah, di al Fatah e di Hamas ai fatti odierni. La polizia è stata fra l'altro accusata di aver «dissacrato» la Spianata. A protestare è anche l’Egitto. La Giordania ha accusato Israele di «pericolose provocazioni» e di mettere a rischio la pace e la stabilità nella regione.

Repubblica 26.10.09
"No alla dittatura della scienza sull´etica la Chiesa non può tacere"
Il cardinal Ruini: ma con i laici bisogna dialogare
di Orazio La Rocca

NORCIA - «Mai mettere limiti alla ricerca scientifica, ma senza dare potere illimitati alla scienza per non andare incontro a nuove forme di dittature, non solo culturali». Lezione-appello di etica e politica del cardinale Camillo Ruini al 5° seminario di studio, ieri a Norcia, della Fondazione Magna Carta, organismo di studio e di ricerca nato con lo scopo di rivitalizzare il dialogo tra laici e cattolici sui temi della politica, della bioetica e degli studi scientifici. Tema del convegno, "La sfida antropologica", per il quale gli organizzatori, coordinati dal senatore del Pdl Gaetano Quagliariello, presidente onorario di Magna Carta, hanno messo a confronto due autorevoli esponenti del pensiero laico e cattolico, il professor Aldo Schiavone e lo stesso Ruini. Pur partendo da posizioni socio-culturali differenti, i due trovano una sostanziale – e per molti versi singolare – sintonia necessità di rilanciare il dialolo tra laici e cattolici partendo da "una etica forte e condivisibile" per far fronte alle sfide dell´evolversi della società di fronte alla future tecnologie. Prospettiva accennata in particolare dal professor Schiavone, il quale ha, tra l´altro, rivendicato anche le sue origini marxiste e il suo essere "non credente, fino ad oggi". «Per assumere la guida dei futuri processi scientifici appare dunque necessaria un´etica forte come lo stesso Schiavone afferma nettamente», prende atto Ruini che ricorda pure come «il professore consideri indispensabile in questi processi il contributo cattolico». Un riconoscimento che, però, offre lo spunto al porporato di ribadire con forza che «il cattolico, politico, scienziato, ricercatore o semplice persona di buona volontà, non deve mai ignorare la trascendenza e che l´uomo è creatura di Dio». «Da parte sua la Chiesa», puntualizza Ruini, «rivendica sempre il diritto ad esporre liberamente le sue dottrine, senza prevaricazioni, ma accettando le decisioni finali che emergono dal dibattito democratico».
Quagliariello invece ricorda come «il progresso tecnico-scientifico abbia condizionato le priorità politiche determinando schieramenti contrapposti», e vede nel passaggio dall´ingegneria sociale all´ingegneria antropologica il pericolo che «si possa dar vita a nuovi mostri ancora più insidiosi rispetto al passato». Dello stesso avviso Eugenia Roccella, sottosegretario alla Politiche sociali, la quale lamenta che «a differenza della Chiesa, sulla questione antropologica tra la forze politiche c´è ancora troppo ritardo e poca conoscenza». D´accordo con l´invito al dialogo sull´etica tra laici e cattolici si dice anche Fabrizio Cicchitto, capogruppo dei deputati del Pdl, che però confessa di «non capire alcune chiusure della Chiesa in materia di morale come l´uso della pillola Ru416 o la lotta all´aids anche attraverso l´uso del condom».

Repubblica 26.10.09
Matrimoni in via d´estinzione gli americani snobbano l´altare
Il Marriage Index rivela: i coniugati nel ´70 erano il 79%, oggi il 57
di Federico Rampini

L´allarme lanciato dall´Institute for American Values: i bambini nati da unioni regolari rischiano meno di diventare disagiati

New York - Coppie "regolari", un tempo così si definivano quelle al primo matrimonio e con i figli nati all´interno dell´unione. Presto saranno un´eccezione, una razza in via di estinzione, rivela uno studio americano. Il matrimonio è un´istituzione condannata, è più in crisi oggi che negli anni del femminismo e della rivoluzione sessuale, della contestazione e della "coppia aperta". Ma con quali conseguenze sulla stabilità sociale, sul nostro benessere, sulla salute collettiva? Se lo chiedono i quindici esperti che in America hanno pubblicato lo U.S. Marriage Index. Questo indice è a sua volta la sintesi di cinque statistiche. La percentuale nazionale di adulti regolarmente sposati, con rito religioso o civile, nella fascia di età tra i 20 e i 54 anni. Quanti di loro sono ancora al loro primo matrimonio. Quanti figli vivono in un nucleo familiare tradizionale, con i due genitori sposati. Quante nascite avvengono all´interno di coppie ufficiali. Fin qui i numeri. Ai quali si aggiunge come quinto ingrediente un indicatore qualitativo, ovvero la percentuale di coppie che si dicono "felici" della loro vita coniugale. I quindici studiosi compilano il Marriage Index facendo la media di tutti quei dati. Il verdetto è inequivocabile: una morte neanche tanto lenta. E forse irreversibile?
L´evoluzione dei numeri è impressionante, se si pensa che l´anno di partenza scelto dagli esperti per la raccolta dei dati è il 1970. Cioè quando l´America era nel mezzo di una rivoluzione dei costumi: tra la diffusione degli anticoncenzionali, il movimento Women´s Lib, le "comuni" hippy. Eppure quella società trasgressiva e ribelle, decisa a rimettere in discussione i valori dei padri, oggi ci appare un modello di stabilità. Quarant´anni fa il 90% dei bambini nascevano all´interno di coppie sposate, oggi solo il 60%. Nel 1970 il 79% degli americani adulti erano coniugati; oggi appena il 57%. Allora la percentuale dei "primi matrimoni" ancora uniti era al 77,5% mentre oggi è scesa al 61%. L´indice complessivo, il Marriage Index, è franato da 76 punti a quota 60. Un fenomeno che non ha precedenti nella storia umana. Perché ogni civiltà del passato si è retta su qualche forma di vincolo per consolidare la famiglia, anche se non necessariamente monogamica né indissolubile.
L´ispiratore di questo studio collettivo è David Blankenhorn, che dirige l´Institute for American Values. È un difensore del ruolo del matrimonio, che non fa mistero delle sue opinioni conservatrici. Ma Blankenhorn è disposto ad accettare tesi contrarie purché si parta dai numeri reali, e il declino del matrimonio cessi di essere un argomento-tabù. «Si è creata un´opinione diffusa - dice - secondo cui questo è un problema privato da lasciare alle decisioni di ogni individuo, senza che la società interferisca. A parlare di queste cose si è sospettati di voler dettare i comportamenti, di voler imporre scelte di vita». In questo clima, avverte Blankenhorn, si finisce per ignorare quanto il matrimonio abbia una rilevanza sociale. «I dati sono chiari. I giovani che crescono da coppie regolarmente sposate hanno una probabilità inferiore di cadere sotto la soglia della povertà, di diventare tossicodipendenti, o di tentare il suicidio». Per ogni tipologia di devianza o di disagio sociale, sostiene lo studioso, i bambini cresciuti fuori da una famiglia tradizionale sono i più sfavoriti. Un problema acuto tra gli afroamericani dove la disgregazione delle famiglie è ancora più avanzata. Con il Marriage Index lui spera di poter avviare un dibattito nazionale su tutte le conseguenze della fine del matrimonio. «Ci sono altri dati - sostiene Blankenhorn - sui quali il consenso è generale. Per esempio, l´indice di disoccupazione: siamo tutti d´accordo che se aumenta è negativo. Sul matrimonio è mancato finora un consenso elementare».

Repubblica 26.10.09
Paola Di Nicola, docente di Sociologia della famiglia all’Università di Verona
"Anche da noi privilegiati i rapporti light ma nella coppia sposata ci sono più tutele"
In Italia si registra un crollo del numero delle nozze: in poco più di 30 anni si sono dimezzate
di Paola Coppola

ROMA - «Il crollo del numero delle nozze c´è anche da noi. In poco più di 30 anni si è dimezzato e oggi sono quattro ogni mille abitanti. Quando le prospettive sono incerte, come nella fase in cui viviamo, le forme di unione passano in secondo piano e si matura un atteggiamento guardingo». Paola Di Nicola, docente di Sociologia della famiglia all´Università di Verona, avverte: il boom delle "coppie leggere", che secondo l´Istat nei prossimi anni potrebbero superare quelle sposate, desta «aspetti di preoccupazione sul piano sociale per la tutela di quei soggetti deboli all´interno delle convivenze che restano le donne».
L´età del matrimonio si sposta in avanti e tante coppie decidono di non fare questo passo: perché?
«L´ingresso nella vita adulta è posticipato come il raggiungimento dell´indipendenza economica. Quando arriva il momento per formalizzare un´unione, molti hanno già un equilibrio affettivo per cui non si sposano. La convivenza è un "passaggio dolce" alla vita affettiva e, d´altra parte, il matrimonio non coincide più con la conquista di spazi di autonomia dal punto di vista sessuale e, anche se non è "per la vita", resta un passo impegnativo».
A preferire la "coppia leggera" sono giovani donne con un livello di istruzione elevato.
«Sono spinte dall´esigenza di autonomia e dal bisogno di non sentirsi vincolate all´inizio della vita lavorativa. Le nozze possono essere rimandate fino alla nascita di un figlio o non arrivare, insieme all´assenza di tutele che una convivenza implica per i soggetti più deboli nella coppia».
Perché?
«Se la coppia salta le donne sono le meno tutelate per capacità reddituale e tipo di compiti che svolgono all´interno della famiglia. E per come è organizzato il sistema di welfare la famiglia riconosciuta dal matrimonio resta ancora un ammortizzatore sociale fondamentale nel nostro Paese».

Repubblica 26.10.09
Miti e personaggi
Da Dioniso a Jackson così il transessuale moltiplica l´identità
di Umberto Galimberti

Se questo è l´uomo nuovo che stiamo creando, si tratta della più grave di tutte le regressioni
Bisessuali erano le divinità egiziane e greche, perchè il dio rappresenta l´unità primordiale

Più o meno tutti sappiamo che nessuno è "per natura" relegato in un sesso. Oggi, sia la biologia sia la psicologia ci dicono che attività e passività sono iscritte nel corpo di ogni individuo e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale. Ma questa ambivalenza sessuale profonda deve essere ridotta, perché altrimenti sfuggirebbe all´organizzazione genitale e all´ordine sociale. Tutto il lavoro della cultura ha cercato, dall´origine dei tempi, di dissolvere questa realtà irriducibile, per ricondurla alla grande distinzione del "maschile" e del "femminile", intesi come due sessi pieni, assolutamente distinti e opposti l´uno all´altro.
Bisessuali erano le divinità indiane Dyaus e Parusa, egiziane come il dio Bes, greche come Dioniso, Attis, Adone. A differenza dell´uomo, infatti, il dio rappresenta quell´unità primordiale di cui la bi-sessualità è un´espressione. L´unità degli opposti è il suo tratto distintivo che gli umani collocano nel "sacro" (che in sanscrito vuol dire "separato"), da cui gli uomini sono attratti e al tempo stesso si tengono distanti, perché la confusione dei codici non consente la creazione di una società ordinata.
Questa differenza è ben segnalata da Eraclito che in proposito scrive: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, sazietà e fame, guerra e pace, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma». «L´uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un´altra e non si confonde con tutte le cose». L´indifferenziato è tratto divino da cui l´umano si separa instaurando le differenze che, sole, consentono un ordinato vivere sociale. Di questa evoluzione Platone ce ne dà in proposito una bellissima descrizione nel Simposio.
Da questo punto di vista non possiamo escludere che il transessuale con la sua con-fusione dei codici sessuali, possa costituire un richiamo archetipico a questa unità originaria segretamente custodita nel fondo della nostra natura, e opportunamente rimossa per costruire identità il più possibile definite in cui riconoscersi. Ma oggi abitiamo l´età della tecnica, dove la realtà tende sempre meno a ospitare l´antica differenza tra "natura" e "artificio", perché quando il mondo che abitiamo è il prodotto della nostra costruzione, solo un ritardo linguistico, può chiamare le scene del mondo che abitiamo "artificiali", tenendole distinte da quelle "naturali".
La "natura" e in particolare la "natura umana" hanno cessato da tempo di avere un contenuto preciso, e quindi di valere come referente e come limite. E il corpo del transessuale, prima di essere una deviazione dalla norma, è una conferma della caduta di questo referente. Ma là dove non c´è referente, dilaga la confusione dei codici, dove non è più ravvisabile un limite, una norma, un orizzonte, una misura, un´identità da salvaguardare, differenze da mantenere, per orientarsi in quell´universo di segni che l´immutabilità della natura rendeva possibili discernere e che l´avvento della tecnica, dal modo di nascere al modo di morire, dal modo di essere uomo o donna, persino dal modo di apparire giovani da vecchi, via via cancella, rendendo indiscernibili le differenze, le stagioni della vita umana, e quindi anche le identità sessuali.
Perché l´androginia di Madonna negli anni Ottanta e la più recente androginia di Michael Jackson hanno attratto così tanti fans? Solo per la loro musica o anche per l´oltrepassamento dell´identità sessuale che, a parere di Jean Baudrillard «accompagna l´oltrepassamento dell´identità politica, per cui è solo per una finzione che si continua a distinguere una destra o una sinistra, quando in verità lo specchio più fedele è la mutazione in atto che ha fatto del politico un transpolitico e del sessuale un transessuale?».
«L´uomo è un animale non ancora stabilizzato», diceva Nietzsche, e Pascal dal canto suo: «L´uomo supera infinitamente l´uomo». Nessuna obiezione quando il contesto era il mondo dello spirito, ma oggi tutto questo è diventato "corpo" e "carne". Per questo il transessuale ci inquieta, per questo lo teniamo ai margini e ai bordi. Ma la città è già assediata e attraversata da quella direzione e da quel senso che il transessuale indica con il suo stesso corpo: l´abolizione di ogni misura, di ogni limite, di ogni identità, e il progressivo avanzare dell´indifferenziato, da cui l´umanità, temendolo, si era distanziata, relegandolo nel mondo del sacro e del divino, a cui offriva sacrifici, non tanto per propiziarsi i favori degli dèi, quanto per tenerli lontani. Quando Dioniso entra nella città, ci racconta Euripide nelle Baccanti, tutto l´ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.
Moltiplicando i segni sessuali, il transessuale moltiplica i giochi, smantella il sesso come primo segno di identità per offrirlo come eccedenza di possibilità, e così configura quella nuova nozione di "individuo", tipico del nostro tempo, che si riconosce solo nella libertà illimitata, senza argini, senza confini, per poi finire col naufragare in quell´indifferenziato che gli uomini hanno immaginato all´origine del mondo, e da cui si sono distanziati per costruire il loro mondo, fatto di volti riconoscibili, per non implodere nella confusione dei codici e dei segni. Se questo è lo scenario, se questo è l´uomo nuovo che stiamo creando, la regressione implicita in questa creazione è la più grave di tutte le regressioni.

Corriere della Sera 26.10.09
Psicologi e sessuologi «È la ricerca dell’alterazione»
La droga e il sesso estremo «Così c’è il coraggio di osare»
di Elvira Serra

La scelta omosessuale o di un trans riguarda all’incirca il 10-20 per cento delle coppie che tradiscono
Più si assume cocaina e più le aree del piacere sono attivate. Per appagarle si avrà bisogno di comportamen­ti più spinti

MILANO — Droga e sesso estremo. Un binomio che assomiglia a un circo­lo vizioso. L’una che rincorre l’altro. La caduta dei freni inibitori, l’amplifi­cazione delle sensazioni, la «normali­tà » che cede il passo alla sessualità «eterodossa». Un fenomeno che gli esperti rilevano da dieci anni. «Da tre è diventato esplosivo», dice Alessan­dra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia e sessuologia del San Raf­faele Resnati di Milano. «Il tradimen­to omosessuale o con un trans riguar­da il 10-20% delle coppie infedeli», è l’osservatorio di Willy Pasini. E anche lo psicologo Giuseppe Rescaldina conferma «la nuova tendenza: 'uomi­ni regolari' cercano il gesto estremo e nella cocaina trovano il coraggio».
Il consumo cronico fa salire l’asti­cella del piacere, che «non si accon­tenta più» di gratificazioni «regola­ri ». Lo spiega Fabrizio Schifano, oltre vent’anni nel campo delle tossicodi­pendenze e docente all’Università di Hertfordshire. «Più si prende cocaina e più le aree del piacere sono attivate. Per appagarle, però, non basta un classico rapporto sessuale. C’è biso­gno di comportamenti più spinti, tra­sgressivi ». «L’uso delle droghe nel rapporto sessuale ne altera la qualità fisica, e allo stesso tempo si ha biso­gno di essere in uno stato di alterazio­ne per vivere certe esperienze sessua­li. Nessuna di queste sostanze è inno­cua, eppure spesso vengono prese co­me additivi», avverte Riccardo Gatti, psichiatra, direttore del Dipartimento dipendenze della Asl di Milano.
Alessandra Graziottin insiste sul te­ma trans e droga. «A cercare il trave­stito non operato è il maschio tradi­zionale (quello da statistica, sposato). Per lui il trans è un mix dalla grande potenza erotica: da un lato rappresen­ta la stereotipia della seduttività fem­minile, con i labbroni, le scollature, la minigonna, il seno prosperoso; dal­l’altro la presenza dei genitali maschi­li gratifica l’omosessualità latente. I clienti sono uomini di potere, o co­munque benestanti: un pensionato non potrebbe permetterselo». Un in­carico che mette sotto pressione può modificare la sfera sessuale. «Lo stress cronico lede le basi normali del desiderio. Per sentirsi eccitate, queste persone hanno bisogno di stimoli so­vramassimali, sia sessuali che chimi­ci. Ai primi risponde il trans. Ai secon­di le droghe come la cocaina, che crea­no un’eccitazione surrogata e amplifi­cano l’intensità del piacere. Chi ne fa uso non si rende conto dei rischi che corre: dall’ictus all’emorragia cerebra­le». 
«Mdma e cocaina sono le più utiliz­zate in questo ambito: la prima, cioè l’ecstasy, aumenta l’empatia, dà l’illu­sione di socializzare più facilmente, in realtà nasconde una grande solitu­dine; la seconda è euforizzante, porta all’eccesso senza far valutare le conse­guenze dei propri gesti», parla Gianpaolo Brusini, tossicologo di San Patrignano. Entrambe le sostanze cre­ano danni permanenti al sistema ner­voso centrale. «Mentre l’ecstasy agi­sce più sulla serotonina, che control­la l’aggressività e il buon umore, la co­caina aumenta la sensazione del pia­cere: amplificato, ma farmacologico, non naturale», interviene Giovanni Biggio, presidente della Società italia­na di Neuropsicofarmacologia.

Corriere della Sera 26.10.09
Per le mafie è il nuovo business più redditizio accanto a droga e commercio d’armi
I bimbi usati come schiavi nei campi, nelle miniere o nei bordelli sudafricani. L’imbarazzo per i prossimi Mondiali
L’Africa dei trafficanti di bambini
Decine di migliaia di minori rapiti e venduti ogni anno Il Mozambico in crescita economica cuore del racket
di Paolo Salom

MAPUTO — Tutto comincia con una carezza, un sorriso e una promessa dol­ce come il miele: «Credimi, questo tio ti porterà in un Paradiso dove mangerai tutti i giorni e potrai anche andare a scuola». Il suadente tio (zio in portoghe­se), tuttavia, ricevuto un «sì» entusia­sta dall’intera famiglia, mostrerà di lì a poco il suo volto di Mangiafuoco. Rin­chiuso il bambino, o la bambina, in una «casa di raccolta» nella città più vicina, lo venderà per un pugno di denaro a un altro tio che non avrà più bisogno di fin­gere una parvenza di umanità: «Stai buono, altrimenti non vedrai mai più la tua famiglia».
Ecco, in sintesi, come si svolge il pri­mo passaggio di un fenomeno che sta stravolgendo la geografia sociale di gran parte dell’Africa australe: il traffico dei minori, costola non meno remune­rativa del più vasto contrabbando di es­seri umani verso l’unico Paese dell’area che fa da calamita per questo commer­cio, il Sudafrica. Si fa presto a fare due conti. Se un adulto, impiegato in una or­dinata tenuta del Mpumalanga (ex Tran­svaal), può rendere poche decine di dol­lari — e magari percepire un salario — una catorzinha , una «vergine quattordi­cenne », sfruttata in un bordello di Johannesburg o Pretoria, può valere an­che mille dollari al giorno in cambio del solo sostentamento. Una miniera d’oro se consideriamo che il Pil pro capite del poverissimo Mozambico, pur con un’economia in crescita (4,3%), non su­pera i 500 dollari l’anno.
L’ex colonia portoghese è oggi luogo d’origine della tratta e «corridoio» privi­legiato per raccogliere e trasportare mi­gliaia di esseri umani oltre frontiera, verso il nuovo Eldorado africano bene­detto da imponenti investimenti in vi­sta dei Mondiali di calcio del prossimo anno, un volano anche per le organizza­zioni criminali. «I trafficanti — dice al Corriere Margarida Guitunga, direttore dell’ong Santac — sono gli emissari di una rete internazionale in mano a mafie potenti, il cui giro d’affari è secondo so­lo a quello della droga e della compra­vendita di armi. I bambini, oltre che in Mozambico, sono rapiti o acquistati in Zimbabwe, Ruanda, Burundi e altri Pae­si dell’Africa australe. Tutti comunque prima o poi passano di qui». Fare una stima di questo traffico è molto difficile in un Paese la cui priorità è, in primo luogo, uscire dal sottosviluppo. Non esi­stono statistiche ufficiali: una legge an­ti- traffico di esseri umani è in vigore so­lo da gennaio, mentre chi si occupa di contrastare questo fenomeno non ha al­tri mezzi se non la propria buona volon­tà. Per questo, a partire dal «Maputo Consensus», conferenza che per prima, due anni fa, ha affrontato il problema del traffico di esseri umani, con partico­lare attenzione ai bambini, sono sorte a decine le ong locali che ora affiancano le organizzazioni internazionali come Save the Children e Unicef.
Terre des Hommes Italia, la cui mis­sione è diretta a Maputo dall’energico Samuele Silva, 26 anni, è in prima fila nell’impresa di fotografare quanto sta accadendo. «Su 21 milioni di mozambi­cani — ci dice Silva — la metà hanno da 0 a 18 anni. Le potenziali vittime dei trafficanti sono otto milioni di bambini in età scolare». Quanti di loro finiscono effettivamente in questa orrenda rete? Qualche statistica, per quanto ruvida, esiste. Spiega Ilundi Polónia Cabral, di­rettore del programma anti-traffico di Save the Children: «Ogni settimana 300 clandestini mozambicani vengono ri­portati dalla polizia sudafricana alla frontiera di Ressano Garçia. Di questi, circa il 20 per cento, cioè 60, sono bam­bini tra i 5 e i 16 anni non accompagna­ti da un adulto di riferimento. In dodici mesi fanno oltre tremila. Ma non è che la punta di un iceberg».
Quelli che ritornano sui machimbom­bo (autobus) sono pochi fortunati. La maggioranza dei ragazzini di entrambi i sessi che ogni anno scompaiono nel so­lo Mozambico finiscono in un buco ne­ro. Quanti potrebbero essere? «Nessuno lo sa esattamente — dice ancora Marga­rida Guitunga —. Una cifra sensata è compresa fra tre e dieci volte il numero di quelli che sono ritrovati». Ovvero tra 10 e 30 mila. Come è possibile una simi­le tratta degli innocenti? «Innanzitutto — concordano Margarida Guitunga e suor Jakeline Danette, missionaria scala­briniana del Cemirde ( Comissão Episco­pal para os Migrantes, Refugiados e De­slocados de Moçambique ) è una questio­ne sociale e culturale». Questa: il Mo­zambico è un Paese essenzialmente agri­colo. La parte più sviluppata è il Sud, ov­vero la regione a ridosso del Sudafrica. Il resto è fatto di poche città e molta campagna, un territorio immenso co­stellato di villaggi miseri quanto isolati, senza elettricità o acqua corrente. L’uni­ca «ricchezza» sono i bambini: fino a die­ci per famiglia. Dove per «famiglia» si in­tende un clan allargato ai parenti vicini e lontani che considerano i figli cosa di tutti. Molto spesso, inoltre, sono le don­ne — povere e analfabete — a pensare al sostentamento di tutte queste bocche perché i loro mariti sono lontani, chi per lavoro chi perché è usanza per i ma­schi adulti scomparire di casa e vagare di città in città.
In questo contesto il lavoro minorile fa anch’esso parte della tradizione. Le fa­miglie benestanti di Maputo molto spes­so accolgono in casa bambine e bambi­ni dai 6 anni in su per dare loro in ge­stione le cure domestiche o degli infan­ti. È un tio , o più frequentemente una tia , cioè una persona in qualche modo legata al clan, a proporre «una vita mi­gliore » nella capitale. Qualche volta è davvero così. Altre no. Di frequente i bambini «ceduti volentieri» a questi in­termediari finiscono insieme ad altri ra­piti per la strada o comprati, come fos­sero schiavi. Tutti hanno un destino si­mile: a seconda dell’età (dai 6 ai 16-18 anni) possono ritrovarsi in Sudafrica in un bordello, in un campo a raccogliere pomodori, in una miniera o a servizio in qualche famiglia. Altri ancora, i me­no fortunati di tutti, possono incontra­re un destino orribile ma non meno rea­le: essere uccisi e fatti a pezzi dai traffi­canti di organi destinati alla magia nera dei curandeiros e dei feitiçeiros che an­cora godono di grande credito in que­sta parte dell’Africa. «Noi facciamo il possibile», dice sconsolato l’ispettore Tomé Castro Gabriel, capo della Briga­da anti-trafico della polizia di Maputo accogliendoci nel suo ufficio, una stan­za spoglia con un piccolo banco al po­sto della scrivania: non un telefono, non un computer. «Non abbiamo nean­che un archivio ma il governo ha fidu­cia in noi e noi faremo di tutto per fer­mare i trafficanti». I Mondiali incombo­no. La lotta è solo all’inizio.

Corriere della Sera 26.10.09
Il lavoro minorile, spinto dalla povertà, fa parte della cultura locale.
Talvolta è una persona legata al clan famigliare a proporre «una vita migliore» in città
In Sudafrica, poco lontano dalla frontiera mozambicana
Nel centro che protegge i «meninos da rua»
di P. Sa. 



MALELANE (Sudafrica) — Carlos emerge dal dormitorio con il balzo di una gazzella. Ha 17 anni e gli occhi profondi di chi ha già visto di cosa sono capaci gli uomini. Ma non è arrabbiato con il mon­do. Sarà che da cinque anni frequenta la scuola e il suo orizzonte è cambiato: non più i confini invali­cabili di una fattoria-prigione ma i muri e i banchi di un liceo sudafricano. «Quest'anno ho la maturi­tà — dice — poi voglio frequentare un corso per disegnatore grafico». Lo studio è il suo riscatto: da quando è stato accolto nel rifugio «Amazing Gra­ce », quattro baracche circondate da un recinto e un orto nella periferia polverosa di Malelane, cin­quanta chilometri dalla frontiera tra Sudafrica e Mozambico, la vita è tornata a sorridergli. Carlos è stato fortunato. Lo sa, lo sa bene. Forse per questo continua a ridere, a dondolarsi sulle gambe, a guar­dare con ammirazione il suo benefattore, Vuzi Ndukuya, 26 anni, uno dei responsabili del centro che ospita 50 bambini e ragazzi, dai sei mesi ai 18 anni. «Sono stato rapito — racconta Carlos — quando avevo 12 anni, a Maputo. Mi è capitato quello che capita a molti: un 'amico' più grande, di cui mi fidavo, mi ha convinto a seguire degli uomini che portavano i bambini come me in un mondo di meraviglie e pancia piena tutti i giorni. Passata la frontiera, invece, mi sono ritrovato schiavo».
Come Pinocchio, Carlos il menino da rua ( bam­bino di strada) poteva finire i suoi giorni trasfor­mato in un asino da soma. Ma non deve sorprende­re che si sia fidato a salire su un chapa , un pulmi­no, insieme ad altri bambini e adulti di cui non sa­peva nulla. I sogni dei ragazzi come lui, ancora og­gi, sono fatti di cibo e speranze primarie: non è dif­ficile abbandonare una casa dove si convive con altri dieci dallo stomaco semivuoto. Come scrive il mozambicano bianco Mia Couto nel romanzo Ter­ra sonnambula , «quando la fame morde ci fa di­ventare bestie feroci». Chiarisce Carlos: «Di me si occupava la mia matrigna. Mio padre era morto e la sua seconda moglie non era proprio, come si di­ce, una donna affettuosa».
Dunque, via, lontano. I trafficanti non hanno grossi problemi per attraversare le frontiere africa­ne. Spesso ci vuole una bella mancia. Altre volte sono gli stessi poliziotti che dirigono gli affari, op­pure basta passare in uno dei tanti buchi che co­stellano i reticolati. Così Carlos si è ritrovato in una fattoria sudafricana. Ordinata, grande, anzi: 
Salvato Il 17enne Carlos (a sinistra) con Vuzi, 26 anni, uno dei responsabili del centro immensa. «Non ho mai visto il padrone — raccon­ta —. So che era un bianco. Ma il nostro mondo era confinato a un tugurio dove dormivamo in sei per terra. E al campo che ogni giorno dall’alba al tramonto dovevamo ripulire da tronchi, sterpi, sas­si e materiali vari per prepararlo all’aratura. Le co­se erano chiare: io e gli altri eravamo schiavi. Chi non lavorava, veniva picchiato e affamato».
Coraggioso o forse solo incapace di prefigurare i pericoli, Carlos dopo tre mesi si aggrega a quattro ragazzi più grandicelli per tentare una fuga. Un az­zardo: non avevano la minima idea di dove si tro­vavano, il primo villaggio era a giorni di cammino. «Siamo partiti di notte: nessuno di noi poteva im­maginare di resistere ancora in quelle condizioni», dice ancora Carlos. Dopo tre giorni incontra un tas­sista, una persona per bene che conosce il centro fondato negli anni Novanta da Grace Mashaba. Per il fuggitivo è il ritorno alla vita ma non alla casa. Non ha documenti né voglia di rientrare in una fa­miglia che mal lo sopporta: «Forse, dopo l’universi­tà tornerò nel mio Paese, il Mozambico. Per ora sto bene qui».
Una storia a lieto fine. Altre lo sono meno. Come quella delle tre catorzinhas convinte da una don­na, tia Diana , a seguirla in Sudafrica per imparare a fare le parrucchiere e trasformate in prostitute dopo giorni di violenza. O Sarah, una diciannoven­ne portata da tia Joyce in un ristorante di Johanne­sburg con la promessa di un lavoro. Stuprata e mi­nacciata, Sarah ha vissuto in un incubo per due an­ni, fino a quando il suo sfruttatore non è stato arre­stato per droga. «Vicende come queste — dice Ma­rija Nikolovska dello Iom (International Organiza­tion for Migration) — sono solo un’idea, quella che emerge alle cronache, di una realtà spaventosa che coinvolge migliaia di esseri umani». 


Corriere della Sera 26.10.09
Sergio Luzzatto riabilita la figura di Augustin, il fratello minore che criticò Maximilien ma volle morire con lui
L’altro Robespierre, il Terrore benigno
Sempre descritto come incapace e libertino, «Bonbon» si oppose ai massacri
di Alessandro Piperno

Su, confessatelo: quando dite: «Questo libro non mi interessa», in realtà state pensando: «Questo scrittore, quest’uo­mo non mi interessa». Diceva bene Sar­tre: chi se ne importa di un libro! L’importan­te è l’uomo che l’ha scritto, e la passione che lo ha spinto a scriverlo.
Il che vale anche per uno storico, se si chia­ma Sergio Luzzatto. Nei confronti del quale confesso un morboso interesse. Da anni lo se­guo con passione e divertimento. Lasciando­mi sommergere dalla monellesca intemperan­te vitalità che sgorga dai suoi interventi giorna­listici, che, sebbene talvolta mi vedano dissen­ziente, non riesco a non leggere fino in fondo. Cos’altro chiedere a un pezzo di giornale, se non il buongusto di farsi leggere fino all’ulti­ma riga e di scatenarti qualcosa dentro?
Anni fa lessi con stupore il suo geniale libro sul corpo del Duce. Seguii la polemica suscita­ta dal volume sulla crisi dell’antifasci­smo. Considero la monografia su Pa­dre Pio dell’anno scorso una delle più avvincenti documentate terrificanti ra­diografie del mio Paese. In cui, tra l’al­tro, Luzzatto dava prova di quello che vorrei pomposamente chiamare il me­todo- Luzzatto.
Che consiste pressappoco in que­sto. Primo, un’idea forte. Una sola: os­sessiva e troneggiante. Secondo, una vastissi­ma documentazione messa al servizio del­l’idea forte. Terzo, il talento narrativo. Con tan­to di trucchetti: uso del punto a capo, creazio­ne della suspense, stile svelto, qua e là ironi­co, per lo più sarcastico. Quarto, un’inclinazio­ne alla militanza. Non c’è niente di quello che Luzzatto scriva che non abbia una sia pur sot­tesa implicazione con la sua passione ideologi­ca.
Ecco il cocktail micidiale che Luzzatto ripro­pone nel suo ultimo libro dedicato alla figura di Bonbon Robespierre, fratello minore del più celebre Maximilien.
Che Sergio Luzzatto torni a occuparsi (dopo averlo fatto a più riprese) della Rivoluzione francese non mi sorprende. La passione per la Rivoluzione fa parte del suo orizzonte morale: feroce, intransigente, risentito. Luzzatto è un azionista non pentito: la sete di virtù e il gusto per la rivolta è nel suo Dna. Il Terrore gli deve apparire un ottimo antidoto ai tempi che vivia­mo che, immagino, non gli piacciano per nien­te. Stavolta Luzzatto si cimenta con un perso­naggio in apparenza piccolo, di cui ci offre un emblematico medaglione.
Chi è Augustin Robespierre per Luzzatto? Be’, uno dei diffamati della Storia. Uno di quei minori che se ne stanno lì a marcire nei cap­ziosi cliché che gli sono stati cuciti addosso dai contemporanei e dai posteri.
Per sottrarre Augustin a questo destino, Luz­zatto — direi luzzattianamente — non teme di polemizzare con scrittori del calibro di Mi­chelet, Taine, Furet. Così come non teme di criticare coloro che, per ragioni strumentali, hanno assimilato il destino del minore (in tut­ti i sensi) dei Robespierre a quello del maggio­re. Enfatizzando il gesto estremo (così toccan­te) di Augustin, che sceglie di seguire il fratel­lo sul patibolo e di condividere con lui la ghi­gliottina.
Ma per Luzzatto, Robespierre il giovane non è una succursale della grande ditta — Ghi­gliottina & Incorruttibilità — di Robespierre il vecchio. Ma semmai un’alternativa.
Ecco l’idea forte. Che Luzzatto persegue da par suo.
Una volta Charles Baudelaire scrisse: «Vi è in ogni mutamento qualcosa di infame e insie­me di piacevole, qualcosa che ha dell’infedeltà e del trasloco. Ciò basta a spiegare la rivoluzio­ne francese». Una frase cinica che dà conto dell’euforia velleitaria che anima ogni rivolu­zionario, ma anche della sua esigenza di movi­mento. Che Augustin Robespierre seppe incar­nare assai meglio del suo stanziale fratello maggiore.
«Se fosse un film — scrive Luzzatto — la storia di Augustin Robespierre (…) sarebbe un road-movie: la centralità della strada e il brivi­do dell’imprevisto, la paura di perdersi e la tentazione di tornare indietro. Ma sarebbe an­che un western, racconterebbe un’avventura di frontiera».
Siamo in pieno Terrore. È allora che Augu­stin Robespierre viene nominato, dall’Assem­blea, rappresentante in missione presso l’Ar­mée d’Italie: mandato che comporta un avven­turoso viaggio nel Mezzogiorno della Francia. Un compito straordinariamente rischioso, nel quale Augustin ha la possibilità di esprimere la propria differenza dal fratello, e da tutti gli altri montagnardi assetati di sangue.
Sì, il fratello minore dell’Incorruttibile è attratto dall’avventura. Che non sia questo entusiasmo per la vita a riempire il suo cuore di sdegno di fronte al sangue inutilmente versato dai seguaci del fratello? L’incorruttibilità del famoso Robespierre che trova una vitale alterità dialettica nella corruttibilità di Robespierre il giovane? Questo l’antidoto messo a punto dal secondogenito per difendersi dal veleno del primogenito? Lasciarsi corrompere dalla vita? E quindi anche dalla pietà, dal buonsenso, dalla strategia?... Le pagine dedicate a questa contrapposizione familiare sono così efficaci. Maximilien ha vissuto «senza aver mai posato lo sguardo, beato lui, sul ligneo tra­liccio di una ghigliottina montata in qualche piazza di provincia. Senza mai avere udito il fragore della mannaia liberata dal boia, né ave­re respirato l’odore del sangue versato di fre­sco », ma anche «senza mai aver visto il ma­re ». Luzzatto adombra l’idea romantica che, invece, Robespierre il giovane sia molto più at­tratto dall’odore del mare che da quello del sangue. Per questo, a più riprese e sotto varie forme, Augustin denuncia gli eccessi sangui­nari della Rivoluzione. Se la parola chiave per definire il maggiore dei Robespierre è intransi­genza, quella per definire il minore è «indul­genza ». «Robespierre jeune comprese la ne­cessità di sfrondare la rete periferica degli 'esagerati', fermando la mano di coloro per i quali la Rivoluzione poteva risolversi (…) in un regolamento di conti».
Ecco la dialettica fratricida che si consuma sullo sfondo di quella grande guerra fratricida che fu il Terrore. Una dialettica di cui Luzzatto ha bisogno per rivalutare la parte migliore del­la Rivoluzione: a cui dà nome di «Terrore beni­gno ». Che Augustin Robespierre seppe mira­bilmente interpretare, e che proprio per que­sta ragione venne dimenticato, soprattutto da una «storiografia neo-liberale» smaniosa di «identificare nel giacobinismo il monolite ori­ginario del totalitarismo». Un’idea, quest’ulti­ma, che anche Albert Camus considerava fuor­viante tanto da scrivere: «Alla rivoluzione gia­cobina che cercava d’instaurare la religione della virtù, per fondare su di essa l’unità, suc­cedono le rivoluzioni ciniche, siano esse di de­stra o di sinistra, che tenteranno di conquista­re l’unità del mondo per fondare finalmente la religione dell’uomo. Tutto ciò che appartene­va a Dio sarà reso a Cesare». Sì, per Camus la differenza tra la coppia Robespierre-Saint-Just e quella formata da Hitler-Stalin si gioca tutta sulla buonafede dei primi e sul cinismo dei se­condi.
Il Terrore benigno quindi? Ci penso su: un ossimoro che fa paura, ma dall’indubbia po­tenza suggestiva. E che finalmente mi consen­te di vedere l’uomo: l’uomo Sergio Luzzatto, o se preferite, date le circostanze, il cittadino Sergio Luzzatto.

Corriere della Sera 26.10.09
Il saggio di Ian Tattersall sulle origini
storia dell’uomo prima della storia
di Edoardo Boncinelli

Da Lucy all’Homo sapiens: il racconto dagli albori a seimila anni fa

Èdifficile pensare a qualcosa di più inte­ressante della storia evolutiva della no­stra specie, di che cosa possa essere stato ciò che ha portato dai nostri antenati ominidi a noi: due o tre milioni di anni di un’esaltante cavalcata nella storia e nello spirito. Tanto in­teressante che sull’argomento ne sono state dette di tutti i co­lori, dai miti alle religioni, dal­le speculazioni medievali alle elucubrazioni idealistiche e spiritualistiche, dal positivi­smo alla psicanalisi, dai libri pseudodivulgativi alla grande stampa. I dati scientifici sul­l’argomento si sono andati progressivamente accumulan­do negli ultimi decenni e mol­to si sta imparando, ma tutto ciò è sempre poco rispetto a quello che a noi piacerebbe sa­pere. Al punto che molti ten­dono a inventarsi i dati e le sto­rie. La vera scienza deve per forza avere un’infinita pazien­za, e non parlare di quello che non sa, lasciando questo com­pito alle diverse saccenti pseu­doscienze. Purtroppo molta malintesa divulgazione scien­tifica ha fretta, e presenta, an­che in buona fede, le più diver­se ipotesi come fatti accertati.
Quando mi devo documen­tare sulle più recenti acquisi­zioni nel campo, so che mi posso fidare di pochissimi au­tori. Tra questi spicca Ian Tat­tersall, curatore della sezione antropologica del Museo di Storia Naturale di New York. Di Ian Tattersall è appena usci­to Il mondo prima della sto­ria. Dagli inizi al 4000 a.C. (curato da Telmo Pievani, Raf­faello Cortina editore, pp. 200, € 19,50), che traduce una pub­blicazione originale posta al­l’inizio di una serie che l’Oxford University Press dedi­ca alla storia del mondo nel suo complesso. Vi si analizza appunto che cosa è successo nel periodo che va dai primi ominidi agli albori della no­stra storia.
Ne viene fuori una vicenda esaltante, proprio perché scrit­ta senza enfasi e trionfalismi, utilizzando il semplice ma effi­cace linguaggio della scienza, e può essere letta secondo due prospettive generali. La si può scorrere e consultare co­me un prontuario di aggiorna­mento sulle ultime novità nel campo dell’evoluzione umana — prima puramente biologi­ca, poi sempre più marcata­mente culturale — o la si può leggere con continuità e pas­sione come una «storia», la nostra prima storia. In un rac­conto di sostanziale continui­tà dal Sahelanthropus di qua­si sette milioni di anni fa, ai di­versi generi di Australopithe­cus — tra i quali l’ anamensis, che camminava già sicuramen­te eretto più di quattro milio­ni di anni fa; afarensis , la spe­cie cui apparteneva «Lucy», più di tre milioni di anni fa e garhi , cui risalgono forse i pri­mi rozzissimi strumenti litici, più o meno due milioni e mez­zo di anni fa — e da questi al genere Homo — come l’ habi­lis, ergaster, cui appartiene il famoso scheletro del cosiddet­to «ragazzo del Turkana», erectus , heidelbergensis , nean­derthalensis e sapiens — giù giù fino ai Cro-Magnon e a noi oggi, si possono, volendo, in­dividuare alcune discontinui­tà che saltano più all’occhio: l’arrivo dell’ Homo heidelber­gensis in Europa che segna l’inizio delle grandi battute di caccia, la comparsa delle pri­me raffigurazioni rupestri — che noi definiamo «artisti­che », ma che sono da conside­rarsi più propriamente «astrat­te » — e infine la domesticazio­ne di piante e di animali che dà vita alle prime civiltà stan­ziali, più o meno mezzo milio­ne, quarantamila e dieci-dodi­ci mila anni fa, rispettivamen­te.
Con l’agricoltura e l’alleva­mento l’uomo smette di vaga­re qua e là e si stabilisce in al­cuni luoghi preferenziali in va­rie parti del globo, dalla Meso­potamia alla Cina, dalle Ameri­che alla Nuova Guinea. Smette così di essere parte della natu­ra e si pone almeno parzial­mente in opposizione ad essa, disboscando e seminando, rac­cogliendo e conservando, cambiando così progressiva­mente il paesaggio intorno a sé. Cominciando così a porre la sua «firma» su un pianeta che, non più «stanza smisura­ta e superba» di leopardiana memoria, si mostra sempre più «finito», se non angusto. L’ingegnosità e la sistematici­tà dell’uomo si affermano così definitivamente, dando luogo alle prime ondate di espansio­ne demografica e al fiorire del­le sue culture, «di così tante forme diverse, tutte straordi­nariamente belle e degne del­la più grande ammirazione», come Darwin ebbe a dire a proposito delle specie viventi. Fino a che i prodotti della cul­tura hanno retroagito sul­l’espansione demografica stes­sa rendendola continua e sta­bile.

Repubblica 26.10.09
Anish Kapoor
Se la scultura è un’illusione senza fine

L´importanza dei colori trasformati in materia
L´influenza di Beuys, Rothko e Barnett-Newman
Il continuo richiamo al non finito
Una grande retrospettiva alla Royal Academy di Londra celebra l´opera dell´artista anglo-indiano

LONDRA. “Senza fine", si sarebbe potuto intitolare la mostra (aperta fino all´11 dicembre) con cui la Royal Academy celebra Anish Kapoor, artista di rilievo della scena internazionale e membro della medesima accademia. Muovendosi in un terrain vague artistico non immediatamente assimilabile alla scultura canonicamente intesa, ma che semmai rimanda alla ricerca di un nuovo e diverso rapporto «tra opera e spazio», Kapoor presenta una ricca retrospettiva del suo lavoro; segnato da una incessante metamorfosi e perciò stesso da un continuo richiamo all´idea del non finito, dell´in-finito. Appaiono "senza fine" gli impercettibili movimenti di Svayambh, una sorta di gigantesco vagone in cera rossa che spostandosi su apposite rotaie attraversa lentissimamente cinque sale dello spazio espositivo, lasciando le sue tracce fintamente sanguinose sugli stipiti delle porte museali. Ma senza fine sono anche i vertiginosi scambi di ruolo tra materia e colore di 1000 names, delicato lavoro degli anni settanta sull´intrinseca illusorietà dei pigmenti: «materia prima che pare non avere sostanza fisica; qualcosa che assieme è presente e non presente». Ancora, senza fine sono i turbamenti prodotti nel visitatore posto davanti ai tanti specchi in mostra, specchi nei quali vedrà il riflesso del proprio corpo passare repentino, senza soluzione di continuità, dall´obesità a una frantumazione caleidoscopica. E senza fine, da ultimo, è la moltiplicazione visionaria delle sfere che vanno a comporre quel Tall Tree and the Eye che campeggia nel cortile antistante la Royal Academy: un festoso quanto perturbante albero di sapore "natalizio", in cui ogni sfera non soltanto si riflette su quella a lei più prossima, ma simultaneamente anche su tutte le altre e poi nel cielo, che fa da sfondo naturale all´opera. Così, in una ricerca artistica che vede il colore trasformarsi in materia e la materia in spazio; il convesso rovesciarsi nel concavo e il materiale nell´immateriale, è del tutto evidente che lo stesso gioco interpretativo risulti "senza fine". A Kapoor non interessa predefinire un significato puntuale e univoco della sua opera. Quel significato (o meglio, la somma dei significati) si coglierà nell´"autogenerarsi" dell´opera (questo il senso della parola sanscrita Svayambh): come nel caso dei recenti ghirigori montagnosi di cemento dagli echi scatologici, generati da un processo computerizzato, e dunque frutto di una tecnologia avanzata, ma che finiscono per evocare manufatti primordiali stipati in un magazzino polveroso e dimenticato.
Ma come far convivere il voluto intasamento di una sala museale stracolma di una fascinosa e rivoltante verminazione cementizia, presente nelle più diverse forme (torri, ceste, torte, castelli) e nei più diversi colori (dal grigio all´ocra), con la passione dichiarata per il vuoto del medesimo Kapoor? Il conflitto è solo apparente, suggerisce l´artista: «Perché ho sempre pensato al vuoto come a uno spazio transitorio, in-between. E tutto ciò ha molto a che fare con il tempo. Sono sempre stato interessato al momento creativo in cui ogni cosa è possibile e niente è ancora accaduto». Kapoor, dunque, non riconosce gerarchie precostituite. La sua arte è in costante divenire perché è figlia del mutare del tempo e dello spazio in cui si colloca. È un´arte aperta: alle contraddizioni, ai ripensamenti e agli andirivieni mentali ed estetici. Ora, conoscendo le origini indiane dell´artista, verrebbe naturale ricondurre il tema del vuoto a un ipotetico retroterra buddista. Ma di fronte all´enigma di When I am Pregnant, protuberanza bianca che esce da una parete bianca, e compare e scompare a seconda della posizione assunta dal visitatore, risulta altrettanto forte ed evidente il conclamato influsso esercitato da un Joseph Beuys o da un Barnett Newman. Così come, vedendo lo straordinario Yellow, enorme parete gialla dipinto-scolpita che letteralmente ingoia il nostro sguardo in un indefinibile e inafferrabile inizio, si potrà anche pensare all´immagine zen della porta, ma allo stesso tempo si intuisce quanto l´indiano Kapoor abbia visto e "rubato" da Rothko.
Di conseguenza, come ricorda l´amico di infanzia Homi K. Babha nel bel saggio in catalogo, non sarà ricorrendo alla peraltro antiquata giustapposizione tra est sacrale e ovest secolarizzato, che faremo molta strada nella comprensione di un´ opera nata dalla mente e dalla mano di un indiano trapiantato in Inghilterra all´età di diciotto anni. Meglio, molto meglio ascoltare ancora una volta le sue parole: «Non desidero creare sculture che rimandano alla forma (...) Desidero creare sculture che rimandano alle credenze, alla passione, a qualcosa che è al di là dell´aspetto materiale». L´opera di Kapoor, insomma, si muove su un territorio dai confini labili, incerti. In cui la percezione viene indagata in tutte le sue possibili manifestazioni, comprese quelle che rendono più insicuro e malfermo il nostro rapporto con la realtà. Perché evidenziano la precarietà dei nostri presunti equilibri. Psichici e fisici (su questo punto insiste, e giustamente, il saggio di Jean de Loisy). Per quanto paradossale, trattandosi di materia, l´idea di scultura di Kapoor è in fondo "illusionistica". Animata da quella che Gilles Deleuze definirebbe la piega barocca. Dove tutto diventa "allusivo", mobile, sfuggente, reversibile. E dove l´esperienza principale, e più fertile, è quella dello spaesamento.

Repubblica 26.10.09
ZURIGO. Georges Seurat. Kunsthaus. Fino al 17 gennaio.

La mostra ripercorre l'attività del grande pittore francese attraverso settanta opere cardine, dipinti e disegni preparatori, provenienti da tutto il mondo. A cominciare dallo studio per Una domenica pomeriggio all'isola della Grande Jatte del 1884, considerato il manifesto del pointillisme. La genesi di questi quadri di grandi dimensioni, completati nell'atelier sulla base di materiali e appunti grafici raccolti en plein air , dimostra quale distanza ormai separi Seurat dagli impressionisti. Le figure ieratiche della Grande Jatte rinviano infatti alla cultura egizia e a Piero della Francesca. Amico di Signac e sensibile ai programmi di arte scientifica, elaborati sugli studi di ottica rilanciati dai positivisti, Seurat è un esponente di primo piano del divisionismo, partecipe dei programmi del simbolismo, che crea le premesse per le esperienze del fauvismo, del cubismo e perfino della op art.

Repubblica 26.10.09
PAVIA. Da Velazquez a Murillo. Il secolo d'oro della pittura spagnola nelle collezioni dell’Ermitage. Castello Visconteo. Fino al 17 gennaio.

Da vedere una selezione di cinquanta opere provenienti dalla collezione di pittura spagnola del grande museo statale russo. Si tratta di un nucleo di dipinti, in gran parte inediti e mai esposti in Italia, considerati rappresentativi della grande stagione della pittura spagnola del XVI e XVII secolo. Tra i lavori esposti, da segnalare tele di Diego Velazquez (è sua la bella testa virile di profilo, scelta come immagine della mostra), di Bartolomé Murillo, Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, Francisco Zurbaràn, accanto ad alcune selezionate opere di autori di grande valore, quali Antonio de Pereda, Francisco Ribalta, Alonso Cano, Juan Valdes Leal e Juan Carrero de la Miranda.

Corriere della Sera 26.10.09
Calder Elogio della leggerezza
di Vincenzo Trione

Suo malgrado diventerà un modello di riferimento per molti protagonisti dell’arte legati alle nuove tecnologie

Calder e il Novecento. Un dialogo difficile, talvolta conflittuale e inquietan­te. Un confronto conti­nuamente differito. La politica e la poesia. Da una parte, il secolo breve, costellato di tensioni, di in­tolleranze, di drammi: di ideolo­gie che hanno lasciato macerie e rovine. Dall’altra parte, un artista gioioso che pensa il suo lavoro co­me invenzione infinita, azzardo ostinato, immaginazione ulterio­re. Artificio per fuggire dal pre­sente, per mettersi di lato rispet­to alle onde della Storia, per rita­gliarsi oasi di libertà creativa. Un apocalittico moderato, che sce­glie di non adeguarsi all’attualità. Non concepisce la sua ricerca co­me rispecchiamento, né come te­stimonianza, ma come pratica del­l’allontanamento.
Questa filosofia costituisce l’ap­prodo di un itinerario che si può suddividere in due stagioni. Dap­prima, negli anni statunitensi, l’elaborazione di uno stile tar­do- espressionista, fatto di eroi marginali, provenienti dai territo­ri del gioco: atleti, clown. Poi, il trasferimento a Parigi: e l’incon­tro con le scomposizioni di Gon­zales e di Picasso. Nasce una grammatica inconfondibile. Scul­ture fatte di niente, potremmo di­re con Apollinaire. Imprendibili, come le scie di fumo. Sagome mi­nime e insieme complesse che, nella tridimensionalità del fil di ferro, si dispongono in aria, in­frangendo ogni solennità. E, poi, moduli concreti che riprendono il biomorfismo di Miró: cellule e amebe che sciamano, sfidando le leggi di gravità. Profili che volteg­giano con potente leggiadria. So­fisticati intrecci tra blocchi ma­stodontici — minacciosi, peren­tori — e sottili tracce vibranti.
Scritture provvisorie, ma fer­me. Che dichiara­no l’ossessione di Calder, il quale, come Perseo, pro­va a escogitare strategie per sot­trarsi alla pesan­tezza, all’inerzia e all’opacità del mondo. Animato dal desiderio di spingersi verso di­mensioni inesplo­rate, non insegue sconfinamenti nell’onirico o nel­­l’irrazionale: guar­da la sua epoca se­condo una logica diversa, affidan­dosi a inattesi metodi di cono­scenza. Ha ricordato Italo Calvi­no: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma in un rifiuto della real­tà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume co­me proprio fardello».
In queste parole è il destino di Calder. Perseo contemporaneo, insegue la leggerezza degli uccel­li, non quella delle piume. Una leggerezza che accolga in sé schegge concrete. Dietro i suoi mobiles e i suoi stabiles, si cela il disagio dell’individuo moderno, che non sa integrarsi con il conte­sto circostante: l’impossibilità di risolvere compiutamente la rela­zione tra oggetto e spazio. L’arti­sta interpreta questa alienazione, trasgredendo i modi della statua­ria classica. Viola ogni immedia­ta verosimiglianza: la scultura di­venta monumento fragile della crisi novecentesca, mettendo in scena l’infinito, l’illimitato, il de­costruito.
In un sistema sociale governa­to dalla logica del profitto, del­­l’utile, dell’esatto, Calder fa l’elo­gio dell’imperfezione, del disordi­ne, della disarmonia. Ordisce mo­ti che non hanno scopi, né dire­zioni: ma si donano come anar­chia, arbitrio. Sequenze ingenue, che accolgono riferimenti ai liri­smi di Paul Klee e alle favole di Walt Disney.
In filigrana, le ombre della sto­ria continuano a incombere. I ma­teriali utilizzati sono di matrice meccanica: lamiere, profilati, ton­dini metallici, spesso verniciati a smalto, trattati con elementare e abile tecnica. Calder si comporta come un operaio che, simile al Chaplin di «Tempi Moderni», co­nosce bene le regole delle catene di montaggio: ma, diversamente da Charlot, si diverte a combinare in maniera bizzarra i vari pezzi a sua disposizione, allestendo astu­ti giocattoli per adulti. «In una so­cietà seriamente industriale, (...) sarebbe un operaio da licenziare immediatamente», ha detto Ar­gan.
Si generano macchine celibi. Dinanzi a noi, grazie a bilancieri e bracci di leva, sospensioni e con­trappesi, sorgono architetture inutili e anti-funzionali che pro­ducono oscillazioni: basta una corrente d’aria o lo sfioramento della mano, per alimentare meta­morfosi. L’opera si fa congegno aperto, geografia di mutazioni. Sfida alla dittatura di un universo sempre più standardizzato.
In un secolo disumano, Calder compie un deciso ritorno alla natu­ra. Definisce una fitta trama di li­nee per alludere alle morfologie ar­boree: linee come gambi e foglie, mentre lo stridere dei pezzi di fer­ro simula il fruscio dei rami. Non vi è nessuna simbologia oscura. Le grafie planano su di noi senza approdi precisi. Segnali che dico­no la distanza dalla vita moderna.
E, tuttavia, si determina un pa­radosso. Calder evita ogni pro­gressismo. Ma, quasi suo malgra­do, diventerà modello di riferi­mento per molti protagonisti del­l’arte legati alle nuove tecnolo­gie. Egli è un proto-designer: pa­dre involontario dei mobili geo­metrici di Munari e di quelli ba­rocchi di Noguchi, oltre che di tanti gioielli ancora in voga. Un analogo destino toccherà a un scultore «senza tempo» come Constantin Brancusi, le cui for­me abilmente modellate anticipe­ranno tanti azzardi ingegneristici (dalle automobili da corsa ai Con­corde).
Alexander Calder, dunque. Con­tro il Novecento. Dentro il Nove­cento.

domenica 25 ottobre 2009

Il Fatto Quotidiano 25.10.09
L’intervista
Giorgio Bocca: “Ormai la sinistra copia la destra
di Gian Piero Calapà


Le parole di Giorgio Bocca, uno degli ultimi grandi del giornalismo italiano, spesso sono come aculei che si conficcano in una ferita già aperta. Come lo scorso agosto, quando scrisse su l’Espresso che in Sicilia i carabinieri "fanno parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia". Le sue frasi sono ruvide come può esser ruvido solo un anziano piemontese che ha fatto la Resistenza e che oggi fa fatica a distinguere, neiI’agone politico, il bene dal male. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa parlò di accuse farneticanti, riferendosi a quell'articolo, che Pierferdinando Casini definì "infame". Ora il "caso Marrazzo” e tre uomini dell'Arma arrestati con l'accusa di estorsione. "Sinistra e destra sono senza differenza - spiega Bocca -. Complotto o no, uno che.ricopre un ruolo istituzionale non dovrebbe comportarsi, anche in privato, come ha fallo il governatore del Lazio”.
Forse anche i carabinieri coesistono, ovunque, con una società malata giunta a un punto bassissimo della Storia di questo Paese?
"Ho avuto parecchie noie dopo quell'articolo. Sono stato definito più volte un anti-italiano, preferirei davvero evitare di parlare dei carabinieri. E, aggiungo, se il Fatto pensava, intervistando me sulla vicenda Marrazzo, di voler fare un pezzo di sinistra ha sbagliato a cercare me". .
Nessun intento premeditato da parte nostra. Escludendo i carabinieri dal discorso, non pensa che il governatore sia stato vittima di un complotto?
"Non è questo il punto. Ammesso anche che si sia trattato di un complotto mi pare che Marrazzo fu già vittima di un pedinamento o qualcosa di simile in passato. Il presidente di una Regione dovrebbe essere ben più accorto e assumere dei comportamenti anche consoni al ruolo istituzionale che ricopre. In America non ci sarebbe stato nessun tentennamento sulle dimissioni, qui siamo fatti così”.
Ritiene, quindi, che Marrazzo abbia sbagliato tutto, anche nel comportamento tenuto nelle prime ore a scandalo ormai scoppiato?
"Abbia pazienza: uno che dice che tiene alla sua famiglia e poi va con i trans ... secondo me quanto meno è un tipo strano ... Sarà che sono un piemontese."
Insomma, anche per lei siamo al così fan tutti? Destra e sinistra, tutti uguali. Non pensa sia proprio quello che voleva dimostrare l'apparato che si è messo in moto?
Sì, la sinistra è come la destra. L'apparato non può dimostrar nulla, però, nel caso del giudice Raimondo· Mesiano. Pedinato e sbattuto sù Canale5 mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Ripeto: bisogna essere consci del molo che si ricopre: chi fa il governatore non può e non deve permettersi cose che magari possono anche apparire lecite per un uomo comune. Marrazzo, se è stato vittima, si è prestato ad esser vittima ".
Ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera si spingeva a chiedere a Marrazzo di valutare se fare un passo indietro chiedendosi "quanto sia stata condizionata l'attività pubblica di un presidente che da mesi vive costantemente in una condizione di ricatto". La stessa cosa che alcuni rilevarono per Berlusconi nella vicenda delle escort.
"Premetto che non leggo mai ciò che scrive Battista e ritorno a dire che è uno schifo generale. Prenda l'ex ministro Clemente Mastella quando ammette di aver raccomandato solo amici innocenti, chiedendo che cosa ci fosse di male. Trovo incomprensibile il modo di intendere l'onestà di tutta la nostra classe dirigente. Ci sono due modi di concepire la politica. lo scelgo quello espresso da una figura come Giuliano Vassalli”.
L'Italia è stata sempre così? Oppure ritiene che sia in corso un'escalation tra pedinamenti, dossier e buchi della serratura?
"Non è sempre stato così, nessuno si sognò mai di pedinare Aldo Moro perché c'erano in giro voci di una sua relazione con una cantante".
Vede luce alla fine del tunnel?
"Questo è un Paese in cui non mi riconosco più. Non mi riconosco più negli italiani. Forse hanno fatto bene a detìnirmi anti-italiano”



Repubblica 25.10.09
L’aria torbida di fine regno
di Eugenio Scalfari

L´aria che si respira in questi giorni è di fine della seconda Repubblica. Non è detto che sia anche la fine di Berlusconi perché le due cose non sono necessariamente coincidenti. Può darsi che la fine della seconda Repubblica porti con sé e travolga chi su di essa ha regnato; ma può darsi anche che sia proprio lui ad affossarla sostituendola con una Repubblica autoritaria, senza organi di garanzia capaci di preservare lo Stato di diritto e l´equilibrio tra i vari poteri costituzionali.
Il Partito democratico ha presentato in Parlamento il 22 ottobre, con la firma di Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, una mozione che fotografa con efficacia questa situazione. Se ne è parlato poco sui giornali, ma è l´atto parlamentare più drammaticamente documentato del bivio cui il paese è arrivato, mentre la crisi economica mondiale è ancora ben lontana dall´aver ceduto il posto ad una ripresa.
I sintomi di questa «fin du règne» sono molteplici. Ne elenco i principali: l´attacco martellante e continuativo del presidente del Consiglio contro la Corte costituzionale e la magistratura; la definitiva presa di distanza del medesimo nei confronti del Capo dello Stato; il disagio crescente di Gianfranco Fini verso la linea del Pdl e in particolare verso le candidature dei governatori in alcune regioni e in particolare il Veneto, il Piemonte, la Campania; l´irrigidimento della Lega su Veneto e Piemonte da lei rivendicate.
E poi il dissenso sempre più profondo tra una parte del Pdl (Scajola, Verdini, Baldassarri, Fitto, Gelmini) e Tremonti e la difficoltà di Berlusconi a ricomporre questo scontro che sta spaccando in due il centrodestra; la rivolta degli artigiani del Nordest contro la politica economica del governo; l´analoga rivolta di molti imprenditori lombardi; i casi giudiziari della famiglia Mastella; i casi giudiziari di un gruppo di imprenditori collegati a Formigoni; il caso Marrazzo e le sue possibili conseguenze politiche ed elettorali; gli attacchi dei giornali berlusconiani contro Tremonti e la sua minaccia di dimettersi. Infine la preoccupazione del presidente della Repubblica che aumenta ogni giorno di più e si manifesta in ripetuti e pressanti richiami a mandare avanti le riforme in un clima di condivisione.
L´elenco è lungo e sicuramente incompleto, ma ampiamente sufficiente ad alimentare la percezione di un processo di «disossamento» del paese, d´una guerra di tutti contro tutti, di un´azione di governo basata su frenetici annunci ai quali non segue alcun fatto. Si procede alla cieca. Siamo addirittura ad una sorta di fuga del premier che si è andato a nascondere nella duma personale di Putin e lì sta ancora mentre scriviamo (trattenuto a quanto si dice da una furiosa tempesta di neve della quale peraltro non c´è traccia nel bollettino meteorologico) dopo aver disertato la visita di Stato del re e della regina di Giordania ed aver rinviato a data da destinare il Consiglio dei ministri che era stato convocato per venerdì mattina. Forse per sfuggire al chiarimento con Tremonti?
Di sicuro si sa soltanto che il nostro premier è con il dittatore russo da tre giorni durante i quali hanno parlato «anche» di affari. Insomma, tira un´aria brutta, anzi mefitica.
* * *
Per non correr dietro alle voci sussurrate o gridate, stiamo ai fatti e soprattutto a quelli economici che maggiormente interessano i cittadini, cominciando con l´annuncio (ancora un annuncio) fatto dal premier prima di partire per San Pietroburgo, di voler dare inizio ad un graduale ribasso dell´imposta Irap.
L´annuncio fu lanciato la prima volta nel 2001 e poi rinnovato nel 2005, ma seguiti concreti non ce ne furono. Questa è dunque la terza volta; ma mentre dieci anni fa nessuno si oppose all´interno del centrodestra, questa volta c´è un «no» secco del ministro dell´Economia per mancanza di copertura.
Oltre al suo, c´è anche un «no» della Cgil e delle Regioni, a fronte di un completo appoggio da parte della Confindustria.
Si discute di un´imposta voluta a suo tempo da Vincenzo Visco, che unificò nell´Irap sette imposte precedenti, destinandone il gettito al finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Il gettito attuale dell´imposta rende 37 miliardi l´anno. Grava sulle imprese ed anche sui lavoratori così come vi gravavano le sette imposte precedenti. Il graduale ribasso annunciato da Berlusconi non è stato ancora definito nella sua concretezza, visto che spetterebbe a Tremonti di farlo ma è proprio lui che vi si rifiuta. I consiglieri del premier pensano ad una riduzione dell´imposta tra i tre e i quattro miliardi a vantaggio delle imprese, soprattutto di quelle di piccole dimensioni. I medesimi consiglieri suggeriscono di trovare la copertura utilizzando i fondi accantonati per il Mezzogiorno o quelli derivanti dallo scudo fiscale. Tremonti – l´abbiamo già detto – ha risposto con la minaccia di immediate dimissioni.
* * *
Nel frattempo ha fatto il giro di tutti i giornali un documento anonimo ma proveniente da alcuni «colonnelli» del Pdl, che avanzava una serie di critiche alla linea rigorista del ministro dell´Economia. Non si dovrebbe dar peso ai documenti anonimi senonché proprio ieri è stato presentato un documento con tanto di egregia firma da parte del presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, Baldassarri. In esso la linea rigorista del ministro viene completamente smontata dal vice ministro, il quale propone tagli di spesa e diminuzione di imposte da riversare a vantaggio dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese per un totale della rispettabile cifra di 37 miliardi.
Le dimensioni di questa manovra di fronte alla legge finanziaria del 2010 ancora in discussione in Parlamento, è imponente: 37 miliardi per modificare una Finanziaria che ammonta a un miliardo e mezzo. È evidente che in questo caso non ci saranno compromessi possibili: o viene smentito Baldassarri o se ne va Tremonti.
Ma non è tutto nel campo della politica economica. C´è la questione della Banca del Sud, che sta molto a cuore a Tremonti ed è stata già approvata nell´ultimo Consiglio dei ministri.
Si tratta anche in questo caso di un semplice annuncio sotto forma di un disegno di legge che configura per ora uno scatolone vuoto, del quale non si conoscono neppure i proprietari, cioè gli azionisti. Uno scatolone consimile fu battezzato anche dal medesimo Tremonti nel 2003, ma dopo un paio di mesi la gestazione fu interrotta per procurato aborto: la proposta infatti fu ritirata. Accadrà così anche questa volta?
La proposta (e sembra paradossale ma non lo è) incontra l´opposizione dei ministri meridionali, delle regioni meridionali, e dell´opposizione. Il perché è facile da capire: si tratta d´una banca autorizzata a raccogliere fondi sul mercato usandoli per finanziare imprese nel Sud a tassi particolarmente allettanti per i debitori. Lo Stato si accollerebbe la differenza. Si creerebbe così un circuito creditizio virtuoso per chi riceverà quei prestiti, ma un circuito perverso per le imprese già operanti con tassi tre volte più alti dei clienti della Banca. Clienti è la parola giusta perché si tratterà di una vera e propria clientela facente capo al ministro dell´Economia, fondatore e protettore della Banca in questione.
Va detto che l´agevolazione sui prestiti dovrà preliminarmente ottenere l´ok della Commissione Europea e infine quella della Banca d´Italia, la quale non sembra entusiasta d´una Banca così concepita.
Accenno a qualche altro problema più che mai aperto nella politica economica. Ho parlato prima di una rivolta degli artigiani del Nordest e del disagio tra le molte imprese che operano in Brianza. Si tratta di elettori in gran parte del centrodestra, molti dei quali finora hanno spesso intonato con convinzione il ritornello «meno male che Silvio c´è». Non pare che siano ora così entusiasti. Lamentano soprattutto due cose: la mancanza d´una riduzione fiscale tante volte promessa e mai avvenuta e il tempo maledettamente lungo impiegato dalle pubbliche amministrazioni locali e centrali per pagare i debiti contratti con quelle imprese. Una volta si trattava di 30 giorni, poi di 60; adesso ne passano mediamente 130, cinque mesi, prima di incassare qualche spicciolo.
Per rimediare a questo tardivo spicciolame, cresce vertiginosamente il numero di piccole imprese che imboccano la via del concordato.
Si parla di concordato quando un´azienda si trovi in una situazione di pre-fallimento. Invece di fallire propone un concordato ai creditori. Un tempo il concordato si faceva intorno al 50 per cento dei crediti. Coi tempi che corrono è sceso vertiginosamente: siamo in media intorno al 20 con punte al ribasso che arrivano fino al 7 per cento. I creditori, anziché perder tutto, accettano e l´impresa può riprendere il suo cammino con un vantaggio notevole rispetto ai concorrenti. Proprio per questa ragione sta aumentando il ritmo dei concordati e non è un bel vedere perché scarica sui creditori il peso dell´insolvenza debitoria. I creditori sono in gran parte banche e questo spiega perché il credito bancario si sta progressivamente restringendo e ancor più si restringerà.
Cito un episodio che tutti i giornali hanno pubblicato ma sul quale forse l´opinione pubblica non ha riflettuto abbastanza. Il governo ha concesso notevoli incentivi all´industria automobilistica, soprattutto per quanto riguarda la rottamazione di vecchi modelli e la fabbricazione di auto non inquinanti. L´industria dell´auto ne ha avuto un discreto sollievo ma Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha rivelato che finora (ed è passato quasi un anno) non ha ancora ricevuto un soldo ed ha provveduto finanziando a se stesso (cioè alla Fiat) gli incentivi e scrivendo sul bilancio un credito verso l´erario. Cioè: la Fiat ha chiesto alle banche di finanziarle un credito che lo Stato non ha ancora onorato. Vedete un po´ a che punto siamo.
* * *
Ci vorrebbe un programma di «exit strategy» ma ci pensano in pochi sia in Italia sia in Europa. Trichet, presidente della Banca centrale europea, ci pensa e ne parla. Draghi ci pensa e ne parla. Monti ci pensa e ne parla. Bernanke, presidente della Fed americana, ci pensa e ne parla. E basta. Cioè: ci pensano e ne parlano le autorità monetarie e alcuni esperti informati in materia. I politici di governo annaspano.
La discussione verte su due modelli: un´uscita dalla crisi a forma di L oppure a forma di W. La prima ipotesi è che si fermi la caduta ma la ripresa sia molto lenta e si dilunghi tre o quattro anni. Il secondo modello è invece che vi sia una ripresa consistente ma di breve durata, cui seguirebbe una forte ricaduta e poi una nuova ripresa. La durata di questo secondo modello è di sei o sette anni.
L´economia italiana, che procede a bassa produttività, sarebbe in entrambi i casi tra le più sfavorite e lente a dispetto di quanto i due amici-nemici Berlusconi e Tremonti vanno predicando da anni e cioè che noi usciremo dalla crisi meglio di tutti gli altri.
Le politiche necessarie per accelerare senza ricadute la ripresa economica sono diverse tra gli Usa e l´Europa. Senza entrare in troppi dettagli, per l´Europa si consiglia una robusta detrazione fiscale in favore dei consumatori-lavoratori per rilanciare la domanda interna e, insieme, una serie di provvedimenti da trasformare in legge con esecutività postergata per ribassare in misura consistente il debito pubblico. In alternativa un´imposta pro tempore sui patrimoni al di sopra di un limite, con applicazione per due-tre anni al massimo. Oppure un contenimento della spesa corrente che negli ultimi due anni non c´è stato affatto facendola lievitare di ben 35 miliardi.
Questo sì, è un dibattito serio. Il resto sono chiacchiere e annunci sgangherati, sempre più percepiti come bubbole per guadagnar tempo prima di far le valigie e andarsene.
* * *
Non posso chiudere questo mio «domenicale» senza ricordare che mentre leggete questo giornale si stanno svolgendo le primarie del Partito democratico per l´elezione del segretario nazionale e dell´Assemblea.
L´appuntamento è importante e interessa non solo il Pd ma tutta l´opposizione. Seguirò anzi il suggerimento datoci ieri da Andrea Manzella, di scrivere Opposizione, con la maiuscola perché la prova di forza dell´affluenza può anzi dovrebbe interessare l´Opposizione nella sua totalità e non soltanto gli iscritti a quel partito.
Le primarie del Pd offrono infatti all´Opposizione una piattaforma organizzativa. Sento parlare di sondaggi di un milione e mezzo o due milioni di votanti. Secondo me non sono sufficienti. Ce ne vogliono almeno tre milioni e questa sì, sarebbe una prova di forza ben riuscita.
Oggi l´Opposizione si può materializzare con tutta la forza che possiede purché superi indifferenza e scetticismo. Mi auguro che ciò avvenga per la salute della democrazia italiana.

Corriere della Sera 25.10.09
Psicoterapeuta Raffaele Morelli: «Volontà inconscia di essere scoperti. Il viado come una figura mitologica moderna»
«Uomini di potere, trans e la trasgressione come fuga»
di Mario Pappagallo

«A volte il potere diventa una gabbia insostenibile da cui si vuole fuggire, ma inconsciamente. In ap­parenza forti, sempre pronti a deci­dere, sottoposti a pressioni e a scel­te che possono anche non piacere o con le quali si scende a compromes­si, pur di aumentare il proprio pote­re e soddisfare le ambizioni. Nell’in­conscio invece si diventa sempre più sofferenti, pronti a tutto pur di uscire dalla gabbia. Ecco allora che la trasgressione, il rischio, l’annulla­mento delle inibizioni, diventano quella doppia vita spericolata che se va male ti libera e se va bene ti dà una scarica di adrenalina senza pa­ri. E l’inconscio del potente 'logora­to' cerca lo scandalo liberatorio. Un autolesionismo che riporta alle pro­prie radici, alla felicità della sempli­cità, a una normalità scordata ma mai tanto desiderata. L’essere sco­perti diventa urlo liberatorio».

Il caso del governatore Piero Mar­razzo ricorda quanto accaduto ad al­tre personalità di potere. Raffaele Morelli, psicoterapeuta e direttore di Riza Psicosomatica , apre la porta alle riflessioni: «I veri grandi uomi­ni restano semplici, umili, con ami­ci e famiglia al fianco, in una norma­lità che li preserva dal potere che dà alla testa. Altri, invece, senza accor­gersene, perdono il contatto con i valori più semplici, entrano nella gabbia. Ed è solo cadendo rovinosa­mente a terra che ritrovano quel­­l’identità che non sanno di aver per­so. E che inconsciamente ridesidera­no ».

Chi non è consapevole della gab­bia in cui si trova, «usa» quindi l’in­conscio come grimaldello? «In un certo senso è così. La trasgressione a rischio diventa una droga: conti­nue scariche di adrenalina che per­mettono di sopportare la gabbia. Al­lora, ecco che è l’incon­scio a creare la situazio­ne liberatoria. Le condi­zioni in cui si rischia sempre più di essere scoperti, di essere ricat­tabili per qualcosa di scandaloso. L’incon­scio apre violentemen­te la gabbia».

Va bene Morelli, ma perché sem­pre più spesso sono i transessuali l’oggetto del desiderio proibito? «E’ l’inconscio di tipo erotico che entra in gioco: rapporti non convenziona­li, a forte rischio, trasgressivi, di to­tale abbandono ma anche di totale ambiguità. Il massimo è un partner dalla sessualità 'artificiale', non co­dificabile. E’ come avere un rappor­to con un essere mitologico o una divinità. Il trans, infatti, è espressio­ne di quest’epoca: esiste grazie alla chirurgia e alla chimica. Fisicamen­te un uomo costretto a prendere sempre ormoni femminilizzanti, ma con una voce che non perde mai del tutto il timbro maschile. Donne con genitali maschili, uomini con genitali femminili. E, quando si fan­no operare, uomini (85%) e donne (15%) che restano del proprio sesso pur avendo genitali dell’altro creati artificialmente... ». Sesso «virtuale» che si materializza? Una Second Life trasgressiva diventata reale? «In un certo senso. Il concetto è che con un trans si va oltre la trasgressio­ne ». Spesso si aggiungono droga e alcol. «È la ricerca della scarica d’adrenalina che si ottiene quando si sfida la morte. La stessa sensazio­ne che si ha un attimo dopo essere sopravvissuti indenni a un inciden­te mortale. Ecco, al sesso trasgressi­vo si aggiungono i rischi di un in­contro in strada (dove si è più espo­sti), della cocaina, dell’alcol. E far­maci come il viagra. L’obiettivo è raggiungere il massimo del piacere e del pericolo da cui si può anche non uscire indenni». Un cocktail psico-fisico-farmacologico da ri­schio estremo.

E nel passato, quali le sesso-tra­sgressioni? «La bisessualità c’è sem­pre stata. Forse l’amore con gli ado­lescenti, i pochi ermafroditi e le or­ge tra gli antichi romani. Ma le orge sono in aumento anche oggi. Non dimentichiamo il sesso con gli ani­mali: trasgressivo al punto di essere oggetto di leggende mitologiche». E seguendo le parole di Morelli, tor­nano alla mente alcuni affreschi ero­tici pompeiani e i racconti di divini­tà che prendevano sembianze ani­mali, di festini orgiastici tra ninfe, centauri e fauni, la magia erotica delle sirene...

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Sanità La «quota rosa» in camice sta per raggiungere i maschi. E intanto li supera in qualità
Il medico migliore? Una donna
di Franca Porciani

Un’ampia ricerca inglese ha dimostrato i vantaggi della medicina al femminile: meno errori, meno controversie, maggior capacità di lavorare in gruppo. I direttori di grandi ospedali italiani confermano

Professione Una ricerca inglese evidenzia il primato delle «dottoresse»
Cerchi un bravo medico? Speriamo che sia femmina
Meno contenziosi e reclami, più lavoro di équipe

Sul piano privato, il tempo libero è ridotto all’osso, va po­co al cinema e a teatro. Ma non se ne lamenta. Come la maggior parte delle donne che hanno una famiglia e un lavoro oggi in Italia.
La relazione La donna è attenta ai bisogni del paziente più del collega maschio

Prima l’ingresso in sordi­na, poi un’entrata in scena con la forza di un uragano. Le donne medico sono aumenta­te di giorno in giorno fino a diventare oggi quasi le prota­goniste di un mestiere un tempo soltanto maschile; era­no il 57 per cento dei laureati in medicina nel 2000, il 62 per cento nel 2006 (ultimi da­ti disponibili).

Altro che quote rose: sia­mo di fronte ad un’invasione in rosa, che oltre a femmini­lizzare la professione, la sta ingentilendo, «migliorando». Sì perchè le donne in camice funzionano meglio dell’analo­go dell’altro sesso: lo rivela in modo clamoroso (ed inaspet­tato) una ricerca del diparti­mento di valutazione clinica del Servizio sanitario britanni­co, l’NCAS, acronimo di Na­tional Clinical Assessment Service , su un campione di 5.000 medici e dentisti sia ospedalieri che di medicina generale, condotta nell’arco degli ultimi otto anni.

Nell’indagine sono stati re­gistrate le segnalazione arri­vate all’amministrazione del­l’ospedale o dell’ health di­strict (il corrispettivo della nostra Asl) in seguito a con­tenziosi sulla qualità delle prestazioni, sugli errori clini­ci (di diagnosi o di trattamen­to) sui comportamenti all’in­terno dell’équipe, su eventua­li sospensioni dal lavoro e non ultimo, sul livello di gra­dimento dei pazienti. Proble­mi coniugati quasi esclusiva­mente al maschile, visto che le segnalazioni riguardano 3635 uomini e un modesto numero di donne: soltanto 873. La popolazione femmini­le col camice nel servizio sani­tario inglese rappresenta il 40 per cento della forza lavoro, ma prende «brutti voti» un modesto 20 per cento.

Una promozione importan­te, tale da catturare l’attenzio­ne della rivista Lancet che in uno degli ultimi numeri ospi­ta una riflessione dal titolo si­gnificativo: «Le donne sono medici migliori?», che è, in re­altà, un inno ad un cambia­mento che sembra portare so­lo novità positive.

«Sono dati che non mi me­ravigliano — commenta Or­nella Cappelli, presidente del­l’associazione italiana donne medico, specialista in micro­biologia ed igiene di Parma — ; la donna è per talento e per esperienza storica molto più capace dell’uomo di orga­nizzare il lavoro di gruppo; estranea al concetto di gerar­chia tipicamente maschile, ha una maggiore propensio­ne alla collaborazione. Un at­teggiamento che si rivela pro­ficuo in una struttura com­plessa come quella ospedalie­ra, ad esempio nella gestione del personale paramedico».

«C’è poi la grande capacità femminile — prosegue la dot­toressa Cappelli — di essere caregiver , come si dice oggi, ovvero di prendersi cura de­gli altri: il che spiega come mai la donna medico spesso (non sempre, peraltro) ha una maggiore attenzione del collega maschio ai bisogni complessivi del malato e alla comunicazione». Il che si tra­duce in una capacità di ascol­to e di dialogo che allenta le tensioni e riduce le incom­prensioni: ecco perché sono un numero decisamente infe­riore i reclami dell’utente nei confronti del medico donna rispetto al collega maschio.

Attenzione però a non fare della donna il «santino» della professione medica, sottoli­nea Giovanna Vicarelli, pro­fessore di sociologia alla fa­coltà di economia dell’univer­sità politecnica delle Marche, autrice di Donne di medicina (Il Mulino editore), la prima analisi attenta di questo nuo­vo fenomeno: «È un universo variegato quello delle donne medico, con differenze signi­ficative fra le generazioni: la creatività sul piano organizza­tivo e l’attenzione al paziente nella sua globalità caratteriz­zano il modo di lavorare nelle donne fra i quaranta e i cin­quant’anni; molto meno quel­lo delle più giovani, fra i tren­ta e i trentacinque, che sem­brano assai più competitive rispetto a quelle che le hanno precedute: puntano soprattut­to alla carriera». Ma qual è l’identikit della donna medi­co oggi in Italia? La risposta viene da due ricerche condot­te nel 2004 (una su 1160 me­dici di medicina generale, l’al­tra su quelli iscritti all’Ordine di Torino, Cosenza e Ancora, 714 per la precisione) e ripor­tate nel libro della professo­ressa Vicarelli: in media ha un’età fra i 43 e i 48 anni, pro­viene da una famiglia di ceto medio-alto, è sposata con un uomo che appartiene alla sua stessa classe sociale, ha figli. Ha intrapreso la professione perché animata dalla passio­ne per la ricerca scientifica (ma in Italia avrà incontrato non poche delusioni) e da una forte predisposizione alla cura degli altri, ha scelto una specializzazione dell’area me­dica. Svolge l’attività profes­sionale per lo più in forma di­pendente, senza ricoprire in­carichi manageriali a livello di organizzazione sanitaria, è iscritta alle società scientifi­che e al sindacato.

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Le specializzazioni
Soprattutto pediatre, ginecologhe e psichiatre Ma la cardiologia e la chirurgia restano maschili
di F. P.

Quali specialità scelgono le donne oggi? Sono ancora pediatria, anestesia e radiologia come trent’anni fa? Sì e no: la «fotografia» delle scelte emerge molto bene dai dati FNOMCeO (federazione degli ordini dei medici) del 2007 rielaborati dalla sociologa Giovanna Vicarelli.

La strada ancora più popolare è quella della pediatria, seguita dalla ginecologia e ostetricia; in terza posizione troviamo la psichiatria, in quarta l’endocrinologia e le malattie del ricambio, in quinta la dermatologia.

L’anestesia, molto gettonata dalle donne in passato, ora si posiziona all’ottavo posto.

Restano le «cenerentole delle scelte femminili» la cardiologia, la chirurgia generale, l’ortopedia e l’urologia. Ma qualcosa sta cambiando: le donne urologo in Italia oggi sono duecento e all’ultimo congresso nazionale della società della disciplina, hanno organizzato un simposio sulle tematiche della relazione medico-paziente. In questo caso, senz’altro non semplicissima.

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Roma Policlinico Tor Vergata
E’ vero, anche qui sono più precise
di F. P.

Il policlinico Tor Vergata di Roma è giovane: nato pochi anni fa, nel 2002, ha al suo interno una forte componente di universitari. Visto che la scalata del­le donne alle cattedre in medicina è ancora di là da venire, universitari e prevalentemente maschi: 367 contro 237 donne. «D’altro canto abbiamo divisioni come la cardiochirurgia, l’ortopedia e l’urologia, che sono ancora poco familiari alle donne» spiega Mauro Pirazzoli, direttore amministrativo dell’ospe­dale romano. Le richieste di risarcimento per errore clinico sono più di 30 all’anno, «per un totale di 186 dal 2002 ad oggi» precisa Pirazzoli.

Se sono veri anche per l’Italia i dati comparsi nella ricerca condotta in Gran Bretagna, queste ri­chieste sono per la stragran­de maggioranza legate a er­rori compiuti da medici ma­schi. È così?

«In effetti, lo sono nel 90 per cento dei casi. Nel 53 per cento si tratta di errori chirur­gici, nel 34 per cento di dia­gnosi sbagliate, nel 13, di erro­ri nella terapia. Le donne con il loro modestissimo 10 per cento fanno una bella figura, non c’è dubbio. E la fanno an­che nell’ambito dei provvedimenti disciplinari av­viati sia per gli ospedalieri che per gli universitari: le donne sono lo zero assoluto, non vengono mai richiamate».

Ma ci sarà pure un ambito dove anche le donne peccano?

«Sì: nei reclami scritti degli utenti. Nel 2008 ce ne sono stati 26, 12 riferiti a medici donne, 8 ad uomi­ni, 6 senza distinzione di genere. Ma c’è un motivo: nel 90 per cento dei casi i reclami vengono da perso­ne che non sono rimaste soddisfatte del trattamen­to in pronto soccorso, dove lavorano molte più don­ne che uomini. Allora il confronto diventa impari!».

Corriere della Sera Salute 25.10.09
Criminalità Il libro di uno psicoterapeuta svela la logica mafiosa
I segreti della mente di Cosa Nostra
Dalla «famiglia» al training dell’affiliato: le relazioni in un mondo di potere e di paura
di Angelo de’ Micheli

Le vere priorità
La psicologia della mafia tende soprattutto alla conquista del comando.
Il guadagno è secondario

Nei giorni scorsi si è molto parlato di mafia, di 'papelli', di patti e di pretese, di ipote­si di trattative di non bellige­ranza tra mafia e Stato. Tutto ciò ha riportato l’attenzione sul complesso fenomeno ma­fioso e sulla logica che sostie­ne e regola i comportamenti mafiosi. E non deve stupire che si possa parlare di 'logi­ca' e anche di psicologia del­la mafia. Ne parliamo con il professor Girolamo Lo Ver­so, ordinario di psicoterapia all’Università di Palermo, che da 16 anni studia il fenome­no mafioso e che sul tema ha pubblicato quattro libri, il più recente dei quali si intito­la 'Territori in controluce, ri­cerche psicologiche sul feno­meno mafioso', edito da Franco Angeli.

«La psicologia in ambito mafioso — spiega Lo Verso — studia non solo l’identità del mafioso, ma anche il suo sistema emotivo e relaziona­le. Lo fa, per esempio, condu­cendo colloqui con persone mafiose o che con queste hanno avuto contatti, come giudici, per esempio, o come amministratori e commer­cianti » . «Ad usare la psicologia per capire la mafia fu per primo il giudice Giovanni Falcone; si potrebbe dire che Falcone abbia inventato un metodo 'psicologico-clinico', perché cercava di comprendere il fe­nomeno cogliendolo dall’in­terno, dal punto di vista dei suoi protagonisti — prose­gue l’esperto —. Lo stesso ab­biamo fatto noi, intervistan­do collaboratori di giustizia, giudici antimafia, avvocati, poliziotti, psicoterapeuti sici­liani, calabresi e napoletani che hanno seguito nel tempo componenti di famiglie ma­fiose o casi di persone in odo­re di mafia. E abbiamo appro­fondito il tema analizzando il testo dei colloqui fatti da per­sone mafiose e le perizie psi­chiatriche condotte su di lo­ro, nonché in momenti di ela­borazione dei problemi con gruppi di cittadini di comuni ad alta densità mafiosa, con lo scopo di attivare degli in­terventi psico sociali.

«La nostra ricerca ci ha por­tato, così, ad alcune conclu­sioni. Per esempio, che Cosa Nostra, tramite l’idea di 'fa­miglia' in senso allargato, che si prende cura dei suoi af­filiati, costruisce dalla nasci­ta i suoi adepti, sia uomini che future mogli di mafiosi. Lo fa con una forte trasmis­sione di 'valori', arrivando a quello che si potrebbe defini­re un concepimento fonda­mentalista del bambino co­me futuro mafioso, sottopo­nendolo via via a un training che comincia dalla prima ado­lescenza e che si sviluppa in lunghe fasi di 'carriera'. Una carriera che comprende gli omicidi. Tutto ciò, serve per costruire un perfetto kil­ler- robot agli ordini dell’orga­nizzazione » .

«Cosa Nostra — aggiunge Lo Verso — ha altresì stru­mentalizzato vecchi codici si­ciliani, quali la famiglia e l’onore, al fine di costruire una perfetta azienda crimina­le. Cosa Nostra è la famiglia e così, infatti, si definisce. Nel­la n’drangheta, invece, fami­glia d’origine e mafiosa coin­cidono » . C’è, quindi, una realtà pseudofamiliare che sostitui­sce quella sociale? «Molto di più — dice l’esperto —. Dalle nostre ricerche emerge che la mafia ha come unico vero obiettivo il potere — 'cum­manari è megghiu di futtiri', comandare è meglio che fare sesso, è il detto —, e solo se­condariamente il denaro. Per la relazione affettiva e la ses­sualità c’è, invece, totale di­sinteresse. In sostanza, si trat­ta di un mondo che vive di paura, e che comanda attra­verso la paura, prima ancora che con la violenza. Basti pen­sare all’approccio per intimi­dire i commercianti a cui chiedere il pizzo. Cosa Nostra non è solo un’organizzazione criminale, è una sorta di 'sta­to' che impone il suo control­lo, le sue leggi. E che tratta con pezzi dello Stato e con po­teri politici».

Chi ha fatto parte di questa realtà può modificare la sua prospettiva di vita? «E’ molto difficile. Non è possibile, per esempio, fare una psicotera­pia approfondita ed analitica in un mondo addestrato al­l’omertà, con individui che non riescono a realizzare un’introspezione vera nem­meno quando entrano in cri­si. Noi abbiamo lavorato so­prattutto come supporto psi­coterapeutico ai familiari di collaboratori di giustizia, ai familiari di latitanti, e con persone nelle cui famiglie era­no presenti elementi non ma­fiosi ».

Che cosa dobbiamo aspet­tarci? «E’ importante render­si conto che la mafia è ormai un problema di tutti, a livello nazionale e internazionale— conclude Lo Verso —. E’ co­me avere a che fare con una grande ragnatela, costruita per di più con una trama con­solidata da anni. Una trama ancorata nell’assenza di una struttura sociale organizzata e improntata alla illegalità. Questi vuoti hanno permes­so di creare nel corso di nu­merosi decenni una gerar­chia di valori e di relazioni al­ternative tutt’ora forti e, per­ciò, ancora oggi difficili da sradicare».