mercoledì 28 ottobre 2009

l'Unità 28.10.09
Ancora prima di Gramsci
In Italia le basi del potere repubblicano sono messe a dura prova. Per questo, oltre ai Quaderni, bisogna rileggere Tocqueville
di Michele Ciliberto, Università Normale di Pisa

In Italia, sono toccate in questi giorni le fondamenta stesse del potere repubblicano. La sentenza della Corte costituzionale sul Lodo Alfano ha fatto esplodere tensioni e contrasti che riguardano il problema di chi sia il sovrano in Italia. Problema radicale, nel senso letterale della parola: esso riguarda le radici ultime dell’esistenza della Repubblica. Di questo si tratta: e bisogna averne lucidissima coscienza. Il Presidente del Consiglio rivendica la sua primazia sostenendo di essere stato eletto dal popolo e di avere per questo funzioni e diritti che travolgono funzioni, equilibri e reciproci bilanciamenti dei poteri. Una posizione di carattere populistico, è stato detto; di una nuova forma populismo, aggiungo io, che stravolge le fondamenta della democrazia rappresentativa italiana.
Di fronte a tutto questo da alcune parti si è parlato del tradizionale “sovversivismo” delle nostre classi dirigenti, frutto diretto del tradizionale distacco – anzi separazione – tra “governanti” e “governati” nel nostro paese. È l’analisi di Gramsci nei Quaderni che individua nel sovversivismo delle nostre classi dirigenti un punto caratteristico, e rivelatore, della storia nazionale italiana.
Senza alcun dubbio, è un’interpretazione interessante, con la quale continuare a fare i conti; ma non coglie appieno il dato nuovo della situazione italiana. Quello che abbiamo di fronte è una generale patologia della democrazia rappresentativa che non riguarda, in quanto tale, solo il nostro Paese. Non tenderei ad interpretare ciò che sta accadendo in termini di arretratezza della società italiana. Penso invece che da noi siano esplosi, in maniera precoce e più violenta, anche per fragilità – questa sì della nostra struttura istituzionale e sociale, dei fenomeni che riguardano il destino della democrazia rappresentativa nei prossimi anni. È per questo motivo, credo, che la crisi italiana e le iniziative del presidente del Consiglio sono diventate oggetto di attenta analisi da parte dei giornali stranieri, sia europei che americani. Essi intuiscono che il problema non concerne solo l’Italia, ma che la favola riguarda, o potrebbe riguardare, anche loro, e non in un futuro lontano.
Da questo punto di vista sono persuaso che oggi sarebbe utile rileggere, oltre che Gramsci, Tocqueville, e , in modo particolare, la seconda Democrazia in America un testo classico che come tutti i grandi classici ha la capacità di sporgere oltre il proprio tempo storico.
In quelle pagine Tocqueville dimostra come la democrazia si possa risolvere nella costituzione di un potere statale dispotico, da un lato; in una forte “passivizzazione”, dall’altro, delle masse, le quali rinunciando alla propria individuale responsabilità affidano la loro sorte ad un potere che progressivamente si impadronisce e domina l’intera realtà politica e sociale. Ovviamente, l’analisi di Tocqueville va riattualizzata alla luce del potere che oggi hanno assunto i mezzi di comunicazione di massa, e specialmente la televisione, quali strumenti prioritari delle nuove forme di dispotismo attraverso un generale processo di “passivizzazione” degli individui, il dato più inquietante della situazione in cui ci troviamo. Ma, precisato questo, quell’analisi resta un punto di riferimento indispensabile.
«Volesse il cielo che ci fossero delle rivoluzioni!» – esclama Tocqueville nella seconda Democrazia sottolineando la situazione di apatia, di staticità, di perdita di autonoma iniziativa, nella quale possono precipitare i popoli democratici. Ma non si arrende a questa situazione. Proprio nelle pagine finali della Democrazia in America fa l’elogio dell’insopprimibile esigenza di libertà dell’uomo, un ostacolo insuperabile per qualunque forma di vecchio o nuovo dispotismo. Quella di Tocqueville, però, prima di essere una constatazione, era soprattutto un auspicio, un’ultima speranza. Per riuscire a contenere i processi patologici delle democrazie ci vuole ben altro e soprattutto è necessario individuare nuove forme di comunicazione fra “governanti” e “governati” e nuove relazioni fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa attivando nuovi contrafforti nei confronti delle dinamiche dispotiche e nuove forme di equilibrio e di bilanciamento dei poteri.
Come diceva Montesquieu, si può essere tutti uguali e tutti servi; per poter essere tutti uguali e tutti liberi bisogna impegnare una grande battaglia; ed è precisamente questa che bisogna combattere oggi in Italia. ❖

l'Unità 28.10.09
Amnesty accusa: così Israele nega l’acqua ai palestinesi
Un dossier dell’organizzazione: in Cisgiordania e nei Territori prati, piscine e campi dei 450mila coloni israeliani ne consumano più dei 2.300mila palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

Venti volte in più
È la differenza del consumo pro capite tra coloni e vicini arabi
Il dramma di Gaza
Inquinata la falda, è vietato costruire tubature e fogne
Un j’accuse documentato. Una privazione terribile. Amnesty International accusa Israele di negare ai palestinesi acqua potabile «mantenendo un controllo totale sulle risorse comuni e mettendo in pratica politiche discriminatorie». In un rapporto, Donatella Rovera, responsabile di Amnesty per Israele ed i Territori palestinesi, afferma che «Israele lascia che i palestinesi abbiano accesso unicamente ad una parte delle risorse idriche comuni, situate soprattutto in Cisgiordania, mentre le colonie israeliane illegali ne ricevono quantità praticamente illimitate». In alcune aree della Cisgiordania nelle colonie si consuma 20 volte la quantità d’acqua per abitante di quella concessa ai palestinesi che vivono nelle zone limitrofe.
«Piscine, prati ben innaffiati e vaste distese agricole nelle colonie contrastano con i villaggi palestinesi vicini i cui abitanti devono battersi quotidianamente per assicurarsi la quantità di acqua di cui hanno bisogno». I 450 mila coloni israeliani (inclusi quelli che abitano a Gerusalemme est) consumano una d’acqua potabile uguale o maggiore di quella disponibile a 2,3milioni di palestinesi. Secondo Amnesty sarebbero tra i 180mila ed i 200mila i palestinesi che non hanno accesso all’acqua corrente nelle loro case in Cisgiordania. Il consumo giornaliero pro capite di un israeliano è di 300 litri d’acqua, quello di un palestinese di 70 litri. In alcune comunità rurali palestinesi il consumo pro capite
scende a 20 litri, il minimo stimato necessario per uso domestico in situazione di emergenza.
«L’acqua è una necessità di base ed un diritto», sottolinea Amnesty nel rapporto. Nella Striscia di Gaza, continua Amnesty, «il 90-95% viene da una falda costiera la cui acqua è contaminata e inadatta a uso umano». Nella Striscia, inoltre, l’offensiva israeliana lo scorso inverno ha danneggiato pozzi, fogne e stazioni di pompaggio, danni che si aggiungono all’impatto del blocco israeliano ed egiziano del territorio. Il sistema di trattamento delle acque di scarico è stato particolarmente colpito in quanto Israele vieta l’importazione delle tubature e altre attrezzature metalliche nel timore che servano a fabbricare razzi artigianali. Sulle coste di Gaza, mare e spiagge sono inquinati dall’infiltrazione delle fogne. Amnesty chiede perciò allo Stato ebraico di porre immediatamente fine «alle sue pratiche discriminatorie e alle restrizioni imposte ai palestinesi per l’accesso all’acqua». «L’acqua sottolinea Donatella Rovera è una necessità fondamentale e un diritto ma per molti palestinesi anche ottenerne in quantità scadenti necessarie per la sopravvivenza è divenuto un lusso che a malapena si possono permettere».
Israele contrattacca. La reazione israeliana non si fa attendere. Ed è durissima. Mark Regev, portavoce del premier Benjamin Netanyahu, definisce «assurde» le accuse rivolte a Israele. Per Regev, le autorità israeliane rispettano gli impegni presi con l’accordo di Oslo del 1993, mentre i palestinesi non adempiono a quanto previsto in materia di riciclo delle acque e gestiscono in modo non efficiente la loro distribuzione. «Israele ha fornito ai palestinesi 20,8 milioni di litri cubi di acqua, ben oltre quello che sarebbe tenuto a fare in base agli accordi», ha aggiunto Secondo l’Autorità israeliana per le risorse idriche «il consumo di acqua da parte dei palestinesi è costantemente cresciuto negli ultimi anni». Il divario fra il consumo di acqua di israeliani e palestinese esiste davvero, ammette l’Autorità, «ma certo non nelle dimensioni descritte dal rapporto».
Secondo l’esercito israeliano, che mantiene il controllo sulla Cisgiordania, «si tratta di un rapporto unilaterale, pieno di denigrazioni infondate, redatto senza che ad Israele sia stata fornita la possibilità di misurarsi con le accuse. ’Israele vede nell’acqua una risorsa essenziale e non lesina sforzi precisa l’esercito per prestare assistenza alla Autorità nazionale palestinese».
Dura reazione anche del ministro per le Infrastrutture, Uzi Landau (Israel Beitenu, destra radicale) secondo cui il rapporto di Amnesty essere affiancato a quello del giudice Goldstone sulla operazione Piombo fuso a Gaza. «Le loro conclusioni erano state stabilite in partenza, prima ancora del lavoro di ricerca», polemizza il ministro. ❖

Repubblica 28.10.09
Quel Papa che pesca nell’acqua di destra
di Hans Küng

È una tragedia: dopo le offese già arrecate da Papa Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti, ora è la volta della Comunione Anglicana. Essa conta pur sempre 77milioni di aderenti ed è la terza confessione cristiana, dopo la chiesa cattolica romana e quella ortodossa. Cosa è successo? Dopo aver reintegrato l´antiriformista Fraternità San Pio X, ora Benedetto XVI vorrebbe rimpolpare le schiere assottigliate dei cattolici romani anche con anglicani simpatizzanti di Roma. I sacerdoti e i vescovi anglicani dovrebbero potersi convertire più facilmente alla chiesa cattolica, mantenendo il proprio status, anche di sposati. Tradizionalisti di tutte le chiese, unitevi – sotto la cupola di San Pietro! Vedete: il pescatore di uomini pesca soprattutto sulla sponda destra del lago. Ma lì l´acqua è torbida.
Questo atto romano rappresenta niente meno che un drastico cambio di rotta: via dalla consolidata strategia ecumenica del dialogo diretto e di una vera riconciliazione. E verso una pirateria non ecumenica di sacerdoti, cui viene persino risparmiato il medioevale obbligo di celibato, solo per render loro possibile un ritorno a Roma sotto il primato papale. Chiaramente l´attuale arcivescovo di Canterbury, il Dr. Rowan Williams, non era all´altezza della scaltra diplomazia vaticana.
Nel suo voler ingraziarsi il Vaticano apparentemente non ha compreso le conseguenze della pesca papale in acque anglicane. In caso contrario non avrebbe firmato il comunicato minimizzante dell´arcivescovo cattolico di Westminster. Le prede nella rete di Roma non capiscono che nella chiesa cattolica romana saranno solo preti di seconda classe, e che alle loro funzioni i cattolici non possono partecipare?
Il comunicato fa sfacciatamente riferimento ai documenti realmente ecumenici della Anglican Roman Catholic International Commission (Arcic), elaborati in anni e anni di laboriosi negoziati tra il romano Segretariato per l´Unione dei Cristiani e l´anglicana Conferenza di Lambeth: sull´Eucarestia (1971), sull´ufficio e l´ordinazione (1973) nonché sull´autorità nella Chiesa (1976/81). Gli esperti però sanno che questi tre documenti, a suo tempo sottoscritti da entrambe le parti, non sono mirati alla pirateria, bensì alla riconciliazione.
Questi documenti di vera riconciliazione offrono infatti la base per il riconoscimento delle ordinazioni anglicane, delle quali Papa Leone XII nel 1896 aveva negato la validità con argomentazioni poco convincenti. Dalla validità delle ordinazioni anglicane deriva anche la validità delle celebrazioni eucaristiche anglicane. Sarebbe così possibile una reciproca ospitalità eucaristica, una intercomunione, un lento processo di unificazione tra cattolici e anglicani.
Ma la vaticana Congregazione per la dottrina della fede fece all´epoca in modo che questi documenti di riconciliazione sparissero il più rapidamente possibile nelle segrete del vaticano. «Chiudere nel cassetto», si dice. «Troppa teologia küngiana», recitava all´epoca un comunicato riservato della agenzia di stampa cattolica Kna. In effetti avevo dedicato l´edizione inglese del mio libro «La Chiesa» all´allora Arcivescovo di Canterbury, Dr.Michael Ramsey in data 11Ottobre 1967, quinto anniversario dell´apertura del concilio Vaticano secondo: nella «umile speranza che nella pagine di questo libro si ponga una base teologica per un accordo tra le chiese di Roma e Canterbury».
Vi si trova anche la soluzione alla spinosa questione del primato del papa, che da secoli divide queste due chiese, ma anche Roma dalle chiese dell´Est e dalle chiese riformiste. Una «Ripresa della comunità ecclesiale tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana sarebbe possibile», se «da un lato alla chiesa d´Inghilterra fosse garantito di poter mantenere il proprio attuale ordine ecclesiale sotto il primato di Canterbury e dall´altro la chiesa d´Inghilterra riconoscesse il primato pastorale del soglio di Pietro come istanza superiore di mediazione e conciliazione tra le Chiese».
«Così», speravo io all´epoca, «dall´impero romano nascerà un Commonwealth cattolico!»
Ma papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l´impero romano. Alla Comunione Anglicana non fa alcuna concessione, intende piuttosto mantenere per sempre il centralismo medioevale romano, – anche se impedisce un accordo delle chiese cristiane su questioni fondamentali. Il primato del papa – dopo Papa Paolo VI bisogna ammetterlo il «grande scoglio» sulla via verso l´unità della chiesa – non agisce apparentemente come «Pietra dell´unità». Torna in auge il vecchio invito al «ritorno a Roma», ora attraverso la conversione soprattutto di sacerdoti, possibilmente in massa. A Roma si parla di mezzo milione di anglicani con venti o trenta vescovi. E gli altri 76 milioni? Una strategia dimostratasi fallimentare nei secoli passati e che condurrà nel migliore dei casi alla nascita di una minichiesa anglicana «unita» a Roma in forma di diocesi personali (non territoriali). Ma quali sono le conseguenze odierne di questa strategia?
1. Ulteriore indebolimento della chiesa anglicana: In Vaticano gli antiecumenici giubilano per l´afflusso di conservatori, nella chiesa anglicana i liberali esultano per l´esodo di disturbatori simpatizzanti cattolici. Per la chiesa anglicana questa scissione implica un´ulteriore corrosione. Essa soffre già in conseguenza della nomina inutilmente osteggiata di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo in Usa – effettuata mettendo in conto lo scisma della sua diocesi e dell´intera comunità anglicana. La corrosione è stata rafforzata dall´atteggiamento discordante dei vertici ecclesiastici nei confronti delle coppie omosessuali: alcuni anglicani accetterebbero senz´altro la registrazione civile con ampie conseguenze giuridiche (tipo diritto di successione) e con eventuale benedizione ecclesiastica, ma non un «matrimonio» (da millenni termine riservato all´unione tra uomo e donna) con diritto di adozione e conseguenze imprevedibili per i figli.
2. Generale disorientamento dei fedeli anglicani: L´esodo dei sacerdoti anglicani e la proposta loro nuova ordinazione nella chiesa cattolica romana solleva per molti fedeli (e pastori) anglicani un pesante interrogativo: l´ordinazione dei sacerdoti anglicani è valida? E i fedeli dovrebbero convertirsi alla chiesa cattolica assieme al loro pastore? Che ne è degli immobili ecclesiatici e degli introiti dei pastori?
3. Sdegno del clero e del popolo cattolico. L´indignazione per il persistere del no alle riforme si è diffusa anche tra i più fedeli membri della chiesa. Dopo il Concilio molte conferenze episcopali, innumerevoli pastori e credenti hanno chiesto l´abrogazione del divieto medioevale di matrimonio per i sacerdoti, che sottrae parroci già quasi a metà delle nostre parrocchie. Ma non fanno che urtare contro il rifiuto caparbio e ostinato di Ratzinger. Ed ora i preti cattolici devono tollerare accanto a sé pastori convertiti sposati? Cosa devono fare i preti che desiderano il matrimonio, forse farsi prima anglicani, sposarsi, e poi ripresentarsi?
Come già nello scisma tra Oriente e Occidente (XI sec.), ai tempi della Riforma (XVI sec.) e nel primo Concilio vaticano (XIX sec.) la fame di potere di Roma divide la cristianità e nuoce alla sua chiesa. Una tragedia.
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 28.10.09
Il potere, il sesso e le menzogne perché s’indigna il popolo di sinistra
di Mario Pirani

Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.
Con questo gesto l´uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all´umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.
Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l´animo percosso da una catastrofe dell´anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier. Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell´uno e dell´altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra «popolo di destra» e «popolo di sinistra».
Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a «inviti a cena e in villa e sesso un po´ a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica». Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l´assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l´hanno con Veronica perché «non lava in famiglia i panni sporchi» e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall´altra parte, distogliere l´attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un´etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c´è.
Per contro il «popolo di sinistra» nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l´istituzione che dirigeva con accertata dedizione. No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell´animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell´animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall´ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria – lo stalinismo in tutte le sue forme –, lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico. La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l´essere dalla parte – ed essere parte – della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.
Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l´altro giorno, persino, dall´obbligo di pagare il canone Rai). Cosa gliene importa del conflitto d´interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet «che tutto se po´ fa», la versione plebea dello «Yes, we can».
Il «popolo di sinistra» questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: «In fondo sono tutti eguali». Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.
Di qui l´esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell´omologazione subliminale con l´avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un´arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell´altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il «controllo del territorio», secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.
Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c´è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano. Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.
Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi. Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

Corriere della Sera 28.10.09
Tradimenti e paure
Gli uomini, i trans e quel mondo dove non c’è posto per le donne
di Marina Terragni

A lui che ti tradisce con un’altra donna sei pronta, ma cosa fai con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?
Abbandonati dalle femmine, sfiniti dalla loro libertà e dalla voglia di stravincere molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini»
È un luogo dove ci sono solo maschere di donne, come sulla scena di un teatro, per un’omosessualità che è soprattutto culturale

Ricordate il vecchio Freud, di fronte al mistero delle «sue» isteriche? Che cosa vuole una donna? si lambiccava il cervello. Una risposta precisa non seppe trovarla neanche lui. Al tempo dei patriarchi la sessualità maschile era la norma, e quella delle donne un oscuro tumulto non autorizzato. Ma un uomo?

Che cosa vuole, un uomo? verrebbe voglia di chiedergli oggi. Perché dei desideri delle donne ormai si sa tutto.

Dalle autovisite in avanti, il mistero è stato pubblicamente scandagliato per almeno mezzo secolo. E i desideri degli uomini?

Ecco, ti pare di avere proprio tutto: la vita che volevi, il lavoro, e poi la casa, il conto in banca, e la famiglia, i figli e forse— che esagerazione! — perfino l’amore. Poi un bel giorno, per ricatto o per puro caso, vieni a sapere di una certa Brenda o Nazaria o Wynona che come un’oscena badante si prende cura del padre dei tuoi figli. E all’epicentro del terremoto che fa crollare la tua vita perfetta, un maestoso fallo con cui non c’è possibilità di gara.

Una nuova versione dell’invidia del pene?

«A un’altra donna, tutto sommato, sei sempre pronta», racconta una che c’è passata. «Soprattutto sui 50, quando diventano fascinosi e brizzolati e cominciano a tentennare. Sai che vanno in cerca di conferme. E se capita, dopo un po’ di purgatorio magari te li riprendi pure in casa. Ma così...» si mette le mani tra i capelli. «Ed era anche un mostro.

Che cosa fai, con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?».

Il modello manca. C’è tutta una genealogia di tradite lacrimose a cui riferirsi quando si tratta «banalmente» di una donna: le madri, le nonne; le crisi di nervi della principessa Maria Stella Salina, quando il Gattopardo Don Fabrizio, stampatole un brusco bacio sulla fronte, lascia Donnafugata per una fuga in carrozza dalla sua favorita. Le convenienti ritrosie della moglie a cui tocca convivere con la lascivia autorizzata dell’amante. Una poligamia informale. Le cose andavano così, quando il patriarcato aveva dato al mondo il suo ordine: per quanto discutibile, almeno riconoscibile.

Una saprebbe regolarsi perfino se l’altra fosse inequivocabilmente un altro. Ormai anche qui qualche precedente si è accumulato. Ti puoi anche disperare come Julianne Moore, moglie anni Cinquanta in «Lontano dal paradiso», di fronte al coming out del tuo amato sposo, ma non puoi non comprendere. E dopo un ragionevole periodo di assestamento, se hai un’anima sufficientemente grande puoi anche continuare ad amare. Come una sorella. Non tutto è perduto. Ma di fronte a Brenda, Nazaria o Wynona ti va in pappa il cervello: che cos’ha? È gay?

Non sta bene? O è semplicemente un maiale? Chi chiamo? L’avvocato, uno psichiatra o l’esorcista?

Non è un caso, per quanto possa apparire pazzesco, che oggi la sessualità maschile sia diventata una questione politica. Il fatto è che si tratta davvero di una questione politica. Che cosa sono gli uomini, crollata la narrazione patriarcale? Su che cosa puntellano la loro identità se non possono più contare sul dominio delle donne? Che cosa ne è della loro maestosa cultura e del mondo che ci hanno costruito sopra, se le fondamenta sono piene di crepe? Non c’è proprio niente da ridere. La pochade della nostra trans-repubblica — ricatti, contro-ricatti, gente in mutande, partouze, mercimoni, filmini, escort che chiacchierano, mogli che sbarellano — è solo la divertente parodia. Sotto, le lugubri note di una danse macabre di fine civiltà.

Questo delle trans non è solo un vizietto per potenti. Se una metà abbondante di chi fa il «mestiere» è pene-dotata, è perché esiste una corrispondente — e ipocrita — domanda da parte di un’enorme quantità di impiegati, ragionieri, amministratori di condominio, onesti padri di famiglia. Ok il seno e un nasino femminile, ma nessuna operazione definitiva. «Quello» lo si tiene, o si perderebbero i clienti che a quel punto si rivolgerebbero a «semplici» donne (e sai la noia...).

«Perfino i papponi — conferma Ginny, pioniera operata a Londra più di trent’anni fa — oggi chiedono alle ragazze di mettersi su da travestiti»: sei una donna, d’accordo, ma cerca almeno di sembrare un uomo che vuole sembrare una donna… Vertiginoso!

La trans del resto è un modello universale, valido anche per le comuni rifatte, quelle rispettabili signore tumefatte e zigomate che fanno shopping in via Condotti o su Park Avenue. Non è forse da travestito quella loro facies chirurgica, la stessa di tante opinioniste «zero tituli» dei nostri salotti tv? Qualcosa vorrà pur significare. Il trans oggi ha un’audience strepitosa: dopo Silvia, MtF — da uomo a donna — al Grande Fratello è la volta di un più raro FtM. E Maurizia Paradiso, che rivela a Pomeriggio 5 la sua prossima pater-maternità grazie all’utero della modella colombiana Francine...

Ginny spiffera i nomi (irriferibili) di vari ricchi e famosi, abituali degustatori della specialità maschio-con-tette: a quanti tremeranno i polsi! E dice che questo andazzo è cominciato a metà anni Ottanta, con l’invasione dei viados brasiliani. O non è piuttosto che i viados sono accorsi a frotte per corrispondere a una domanda maschile emergente: giacere con uomini parzialmente adattati a donne?

Tra i pochi disposti a parlarne — per il resto, omertoso, complice, imbarazzato silenzio — l’ex calciatore francese Éric Cantona, che in un’intervista ha ammesso: «La donna ideale potrebbe essere un travestito, perché ha un po’ di entrambi».

E su «Via Dogana», periodico della Libreria delle Donne di Milano, Stefano Sarfatti Nahmad dice: «Comincio a credere che gli uomini che sono interessati al pieno godimento sessuale troveranno più facilmente quello che cercano scegliendo un rapporto omosessuale».

Ma forse non è tanto, riduttivamente, questione di essere o non essere gay.

Traditi e abbandonati dalle donne, mortificati dalla loro autonomia, sfiniti dalla loro libertà e dalla loro voglia di stravincere, molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini». Un mondo a cui le donne non hanno accesso: solo maschere di donne, come sulle scene del teatro medievale; solo pseudo-donne, a misura di un immaginario semplificato e un po’ autistico. Un’omosessualità spirituale e culturale che può contemplare anche un passaggio strettamente sessuale.

Mi scrive, straordinariamente sincero, un lettore sul blog: «Il vero unico desiderio è vivere momenti di bel cameratismo con altri maschi... Anche il travestito ama esclusivamente il mondo maschile e ritiene che la sua 'missione' sia dare amore ad altri maschi, di cui comprende le sofferenze profonde che nessuna donna potrebbe lenire». Non varrebbe la pena di pensarci un po’ su? Dispensatrici di bellezza e di gioia, le donne hanno rinunciato per sempre a questa prerogativa divina? Valgono questo prezzo, i loro strepitosi guadagni?

Per completezza d’informazione chiedo a Ginny, che ne ha viste e ne ha passate tante, che cos’ha capito in definitiva del sesso degli uomini: «Mah... — riflette —.

Che ci pensano sempre. E che sono strani».

martedì 27 ottobre 2009

La Stampa 27.10.09
Da mangiapreti a devoto le giravolte di Francesco
di Mattia Feltri


Chi lo definisce il Christian Vieri della politica, uno che cambia casacca a ogni stagione, poco ha capito di Francesco Rutelli. Alzi la mano chi si ricorda quando smise di essere radicale per diventare verde, o quando smise di essere verde per diventare centrista, o quando smise di essere mangiapreti per diventare cattolico. L’evoluzione di Rutelli è un processo talmente complicato che non si esaurisce nell’elencazione: era un ragazzo devoto e divenne laico, frequentò il liceo dai gesuiti e lo concluse in un istituto statale, era con Marco Pannella e già aveva fondato i Verdi arcobaleno ed era entrambe le cose e di colpo era il candidato di tutta la sinistra a sindaco di Roma, e quando smise di essere sindaco era già il candidato dell’Ulivo contro Berlusconi (2001) e subito dopo era già il presidente della Margherita.
Se volete l’elencazione, si può andare avanti per l’intero articolo: ha avuto la tessera dei socialdemocratici, era più per il Psi di Bettino Craxi che per il Pci di Enrico Berlinguer ma fu sindaco su iniziativa del Pds di Achille Occhetto e nell’ostilità dei socialisti di Giorgio Benvenuto, studiò un’alleanza con la Rete di Leoluca Orlando, andò al Parlamento europeo nelle liste dei Democratici, una specie di abbozzo del partito dei sindaci. Il materiale non manca. Nel 1991 era Verde ma aveva la tessera dei radicali eppure disse che non gli interessavano alleanze con Pannella. Era supergarantista con Enzo Tortora e supergiustizialista con Bettino Craxi: «Speriamo di vederlo consumare il rancio nelle patrie galere», per quanto si pentì di una frase così infelice, e per quanto qui la contraddizione non sembri ontologica. Combatteva contro «il Vaticano di Andreotti e Marcinkus» e tredici anni dopo essersi sposato in Comune si risposò in chiesa, e celebrò un mammasantissima della Santa Sede come il cardinale Achille Silvestrini.
Allo stesso modo adesso tutti sanno che lascerà il Partito democratico, che pure fondò, per fondare qualcosa d’altro con Pierferdinando Casini, sebbene nessuno sappia quando e come. Lo farà, dice Bruno Vespa citando rutelliane dichiarazioni limate e stralimate per il nuovo libro in uscita. «Lo farò?», si chiede retoricamente e sfuggente Rutelli. Lo farà, dunque, ma senza strappi, perché i percorsi non hanno per forza inversioni a U. In fondo sono passati secoli da quando Rutelli si fece arrestare a Latina (1981) in una manifestazione per l’obiezione di coscienza contro la leva militare. Secoli, da quando prese parte a una cena al Quirinale, Sandro Pertini presidente, re Juan Carlos ospite d’onore, e tutti si ingozzavano con tortellini in brodo, faraona novella e rombo gratinato, ma lui era in sciopero della fame contro le violenze del carcere e prese un pannelliano cappuccino. Secoli da quando, nominato ministro dell’Ambiente del governo Ciampi, andò a giurare in motorino (incarico che durò un giorno, perché poi Rutelli si dimise in protesta al salvataggio parlamentare di Craxi, era il terribile 1993).
Così, siccome tutto si confonde, uno come Paolo Bonaiuti («in confronto Zelig è un dilettante») e tanti altri scambiano mutamenti di toni per mutamenti d’opinione, ora che Rutelli si dichiara cristianamente sfavorevole all’aborto ma laicamente a favore della legge. E siccome tutto si confonde, anche il suo riformismo viene attribuito ad altri più bravi nelle pubbliche relazioni. Lo sapete che è Rutelli, cronologicamente, il primo avversario del conflitto d’interessi? Giancarlo Perna gli levò la pelle su Epoca e lui sentenziò: «Purtroppo sono già abituato alle diffamazioni di alcuni giornali e giornaletti di Silvio Berlusconi», che non era ancora in politica ma appoggiava Gianfranco Fini in corsa per il Campidoglio. Lo sapete che è Rutelli, con via delle Vittime di Cernobil e via Ollio e Stanlio, il precursore della strada toponomastica al consenso? Lo sapete che è stato Rutelli, con i vari Nanni Moretti, Alba Parietti, Luca Barbarossa, il precursore della strada guitta alla popolarità? Lo sapete che è stato Rutelli il primo a trasferire interi accampamenti di Rom e il primo a cercare il contenimento, diciamo così, del fenomeno dei lavavetri? Lo sapete che fu lui il primo, e non Berlusconi per la marcatura di Zinedine Zidane, a polemizzare con Dino Zoff per la gestione tecnica della Lazio?
Oggi tutti si fissano più volentieri su certe antitesi: «La differenza fra Verdi e cattolici sta soprattutto nella visione dei problemi demografici» (1991); uno degli obiettivi della «mia giunta è la lotta alla denatalità» (1994). In tempi non sospetti, il più saggio fu proprio Pannella: «Solamente il tempo ci dirà se abbia abbandonato la schiera di coloro per i quali “Parigi non vale una messa” o se invece viva una nuova, autentica religiosità». Vale per la religione, vale per tutto il resto. Sarà bello vedere come va a finire.


l’Unità 27.10.09
Rutelli «transita» al centro
L’ex leader Dl in uscita dal Pd
Bossi propone Tremonti vicepremier
Bindi verso la presidenza Pd
Uscita strategica

La camera di transito
di Concita De Gregorio

Il primo ostacolo il primo giorno. Eccola qui subito la prima prova politica per Pier Luigi Bersani, del resto non si può dire che sia una sorpresa. Da tempo insofferentissimo, in grande disagio, spesso assente, mai conciliante coi cofondatori Francesco Rutelli ha più che un piede fuori dalla porta del Pd: esce, come ampiamente annunciato dai dubbi addirittura messi in ordine nella forma di un libro, il suo, ora anche da quello di Bruno Vespa che gli ha fatto ieri lo sgarbo (ma Vespa non è mai sgarbato con le fonti, magari non è stato proprio un dispetto) di bruciargli l’effetto annuncio anticipando un capitolo del consueto aggiornamento autunnale della storia italica secondo Porta a Porta. L’uscita di Rutelli è stata nei mesi indicata come lo spettro della scissione possibile. Il ritorno alle rispettive case-madri, il fallimento del progetto del Pd, al riparo nel recente passato. Ds e Margherita, e quanto alla fusione come non detto. Bersani ieri si è rivolto a Rutelli con parole che somigliano ad un tentativo di trattenerlo: «La sfida che abbiamo davanti è affascinate, la accetti». Tentativo debole che lascia aperto uno spiraglio alla possibilità di immaginare altri scenari. Proviamo, per esempio, a pensare che Bersani sia in procinto di mettersi al lavoro ad una politica delle alleanze capace del più alto gesto di antiberlusconismo, per dirla con le sue parole: «Il piuantiberlusconiano di tutti è quello che lo manda a casa». Allora vediamo. Si tratta di recuperare consensi a sinistra (la sinistra di Vendola e di molti di quei tre milioni rimasti senza rappresentanza parlamentare), di fare in modo che questo non costi la diaspora con Rutelli, di dialogare con l’Udc in vista di intese elettorali. Un modo possibile è quello di non ostacolare una scissione strategica: Rutelli e un gruppo di centristi formano un nuovo gruppo parlamentare, una sorta di «camera di transito» fra Pd e Udc. Un posto a metà strada. L’uscita di Rutelli e dei suoi consente al Pd di spostarsi a sinistra, non chiama l’Udc a farlo più di quanto non possa, crea un ponte tra Bersani e Casini. Si aprirebbe a questo punto la possibilità di alleanze triangolari, un’asse che va dalla sinistra di Vendola e Mussi (il quale ieri si è già affacciato a vedere) fino al centro Udc. C’è poi l’Idv, che più di una volta in queste settimane al Pd ha teso la mano. Un passo alla volta, tuttavia. La priorità di Bersani, nella danza delle alleanze che è appena cominciata, è dettata dall’urgenza imposta dai fatti. Oggi è il giro di Rutelli: l’ipotesi della «camera di transito» viaggia veloce a più d’uno sembra suggestiva, sorride chi ci lavora da mesi e non la trova affatto una sorpresa. Vedremo col tempo.
Beppe Pisanu, ai movimenti al centro sempre da destra molto attento, parla con Claudia Fusani di «ridislocazione» di alcuni gruppi tra i due schieramenti. Ridislocazione è qualcosa che fa pensare alla ristrutturazione di un bene comune, niente di ostile. Non si può escludere a priori, dice, la nascita di una terza forza moderata ma «il bipolarismo non è in crisi. Semmai si chiude il bipartitismo». Torna ad essere una faccenda di alleanze, insomma. Allacciate le cinture. Si parte.

Corriere della Sera 27.10.09
«Con Casini, ma non subito e non da solo». Poi la frenata
Ipotesi scissione.Pd, si apre il caso Rutelli
di Andrea Garibaldi



ROMA — Rutelli e Casini si incontreranno in settimana. Erano rimasti d’accordo a Chianciano, metà settembre, quando Rutelli fu ospite degli Stati generali del Centro, pro­mossi da Casini: «Appunta­mento a dopo le primarie Pd». Questo incontro è un’al­tra tappa verso l’uscita di Ru­telli dal Partito democratico e verso un possibile approdo nel Centro allargato di Casini. I due si studiano: Casini ha già un progetto in piedi, Ru­telli deve pesare le sue scelte per mantenere un ruolo di primo piano.

Rutelli — sono convinti i dirigenti udc — quando usci­rà farà un passaggio interme­dio, un gruppo autonomo. «Intanto — ha detto ieri Casi­ni ai suoi collaboratori — noi andiamo avanti verso il nuo­vo partito 'oltre l’Udc'. Il no­stro percorso e quello di Ru­telli sono paralleli e potranno poi incontrarsi».

Quanto a Rutelli: ieri hanno suscitato clamore sue frasi contenute nel libro di Bruno Vespa, in vendita fra dieci gior­ni. Lascia il Pd per andare con Casini? chiede Vespa. E Rutel­li: «Con Casini, ma non subito e non solo». Poi c’è la severa critica al Pd: «Il Pd si sbilancia a sinistra — dice Rutelli —. Una scelta ancor più assurda nel momento in cui il centro­destra si sbilancia a destra a fa­vore di Bossi». E poi: «Deve formarsi una forza nuova, un confronto tra moderati del centrodestra e democratico-ri­formisti del centrosinistra». Rutelli ha protestato per que­sta anticipazione diffusa da Ve­spa proprio all’indomani del­l’elezione di Bersani. Il suo portavoce, Michele Anzaldi, ha parlato di «cinismo per vendere libri». L’intervista a Vespa era di tre settimane fa e lo stesso Rutelli aveva chiesto al giornalista di non dare parti dell’intervista proprio ieri. Ve­spa ha replicato: «Il testo è me­ditato e concordato».

Anche quelle dichiarazioni mostrano il distacco sempre più forte di Rutelli dal partito che contribuì a fondare. A Bersani, Rutelli dovrà conce­dere almeno le prime mosse. «È un principio di democra­zia: non posso andare via per­ché ha vinto il candidato a me più lontano — diceva ieri Rutelli agli uomini più vicini —. Voglio vedere le prime mosse che farà».

Il senatore Guzzanti, ora nel Partito liberale, racconta: «C’è stato un colloquio fra Ru­telli e il segretario del mio partito, De Luca: hanno parla­to di formare un gruppo uni­co in Parlamento, anche con Giorgio La Malfa. Per poi arri­vare all’accordo con l’Udc: noi saremmo la gamba laica, loro quella cattolica di una nuova formazione».

L’Udc già lavora alla nuova formazione, si chiamerà parti­to della Nazione o del Buon­senso, aperto a chi lasci il Pdl, ad associazioni e movimenti. Dice Michele Vietti, vicepresi­dente del gruppo udc alla Ca­mera: «Saremo ben contenti se Rutelli farà parte del no­stro progetto. Ci sono le con­dizioni perché continui a esse­re un protagonista».

Sigillo finale sulle tentazio­ni di Rutelli viene da Romano Prodi. Al Tg 3 ha detto: «Il Pd resterà globalmente unito, e se qualcuno se ne va non suc­cede niente». 




Repubblica 27.10.09
Firenze, la cupola del cemento arrestato ex capogruppo del Pd
Corruzione, anche professionisti e imprenditori sotto accusa
Ventiquattro indagati Il pm: "Avevano il monopolio delle costruzioni"
di Franca Selvatici

FIRENZE - Il capogruppo del Pd in Palazzo Vecchio nella scorsa legislatura, il geometra Alberto Formigli, era una persona affabile, sorridente, sempre disponibile. Il presidente della commissione urbanistica, il fisico Antongiulio Barbaro, Pd, era molto stimato. Un´inchiesta della procura fiorentina e degli investigatori della Stradale e della Municipale ha però rivelato quello che appare il loro «lato oscuro», quel vizio di far prevalere gli interessi privati su quelli pubblici che il Pd a parole combatte ma che a Firenze ha lungamente tollerato.
Da ieri, su ordine del gip Rosario Lupo, Formigli è agli arresti domiciliari per associazione a delinquere, corruzione, falso e abuso d´ufficio. Barbaro ha evitato l´arresto perché dopo le elezioni è tornato a vita privata. Con Formigli sono ai domiciliari l´ex presidente dell´Ordine degli Architetti di Firenze Riccardo Bartoloni e il geometra Alberto Vinattieri, amministratori della Quadra, la società di progettazione che secondo le accuse aveva acquisito una posizione di monopolio nel panorama cittadino, specializzandosi fra l´altro nelle ristrutturazioni urbanistiche, cioè nelle demolizioni di vecchi fabbricati con costruzione di edifici residenziali, spesso in cortili interni, con perdita di aria e di sole per i vecchi residenti, oppure in zone panoramiche rese edificabili.
Formigli, cofondatore della Quadra, aveva ceduto le quote nel 2003 ma, secondo i pm Giuseppina Mione e Leopoldo De Gregorio, continuava a lavorare per la società, ne era il socio occulto e il referente politico, sempre pronto, con Barbaro, a promuoverne i progetti e a votare in consiglio comunale i provvedimenti necessari per mandarli avanti. Quando non c´era bisogno di varianti urbanistiche, Bartoloni e Vinattieri, fra l´altro dipendente part time del Comune, potevano contare stabilmente su due geometri dell´ufficio edilizia privata, Giovanni Benedetti (finito in carcere) e Bruno Ciolli (ai domiciliari), accusati anch´essi di associazione a delinquere e corruzione.
Una telecamera nascosta ha ripreso Bartoloni al computer del funzionario Benedetti, intento a sistemare una pratica, e Vinattieri mentre nello stesso ufficio falsificava una tavola. I due geometri dell´edilizia privata sono accusati di aver omesso sistematicamente controlli e verifiche su almeno ventidue pratiche Quadra e di aver creato alla società una corsia preferenziale. «Rivolgersi alla Quadra significava ottenere i permessi che si volevano», ha detto il procuratore Giuseppe Quattrocchi.
Favoriti, secondo le accuse, anche alcuni imprenditori. Due di loro, Francesco Bini e Paolo Perugi, sono da ieri agli arresti per corruzione. I geometri comunali ne ricavavano cospicui vantaggi, sostiene l´accusa, come dimostrano i loro investimenti in Ucraina. Ciolli è comproprietario fra l´altro di due pizzerie a Uzgorod. Nell´inchiesta sono state raccolte tracce di compravendite di appartamenti a Sebastopoli.
Complessivamente, le persone indagate sono 24. L´inchiesta documenta un incessante lavorio per creare edifici sempre più grandi, possibilmente senza un albero intorno, in totale dispregio degli abitanti dei palazzi vicini e del territorio. Molti cittadini hanno chiesto spiegazioni, hanno accusato e protestato. La precedente amministrazione, però, ha sempre difeso la Quadra.

Repubblica 27.10.09
"Qui non si muove foglia senza il nostro ok ai progetti"
Video e intercettazioni, ecco le prove dei pm
di Maurizio Bologni

FIRENZE - Per gli inquirenti c´era una scala di illeciti: se bastava «sistemare» qualche pratica edilizia o correggere una tavola, il geometra Giovanni Benedetti lasciava la propria scrivania nell´ufficio edilizia privata del Comune di Firenze all´ex presidente degli architetti Riccardo Bartoloni, socio e direttore tecnico della Quadra, la società di progettazione al centro dell´inchiesta. A mettere le cose a posto - sostiene l´accusa - ci pensava lui, il professionista privato, seduto nella sedia dell´ufficio pubblico, come hanno documentato le riprese girate da una telecamera nascosta. Se invece il Comune di Firenze era chiamato a rispondere ai comitati di cittadini che denunciavano le speculazioni edilizie, il presidente della Commissione urbanistica di Palazzo Vecchio Antongiulio Barbaro (Pd), secondo gli investigatori, si faceva dettare le risposte dallo stesso Bartoloni, ovvero dalla controparte dei comitati, quello di cui i cittadini denunciavano gli abusi. E se c´era da portare il malaffare ai più alti livelli politici, magari per approvare varianti urbanistiche, sarebbe entrato in campo il capogruppo del Pd, Alberto Formigli, socio occulto della solita Quadra.
Dai piccoli impiegati fino all´allora capogruppo del Pd: un´associazione a delinquere, secondo la procura, per consegnare l´edilizia privata di Firenze nella mani della Quadra. Sodalizio cementato da fedeltà assoluta, più di quella che si può riservare alla consorte, come rivela la conversazione telefonica del 22 aprile 2008 tra i due compagni di partito, il capogruppo Pd Formigli e Barbaro. Dice quest´ultimo: «Io sai non muovo foglia che capogruppo non voglia... Credo di esserti quello più fedele in assoluto... sono più fedele a te che alla Cristina sicché...».
Sicché, quella che ritiene di aver smascherato il procuratore della repubblica di Firenze Giuseppe Quattrocchi è «una realtà di corrosione del rispetto dell´etica pubblica e della civitas». Realtà di corrosione ampia e variegata. Per certi versi miserabile. Così quando gli impiegati comunali si passavano i badge per risultare presenti al lavoro anche quando erano per fatti loro. Oppure quando Bruno Ciolli, geometra dell´edilizia, si fa pizzicare in vacanza per Capodanno a New York nel periodo, tra il 27 dicembre 2007 e il 2 gennaio 2008, per il quale aveva ottenuto un congedo straordinario retribuito dal lavoro per gravi motivi familiari (avrebbe dovuto assistere l´anziana madre, invece gli hanno trovato foto della vacanza in America).
L´inchiesta ha altri aspetti gravi. Bartoloni e il direttore dei lavori di un intervento nel comune di Scandicci avrebbero progettato gli edifici da affittare a prezzi agevolati fregandosene di rispettare la normativa per l´abbattimento delle barriere architettoniche e la normativa antincendio. Dei necessari materiali di biodeilizia, manco a parlarne. «Noi di bioedilizia non ci s´ha una mazza» confessa il direttore dei lavori in una telefonata con Bartoloni il 2 aprile 2008. I soci della Quadra e i loro sodali - chiosano gli inquirenti - «sono stati capaci di influenzare le scelte del Comune in materia di assetto urbanistico del territorio e superare indenni ogni manifestazione di dissenso attraverso i loro cavalli di Troia Formigli e Barbaro», incidendo «negativamente su un territorio alquanto prezioso come quello fiorentino».

l’Unità 27.10.09
Il mistero dei rimborsi scomparsi
di Maria Antonietta Coscioni

Èuna storia che viene da lontano: una atroce beffa ai danni dei pazienti malati e disabili. La sottosegretaria con delega alla disabilità Francesca Martini ha risposto a una mia interrogazione che risale “solo” al febbraio scorso: ponevo, ancora una volta, l’accento sul grave disagio vissuto da centinaia di pazienti cui il servizio sanitario nazionale non corrisponde, o corrisponde solo in minima parte, il rimborso per le attrezzature di cui hanno necessità, perchè non è ancora entrato in vigore il Nuovo Nomenclatore (l’elenco degli ausili erogati dal Sistema sanitario nazionale, ndr).
La sottosegretaria si è limitata a spiegare cosa prefigura la nuova versione dell’assistenza protesica prevista nello schema del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm)) sui nuovi livelli essenziali di assistenza; non una parola su quando entrerà in vigore il Nuovo Nomenclatore se non che «l’effettiva realizzazione degli interventi correttivi in programma è condizionata dall’approvazione del Dpcm stesso, che è tutt’ora al vaglio delle autorità di governo, centrali e regionali, per gli aspetti di natura economico-finanziaria...».
Di chi è la responsabilità per questo colpevole stato di cose? Se la nuova versione dell’Assistenza protesica era pronta da ottobre, che cosa impedisce la sua entrata in vigore? È l’inerzia del ministero? È il combinato disposto di un’inerzia da parte sia dell’esecutivo che delle Regioni? È la Ragioneria dello Stato che blocca provvedimenti e stanziamenti per questioni di carattere burocratico che misteriosamente non si riescono a risolvere?
Come sia, le vittime di questa assurda situazione sono malati e disabili: sempre più sfiduciati si rassegnano ad acquistare, pagandole di tasca loro, le attrezzature di cui hanno diritto. Ricordo i termini della questione: il governo Prodi predispone i protocolli per gli aggiornamenti del nomenclatore, provvedimento bloccato dal governo Berlusconi con la promessa del ministro Sacconi di realizzare in tempi brevi una revisione migliorativa. Promessa finora rimasta tale. A suo tempo il governo Prodi aveva stanziato 10 milioni di euro per gli ausili per la comunicazione: che fine ha fatto quel denaro? È un mistero (non buffo), odioso quanto basta, consumato ai danni di persone particolarmente indifese e che dovrebbero essere particolarmente tutelate e garantite.
Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale, è componente della Commissione Affari Sociali e co-Presidente dell’Associazione Luca Coscioni

l’Unità 27.10.09
Io spio tu spii egli spia
di Giancarlo De Cataldo

Il primo e più clamoroso nostrano episodio di spionaggio sessual-politico a scopo ricattatorio risale all’affare Montesi (1953/57). Fu interrogandosi intorno alla misteriosa morte di una ragazza rinvenuta sul litorale di Ostia che l’Italia scoprì i “balletti” rosa e verdi, riscoprì la coca, magica polvere bianca in auge durante il Ventennio e poi vagamente oscurata dalla pruderie cattocomunista, perse un bel po’ di fiducia nei pubblici poteri e, in definitiva, l’innocenza. Fra i soggetti spiati e intercettati (si poteva fare anche allora) da investigatori al soldo di questo o di quel potentato democristiano, una nota toga “rossa” dell’epoca e il giudice istruttore del caso. Di quest’ultimo si apprese che era sovrappeso, guidava un’automobile sportiva, intratteneva una relazione sentimentale con un’elegante signora. Non venne divulgato il colore dei calzini che, evidentemente, non destava alcun interesse. Negli stessi anni, Edgard J. Hoover, capo dell’Fbi, schedava milioni di cittadini in cerca di tracce di deviazioni sessuali, tossicofilia, vicinanza al comunismo. Si creò così un accumulo di dossier che si sarebbero rivelati preziosi nella guerra che avrebbe contrapposto i repubblicani al clan Kennedy. Oltre a garantire la sopravvivenza del potere personale del detentore. Se si leggono i capolavori di James Ellroy (American Tabloid e Sei Pezzi da Mille) dedicati alla vicenda, si capirà che fatte le debite proporzioni fra il paesello italico e l’impero americano non eravamo e non siamo poi così diversi. Il dossier “riservato” è un’arma impropria che fa parte da lungo tempo dell’arsenale occulto delle nostre democrazie. In tempi di grandi contrapposizioni ideologiche alimenta la sensazione di una nobile contesa fra paladini della libertà e servi dell’oscurantismo. In una situazione da paese dei campanelli si fa mediocre, velenoso gossip.

Repubblica 27.10.09
Ankara
Il premier turco accusa Israele "Voleva usare l'atomica a Gaza"

ANKARA - Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman di aver minacciato di attaccare la Striscia di Gaza, controllata dal movimento di resistenza islamico Hamas, con la bomba nucleare. In un´intervista al quotidiano britannico Guardian, il premier turco ribadisce, tuttavia, che l´alleanza strategica tra Israele e Turchia è ancora viva. Le parole di Erdogan rischiano di inasprire ulteriormente gli attriti tra Israele e Turchia, le cui relazioni si sono raffreddate dopo che alla fine dello scorso anno lo Stato ebraico ha lanciato l´offensiva "Piombo fuso" contro la Striscia di Gaza proseguita per 22 giorni. Le tensioni hanno raggiunto il culmine quando a inizio mese la Turchia ha escluso Israele da un´esercitazione militare organizzata all´interno dei suoi confini.

Corriere della Sera 27.10.09
Il quarto centenario in Vaticano
Matteo Ricci Ambasciatore della fede
di Lauretta Colonnelli

Un viaggio nella vita del missionario che aprì gli occhi della Cina sul mondo

Sulle mura circolari del­la sala d’onore del Mil­lennium Museum di Pechino, grande come una piazza, corre un fregio scolpito in marmi policromi che narra gli episodi salienti della storia cinese attraverso una sfilata di imperatori e mi­nistri, generali e dignitari, in­tellettuali ed eroi della Rivolu­zione. Tutti cinesi. Gli unici due stranieri ammessi a testi­moniare la gloria dell’Impero sono italiani: uno è Marco Po­lo, l’altro è il gesuita Matteo Ricci che, vestito da mandari­no confuciano, scruta i cieli dall’osservatorio astronomico della Città Proibita.

La scena è raccontata da An­tonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e curatore, in­sieme a Giovanni Morello, del­la mostra «Ai crinali della sto­ria. Padre Matteo Ricci fra Ro­ma e Pechino», che sarà inau­gurata domani nel Braccio di Carlo Magno per celebrare i quattrocento anni dalla morte del missionario nato a Macera­ta il 6 ottobre del 1552 e mor­to l’11 maggio 1610 a Pechi­no, dove è sepolto nella Città Proibita. L’imperatore conces­se infatti un terreno per la sua tomba, onorata ancora oggi. Era la prima volta che in Cina accadeva una cosa del genere per uno straniero. Ma agli oc­chi dei cinesi i meriti del gesu­ita erano immensi. Anzitutto perché aveva scelto di diventa­re uno di loro, parlando e scri­vendo la lingua di quel Paese come nessun europeo aveva mai fatto e assimilandone le abitudini e i costumi in leale spirito di amicizia (fu ribattez­zato dai cinesi Li Madou e chiamato comunemente Xitai, maestro dell’estremo Occiden­te). E poi perché, studiando i loro libri, era riuscito ad entra­re totalmente nella cultura di «questo altro mondo». Infine perché, trasferendo ai cinesi i principali documenti della ci­viltà europea, «il dottor Li ha aperto gli occhi della Cina sul mondo», come scrive un lette­rato cinese dell’epoca.

Ma l’operato di Ricci non ebbe altrettanta fortuna in Eu­ropa. Ai primi del ’700 la Chie­sa condannò il suo metodo missionario e il confratello Ni­colas Trigault si impossessò della sua opera traducendola in latino a proprio nome. Solo nel 1939 Pio XII lo ha riabilita­to ufficialmente, mentre Gio­vanni Paolo II lo ha additato più volte come esempio per l’evangelizzazione. Ora final­mente il Vaticano gli rende omaggio con questa grande mostra che dedica l’ultima par­te del percorso proprio all’ere­dità lasciata da Matteo Ricci ai missionari: una eredità chia­mata «inculturazione», cioè la volontà di comprendere e di recepire usi e tradizioni delle comunità indigene nell’opera di evangelizzazione. Appare qui il celebre ritratto del gesui­ta dipinto da Emanuele Yu Wen-Hui, detto Pereira, un suo convertito che aveva ap­preso a dipingere alla maniera occidentale. E con un altro ri­tratto, questa volta una statua in bronzo, riproduzione esat­ta di quella che campeggia da­vanti alla cattedrale cattolica di Pechino si apre la rassegna che ripercorre il lungo viaggio di Ricci da Macerata fino alla corte dei Ming.

Si passa dalle statue lignee che, mosse da un meccani­smo, apparivano in successio­ne sulla torre dell’orologio del­la città marchigiana, ai ritratti dei papi (da Pio V a Paolo V) che accompagnarono la vita di Matteo Ricci. Si evoca l’an­no 1571, quando il giovane Ricci entra nella Compagnia di Gesù, il nuovo Ordine reli­gioso fondato da Ignazio da Loyola trent’anni prima e ri­cordato con due dipinti attri­buiti alla scuola di van Dyck e con il capolavoro di Rubens raffigurante un miracolo di Sant’Ignazio. Si segue il mis­sionario a Lisbona, dove si im­barca per raggiungere Goa, e si può vedere il galeone sul quale navigò per cinque mesi, rappresentato da un modello d’epoca. L’entrata a Macao nel 1582 è rievocata da una serie di strumenti scientifici che Ricci aveva imparato a cono­scere e a fabbricare durante gli studi al Collegio Romano. Fu infatti il suo interesse per la scienza ad aprirgli le porte della Città Proibita, dove giun­se nel 1601, con l’autorizzazio­ne scritta dell’imperatore Wanli e dove vivrà fino alla morte con il grado di mandari­no, sostenuto economicamen­te dal pubblico erario.

lunedì 26 ottobre 2009

l’Unità 26.10.09
Italia 2009, così abbiamo inabissato la cultura
Francesi, tedeschi o inglesi leggono molto più di noi, ascoltano più musica, e non credono, come facciamo noi, che «cultura» voglia dire «famiglia» o «religione». I dati impietosi di Commissione europea ed Eurostat.
di Giordano Montecchi

Le cifre Le ricerche europee su fruizione e spesa culturali sono impietose per il nostro paese
Alla parola cultura tedeschi o inglesi associano i termini ‘teatro’ o ‘musica’. Noi pensiamo a ‘famiglia’

Parassiti
Artisti «mantenuti» ricerca umiliata: è un’idea di governo

Perché, si chiede il mondo, la maggioranza degli italiani subisce con tanta noncuranza un disegno autoritario che giorno dopo giorno ne avvelena la democrazia? Si possono chiamare in causa antichi vizi nostrani come l’ignavia o la sfiducia, ma l’alleato forse più prezioso di questa deriva sciagurata è un altro. È la nostra incultura di popolo, mentre di contro, il più grande ostacolo a questo disegno è tutto ciò che alimenta la cultu-ra: fame di conoscenza, autonomia di giudizio, spirito critico, dirittura morale. Etica e cultura: questi sono i veri nemici contro cui Berlusconi e i suoi con un sapiente gioco di squadra combattono quotidianamente, sabotando (o quando gli conviene comprando) tutto ciò che alla cultura dà sostanza e forza: l’educazione, la stampa e l’editoria, il ruolo degli artisti, degli intellettuali, delle stesse istituzioni culturali. L’idea che scuola, università, teatri, orchestre siano soldi buttati; che cineasti, musicisti e artisti in genere siano parassiti; che giornali e giornalisti formino una delinquenza organizzata più pericolosa delle tante mafie presunte e non meglio identificate: tutto ciò ha il suo ricettacolo in quella che potremmo chiamare «Italia profonda», terreno ideale per gli spropositi di una Gelmini, come per i liquami verbali di un Brunetta o del suo capo.
RADIOGRAFIE EUROPEE
Questa presunta «incultura degli italiani» resta però da dimostrare. Ebbene, le prove che ci inchiodano vengono dall’altro grande nemico (l’unico davvero temibile) dell’attuale padrone d’Italia: l’Europa, un cliente troppo difficile da ipnotizzare, da com-
prare o da screditare. Inesorabili, la Commissione Europea ed Eurostat non cessano di promuovere ricerche su come vivono e come pensano gli europei. Migliaia e migliaia di pagine in cui c’è la radiografia di cosa è e cosa significa oggi l’Europa: dal ponderoso Europe in figures l’annuario statistico di cui è appena uscita l’edizione 2009, ai numerosi rapporti sulla cultura quali Economy of Culture in Europe (2006), Financing the Arts and Culture in the European Union (2006) Cultural Statistics (2007), European Cultural Values (2007).
Guidati dallo sforzo costante di superare le difficoltà di confrontare diverse realtà nazionali, questi documenti ritraggono il quadro amaro e surreale dell’anomalia italiana: il bacino più ricco di tesori d’arte e di storia che esista al mondo e, insieme, lo scenario desolante di una popolazione culturalmente indigente, facile preda di un’informazione sempre piu svilita a propaganda. E tanto l’Europa si sforza di acquisire dati sempre più attendibili, tanto il nostro governo è latitante in materia di monitoraggio delle politiche culturali, col conseguente inevitabile balletto di illazioni e stime inattendibili il cui esito è una provvidenziale opacità, un cono d’ombra dove, a parte i ben noti tagli al Fus, non si riesce a valutare esattamente il quadro economico complessivo delle politiche culturali, il cui apporto finanziario più consistente (attorno ai 2/3 del totale) deriva dall’impegno di Regioni ed Enti locali.
LA GIORNATA DELL’ITALIANO
Nei dati dell’Unione Europea, dai quali l’Italia esce a pezzi, è racchiusa invece un’altra atroce conferma: certi ragli anticulturali intonati di recente da qualche esponente del governo corrispondono a ciò che molti italiani pensano o credono o, per meglio dire, ignorano. La giornata dell’italiano medio comincia non leggendo il giornale, prosegue non comprando dischi o libri, e finisce non andando a un concerto o a teatro. Il che spiega come una famiglia italiana spenda per cultura e ricreazione circa la metà di una famiglia inglese o tedesca. Ma tout se tient: in Italia la percentuale di laureati è la metà della media europea, mentre l’editoria dà lavoro a 40.000 dipendenti contro i 180.000 della Germania.
I musicisti sono un branco di lavativi, dice Brunetta. A conti fatti agli italiani sembrano dargli ragione. Nell’ex patria del belcanto il pubblico che frequenta concerti e opera è tragicamente inferiore rispetto alla media europea. La ragione di questo dato così avvilente è profonda: un europeo, quattro volte su dieci, alla parola «cultura» associa la musica e il teatro (in Germania e nel Nord Europa accade addirittura sei-sette volte su dieci). Da noi proprio no: e da lì a sostenere che è il «popolo» a volere il taglio del Fus il passo è breve...
Per gli italiani cultura vuol dire tutt’altro: ad esempio scienza (un miraggio, evidentemente, visto quel il governo spende in ricerca scientifica); ma soprattutto famiglia, in piena sintonia con un’assordante campagna mediatica fra i cui effetti c’è anche la scarsa considerazione per valori quali libertà di opinione o tolleranza, che ai nostri vicini stanno invece molto più a cuore.
Dulcis in fundo: c’è qualcosa in cui primeggiamo. In Europa siamo quelli che in assoluto stimiamo di più imprenditorialità e progresso, valori così cari anche al nostro Primus super pares. Le cui armate mediatiche, da mattina a notte, ci bombardano senza tregua con l’obiettivo di farci a sua immagine e somiglianza. Siamo noi i perseguitati, non lui.❖

l’Unità 26.10.09
Enzo Forcella, giornalista e professore di mass media fuori dal coro mediatico
Nel decennale della scomparsa un seminario a Roma con Guido Crainz, Nello Ajello, Vittorio Emiliani e Marino Sinibaldi, ne ha rievocato la figura. Editorialista, storico, critico della comunicazione. E inventore di Radio 3
di Bruno Gravagnuolo

In un possibile «Dizionario biografico dei giornalisti italiani», la figura di Enzo Forcella, scomparso il 9 febbraio 1999, meriterebbe un discorso a parte. Come nessun altro seppe fare del giornalismo «autoriflessivo». E stare in bilico tra professione, saperi moderni, cultura alta e di massa. Infine, come pochi si oppose alla viltà delle autocensure e ai compromessi morbidamente celati, che stanno nelle pieghe di tante celebrate carriere.
Insomma un critico del potere, molto severo con se stesso, e non amato dal potere. Non per caso malgrado i suoi meriti non fu mai direttore di giornali, fatta salva la bellissima esperienza di Radio 3. Perché si parla di Forcella? Il decennale certo, ma anche un seminario acuminato giovedì scorso a Roma, nella sede della Casa della Memoria in Via San Francesco di Sales, promosso dall’Irsifar, istituto storico per lo studio della Resistenza a Roma, di cui fu animatore con Nicola Gallerano. C’erano storici del calibro di Guido Crainz, Claudio Pavone, giornalisti come Nello Ajello, Vittorio Emiliani, e poi l’erede di Forcella a Radio 3, Marino Sinibaldi, coordinati da Umberto Gentiloni.
Cosa ne è venuto fuori? Intanto il profilo di una generazione di giornalisti antifascisti, passati per Il Mondo, La Stampa, Il Giorno, Repubblica, ben compendiata da Forcella. Un’Italia difficile quella di allora, stretta tra appartenenze, establishment e furori ideologici, dov’ era difficile far valere la libertà critica in una chiave di sinistra laica e progressista, ma senza becero anticomunismo. Poi, il coraggio e le incertezze di Forcella. Il coraggio di andar via dalla Stampa, dopo la nobile esperienza del Mondo di Pannunzio, per il rifiuto di essere messo al margine, sol perché sosteneva nel 1959 la possibilità del centrosinistra (inviso alla Fiat). Una storia raccontata anche in un celebre pamphlet, 1500 lettori, ripubblicato da Donzelli. Dove Forcella narrava delle complicità tra politica e stampa: il circuito mediatico di allora e il gioco di specchi connesso. Le incertezze erano invece il «cruccio» di Enzo: essere stato attendista e aver fatto la Resistenza in convento a Roma. Non per viltà, ma per una natura ossessivamente e squisitamente dubbiosa. Da ultimo il terzo programma. Nel 1976 con Forcella cessò di essere penombra musicale. E si aprì ai conflitti, ai ritmi delle radio private, alle donne e ai grandi temi culturali. Una cifra modernissima che ancora resta. per merito di un giornalista concreto, ma capace di parlare di Marcuse, Adorno, Mac Luhan, Kant ed Hegel, come un vero professore. Roba introvabile ormai.❖

l’Unità 26.10.09
Contratti e decreto Brunetta/ La proposta di Mimmo Pantaleo (FLC CGIL)
Sciopero generale dell’impiego pubblico

Èun attacco senza precedenti. E il sindacato ha il dovere, se non vuole perdere la propria credibilità tra iscritti e cittadini, di reagire invitando lavoratori e persone a mobilitarsi. È un Mimmo Pantaleo battagliero quello che annuncia, come segretario generale della FLC CGIL, la proposta di un grande sciopero nazionale dei settori pubblici. A margine della grande assemblea delle Rsu del comparto della conoscenza che si è tenuta a Roma il 22 ottobre, il sindacalista non ha dubbi: “È giunto il momento – dice – di proporre uno sciopero generale dell’intero comparto pubblico, che va effettuato non oltre la metà di dicembre, in coincidenza con la discussione sulla legge Finanziaria: perché è sulla legge di bilancio che occorre intervenire per recuperare i tagli e ottenere le risorse, che non ci sono, per i contratti nazionali. La mobilitazione sarà lunga e intrecciata con quella che sta portando avanti la CGIL. Il 7 novembre ci sarà l’iniziativa delle “100 piazze”, con la quale porteremo tra la gente i lavoratori della conoscenza, spiegheremo le nostre richieste, terremo lezioni in piazza. Poi avremo, il 19 novembre un'altra iniziativa sulla ricerca, il 21 una grande manifestazione nazionale e, successivamente, entro dicembre, lo sciopero generale che proponiamo”.
Se chiedi a Pantaleo di spiegarti gli altri motivi che rendono ineludibile lo sciopero generale dell’intero comparto pubblico, oltre ai mancati stanziamenti per i contratti, ti risponde un fiume in piena: “È ormai chiaro – scandisce ancora il sindacalista – che siamo di fronte a un attacco senza precedenti al settore pubblico, direi ai beni pubblici. Il perché è sotto gli occhi di tutti: il decreto Brunetta punta a colpire il sindacato e a destrutturare la contrattazione, con il fine di riportare tutto sotto il controllo centralistico e dirigistico, in una forma direi taylorista, della politica. Il vero intento della riforma Brunetta non è quello di migliorare davvero l’efficienza del comparto pubblico, sfida alla quale la CGIL non si sottrarrebbe affatto, ma di punire i lavoratori (i “fannulloni”) e avviare percorsi sempre più evidenti di privatizzazione. Del resto, come si fa a parlare di sviluppo, se poi si tagliano risorse? Ricordo che per i nostri comparti ci saranno 8 miliardi in meno per la scuola e 1,5 miliardi in meno per l’università. Per non parlare del licenziamento confermato di migliaia di precari. Ecco, su questi temi e attraverso queste mobilitazioni, vogliamo costruire una rete che tenga insieme lavoratori, cittadini, studenti e genitori”.

l’Unità 26.10.09
La protesta araba- L’Anp parla di provocazione, Amman denuncia Israele
Battaglia a Gerusalemme Scontri e arresti sulla Spianata delle moschee
di U.D.G.

Sassi, lacrimogeni. Feriti e arresti. La Spianata delle moschee si è trasformata in un campo di battaglia. E Gerusalemme torna a vivere quel clima di tensione che innescò la seconda Intifada. La protesta di Egitto e Giordania.

La Spianata si trasforma in un campo di battaglia. Che rischia di innescare una terza Intifada. La polizia israeliana in assetto antisommossa ha fatto irruzione ieri a Gerusalemme est nella Spianata delle Moschee, uno dei più esplosivi focolai di passioni religiose e nazionalistiche tra arabi e israeliani, per sedare disordini e porre fine a sassaiole da parte di gruppi di giovani musulmani. Da parte palestinese si afferma che circa una ventina di manifestanti sono stati feriti dalla polizia che a sua volta denuncia il ferimento di nove agenti. La polizia ha detto di aver arrestato 18 persone, compreso l'ex ministro dell'Autorità palestinese Hatem Abdel Khader, esponente del Fatah, e un alto dirigente dell' ala più radicale del Movimento Islamico israeliano.
GERUSALEMME BLINDATA
Dopo due settimane di calma relativa gruppi di fedeli islamici palestinesi e reparti della polizia israeliana sono perciò tornati ad affrontarsi nella Spianata delle Moschee: uno dei luoghi più sacri all'Islam, ma anche il più sacro per gli ebrei perché si ritiene si trovi sopra i resti del biblico Tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d.C. dalle legioni romane dell'imperatore Tito. Nella tarda mattina la Spianata è stata chiusa al pubblico, fino a
nuovo ordine. All'interno della moschea di Al Aqsa, assediata dalla polizia, si sono barricati per ore un centinaio di fedeli islamici che hanno poi abbandonato il sito.Apparentemente frutto di questo clima esasperato anche il ferimento, alcune ore dopo, di una guardia accoltellata da una giovane palestinese di Ramallah a un posto di blocco nella periferia nord di Gerusalemme est.
SCAMBI DI ACCUSE
Il capo del distretto di polizia Ilan Franco ha detto che gli agenti sono intervenuti nella Spianata per porre fine a lanci di pietre contro un gruppo di visitatori. Hanno fatto uso di candelotti lacrimogeni e granate assordanti. I responsabili islamici palestinesi hanno avvertito che la situazione potrebbe degenerare ulteriormente e hanno accusato la polizia di comportamento «provocatorio» nella Spianata. Le nuove tensioni sarebbero legate a un convegno di ultraortodossi svoltosi in serata nel settore occidentale di Gerusalemme per rivendicare il diritto degli ebrei di pregare nella Spianata, cosa finora vietata. Molto dure le reazioni dell'Anp a Ramallah, di al Fatah e di Hamas ai fatti odierni. La polizia è stata fra l'altro accusata di aver «dissacrato» la Spianata. A protestare è anche l’Egitto. La Giordania ha accusato Israele di «pericolose provocazioni» e di mettere a rischio la pace e la stabilità nella regione.

Repubblica 26.10.09
"No alla dittatura della scienza sull´etica la Chiesa non può tacere"
Il cardinal Ruini: ma con i laici bisogna dialogare
di Orazio La Rocca

NORCIA - «Mai mettere limiti alla ricerca scientifica, ma senza dare potere illimitati alla scienza per non andare incontro a nuove forme di dittature, non solo culturali». Lezione-appello di etica e politica del cardinale Camillo Ruini al 5° seminario di studio, ieri a Norcia, della Fondazione Magna Carta, organismo di studio e di ricerca nato con lo scopo di rivitalizzare il dialogo tra laici e cattolici sui temi della politica, della bioetica e degli studi scientifici. Tema del convegno, "La sfida antropologica", per il quale gli organizzatori, coordinati dal senatore del Pdl Gaetano Quagliariello, presidente onorario di Magna Carta, hanno messo a confronto due autorevoli esponenti del pensiero laico e cattolico, il professor Aldo Schiavone e lo stesso Ruini. Pur partendo da posizioni socio-culturali differenti, i due trovano una sostanziale – e per molti versi singolare – sintonia necessità di rilanciare il dialolo tra laici e cattolici partendo da "una etica forte e condivisibile" per far fronte alle sfide dell´evolversi della società di fronte alla future tecnologie. Prospettiva accennata in particolare dal professor Schiavone, il quale ha, tra l´altro, rivendicato anche le sue origini marxiste e il suo essere "non credente, fino ad oggi". «Per assumere la guida dei futuri processi scientifici appare dunque necessaria un´etica forte come lo stesso Schiavone afferma nettamente», prende atto Ruini che ricorda pure come «il professore consideri indispensabile in questi processi il contributo cattolico». Un riconoscimento che, però, offre lo spunto al porporato di ribadire con forza che «il cattolico, politico, scienziato, ricercatore o semplice persona di buona volontà, non deve mai ignorare la trascendenza e che l´uomo è creatura di Dio». «Da parte sua la Chiesa», puntualizza Ruini, «rivendica sempre il diritto ad esporre liberamente le sue dottrine, senza prevaricazioni, ma accettando le decisioni finali che emergono dal dibattito democratico».
Quagliariello invece ricorda come «il progresso tecnico-scientifico abbia condizionato le priorità politiche determinando schieramenti contrapposti», e vede nel passaggio dall´ingegneria sociale all´ingegneria antropologica il pericolo che «si possa dar vita a nuovi mostri ancora più insidiosi rispetto al passato». Dello stesso avviso Eugenia Roccella, sottosegretario alla Politiche sociali, la quale lamenta che «a differenza della Chiesa, sulla questione antropologica tra la forze politiche c´è ancora troppo ritardo e poca conoscenza». D´accordo con l´invito al dialogo sull´etica tra laici e cattolici si dice anche Fabrizio Cicchitto, capogruppo dei deputati del Pdl, che però confessa di «non capire alcune chiusure della Chiesa in materia di morale come l´uso della pillola Ru416 o la lotta all´aids anche attraverso l´uso del condom».

Repubblica 26.10.09
Matrimoni in via d´estinzione gli americani snobbano l´altare
Il Marriage Index rivela: i coniugati nel ´70 erano il 79%, oggi il 57
di Federico Rampini

L´allarme lanciato dall´Institute for American Values: i bambini nati da unioni regolari rischiano meno di diventare disagiati

New York - Coppie "regolari", un tempo così si definivano quelle al primo matrimonio e con i figli nati all´interno dell´unione. Presto saranno un´eccezione, una razza in via di estinzione, rivela uno studio americano. Il matrimonio è un´istituzione condannata, è più in crisi oggi che negli anni del femminismo e della rivoluzione sessuale, della contestazione e della "coppia aperta". Ma con quali conseguenze sulla stabilità sociale, sul nostro benessere, sulla salute collettiva? Se lo chiedono i quindici esperti che in America hanno pubblicato lo U.S. Marriage Index. Questo indice è a sua volta la sintesi di cinque statistiche. La percentuale nazionale di adulti regolarmente sposati, con rito religioso o civile, nella fascia di età tra i 20 e i 54 anni. Quanti di loro sono ancora al loro primo matrimonio. Quanti figli vivono in un nucleo familiare tradizionale, con i due genitori sposati. Quante nascite avvengono all´interno di coppie ufficiali. Fin qui i numeri. Ai quali si aggiunge come quinto ingrediente un indicatore qualitativo, ovvero la percentuale di coppie che si dicono "felici" della loro vita coniugale. I quindici studiosi compilano il Marriage Index facendo la media di tutti quei dati. Il verdetto è inequivocabile: una morte neanche tanto lenta. E forse irreversibile?
L´evoluzione dei numeri è impressionante, se si pensa che l´anno di partenza scelto dagli esperti per la raccolta dei dati è il 1970. Cioè quando l´America era nel mezzo di una rivoluzione dei costumi: tra la diffusione degli anticoncenzionali, il movimento Women´s Lib, le "comuni" hippy. Eppure quella società trasgressiva e ribelle, decisa a rimettere in discussione i valori dei padri, oggi ci appare un modello di stabilità. Quarant´anni fa il 90% dei bambini nascevano all´interno di coppie sposate, oggi solo il 60%. Nel 1970 il 79% degli americani adulti erano coniugati; oggi appena il 57%. Allora la percentuale dei "primi matrimoni" ancora uniti era al 77,5% mentre oggi è scesa al 61%. L´indice complessivo, il Marriage Index, è franato da 76 punti a quota 60. Un fenomeno che non ha precedenti nella storia umana. Perché ogni civiltà del passato si è retta su qualche forma di vincolo per consolidare la famiglia, anche se non necessariamente monogamica né indissolubile.
L´ispiratore di questo studio collettivo è David Blankenhorn, che dirige l´Institute for American Values. È un difensore del ruolo del matrimonio, che non fa mistero delle sue opinioni conservatrici. Ma Blankenhorn è disposto ad accettare tesi contrarie purché si parta dai numeri reali, e il declino del matrimonio cessi di essere un argomento-tabù. «Si è creata un´opinione diffusa - dice - secondo cui questo è un problema privato da lasciare alle decisioni di ogni individuo, senza che la società interferisca. A parlare di queste cose si è sospettati di voler dettare i comportamenti, di voler imporre scelte di vita». In questo clima, avverte Blankenhorn, si finisce per ignorare quanto il matrimonio abbia una rilevanza sociale. «I dati sono chiari. I giovani che crescono da coppie regolarmente sposate hanno una probabilità inferiore di cadere sotto la soglia della povertà, di diventare tossicodipendenti, o di tentare il suicidio». Per ogni tipologia di devianza o di disagio sociale, sostiene lo studioso, i bambini cresciuti fuori da una famiglia tradizionale sono i più sfavoriti. Un problema acuto tra gli afroamericani dove la disgregazione delle famiglie è ancora più avanzata. Con il Marriage Index lui spera di poter avviare un dibattito nazionale su tutte le conseguenze della fine del matrimonio. «Ci sono altri dati - sostiene Blankenhorn - sui quali il consenso è generale. Per esempio, l´indice di disoccupazione: siamo tutti d´accordo che se aumenta è negativo. Sul matrimonio è mancato finora un consenso elementare».

Repubblica 26.10.09
Paola Di Nicola, docente di Sociologia della famiglia all’Università di Verona
"Anche da noi privilegiati i rapporti light ma nella coppia sposata ci sono più tutele"
In Italia si registra un crollo del numero delle nozze: in poco più di 30 anni si sono dimezzate
di Paola Coppola

ROMA - «Il crollo del numero delle nozze c´è anche da noi. In poco più di 30 anni si è dimezzato e oggi sono quattro ogni mille abitanti. Quando le prospettive sono incerte, come nella fase in cui viviamo, le forme di unione passano in secondo piano e si matura un atteggiamento guardingo». Paola Di Nicola, docente di Sociologia della famiglia all´Università di Verona, avverte: il boom delle "coppie leggere", che secondo l´Istat nei prossimi anni potrebbero superare quelle sposate, desta «aspetti di preoccupazione sul piano sociale per la tutela di quei soggetti deboli all´interno delle convivenze che restano le donne».
L´età del matrimonio si sposta in avanti e tante coppie decidono di non fare questo passo: perché?
«L´ingresso nella vita adulta è posticipato come il raggiungimento dell´indipendenza economica. Quando arriva il momento per formalizzare un´unione, molti hanno già un equilibrio affettivo per cui non si sposano. La convivenza è un "passaggio dolce" alla vita affettiva e, d´altra parte, il matrimonio non coincide più con la conquista di spazi di autonomia dal punto di vista sessuale e, anche se non è "per la vita", resta un passo impegnativo».
A preferire la "coppia leggera" sono giovani donne con un livello di istruzione elevato.
«Sono spinte dall´esigenza di autonomia e dal bisogno di non sentirsi vincolate all´inizio della vita lavorativa. Le nozze possono essere rimandate fino alla nascita di un figlio o non arrivare, insieme all´assenza di tutele che una convivenza implica per i soggetti più deboli nella coppia».
Perché?
«Se la coppia salta le donne sono le meno tutelate per capacità reddituale e tipo di compiti che svolgono all´interno della famiglia. E per come è organizzato il sistema di welfare la famiglia riconosciuta dal matrimonio resta ancora un ammortizzatore sociale fondamentale nel nostro Paese».

Repubblica 26.10.09
Miti e personaggi
Da Dioniso a Jackson così il transessuale moltiplica l´identità
di Umberto Galimberti

Se questo è l´uomo nuovo che stiamo creando, si tratta della più grave di tutte le regressioni
Bisessuali erano le divinità egiziane e greche, perchè il dio rappresenta l´unità primordiale

Più o meno tutti sappiamo che nessuno è "per natura" relegato in un sesso. Oggi, sia la biologia sia la psicologia ci dicono che attività e passività sono iscritte nel corpo di ogni individuo e non come termine assoluto legato a un determinato organo sessuale. Ma questa ambivalenza sessuale profonda deve essere ridotta, perché altrimenti sfuggirebbe all´organizzazione genitale e all´ordine sociale. Tutto il lavoro della cultura ha cercato, dall´origine dei tempi, di dissolvere questa realtà irriducibile, per ricondurla alla grande distinzione del "maschile" e del "femminile", intesi come due sessi pieni, assolutamente distinti e opposti l´uno all´altro.
Bisessuali erano le divinità indiane Dyaus e Parusa, egiziane come il dio Bes, greche come Dioniso, Attis, Adone. A differenza dell´uomo, infatti, il dio rappresenta quell´unità primordiale di cui la bi-sessualità è un´espressione. L´unità degli opposti è il suo tratto distintivo che gli umani collocano nel "sacro" (che in sanscrito vuol dire "separato"), da cui gli uomini sono attratti e al tempo stesso si tengono distanti, perché la confusione dei codici non consente la creazione di una società ordinata.
Questa differenza è ben segnalata da Eraclito che in proposito scrive: «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, sazietà e fame, guerra e pace, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma». «L´uomo invece ritiene giusta una cosa e ingiusta un´altra e non si confonde con tutte le cose». L´indifferenziato è tratto divino da cui l´umano si separa instaurando le differenze che, sole, consentono un ordinato vivere sociale. Di questa evoluzione Platone ce ne dà in proposito una bellissima descrizione nel Simposio.
Da questo punto di vista non possiamo escludere che il transessuale con la sua con-fusione dei codici sessuali, possa costituire un richiamo archetipico a questa unità originaria segretamente custodita nel fondo della nostra natura, e opportunamente rimossa per costruire identità il più possibile definite in cui riconoscersi. Ma oggi abitiamo l´età della tecnica, dove la realtà tende sempre meno a ospitare l´antica differenza tra "natura" e "artificio", perché quando il mondo che abitiamo è il prodotto della nostra costruzione, solo un ritardo linguistico, può chiamare le scene del mondo che abitiamo "artificiali", tenendole distinte da quelle "naturali".
La "natura" e in particolare la "natura umana" hanno cessato da tempo di avere un contenuto preciso, e quindi di valere come referente e come limite. E il corpo del transessuale, prima di essere una deviazione dalla norma, è una conferma della caduta di questo referente. Ma là dove non c´è referente, dilaga la confusione dei codici, dove non è più ravvisabile un limite, una norma, un orizzonte, una misura, un´identità da salvaguardare, differenze da mantenere, per orientarsi in quell´universo di segni che l´immutabilità della natura rendeva possibili discernere e che l´avvento della tecnica, dal modo di nascere al modo di morire, dal modo di essere uomo o donna, persino dal modo di apparire giovani da vecchi, via via cancella, rendendo indiscernibili le differenze, le stagioni della vita umana, e quindi anche le identità sessuali.
Perché l´androginia di Madonna negli anni Ottanta e la più recente androginia di Michael Jackson hanno attratto così tanti fans? Solo per la loro musica o anche per l´oltrepassamento dell´identità sessuale che, a parere di Jean Baudrillard «accompagna l´oltrepassamento dell´identità politica, per cui è solo per una finzione che si continua a distinguere una destra o una sinistra, quando in verità lo specchio più fedele è la mutazione in atto che ha fatto del politico un transpolitico e del sessuale un transessuale?».
«L´uomo è un animale non ancora stabilizzato», diceva Nietzsche, e Pascal dal canto suo: «L´uomo supera infinitamente l´uomo». Nessuna obiezione quando il contesto era il mondo dello spirito, ma oggi tutto questo è diventato "corpo" e "carne". Per questo il transessuale ci inquieta, per questo lo teniamo ai margini e ai bordi. Ma la città è già assediata e attraversata da quella direzione e da quel senso che il transessuale indica con il suo stesso corpo: l´abolizione di ogni misura, di ogni limite, di ogni identità, e il progressivo avanzare dell´indifferenziato, da cui l´umanità, temendolo, si era distanziata, relegandolo nel mondo del sacro e del divino, a cui offriva sacrifici, non tanto per propiziarsi i favori degli dèi, quanto per tenerli lontani. Quando Dioniso entra nella città, ci racconta Euripide nelle Baccanti, tutto l´ordine viene sconvolto e ogni misura oltrepassata.
Moltiplicando i segni sessuali, il transessuale moltiplica i giochi, smantella il sesso come primo segno di identità per offrirlo come eccedenza di possibilità, e così configura quella nuova nozione di "individuo", tipico del nostro tempo, che si riconosce solo nella libertà illimitata, senza argini, senza confini, per poi finire col naufragare in quell´indifferenziato che gli uomini hanno immaginato all´origine del mondo, e da cui si sono distanziati per costruire il loro mondo, fatto di volti riconoscibili, per non implodere nella confusione dei codici e dei segni. Se questo è lo scenario, se questo è l´uomo nuovo che stiamo creando, la regressione implicita in questa creazione è la più grave di tutte le regressioni.

Corriere della Sera 26.10.09
Psicologi e sessuologi «È la ricerca dell’alterazione»
La droga e il sesso estremo «Così c’è il coraggio di osare»
di Elvira Serra

La scelta omosessuale o di un trans riguarda all’incirca il 10-20 per cento delle coppie che tradiscono
Più si assume cocaina e più le aree del piacere sono attivate. Per appagarle si avrà bisogno di comportamen­ti più spinti

MILANO — Droga e sesso estremo. Un binomio che assomiglia a un circo­lo vizioso. L’una che rincorre l’altro. La caduta dei freni inibitori, l’amplifi­cazione delle sensazioni, la «normali­tà » che cede il passo alla sessualità «eterodossa». Un fenomeno che gli esperti rilevano da dieci anni. «Da tre è diventato esplosivo», dice Alessan­dra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia e sessuologia del San Raf­faele Resnati di Milano. «Il tradimen­to omosessuale o con un trans riguar­da il 10-20% delle coppie infedeli», è l’osservatorio di Willy Pasini. E anche lo psicologo Giuseppe Rescaldina conferma «la nuova tendenza: 'uomi­ni regolari' cercano il gesto estremo e nella cocaina trovano il coraggio».
Il consumo cronico fa salire l’asti­cella del piacere, che «non si accon­tenta più» di gratificazioni «regola­ri ». Lo spiega Fabrizio Schifano, oltre vent’anni nel campo delle tossicodi­pendenze e docente all’Università di Hertfordshire. «Più si prende cocaina e più le aree del piacere sono attivate. Per appagarle, però, non basta un classico rapporto sessuale. C’è biso­gno di comportamenti più spinti, tra­sgressivi ». «L’uso delle droghe nel rapporto sessuale ne altera la qualità fisica, e allo stesso tempo si ha biso­gno di essere in uno stato di alterazio­ne per vivere certe esperienze sessua­li. Nessuna di queste sostanze è inno­cua, eppure spesso vengono prese co­me additivi», avverte Riccardo Gatti, psichiatra, direttore del Dipartimento dipendenze della Asl di Milano.
Alessandra Graziottin insiste sul te­ma trans e droga. «A cercare il trave­stito non operato è il maschio tradi­zionale (quello da statistica, sposato). Per lui il trans è un mix dalla grande potenza erotica: da un lato rappresen­ta la stereotipia della seduttività fem­minile, con i labbroni, le scollature, la minigonna, il seno prosperoso; dal­l’altro la presenza dei genitali maschi­li gratifica l’omosessualità latente. I clienti sono uomini di potere, o co­munque benestanti: un pensionato non potrebbe permetterselo». Un in­carico che mette sotto pressione può modificare la sfera sessuale. «Lo stress cronico lede le basi normali del desiderio. Per sentirsi eccitate, queste persone hanno bisogno di stimoli so­vramassimali, sia sessuali che chimi­ci. Ai primi risponde il trans. Ai secon­di le droghe come la cocaina, che crea­no un’eccitazione surrogata e amplifi­cano l’intensità del piacere. Chi ne fa uso non si rende conto dei rischi che corre: dall’ictus all’emorragia cerebra­le». 
«Mdma e cocaina sono le più utiliz­zate in questo ambito: la prima, cioè l’ecstasy, aumenta l’empatia, dà l’illu­sione di socializzare più facilmente, in realtà nasconde una grande solitu­dine; la seconda è euforizzante, porta all’eccesso senza far valutare le conse­guenze dei propri gesti», parla Gianpaolo Brusini, tossicologo di San Patrignano. Entrambe le sostanze cre­ano danni permanenti al sistema ner­voso centrale. «Mentre l’ecstasy agi­sce più sulla serotonina, che control­la l’aggressività e il buon umore, la co­caina aumenta la sensazione del pia­cere: amplificato, ma farmacologico, non naturale», interviene Giovanni Biggio, presidente della Società italia­na di Neuropsicofarmacologia.

Corriere della Sera 26.10.09
Per le mafie è il nuovo business più redditizio accanto a droga e commercio d’armi
I bimbi usati come schiavi nei campi, nelle miniere o nei bordelli sudafricani. L’imbarazzo per i prossimi Mondiali
L’Africa dei trafficanti di bambini
Decine di migliaia di minori rapiti e venduti ogni anno Il Mozambico in crescita economica cuore del racket
di Paolo Salom

MAPUTO — Tutto comincia con una carezza, un sorriso e una promessa dol­ce come il miele: «Credimi, questo tio ti porterà in un Paradiso dove mangerai tutti i giorni e potrai anche andare a scuola». Il suadente tio (zio in portoghe­se), tuttavia, ricevuto un «sì» entusia­sta dall’intera famiglia, mostrerà di lì a poco il suo volto di Mangiafuoco. Rin­chiuso il bambino, o la bambina, in una «casa di raccolta» nella città più vicina, lo venderà per un pugno di denaro a un altro tio che non avrà più bisogno di fin­gere una parvenza di umanità: «Stai buono, altrimenti non vedrai mai più la tua famiglia».
Ecco, in sintesi, come si svolge il pri­mo passaggio di un fenomeno che sta stravolgendo la geografia sociale di gran parte dell’Africa australe: il traffico dei minori, costola non meno remune­rativa del più vasto contrabbando di es­seri umani verso l’unico Paese dell’area che fa da calamita per questo commer­cio, il Sudafrica. Si fa presto a fare due conti. Se un adulto, impiegato in una or­dinata tenuta del Mpumalanga (ex Tran­svaal), può rendere poche decine di dol­lari — e magari percepire un salario — una catorzinha , una «vergine quattordi­cenne », sfruttata in un bordello di Johannesburg o Pretoria, può valere an­che mille dollari al giorno in cambio del solo sostentamento. Una miniera d’oro se consideriamo che il Pil pro capite del poverissimo Mozambico, pur con un’economia in crescita (4,3%), non su­pera i 500 dollari l’anno.
L’ex colonia portoghese è oggi luogo d’origine della tratta e «corridoio» privi­legiato per raccogliere e trasportare mi­gliaia di esseri umani oltre frontiera, verso il nuovo Eldorado africano bene­detto da imponenti investimenti in vi­sta dei Mondiali di calcio del prossimo anno, un volano anche per le organizza­zioni criminali. «I trafficanti — dice al Corriere Margarida Guitunga, direttore dell’ong Santac — sono gli emissari di una rete internazionale in mano a mafie potenti, il cui giro d’affari è secondo so­lo a quello della droga e della compra­vendita di armi. I bambini, oltre che in Mozambico, sono rapiti o acquistati in Zimbabwe, Ruanda, Burundi e altri Pae­si dell’Africa australe. Tutti comunque prima o poi passano di qui». Fare una stima di questo traffico è molto difficile in un Paese la cui priorità è, in primo luogo, uscire dal sottosviluppo. Non esi­stono statistiche ufficiali: una legge an­ti- traffico di esseri umani è in vigore so­lo da gennaio, mentre chi si occupa di contrastare questo fenomeno non ha al­tri mezzi se non la propria buona volon­tà. Per questo, a partire dal «Maputo Consensus», conferenza che per prima, due anni fa, ha affrontato il problema del traffico di esseri umani, con partico­lare attenzione ai bambini, sono sorte a decine le ong locali che ora affiancano le organizzazioni internazionali come Save the Children e Unicef.
Terre des Hommes Italia, la cui mis­sione è diretta a Maputo dall’energico Samuele Silva, 26 anni, è in prima fila nell’impresa di fotografare quanto sta accadendo. «Su 21 milioni di mozambi­cani — ci dice Silva — la metà hanno da 0 a 18 anni. Le potenziali vittime dei trafficanti sono otto milioni di bambini in età scolare». Quanti di loro finiscono effettivamente in questa orrenda rete? Qualche statistica, per quanto ruvida, esiste. Spiega Ilundi Polónia Cabral, di­rettore del programma anti-traffico di Save the Children: «Ogni settimana 300 clandestini mozambicani vengono ri­portati dalla polizia sudafricana alla frontiera di Ressano Garçia. Di questi, circa il 20 per cento, cioè 60, sono bam­bini tra i 5 e i 16 anni non accompagna­ti da un adulto di riferimento. In dodici mesi fanno oltre tremila. Ma non è che la punta di un iceberg».
Quelli che ritornano sui machimbom­bo (autobus) sono pochi fortunati. La maggioranza dei ragazzini di entrambi i sessi che ogni anno scompaiono nel so­lo Mozambico finiscono in un buco ne­ro. Quanti potrebbero essere? «Nessuno lo sa esattamente — dice ancora Marga­rida Guitunga —. Una cifra sensata è compresa fra tre e dieci volte il numero di quelli che sono ritrovati». Ovvero tra 10 e 30 mila. Come è possibile una simi­le tratta degli innocenti? «Innanzitutto — concordano Margarida Guitunga e suor Jakeline Danette, missionaria scala­briniana del Cemirde ( Comissão Episco­pal para os Migrantes, Refugiados e De­slocados de Moçambique ) è una questio­ne sociale e culturale». Questa: il Mo­zambico è un Paese essenzialmente agri­colo. La parte più sviluppata è il Sud, ov­vero la regione a ridosso del Sudafrica. Il resto è fatto di poche città e molta campagna, un territorio immenso co­stellato di villaggi miseri quanto isolati, senza elettricità o acqua corrente. L’uni­ca «ricchezza» sono i bambini: fino a die­ci per famiglia. Dove per «famiglia» si in­tende un clan allargato ai parenti vicini e lontani che considerano i figli cosa di tutti. Molto spesso, inoltre, sono le don­ne — povere e analfabete — a pensare al sostentamento di tutte queste bocche perché i loro mariti sono lontani, chi per lavoro chi perché è usanza per i ma­schi adulti scomparire di casa e vagare di città in città.
In questo contesto il lavoro minorile fa anch’esso parte della tradizione. Le fa­miglie benestanti di Maputo molto spes­so accolgono in casa bambine e bambi­ni dai 6 anni in su per dare loro in ge­stione le cure domestiche o degli infan­ti. È un tio , o più frequentemente una tia , cioè una persona in qualche modo legata al clan, a proporre «una vita mi­gliore » nella capitale. Qualche volta è davvero così. Altre no. Di frequente i bambini «ceduti volentieri» a questi in­termediari finiscono insieme ad altri ra­piti per la strada o comprati, come fos­sero schiavi. Tutti hanno un destino si­mile: a seconda dell’età (dai 6 ai 16-18 anni) possono ritrovarsi in Sudafrica in un bordello, in un campo a raccogliere pomodori, in una miniera o a servizio in qualche famiglia. Altri ancora, i me­no fortunati di tutti, possono incontra­re un destino orribile ma non meno rea­le: essere uccisi e fatti a pezzi dai traffi­canti di organi destinati alla magia nera dei curandeiros e dei feitiçeiros che an­cora godono di grande credito in que­sta parte dell’Africa. «Noi facciamo il possibile», dice sconsolato l’ispettore Tomé Castro Gabriel, capo della Briga­da anti-trafico della polizia di Maputo accogliendoci nel suo ufficio, una stan­za spoglia con un piccolo banco al po­sto della scrivania: non un telefono, non un computer. «Non abbiamo nean­che un archivio ma il governo ha fidu­cia in noi e noi faremo di tutto per fer­mare i trafficanti». I Mondiali incombo­no. La lotta è solo all’inizio.

Corriere della Sera 26.10.09
Il lavoro minorile, spinto dalla povertà, fa parte della cultura locale.
Talvolta è una persona legata al clan famigliare a proporre «una vita migliore» in città
In Sudafrica, poco lontano dalla frontiera mozambicana
Nel centro che protegge i «meninos da rua»
di P. Sa. 



MALELANE (Sudafrica) — Carlos emerge dal dormitorio con il balzo di una gazzella. Ha 17 anni e gli occhi profondi di chi ha già visto di cosa sono capaci gli uomini. Ma non è arrabbiato con il mon­do. Sarà che da cinque anni frequenta la scuola e il suo orizzonte è cambiato: non più i confini invali­cabili di una fattoria-prigione ma i muri e i banchi di un liceo sudafricano. «Quest'anno ho la maturi­tà — dice — poi voglio frequentare un corso per disegnatore grafico». Lo studio è il suo riscatto: da quando è stato accolto nel rifugio «Amazing Gra­ce », quattro baracche circondate da un recinto e un orto nella periferia polverosa di Malelane, cin­quanta chilometri dalla frontiera tra Sudafrica e Mozambico, la vita è tornata a sorridergli. Carlos è stato fortunato. Lo sa, lo sa bene. Forse per questo continua a ridere, a dondolarsi sulle gambe, a guar­dare con ammirazione il suo benefattore, Vuzi Ndukuya, 26 anni, uno dei responsabili del centro che ospita 50 bambini e ragazzi, dai sei mesi ai 18 anni. «Sono stato rapito — racconta Carlos — quando avevo 12 anni, a Maputo. Mi è capitato quello che capita a molti: un 'amico' più grande, di cui mi fidavo, mi ha convinto a seguire degli uomini che portavano i bambini come me in un mondo di meraviglie e pancia piena tutti i giorni. Passata la frontiera, invece, mi sono ritrovato schiavo».
Come Pinocchio, Carlos il menino da rua ( bam­bino di strada) poteva finire i suoi giorni trasfor­mato in un asino da soma. Ma non deve sorprende­re che si sia fidato a salire su un chapa , un pulmi­no, insieme ad altri bambini e adulti di cui non sa­peva nulla. I sogni dei ragazzi come lui, ancora og­gi, sono fatti di cibo e speranze primarie: non è dif­ficile abbandonare una casa dove si convive con altri dieci dallo stomaco semivuoto. Come scrive il mozambicano bianco Mia Couto nel romanzo Ter­ra sonnambula , «quando la fame morde ci fa di­ventare bestie feroci». Chiarisce Carlos: «Di me si occupava la mia matrigna. Mio padre era morto e la sua seconda moglie non era proprio, come si di­ce, una donna affettuosa».
Dunque, via, lontano. I trafficanti non hanno grossi problemi per attraversare le frontiere africa­ne. Spesso ci vuole una bella mancia. Altre volte sono gli stessi poliziotti che dirigono gli affari, op­pure basta passare in uno dei tanti buchi che co­stellano i reticolati. Così Carlos si è ritrovato in una fattoria sudafricana. Ordinata, grande, anzi: 
Salvato Il 17enne Carlos (a sinistra) con Vuzi, 26 anni, uno dei responsabili del centro immensa. «Non ho mai visto il padrone — raccon­ta —. So che era un bianco. Ma il nostro mondo era confinato a un tugurio dove dormivamo in sei per terra. E al campo che ogni giorno dall’alba al tramonto dovevamo ripulire da tronchi, sterpi, sas­si e materiali vari per prepararlo all’aratura. Le co­se erano chiare: io e gli altri eravamo schiavi. Chi non lavorava, veniva picchiato e affamato».
Coraggioso o forse solo incapace di prefigurare i pericoli, Carlos dopo tre mesi si aggrega a quattro ragazzi più grandicelli per tentare una fuga. Un az­zardo: non avevano la minima idea di dove si tro­vavano, il primo villaggio era a giorni di cammino. «Siamo partiti di notte: nessuno di noi poteva im­maginare di resistere ancora in quelle condizioni», dice ancora Carlos. Dopo tre giorni incontra un tas­sista, una persona per bene che conosce il centro fondato negli anni Novanta da Grace Mashaba. Per il fuggitivo è il ritorno alla vita ma non alla casa. Non ha documenti né voglia di rientrare in una fa­miglia che mal lo sopporta: «Forse, dopo l’universi­tà tornerò nel mio Paese, il Mozambico. Per ora sto bene qui».
Una storia a lieto fine. Altre lo sono meno. Come quella delle tre catorzinhas convinte da una don­na, tia Diana , a seguirla in Sudafrica per imparare a fare le parrucchiere e trasformate in prostitute dopo giorni di violenza. O Sarah, una diciannoven­ne portata da tia Joyce in un ristorante di Johanne­sburg con la promessa di un lavoro. Stuprata e mi­nacciata, Sarah ha vissuto in un incubo per due an­ni, fino a quando il suo sfruttatore non è stato arre­stato per droga. «Vicende come queste — dice Ma­rija Nikolovska dello Iom (International Organiza­tion for Migration) — sono solo un’idea, quella che emerge alle cronache, di una realtà spaventosa che coinvolge migliaia di esseri umani». 


Corriere della Sera 26.10.09
Sergio Luzzatto riabilita la figura di Augustin, il fratello minore che criticò Maximilien ma volle morire con lui
L’altro Robespierre, il Terrore benigno
Sempre descritto come incapace e libertino, «Bonbon» si oppose ai massacri
di Alessandro Piperno

Su, confessatelo: quando dite: «Questo libro non mi interessa», in realtà state pensando: «Questo scrittore, quest’uo­mo non mi interessa». Diceva bene Sar­tre: chi se ne importa di un libro! L’importan­te è l’uomo che l’ha scritto, e la passione che lo ha spinto a scriverlo.
Il che vale anche per uno storico, se si chia­ma Sergio Luzzatto. Nei confronti del quale confesso un morboso interesse. Da anni lo se­guo con passione e divertimento. Lasciando­mi sommergere dalla monellesca intemperan­te vitalità che sgorga dai suoi interventi giorna­listici, che, sebbene talvolta mi vedano dissen­ziente, non riesco a non leggere fino in fondo. Cos’altro chiedere a un pezzo di giornale, se non il buongusto di farsi leggere fino all’ulti­ma riga e di scatenarti qualcosa dentro?
Anni fa lessi con stupore il suo geniale libro sul corpo del Duce. Seguii la polemica suscita­ta dal volume sulla crisi dell’antifasci­smo. Considero la monografia su Pa­dre Pio dell’anno scorso una delle più avvincenti documentate terrificanti ra­diografie del mio Paese. In cui, tra l’al­tro, Luzzatto dava prova di quello che vorrei pomposamente chiamare il me­todo- Luzzatto.
Che consiste pressappoco in que­sto. Primo, un’idea forte. Una sola: os­sessiva e troneggiante. Secondo, una vastissi­ma documentazione messa al servizio del­l’idea forte. Terzo, il talento narrativo. Con tan­to di trucchetti: uso del punto a capo, creazio­ne della suspense, stile svelto, qua e là ironi­co, per lo più sarcastico. Quarto, un’inclinazio­ne alla militanza. Non c’è niente di quello che Luzzatto scriva che non abbia una sia pur sot­tesa implicazione con la sua passione ideologi­ca.
Ecco il cocktail micidiale che Luzzatto ripro­pone nel suo ultimo libro dedicato alla figura di Bonbon Robespierre, fratello minore del più celebre Maximilien.
Che Sergio Luzzatto torni a occuparsi (dopo averlo fatto a più riprese) della Rivoluzione francese non mi sorprende. La passione per la Rivoluzione fa parte del suo orizzonte morale: feroce, intransigente, risentito. Luzzatto è un azionista non pentito: la sete di virtù e il gusto per la rivolta è nel suo Dna. Il Terrore gli deve apparire un ottimo antidoto ai tempi che vivia­mo che, immagino, non gli piacciano per nien­te. Stavolta Luzzatto si cimenta con un perso­naggio in apparenza piccolo, di cui ci offre un emblematico medaglione.
Chi è Augustin Robespierre per Luzzatto? Be’, uno dei diffamati della Storia. Uno di quei minori che se ne stanno lì a marcire nei cap­ziosi cliché che gli sono stati cuciti addosso dai contemporanei e dai posteri.
Per sottrarre Augustin a questo destino, Luz­zatto — direi luzzattianamente — non teme di polemizzare con scrittori del calibro di Mi­chelet, Taine, Furet. Così come non teme di criticare coloro che, per ragioni strumentali, hanno assimilato il destino del minore (in tut­ti i sensi) dei Robespierre a quello del maggio­re. Enfatizzando il gesto estremo (così toccan­te) di Augustin, che sceglie di seguire il fratel­lo sul patibolo e di condividere con lui la ghi­gliottina.
Ma per Luzzatto, Robespierre il giovane non è una succursale della grande ditta — Ghi­gliottina & Incorruttibilità — di Robespierre il vecchio. Ma semmai un’alternativa.
Ecco l’idea forte. Che Luzzatto persegue da par suo.
Una volta Charles Baudelaire scrisse: «Vi è in ogni mutamento qualcosa di infame e insie­me di piacevole, qualcosa che ha dell’infedeltà e del trasloco. Ciò basta a spiegare la rivoluzio­ne francese». Una frase cinica che dà conto dell’euforia velleitaria che anima ogni rivolu­zionario, ma anche della sua esigenza di movi­mento. Che Augustin Robespierre seppe incar­nare assai meglio del suo stanziale fratello maggiore.
«Se fosse un film — scrive Luzzatto — la storia di Augustin Robespierre (…) sarebbe un road-movie: la centralità della strada e il brivi­do dell’imprevisto, la paura di perdersi e la tentazione di tornare indietro. Ma sarebbe an­che un western, racconterebbe un’avventura di frontiera».
Siamo in pieno Terrore. È allora che Augu­stin Robespierre viene nominato, dall’Assem­blea, rappresentante in missione presso l’Ar­mée d’Italie: mandato che comporta un avven­turoso viaggio nel Mezzogiorno della Francia. Un compito straordinariamente rischioso, nel quale Augustin ha la possibilità di esprimere la propria differenza dal fratello, e da tutti gli altri montagnardi assetati di sangue.
Sì, il fratello minore dell’Incorruttibile è attratto dall’avventura. Che non sia questo entusiasmo per la vita a riempire il suo cuore di sdegno di fronte al sangue inutilmente versato dai seguaci del fratello? L’incorruttibilità del famoso Robespierre che trova una vitale alterità dialettica nella corruttibilità di Robespierre il giovane? Questo l’antidoto messo a punto dal secondogenito per difendersi dal veleno del primogenito? Lasciarsi corrompere dalla vita? E quindi anche dalla pietà, dal buonsenso, dalla strategia?... Le pagine dedicate a questa contrapposizione familiare sono così efficaci. Maximilien ha vissuto «senza aver mai posato lo sguardo, beato lui, sul ligneo tra­liccio di una ghigliottina montata in qualche piazza di provincia. Senza mai avere udito il fragore della mannaia liberata dal boia, né ave­re respirato l’odore del sangue versato di fre­sco », ma anche «senza mai aver visto il ma­re ». Luzzatto adombra l’idea romantica che, invece, Robespierre il giovane sia molto più at­tratto dall’odore del mare che da quello del sangue. Per questo, a più riprese e sotto varie forme, Augustin denuncia gli eccessi sangui­nari della Rivoluzione. Se la parola chiave per definire il maggiore dei Robespierre è intransi­genza, quella per definire il minore è «indul­genza ». «Robespierre jeune comprese la ne­cessità di sfrondare la rete periferica degli 'esagerati', fermando la mano di coloro per i quali la Rivoluzione poteva risolversi (…) in un regolamento di conti».
Ecco la dialettica fratricida che si consuma sullo sfondo di quella grande guerra fratricida che fu il Terrore. Una dialettica di cui Luzzatto ha bisogno per rivalutare la parte migliore del­la Rivoluzione: a cui dà nome di «Terrore beni­gno ». Che Augustin Robespierre seppe mira­bilmente interpretare, e che proprio per que­sta ragione venne dimenticato, soprattutto da una «storiografia neo-liberale» smaniosa di «identificare nel giacobinismo il monolite ori­ginario del totalitarismo». Un’idea, quest’ulti­ma, che anche Albert Camus considerava fuor­viante tanto da scrivere: «Alla rivoluzione gia­cobina che cercava d’instaurare la religione della virtù, per fondare su di essa l’unità, suc­cedono le rivoluzioni ciniche, siano esse di de­stra o di sinistra, che tenteranno di conquista­re l’unità del mondo per fondare finalmente la religione dell’uomo. Tutto ciò che appartene­va a Dio sarà reso a Cesare». Sì, per Camus la differenza tra la coppia Robespierre-Saint-Just e quella formata da Hitler-Stalin si gioca tutta sulla buonafede dei primi e sul cinismo dei se­condi.
Il Terrore benigno quindi? Ci penso su: un ossimoro che fa paura, ma dall’indubbia po­tenza suggestiva. E che finalmente mi consen­te di vedere l’uomo: l’uomo Sergio Luzzatto, o se preferite, date le circostanze, il cittadino Sergio Luzzatto.

Corriere della Sera 26.10.09
Il saggio di Ian Tattersall sulle origini
storia dell’uomo prima della storia
di Edoardo Boncinelli

Da Lucy all’Homo sapiens: il racconto dagli albori a seimila anni fa

Èdifficile pensare a qualcosa di più inte­ressante della storia evolutiva della no­stra specie, di che cosa possa essere stato ciò che ha portato dai nostri antenati ominidi a noi: due o tre milioni di anni di un’esaltante cavalcata nella storia e nello spirito. Tanto in­teressante che sull’argomento ne sono state dette di tutti i co­lori, dai miti alle religioni, dal­le speculazioni medievali alle elucubrazioni idealistiche e spiritualistiche, dal positivi­smo alla psicanalisi, dai libri pseudodivulgativi alla grande stampa. I dati scientifici sul­l’argomento si sono andati progressivamente accumulan­do negli ultimi decenni e mol­to si sta imparando, ma tutto ciò è sempre poco rispetto a quello che a noi piacerebbe sa­pere. Al punto che molti ten­dono a inventarsi i dati e le sto­rie. La vera scienza deve per forza avere un’infinita pazien­za, e non parlare di quello che non sa, lasciando questo com­pito alle diverse saccenti pseu­doscienze. Purtroppo molta malintesa divulgazione scien­tifica ha fretta, e presenta, an­che in buona fede, le più diver­se ipotesi come fatti accertati.
Quando mi devo documen­tare sulle più recenti acquisi­zioni nel campo, so che mi posso fidare di pochissimi au­tori. Tra questi spicca Ian Tat­tersall, curatore della sezione antropologica del Museo di Storia Naturale di New York. Di Ian Tattersall è appena usci­to Il mondo prima della sto­ria. Dagli inizi al 4000 a.C. (curato da Telmo Pievani, Raf­faello Cortina editore, pp. 200, € 19,50), che traduce una pub­blicazione originale posta al­l’inizio di una serie che l’Oxford University Press dedi­ca alla storia del mondo nel suo complesso. Vi si analizza appunto che cosa è successo nel periodo che va dai primi ominidi agli albori della no­stra storia.
Ne viene fuori una vicenda esaltante, proprio perché scrit­ta senza enfasi e trionfalismi, utilizzando il semplice ma effi­cace linguaggio della scienza, e può essere letta secondo due prospettive generali. La si può scorrere e consultare co­me un prontuario di aggiorna­mento sulle ultime novità nel campo dell’evoluzione umana — prima puramente biologi­ca, poi sempre più marcata­mente culturale — o la si può leggere con continuità e pas­sione come una «storia», la nostra prima storia. In un rac­conto di sostanziale continui­tà dal Sahelanthropus di qua­si sette milioni di anni fa, ai di­versi generi di Australopithe­cus — tra i quali l’ anamensis, che camminava già sicuramen­te eretto più di quattro milio­ni di anni fa; afarensis , la spe­cie cui apparteneva «Lucy», più di tre milioni di anni fa e garhi , cui risalgono forse i pri­mi rozzissimi strumenti litici, più o meno due milioni e mez­zo di anni fa — e da questi al genere Homo — come l’ habi­lis, ergaster, cui appartiene il famoso scheletro del cosiddet­to «ragazzo del Turkana», erectus , heidelbergensis , nean­derthalensis e sapiens — giù giù fino ai Cro-Magnon e a noi oggi, si possono, volendo, in­dividuare alcune discontinui­tà che saltano più all’occhio: l’arrivo dell’ Homo heidelber­gensis in Europa che segna l’inizio delle grandi battute di caccia, la comparsa delle pri­me raffigurazioni rupestri — che noi definiamo «artisti­che », ma che sono da conside­rarsi più propriamente «astrat­te » — e infine la domesticazio­ne di piante e di animali che dà vita alle prime civiltà stan­ziali, più o meno mezzo milio­ne, quarantamila e dieci-dodi­ci mila anni fa, rispettivamen­te.
Con l’agricoltura e l’alleva­mento l’uomo smette di vaga­re qua e là e si stabilisce in al­cuni luoghi preferenziali in va­rie parti del globo, dalla Meso­potamia alla Cina, dalle Ameri­che alla Nuova Guinea. Smette così di essere parte della natu­ra e si pone almeno parzial­mente in opposizione ad essa, disboscando e seminando, rac­cogliendo e conservando, cambiando così progressiva­mente il paesaggio intorno a sé. Cominciando così a porre la sua «firma» su un pianeta che, non più «stanza smisura­ta e superba» di leopardiana memoria, si mostra sempre più «finito», se non angusto. L’ingegnosità e la sistematici­tà dell’uomo si affermano così definitivamente, dando luogo alle prime ondate di espansio­ne demografica e al fiorire del­le sue culture, «di così tante forme diverse, tutte straordi­nariamente belle e degne del­la più grande ammirazione», come Darwin ebbe a dire a proposito delle specie viventi. Fino a che i prodotti della cul­tura hanno retroagito sul­l’espansione demografica stes­sa rendendola continua e sta­bile.

Repubblica 26.10.09
Anish Kapoor
Se la scultura è un’illusione senza fine

L´importanza dei colori trasformati in materia
L´influenza di Beuys, Rothko e Barnett-Newman
Il continuo richiamo al non finito
Una grande retrospettiva alla Royal Academy di Londra celebra l´opera dell´artista anglo-indiano

LONDRA. “Senza fine", si sarebbe potuto intitolare la mostra (aperta fino all´11 dicembre) con cui la Royal Academy celebra Anish Kapoor, artista di rilievo della scena internazionale e membro della medesima accademia. Muovendosi in un terrain vague artistico non immediatamente assimilabile alla scultura canonicamente intesa, ma che semmai rimanda alla ricerca di un nuovo e diverso rapporto «tra opera e spazio», Kapoor presenta una ricca retrospettiva del suo lavoro; segnato da una incessante metamorfosi e perciò stesso da un continuo richiamo all´idea del non finito, dell´in-finito. Appaiono "senza fine" gli impercettibili movimenti di Svayambh, una sorta di gigantesco vagone in cera rossa che spostandosi su apposite rotaie attraversa lentissimamente cinque sale dello spazio espositivo, lasciando le sue tracce fintamente sanguinose sugli stipiti delle porte museali. Ma senza fine sono anche i vertiginosi scambi di ruolo tra materia e colore di 1000 names, delicato lavoro degli anni settanta sull´intrinseca illusorietà dei pigmenti: «materia prima che pare non avere sostanza fisica; qualcosa che assieme è presente e non presente». Ancora, senza fine sono i turbamenti prodotti nel visitatore posto davanti ai tanti specchi in mostra, specchi nei quali vedrà il riflesso del proprio corpo passare repentino, senza soluzione di continuità, dall´obesità a una frantumazione caleidoscopica. E senza fine, da ultimo, è la moltiplicazione visionaria delle sfere che vanno a comporre quel Tall Tree and the Eye che campeggia nel cortile antistante la Royal Academy: un festoso quanto perturbante albero di sapore "natalizio", in cui ogni sfera non soltanto si riflette su quella a lei più prossima, ma simultaneamente anche su tutte le altre e poi nel cielo, che fa da sfondo naturale all´opera. Così, in una ricerca artistica che vede il colore trasformarsi in materia e la materia in spazio; il convesso rovesciarsi nel concavo e il materiale nell´immateriale, è del tutto evidente che lo stesso gioco interpretativo risulti "senza fine". A Kapoor non interessa predefinire un significato puntuale e univoco della sua opera. Quel significato (o meglio, la somma dei significati) si coglierà nell´"autogenerarsi" dell´opera (questo il senso della parola sanscrita Svayambh): come nel caso dei recenti ghirigori montagnosi di cemento dagli echi scatologici, generati da un processo computerizzato, e dunque frutto di una tecnologia avanzata, ma che finiscono per evocare manufatti primordiali stipati in un magazzino polveroso e dimenticato.
Ma come far convivere il voluto intasamento di una sala museale stracolma di una fascinosa e rivoltante verminazione cementizia, presente nelle più diverse forme (torri, ceste, torte, castelli) e nei più diversi colori (dal grigio all´ocra), con la passione dichiarata per il vuoto del medesimo Kapoor? Il conflitto è solo apparente, suggerisce l´artista: «Perché ho sempre pensato al vuoto come a uno spazio transitorio, in-between. E tutto ciò ha molto a che fare con il tempo. Sono sempre stato interessato al momento creativo in cui ogni cosa è possibile e niente è ancora accaduto». Kapoor, dunque, non riconosce gerarchie precostituite. La sua arte è in costante divenire perché è figlia del mutare del tempo e dello spazio in cui si colloca. È un´arte aperta: alle contraddizioni, ai ripensamenti e agli andirivieni mentali ed estetici. Ora, conoscendo le origini indiane dell´artista, verrebbe naturale ricondurre il tema del vuoto a un ipotetico retroterra buddista. Ma di fronte all´enigma di When I am Pregnant, protuberanza bianca che esce da una parete bianca, e compare e scompare a seconda della posizione assunta dal visitatore, risulta altrettanto forte ed evidente il conclamato influsso esercitato da un Joseph Beuys o da un Barnett Newman. Così come, vedendo lo straordinario Yellow, enorme parete gialla dipinto-scolpita che letteralmente ingoia il nostro sguardo in un indefinibile e inafferrabile inizio, si potrà anche pensare all´immagine zen della porta, ma allo stesso tempo si intuisce quanto l´indiano Kapoor abbia visto e "rubato" da Rothko.
Di conseguenza, come ricorda l´amico di infanzia Homi K. Babha nel bel saggio in catalogo, non sarà ricorrendo alla peraltro antiquata giustapposizione tra est sacrale e ovest secolarizzato, che faremo molta strada nella comprensione di un´ opera nata dalla mente e dalla mano di un indiano trapiantato in Inghilterra all´età di diciotto anni. Meglio, molto meglio ascoltare ancora una volta le sue parole: «Non desidero creare sculture che rimandano alla forma (...) Desidero creare sculture che rimandano alle credenze, alla passione, a qualcosa che è al di là dell´aspetto materiale». L´opera di Kapoor, insomma, si muove su un territorio dai confini labili, incerti. In cui la percezione viene indagata in tutte le sue possibili manifestazioni, comprese quelle che rendono più insicuro e malfermo il nostro rapporto con la realtà. Perché evidenziano la precarietà dei nostri presunti equilibri. Psichici e fisici (su questo punto insiste, e giustamente, il saggio di Jean de Loisy). Per quanto paradossale, trattandosi di materia, l´idea di scultura di Kapoor è in fondo "illusionistica". Animata da quella che Gilles Deleuze definirebbe la piega barocca. Dove tutto diventa "allusivo", mobile, sfuggente, reversibile. E dove l´esperienza principale, e più fertile, è quella dello spaesamento.

Repubblica 26.10.09
ZURIGO. Georges Seurat. Kunsthaus. Fino al 17 gennaio.

La mostra ripercorre l'attività del grande pittore francese attraverso settanta opere cardine, dipinti e disegni preparatori, provenienti da tutto il mondo. A cominciare dallo studio per Una domenica pomeriggio all'isola della Grande Jatte del 1884, considerato il manifesto del pointillisme. La genesi di questi quadri di grandi dimensioni, completati nell'atelier sulla base di materiali e appunti grafici raccolti en plein air , dimostra quale distanza ormai separi Seurat dagli impressionisti. Le figure ieratiche della Grande Jatte rinviano infatti alla cultura egizia e a Piero della Francesca. Amico di Signac e sensibile ai programmi di arte scientifica, elaborati sugli studi di ottica rilanciati dai positivisti, Seurat è un esponente di primo piano del divisionismo, partecipe dei programmi del simbolismo, che crea le premesse per le esperienze del fauvismo, del cubismo e perfino della op art.

Repubblica 26.10.09
PAVIA. Da Velazquez a Murillo. Il secolo d'oro della pittura spagnola nelle collezioni dell’Ermitage. Castello Visconteo. Fino al 17 gennaio.

Da vedere una selezione di cinquanta opere provenienti dalla collezione di pittura spagnola del grande museo statale russo. Si tratta di un nucleo di dipinti, in gran parte inediti e mai esposti in Italia, considerati rappresentativi della grande stagione della pittura spagnola del XVI e XVII secolo. Tra i lavori esposti, da segnalare tele di Diego Velazquez (è sua la bella testa virile di profilo, scelta come immagine della mostra), di Bartolomé Murillo, Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, Francisco Zurbaràn, accanto ad alcune selezionate opere di autori di grande valore, quali Antonio de Pereda, Francisco Ribalta, Alonso Cano, Juan Valdes Leal e Juan Carrero de la Miranda.

Corriere della Sera 26.10.09
Calder Elogio della leggerezza
di Vincenzo Trione

Suo malgrado diventerà un modello di riferimento per molti protagonisti dell’arte legati alle nuove tecnologie

Calder e il Novecento. Un dialogo difficile, talvolta conflittuale e inquietan­te. Un confronto conti­nuamente differito. La politica e la poesia. Da una parte, il secolo breve, costellato di tensioni, di in­tolleranze, di drammi: di ideolo­gie che hanno lasciato macerie e rovine. Dall’altra parte, un artista gioioso che pensa il suo lavoro co­me invenzione infinita, azzardo ostinato, immaginazione ulterio­re. Artificio per fuggire dal pre­sente, per mettersi di lato rispet­to alle onde della Storia, per rita­gliarsi oasi di libertà creativa. Un apocalittico moderato, che sce­glie di non adeguarsi all’attualità. Non concepisce la sua ricerca co­me rispecchiamento, né come te­stimonianza, ma come pratica del­l’allontanamento.
Questa filosofia costituisce l’ap­prodo di un itinerario che si può suddividere in due stagioni. Dap­prima, negli anni statunitensi, l’elaborazione di uno stile tar­do- espressionista, fatto di eroi marginali, provenienti dai territo­ri del gioco: atleti, clown. Poi, il trasferimento a Parigi: e l’incon­tro con le scomposizioni di Gon­zales e di Picasso. Nasce una grammatica inconfondibile. Scul­ture fatte di niente, potremmo di­re con Apollinaire. Imprendibili, come le scie di fumo. Sagome mi­nime e insieme complesse che, nella tridimensionalità del fil di ferro, si dispongono in aria, in­frangendo ogni solennità. E, poi, moduli concreti che riprendono il biomorfismo di Miró: cellule e amebe che sciamano, sfidando le leggi di gravità. Profili che volteg­giano con potente leggiadria. So­fisticati intrecci tra blocchi ma­stodontici — minacciosi, peren­tori — e sottili tracce vibranti.
Scritture provvisorie, ma fer­me. Che dichiara­no l’ossessione di Calder, il quale, come Perseo, pro­va a escogitare strategie per sot­trarsi alla pesan­tezza, all’inerzia e all’opacità del mondo. Animato dal desiderio di spingersi verso di­mensioni inesplo­rate, non insegue sconfinamenti nell’onirico o nel­­l’irrazionale: guar­da la sua epoca se­condo una logica diversa, affidan­dosi a inattesi metodi di cono­scenza. Ha ricordato Italo Calvi­no: «È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma in un rifiuto della real­tà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume co­me proprio fardello».
In queste parole è il destino di Calder. Perseo contemporaneo, insegue la leggerezza degli uccel­li, non quella delle piume. Una leggerezza che accolga in sé schegge concrete. Dietro i suoi mobiles e i suoi stabiles, si cela il disagio dell’individuo moderno, che non sa integrarsi con il conte­sto circostante: l’impossibilità di risolvere compiutamente la rela­zione tra oggetto e spazio. L’arti­sta interpreta questa alienazione, trasgredendo i modi della statua­ria classica. Viola ogni immedia­ta verosimiglianza: la scultura di­venta monumento fragile della crisi novecentesca, mettendo in scena l’infinito, l’illimitato, il de­costruito.
In un sistema sociale governa­to dalla logica del profitto, del­­l’utile, dell’esatto, Calder fa l’elo­gio dell’imperfezione, del disordi­ne, della disarmonia. Ordisce mo­ti che non hanno scopi, né dire­zioni: ma si donano come anar­chia, arbitrio. Sequenze ingenue, che accolgono riferimenti ai liri­smi di Paul Klee e alle favole di Walt Disney.
In filigrana, le ombre della sto­ria continuano a incombere. I ma­teriali utilizzati sono di matrice meccanica: lamiere, profilati, ton­dini metallici, spesso verniciati a smalto, trattati con elementare e abile tecnica. Calder si comporta come un operaio che, simile al Chaplin di «Tempi Moderni», co­nosce bene le regole delle catene di montaggio: ma, diversamente da Charlot, si diverte a combinare in maniera bizzarra i vari pezzi a sua disposizione, allestendo astu­ti giocattoli per adulti. «In una so­cietà seriamente industriale, (...) sarebbe un operaio da licenziare immediatamente», ha detto Ar­gan.
Si generano macchine celibi. Dinanzi a noi, grazie a bilancieri e bracci di leva, sospensioni e con­trappesi, sorgono architetture inutili e anti-funzionali che pro­ducono oscillazioni: basta una corrente d’aria o lo sfioramento della mano, per alimentare meta­morfosi. L’opera si fa congegno aperto, geografia di mutazioni. Sfida alla dittatura di un universo sempre più standardizzato.
In un secolo disumano, Calder compie un deciso ritorno alla natu­ra. Definisce una fitta trama di li­nee per alludere alle morfologie ar­boree: linee come gambi e foglie, mentre lo stridere dei pezzi di fer­ro simula il fruscio dei rami. Non vi è nessuna simbologia oscura. Le grafie planano su di noi senza approdi precisi. Segnali che dico­no la distanza dalla vita moderna.
E, tuttavia, si determina un pa­radosso. Calder evita ogni pro­gressismo. Ma, quasi suo malgra­do, diventerà modello di riferi­mento per molti protagonisti del­l’arte legati alle nuove tecnolo­gie. Egli è un proto-designer: pa­dre involontario dei mobili geo­metrici di Munari e di quelli ba­rocchi di Noguchi, oltre che di tanti gioielli ancora in voga. Un analogo destino toccherà a un scultore «senza tempo» come Constantin Brancusi, le cui for­me abilmente modellate anticipe­ranno tanti azzardi ingegneristici (dalle automobili da corsa ai Con­corde).
Alexander Calder, dunque. Con­tro il Novecento. Dentro il Nove­cento.