sabato 31 ottobre 2009

Fidarsi di D’Alema?
L’ex presidente del Consiglio nella rosa proposta dai socialisti Ue: «Grato al governo»
Berlusconi apre a D’Alema candidato agli Esteri in Europa
Massimo D'Alema è tra i candidati dei socialisti eu­ropei come «ministro de­gli Esteri» della Ue. L'ex premier ha subito ottenu­to un'apertura dal premier Silvio Berlusconi: «Il go­verno valuterà con serietà le candidature capaci di as­sicurare all'Italia un incari­co di così alto prestigio». Anche il ministro Maroni e il leader dell'Udc, Casini hanno dato il loro appog­gio a D'Alema, che si è det­to «onorato» della candida­tura e «grato» al governo.
«Ma non farò inciuci»
dal Corsera e da Repubblica

Repubblica 31.10.09
Se il mondo smette di fare figli
di Enrico Franceschini

Il calo delle nascite non riguarda più soltanto l´Occidente ricco ma anche molti Paesi emergenti Svanisce così l´incubo della sovrappopolazione mondiale Secondo l´Economist è uno dei benefici della globalizzazione e della diffusione della ricchezza
Per gli economisti il tasso di natalità comincia a scendere quando il reddito pro-capite raggiunge i mille dollari all´anno

«Crescete e moltiplicatevi», ordina il Signore Iddio nella Bibbia, e i discendenti di Adamo ed Eva hanno obbedito con ostinata determinazione: eravamo 50 milioni al tempo dell´Impero Romano, un miliardo nel 1800, 2 miliardi e mezzo nel 1950, oggi siamo quasi 7 miliardi e saremo 9 miliardi nel 2050. Eppure questa corsa alla sovrappopolazione, durata venti secoli, sembra sul punto di arrestarsi. Il tasso demografico del pianeta è in calo costante: dopo essere scesa nel mondo industrializzato, la natalità diminuisce anche nei paesi in via di sviluppo che cominciano a conoscere un minimo di benessere grazie alle trasformazioni economiche portate dalla globalizzazione. Il tasso di fertilità globale, che negli anni ‘50 era 5-6 figli a coppia, è già sceso per metà del pianeta a 2,1 o meno, il livello consistente con una popolazione stabile, ovvero con una crescita zero. Per questo gli esperti lo chiamano anche «tasso di sostituzione»: due figli ogni due genitori, due nuovi terrestri al posto di due destinati a essere rimpiazzati.
Tra il 2020 e il 2050, prevedono gli specialisti della materia, il tasso di natalità mondiale scenderà sotto il «tasso di sostituzione», interrompendo il prodigioso aumento della popolazione terrestre, che raggiungerà il suo picco appunto a quota 9 miliardi di persone e da quel momento smetterà di crescere, cominciando piuttosto a decrescere. Il mondo, che secondo gli scenari più pessimistici rischiava di esplodere sotto la spinta di una inarrestabile bolla demografica, divorando più risorse di quelle disponibili, si salverà da solo.
A fotografare un fenomeno che solo recentemente si è delineato sotto gli occhi degli studiosi è l´Economist, il settimanale britannico (perché nato a Londra e perché ha qui la sua redazione centrale) che è stato a sua volta cambiato dalla globalizzazione, moltiplicando le copie (oggi sono un milione e mezzo) e vendendole in tutti i continenti (soltanto il 20 per cento della tiratura è distribuito nel Regno Unito). Il sorridente neonato che precipita in copertina, sotto il titolo «Falling fertility» (Fertilità in caduta), simboleggia la rivoluzione della nascite.
L´Occidente ricco e sviluppato è stato il primo a rallentare il tasso demografico, ma adesso la stessa cosa sta accadendo in paesi emergenti come il Brasile, l´Indonesia, parti dell´India (oltre che naturalmente in Cina, dove è vietato avere più di un figlio a coppia). E mentre la transizione da cinque a due figli a coppia ha impiegato 130 anni, dal 1800 al 1930, a manifestarsi in Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale, in Corea del Sud sono bastati vent´anni, dal 1965 al 1985. Se in Europa e negli Stati Uniti la media è di due figli (o meno) a famiglia, oggi le donne del Terzo Mondo possono aspettarsi di averne tre: le loro madri ne avevano sei. In alcuni paesi la caduta del tasso di natalità è ancora più repentina: l´Iran è passato da sette figli a coppia nel 1984 a 1,9 nel 2006, e ad appena 1,5 a Teheran. Il cambiamento che qualche mese fa si coglieva nelle manifestazioni di protesta nelle strade della capitale iraniana si intravede anche nelle culle.
Il motivo è lo stesso che ha fatto calare il tasso demografico nell´Occidente industrializzato, scrive l´Economist: «Quando la gente diventa più ricca, le famiglie diventano più piccole; e man mano che le famiglie diventano più piccole, la gente diventa più ricca». L´agricoltura della mera sussistenza, che era fino a un decennio fa la principale fonte di guadagno della popolazione del Terzo Mondo, e dunque della maggior parte della popolazione mondiale, aveva bisogno di famiglie numerose per tirare avanti: quei sei figli a coppia servivano per aiutare i genitori nei campi. Ma per le nuovi classi medie della Cina, dell´India, del Brasile, un figlio può essere una gioia, un problema, un caso fortuito, comunque non un´assicurazione sulla vita, non un aiuto per sopravvivere. Gli analisti di macroeconomia hanno individuato il momento in cui la situazione cambia: la natalità comincia a scendere, dicono, quando il reddito annuale pro-capite sale da poche decine o centinaia di dollari fino a 1.000-2.000 a persona; e scende fino al «tasso di sostituzione», due figli per famiglia, quando il reddito sale a 4-10 mila dollari l´anno pro-capite.
È dunque il più diffuso benessere introdotto dalla globalizzazione la ragione per cui dai soli 24 paesi che avevano un tasso di natalità del 2,1 per cento nel 1970 si è passati in quattro decenni a oltre 70, distribuiti in ogni continente, anche in Africa.
Il minor numero di figli per coppia fotografa il passaggio dalla povertà alla classe media, da una società agricola a una moderna e complessa. Tanti fattori accompagnano questa transizione: un maggior grado di istruzione media; un maggior uso di contraccettivi (uno studio calcola che negli anni ‘90 un quarto delle nascite nei paesi in via di sviluppo fossero gravidanze indesiderate); e per l´appunto maggiore benessere. «Ecco come il problema della sovrappopolazione mondiale si risolve da solo», titola l´Economist, ma con un ammonimento: il calo delle nascite non basterà, di per sé, a curare il pianeta da altri problemi, come il cambiamento climatico e la necessità di risorse sostenibili. Occorre che i paesi poveri, sulla strada del benessere e del «tasso di sostituzione», non imitino nella loro crescita economica i paesi ricchi dell´Occidente. Oggi i più poveri africani producono 0,1 tonnellata di CO2 a testa all´anno, in confronto alle 20 tonnellate a testa di ogni americano: se copiano il consumo e l´inquinamento del mondo industrializzato, le conseguenze per il pianeta saranno disastrose. Se è vero che il mondo sta salvando se stesso con una rallentata crescita demografica, bisogna perciò che gli esseri umani gli diano una mano, con accordi di governo e tecnologie, per rallentare anche effetto serra e spreco di risorse. Come che sia, siamo cresciuti e ci siamo moltiplicati abbastanza: ora è venuta l´ora di fermarci.

Repubblica 31.10.09
La denatalità nel nostro Paese è contagiosa. I nuovi arrivi non basteranno a contrastare il declino demografico
L´immigrazione non salverà l´Italia
di Massimo Livi Bacci

Può l´immigrazione raddrizzare il bilancio riproduttivo del nostro paese, che da un quarto di secolo è inchiodato su esangui livelli? Le statistiche ci dicono che il figlio di genitori "stranieri" era davvero una rarità fino all´inizio degli anni ‘90 (uno ogni cento nati); la frequenza è poi rapidamente aumentata e nel 2008 un nato ogni otto era figlio di stranieri. Tra meno di dieci anni la proporzione sarà di uno su cinque.
Ma anche col contributo degli stranieri la natalità italiana rimane insufficiente a evitare un forte declino e un costoso stravolgimento della struttura per età. È facile comprenderlo confrontando i 577.00 nati in Italia nel 2008 con i 750.000 della Gran Bretagna e gli 800.000 della Francia, paesi che hanno una popolazione di dimensioni all´incirca uguale alla nostra, ma che vantano conti demografici "in ordine". Da un punto di vista strettamente contabile - perciò - il contributo degli stranieri alla natalità italiana è cospicuo in sé, ma modesto in termini relativi, e difficilmente potrà rimettere in sesto il bilancio riproduttivo. L´eventuale ripresa dipenderà soprattutto da nuovi comportamenti dell´intera comunità nazionale.
È possibile che le comunità straniere crescano a dismisura non solo perché alimentate da nuovi arrivi, ma soprattutto perché fanno tanti figli? E che sommergano "noi" autoctoni per la loro alta natalità? Prima di rispondere, una considerazione è d´obbligo. Nei paesi a forte immigrazione molti nati sono figli di genitori non più "stranieri" perché hanno acquisito la nazionalità del paese di arrivo, o sono figli di terza o quarta generazione di immigrati naturalizzati. Questi paesi convertono un´alta proporzione di immigrati in cittadini. La loro progenie si diluisce in quella autoctona, diventa essa stessa autoctona e le comunità immigrate, alla lunga, tendono a dissolversi. Non così in Italia: nonostante un recente aumento, la proporzione degli stranieri che acquisisce la cittadinanza è molto bassa, una piccola frazione di quanto avviene altrove. I nati degli immigrati rimangono stranieri, e così rischiano di rimanerlo i loro figli, perpetuando la barriera giuridica che li separa dagli italiani.
Per quanto riguarda i comportamenti riproduttivi, è vero che le donne straniere hanno mediamente più figli delle italiane: ma non di molto. Metà delle straniere proviene da paesi europei che hanno una natalità uguale o minore di quella italiana; l´altra metà è originaria di paesi nei quali la natalità è in rapido declino. Inoltre nelle seconde generazioni il divario con gli autoctoni tende ad annullarsi. Il modello della famiglia numerosa è - del resto - svantaggiosissimo nelle società urbane e postindustriali d´immigrazione, e l´alta abortività delle straniere testimonia della dolorosa volontà di adattamento ai nuovi contesti di vita. Per questa ragione (al netto dei nuovi arrivi) le comunità di origine straniera tenderanno a stabilizzarsi su ritmi di crescita non troppo diversi da quelli della popolazione di origine italiana.


l’Unità 31.10.09
Italia libera indivisa e laica
La laicità trascende qualsiasi manifesto dei valori a sfondo religioso Un libro per capire perché
di Stefano Rodotà

Il brano che qui anticipiamo è tratto da un saggio di Rodotà: «Una laicità costituzionale». Fa parte dell’antologia a cura di Emilio D’Orazio: «La laicità vista dai laici». Con contributi di Zagrebelski, Rusconi, Antonella Besussi ed altri. Al centro l’essere laici nei molteplici ambiti della vita e dei saperi.
Mai come in questi tempi la laicità è stata al centro della discussione pubblica, ha determinato conflitti politici, ha diviso le coscienze. Una situazione così tesa induce più d’uno a sottolineare la necessità di lavorare perché si possa giungere ad un’etica condivisa tra laici e cattolici. Proposito encomiabile, che è giusto condividere, a condizione però che siano chiare le premesse di questo lavoro comune. E queste si trovano nel testo per definizione comune per tutti, dunque nella Costituzione.
«Il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica». Così, nel 1989, scriveva la Corte costituzionale, mettendo in evidenza come la laicità sia ormai un elemento costitutivo dello stesso sistema democratico. Questo vuol dire che la vita democratica vive di rispetto reciproco, di confronto libero delle opinioni, di spirito critico e non di imposizioni autoritarie. Certo, la storia e molte aspre cronache di questi mesi sembrano allontanarci da questa idea di laicità costitutiva del comune tessuto democratico, dando spazio quasi esclusivo all’antica laicità oppositiva, ad una contrapposizione radicale tra laici e cattolici.
SENZA PORTATORI DI VERITÀ
Da questa situazione si può uscire se, nel confronto pubblico, nessuno si pretende portatore di verità, di valori «non negoziabili», che gli altri debbono accettare; se la legittima presenza della Chiesa nella sfera pubblica avviene in condizione di parità con tutti gli altri soggetti politici; se si abbandona l’ingannevole semplificazione che descrive la laicità come prigioniera di riferimenti deboli, incapaci di esprimere principi comuni. Che altro sono la dignità e l’eguaglianza, la solidarietà e le molteplici libertà alle quali proprio la Costituzione dà sostanza? E, se vogliamo usare ancora lo schema laici/cattolici, guardiamo alla grande ricchezza del mondo cattolico, le cui posizioni spesso divergono da quelle delle gerarchie vaticane, e anche alle debolezze di un mondo laico troppe volte incapace di comprendere che la difesa di alcune posizioni coincide con le ragioni stesse della democrazia.
Su questo sfondo si delineano le questioni oggi particolarmente impegnative, a partire da quelle relative ai temi «eticamente sensibili», che sono poi quelli che inducono le gerarchie vaticane ad affermare che siamo di fronte a valori non negoziabili, sì che lo stesso Parlamento dovrebbe assumerli come riferimento obbligato. Ma proprio in questa pretesa si coglie una contraddizione palese con i principi della democrazia, una rottura sul terreno della laicità costituzionale. Su questioni specifiche, o sugli stessi fondamenti dell’ordine giuridico, si pronunciano sempre più spesso soggetti diversi, che propongono i loro «manifesti dei valori», confezionati per l’occasione o tratti da dottrine o esperienze, da quelle religiose in primo luogo. Operazioni in sé legittime, non solo perché manifestazione della libertà di opinione, ma per il contributo che da esse può venire alla fecondità della discussione democratica. Inammissibili, invece, sono le pretese e i tentativi di far divenire quei manifesti, quei valori non negoziabili, vere e proprie «costituzioni parallele», volte appunto a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana, quella dei principi, delle libertà e dei diritti. Fino a quando quei manifesti e quei valori affermati non negoziabili non si saranno sottoposti alla stessa procedura di legittimazione che ha fondato la Costituzione, ad essi non può essere attribuito alcun valore vincolante. È inammissibile la pretesa di realizzare nei fatti una vera e propria «revisione costituzionale».
Lo spazio democraticamente legittimo è quello che risulta dall’insieme dei principi costituzionali, che non può essere sostituito da altri principi e altre assiologie attraverso forme improprie, appunto, di «revisione» costituzionale, come accade quando, ad esempio, agli articoli della Costituzione vengono contrapposti, quasi portatori di una superiore legalità, passi di encicliche papali o di altri documenti vaticani.
Dovrebbe essere del tutto evidente, infatti, che nello Stato costituzionale di diritto gli unici principi «non negoziabili» sono quelli contenuti appunto nella Costituzione. Ogni altro punto di vista, opinione, credenza entra nello spazio pubblico senza poter godere di alcuna supremazia o privilegio. Deve sottoporsi in condizione di parità alla regola del confronto, del rispetto delle opinioni diverse, della libertà di critica. Diviene così del tutto evidente la coincidenza degli elementi costitutivi della laicità con le ragioni della democrazia. Per questo è giusto parlare di una laicità costituzionale... ●

l’Unità 31.10.09
Intervista a Riad Al-Malki
«A Hillary diremo che Israele uccide la speranza della pace»
Il ministro degli Esteri dell’Anp: non c’è un solo atto di Netanyahu che vada nella direzione indicata da Obama. Occorre cambiare rotta
di Umberto De Giovannangeli

Non c’è un atto che sia uno compiuto dal primo ministro israeliano che vada nella direzione auspicata dal presidente Obama. Netanyahu usa le parole per nascondere la realtà dei fatti. Ma la realtà è quella che conta: Netanyahu sta uccidendo ogni speranza di pace». A parlare è Riad Al-Malki, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese. Alla vigilia della missione in Israele e nei Territori di Hillary Clinton, Al-Malki anticipa a l’Unità ciò che la dirigenza palestinese dirà alla segretaria di Stato Usa: «Insisteremo – afferma il ministro degli Esteri dell’Anp – sull’importanza del fattore tempo. Le prossime due-tre settimane saranno decisive». «Il blocco del negoziato e la politica di chiusura praticata dal governo israeliano – aggiunge Al-Malki – indeboliscono la leadership palestinese e finiscono per favorire le spinte estremiste. Anche di questo parleremo con la signora Clinton».
Signor ministro, la segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, sta per giungere in Israele e nei Territori con l’obiettivo di ridare slancio al negoziato di pace. E’ una missione impossibile?
«Impossibile forse no, ma certo è molto, molto difficile. E la ragione fondamentale va ricercata nel comportamento del governo israeliano...».
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu ha ribadito a più riprese la sua disponibilità a riprendere le trattative...
«Netanyahu usa le parole per cercare di mascherare la realtà. E la realtà dei fatti sta a dimostrare che la campagna di colonizzazione e la terribile crisi umanitaria nei territori palestinesi proseguono. È quanto ribadiremo alla signora Clinton: non c’è un atto concreto compiuto dal governo israeliano che vada nella direzione indicata dal presidente Obama, quella di una pace giusta, tra pari, fondata sul principio di due popoli, due Stati». Che impatto lo stallo dei negoziati sugli orientamenti politici dei palestinesi?
«La delusione è forte e ciò non rafforza la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr). L’intransigenza d’Israele mette in grave difficoltà non solo la dirigenza palestinese ma tutti i leader arabi impegnati nel rilancio del processo di pace». Signor ministro, il presidente Abu Mazen parla di un accordo globale. Le chiedo: su quali basi questo accordo dovrebbe fondarsi?
«Le basi sono quelle della legalità internazionale e del principio di reciprocità. La legalità è quella sancita da tre risoluzioni Onu e sviluppata nella Road Map. Si tratta poi di calare il principio della “pace in cambio dei Territori” nella realtà di oggi...».
Le accuse
«La colonizzazione continua, nei Territori c’è crisi umanitaria»
Il che vuol dire?
«Vuol dire che da parte nostra c’è disponibilità a negoziare una modifica, comunque limitata, dei confini del ’67. E questo sulla base della reciprocità nella definizione delle frontiere tra i due Stati: a terre inglobate da Israele devono corrispondere terre che diventano parte dello Stato di Palestina. Uno Stato indipendente, pienamente sovrano su tutto il suo territorio nazionale, da Gaza alla Cisgiordania, senza insediamenti al proprio interno, con Gerusalemme est come sua capitale».
Netanyahu ritiene Gerusalemme capitale eterna e indivisibile dello Stato ebraico. «Su questo occorre la massima chiarezza: nessun dirigente palestinese, neanche il più aperto e disposto al compromesso, potrà mai sottoscrivere una pace che escluda Gerusalemme. Gerusalemme può essere ciò che è Roma: capitale di due Stati».
Signor ministro, a giorni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite discuterà il Rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Qual è in merito la posizione dell’Anp?
«Accogliamo di buon grado le indicazioni e le richieste che emergono dal Rapporto Goldstone. Stiamo prendendo molto sul serio le accuse in esso contenute. Insistiamo sul rispetto del ruolo della legge ed affermiamo il nostro impegno nel condurre inchieste attraverso procedure legali al fine di trattare quest’importante argomento. Al tempo stesso, però, respingiamo ogni equipa- razione tra l’aggressione e i crimi- ni compiuti dall’esercito israelia- no e le azioni di risposta condotte dalla parte palestinese».
Il presidente Obama ha più volte ri- petuto in questo suo primo anno al- la Casa Bianca di essere impegnato in prima persona nella pace fra israe- liani e palestinesi.
«Abbiamo apprezzato le parole e gli sforzi del presidente Obama. Ma questi sforzi continuano a coz- zare contro l’intransigenza d’Israe- le. Il presidente Obama parla di “Muri” da abbattere: inizi da quel- lo israeliano». ❖
(ha collaborato Osama Hamdan)



Corriere della Sera 31.10.09
Lo scenario Prende corpo l’ipotesi per le Regionali. Ma la radicale Bernardini: scelte come ospiti di un programma tv 
Bonino-Polverini Due donne per il Lazio 
Il sì di «Secolo» e «Unità». L’incognita cattolica
di Monica Guerzoni 




ROMA — E se fossero due donne a correre per la presiden­za del Lazio? Sarebbe una «rivo­luzione rosa», una sfida trasver­sale e «senza veleni, senza coltel­lo tra i denti». Così il quotidiano della destra finiana Secolo d’Ita­lia , che ieri ha dedicato una pagi­na a un possibile duello tra Boni­no e Polverini, la segretaria del­­l’Ugl: «Tutti tifano Emma e Rena­ta ». Il periodico online della Fon­dazione Farefuturo (Ffwebmaga­zine) sponsorizza la sfida in rosa e, da sinistra, L’Unità si unisce al coro: «Lazio, parte il tam—tam per la Bonino. Piace ai laici del Pd».

L’ex ministro Giulio Santaga­ta è uno di questi. Per lui «Em­ma è fantastica, è stata un otti­mo ministro, è una persona mol­to leale e ha un’ottima visione delle cose». É vero, Emma Boni­no piace a tutti. A sinistra, a de­stra, ma un po’ meno al centro. Piemontese, nata a Bra il 9 mar­zo del ’48, è stata deputata a Stra­sburgo, Commissario europeo e ministro nel Prodi II. In queste ore si tiene lontana dai microfo­n i, lavora alle liste Bonino—Pannella per le regiona­li, però non smentisce quel «mai dire mai» lasciato cadere a pro­posito del dopo—Marrazzo.

L’idea di spendere il nome del­la leader Radicale sarebbe nata nella testa di Goffredo Bettini, come alternativa nel caso in cui Ignazio Marino dovesse sfilarsi. Nell’attesa di sciogliere la riser­va, l’ex sfidante di Bersani e Fran­ceschini non lesina complimen­ti alla Bonino, ne ricorda «il ca­rattere rigoroso e la grande com­petenza nelle materie economi­che » e si dice pronto a sostener­la. Però Marino avverte: «Anche una grande personalità come Emma Bonino deve passare per le primarie».

Il nodo è tutto qui. Perché, se è vero che non sarà facile unire le opposizioni sul nome della vi­cepresidente del Senato, è vero anche che, se si facessero le pri­marie, la Bonino avrebbe tutto l’interesse a tentare la corsa: qua­le miglior vetrina per trainare la lista alle Regionali? E le primarie potrebbero farsi davvero, visto il cratere in cui lo scandalo Marraz­zo ha precipitato il Pd. «È la stra­da maestra — ribadisce Bettini —. Sarebbe gravissimo se qual­cuno le mettesse in discussione in un momento così delicato». Per Bettini sia Marino, sia la Bo­nino che Mondello «sono candi­dature eccellenti», ma sta a loro «decidere liberamente» se con­correre o no. Emma ci sta pensando. Però è pronta a tirarsi indietro qualora non dovessero verificarsi le con­dizioni. Non a caso la radicale Ri­ta Bernardini osserva che da noi la politica funziona come in tv: «Quando mi invitano ci trovo sempre Mussolini e Santanchè, tanto per fare due nomi. E in po­litica è lo stesso, se c’è una don­na in corsa ecco che le mettono contro un’altra donna». Non pensa che, dopo la bufera dei trans, potrebbe servire a rassere­nare il clima? «Polverini e Boni­no sono due persone eccellenti — risponde la Bernardini — Ma questo modo di intendere la poli­tica non mi piace».

Ma ben prima del via, la corsa di Emma contro Renata ha già in­contrato il primo ostacolo. I cat­tolici del Pd sono pronti a stop­parne la corsa. «È una personali­tà importante — riconosce Pier­luigi Castagnetti —. Ma la sua candidatura sarebbe inutilmente polemica nei confronti del mon­do cattolico». Francesco Saverio Garofani, vicino a Dario France­schini, invita a cercare «un nome che non escluda l’Udc». Beppe Fioroni prende tempo: «Prima bi­sogna eleggere il segretario regio­nale, poi c’è da fare la coalizio­ne... ». E un ostacolo potrebbe in­contrarlo anche la Polverini, la cui candidatura sembra a prova di bomba. Da Capri ieri Luisa To­dini è tornata in corsa: «Se rinun­cio? No, non sono io che deci­do ». E la segretaria dell’Ugl? «È una candidata perfetta».

venerdì 30 ottobre 2009

Repubblica 30.10.09
"Ovuli e sperma dalle staminali presto bimbi senza uomo e donna"
La Stanford University: svolta nella lotta all´infertilità
Ricerca su Nature: possibile riprodurre le cellule germinali dalla pelle dei donatori
di Enrico Franceschini

LONDRA - Prima ci è stato detto che, per fare figli, non c´è più bisogno dell´uomo. Ora sembra che non serva più nemmeno la donna. Scienziati americani sono riusciti per la prima volta a creare in laboratorio degli spermatozoi e degli ovuli, entrambi ricavati da cellule staminali. Entro cinque anni, gli studiosi prevedono che sperma e ovociti così prodotti saranno in grado di creare embrioni umani. La notizia, pubblicata sulla autorevole rivista scientifica britannica "Nature", ha fatto immediatamente il giro del mondo, accolta con favore e giudicata una svolta importante dalla comunità scientifica, ricevuta con allarme e timori da parte di associazioni religiose. Non è la prospettiva di un bebè artificiale, ammoniscono gli specialisti della materia, sottolineando che di artificiale, in quegli embrioni e in quegli ovuli, non c´è nulla: provengono da cellule umane, dunque da donatori in carne ed ossa. E tuttavia l´idea che un bambino possa nascere dalla pelle di un donatore, dalla quale vengono fatti crescere sperma e ovuli, suona come una rivoluzione non solo scientifica, ma anche con profonde implicazioni etiche e sociali.
Per il momento, occorre precisare, gli scienziati della Stanford University autori della ricerca non hanno alcuna intenzione di "giocare a fare Dio" e concepire neonati sui vetrini di un laboratorio utilizzando cellule geneticamente modificate. L´obiettivo dichiarato della dottoressa Renee Rejio Pera, che ha guidato la ricerca, è semplicemente quello di capire come crescono spermatozoi ed ovociti, e quindi migliorare le tecniche per curare l´infertilità. «Tra il 10 e il 15 per cento delle copie non sono fertili», afferma la studiosa. «Circa metà di questi casi sono dovuti all´incapacità di creare ovuli o sperma. Individuare la ricetta genetica necessaria a sviluppare sperma e ovociti da cellule staminali ci darà gli strumenti per capire cosa c´è che non va». In un futuro ancora tutto da regolamentare dal punto di vista legale, e da sottoporre a una nuova concezione morale, naturalmente la scoperta della Stanford University apre il campo a una prospettiva allettante per chi non può avere figli naturalmente e nemmeno con la fecondazione artificiale: avere dei bambini che sono geneticamente propri, poiché provengono dalle proprie cellule, anche in mancanza di sperma o ovuli.
La dottoressa Rejio Pera e i suoi collaboratori dicono di essere giunti a questo stadio mettendo a punto un cocktail di sostanze chimiche e vitamine che riesce a interagire con le cellule staminali embrionali, per trasformarle in ovociti e spermatozoi. Gli spermatozoi così ottenuti hanno la testa e la coda più piccola di quelli normali, ma sembrano comunque in grado, secondo gli scienziati, di poter fertilizzare un ovulo. Gli ovociti appaiono in uno stadio non avanzato, ma sono comunque più sviluppati di quanto sia avvenuto finora in altre ricerche simili. Nel luglio scorso studiosi della Newcastle University annunciarono di avere creato sperma ragionevolmente maturo da cellule staminali embrionali, ma la loro affermazione non convinse altri esperti e la documentazione prodotta come prova è stata successivamente ritirata a causa di errori emersi nelle procedure. «Questa scoperta apre una nuova finestra in quello che fino a poco tempo fa era un campo sconosciuto dello sviluppo umano», commenta Susan Shurin, direttrice dell´Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development, l´istituto che ha finanziato il progetto della Stanford University.

Repubblica 30.10.09
Giuseppe Novelli, preside di Medicina a Tor Vergata
"Un passo decisivo ma la vera riproduzione resta un processo oscuro"
Un figlio senza genitori? Ancora non è possibile. Non carichiamo questa scoperta di significati eccessivi
di Elena Dusi

ROMA - «Lo scopo di questa ricerca è trovare una cura per l´infertilità. Nessuno vuol far nascere bambini senza padre o madre». Giuseppe Novelli, genetista e preside della facoltà di Medicina a Roma Tor Vergata, è un po´ preoccupato per il significato che all´esperimento di Stanford è stato attribuito.
Produrre ovuli e spermatozoi in laboratorio non apre le porte alla loro fecondazione?
«Da quelle cellule germinali non potrà mai nascere un bambino. Dopo che ovuli e spermatozoi sono stati prodotti nel nostro organismo, devono passare attraverso varie fasi di imprinting che sono essenziali per la loro fertilità. Questo processo è ancora piuttosto oscuro e non può essere riprodotto in laboratorio: si tratta di sopprimere selettivamente alcuni geni che non sono coerenti con il sesso di appartenenza. La natura ha impiegato 400 milioni di anni a rendere efficiente la riproduzione sessuale, evidentemente le cose non sono così semplici».
Perché allora ripercorrerne i passi in laboratorio?
«Lo studio di Stanford è uno studio di genetica. Molti casi di infertilità hanno origine nei geni, e noi ai pazienti sappiamo ancora spiegare molto poco. I ricercatori hanno deciso di riprodurre in laboratorio il processo di formazione di ovuli e spermatozoi per osservare passo dopo passo quali geni si attivano durante lo sviluppo. Solo così potremmo fare diagnosi precise ed eventualmente trovare delle cure».
E da questo punto di vista la ricerca ha avuto successo?
«È uno studio davvero importante. Ottenere cellule germinali in generale è complicato, perché bisogna ridurre il set di cromosomi da due a uno, passando da 46 a 23. Gli spermatozoi in particolare hanno una struttura complessa, difficile da riprodurre, mentre la forma raggiunta a Stanford è quasi perfetta. Ora sappiamo quali geni producono una morfologia ottimale».

Repubblica 30.10.09
Il progetto di Dio
Monsignor Sgreccia, della Pontificia accademia per la vita
"Moralmente inaccettabile è una deriva pericolosa per l´intero genere umano"
Non si può concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «È sempre moralmente inaccettabile affidarsi a tecniche riproduttive senza l´uomo e la donna uniti nel sacro vincolo del matrimonio. La Chiesa cattolica non potrà mai accettarlo». L´arcivescovo Elio Sgreccia boccia senza mezzi termini l´annuncio della rivista scientifica "Nature" sull´eventualità di produrre in laboratorio sperma ed ovuli senza l´intervento del maschio e della femmina. Presidente emerito della Pontificia accademia per la vita - stretto collaboratore di papa Ratzinger su morale e bioetica - , il presule teme, persino, che «si tratti di una prospettiva pericolosa per la stessa specie umana».
Monsignor Sgreccia perché tanta diffidenza?
«È solo un annuncio. Ci vuole tempo per vederne gli sviluppi ed, eventualmente, le applicazioni. Tuttavia, produrre - anche se in futuro - sperma ed ovuli destinati alla riproduzione senza l´uomo e la donna è moralmente da condannare, inaccettabile e pericoloso per il genere umano».
Ma gli autori di questi esperimenti dicono che così si curerà l´infertilità.
«Ribadisco che per la Chiesa è immorale ed inaccettabile concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio. Qualsiasi sistema che escluda tale prospettiva, come sono le tecniche annunciate da questi scienziati americani, sarà sempre condannato dalle autorità ecclesiali».
Nemmeno se si tratta di tecniche curative?
«Purtroppo è un crinale pericoloso. Abbiamo già visto quante discutibili tecniche sono state già varate per far fronte all´infertilità come uteri in prestito o scambi di ovuli. Ma con scopi ben diversi. Ora si parla di sperma ed ovuli ricavati in laboratorio con interventi su cellule germinali umane. È una strada pericolosa invisa agli stessi scienziati».

Corriere della Sera 30.10.09
Esperimento dell’università di Stafford: serviranno per la fecondazione in vitro
Le nascite senza genitori. La vita dalle staminali
Ovuli e seme maschile dalle cellule. «La sconfitta della sterilità»
di Adriana Bazzi

MILANO — È una promessa per la cura della sterilità: un grup­po di ricercatori americani è riu­scito a trasformare cellule stami­nali embrionali in ovuli e sperma­tozoi «primitivi» e spera, entro cinque anni, di fabbricare la ver­sione «matura» da utilizzare per la fecondazione in vitro. Per pro­creare, estremizzando, senza pa­dre o senza madre ma con cellule di embrione. Renee Reijo Pera e il suo gruppo hanno focalizzato l’attenzione sui geni scoprendo la «ricetta» genetica capace di tra­sformare le staminali in cellule specializzate nella riproduzione, e pubblicandola sulla rivista Na­ture .

«Dal 10 al 15 per cento delle coppie sono sterili — ha com­mentato Pera che lavora alla Stan­ford University in California — e metà dei casi è legata all’impossi­bilità di fabbricare ovuli e sper­matozoi efficienti. Spesso questo difetto è genetico».

Non è facile utilizzare gli ani­mali come modello per studiare il sistema riproduttivo umano perché quest’ultimo è unico ed è piuttosto sofisticato. Ecco per­ché studiare come funzionano i geni, che trasformano una stami­nale embrionale in una cellula ri­produttiva adulta (questo proces­so di trasformazione avviene nor­malmente nell’embrione umano durante la gravidanza) può servi­re non solo per produrre, in futu­ro, ovuli e spermatozoi in labora­torio, ma anche per capire le cau­se genetiche della sterilità.

I ricercatori americani hanno individuato una famiglia di geni chiamati Daz (e le proteine da lo­ro prodotte) e ne hanno studiati in particolare tre: il primo, il Dazl, è un gene che interviene nelle prime fasi e controlla la tra­sformazione da cellula staminale embrionale umana (che possie­de 46 cromosomi) in un precur­sore delle cellule riproduttive (anche queste con un patrimo­nio di 46 cromosomi). Gli altri due controllano, invece, il pas­saggio successivo che porta alla formazione di ovuli e spermato­zoi «primitivi» e contribuiscono alla meiosi, cioè alla riduzione del loro patrimonio genetico a so­li 23 cromosomi. Riduzione indi­spensabile, dal momento che ovuli e spermatozoi (ognuno con 23 cromosomi) ricostituisco­no, con la fertilizzazione, il patri­monio completo di 46 cromoso­mi che è presente in tutte le cellu­le umane.

Spegnendo e accendendo questi geni, i ricercatori sono, dunque, riusciti a ottenere pre­cursori di ovuli e spermatozoi (questi ultimi già in grado di «nuotare» in un liquido) e spe­rano di perfezionare la procedu­ra nei prossimi anni. Non solo. Queste ricerche fanno ipotizza­re anche altri tipi di cura: un’idea è quella di partire dalle cellule germinali immature di una persona, che non può avere figli, di «correggere» i geni in modo da ottenere ovuli e sper­matozoi «maturi» e di utilizzare questi ultimi per la fecondazio­ne in vitro, senza ricorrere a sta­minali embrionali estranee, ma­turate in laboratorio.

Una terza strada prevede la possibilità di prelevare cellule adulte, per esempio di un indivi­duo sterile, riprogrammarle per riportarle allo stadio di staminali e di manipolarne i geni in modo da costringerle a trasformarsi in cellule riproduttive che avranno così il patrimonio genetico del­l’individuo di partenza. Non è la prima volta che i ricercatori an­nunciano di aver ricavato cellule riproduttive da staminali, ma questa nuova strada sembra la più promettente.

Corriere della Sera 30.10.09
Prospettiva che seduce
di Edoardo Boncinelli

Lo si sapeva fare nei topi di laboratorio e ora si è passati alla nostra specie. Con le cellule staminali si possono fare anche i gameti, cioè la cellula-uovo femminile o lo spermatozoo maschile. Dal punto di vista conoscitivo è una grande notizia che può portare a due diversi sviluppi entrambi collegati alla sterilità o alla ridotta fertilità. Questa ricerca può servire a comprendere sempre meglio i meccanismi che portano alla produzione di gameti maturi e preludere quindi a sempre nuove cure, farmacologiche o direttamente cellulari. Nello stesso tempo si può pensare di arrivare a produrre direttamente gameti dalle cellule di un individuo che proprio «non ne vuole sapere» di produrre gameti vitali. Quale delle due prospettive sia più realistica è difficile dire, ma con il tempo è ragionevole pensare che si realizzeranno entrambe. Certo, la seconda è più seducente: produrre gameti, per esempio spermatozoi, dalle cellule di una determinata persona. È qualcosa di più di una fecondazione medicalmente assistita, perché per uno dei due partner — o per entrambi — non si usano gameti prodotti per via normale. È il massimo sforzo possibile contro la sterilità. Una persona che non riesce assolutamente a produrre gameti, per esempio spermatozoi, può divenire ugualmente padre per questa via e il suo patrimonio genetico passerà così comunque al figlio o ai figli. L’unico passaggio che, per ora, non si può saltare è quello dell’utilizzazione di un utero femminile per far crescere l’embrione e il feto. Una «mamma» che mette il suo utero deve comunque sempre esserci. La scienza mette a disposizione della società sempre nuove opportunità. A noi spetta farne un buon uso, informandosi accuratamente e decidendo con oculatezza.

Corriere della Sera 30.10.09
Il Bacco degli Uffizi

Caravaggio, autoritratto nella brocca
Mina Gregori: «Dipinse se stesso. Meglio una scoperta che mostre inutili»
di Pierluigi Panza

Intorno al 1596-97 Caravaggio si dipinse in maniera microscopica dentro la brocca del suo Bacco, quasi presagio al naufragio nel vino e nei bagordi che di lì a poco avrebbe caratterizzato la sua stessa vita.

Le iniziative che si vanno predisponendo per il IV centenario della morte del Merisi (18 luglio 1610) incominciano con questa scoperta conse­guita, come ormai sta diventando abitudine ne­gli studi d’arte, attraverso analisi scientifiche. Una riflettografia multispettrale condotta da Art-Test sulla piccola tela (95 x 85 cm) del Bacco conservato agli Uffizi ha rivelato ciò che da seco­li si sospettava, ovvero che anche il Merisi si fos­se ritratto specchiandosi direttamente nel qua­dro mentre dipingeva. La novità, documentata in Nuove Scoperte sul Caravaggio , edita dalla Fondazione Roberto Longhi, sarà presentata og­gi dal Comitato nazionale per le celebrazioni del IV Centenario alle 15.30 presso l’Aula Magna di Studio Art Centers International (via Sant’Anto­nino 11, Firenze) da Mina Gregori e Roberta La­pucci. «Nella caraffa alla destra di Bacco - affer­ma la Gregori, una delle maggiori studiose del pittore - Caravaggio dipinse la sagoma di un per­sonaggio in posizione eretta, con un braccio sporgente in avanti verso un cavalletto da pitto­re con sopra una tela. Di questa sagoma sono distinguibili i lineamenti del volto, in particola­re naso e occhi. Per me è il suo autoritratto men­tre stava dipingendo. Anche il Merisi, in­fatti, dipingeva utilizzano gli specchi nei quali si rifletteva, come racconta Baglio­ne, un suo biografo ». Scrive infatti Gio­vanni Baglione in Le Vite de’ Pittori, Scultori, Architetti, ed Intagliatori del 1642 che il Merisi «fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve di­verse ».

Anna Pelagotti, che ha condotto la ri­flettografia multispettrale a infrarossi, spiega perché si arriva solo oggi alla sco­perta del particolare: «Perché sopra al particolare sono stesi una vernice colorata e ma­teriale depositato nei secoli; per cui senza gli in­frarossi la sagoma non è visibile. Di certo Cara­vaggio la dipinse, e sembra proprio di vedere un giovanissimo Merisi, che crea con il pennello in mano». La lettura a infrarossi è un’operazione della durata di un’oretta e dal costo massimo di circa mille euro.

«Meglio una scoperta come questa che predi­sporre per l’anniversario esposizioni inutili, con vecchi quadri, senza tenere conto di tutto il di­battito avvenuto sul pittore dalla mostra di Lon­ghi del 1951 a Milano ad oggi», afferma la Grego­ri. «Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le interpretazioni sul pittore: giudico sbagliate le proposte, che ho sentito ventilare, di fare per l’anniversario solo esposizioni con quadri del Merisi e non dei caravaggeschi. Bisogna discute­re ancora molto delle sue attribuzioni! Prendia­mo il 'Narciso'; nell’85 io stessa ho sostenuto che fosse autentico; oggi siamo propensi a rite­nerlo di altro autore, forse dello Spadarino».

Il Comitato è presieduto da Maurizio Calvesi ed è stato proprio lui, in una riunione prelimina­re, ricorda la Gregori, «a suggerire di finanziare analisi di laboratorio. Io ero scettica, ma mi so­no convinta». Di certo gli studi di storia dell’arte si stanno spostando sempre più da un piano di lettura anche narrativa dell’opera (come era pro­prio pure del Longhi) a uno di indagine scientifi­co- oggettivistica, che di certo aumenta i dati di conoscenza, ma che non accompagna a una vici­nanza emotiva ed empatica con l’opera.

Che il volto del Merisi fosse nascosto da qual­che parte nel dipinto di Bacco si sospettava. Ma nessuno l’aveva documentato. A seguito della pulitura di questa tela, nel 1922, Matteo Maran­goni disse infatti di aver scorso, riflessa nella brocca una testi­na simile al «Fruttaio­lo » o al «Bacco» Bor­ghese, che volle ricolle­gare alla fisionomia dello stesso Caravag­gio: «Grandi orbite oculari, naso a base lar­ga e un po’ camusa, labbra carnose e semi aper­te ». Da allora solo oggi, ma agli infrarossi, si rie­sce ad intravedere un casco di capelli neri, un accenno di volto, un tocco di bianco per il collet­to. Altre interpretazioni, pure autorevoli, riten­gono che sia invece il volto del Bacco l’autoritrat­to del pittore, anche se ignoravano l’esistenza di una figura dentro la brocca.

Il «Bacco» fu commissionato al Merisi dal car­dinal Del Monte per regalarlo a Ferdinando I de’ Medici in occasione della celebrazione delle noz­ze del figlio Cosimo II. Nella tela il vino è stato versato da poco e Bacco tiene in realtà in mano il calice con poca sicurezza. Maurizio Calvesi ha interpretato questo quadro come opera di gene­re allegorico-mitologico: l’androginia del sogget­to è da intendersi come unione dei contrari. Per altri l’opera allegorizza il sangue di Cristo offer­to per la salvezza dell’uomo.

giovedì 29 ottobre 2009

l’Unità 29.10.09
Il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge presentato dal ministro dell’Istruzione
Meritocrazia e controllo dei bilanci. Soltanto a tempo i ricercatori. Membri esterni nei cda
Le mani dei manager sugli atenei Ecco la riforma targata Gelmini
Via libera del consiglio dei ministri al ddl Gelmini sull'università: la figura del ricercatore diventa a tempo determinato, cambiano le modalità di elezione dei rettori. Studenti e docenti sul piede di guerra.
di Maristella Iervasi

Ricercatori solo a tempo, nel limbo l’attuale precariato. Senato accademico svuotato di poteri effettivi e studenti “infilati” ovunque, ma solo come operazione di facciata. Test di accesso persino per le borse di studio per il merito, un fondo a cura dell’Economia e non dal Miur.
Riscrittura degli Statuti, pena il commissariamento e ore dei prof certificate e verificate. Ecco la riforma della Gelmini. Meno democrazia e più potere al Cda con l’ingresso delle aziende private e ai rettori. E la protesta dell’Onda è già dietro l’angolo. Un disegno di legge di riforma in 15 articoli che dopo il via libera del Consiglio dei ministri comincerà il suo iter al Senato, affinché il ddl Aprea sull’istruzione in fondazione possa avere una corsia privilegiata.
NUOVI STATUTI O COMMISSARIAMENTO
Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge le università statali dovranno modificare i propri statuti, rispettanto vincoli e criteri: ridurre le
facoltà, massimo 12 negli Atenei più grandi e i dipartimenti. Le università vicine possono federarsi. E ancora: personale esterno nei nuclei di valutazione, snellire i componenti del Senato accademico e dei Cda. Se la governance non verrà rivista, 3 mesi di deroga, poi il commissariamento.
CDA CON DENTRO I PRIVATI
Sarà aperto al territorio, enti locali e mondo produttivo il consiglio di amministrazione. Attribuzione al Consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, competenze sull’attivazione o soppressione di corsi e sedi. Il Cda sarà composto di 11 componenti, incluso il rettore e una rappresentenza elettiva degli
studenti. Il mandato sarà di 4 anni, quello degli studenti solo biennale. Scompare la figura del direttore amministrativo e subentra quella del direttore generale con compiti di gestione e organizzazione dei serviti, Un vero manager. Il Cda non sarà elettivo, ma fortemente responsabilizzato e competente, con il 40% di membri esterni. Il presidente del cda potrà essere esterno. Il direttore generale avrà compiti di grande responsabilità e dovrà rispondere delle sue scelte, come un vero e proprio manager dell’ateneo.
FONDO PER IL MERITO
Istituito presso il ministero dell’Economia (e non dell’Istruzione) il fondo per «sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti». La gestione è affidata a Consap Spa. Erogherà borse e buoni ma non a pioggia: per accedere bisognerà partecipare a test nazionali.
RECLUTAMENTO PROF.
Per i docenti arriva l’abilitazione nazionale di durata quadriennale assegnata sulla base delle pubblicazioni da una commissione sorteggiata tra esperti nazionali e internazionali. Solo chi ha l’abilitazione può partecipare ai concorsi di Ateneo che avverranno sulla base di titoli e del curriculum con i bandi pubblicati anche sul sito della Ue e del Miur.
RICERCATORI SOLO A TEMPO
Niente più concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato. Solo contratti a termine di 3 anni rinnovabili con selezioni pubbliche. Dopo il 3 ̊ anno lo studioso può essere chiamato dall’Ateneo per un posto docente.
BILANCI TRASPARENTI
Verrà introdotta una contabilità economico-patrimoniale uniforme, secondo criteri nazionali concordati tra i ministeri dell’Istruzione e del Tesoro. Debiti e crediti saranno resi più chiari nel bilancio. È previsto il commissariamento per gli atenei in dissesto finanziario. ❖

l’Unità 29.10.09
Largo ai privati, decideranno su tutto
Problema affollamento

Le perplessità dei tecnici, i dubbi sul ruolo delle Fondazioni Il rischio di avere anche 600 docenti per facoltà. E su tutto anche le parti condivise, l’incubo dei soldi, che non ci sono

Il ricercatore del Cnr: «Se non altro si sono accolte le indicazioni sul codice etico»
Lo scenario. Si attendono i decreti Ma la nuova impostazione degli atenei è dirigista

Senza soldi non si canta la Messa, è il detto. E senza soldi la decantata riforma dell’Università varata ieri andrà da nessuna parte, introduce pesantemente nella gestione il ministero dell’Economia, senza che sia chiaramente definito il margine di competenze, rispetto a quelle del ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Il rischio vero è che si riduca l’autonomia universitaria, dal momento che sono aperte le porte all’ingresso di privati nei consigli di amministrazione. E nella foga propagandistica di ridurre i corsi universitari, si limita a dodici il numero di facoltà sia negli atenei delle grandi città che in quelli più periferici con meno iscritti.
Secondo Rino Falcone, ricercatore dell’Istituto Scienze e tecnologie cognitive del Cnr, membro del coordinamento dell’Osservatorio della Ricerca, già collaboratore del ministro Fabio Mussi, ci sono parecchi punti di criticità nella riforma Gelmini (o meglio, Gelmini-Tremonti, con relativi complimenti paternalistici del secondo ai «giovani ministri crescono»). Falcone osserva che sono state raccolte alcune indicazioni dell’ex ministro Mussi: il codice etico che eviti i passaggi di cattedre per via parentale e l’incompatibilità per conflitto d’interessi; il mandato temporaneo per i rettori (non più di due per un massimo di otto anni); la riduzione dei settori scientifico-disciplinari. E, nonostante Mariastel-la Gelmini inizialmente aveva detto di non volerla adottare, è stata varata l’Agenzia di valutazione (introdotta da Mussi con un decreto poi convertito in legge) per la valutazione delle università e degli enti di ricerca, la cui attuazione richiede tempi molto lunghi, e finanziamenti.
I punti critici: «la messa sotto tutela del ministero dell’Univerità e ricerca rispetto al ministero dell’Economia», osserva Falcone, «che dovrà autorizzare molti interventi», quindi si prevede un’influenza forte del Tesoro sulla vita degli atenei, al di là delle competenze di spesa. E basti pensare ai tagli sui precari attuati nella scuola da Gelmini per conto di Tremonti.
Atenei privatizzati. Un punto «preoccupante», secondo Falcone è «la possibilità che si offre ai privati di contribuire significativamente alle decisioni strategiche delle università con l’ingresso nei Cda di almeno il 40 per cento di esterni con competenze gestionali-amministrative». Il che si tradurrà in un «travaso di poteri» dal Senato accademico ai Cda. Università come aziende, quindi,tanto più con l’ampliata possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni private (prevista per legge l’anno scorso). La porta aperta ai privati dà il via ai tagli di fondi alle università, ed il rischio è «un deterioramento del tessuto di conoscenza del paese», intaccando un sistema che è ancora considerato forte sul piano internazionale, prova nei sia la fuga di cervelli.
Sulle fondazioni, lo storico di destra Franco Cardini scrisse su Il Secolo nel luglio 2008 che tale trasformazione sarebbe stata «il passaggio da una concezione culturale comunitaria a una patrimoniale e privatistica del sapere», da una università di tutti con i suoi limiti a una «costosa università per ricchi», salvando forse alcuni atenei privatizzandoli, ma mandando «a farsi benedire il diritto allo studio: o meglio, lo studio come diritto».
Facoltà superaffollate: La riduzione indifferenziata a 12 facoltà per tutte, sembra scriteriata: avverrà che «La Sapienza» di Roma avrà le stesse 12 facoltà dell'università di Urbino, arrivando, nel caso di Roma, a dei mostri con 600 docenti per facoltà. Dei mega organismi nei quali sarà impossibile prendere qualsiasi decisione collegiale.
Ricercatori: se l’introduzione della «tenure track» (tre anni di contratto e un rinnovo di tre anni previo seconda valutazione, e poi l’eventuale assunzione come professore associato) allinea l’Italia agli altri paesi, secondo Falcone un altro punto critico può venire dalla «duplicazione delle modalità di reclutamento». Ovvero, se parallelamente resta in vigore l’attuale sistema, il concorso sulla base dell’abilitazione nazionale, ci sarà una pericolosa duplicazione di sistemi. E permane il rischio dell’ingresso pilotato previo raccomandazioni e favoritismi.
Insomma, la riforma al momento è solo abbozzata, lo stesso testo completo non è reperibile, al di là della «copertina» illustrata nel Consiglio dei ministri, e bisogna vedere cosa succederà con i decreti attuativi. Ma, nell’insieme, ne risulta una «chiara riduzione dell’autonomia universitaria, e uno schema più dirigista» degli atenei stessi, conclude Falcone. ❖

l’Unità 29.10.09
L’università? Una faccenda privata
di Paolo Bertinetti

Il disegno di legge sull’Università presentato ieri in consiglio dei Ministri nasce dall’assenza di un serio confronto con il mondo universitario, tranne forse con qualche Rettore ben felice di dare il consenso a una legge che prevede maggiori poteri per i Rettori stessi. Una parte del disegno di legge riguarda gli organi di governo dell’Università: meno cariche elettive, più nomine dall’alto, più esterni a valutare e ad amministrare, meno “logica pubblica” e più intervento privato. Ma curiosamente le università private (in realtà tutte lautamente sovvenzionate dallo Stato) sono escluse dalla legge: potranno continuare a fare quel che loro pare. L’idea che sta dietro al disegno di legge, all’insegna di “più banche e meno democrazia”, è che l’Università come servizio pubblico venga smantellata. La parte restante sembra essere stata pensata da persone che non hanno la minima esperienza pratica di gestione dell’attività universitaria a livello decisionale. Si prevede, ad esempio, che i corsi di laurea facciano capo non più alle Facoltà ma ai Dipartimenti. I Dipartimenti esistenti, che nei settori umanistici spesso non rispondono a criteri e raggruppamenti scientifici affini, quasi mai hanno le caratteristiche e i mezzi organizzativi che consentirebbero loro di gestire la didattica. Infatti, uscite dalla porta, le Facoltà rientrano dalla finestra come organismo amministrativo. La legge, a questo punto, dà i numeri, prevedendo che le Facoltà siano 12 nelle Università con più di 3000 docenti (cioè Roma e Napoli) e 9 se i docenti sono meno di 3000. E perché non 10? E perché il tetto è 3000 e non 2000? E perché si contano i professori e non gli studenti? E soprattutto, perché non dovrebbero valutare la cosa le singole Università, in base alle caratteristiche della loro offerta didattica?
Il massimo della (apparente) incompetenza dei redattori della legge riguarda il reclutamento dei docenti. Si prevede un’abilitazione nazionale seguita dalla chiamata (per “concorsino”) da parte dell’Università locale. Il risultato sarà: o una mascherata promozione ope legis (tutti diventeranno professori) o la creazione di un esercito di illusi, professori di nome, ma che nessuna università chiamerà a prendere servizio. Con la scusa demagogica di bloccare i favoritismi dei baroni, i concorsi sono fermi da quasi quattro anni (mentre centinaia di docenti sono andati e continuano ad andare in pensione). La legge tuttavia pensa ai giovani: infatti potranno diventare titolari di un contratto (preferibilmente senza stipendio) o diventare ricercatori a tempo determinato. I migliori, cioè, andranno all’estero. In realtà l’unico criterio ispiratore della legge è quello stabilito un anno fa dal vero ministro dell’Università, Giulio Tremonti: riduzione della spesa. Non a caso, una delle espressioni più spesso ricorrenti nel testo è: “senza oneri aggiuntivi”. ❖

l’Unità 29.10.09
I protestanti tedeschi hanno un nuovo Papa. Ed è una donna
di Laura Lucchini

Margot Kässmann vescovo di Hannover, ha 51 anni, è divorziata, ha 4 figli
Il Sinodo l’ha eletta a larghissima maggioranza. È la prima «Papessa» evangelica

142 voti, 133 per lei
Nel suo ultimo libro si racconta: l’ex marito, la menopausa, il cancro...

«I figli sono grandi, il cane anziano». Così Margot Kässman ha accolto la nomina del Sinodo dei protestanti. È la prima donna dallo scisma di Martin Lutero a governare gli evangelici tedeschi.

È il momento delle donne, in Germania. Ieri, mentre Angela Merkel giurava il suo secondo mandato di fronte al Parlamento, un incarico che la riconferma come la donna più potente del mondo, le agenzie stavano battendo un’altra notizia: Margot Kässmann, 51 anni, vescovo di Hannover veniva eletta a capo della Chiesa Evangelica Tedesca. Per la prima volta nella storia del paese i valdesi saranno presieduti da una «papessa».
Margot Kässman, divorziata, quattro figli, un cancro alle spalle e un cane anziano che le fa compagnia, ha assicurato ieri alla stampa tedesca di aver dormito bene la notte di mercoledì e di essersi alzata alla mattina per fare jogging lungo il Danubio, come sempre. Con i capelli neri tagliati corti, lo sguardo vivace e una croce di perle al collo, ha assicurato, «se è quello che i Sinodali vogliono, lo farò. I figli sono grandi e il cane è anziano».
GOVERNERÀ 25 MILIONI DI FEDELI
Si è mostrata felice e ha festeggiato anche se si è subito resa conto
del peso dell’impegno di rappresentare una comunità di 25 milioni di fedeli. «La mia vita ora cambierà», ha osservato con lucidità.
I parlamentari della camera della chiesa evangelica tedesca l’hanno eletta con una maggioranza trionfale, 132 voti su 142. Sostituirà Wolfgang Huber, 67 anni, pronto per la pensione, e ha detto da subito che lavorerà per avvicinare alla fede protestante nuovi fedeli e per una chiesa che sia «contemporanea».
Kässmann, una figura popolare, che per la sua parlantina sciolta è assidua frequentatrice dei salotti televisivi, ha pubblicato due settimane fa un libro che dice molto sulla sua vita e che si occupa, in particolare, della «mezz’età» delle donne, di relazioni conflittuali con il partner, di figli che a un certo punto se ne vanno di casa, di carriere non sempre realizzanti e della menopausa. Ha raccontato anche le sofferenze personali: un tumore al seno e il dolore dell’asportazione.
«NON NASCONDE LE DEBOLEZZE»
Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano di centro sinistra Süddeutsche Zeitung, «Il Sinodo l’ha eletta perché per dieci anni ha svolto bene il suo lavoro come vescovo della chiesa (quella di Hannover, ndr) più grande del suo Land, e perché si comporta in modo sicuro in pubblico e sa dare interviste, ma anche perché è autentica e non ha mai cercato di nascondere le proprie debolezze».
Lontano dal Sinodo di Ulm, a Berlino, anche Angela Merkel ha festeggiato ieri un primato. Per la prima volta nella storia tedesca, un Cancelliere è stato rieletto alla testa di una coalizione differente dalla precedente. Dopo essere stata per quattro anni a capo della Grosse Koalition, Angela Merkel è stata rieletta dal Bundestag per guidare la nuova coalizione nero-gialla. Dei 612 deputati presenti (10 in meno del totale e, tra gli assenti, anche Oskar Lafontaine), sono andati al Cancelliere 323 voti favorevoli, rispetto a 285 contrari e 4 astenuti. In totale, sono venuti a mancare alla Merkel 5 voti tra gli appartenenti ai gruppi della Cdu e della Fdp.
Seguendo una tradizione consolidata da tempo, il primo appuntamento all'estero della Merkel sarà in serata all'Eliseo da Nicolas Sarkozy, mentre domani insieme al nuovo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, sarà invece a Bruxelles.
ARIA DI CAMBIAMENTO
Si tratta di due donne conservatrici che però incarnano, in questo momento, il modello tedesco del cambiamento. In un paese che ha dovuto guadagnarsi con la lotta la parità dei sessi ieri è stato un giorno di festa. Lontano (neanche tanto) dall’Italia, da Silvio Berlusconi e da Papa Ratzinger, c’è un altro mondo, con Angela Merkel e Margot Kässmann. ❖

Repubblica 29.10.09
Biotestamento il Pdl rifiuta le modifiche
di Giovanna Casadio

Biotestamento, il Pdl chiude è scontro con l´opposizione
Si torna al testo del Senato. Dissenso dei finiani
Roccella: "È un buon testo frutto di ampio dibattito, è non vuole essere un no a Fini"
Binetti allineata al Pd. "Non c´entra nulla Bersani, voterò sempre a favore della vita"

Biotestamento: nessuna modifica. Alla Camera si riparte dal testo del Senato. Il Pdl fa quadrato e il Pd insorge e accusa: «volete lo scontro». Persino la teodem Binetti ha votato contro l´imposizione della maggioranza sulla legge.

ROMA - Il centrodestra chiude al dialogo sul biotestamento: alla Camera, dopo tre mesi di audizioni e confronti, si riparte dal testo approvato in Senato, quello in cui si prevede la cosiddetta "norma Englaro", l´obbligatorietà cioè di alimentazione e idratazione artificiale nel fine vita. «Un atto di arroganza e di miopia» per il Pd. «Un fatto grave» anche per Fabio Granata, vicino a Gianfranco Fini. Era stato infatti proprio il presidente di Montecitorio a denunciare il rischio di «Stato etico» e a chiedere un nuovo inizio. Per i finiani è quasi una provocazione nel clima di tensione che si respira dentro la maggioranza di governo. E annunciano l´offensiva alla prima occasione utile, ovvero riproponendo «in aula sotto forma di emendamenti le proposte che avevamo formulato in commissione per garantire in forma estremamente equilibrata la possibilità di biotestamento. Si tratta di una battaglia di civiltà e di una rivendicazione di libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili».
Scontro ieri tra Pd e Pdl in commissione Affari sociali quando Domenico Di Virgilio, il relatore, ha annunciato la linea dura. «A sorpresa - spiega Livia Turco, ex ministro della Sanità nel governo Prodi - perché era stata annunciata nessuna chiusura: è stata allora una presa in giro del lavoro parlamentare di tre mesi. Così la destra ha deciso di riproporre lo scontro, mentre il Pd ha detto no in modo compatto». Paola Binetti, teodem e rutelliana, benché abbia più volte dichiarato che avrebbe detto sì al testo del Senato, questa volta si allinea. Per non dispiacere il neo segretario Bersani? «Non c´entra nulla Bersani, voterò sempre a favore della vita. Ma non mi aspettavo che Di Virgilio facesse questa stessa proposta ora. Tre mesi fa avrei votato sì, ma dopo tre mesi di esame no...». Ne approfitta il capogruppo Pdl in commissione, l´ex socialista craxiano Lucio Barani: «L´opposizione post-comunista ha votato contro e colpisce l´atteggiamento dei teodem e della Binetti, viene da pensare che il primo effetto della segreteria Bersani è la vittoria del socialismo di stampo sovietico che mortifica il dibattito in una moderna epurazione». Tra Barani e Turco si alzano i toni.
Il Pd accusa il governo di volere blindare il testo, per ingraziarsi il Vaticano. Il sottosegretario Eugenia Roccella dice che no, «nessuna proposta di legge all´esame del Parlamento è blindata, però questo è un buon testo». È un modo per sbattere la porta in faccia anche a Fini? «Non è un "no" a nessuno, però c´è stato molto dibattito durante la prima approvazione in Senato». «È un gioco sporco sulla pelle dei malati», taglia netto la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni. I dipietristi parlano di un «atto di arrogante chiusura». Il relatore Di Virgilio si difende: «Giusto riproporre il lavoro del Senato», ma lui stesso ammette modifiche. Tra quindici giorni la commissione si riunisce per discutere gli emendamenti: l´opposizione ne presenterà a pioggia e darà battaglia. «È una scelta sbagliata e ingiusta» per Ignazio Marino. Prima della commissione il Pd aveva riunito i suoi deputati, idem il Pdl.

Repubblica 29.10.09
La vita ostaggio della politica
di Stefano Rodotà

La vicenda parlamentare del testamento biologico ha conosciuto ieri una violenta accelerazione. Era imprevedibile? Non credo. Troppi segnali si erano accumulati negli ultimi tempi, troppe convenienze politiche si erano svelate perché si potesse prestar fede a qualche apertura, peraltro ambigua, venuta dalla maggioranza. La chiusura immotivata del confronto in Commissione, allora, assume un triplice significato. Smentisce la tesi secondo la quale la maggioranza è sempre disposta al dialogo, mentre l´opposizione è arroccata intorno a immotivate posizioni di rifiuto.
Rivela una prepotenza che si dà una veste giuridica incostituzionale. Conferma la subordinazione della politica del governo a quella vaticana: non è un caso che la decisione del Pdl sia venuta all´indomani dell´incontro tra Gianni Letta e Benedetto XVI.
1. Giochi di potere. Da tempo in Vaticano vi era una fila lunga, e mortificante, di politici che portavano le loro offerte, racchiuse soprattutto in quel contenitore allettante che si chiama appunto testamento biologico e che sprigiona veleni tali da inquinare non solo l´ambiente istituzionale, ma l´intera società. Un´offerta sacrificale, dove le vittime sono le persone alle quali si vuole negare il diritto di decidere liberamente sulla fine della loro vita. Tutto questo è all´interno di un gioco politico che, da una parte, vuole rinsaldare i rapporti tra governo e Vaticano e, dall´altra, rende evidente una concorrenza tra i partiti di maggioranza, dove la Lega si offre alla Chiesa come l´interlocutore più affidabile, il vero partito cristiano.
Dopo che Bossi aveva esibito i suoi incontri ai più alti livelli, con la Segreteria di Stato e con il presidente della Cei, Berlusconi ha fatto la sua mossa. Debole com´è, bisognoso di una rinnovata legittimazione vaticana, ha cercato di tornare al centro del gioco, accettando la richiesta vaticana di tenere fermo l´impianto proibizionista e autoritario della legge sul testamento biologico. Inammissibile ingerenza della Chiesa o, invece, crescente debolezza della politica italiana? La risposta è nei fatti, nella sempre più marcata accettazione delle posizioni della Chiesa in tutte le materie che riguardano le decisioni sulla vita: la procreazione, con le resistenze contro la legittima utilizzazione della pillola Ru486; le relazioni personali, con la perdurante ostilità al riconoscimento delle unioni di fatto; il morire, appunto con la pretesa di cancellare la possibilità di libere scelte delle persone. In queste materie delicatissime si è ormai realizzata una cogestione tra governo italiano e governo vaticano.
2. Obiezione di coscienza. Per sfuggire a questa stretta e recuperare un po´ di autonomia per i parlamentari, si era invocata la loro libertà di coscienza, di cui lo stesso presidente della Camera si era fatto garante. Anche questa mossa rischia ora di essere vanificata. E però bisogna sottolineare che si tratta comunque di una iniziativa inadeguata rispetto alla specifica situazione che abbiamo di fronte. Infatti, quando le decisioni parlamentari incidono direttamente sul diritto delle persone di governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista. Qui la libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi "eticamente sensibili", la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, mentre finisce con l´essere minima quella delle persone alle quali si rivolge la legge. Ci si deve chiedere, allora, se siano in sé legittimi interventi legislativi tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, il diritto di ciascuno di governare liberamente la propria vita.
3. Habeas corpus. Questa è l´antica formula con la quale il sovrano si impegna a "non mettere la mano" sul corpo dei cittadini. È l´impegno che il sovrano democratico, l´Assemblea costituente, rinnova quando, nell´articolo 32 della Costituzione dedicato al diritto fondamentale alla salute, conclude perentoriamente che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Il Parlamento non può ignorare tutto questo, deputati e senatori debbono ricordare che, scrivendo quelle parole, l´Assemblea costituente era ben consapevole di porre un limite invalicabile al loro potere, di individuare un´area non solo sottratta all´arbitrio delle maggioranze parlamentari, ma indecidibile dal legislatore, dunque un luogo dove neppure la legge può penetrare. Questa logica costituzionale è sovvertita dal testo in discussione alla Camera. Il diritto fondamentale all´autodeterminazione è cancellato, perché si esclude il valore vincolante delle decisioni della persona riguardanti la fine della vita; e perché si impone a tutti l´obbligo di sottoporsi all´alimentazione e alla idratazione forzata, di cui abusivamente si nega il carattere di trattamento terapeutico, ignorando l´opposta opinione di quasi tutta la comunità scientifica proprio per cancellare il diritto, da lungo tempo riconosciuto, di rifiutare le cure. Siamo di fronte a un grave tentativo di impadronirsi della vita delle persone, di una mossa autoritaria che altera il rapporto tra Stato e cittadino. Cercando di reagire a questa deriva pericolosa, venti parlamentari della maggioranza avevano scritto al presidente del Consiglio una "lettera sul disarmo ideologico", proponendo "una riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra pazienti, familiari, fiduciari e medici la decisione in ordine a ogni scelta di cura".
Da anni insisto sulla necessità di analizzare il rapporto tra la vita e le regole sottraendolo in generale alla pretesa di un diritto pervasivo, che si fa strumento di una politica che vuole impadronirsi della libertà delle persone. Ma non basta invocare un´assenza del diritto, che potrebbe poi lasciare il campo libero a qualsiasi incursione autoritaria. Bisogna seguire l´indicazione costituzionale e fondare l´autonomia della persona sul riconoscimento dell´intangibilità di tale autonomia. Una norma sobria, una soglia legislativa minima che riconosca che la zona dell´essere può essere "recintata" solo dallo stesso interessato. Se, invece, si confermerà la strada segnata dal testo già approvato dal Senato, non ci si dovrà poi meravigliare se la terribile e "politica" Corte costituzionale farà il suo mestiere e interverrà per eliminare le inammissibili limitazioni alla libertà delle persone. Non v´è dubbio, infatti, che siamo di fronte a un testo violentemente ideologico e giuridicamente sgangherato.
4. Privato e pubblico. Questo vuol forse dire che, rifiutando ogni intervento invasivo del legislatore, si deve pure invocare pure un generale disinteresse pubblico per le questioni di vita? La stessa Commissione parlamentare, ieri così irragionevolmente chiusa, ha approvato un testo per garantire l´accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore. Qui la presenza del legislatore non è invasiva o abusiva, non si sostituisce alla volontà della persona, ma consente a ciascuno di prendere le proprie decisioni in condizioni di vera libertà. Lo stesso accade quando si prevede una indennità per i familiari che assistono in casa una persona in stato vegetativo: lo ha fatto in febbraio l´Assemblea nazionale francese, lo ha appena deciso la Regione Lombardia. Qui il rapporto tra la vita e le regole non è affidato alla prepotenza, ma alla creazione di servizi adeguati, di un ambiente nel quale vengono rimossi gli ostacoli che limitano l´esercizio libero della volontà. Questo è il vero compito al quale la Repubblica, per rispetto della Costituzione, non può sottrarsi.

Repubblica 29.10.09
Lo Stato laico e l’ora di religione
risponde Corrado Augias

Egregio Augias, vedo nella sua rubrica lettere contrarie all'ora di religione cattolica, si propone lo studio di tutte le religioni. Mi domando se la proposta non nasconda il proposito di emarginare l'ora di religione cattolica. A suo tempo si propose, in alternativa all'ora di religione cattolica, la storia delle religioni, ma dopo attenta valutazione l'ipotesi fu scartata proprio da alcuni laici i quali temevano che una esposizione approfondita degli aspetti più controversi del Corano per esempio, potesse causare ostilità nei confronti dei musulmani. D'altra parte l'eventuale abolizione dell'ora di religione cattolica, scelta volontariamente dal 91% degli studenti, renderebbe più difficile comprendere la letteratura, l'arte e la storia del nostro paese. Attualmente questo insegnamento non è confessionale, ma solo una spiegazione di questa religione nella sua realtà. Certamente lei non spiegherebbe la religione cattolica ufficiale ma una sua interpretazione che non sarebbe più quella cattolica. Per questo gli insegnanti di questa religione sono scelti dai Vescovi. Per me padre di due figli questa è una garanzia perché desidero che conoscano la vera religione cattolica. Sappia che non sono il solo a pensarla così.
Carlo A. Innocenti ecofar2000@yahoo.it

Pubblico volentieri la lettera del signor Innocenti che racchiude buona parte dei pregiudizi sull'insegnamento confessionale della religione. Non mi risulta che siano stati "proprio alcuni laici" a dichiararsi contrari alla storia delle religioni. Ammesso che sia vero, la motivazione addotta mi pare debolissima. Nel Corano, come nella Bibbia e altrove, si trova tutto ciò che si vuole. Basta scegliere la citazione giusta e ogni fatto e misfatto può trovare un riferimento, se non una giustificazione, in un qualche testo sacro. La percentuale del 91 per cento di "scelta volontaria" scenderebbe notevolmente se la religione fosse collocata alla prima o all'ultima ora della giornata. A non farla scendere contribuirà anche l'eventuale inserimento della "religione" nella valutazione complessiva del profitto. Con quale rispetto della laicità non c'è bisogno di dire. Il signor Innocenti dice di desiderare che i suoi figli "conoscano la vera religione cattolica". È un suo diritto e va difeso non solo da lui ma da tutti. La vera questione però è se sia la scuola pubblica di uno Stato laico il posto più indicato dove essere istruiti non su una disciplina ma su una fede. L'entrata della religione nello spazio pubblico non significa che una particolare confessione debba assumere una posizione "dominante" e accaparrare per sé l'intero tempo disponibile. Mi dispiace constatare come questi elementari principi di un liberalismo affermatosi altrove fin dal XVIII secolo stentino in tal modo da noi.

Corriere della Sera 29.10.09
Come fare l’ora di religione tra Concordato e reciprocità
risponde Sergio Romano

Il cardinale Bagnasco ha detto che l’attuale ora di religione voluta dal Concordato non è di catechesi confessionale bensì una disciplina culturale, perché è indispensabile per comprendere la nostra cultura. Perché, allora, gli insegnanti sono scelti dai vescovi, anche se pagati dallo Stato Italiano, come se quelli nominati dal ministero non avessero i numeri per far comprendere ai ragazzi l’importanza che la religione ha avuto nella storia e nell’arte? Per sbrogliare questo nodo è più facile, politicamente s’intende, denunciare il Concordato o consentire l’ora musulmana, organizzarla, gestirla ecc.?
Quindi: più religione o meno religione?
Giorgio Costa

Non sono d’accordo sul fatto che dovrebbe essere inserita l’ora di religione islamica per la numerosità dei musulmani. L’Italia è un Paese cattolico e la religione ufficiale insegnata nelle scuole è il cattolicesimo.
Inglesi e tedeschi residenti in Italia non hanno mai chiesto che venisse inserita l’ora di religione protestante, ma hanno civilmente accettato le usanze del Paese che li ospita. Non capisco questa disponibilità nei confronti di un popolo che non accetta le nostre usanze e cerca di farci saltare per aria spesso e volentieri. E mi piacerebbe sapere se nel loro Paese i musulmani hanno la stessa disponibilità verso gli italiani che vi risiedono. Non credo proprio.
Maria Flumiani , Milano

Cari lettori,
Le vostre lettere (che mi spiace avere abbreviato per motivi di spazio) sollevano contemporanea­mente molti problemi. Cer­cherò d’individuarli e di ri­spondere brevemente.
Insegnamento della religio­ne cattolica nelle scuole pub­bliche. Lo Stato non dovreb­be avere l’obbligo d’insegna­re una religione, quale che sia, nelle sue istituzioni scola­stiche. Ha certamente l’obbli­go invece di assicurare le con­dizioni affinché ogni confes­sione religiosa possa libera­mente creare le proprie istitu­zioni e impartire il proprio in­segnamento. E può dare un contributo finanziario se que­ste istituzioni svolgono fun­zioni delegate e utili alla so­cietà nel suo insieme.
Concordato. Gli accordi fir­mati con la Santa Sede confe­riscono alla Chiesa il diritto d’impartire nelle scuole italia­ne un insegnamento religio­so facoltativo. È un errore, a mio avviso. Ma non credo che esistano in questo mo­mento le condizioni per una revisione del Concordato o per la sua abolizione. E non credo che sia nell’interesse ge­nerale del Paese avanzare pro­poste che contribuirebbero a rendere il suo clima ancora più agitato di quanto non sia. Ma sarebbe ora che il ministe­ro dell’Istruzione rendesse l’ora di religione effettiva­mente facoltativa offrendo agli studenti alternative credi­bili.
Musulmani e altri stranie­ri. Esiste una sostanziale diffe­renza. Gli inglesi, i tedeschi e gli svizzeri rappresentano pic­cole minoranze, sono general­mente benestanti e si sono spontaneamente organizzati, senza imbattersi in particola­ri difficoltà, con scuole, chie­se e istituzioni culturali. I mu­sulmani sono molto più nu­merosi, sono più poveri e tro­vano sulla loro strada, quan­do vogliono aprire una scuo­la o costruire una moschea, difficoltà spesso insormonta­bili.
Musulmani e terrorismo. Pensare che le comunità isla­miche siano la quinta colon­na del fondamentalismo è cer­tamente sbagliato. E temo che nell’errore si nasconda un pregiudizio razziale.
Reciprocità. Potrei dare qualche esempio positivo co­me la scuola dei salesiani al Cairo, frequentata anche da allievi musulmani. Ma prefe­risco ricordare che esistono due forme di reciprocità. La prima consiste nel concedere a uno straniero soltanto i di­ritti che il suo Stato concede agli italiani; la seconda consi­ste nel concedergli tutti i dirit­ti che lo Stato italiano conce­de, salvo accordi particolari, a tutti gli stranieri residenti nel Paese. Le buone democra­zie preferiscono la seconda.

Repubblica 29.10.09
La replica de ´"L´Osservatore Romano" all’articolo apparso ieri su "Repubblica"
La Chiesa insorge contro il teologo Küng

Il quotidiano del Vaticano definisce le accuse "false e inesatte" Il professore svizzero aveva criticato la decisione del Papa di accogliere i tradizionalisti anglicani

Città del Vaticano. Lontano dalla realtà». «Critiche ingiuste, aspre e senza fondamento», ma soprattutto «false e inesatte». Se non è una scomunica nel senso più classico del termine, poco ci manca. Anche perché, a richiamare con uno sferzante commento il teologo svizzero Hans Küng per le accuse rivolte - ieri su Repubblica - al Papa in seguito alla decisione di accogliere nella Chiesa cattolica i tradizionalisti anglicani (compresi vescovi, pastori e seminaristi sposati), è l´Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede oggi in edicola. L´altolà arriva sotto forma di editoriale pubblicato, autorevolmente, in prima pagina e firmato dal direttore del giornale vaticano, lo storico Giovanni Maria Vian, il quale - fin dalle prima battute - lamenta che «ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà».
Da qui il titolo dell´editoriale con un eloquente «Lontano dalla realtà» che, in un certo senso, controbatte l´altrettanto eloquente titolo del testo di Küng - «Quel Papa che pesca nell´acqua di destra» - nel quale si accusa, tra l´altro, Ratzinger di voler «rimpolpare» le file cattoliche aprendo le porte della Chiesa di Roma ai gruppi più reazionari e conservatori, come dimostra la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani ed ora col sì agli anglicani tradizionalisti. Decisione, quest´ultima, definita da Küng «una tragedia» per l´ecumenismo «dopo le offese già arrecate da Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti».
Critiche, richiami ed accuse seccamente rispedite al mittente, anche se il giornale della Santa Sede non nasconde il timore che «l´articolo circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI». Un testo scritto - per di più - da un teologo, Hans Küng, «suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede». Un incontro clamoroso ed inatteso «benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng - ricorda Vian con una malcelata vena polemica - fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d´un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico». «Da allora - prosegue il direttore del quotidiano pontificio - più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI».
«Come fa adesso, rilanciato con clamore in Inghilterra da The Guardian e in Italia da la Repubblica, che certo - teme Vian - non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo, a proposito dell´annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l´entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani. Un gesto che è volto a ricostituire l´unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un´astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra». «Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale...», conclude Vian, dopo aver espresso tutta la sua «amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico».

Corriere della Sera 29.10.09
Il nastro bianco
Il villaggio inquietante di Haneke: nei bambini i germi del nazismo
di Paolo Mereghetti

La prima idea per questo film — l’ha dichiarato il regista alla rivi­sta Positif — risale al 1970, leg­gendo una sceneggiatura su dei bambi­ni rinchiusi in un orfanotrofio/riforma­torio e firmata da Ulrike Meinhof, ai tempi non ancora passata alla lotta ar­mata. Da allora, l’idea dei condiziona­menti che l’ambiente sociale esercita sui più piccoli non ha smesso di interes­sare Haneke, anche se l’impegno e l’am­piezza della storia che andava elaboran­do gli faceva sempre rimandare il pro­getto. È riuscito a realizzar­lo solo un anno fa, grazie al­l’impegno di quattro diver­si produttori (tra cui l’italia­no Andrea Occhipinti) e il risultato è stato la conqui­sta della Palma d’oro all’ulti­mo festival di Cannes.
A maggio, dopo la visio­ne non certo ottimale du­rante il festival, mi era sembrato che il «marchio di fabbrica» dell’ambiguità, che Haneke usa spesso nei suoi film per dare un diverso spessore alle storie che racconta, qui fosse usato in manie­ra fin troppo programmatica. Tale da non cancellare l’impressione di una cer­ta meccanicità. Adesso, rivisto per l’edi­zione italiana (per una volta doppiata ottimamente, a partire dalla voce nar­rante di Omero Antonutti), il film mi è sembrato più ricco e meglio costruito, anche se qualche perplessità di fronte agli elogi quasi unanimi resta.
Ambientato nel 1913, in un piccolissi­mo villaggio della Prussia, il film rac­conta una serie di strani «incidenti» av­venuti nel giro di un anno: qualcuno ha tirato un filo tra due alberi per far cade­re il dottore che tornava a cavallo; due dei bambini, il figlio del barone e quel­lo, ritardato, della levatrice, subiscono a distanza l’uno dall’altro due incom­prensibili «punizioni» (so­no ritrovati legati, picchia­ti e, nel caso del bambino ritardato, quasi accecato); il granaio va a fuoco. Senza che se ne scoprano i re­sponsabili, nonostante le inchieste della polizia. Nel­lo stesso periodo avvengo­no anche altri misfatti — dalla morte di una contadina claudican­te per l’incuria in cui era lasciata una se­gheria allo sfregio fatto al campo di ca­voli del barone (padrone naturalmente anche della segheria) dal figlio maggio­re della donna morta, all’atto di ribellio­ne della figlia del pastore locale — che contribuiscono a rendere sempre più elettrica e angosciosa la vita quotidia­na.
Haneke, che affida la narrazione ai ri­cordi del maestro ele­mentare diventato vec­chio, gioca abilmente con l’ambiguità e il non-detto per trasmet­tere allo spettatore lo stesso sentimento di in­sicurezza e di frammen­tazione. Identifica gli adulti con la loro fun­zione sociale (il baro­ne, il medico, il pastore, l’insegnante, il contadino) e attribuisce i nomi propri esclusivamente ai bambini e alle don­ne, ricostruendo una struttura sociale retta rigidissimamente sul dominio di classe e sulla perpetuazione dei valori cristiano-borghesi. E usa il bianco e ne­ro per aumentare il senso di ieraticità e di immutabilità che nemmeno il cam­bio delle stagioni sembra capace di scal­fire.
In questo modo offre allo spettatore il ritratto di una comunità apparente­mente solidissima e che invece nascon­de al suo interno gli elementi che pos­sono farla implodere. E che gli occhi dei bambini si incaricano di svelare allo spettatore, a volte in maniera inconscia (il figlio del dottore che vede quello che solo un adulto può leggere come un tentativo di incesto sulla sorella mag­giore), a volte in maniera più esplicita (il furto dello zuffolo al figlio del baro­ne).
Il messaggio è chiaro. Lo dice la voce del maestro all’inizio del film quando spiega che quei fatti possono chiarire «alcuni processi maturati nel nostro Pa­ese » e l’allusione al nazismo che subito dopo la prima guerra mondiale prese piede in Germania è fin troppo chiara. Proprio come il significato del nastro bianco (che dà il titolo al film) e che il pastore lega al braccio di due suoi figli, in passato «simbolo di purezza» e inve­ce adesso «segnale di peccato». Le cose più pure e incontaminate, come i bam­bini, possono nascondere dentro di sé i germi del male, soprattutto se costretti a seguire regole di comportamento co­sì rigide e assolute.
Ma è proprio questo passaggio che la­scia qualche dubbio, perché se è indub­bio che i rigidi valori conservatori su cui era fondata la Germania, e non solo la Germania, all’inizio del secolo non potevano non innescare violenze e pul­sioni distruttive, è un po’ superficiale pensare che solo da lì sia nato il nazi­smo, «inventato» da una generazione che da bambina era stata educata con principi troppo coercitivi e punitivi. L’ambiguità che in altri film Haneke usava per mettere in crisi le certezze dello spettatore, qui si ribalta nel suo opposto: dietro la rigidità morale si na­sconde il verminaio, dietro il rigore c’è il masochista (vedi il dottore) o il bigot­to (il pastore). Possibile, ma non neces­sario. E riduttivo rispetto alla complessi­tà del reale che pure Haneke racconta magistralmente, come quando allude ai tormenti della baronessa.

Corriere della Sera 29.10.09
La sorpresa di Bellocchio: uno spot per la banca
di R. S.

MILANO — Marco Bellocchio debutta nella pubblicità. Il regista simbolo dell’impegno ha diretto il nuovo spot di una banca. Il «cortissimo», durata 1 minuto e mezzo circa, titolo «Una storia italiana dal 1472», si può vedere da ieri in anteprima su Internet, all’interno del canale YouTube del Monte dei Paschi di Siena (nella foto il regista con il presidente Giuseppe Mussari). In tv lo vedremo solo a partire da domenica. Lo spot, del quale esistono diverse versioni, è costato circa 10 milioni di euro, racconta una giornata italiana vista da diversi punti di vista e omaggia anche alcuni simboli del made in Italy, dal design alla cultura di oggi, all’arte di ieri. «È stata un'esperienza che ho vissuto benissimo», ha commentato Bellocchio. Il regista ha anche spiegato perché in passato ha rifiutato più volte di dedicarsi alle campagne pubblicitarie: «In certi anni, se stavi a sinistra, fare pubblicità poteva essere penalizzante anche ideologicamente». La colonna sonora della campagna è «Il cielo è sempre più blu» di Rino Gaetano.

Repubblica Lettere 29.10.09
Il Dizionario Biografico alle prese col budget
Alla discussione relativa al Dizionario Biografico degli Italiani vorrei aggiungere una mia personale esperienza. Spesso lo studioso incaricato di redigere la biografia di un personaggio deve spostarsi, a proprie spese, per consultare libri rari o manoscritti (io personalmente ho passato recentemente qualche giorno a Genova a leggere le carte di un frate vissuto nel Settecento fra Roma e la Liguria di cui sto scrivendo la "voce"). Il compenso, non certo faraonico, corrisposto agli autori molte volte si riduce quindi a un rimborso spese per viaggi, telefonate e fotocopie: eliminarlo porrà i collaboratori del Biografico, spesso dottorandi o ricercatori precari, nella condizione di dover scegliere se scrivere i loro articoli con il materiale che hanno sotto casa, o continuare a farlo a regola d'arte rimettendoci di tasca propria.
David Armando

mercoledì 28 ottobre 2009

l'Unità 28.10.09
Ancora prima di Gramsci
In Italia le basi del potere repubblicano sono messe a dura prova. Per questo, oltre ai Quaderni, bisogna rileggere Tocqueville
di Michele Ciliberto, Università Normale di Pisa

In Italia, sono toccate in questi giorni le fondamenta stesse del potere repubblicano. La sentenza della Corte costituzionale sul Lodo Alfano ha fatto esplodere tensioni e contrasti che riguardano il problema di chi sia il sovrano in Italia. Problema radicale, nel senso letterale della parola: esso riguarda le radici ultime dell’esistenza della Repubblica. Di questo si tratta: e bisogna averne lucidissima coscienza. Il Presidente del Consiglio rivendica la sua primazia sostenendo di essere stato eletto dal popolo e di avere per questo funzioni e diritti che travolgono funzioni, equilibri e reciproci bilanciamenti dei poteri. Una posizione di carattere populistico, è stato detto; di una nuova forma populismo, aggiungo io, che stravolge le fondamenta della democrazia rappresentativa italiana.
Di fronte a tutto questo da alcune parti si è parlato del tradizionale “sovversivismo” delle nostre classi dirigenti, frutto diretto del tradizionale distacco – anzi separazione – tra “governanti” e “governati” nel nostro paese. È l’analisi di Gramsci nei Quaderni che individua nel sovversivismo delle nostre classi dirigenti un punto caratteristico, e rivelatore, della storia nazionale italiana.
Senza alcun dubbio, è un’interpretazione interessante, con la quale continuare a fare i conti; ma non coglie appieno il dato nuovo della situazione italiana. Quello che abbiamo di fronte è una generale patologia della democrazia rappresentativa che non riguarda, in quanto tale, solo il nostro Paese. Non tenderei ad interpretare ciò che sta accadendo in termini di arretratezza della società italiana. Penso invece che da noi siano esplosi, in maniera precoce e più violenta, anche per fragilità – questa sì della nostra struttura istituzionale e sociale, dei fenomeni che riguardano il destino della democrazia rappresentativa nei prossimi anni. È per questo motivo, credo, che la crisi italiana e le iniziative del presidente del Consiglio sono diventate oggetto di attenta analisi da parte dei giornali stranieri, sia europei che americani. Essi intuiscono che il problema non concerne solo l’Italia, ma che la favola riguarda, o potrebbe riguardare, anche loro, e non in un futuro lontano.
Da questo punto di vista sono persuaso che oggi sarebbe utile rileggere, oltre che Gramsci, Tocqueville, e , in modo particolare, la seconda Democrazia in America un testo classico che come tutti i grandi classici ha la capacità di sporgere oltre il proprio tempo storico.
In quelle pagine Tocqueville dimostra come la democrazia si possa risolvere nella costituzione di un potere statale dispotico, da un lato; in una forte “passivizzazione”, dall’altro, delle masse, le quali rinunciando alla propria individuale responsabilità affidano la loro sorte ad un potere che progressivamente si impadronisce e domina l’intera realtà politica e sociale. Ovviamente, l’analisi di Tocqueville va riattualizzata alla luce del potere che oggi hanno assunto i mezzi di comunicazione di massa, e specialmente la televisione, quali strumenti prioritari delle nuove forme di dispotismo attraverso un generale processo di “passivizzazione” degli individui, il dato più inquietante della situazione in cui ci troviamo. Ma, precisato questo, quell’analisi resta un punto di riferimento indispensabile.
«Volesse il cielo che ci fossero delle rivoluzioni!» – esclama Tocqueville nella seconda Democrazia sottolineando la situazione di apatia, di staticità, di perdita di autonoma iniziativa, nella quale possono precipitare i popoli democratici. Ma non si arrende a questa situazione. Proprio nelle pagine finali della Democrazia in America fa l’elogio dell’insopprimibile esigenza di libertà dell’uomo, un ostacolo insuperabile per qualunque forma di vecchio o nuovo dispotismo. Quella di Tocqueville, però, prima di essere una constatazione, era soprattutto un auspicio, un’ultima speranza. Per riuscire a contenere i processi patologici delle democrazie ci vuole ben altro e soprattutto è necessario individuare nuove forme di comunicazione fra “governanti” e “governati” e nuove relazioni fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa attivando nuovi contrafforti nei confronti delle dinamiche dispotiche e nuove forme di equilibrio e di bilanciamento dei poteri.
Come diceva Montesquieu, si può essere tutti uguali e tutti servi; per poter essere tutti uguali e tutti liberi bisogna impegnare una grande battaglia; ed è precisamente questa che bisogna combattere oggi in Italia. ❖

l'Unità 28.10.09
Amnesty accusa: così Israele nega l’acqua ai palestinesi
Un dossier dell’organizzazione: in Cisgiordania e nei Territori prati, piscine e campi dei 450mila coloni israeliani ne consumano più dei 2.300mila palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

Venti volte in più
È la differenza del consumo pro capite tra coloni e vicini arabi
Il dramma di Gaza
Inquinata la falda, è vietato costruire tubature e fogne
Un j’accuse documentato. Una privazione terribile. Amnesty International accusa Israele di negare ai palestinesi acqua potabile «mantenendo un controllo totale sulle risorse comuni e mettendo in pratica politiche discriminatorie». In un rapporto, Donatella Rovera, responsabile di Amnesty per Israele ed i Territori palestinesi, afferma che «Israele lascia che i palestinesi abbiano accesso unicamente ad una parte delle risorse idriche comuni, situate soprattutto in Cisgiordania, mentre le colonie israeliane illegali ne ricevono quantità praticamente illimitate». In alcune aree della Cisgiordania nelle colonie si consuma 20 volte la quantità d’acqua per abitante di quella concessa ai palestinesi che vivono nelle zone limitrofe.
«Piscine, prati ben innaffiati e vaste distese agricole nelle colonie contrastano con i villaggi palestinesi vicini i cui abitanti devono battersi quotidianamente per assicurarsi la quantità di acqua di cui hanno bisogno». I 450 mila coloni israeliani (inclusi quelli che abitano a Gerusalemme est) consumano una d’acqua potabile uguale o maggiore di quella disponibile a 2,3milioni di palestinesi. Secondo Amnesty sarebbero tra i 180mila ed i 200mila i palestinesi che non hanno accesso all’acqua corrente nelle loro case in Cisgiordania. Il consumo giornaliero pro capite di un israeliano è di 300 litri d’acqua, quello di un palestinese di 70 litri. In alcune comunità rurali palestinesi il consumo pro capite
scende a 20 litri, il minimo stimato necessario per uso domestico in situazione di emergenza.
«L’acqua è una necessità di base ed un diritto», sottolinea Amnesty nel rapporto. Nella Striscia di Gaza, continua Amnesty, «il 90-95% viene da una falda costiera la cui acqua è contaminata e inadatta a uso umano». Nella Striscia, inoltre, l’offensiva israeliana lo scorso inverno ha danneggiato pozzi, fogne e stazioni di pompaggio, danni che si aggiungono all’impatto del blocco israeliano ed egiziano del territorio. Il sistema di trattamento delle acque di scarico è stato particolarmente colpito in quanto Israele vieta l’importazione delle tubature e altre attrezzature metalliche nel timore che servano a fabbricare razzi artigianali. Sulle coste di Gaza, mare e spiagge sono inquinati dall’infiltrazione delle fogne. Amnesty chiede perciò allo Stato ebraico di porre immediatamente fine «alle sue pratiche discriminatorie e alle restrizioni imposte ai palestinesi per l’accesso all’acqua». «L’acqua sottolinea Donatella Rovera è una necessità fondamentale e un diritto ma per molti palestinesi anche ottenerne in quantità scadenti necessarie per la sopravvivenza è divenuto un lusso che a malapena si possono permettere».
Israele contrattacca. La reazione israeliana non si fa attendere. Ed è durissima. Mark Regev, portavoce del premier Benjamin Netanyahu, definisce «assurde» le accuse rivolte a Israele. Per Regev, le autorità israeliane rispettano gli impegni presi con l’accordo di Oslo del 1993, mentre i palestinesi non adempiono a quanto previsto in materia di riciclo delle acque e gestiscono in modo non efficiente la loro distribuzione. «Israele ha fornito ai palestinesi 20,8 milioni di litri cubi di acqua, ben oltre quello che sarebbe tenuto a fare in base agli accordi», ha aggiunto Secondo l’Autorità israeliana per le risorse idriche «il consumo di acqua da parte dei palestinesi è costantemente cresciuto negli ultimi anni». Il divario fra il consumo di acqua di israeliani e palestinese esiste davvero, ammette l’Autorità, «ma certo non nelle dimensioni descritte dal rapporto».
Secondo l’esercito israeliano, che mantiene il controllo sulla Cisgiordania, «si tratta di un rapporto unilaterale, pieno di denigrazioni infondate, redatto senza che ad Israele sia stata fornita la possibilità di misurarsi con le accuse. ’Israele vede nell’acqua una risorsa essenziale e non lesina sforzi precisa l’esercito per prestare assistenza alla Autorità nazionale palestinese».
Dura reazione anche del ministro per le Infrastrutture, Uzi Landau (Israel Beitenu, destra radicale) secondo cui il rapporto di Amnesty essere affiancato a quello del giudice Goldstone sulla operazione Piombo fuso a Gaza. «Le loro conclusioni erano state stabilite in partenza, prima ancora del lavoro di ricerca», polemizza il ministro. ❖

Repubblica 28.10.09
Quel Papa che pesca nell’acqua di destra
di Hans Küng

È una tragedia: dopo le offese già arrecate da Papa Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti, ora è la volta della Comunione Anglicana. Essa conta pur sempre 77milioni di aderenti ed è la terza confessione cristiana, dopo la chiesa cattolica romana e quella ortodossa. Cosa è successo? Dopo aver reintegrato l´antiriformista Fraternità San Pio X, ora Benedetto XVI vorrebbe rimpolpare le schiere assottigliate dei cattolici romani anche con anglicani simpatizzanti di Roma. I sacerdoti e i vescovi anglicani dovrebbero potersi convertire più facilmente alla chiesa cattolica, mantenendo il proprio status, anche di sposati. Tradizionalisti di tutte le chiese, unitevi – sotto la cupola di San Pietro! Vedete: il pescatore di uomini pesca soprattutto sulla sponda destra del lago. Ma lì l´acqua è torbida.
Questo atto romano rappresenta niente meno che un drastico cambio di rotta: via dalla consolidata strategia ecumenica del dialogo diretto e di una vera riconciliazione. E verso una pirateria non ecumenica di sacerdoti, cui viene persino risparmiato il medioevale obbligo di celibato, solo per render loro possibile un ritorno a Roma sotto il primato papale. Chiaramente l´attuale arcivescovo di Canterbury, il Dr. Rowan Williams, non era all´altezza della scaltra diplomazia vaticana.
Nel suo voler ingraziarsi il Vaticano apparentemente non ha compreso le conseguenze della pesca papale in acque anglicane. In caso contrario non avrebbe firmato il comunicato minimizzante dell´arcivescovo cattolico di Westminster. Le prede nella rete di Roma non capiscono che nella chiesa cattolica romana saranno solo preti di seconda classe, e che alle loro funzioni i cattolici non possono partecipare?
Il comunicato fa sfacciatamente riferimento ai documenti realmente ecumenici della Anglican Roman Catholic International Commission (Arcic), elaborati in anni e anni di laboriosi negoziati tra il romano Segretariato per l´Unione dei Cristiani e l´anglicana Conferenza di Lambeth: sull´Eucarestia (1971), sull´ufficio e l´ordinazione (1973) nonché sull´autorità nella Chiesa (1976/81). Gli esperti però sanno che questi tre documenti, a suo tempo sottoscritti da entrambe le parti, non sono mirati alla pirateria, bensì alla riconciliazione.
Questi documenti di vera riconciliazione offrono infatti la base per il riconoscimento delle ordinazioni anglicane, delle quali Papa Leone XII nel 1896 aveva negato la validità con argomentazioni poco convincenti. Dalla validità delle ordinazioni anglicane deriva anche la validità delle celebrazioni eucaristiche anglicane. Sarebbe così possibile una reciproca ospitalità eucaristica, una intercomunione, un lento processo di unificazione tra cattolici e anglicani.
Ma la vaticana Congregazione per la dottrina della fede fece all´epoca in modo che questi documenti di riconciliazione sparissero il più rapidamente possibile nelle segrete del vaticano. «Chiudere nel cassetto», si dice. «Troppa teologia küngiana», recitava all´epoca un comunicato riservato della agenzia di stampa cattolica Kna. In effetti avevo dedicato l´edizione inglese del mio libro «La Chiesa» all´allora Arcivescovo di Canterbury, Dr.Michael Ramsey in data 11Ottobre 1967, quinto anniversario dell´apertura del concilio Vaticano secondo: nella «umile speranza che nella pagine di questo libro si ponga una base teologica per un accordo tra le chiese di Roma e Canterbury».
Vi si trova anche la soluzione alla spinosa questione del primato del papa, che da secoli divide queste due chiese, ma anche Roma dalle chiese dell´Est e dalle chiese riformiste. Una «Ripresa della comunità ecclesiale tra la chiesa cattolica e la chiesa anglicana sarebbe possibile», se «da un lato alla chiesa d´Inghilterra fosse garantito di poter mantenere il proprio attuale ordine ecclesiale sotto il primato di Canterbury e dall´altro la chiesa d´Inghilterra riconoscesse il primato pastorale del soglio di Pietro come istanza superiore di mediazione e conciliazione tra le Chiese».
«Così», speravo io all´epoca, «dall´impero romano nascerà un Commonwealth cattolico!»
Ma papa Benedetto vuole assolutamente restaurare l´impero romano. Alla Comunione Anglicana non fa alcuna concessione, intende piuttosto mantenere per sempre il centralismo medioevale romano, – anche se impedisce un accordo delle chiese cristiane su questioni fondamentali. Il primato del papa – dopo Papa Paolo VI bisogna ammetterlo il «grande scoglio» sulla via verso l´unità della chiesa – non agisce apparentemente come «Pietra dell´unità». Torna in auge il vecchio invito al «ritorno a Roma», ora attraverso la conversione soprattutto di sacerdoti, possibilmente in massa. A Roma si parla di mezzo milione di anglicani con venti o trenta vescovi. E gli altri 76 milioni? Una strategia dimostratasi fallimentare nei secoli passati e che condurrà nel migliore dei casi alla nascita di una minichiesa anglicana «unita» a Roma in forma di diocesi personali (non territoriali). Ma quali sono le conseguenze odierne di questa strategia?
1. Ulteriore indebolimento della chiesa anglicana: In Vaticano gli antiecumenici giubilano per l´afflusso di conservatori, nella chiesa anglicana i liberali esultano per l´esodo di disturbatori simpatizzanti cattolici. Per la chiesa anglicana questa scissione implica un´ulteriore corrosione. Essa soffre già in conseguenza della nomina inutilmente osteggiata di un pastore dichiaratamente omosessuale a vescovo in Usa – effettuata mettendo in conto lo scisma della sua diocesi e dell´intera comunità anglicana. La corrosione è stata rafforzata dall´atteggiamento discordante dei vertici ecclesiastici nei confronti delle coppie omosessuali: alcuni anglicani accetterebbero senz´altro la registrazione civile con ampie conseguenze giuridiche (tipo diritto di successione) e con eventuale benedizione ecclesiastica, ma non un «matrimonio» (da millenni termine riservato all´unione tra uomo e donna) con diritto di adozione e conseguenze imprevedibili per i figli.
2. Generale disorientamento dei fedeli anglicani: L´esodo dei sacerdoti anglicani e la proposta loro nuova ordinazione nella chiesa cattolica romana solleva per molti fedeli (e pastori) anglicani un pesante interrogativo: l´ordinazione dei sacerdoti anglicani è valida? E i fedeli dovrebbero convertirsi alla chiesa cattolica assieme al loro pastore? Che ne è degli immobili ecclesiatici e degli introiti dei pastori?
3. Sdegno del clero e del popolo cattolico. L´indignazione per il persistere del no alle riforme si è diffusa anche tra i più fedeli membri della chiesa. Dopo il Concilio molte conferenze episcopali, innumerevoli pastori e credenti hanno chiesto l´abrogazione del divieto medioevale di matrimonio per i sacerdoti, che sottrae parroci già quasi a metà delle nostre parrocchie. Ma non fanno che urtare contro il rifiuto caparbio e ostinato di Ratzinger. Ed ora i preti cattolici devono tollerare accanto a sé pastori convertiti sposati? Cosa devono fare i preti che desiderano il matrimonio, forse farsi prima anglicani, sposarsi, e poi ripresentarsi?
Come già nello scisma tra Oriente e Occidente (XI sec.), ai tempi della Riforma (XVI sec.) e nel primo Concilio vaticano (XIX sec.) la fame di potere di Roma divide la cristianità e nuoce alla sua chiesa. Una tragedia.
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 28.10.09
Il potere, il sesso e le menzogne perché s’indigna il popolo di sinistra
di Mario Pirani

Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.
Con questo gesto l´uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all´umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.
Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l´animo percosso da una catastrofe dell´anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier. Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell´uno e dell´altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra «popolo di destra» e «popolo di sinistra».
Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a «inviti a cena e in villa e sesso un po´ a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica». Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l´assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l´hanno con Veronica perché «non lava in famiglia i panni sporchi» e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall´altra parte, distogliere l´attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un´etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c´è.
Per contro il «popolo di sinistra» nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l´istituzione che dirigeva con accertata dedizione. No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell´animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell´animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall´ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria – lo stalinismo in tutte le sue forme –, lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico. La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l´essere dalla parte – ed essere parte – della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.
Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l´altro giorno, persino, dall´obbligo di pagare il canone Rai). Cosa gliene importa del conflitto d´interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet «che tutto se po´ fa», la versione plebea dello «Yes, we can».
Il «popolo di sinistra» questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: «In fondo sono tutti eguali». Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.
Di qui l´esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell´omologazione subliminale con l´avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un´arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell´altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il «controllo del territorio», secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.
Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c´è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano. Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.
Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi. Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

Corriere della Sera 28.10.09
Tradimenti e paure
Gli uomini, i trans e quel mondo dove non c’è posto per le donne
di Marina Terragni

A lui che ti tradisce con un’altra donna sei pronta, ma cosa fai con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?
Abbandonati dalle femmine, sfiniti dalla loro libertà e dalla voglia di stravincere molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini»
È un luogo dove ci sono solo maschere di donne, come sulla scena di un teatro, per un’omosessualità che è soprattutto culturale

Ricordate il vecchio Freud, di fronte al mistero delle «sue» isteriche? Che cosa vuole una donna? si lambiccava il cervello. Una risposta precisa non seppe trovarla neanche lui. Al tempo dei patriarchi la sessualità maschile era la norma, e quella delle donne un oscuro tumulto non autorizzato. Ma un uomo?

Che cosa vuole, un uomo? verrebbe voglia di chiedergli oggi. Perché dei desideri delle donne ormai si sa tutto.

Dalle autovisite in avanti, il mistero è stato pubblicamente scandagliato per almeno mezzo secolo. E i desideri degli uomini?

Ecco, ti pare di avere proprio tutto: la vita che volevi, il lavoro, e poi la casa, il conto in banca, e la famiglia, i figli e forse— che esagerazione! — perfino l’amore. Poi un bel giorno, per ricatto o per puro caso, vieni a sapere di una certa Brenda o Nazaria o Wynona che come un’oscena badante si prende cura del padre dei tuoi figli. E all’epicentro del terremoto che fa crollare la tua vita perfetta, un maestoso fallo con cui non c’è possibilità di gara.

Una nuova versione dell’invidia del pene?

«A un’altra donna, tutto sommato, sei sempre pronta», racconta una che c’è passata. «Soprattutto sui 50, quando diventano fascinosi e brizzolati e cominciano a tentennare. Sai che vanno in cerca di conferme. E se capita, dopo un po’ di purgatorio magari te li riprendi pure in casa. Ma così...» si mette le mani tra i capelli. «Ed era anche un mostro.

Che cosa fai, con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?».

Il modello manca. C’è tutta una genealogia di tradite lacrimose a cui riferirsi quando si tratta «banalmente» di una donna: le madri, le nonne; le crisi di nervi della principessa Maria Stella Salina, quando il Gattopardo Don Fabrizio, stampatole un brusco bacio sulla fronte, lascia Donnafugata per una fuga in carrozza dalla sua favorita. Le convenienti ritrosie della moglie a cui tocca convivere con la lascivia autorizzata dell’amante. Una poligamia informale. Le cose andavano così, quando il patriarcato aveva dato al mondo il suo ordine: per quanto discutibile, almeno riconoscibile.

Una saprebbe regolarsi perfino se l’altra fosse inequivocabilmente un altro. Ormai anche qui qualche precedente si è accumulato. Ti puoi anche disperare come Julianne Moore, moglie anni Cinquanta in «Lontano dal paradiso», di fronte al coming out del tuo amato sposo, ma non puoi non comprendere. E dopo un ragionevole periodo di assestamento, se hai un’anima sufficientemente grande puoi anche continuare ad amare. Come una sorella. Non tutto è perduto. Ma di fronte a Brenda, Nazaria o Wynona ti va in pappa il cervello: che cos’ha? È gay?

Non sta bene? O è semplicemente un maiale? Chi chiamo? L’avvocato, uno psichiatra o l’esorcista?

Non è un caso, per quanto possa apparire pazzesco, che oggi la sessualità maschile sia diventata una questione politica. Il fatto è che si tratta davvero di una questione politica. Che cosa sono gli uomini, crollata la narrazione patriarcale? Su che cosa puntellano la loro identità se non possono più contare sul dominio delle donne? Che cosa ne è della loro maestosa cultura e del mondo che ci hanno costruito sopra, se le fondamenta sono piene di crepe? Non c’è proprio niente da ridere. La pochade della nostra trans-repubblica — ricatti, contro-ricatti, gente in mutande, partouze, mercimoni, filmini, escort che chiacchierano, mogli che sbarellano — è solo la divertente parodia. Sotto, le lugubri note di una danse macabre di fine civiltà.

Questo delle trans non è solo un vizietto per potenti. Se una metà abbondante di chi fa il «mestiere» è pene-dotata, è perché esiste una corrispondente — e ipocrita — domanda da parte di un’enorme quantità di impiegati, ragionieri, amministratori di condominio, onesti padri di famiglia. Ok il seno e un nasino femminile, ma nessuna operazione definitiva. «Quello» lo si tiene, o si perderebbero i clienti che a quel punto si rivolgerebbero a «semplici» donne (e sai la noia...).

«Perfino i papponi — conferma Ginny, pioniera operata a Londra più di trent’anni fa — oggi chiedono alle ragazze di mettersi su da travestiti»: sei una donna, d’accordo, ma cerca almeno di sembrare un uomo che vuole sembrare una donna… Vertiginoso!

La trans del resto è un modello universale, valido anche per le comuni rifatte, quelle rispettabili signore tumefatte e zigomate che fanno shopping in via Condotti o su Park Avenue. Non è forse da travestito quella loro facies chirurgica, la stessa di tante opinioniste «zero tituli» dei nostri salotti tv? Qualcosa vorrà pur significare. Il trans oggi ha un’audience strepitosa: dopo Silvia, MtF — da uomo a donna — al Grande Fratello è la volta di un più raro FtM. E Maurizia Paradiso, che rivela a Pomeriggio 5 la sua prossima pater-maternità grazie all’utero della modella colombiana Francine...

Ginny spiffera i nomi (irriferibili) di vari ricchi e famosi, abituali degustatori della specialità maschio-con-tette: a quanti tremeranno i polsi! E dice che questo andazzo è cominciato a metà anni Ottanta, con l’invasione dei viados brasiliani. O non è piuttosto che i viados sono accorsi a frotte per corrispondere a una domanda maschile emergente: giacere con uomini parzialmente adattati a donne?

Tra i pochi disposti a parlarne — per il resto, omertoso, complice, imbarazzato silenzio — l’ex calciatore francese Éric Cantona, che in un’intervista ha ammesso: «La donna ideale potrebbe essere un travestito, perché ha un po’ di entrambi».

E su «Via Dogana», periodico della Libreria delle Donne di Milano, Stefano Sarfatti Nahmad dice: «Comincio a credere che gli uomini che sono interessati al pieno godimento sessuale troveranno più facilmente quello che cercano scegliendo un rapporto omosessuale».

Ma forse non è tanto, riduttivamente, questione di essere o non essere gay.

Traditi e abbandonati dalle donne, mortificati dalla loro autonomia, sfiniti dalla loro libertà e dalla loro voglia di stravincere, molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini». Un mondo a cui le donne non hanno accesso: solo maschere di donne, come sulle scene del teatro medievale; solo pseudo-donne, a misura di un immaginario semplificato e un po’ autistico. Un’omosessualità spirituale e culturale che può contemplare anche un passaggio strettamente sessuale.

Mi scrive, straordinariamente sincero, un lettore sul blog: «Il vero unico desiderio è vivere momenti di bel cameratismo con altri maschi... Anche il travestito ama esclusivamente il mondo maschile e ritiene che la sua 'missione' sia dare amore ad altri maschi, di cui comprende le sofferenze profonde che nessuna donna potrebbe lenire». Non varrebbe la pena di pensarci un po’ su? Dispensatrici di bellezza e di gioia, le donne hanno rinunciato per sempre a questa prerogativa divina? Valgono questo prezzo, i loro strepitosi guadagni?

Per completezza d’informazione chiedo a Ginny, che ne ha viste e ne ha passate tante, che cos’ha capito in definitiva del sesso degli uomini: «Mah... — riflette —.

Che ci pensano sempre. E che sono strani».