domenica 1 novembre 2009

l’Unità 1.11.09
In memoria di un socialista eretico
Riccardo Lombardi 25 anni dopo
di Carlo Patrignani

Lo si è ricordato, Riccardo Lombardi ma per un tempo troppo breve un mese e mezzo fa in occasione dei 25 anni dalla sua cremazione senza riti religiosi. D’altra parte, disse nel 1984, uno degli migliori sindacalisti della Cgil e suo «amico compagno», Fausto Vigevani, «nemmeno per poche ore i “vincitori” possono permettersi che appaia e resti sulla scena oltre il minimo indispensabile». E i “vincitori” sono quelli che ieri come oggi non ne sopportano più di tanto la presenza scomoda.
Qualche esempio. L’onestà. «Cosa mi ha insegnato la vita? Ad esser onesto, innanzitutto». Questo il suo principio morale fondante che ripeteva quotidianamente. La carriera? «Non amo le poltrone», disse a Aldo Moro che gli offriva il Ministero del Bilancio nel ‘64. Avere più soldi? «Non avrei saputo che cosa farne. Non ho neppure una casa. Mi basta poter comperare dei libri». La politica? «È dialettica, confronto: a noi non è dato smettere di far ricerca». Per trovare una «via d’uscita» dall’ordine economico e politico capitalistico e arrivare ad una società socialista, quella che «riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di decidere della propria esistenza e di costruire la propria vita». Una società «diversamente ricca», dove il benessere non è più salario e beni voluttuari, ma più dignità, più tempo libero per sé e per far l'amore, più cultura, per realizzare la propria identità.
Politico eretico identificava il capitalismo nei gruppi parassitari e nelle rendite in mano ai nani e avvertiva nel 1975 che il fascismo, «è anche violenza (...) ma finalizzata alla conservazione di certi poteri e di certi privilegi».
L'Ingegnere «a-comunista» allergico ai dogmi infallibili e alle verità rivelate, ha lasciato un patrimonio di idee, proposte ed intuizioni che sono di tutta la sinistra, di chi ama la democrazia. Mi ritrovo con quanto scrisse Giorgio Ruffolo a Fausto Bertinotti nel rifiutare l’invito ad una commemorazione dell' Ingegnere. «Mi scuso ancora per la defezione e le noie che ti ha procurato. Sento il bisogno di ripetere che in questa decisione non c’è traccia di razzismo politico. Si può mutare campo senza incorrere in anatemi. Credo tuttavia che se ne debba pagare il costo. Che, nel caso specifico, è almeno quello di osservare una certa “discrezione” rispetto alla memoria di persone cui si sono inflitte ferite dolorose. Di questo e di nient'altro si tratta».
E Ruffolo con Giolitti, Foa, Banfi, Trentin, Santi, Vigevani, fa parte degli “amici compagni” come diceva la donna che gli fu vicina per 52 anni, Ena Viatto, rispetto ai tanti discepoli “compagni amici” pronti al trasformismo, a lisciare il pelo al gatto, finiti per sete di potere nella pattumiera di Tangentopoli.

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
La lotta è sfinita
Quarant’anni fa Il primo novembre 1969 nasceva il giornale del collettivo di operai e studenti Oggi i giornalisti di allora ricordano quell’esperienza e soprattutto quegli anni, tra entusiasmo politico e il nodo della violenza. Guido Viale: «Non lo rifarei». Adriano Sofri: «Ricomincerei da capo»
di Oreste Pivetta

Fuori tempo. Le iscrizioni sono chiuse», mi risponde Erri De Luca che vigilava sulla salute fisica di Lotta Continua. Il biblista napoletano era capo del servizio d’ordine. Con il giornale di Sofri, Viale, Langer, Deaglio, fondato il primo novembre del 1969, è successo come per il Mondo di Pannunzio. Quando si celebrò il cinquantennale del primo numero fu una corsa a iscriversi: non v’era giornalista in Italia che non vi avesse collaborato. Un po’ così è accaduto per Lc, militanti e giornalisti, militanti o giornalisti, qualche decennio dopo, a funerali avvenuti, a bandiere della nostalgia dispiegate. Wikipedia ha compilato l’elenco, sbagliato. Ovviamente ignorando la «base», che doveva essere tutto. «Dall’alto o dal basso? Dal basso, dal basso!», recitava un titolo del quotidiano. Ovviamente è rimasto l’alto, qualcuno in posizioni che si definirebbero sommamente incoerenti rispetto al passato: che ci fa Ninì Briglia dalle parti di Mediaset? Del basso vi è debole traccia nelle, prime, ricostruzione storiche (vedi il libro di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio appena pubblicato da Feltrinelli). Ma non sappiamo ancora nulla del compagno operaio che parlò ai cancelli della Fiat il giorno del rapimento di Aldo Moro. Lotta Continua fu strenuamente trattativista.
Sarebbe stato utile almeno conoscere uno per uno i quattrocento che un paio di domeniche fa come mi racconta Guido Viale si ritrovarono a Pescara per festeggiare con Enrico Deaglio il quarantennale. Quattrocento: un buon numero per ricominciare. Adriano Sofri, che non vuol ricordare, mi dice almeno: «Ricomincerei da capo». Guido Viale, il primo «saggista» del Movimento studentesco (sulle pagine però dei Quaderni Piacentini), non ricomincerebbe: «Non lo rifarei. C’è altro da fare adesso, anche se non mi sento di certo un pentito. Sono stato anche il primo condannato, come primo proprietario della testata, per un volantino allegato al giornale. Si parlava male della Fiat. Venni assolto in appello. Il merito di Lotta continua fu quello di interpretare meglio di altri lo spirito dei tempi. Anche quel motto maoista: ribellarsi è giusto. Significava raccogliere la spinta antiautoritaria, contro le gerarchie e le accademie, dar corpo a quella che veniva definita la lunga marcia attraverso le istituzioni: l’università, gli ospedali, le carceri, i manicomi, l’esercito, persino la polizia...». E fu un gran risultato ad esempio la nascita del sindacato di polizia. «Eravamo meno dottrinari di altri gruppi, che avevano aderito alla vulgata marxista alcuni banalmente altri per snobismo teorico, come il Manifesto e Potere operaio... È vero quello che diceva Silverio Corvisieri e che ripresi in un libro: Lotta continua è soprattutto uno stato d’animo. Lotta
continua era anche l’espressione di una forma d’amicizia tra chi condivideva una medesima condizione e medesimi bisogni, secondo una sensibilità che valorizzava la dimensione umana della politica. Se c’è stato un Sessantotto bello, abbiamo dato voce a quel Sessantotto». Guido Viale mi racconta una parte di verità. La lettura postuma del giornale ce ne presenta altre.
Metti ad esempio un titolo come il seguente: «Il compagno Mao Tse Tung è morto. I proletari di tutto il mondo gli rendono omaggio con la più grande commozione, ma anche con orgoglio e gioia, perché nella sua vita trovano conferme delle possibilità di contare su se stessi e liberarsi della fame, dalla guerra, dallo sfruttamento, dalle idee false. La vita di un grande rivoluzionario, una inesauribile fonte di insegnamento». Tutto d’un fiato. Per giustizia si dovrà ricordare che una decina di giorni dopo veniva pubblicata una intervista a Gianni Sofri, il professore esperto di questioni internazionali, che più di una perplessità elencava a proposito dei misteri del dopo Mao.
Ne dovrà passare dell’acqua sotto i ponti prima di veder scritto in prima pagina il titolo più bello di Lotta Continua: «È rimorto il Papa». Era il 1978 e a Paolo VI era succeduto Albino Luciani. Testimonia Enrico Deaglio: «Sentimmo: è rimorto il Papa. Era il nostro amministratore, Claudio Brunaccioli, viareggino di tempra assai dissacrante». Deaglio vanta anche le prime rivelazioni sull’esistenza della P2 e del suo capo, Licio Gelli (quattro puntate di una inchiesta di Marco Ventura) e il primo inviato a Teheran ai tempi della rivoluzione khomeinista (Carlo Panella). Pare che all’epoca Lotta continua vendesse più di Repubblica. Questione politica, di tensione politica di quegli anni, di contenuti, di linguaggio, in un’alternanza un po’ schizofrenica tra comunicati del partito e resoconti degli interventi dei leader e cronache di vita quotidiana. «Mi presentai a Lotta continua ricorda Giovanni De Luna con un articolo dedicato ad Agostino o’pazzo, il motociclista napoletano che terrorizzava la città. Viale lo lesse e me lo restituì: riscrivilo. Mi spiegò che dovevamo sforzarci ad una scrittura semplice, via il politichese, via i termini colti».
Gad Lerner, tra i più giovani, fu protagonista della stagione più vivace di Lotta Continua: «Chiuso il partito ci si poteva muovere con ben altra autonomia. Si poteva tornare creativi, anche scoprendo tematiche lontane dalla nostra tradizione politica e forme più spregiudicate. Ad esempio l’uso del titolo ironico. Il Male nacque come inserto di Lotta continua. Per cui diventammo oggetto di racconto anche da parte degli altri giornalisti, che spesso venivano a trovarci in redazione. Eravamo un campione. Il nodo fu la violenza, lo scontro tra le diverse anime del movimento. Noi fummo definiti “umanitari”». Lerner a quel punto se ne andò.
Il tema della violenza torna nella voce critica di Guido Crainz, lo storico dell’Italia del dopoguerra, perché i movimenti collettivi della sinistra non seppero porre un argine: «I gruppi extraparlamentari nascono con un deficit di cultura democratica, nel disprezzo delle regole, in una affermazione di individualismo a scapito del rispetto della collettività e delle sue norme». Il professore ex di Lotta continua, che nel ’76 ci spiegava: «Il marxismo insegna a contare sulle nostre forze anche in campo teorico», adesso ci ammonisce: «Se concentriamo lo sguardo su Lotta Continua non capiremo nulla di quegli anni». «La via è tortuosa, ma l’orizzonte è rosa». Purtroppo non fu così. Ultimo numero nel 1982: dedicato alla vittoria italiana ai mondiali di calcio.❖

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
Avvicinò studenti e operai ma non capì i cambiamenti
di Oreste Pivetta

Lotta continua il giornale nacque nel 1969, il primo di novembre, quarant’anni fa. Venne dopo La lotta continua, un ciclostilato degli studenti di Palazzo Campana pensato come un’occasione di incontro con gli operai, che a Torino non mancavano. Operai e studenti uniti nella lotta: era davvero la novità, la fine di una separatezza, la rottura dell’incomunicabilità. Così nel ciclostilato si ritrovarono Sofri, Viale, Vittorio Rieser e gli ex dei Quaderni Rossi. Il ciclostilato durò poco, come il sodalizio redazionale. Da quella fine germogliò il foglio periodico, Lotta continua, appunto, di cui il primo direttore responsabile fu Piergiorgio Bellocchio, il fondatore con Grazia Cherchi dei Quaderni Piacentini, mentre figurava come unico proprietario Guido Viale, che di quei primi tempi ricorda una condanna poi cancellata in appello, per un volantino allegato che incitava gli operai della Fiat alla lotta. Si sa che la Fiat non si poteva toccare: dava da mangiare alla città.
Quella era la situazione. Le lotte degli studenti, subito antiaccademiche e antiautoritarie, provavano a incontrare i protagonisti ancora di una società povera e sfruttata. Dopo i morti di Avola, Adriano Sofri scese ad esempio al sud, per conoscere le altre facce dell’Italia proletaria e sottoproletaria e lì diede vita a un giornale di breve vita che si chiamò Mo’ che il tempo s’avvicina, da una canzone di protesta del dopoguerra scoperta da Ernesto De Martino in Emilia: il verso successivo faceva: «...si fa avanti la grande Cina». Nel frattempo, ed è sempre questione di pochi mesi, vi erano stati il Maggio francese e l’Agosto di Praga, che suscitarono emozioni contrastanti nel movimento, assai flebili peraltro di fronte alle sorti dei dimostranti cecoslovacchi e della democrazia in genere. In Italia si fece avanti invece la strategia della tensione: il dicembre fu quello di Piazza Fontana, della morte di Pino Pinelli, del mostro Valpreda, dei depistaggi, delle piste anarchiche. Il cronista della Stampa di Torino riferiva: «Il dr. Calabresi... mi dice: “Certo è in questo settore che
dobbiamo puntare: estremismo, ma estremismo di sinistra... Sono i dissidenti di sinistra: anarchici, cinesi, operaisti (Potere operaio, Lotta continua)”».
Dopo la morte di Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, su Lotta continua comparve un fondo dal titolo: «Bombe finestre e lotta di classe». Fu l’inizio della campagna contro Calabresi o per la verità sulla fine di Giuseppe Pinelli. E qui prese il via un’altra puntata di una tragica storia: Lotta Continua fu querelata da Calabresi, s’aprirono processi (contro il direttore responsabile Pio Baldelli), s’avviarono altre indagini. Il commissario Calabresi fu assassinato il giorno stesso in cui sarebbe stato interrogato da Gerardo D’Ambrosio, il pm titolare dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, trent’anni dopo furono condannati Bompressi e Pietrostefani, in seguito alle rivelazioni del pentito Marino. Sullo sfondo, non dimentichiamo, la nostra Italia sull’ultimo treno per le riforme, ma ormai nell’imbuto del consumismo, un paese in cui il centrosinistra giocava le sue ultime carte e la Dc sognava il «centro», quando si avviava invece a crollare la «centralità operaia» per la semplice ragione che le fabbriche cominciavano a chiudere e i ceti medi si presentavano alla ribalta un po’ meno gelatinosi...
Furono anche gli anni della riforma del diritto del lavoro (che Lotta continua non apprezzò) e del referendum sul divorzio (che Lotta continua ancora non apprezzò perché vi riconosceva scarsi segni di lotta di classe). Furono anche «anni di piombo»... Nel 1972, l’11 aprile, Lotta continua periodico divenne quotidiano, lasciando la piccola sede a Milano dietro il Cordusio sopra il bar dell’Amaro 18 Isolabella, trasferendosi a Roma, in via Dandolo, direttore Adriano Sofri. Nel 1975 comprarono, dall’America, anche una rotativa usata a quattro bocche d’uscita, e per farlo crearono una cooperativa che si chiamò «Tipografia 15 giugno», in omaggio alla vittoria elettorale del Pci. Era stata l’unica volta in cui Lotta continua aveva dato una indicazione di voto a favore dei comunisti di Enrico Berlinguer. Per il resto sul gior-
nale son solo attacchi ai «revisionisti». Quotidiano il giornale sperimentò le difficoltà del mercato e della formula e soprattutto dell’inevitabile richiamo alla politica e con questa alle tentazioni che venivano dall’estremismo terrorista. Nella sua vena spontaneista, dal basso verso l’alto, fece del proprio meglio dando la parola agli operai, ai disoccupati organizzati, ai «proletari», ai sofferenti d’ogni genere (le foto sono una sequenza straordinaria, degna di «brutti sporchi e cattivi»), che diedero corpo a una rappresentazione del paese, mobilitante e, ahimè, assai parziale. Ma a leggere tra le righe tra una infinità di scioperi, di occupazioni (delle case) e di bastonate sulla testa della classe operaia si capisce ciò che Lotta Continua non aveva capito: che un’epoca si stava chiudendo, che la «modernizzazione» nella peggior fattispecie s’era fatta avanti, che il mercato come già aveva spiegato Hobsbawm agli studenti stava trionfando e che gli stessi giovani che protestavano rappresentavano la fetta più ricca di quel mercato.
Nel novembre ’76 vennero i giorni del congresso di Rimini, quando Adriano Sofri decise di sciogliere Lotta Continua, partito, per sottrarre il movimento alle secche dell’imprinting leninista (tra segreterie, leader, capi e capetti) e soprattutto per tagliare di netto con le scorciatoie della cosiddetta «violenza rivoluzionaria». Il giornale dedicò pagine e pagine all’evento e una sola pagina il 6 novembre per la mancanza di soldi e la stanchezza dei redattori. In compenso in quel pezzo unico comparve un articolo di Alex Langer (anche lui direttore responsabile) che dimostrava come di fronte alle evoluzioni del mondo si trattasse di «continuare, col massimo coraggio, a vivere “con il terremoto” e con le contraddizioni aperte». Per l’Unità commentò Giuliano Ferrara. Lotta continua quotidiano continuò (direttore divenne Enrico Deaglio) meno ingessato di prima, vivacemente onnivoro, pervicacemente dialogante con i suoi mondi e le lettere al giornale (vecchia tradizione) divennero una lente sui conflitti non solo di lavoro o di scuola ma soprattutto di cuore, di sentimenti, di ragioni, di passioni dentro una generazione.
Purtroppo il vento degli anni ottanta si portò via Lotta Continua, portandosi via tanta politica. La ragione? Probabilmente la nostra difettosa democrazia, che neppure Lotta continua volle correggere per la parte che la riguardava. Condividendo la responsabilità con un largo fronte di sinistra.

Repubblica 1.11.09
Vent’anni dopo piccoli muri crescono
di Ilvo Diamanti

Mancano pochi giorni all´anniversario della caduta del muro di Berlino. Ma, vent´anni dopo, l´entusiasmo non è più lo stesso.
Anche se il 1989 ha segnato il nostro tempo. Perché quel muro marcava una divisione al tempo stesso geopolitica, economica, ideologica. Fra sistemi democratici e regimi comunisti, liberismo e dirigismo. Fra mercato e statalismo. La sua caduta ha prodotto effetti violenti. Anche da noi. In Italia. Il regime più socialista dell´Occidente. Visto l´intreccio fra economia, politica e stato. Il muro, in Italia, è crollato qualche anno dopo. Nel 1992. Ha seppellito la prima Repubblica. Il partito comunista più importante dell´Occidente costretto a cambiar nome, pelle e identità. I partiti di governo, spazzati via da Tangentopoli, ma anche dalla fine della rendita di posizione garantita dall´anticomunismo.
Vent´anni dopo la caduta del muro di Berlino, quindici anni dopo il crollo della prima Repubblica, l´emozione si è un po´ raffreddata. Non solo per effetto del tempo, della routine. È l´impressione che altri muri siano sorti al loro posto. Alcuni, negli stessi luoghi del passato. Anzitutto, il comunismo. In Italia non se n´è mai sentito parlare così tanto come da quando non c´è più. Comunisti. Tutti coloro che stanno a sinistra. Di Berlusconi. Anzi: tutti quelli che sono contro di lui. D´altronde, il suo successo politico si deve anche – e in buona misura – a questo. Aver tenuto vivo l´anticomunismo senza – e dopo – il comunismo. Al posto del muro di Berlino: il muro di Arcore. Per costringere l´elettorato di centrosinistra dentro gli stessi confini del Fronte Popolare nel 1948. Anche se da allora è cambiato tutto, nella politica e nella società. Proprio per questo, però, le passioni si scatenano – talora – più violente di prima. Perché non sono in gioco diverse idee della storia e del futuro. Ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti ci sono le persone. I leader. Pubblico e privato: senza soluzione di continuità. Sotto gli occhi di tutti. Comunicati sui media. Per cui le differenze vengono ribadite, gridate. Scavano solchi profondi. Mentre ieri erano (auto) evidenti e riconosciute.
Il muro di Berlino. È crollato insieme allo statalismo e al trionfo del mercato e del privato. Ma oggi, dopo il disastro della finanza globale, in Occidente si assiste al ritorno dello Stato. Invocato dovunque e soprattutto in Italia. Per proteggere i settori sociali colpiti dalla crisi. Sempre più ampi. Ma reclamato anche dagli attori del mercato stesso. Gli imprenditori. Perfino le banche. Cosa farebbero senza il soccorso dello Stato?
E poi gli Stati nazionali. La fine del muro di Berlino ne annunciava la crisi. Insieme ai confini. Parallelamente al rafforzarsi di altre – e nuove – entità sovranazionali. Sono sempre lì. Evocati e invocati. Attenti a rivendicare la loro autorità. All´interno dei loro confini. Per quanto cambiati profondamente, rispetto a vent´anni fa. Si veda la "grande" Germania ri-unita. Così pronta a tutelare il proprio interesse nazionale.
Certo, il crollo del muro ha allargato ad Est le frontiere d´Europa. Ci ha avvicinati all´Oriente. E ha favorito il flusso di milioni di cittadini. Attraverso confini sempre più aperti. E noi, impauriti dal numero crescente degli immigrati: ci fingiamo "padroni a casa nostra". Invochiamo altri muri. Nuovi muri. Per terra e per mare. Ma, soprattutto, erigiamo nuovi confini davanti e intorno a noi. Preferiamo non vedere. Non confonderci. Con gli stranieri: che restino tali.
La caduta del muro di Berlino, vent´anni fa. Ha allungato la nostra storia recente. Ci ha ributtato indietro, ben oltre gli anni Ottanta. Fin dentro agli anni Settanta. Con cui non abbiamo mai saputo fare i conti. Così, quarant´anni dopo, abbiamo abbattuto anche il muro del Sessantotto. Liquidato senza rimpianto da molti critici. Talora, gli stessi protagonisti di quella stagione. Non ce n´era bisogno, in realtà. Il Sessantotto era già finito da tempo. Ma al suo posto è emerso l´antisessantottismo. Di chi invoca il ritorno dell´autorità perduta. Dei padri e dei professori. Delle istituzioni e dei valori della tradizione.
Nuovi muri. Che, paradossalmente, ridimensionano trasformazioni sociali e conquiste civili importanti, che parevano irreversibili. Basta pensare alla divisione di genere. Tante lotte e tante contestazioni. Nel privato e nel pubblico. Il femminismo. Le pari opportunità. Contro la segregazione femminile nelle carriere. Nel lavoro, nelle professioni. Contro l´immagine della donna-oggetto. Per ritrovarci, oggi, in un paese di veline. Dove le misure che contano, per le donne, non riguardano certo il quoziente intellettivo. Dove la sessualità è esibita come segno di potere. Usata come merce sui media. Dove si ironizza su Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Neanche cinquant´anni fa…
Fra tanti nuovi muri che sorgono intorno a noi, solo uno pare definitivamente crollato. Quello fra le generazioni. Padri e figli. Professori e studenti. Anziani e giovani. Duro da scalare, per i ragazzi. Marcava il cambiamento. L´innovazione sociale. Oggi non c´è più. Perché i ventenni, nati nel 1989 (come il mio figlio maggiore), sono impegnati ad affrontare il loro eterno presente. Precari per definizione. In bilico. Senza passato e senza futuro. E senza territorio, vista la loro confidenza con le tecnologie della comunicazione ("Info-nauti", li hanno definiti nei giorni scorsi Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico su Repubblica.it). Mentre gli adulti latitano e i vecchi sono scomparsi. Vista l´ostinazione con cui insistiamo a dirci tutti – eternamente – giovani.
Così, vent´anni dopo, è difficile non cogliere un po´ di nostalgia. Del Muro. Quand´era uno solo. Visibile. A modo suo, rassicurante. Capace di separare il giusto dall´ingiusto e il bene dal male. Mentre oggi che è crollato – e il mondo è più largo e più aperto – incontriamo muri ovunque. Piccoli e invisibili. Siamo noi stessi a costruirli. Per bisogno di riconoscerci. Per paura di perderci. Per paura.

Corriere della Sera 1.11.09
I radicali: ora serve un garante per le carceri
di Daria Gorodisky

ROMA - «Le conosciamo, quelle cadute accidentali in carcere… È la spiegazione classica che un detenuto dà quando ha paura, nel caso dicesse altro, di prenderne ancora». Rita Bernardini, deputata Radicale del Pd, si dedica da anni alle condizioni di vita nei penitenziari: «Perché ancora oggi sono un'istituzione oscura, dove accadono cose incredibili». Ne ha visitati decine e decine, domani si recherà a Teramo dove ci sarebbero registrazioni a proposito di maltrattamenti ai prigionieri; e sottolinea che oltre la metà di casi di morte durante la detenzione è rappresentata da suicidi e cause da accertare.
E il caso di Stefano Cucchi?
«Abbiamo subito presentato interrogazioni parlamentari. Ma come Radicali abbiamo anche depositato due proposte di legge. Però ormai in Parlamento non si calendarizza più niente…» Che cosa chiedete?
«Nella prima, l'istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Potrebbe essere un parlamentare, magari individuato su proposta dei presidenti di Camera e Senato. In alcune realtà locali esistono già, ma a livello nazionale no».
E nella seconda proposta?
«Un'anagrafe pubblica online di tutte le carceri: per ognuno, quanti detenuti, composizione dell'organico, come aiutare con il volontariato e quale è il regolamento interno».
Ogni istituto ne ha uno?
«No, e questo è il punto: tranne casi rarissimi, ai detenuti non viene consegnata nessuna carta dei diritti e dei doveri che indichi, per esempio, come ci si comporta per le telefonate, la possibilità di avere prodotti particolari, la disciplina dei colloqui».
In genere qual è la frequenza delle visite consentita?
«Solitamente, un paio di volte alla settimana».
E se il detenuto è ricoverato?
«Può essere lo stesso, si chiede al direttore del carcere di poter avere un incontro nel reparto penitenziario dell'ospedale».

Corriere della Sera 1.11.09
I nuovi scenari globali che si aprono al di là delle alleanze fra le grandi potenze
La Tecnica, un Superstato oltre i confini della politica
Perché l’incontro Europa-Russia va nella direzione giusta
di Emanuele Severino

«Sono ben calibrati, i rap­porti che l’Italia ha con la Russia?» — si chiede­va qualche tempo fa, il 20 ottobre scorso precisamente, Fran­co Venturini sul «Corriere», prenden­do spunto dall’incontro di Berlusconi e Putin a San Pietroburgo. Concordo con lui nel ritenerla «la domanda chiave della nostra politica estera». Ma la sua risposta è negativa: man­cherebbero, quei rapporti, di «oppor­tunità e bilanciamento». Inopportu­no che un Paese come il nostro abbia la pretesa di fare da intermediario tra Stati Uniti e Russia, sbilanciandosi ec­cessivamente in favore di quest’ulti­ma e aprendo contenziosi con gli Sta­ti Uniti, come quello, ad esempio, re­lativo al gasdotto Nabucco, promos­so da Europa e Stati Uniti ma di fatto ostacolato da Germania e Italia.
Tuttavia esiste, in Europa, un diret­torio: Inghilterra, Germania, Francia. L’Italia è tenuta fuori. Se non si rasse­gna, la mossa pressoché obbligata non è forse stabilire rapporti privile­giati con Mosca, soprattutto nell’at­tuale fase filoamericana di quei tre Stati? Favorendo la presenza della Russia in Europa non si riduce forse la distanza tra i membri del diretto­rio e l’Italia? Per la politica estera ita­liana è meglio avere in mano una car­ta da giocare per riguadagnare terre­no in Europa, o evitare di correre il rischio di sembrare 'inopportuna'?
Questa mossa pressoché obbligata il centro-sinistra non ha potuto farla: non ha potuto fare quello che oggi il centro-destra invece può. Durante il suo ultimo governo, Prodi ha dichia­rato che un ingresso della Russia nel­l’Unione Europea sarebbe stato asso­lutamente fuori luogo. Se avesse det­to l’opposto avrebbe dato corda all’ac­cusa, rivolta da Berlusconi al cen­tro- sinistra, di non essersi ancora li­berato dal comunismo. La Russia è pur sempre l’ex Unione Sovietica. In­vece il centrodestra può permettersi di sembrare filorusso. E lo fa con qualche ragione.
Ci si deve anche chiedere se quel direttorio (di cui l’Italia vorrebbe far parte) sia vantaggioso per l’Europa, cioè se sia compatibile con l’intento, ribadito recentemente dal presiden­te della Commissione Europea, di raf­forzare il più possibile il mercato uni­co europeo. Un obbiettivo certo irri­nunciabile. Tuttavia anche oggi è im­possibile per i popoli riuscire ad esse­re economicamente floridi se sono militarmente deboli. E questa è ap­punto la condizione in cui l’ Europa verrà a trovarsi anche quando sarà uscita dalla crisi economica.
Oggi il mondo è un vulcano in eru­zione.
Troppo sconveniente far torto a Obama credendo che egli voglia per davvero arrivare al disarmo ato­mico totale. Come se in una città infe­stata da ladri e assassini si congedas­se la polizia e si togliessero le porte alle case. L’Europa è senza porte e senza polizia. Con l’aggravante che il pericolo maggiore non proviene da ladri e assassini, ma dalla fame e dal­le ingiustizie sociali che pesano su gran parte dell’umanità — sì che, an­che quanto sarà ricca, l’Europa non solo continuerà ad esser debole, ma, come tutto il mondo ricco, non avrà nemmeno la coscienza a posto. D’al­tra parte vorrà continuare a vivere. (Ai popoli non ha senso fare predi­che morali. Né a quelli sfruttati, nè agli sfruttatori). Ma come potrà vive­re se continuerà ad esser debole?
D’altra parte, la solidità economica è essenziale all’Europa. Non solo per­ché il benessere è preferibile alla pe­nuria, ma perché la ricchezza è per l’Europa indispensabile per trattare da pari a pari con la Russia: in una cooperazione dove l’Europa assicure­rebbe l’esistenza di un mercato fio­rente e la Russia avrebbe quella forza militare, e innanzitutto quell’arsena­le nucleare, senza di cui oggi nessu­na economia sana può sopravvivere.
Gli Stati Uniti di Bush solo a parole hanno trattato l’Europa da partner. Di fatto hanno agito come se essa fos­se un satellite. La stessa cosa avver­rebbe, e anche peggio, in un’apparen­te partnership tra la Russia e un’Euro­pa economicamente debole. Ma la Russia ha bisogno, molto più degli Stati Uniti, di una economia europea in buona salute. È per questo che, se l’Europa non è destinata al declino economico, la progressiva integrazio­ne di Europa e Russia è nell’«ordine delle cose». Non certo perché sia nel­l’ «ordine delle cose» che l’Europa di­venga un avversario degli Stati Uniti, ma perché la partnership tra Europa e Russia, da un lato, e Stati Uniti dal­­l’altro, sia reale e non apparente. Si aggiunga che se l’entrata della Tur­chia in Europa è una possibilità con­creta, questa entrata renderebbe più equilibrato il rapporto demografico tra i Russi e gli attuali Europei.
Che nell’«ordine delle cose» ci sia la progressiva integrazione di Europa e Russia lo dicevo d’altronde ben pri­ma che tale integrazione diventasse l’obiettivo sempre più esplicito della politica estera dell’attuale governo di centro-destra. Lo dicevo sin dagli ini­zi degli anni novanta, al tempo della fine dell’Unione Sovietica (nel sesto capitolo de Il declino del capitalismo, pubblicato da Rizzoli nel 1993), e ho poi ripreso il concetto anche su que­ste colonne.
Ma, infine, ci si deve chiedere: Eu­ropa, Stati Uniti, Russia — e si ag­giungano Cina, India, Giappone, ecce­tera — riescono a scorgere il volto au­tentico dell’«ordine delle cose»? Essi agiscono ancora politicamente, cioè come Stati che nel loro fronteggiarsi credono di essere in grado di servirsi della potenza della Tecnica per far prevalere le loro rispettive forme sta­tuali. Non si rendono conto che le lo­ro tensioni e la loro elaborazione dei problemi del mondo — le quali sono peraltro l’insieme di eventi oggi più visibile — stanno diventando una lot­ta di retroguardia; che tuttavia è ne­cessaria proprio per andar oltre, nel­la direzione che vado da tempo indi­cando. Incomincia infatti ad affiorare il contrario di quanto essi credono: affiora che è la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e mi­­litare, a servirsi sempre di più degli Stati per accrescere la propria poten­za, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti.
L’integrazione Europa-Russia, os­sia la riduzione delle autonomie sta­tuali, è un passo importante in que­sta direzione.

Corriere della Sera Salute 1.11.09
Medicina del lavoro Una ricerca italiana analizza gli effetti fisici delle angherie in ufficio
Mobbing, fa davvero crollare
Il «cedimento» non è solo psichico, ma anche neurobiologico
di Elena Meli



Konrad Lorenz, l’etologo, è stato il primo a parlare di mob­bing. Non si riferiva a colleghi dell’università di Vienna vessa­ti da qualche 'barone', ma alle anatre selvatiche quando ag­grediscono in gruppo un altro uccello, con un assalto colletti­vo che lo spaventa e lo fa fuggi­re. Un comportamento che esi­ste in natura prima che nel po­sto di lavoro. E che, si scopre oggi, ha effetti ben precisi a li­vello biologico: una ricerca del­l’Università di Napoli, pubbli­cata su Psychotherapy and Psychosomatics , dimostra che nelle vittime di mobbing si modifica l’attività dell’asse ipo­talamo- ipofisi-surrene.
«Si tratta del principale si­stema biologico per la risposta allo stress ambientale: quando questo sistema si attiva, l’orga­nismo mobilita tutte le risorse necessarie per affrontare la si­tuazione, con la lotta o la fu­ga » — spiega Mario Maj, auto­re della ricerca e presidente della World Psychiatric Asso­ciation —. Finora nessuno ave­va studiato i correlati biologici del mobbing, per capire se e come variano in base alla dura­ta dei soprusi e alla personali­tà delle vittime. I nostri risulta­ti dimostrano per la prima vol­ta che l’esposizione prolunga­ta a mobbing porta a una sorta di 'esaurimento funzionale' dell’asse ipotalamo-ipofi­si- surrene».
In pratica, i livelli di cortiso­lo, l’ormone dello stress, si ri­ducono al lumicino (il contra­rio di quel che accade in rispo­sta a uno stress acuto): Maj lo ha visto mettendo a confronto 10 persone senza problemi sul lavoro con 10 'mobbizzati', che sopportavano le angherie in ufficio da almeno 9 mesi. Ed è sulla lunga distanza che il cortisolo cola a picco e l’orga­nismo cede: «È come se, dopo una fase di allarme e resisten­za, le risorse per far fronte allo stress venissero meno — dice Maj —. Chi per carattere è mol­to cauto, apprensivo, inibito e ha scarsa capacità di auto-diri­gersi sembra particolarmente vulnerabile a tale 'cedimento biologico': l’inibizione sociale e comportamentale rende que­ste persone meno capaci di af­frontare la violenza sul lavoro e meno popolari in ufficio, e ciò riduce la possibilità di ave­re il sostegno del gruppo dei colleghi. Un aiuto che invece sarebbe essenziale per il mob­bizzato, anche per documenta­re sul piano medico-legale quanto subisce».
Di modi per rendere la vita impossibile in ufficio ce n’è a iosa. Secondo un’indagine con­dotta da ricercatori della Boc­coni su 3000 persone che si so­no rivolte alla Clinica del Lavo­ro di Milano, il metodo preferi­to è negare ferie, permessi, tra­sferimenti. E poi critiche conti­nue, mansioni dequalificanti, carichi di lavoro esagerati con scadenze impossibili, maldi­cenze e mezzi più o meno sub­doli per far sentire emarginati. Risultato: ansia, depressione e disturbi fisici come dolori mu­scolari, cefalea, palpitazioni, tremori.
«Questi sono l’espressione esasperata della risposta biolo­gica acuta allo stress — chiari­sce lo psichiatra —. Con l’an­dare del tempo possono pren­dere piede i sintomi che espri­mono il cedimento dell’organi­smo, di cui il calo del cortisolo è spia: decadimento generale, scomparsa del desiderio e del­la potenza sessuale, patologie cardiovascolari, ulcera gastri­ca o duodenale». Come uscir­ne?
In teoria chiedendo aiuto: oggi esistono numerosi centri anti-mobbing. «Ma quasi mai le vittime ci vanno, perché non sanno che ci sono, temo­no ritorsioni sul lavoro o non credono di poter essere aiuta­te — dice Maj —. Un supporto psicoterapeutico è molto utile perché il mobbizzato trovi l’at­teggiamento più adatto a fron­teggiare la situazione. E se i sintomi ansiosi e depressivi so­no disturbanti, possono servi­re anche i farmaci». L’impor­tante è reagire. 


Corriere della Sera Salute 1.11.09
Depressione. Scoperta sui tempi di risposta alle terapieSubito dopo la pillola un’inconsapevole allegria
di Cesare Peccarisi

La depressione è da sem­pre considerata una malattia cronica e recidivante che ha bisogno di trattamenti a lun­go termine.
Uno studio dei ricercatori dell’Università di Oxford di­retti da Catherine Harmer, pubblicato dal Journal of American Psychiatry , dimo­strerebbe che la terapia anti­depressiva può avere effetti rapidissimi di cui i pazienti non si accorgono subito, ma che sono rilevati dai medici con particolari test.
Solo 3 ore dopo aver as­sunto una dose molto bassa di un vecchio antidepressi­vo, la reboxetina, i pazienti presentavano comportamen­ti oggettivi che dal punto di vista clinico indicano un in­dubbio miglioramento: os­servando una serie di volti coglievano con insolita pron­tezza le espressioni facciali felici (men­tre i depressi sono più attenti a quelle tristi); rispondevano prima ad attribuzio­ni positive nei loro confronti; la memo­ria di passate situa­zioni personali posi­tive non era ridotta.
Tre aspetti, questi, che nel depresso hanno sempre se­gno negativo, tant’è che nei pazienti par­tecipanti allo studio trattati con placebo non si sono pre­sentati.
Non si sa se quanto osser­vato possa valere per ogni antidepressivo e se questo ef­fetto si tradurrà in benefici clinici. La ricerca, condotta su 33 soggetti con depressio­ne lieve-moderata non in te­rapia e 31 persone sane co­me gruppo di controllo, ha utilizzato una singola dose di farmaco o un placebo iner­te.
Prima di iniziare, in tutti è stato valutato il livello sog­gettivo di umore e di ansia tramite 6 specifiche scale. Le scale di valutazione sono sta­te poi riproposte, tre ore do­po l’assunzione del farmaco, insieme ai test di riconosci­mento dei volti. Risultato: nelle scale i valori non cam­biavano, né i pazienti si sen­tivano migliorati, mentre la valutazione oggettiva di rico­noscimento emotivo dei vol­ti indicava che il migliora­mento c’era stato.«Da un po’ di tempo si so­spetta che l’azione degli ini­bitori della ricaptazione del­la serotonina, della noradre­nalina o di entrambe inizi già dopo alcune ore, facendo aumentare i recettori di que­sti neurotrasmettitori, — di­ce Claudio Mencacci, diretto­re del dipartimento psichia­trico del Fatebenefratelli di Milano — mentre la cosid­detta neurogenesi, cioè la formazione di nuove cellule nervose a rimpiazzo di quel­le alterate dalla malattia, co­mincia dopo alcune settima­ne».
Non è strano che questo effetto rapido sia stato osser­vato con la reboxetina: nella depressione, per passare da un miglioramento significa­tivo al benessere completo è necessario riappropriarsi di una specifica dimensione le­gata alla cognizione di sé e dei rapporti con noi e gli al­tri. Dal punto di vista neuro­biologico questo passaggio è legato al sistema noradre­nergico, sul quale la reboxeti­na agisce in maniera seletti­va.
«Il farmaco ha agito sui meccanismi emotivi prima che si manifestassero cam­biamenti dell’umore e della sintomatologia — conclude Mencacci —. La traduzione di questo cambiamento in un migliorato umore ha biso­gno di tempo, perché il pa­ziente deve imparare a ri­spondere a questa nuova vi­sione positiva che deriva dal risettaggio delle trasmissio­ni nervose indotto dal farma­co».

sabato 31 ottobre 2009

Fidarsi di D’Alema?
L’ex presidente del Consiglio nella rosa proposta dai socialisti Ue: «Grato al governo»
Berlusconi apre a D’Alema candidato agli Esteri in Europa
Massimo D'Alema è tra i candidati dei socialisti eu­ropei come «ministro de­gli Esteri» della Ue. L'ex premier ha subito ottenu­to un'apertura dal premier Silvio Berlusconi: «Il go­verno valuterà con serietà le candidature capaci di as­sicurare all'Italia un incari­co di così alto prestigio». Anche il ministro Maroni e il leader dell'Udc, Casini hanno dato il loro appog­gio a D'Alema, che si è det­to «onorato» della candida­tura e «grato» al governo.
«Ma non farò inciuci»
dal Corsera e da Repubblica

Repubblica 31.10.09
Se il mondo smette di fare figli
di Enrico Franceschini

Il calo delle nascite non riguarda più soltanto l´Occidente ricco ma anche molti Paesi emergenti Svanisce così l´incubo della sovrappopolazione mondiale Secondo l´Economist è uno dei benefici della globalizzazione e della diffusione della ricchezza
Per gli economisti il tasso di natalità comincia a scendere quando il reddito pro-capite raggiunge i mille dollari all´anno

«Crescete e moltiplicatevi», ordina il Signore Iddio nella Bibbia, e i discendenti di Adamo ed Eva hanno obbedito con ostinata determinazione: eravamo 50 milioni al tempo dell´Impero Romano, un miliardo nel 1800, 2 miliardi e mezzo nel 1950, oggi siamo quasi 7 miliardi e saremo 9 miliardi nel 2050. Eppure questa corsa alla sovrappopolazione, durata venti secoli, sembra sul punto di arrestarsi. Il tasso demografico del pianeta è in calo costante: dopo essere scesa nel mondo industrializzato, la natalità diminuisce anche nei paesi in via di sviluppo che cominciano a conoscere un minimo di benessere grazie alle trasformazioni economiche portate dalla globalizzazione. Il tasso di fertilità globale, che negli anni ‘50 era 5-6 figli a coppia, è già sceso per metà del pianeta a 2,1 o meno, il livello consistente con una popolazione stabile, ovvero con una crescita zero. Per questo gli esperti lo chiamano anche «tasso di sostituzione»: due figli ogni due genitori, due nuovi terrestri al posto di due destinati a essere rimpiazzati.
Tra il 2020 e il 2050, prevedono gli specialisti della materia, il tasso di natalità mondiale scenderà sotto il «tasso di sostituzione», interrompendo il prodigioso aumento della popolazione terrestre, che raggiungerà il suo picco appunto a quota 9 miliardi di persone e da quel momento smetterà di crescere, cominciando piuttosto a decrescere. Il mondo, che secondo gli scenari più pessimistici rischiava di esplodere sotto la spinta di una inarrestabile bolla demografica, divorando più risorse di quelle disponibili, si salverà da solo.
A fotografare un fenomeno che solo recentemente si è delineato sotto gli occhi degli studiosi è l´Economist, il settimanale britannico (perché nato a Londra e perché ha qui la sua redazione centrale) che è stato a sua volta cambiato dalla globalizzazione, moltiplicando le copie (oggi sono un milione e mezzo) e vendendole in tutti i continenti (soltanto il 20 per cento della tiratura è distribuito nel Regno Unito). Il sorridente neonato che precipita in copertina, sotto il titolo «Falling fertility» (Fertilità in caduta), simboleggia la rivoluzione della nascite.
L´Occidente ricco e sviluppato è stato il primo a rallentare il tasso demografico, ma adesso la stessa cosa sta accadendo in paesi emergenti come il Brasile, l´Indonesia, parti dell´India (oltre che naturalmente in Cina, dove è vietato avere più di un figlio a coppia). E mentre la transizione da cinque a due figli a coppia ha impiegato 130 anni, dal 1800 al 1930, a manifestarsi in Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale, in Corea del Sud sono bastati vent´anni, dal 1965 al 1985. Se in Europa e negli Stati Uniti la media è di due figli (o meno) a famiglia, oggi le donne del Terzo Mondo possono aspettarsi di averne tre: le loro madri ne avevano sei. In alcuni paesi la caduta del tasso di natalità è ancora più repentina: l´Iran è passato da sette figli a coppia nel 1984 a 1,9 nel 2006, e ad appena 1,5 a Teheran. Il cambiamento che qualche mese fa si coglieva nelle manifestazioni di protesta nelle strade della capitale iraniana si intravede anche nelle culle.
Il motivo è lo stesso che ha fatto calare il tasso demografico nell´Occidente industrializzato, scrive l´Economist: «Quando la gente diventa più ricca, le famiglie diventano più piccole; e man mano che le famiglie diventano più piccole, la gente diventa più ricca». L´agricoltura della mera sussistenza, che era fino a un decennio fa la principale fonte di guadagno della popolazione del Terzo Mondo, e dunque della maggior parte della popolazione mondiale, aveva bisogno di famiglie numerose per tirare avanti: quei sei figli a coppia servivano per aiutare i genitori nei campi. Ma per le nuovi classi medie della Cina, dell´India, del Brasile, un figlio può essere una gioia, un problema, un caso fortuito, comunque non un´assicurazione sulla vita, non un aiuto per sopravvivere. Gli analisti di macroeconomia hanno individuato il momento in cui la situazione cambia: la natalità comincia a scendere, dicono, quando il reddito annuale pro-capite sale da poche decine o centinaia di dollari fino a 1.000-2.000 a persona; e scende fino al «tasso di sostituzione», due figli per famiglia, quando il reddito sale a 4-10 mila dollari l´anno pro-capite.
È dunque il più diffuso benessere introdotto dalla globalizzazione la ragione per cui dai soli 24 paesi che avevano un tasso di natalità del 2,1 per cento nel 1970 si è passati in quattro decenni a oltre 70, distribuiti in ogni continente, anche in Africa.
Il minor numero di figli per coppia fotografa il passaggio dalla povertà alla classe media, da una società agricola a una moderna e complessa. Tanti fattori accompagnano questa transizione: un maggior grado di istruzione media; un maggior uso di contraccettivi (uno studio calcola che negli anni ‘90 un quarto delle nascite nei paesi in via di sviluppo fossero gravidanze indesiderate); e per l´appunto maggiore benessere. «Ecco come il problema della sovrappopolazione mondiale si risolve da solo», titola l´Economist, ma con un ammonimento: il calo delle nascite non basterà, di per sé, a curare il pianeta da altri problemi, come il cambiamento climatico e la necessità di risorse sostenibili. Occorre che i paesi poveri, sulla strada del benessere e del «tasso di sostituzione», non imitino nella loro crescita economica i paesi ricchi dell´Occidente. Oggi i più poveri africani producono 0,1 tonnellata di CO2 a testa all´anno, in confronto alle 20 tonnellate a testa di ogni americano: se copiano il consumo e l´inquinamento del mondo industrializzato, le conseguenze per il pianeta saranno disastrose. Se è vero che il mondo sta salvando se stesso con una rallentata crescita demografica, bisogna perciò che gli esseri umani gli diano una mano, con accordi di governo e tecnologie, per rallentare anche effetto serra e spreco di risorse. Come che sia, siamo cresciuti e ci siamo moltiplicati abbastanza: ora è venuta l´ora di fermarci.

Repubblica 31.10.09
La denatalità nel nostro Paese è contagiosa. I nuovi arrivi non basteranno a contrastare il declino demografico
L´immigrazione non salverà l´Italia
di Massimo Livi Bacci

Può l´immigrazione raddrizzare il bilancio riproduttivo del nostro paese, che da un quarto di secolo è inchiodato su esangui livelli? Le statistiche ci dicono che il figlio di genitori "stranieri" era davvero una rarità fino all´inizio degli anni ‘90 (uno ogni cento nati); la frequenza è poi rapidamente aumentata e nel 2008 un nato ogni otto era figlio di stranieri. Tra meno di dieci anni la proporzione sarà di uno su cinque.
Ma anche col contributo degli stranieri la natalità italiana rimane insufficiente a evitare un forte declino e un costoso stravolgimento della struttura per età. È facile comprenderlo confrontando i 577.00 nati in Italia nel 2008 con i 750.000 della Gran Bretagna e gli 800.000 della Francia, paesi che hanno una popolazione di dimensioni all´incirca uguale alla nostra, ma che vantano conti demografici "in ordine". Da un punto di vista strettamente contabile - perciò - il contributo degli stranieri alla natalità italiana è cospicuo in sé, ma modesto in termini relativi, e difficilmente potrà rimettere in sesto il bilancio riproduttivo. L´eventuale ripresa dipenderà soprattutto da nuovi comportamenti dell´intera comunità nazionale.
È possibile che le comunità straniere crescano a dismisura non solo perché alimentate da nuovi arrivi, ma soprattutto perché fanno tanti figli? E che sommergano "noi" autoctoni per la loro alta natalità? Prima di rispondere, una considerazione è d´obbligo. Nei paesi a forte immigrazione molti nati sono figli di genitori non più "stranieri" perché hanno acquisito la nazionalità del paese di arrivo, o sono figli di terza o quarta generazione di immigrati naturalizzati. Questi paesi convertono un´alta proporzione di immigrati in cittadini. La loro progenie si diluisce in quella autoctona, diventa essa stessa autoctona e le comunità immigrate, alla lunga, tendono a dissolversi. Non così in Italia: nonostante un recente aumento, la proporzione degli stranieri che acquisisce la cittadinanza è molto bassa, una piccola frazione di quanto avviene altrove. I nati degli immigrati rimangono stranieri, e così rischiano di rimanerlo i loro figli, perpetuando la barriera giuridica che li separa dagli italiani.
Per quanto riguarda i comportamenti riproduttivi, è vero che le donne straniere hanno mediamente più figli delle italiane: ma non di molto. Metà delle straniere proviene da paesi europei che hanno una natalità uguale o minore di quella italiana; l´altra metà è originaria di paesi nei quali la natalità è in rapido declino. Inoltre nelle seconde generazioni il divario con gli autoctoni tende ad annullarsi. Il modello della famiglia numerosa è - del resto - svantaggiosissimo nelle società urbane e postindustriali d´immigrazione, e l´alta abortività delle straniere testimonia della dolorosa volontà di adattamento ai nuovi contesti di vita. Per questa ragione (al netto dei nuovi arrivi) le comunità di origine straniera tenderanno a stabilizzarsi su ritmi di crescita non troppo diversi da quelli della popolazione di origine italiana.


l’Unità 31.10.09
Italia libera indivisa e laica
La laicità trascende qualsiasi manifesto dei valori a sfondo religioso Un libro per capire perché
di Stefano Rodotà

Il brano che qui anticipiamo è tratto da un saggio di Rodotà: «Una laicità costituzionale». Fa parte dell’antologia a cura di Emilio D’Orazio: «La laicità vista dai laici». Con contributi di Zagrebelski, Rusconi, Antonella Besussi ed altri. Al centro l’essere laici nei molteplici ambiti della vita e dei saperi.
Mai come in questi tempi la laicità è stata al centro della discussione pubblica, ha determinato conflitti politici, ha diviso le coscienze. Una situazione così tesa induce più d’uno a sottolineare la necessità di lavorare perché si possa giungere ad un’etica condivisa tra laici e cattolici. Proposito encomiabile, che è giusto condividere, a condizione però che siano chiare le premesse di questo lavoro comune. E queste si trovano nel testo per definizione comune per tutti, dunque nella Costituzione.
«Il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica». Così, nel 1989, scriveva la Corte costituzionale, mettendo in evidenza come la laicità sia ormai un elemento costitutivo dello stesso sistema democratico. Questo vuol dire che la vita democratica vive di rispetto reciproco, di confronto libero delle opinioni, di spirito critico e non di imposizioni autoritarie. Certo, la storia e molte aspre cronache di questi mesi sembrano allontanarci da questa idea di laicità costitutiva del comune tessuto democratico, dando spazio quasi esclusivo all’antica laicità oppositiva, ad una contrapposizione radicale tra laici e cattolici.
SENZA PORTATORI DI VERITÀ
Da questa situazione si può uscire se, nel confronto pubblico, nessuno si pretende portatore di verità, di valori «non negoziabili», che gli altri debbono accettare; se la legittima presenza della Chiesa nella sfera pubblica avviene in condizione di parità con tutti gli altri soggetti politici; se si abbandona l’ingannevole semplificazione che descrive la laicità come prigioniera di riferimenti deboli, incapaci di esprimere principi comuni. Che altro sono la dignità e l’eguaglianza, la solidarietà e le molteplici libertà alle quali proprio la Costituzione dà sostanza? E, se vogliamo usare ancora lo schema laici/cattolici, guardiamo alla grande ricchezza del mondo cattolico, le cui posizioni spesso divergono da quelle delle gerarchie vaticane, e anche alle debolezze di un mondo laico troppe volte incapace di comprendere che la difesa di alcune posizioni coincide con le ragioni stesse della democrazia.
Su questo sfondo si delineano le questioni oggi particolarmente impegnative, a partire da quelle relative ai temi «eticamente sensibili», che sono poi quelli che inducono le gerarchie vaticane ad affermare che siamo di fronte a valori non negoziabili, sì che lo stesso Parlamento dovrebbe assumerli come riferimento obbligato. Ma proprio in questa pretesa si coglie una contraddizione palese con i principi della democrazia, una rottura sul terreno della laicità costituzionale. Su questioni specifiche, o sugli stessi fondamenti dell’ordine giuridico, si pronunciano sempre più spesso soggetti diversi, che propongono i loro «manifesti dei valori», confezionati per l’occasione o tratti da dottrine o esperienze, da quelle religiose in primo luogo. Operazioni in sé legittime, non solo perché manifestazione della libertà di opinione, ma per il contributo che da esse può venire alla fecondità della discussione democratica. Inammissibili, invece, sono le pretese e i tentativi di far divenire quei manifesti, quei valori non negoziabili, vere e proprie «costituzioni parallele», volte appunto a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana, quella dei principi, delle libertà e dei diritti. Fino a quando quei manifesti e quei valori affermati non negoziabili non si saranno sottoposti alla stessa procedura di legittimazione che ha fondato la Costituzione, ad essi non può essere attribuito alcun valore vincolante. È inammissibile la pretesa di realizzare nei fatti una vera e propria «revisione costituzionale».
Lo spazio democraticamente legittimo è quello che risulta dall’insieme dei principi costituzionali, che non può essere sostituito da altri principi e altre assiologie attraverso forme improprie, appunto, di «revisione» costituzionale, come accade quando, ad esempio, agli articoli della Costituzione vengono contrapposti, quasi portatori di una superiore legalità, passi di encicliche papali o di altri documenti vaticani.
Dovrebbe essere del tutto evidente, infatti, che nello Stato costituzionale di diritto gli unici principi «non negoziabili» sono quelli contenuti appunto nella Costituzione. Ogni altro punto di vista, opinione, credenza entra nello spazio pubblico senza poter godere di alcuna supremazia o privilegio. Deve sottoporsi in condizione di parità alla regola del confronto, del rispetto delle opinioni diverse, della libertà di critica. Diviene così del tutto evidente la coincidenza degli elementi costitutivi della laicità con le ragioni della democrazia. Per questo è giusto parlare di una laicità costituzionale... ●

l’Unità 31.10.09
Intervista a Riad Al-Malki
«A Hillary diremo che Israele uccide la speranza della pace»
Il ministro degli Esteri dell’Anp: non c’è un solo atto di Netanyahu che vada nella direzione indicata da Obama. Occorre cambiare rotta
di Umberto De Giovannangeli

Non c’è un atto che sia uno compiuto dal primo ministro israeliano che vada nella direzione auspicata dal presidente Obama. Netanyahu usa le parole per nascondere la realtà dei fatti. Ma la realtà è quella che conta: Netanyahu sta uccidendo ogni speranza di pace». A parlare è Riad Al-Malki, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese. Alla vigilia della missione in Israele e nei Territori di Hillary Clinton, Al-Malki anticipa a l’Unità ciò che la dirigenza palestinese dirà alla segretaria di Stato Usa: «Insisteremo – afferma il ministro degli Esteri dell’Anp – sull’importanza del fattore tempo. Le prossime due-tre settimane saranno decisive». «Il blocco del negoziato e la politica di chiusura praticata dal governo israeliano – aggiunge Al-Malki – indeboliscono la leadership palestinese e finiscono per favorire le spinte estremiste. Anche di questo parleremo con la signora Clinton».
Signor ministro, la segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, sta per giungere in Israele e nei Territori con l’obiettivo di ridare slancio al negoziato di pace. E’ una missione impossibile?
«Impossibile forse no, ma certo è molto, molto difficile. E la ragione fondamentale va ricercata nel comportamento del governo israeliano...».
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu ha ribadito a più riprese la sua disponibilità a riprendere le trattative...
«Netanyahu usa le parole per cercare di mascherare la realtà. E la realtà dei fatti sta a dimostrare che la campagna di colonizzazione e la terribile crisi umanitaria nei territori palestinesi proseguono. È quanto ribadiremo alla signora Clinton: non c’è un atto concreto compiuto dal governo israeliano che vada nella direzione indicata dal presidente Obama, quella di una pace giusta, tra pari, fondata sul principio di due popoli, due Stati». Che impatto lo stallo dei negoziati sugli orientamenti politici dei palestinesi?
«La delusione è forte e ciò non rafforza la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr). L’intransigenza d’Israele mette in grave difficoltà non solo la dirigenza palestinese ma tutti i leader arabi impegnati nel rilancio del processo di pace». Signor ministro, il presidente Abu Mazen parla di un accordo globale. Le chiedo: su quali basi questo accordo dovrebbe fondarsi?
«Le basi sono quelle della legalità internazionale e del principio di reciprocità. La legalità è quella sancita da tre risoluzioni Onu e sviluppata nella Road Map. Si tratta poi di calare il principio della “pace in cambio dei Territori” nella realtà di oggi...».
Le accuse
«La colonizzazione continua, nei Territori c’è crisi umanitaria»
Il che vuol dire?
«Vuol dire che da parte nostra c’è disponibilità a negoziare una modifica, comunque limitata, dei confini del ’67. E questo sulla base della reciprocità nella definizione delle frontiere tra i due Stati: a terre inglobate da Israele devono corrispondere terre che diventano parte dello Stato di Palestina. Uno Stato indipendente, pienamente sovrano su tutto il suo territorio nazionale, da Gaza alla Cisgiordania, senza insediamenti al proprio interno, con Gerusalemme est come sua capitale».
Netanyahu ritiene Gerusalemme capitale eterna e indivisibile dello Stato ebraico. «Su questo occorre la massima chiarezza: nessun dirigente palestinese, neanche il più aperto e disposto al compromesso, potrà mai sottoscrivere una pace che escluda Gerusalemme. Gerusalemme può essere ciò che è Roma: capitale di due Stati».
Signor ministro, a giorni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite discuterà il Rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Qual è in merito la posizione dell’Anp?
«Accogliamo di buon grado le indicazioni e le richieste che emergono dal Rapporto Goldstone. Stiamo prendendo molto sul serio le accuse in esso contenute. Insistiamo sul rispetto del ruolo della legge ed affermiamo il nostro impegno nel condurre inchieste attraverso procedure legali al fine di trattare quest’importante argomento. Al tempo stesso, però, respingiamo ogni equipa- razione tra l’aggressione e i crimi- ni compiuti dall’esercito israelia- no e le azioni di risposta condotte dalla parte palestinese».
Il presidente Obama ha più volte ri- petuto in questo suo primo anno al- la Casa Bianca di essere impegnato in prima persona nella pace fra israe- liani e palestinesi.
«Abbiamo apprezzato le parole e gli sforzi del presidente Obama. Ma questi sforzi continuano a coz- zare contro l’intransigenza d’Israe- le. Il presidente Obama parla di “Muri” da abbattere: inizi da quel- lo israeliano». ❖
(ha collaborato Osama Hamdan)



Corriere della Sera 31.10.09
Lo scenario Prende corpo l’ipotesi per le Regionali. Ma la radicale Bernardini: scelte come ospiti di un programma tv 
Bonino-Polverini Due donne per il Lazio 
Il sì di «Secolo» e «Unità». L’incognita cattolica
di Monica Guerzoni 




ROMA — E se fossero due donne a correre per la presiden­za del Lazio? Sarebbe una «rivo­luzione rosa», una sfida trasver­sale e «senza veleni, senza coltel­lo tra i denti». Così il quotidiano della destra finiana Secolo d’Ita­lia , che ieri ha dedicato una pagi­na a un possibile duello tra Boni­no e Polverini, la segretaria del­­l’Ugl: «Tutti tifano Emma e Rena­ta ». Il periodico online della Fon­dazione Farefuturo (Ffwebmaga­zine) sponsorizza la sfida in rosa e, da sinistra, L’Unità si unisce al coro: «Lazio, parte il tam—tam per la Bonino. Piace ai laici del Pd».

L’ex ministro Giulio Santaga­ta è uno di questi. Per lui «Em­ma è fantastica, è stata un otti­mo ministro, è una persona mol­to leale e ha un’ottima visione delle cose». É vero, Emma Boni­no piace a tutti. A sinistra, a de­stra, ma un po’ meno al centro. Piemontese, nata a Bra il 9 mar­zo del ’48, è stata deputata a Stra­sburgo, Commissario europeo e ministro nel Prodi II. In queste ore si tiene lontana dai microfo­n i, lavora alle liste Bonino—Pannella per le regiona­li, però non smentisce quel «mai dire mai» lasciato cadere a pro­posito del dopo—Marrazzo.

L’idea di spendere il nome del­la leader Radicale sarebbe nata nella testa di Goffredo Bettini, come alternativa nel caso in cui Ignazio Marino dovesse sfilarsi. Nell’attesa di sciogliere la riser­va, l’ex sfidante di Bersani e Fran­ceschini non lesina complimen­ti alla Bonino, ne ricorda «il ca­rattere rigoroso e la grande com­petenza nelle materie economi­che » e si dice pronto a sostener­la. Però Marino avverte: «Anche una grande personalità come Emma Bonino deve passare per le primarie».

Il nodo è tutto qui. Perché, se è vero che non sarà facile unire le opposizioni sul nome della vi­cepresidente del Senato, è vero anche che, se si facessero le pri­marie, la Bonino avrebbe tutto l’interesse a tentare la corsa: qua­le miglior vetrina per trainare la lista alle Regionali? E le primarie potrebbero farsi davvero, visto il cratere in cui lo scandalo Marraz­zo ha precipitato il Pd. «È la stra­da maestra — ribadisce Bettini —. Sarebbe gravissimo se qual­cuno le mettesse in discussione in un momento così delicato». Per Bettini sia Marino, sia la Bo­nino che Mondello «sono candi­dature eccellenti», ma sta a loro «decidere liberamente» se con­correre o no. Emma ci sta pensando. Però è pronta a tirarsi indietro qualora non dovessero verificarsi le con­dizioni. Non a caso la radicale Ri­ta Bernardini osserva che da noi la politica funziona come in tv: «Quando mi invitano ci trovo sempre Mussolini e Santanchè, tanto per fare due nomi. E in po­litica è lo stesso, se c’è una don­na in corsa ecco che le mettono contro un’altra donna». Non pensa che, dopo la bufera dei trans, potrebbe servire a rassere­nare il clima? «Polverini e Boni­no sono due persone eccellenti — risponde la Bernardini — Ma questo modo di intendere la poli­tica non mi piace».

Ma ben prima del via, la corsa di Emma contro Renata ha già in­contrato il primo ostacolo. I cat­tolici del Pd sono pronti a stop­parne la corsa. «È una personali­tà importante — riconosce Pier­luigi Castagnetti —. Ma la sua candidatura sarebbe inutilmente polemica nei confronti del mon­do cattolico». Francesco Saverio Garofani, vicino a Dario France­schini, invita a cercare «un nome che non escluda l’Udc». Beppe Fioroni prende tempo: «Prima bi­sogna eleggere il segretario regio­nale, poi c’è da fare la coalizio­ne... ». E un ostacolo potrebbe in­contrarlo anche la Polverini, la cui candidatura sembra a prova di bomba. Da Capri ieri Luisa To­dini è tornata in corsa: «Se rinun­cio? No, non sono io che deci­do ». E la segretaria dell’Ugl? «È una candidata perfetta».

venerdì 30 ottobre 2009

Repubblica 30.10.09
"Ovuli e sperma dalle staminali presto bimbi senza uomo e donna"
La Stanford University: svolta nella lotta all´infertilità
Ricerca su Nature: possibile riprodurre le cellule germinali dalla pelle dei donatori
di Enrico Franceschini

LONDRA - Prima ci è stato detto che, per fare figli, non c´è più bisogno dell´uomo. Ora sembra che non serva più nemmeno la donna. Scienziati americani sono riusciti per la prima volta a creare in laboratorio degli spermatozoi e degli ovuli, entrambi ricavati da cellule staminali. Entro cinque anni, gli studiosi prevedono che sperma e ovociti così prodotti saranno in grado di creare embrioni umani. La notizia, pubblicata sulla autorevole rivista scientifica britannica "Nature", ha fatto immediatamente il giro del mondo, accolta con favore e giudicata una svolta importante dalla comunità scientifica, ricevuta con allarme e timori da parte di associazioni religiose. Non è la prospettiva di un bebè artificiale, ammoniscono gli specialisti della materia, sottolineando che di artificiale, in quegli embrioni e in quegli ovuli, non c´è nulla: provengono da cellule umane, dunque da donatori in carne ed ossa. E tuttavia l´idea che un bambino possa nascere dalla pelle di un donatore, dalla quale vengono fatti crescere sperma e ovuli, suona come una rivoluzione non solo scientifica, ma anche con profonde implicazioni etiche e sociali.
Per il momento, occorre precisare, gli scienziati della Stanford University autori della ricerca non hanno alcuna intenzione di "giocare a fare Dio" e concepire neonati sui vetrini di un laboratorio utilizzando cellule geneticamente modificate. L´obiettivo dichiarato della dottoressa Renee Rejio Pera, che ha guidato la ricerca, è semplicemente quello di capire come crescono spermatozoi ed ovociti, e quindi migliorare le tecniche per curare l´infertilità. «Tra il 10 e il 15 per cento delle copie non sono fertili», afferma la studiosa. «Circa metà di questi casi sono dovuti all´incapacità di creare ovuli o sperma. Individuare la ricetta genetica necessaria a sviluppare sperma e ovociti da cellule staminali ci darà gli strumenti per capire cosa c´è che non va». In un futuro ancora tutto da regolamentare dal punto di vista legale, e da sottoporre a una nuova concezione morale, naturalmente la scoperta della Stanford University apre il campo a una prospettiva allettante per chi non può avere figli naturalmente e nemmeno con la fecondazione artificiale: avere dei bambini che sono geneticamente propri, poiché provengono dalle proprie cellule, anche in mancanza di sperma o ovuli.
La dottoressa Rejio Pera e i suoi collaboratori dicono di essere giunti a questo stadio mettendo a punto un cocktail di sostanze chimiche e vitamine che riesce a interagire con le cellule staminali embrionali, per trasformarle in ovociti e spermatozoi. Gli spermatozoi così ottenuti hanno la testa e la coda più piccola di quelli normali, ma sembrano comunque in grado, secondo gli scienziati, di poter fertilizzare un ovulo. Gli ovociti appaiono in uno stadio non avanzato, ma sono comunque più sviluppati di quanto sia avvenuto finora in altre ricerche simili. Nel luglio scorso studiosi della Newcastle University annunciarono di avere creato sperma ragionevolmente maturo da cellule staminali embrionali, ma la loro affermazione non convinse altri esperti e la documentazione prodotta come prova è stata successivamente ritirata a causa di errori emersi nelle procedure. «Questa scoperta apre una nuova finestra in quello che fino a poco tempo fa era un campo sconosciuto dello sviluppo umano», commenta Susan Shurin, direttrice dell´Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development, l´istituto che ha finanziato il progetto della Stanford University.

Repubblica 30.10.09
Giuseppe Novelli, preside di Medicina a Tor Vergata
"Un passo decisivo ma la vera riproduzione resta un processo oscuro"
Un figlio senza genitori? Ancora non è possibile. Non carichiamo questa scoperta di significati eccessivi
di Elena Dusi

ROMA - «Lo scopo di questa ricerca è trovare una cura per l´infertilità. Nessuno vuol far nascere bambini senza padre o madre». Giuseppe Novelli, genetista e preside della facoltà di Medicina a Roma Tor Vergata, è un po´ preoccupato per il significato che all´esperimento di Stanford è stato attribuito.
Produrre ovuli e spermatozoi in laboratorio non apre le porte alla loro fecondazione?
«Da quelle cellule germinali non potrà mai nascere un bambino. Dopo che ovuli e spermatozoi sono stati prodotti nel nostro organismo, devono passare attraverso varie fasi di imprinting che sono essenziali per la loro fertilità. Questo processo è ancora piuttosto oscuro e non può essere riprodotto in laboratorio: si tratta di sopprimere selettivamente alcuni geni che non sono coerenti con il sesso di appartenenza. La natura ha impiegato 400 milioni di anni a rendere efficiente la riproduzione sessuale, evidentemente le cose non sono così semplici».
Perché allora ripercorrerne i passi in laboratorio?
«Lo studio di Stanford è uno studio di genetica. Molti casi di infertilità hanno origine nei geni, e noi ai pazienti sappiamo ancora spiegare molto poco. I ricercatori hanno deciso di riprodurre in laboratorio il processo di formazione di ovuli e spermatozoi per osservare passo dopo passo quali geni si attivano durante lo sviluppo. Solo così potremmo fare diagnosi precise ed eventualmente trovare delle cure».
E da questo punto di vista la ricerca ha avuto successo?
«È uno studio davvero importante. Ottenere cellule germinali in generale è complicato, perché bisogna ridurre il set di cromosomi da due a uno, passando da 46 a 23. Gli spermatozoi in particolare hanno una struttura complessa, difficile da riprodurre, mentre la forma raggiunta a Stanford è quasi perfetta. Ora sappiamo quali geni producono una morfologia ottimale».

Repubblica 30.10.09
Il progetto di Dio
Monsignor Sgreccia, della Pontificia accademia per la vita
"Moralmente inaccettabile è una deriva pericolosa per l´intero genere umano"
Non si può concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «È sempre moralmente inaccettabile affidarsi a tecniche riproduttive senza l´uomo e la donna uniti nel sacro vincolo del matrimonio. La Chiesa cattolica non potrà mai accettarlo». L´arcivescovo Elio Sgreccia boccia senza mezzi termini l´annuncio della rivista scientifica "Nature" sull´eventualità di produrre in laboratorio sperma ed ovuli senza l´intervento del maschio e della femmina. Presidente emerito della Pontificia accademia per la vita - stretto collaboratore di papa Ratzinger su morale e bioetica - , il presule teme, persino, che «si tratti di una prospettiva pericolosa per la stessa specie umana».
Monsignor Sgreccia perché tanta diffidenza?
«È solo un annuncio. Ci vuole tempo per vederne gli sviluppi ed, eventualmente, le applicazioni. Tuttavia, produrre - anche se in futuro - sperma ed ovuli destinati alla riproduzione senza l´uomo e la donna è moralmente da condannare, inaccettabile e pericoloso per il genere umano».
Ma gli autori di questi esperimenti dicono che così si curerà l´infertilità.
«Ribadisco che per la Chiesa è immorale ed inaccettabile concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio. Qualsiasi sistema che escluda tale prospettiva, come sono le tecniche annunciate da questi scienziati americani, sarà sempre condannato dalle autorità ecclesiali».
Nemmeno se si tratta di tecniche curative?
«Purtroppo è un crinale pericoloso. Abbiamo già visto quante discutibili tecniche sono state già varate per far fronte all´infertilità come uteri in prestito o scambi di ovuli. Ma con scopi ben diversi. Ora si parla di sperma ed ovuli ricavati in laboratorio con interventi su cellule germinali umane. È una strada pericolosa invisa agli stessi scienziati».

Corriere della Sera 30.10.09
Esperimento dell’università di Stafford: serviranno per la fecondazione in vitro
Le nascite senza genitori. La vita dalle staminali
Ovuli e seme maschile dalle cellule. «La sconfitta della sterilità»
di Adriana Bazzi

MILANO — È una promessa per la cura della sterilità: un grup­po di ricercatori americani è riu­scito a trasformare cellule stami­nali embrionali in ovuli e sperma­tozoi «primitivi» e spera, entro cinque anni, di fabbricare la ver­sione «matura» da utilizzare per la fecondazione in vitro. Per pro­creare, estremizzando, senza pa­dre o senza madre ma con cellule di embrione. Renee Reijo Pera e il suo gruppo hanno focalizzato l’attenzione sui geni scoprendo la «ricetta» genetica capace di tra­sformare le staminali in cellule specializzate nella riproduzione, e pubblicandola sulla rivista Na­ture .

«Dal 10 al 15 per cento delle coppie sono sterili — ha com­mentato Pera che lavora alla Stan­ford University in California — e metà dei casi è legata all’impossi­bilità di fabbricare ovuli e sper­matozoi efficienti. Spesso questo difetto è genetico».

Non è facile utilizzare gli ani­mali come modello per studiare il sistema riproduttivo umano perché quest’ultimo è unico ed è piuttosto sofisticato. Ecco per­ché studiare come funzionano i geni, che trasformano una stami­nale embrionale in una cellula ri­produttiva adulta (questo proces­so di trasformazione avviene nor­malmente nell’embrione umano durante la gravidanza) può servi­re non solo per produrre, in futu­ro, ovuli e spermatozoi in labora­torio, ma anche per capire le cau­se genetiche della sterilità.

I ricercatori americani hanno individuato una famiglia di geni chiamati Daz (e le proteine da lo­ro prodotte) e ne hanno studiati in particolare tre: il primo, il Dazl, è un gene che interviene nelle prime fasi e controlla la tra­sformazione da cellula staminale embrionale umana (che possie­de 46 cromosomi) in un precur­sore delle cellule riproduttive (anche queste con un patrimo­nio di 46 cromosomi). Gli altri due controllano, invece, il pas­saggio successivo che porta alla formazione di ovuli e spermato­zoi «primitivi» e contribuiscono alla meiosi, cioè alla riduzione del loro patrimonio genetico a so­li 23 cromosomi. Riduzione indi­spensabile, dal momento che ovuli e spermatozoi (ognuno con 23 cromosomi) ricostituisco­no, con la fertilizzazione, il patri­monio completo di 46 cromoso­mi che è presente in tutte le cellu­le umane.

Spegnendo e accendendo questi geni, i ricercatori sono, dunque, riusciti a ottenere pre­cursori di ovuli e spermatozoi (questi ultimi già in grado di «nuotare» in un liquido) e spe­rano di perfezionare la procedu­ra nei prossimi anni. Non solo. Queste ricerche fanno ipotizza­re anche altri tipi di cura: un’idea è quella di partire dalle cellule germinali immature di una persona, che non può avere figli, di «correggere» i geni in modo da ottenere ovuli e sper­matozoi «maturi» e di utilizzare questi ultimi per la fecondazio­ne in vitro, senza ricorrere a sta­minali embrionali estranee, ma­turate in laboratorio.

Una terza strada prevede la possibilità di prelevare cellule adulte, per esempio di un indivi­duo sterile, riprogrammarle per riportarle allo stadio di staminali e di manipolarne i geni in modo da costringerle a trasformarsi in cellule riproduttive che avranno così il patrimonio genetico del­l’individuo di partenza. Non è la prima volta che i ricercatori an­nunciano di aver ricavato cellule riproduttive da staminali, ma questa nuova strada sembra la più promettente.

Corriere della Sera 30.10.09
Prospettiva che seduce
di Edoardo Boncinelli

Lo si sapeva fare nei topi di laboratorio e ora si è passati alla nostra specie. Con le cellule staminali si possono fare anche i gameti, cioè la cellula-uovo femminile o lo spermatozoo maschile. Dal punto di vista conoscitivo è una grande notizia che può portare a due diversi sviluppi entrambi collegati alla sterilità o alla ridotta fertilità. Questa ricerca può servire a comprendere sempre meglio i meccanismi che portano alla produzione di gameti maturi e preludere quindi a sempre nuove cure, farmacologiche o direttamente cellulari. Nello stesso tempo si può pensare di arrivare a produrre direttamente gameti dalle cellule di un individuo che proprio «non ne vuole sapere» di produrre gameti vitali. Quale delle due prospettive sia più realistica è difficile dire, ma con il tempo è ragionevole pensare che si realizzeranno entrambe. Certo, la seconda è più seducente: produrre gameti, per esempio spermatozoi, dalle cellule di una determinata persona. È qualcosa di più di una fecondazione medicalmente assistita, perché per uno dei due partner — o per entrambi — non si usano gameti prodotti per via normale. È il massimo sforzo possibile contro la sterilità. Una persona che non riesce assolutamente a produrre gameti, per esempio spermatozoi, può divenire ugualmente padre per questa via e il suo patrimonio genetico passerà così comunque al figlio o ai figli. L’unico passaggio che, per ora, non si può saltare è quello dell’utilizzazione di un utero femminile per far crescere l’embrione e il feto. Una «mamma» che mette il suo utero deve comunque sempre esserci. La scienza mette a disposizione della società sempre nuove opportunità. A noi spetta farne un buon uso, informandosi accuratamente e decidendo con oculatezza.

Corriere della Sera 30.10.09
Il Bacco degli Uffizi

Caravaggio, autoritratto nella brocca
Mina Gregori: «Dipinse se stesso. Meglio una scoperta che mostre inutili»
di Pierluigi Panza

Intorno al 1596-97 Caravaggio si dipinse in maniera microscopica dentro la brocca del suo Bacco, quasi presagio al naufragio nel vino e nei bagordi che di lì a poco avrebbe caratterizzato la sua stessa vita.

Le iniziative che si vanno predisponendo per il IV centenario della morte del Merisi (18 luglio 1610) incominciano con questa scoperta conse­guita, come ormai sta diventando abitudine ne­gli studi d’arte, attraverso analisi scientifiche. Una riflettografia multispettrale condotta da Art-Test sulla piccola tela (95 x 85 cm) del Bacco conservato agli Uffizi ha rivelato ciò che da seco­li si sospettava, ovvero che anche il Merisi si fos­se ritratto specchiandosi direttamente nel qua­dro mentre dipingeva. La novità, documentata in Nuove Scoperte sul Caravaggio , edita dalla Fondazione Roberto Longhi, sarà presentata og­gi dal Comitato nazionale per le celebrazioni del IV Centenario alle 15.30 presso l’Aula Magna di Studio Art Centers International (via Sant’Anto­nino 11, Firenze) da Mina Gregori e Roberta La­pucci. «Nella caraffa alla destra di Bacco - affer­ma la Gregori, una delle maggiori studiose del pittore - Caravaggio dipinse la sagoma di un per­sonaggio in posizione eretta, con un braccio sporgente in avanti verso un cavalletto da pitto­re con sopra una tela. Di questa sagoma sono distinguibili i lineamenti del volto, in particola­re naso e occhi. Per me è il suo autoritratto men­tre stava dipingendo. Anche il Merisi, in­fatti, dipingeva utilizzano gli specchi nei quali si rifletteva, come racconta Baglio­ne, un suo biografo ». Scrive infatti Gio­vanni Baglione in Le Vite de’ Pittori, Scultori, Architetti, ed Intagliatori del 1642 che il Merisi «fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve di­verse ».

Anna Pelagotti, che ha condotto la ri­flettografia multispettrale a infrarossi, spiega perché si arriva solo oggi alla sco­perta del particolare: «Perché sopra al particolare sono stesi una vernice colorata e ma­teriale depositato nei secoli; per cui senza gli in­frarossi la sagoma non è visibile. Di certo Cara­vaggio la dipinse, e sembra proprio di vedere un giovanissimo Merisi, che crea con il pennello in mano». La lettura a infrarossi è un’operazione della durata di un’oretta e dal costo massimo di circa mille euro.

«Meglio una scoperta come questa che predi­sporre per l’anniversario esposizioni inutili, con vecchi quadri, senza tenere conto di tutto il di­battito avvenuto sul pittore dalla mostra di Lon­ghi del 1951 a Milano ad oggi», afferma la Grego­ri. «Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le interpretazioni sul pittore: giudico sbagliate le proposte, che ho sentito ventilare, di fare per l’anniversario solo esposizioni con quadri del Merisi e non dei caravaggeschi. Bisogna discute­re ancora molto delle sue attribuzioni! Prendia­mo il 'Narciso'; nell’85 io stessa ho sostenuto che fosse autentico; oggi siamo propensi a rite­nerlo di altro autore, forse dello Spadarino».

Il Comitato è presieduto da Maurizio Calvesi ed è stato proprio lui, in una riunione prelimina­re, ricorda la Gregori, «a suggerire di finanziare analisi di laboratorio. Io ero scettica, ma mi so­no convinta». Di certo gli studi di storia dell’arte si stanno spostando sempre più da un piano di lettura anche narrativa dell’opera (come era pro­prio pure del Longhi) a uno di indagine scientifi­co- oggettivistica, che di certo aumenta i dati di conoscenza, ma che non accompagna a una vici­nanza emotiva ed empatica con l’opera.

Che il volto del Merisi fosse nascosto da qual­che parte nel dipinto di Bacco si sospettava. Ma nessuno l’aveva documentato. A seguito della pulitura di questa tela, nel 1922, Matteo Maran­goni disse infatti di aver scorso, riflessa nella brocca una testi­na simile al «Fruttaio­lo » o al «Bacco» Bor­ghese, che volle ricolle­gare alla fisionomia dello stesso Caravag­gio: «Grandi orbite oculari, naso a base lar­ga e un po’ camusa, labbra carnose e semi aper­te ». Da allora solo oggi, ma agli infrarossi, si rie­sce ad intravedere un casco di capelli neri, un accenno di volto, un tocco di bianco per il collet­to. Altre interpretazioni, pure autorevoli, riten­gono che sia invece il volto del Bacco l’autoritrat­to del pittore, anche se ignoravano l’esistenza di una figura dentro la brocca.

Il «Bacco» fu commissionato al Merisi dal car­dinal Del Monte per regalarlo a Ferdinando I de’ Medici in occasione della celebrazione delle noz­ze del figlio Cosimo II. Nella tela il vino è stato versato da poco e Bacco tiene in realtà in mano il calice con poca sicurezza. Maurizio Calvesi ha interpretato questo quadro come opera di gene­re allegorico-mitologico: l’androginia del sogget­to è da intendersi come unione dei contrari. Per altri l’opera allegorizza il sangue di Cristo offer­to per la salvezza dell’uomo.

giovedì 29 ottobre 2009

l’Unità 29.10.09
Il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge presentato dal ministro dell’Istruzione
Meritocrazia e controllo dei bilanci. Soltanto a tempo i ricercatori. Membri esterni nei cda
Le mani dei manager sugli atenei Ecco la riforma targata Gelmini
Via libera del consiglio dei ministri al ddl Gelmini sull'università: la figura del ricercatore diventa a tempo determinato, cambiano le modalità di elezione dei rettori. Studenti e docenti sul piede di guerra.
di Maristella Iervasi

Ricercatori solo a tempo, nel limbo l’attuale precariato. Senato accademico svuotato di poteri effettivi e studenti “infilati” ovunque, ma solo come operazione di facciata. Test di accesso persino per le borse di studio per il merito, un fondo a cura dell’Economia e non dal Miur.
Riscrittura degli Statuti, pena il commissariamento e ore dei prof certificate e verificate. Ecco la riforma della Gelmini. Meno democrazia e più potere al Cda con l’ingresso delle aziende private e ai rettori. E la protesta dell’Onda è già dietro l’angolo. Un disegno di legge di riforma in 15 articoli che dopo il via libera del Consiglio dei ministri comincerà il suo iter al Senato, affinché il ddl Aprea sull’istruzione in fondazione possa avere una corsia privilegiata.
NUOVI STATUTI O COMMISSARIAMENTO
Entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge le università statali dovranno modificare i propri statuti, rispettanto vincoli e criteri: ridurre le
facoltà, massimo 12 negli Atenei più grandi e i dipartimenti. Le università vicine possono federarsi. E ancora: personale esterno nei nuclei di valutazione, snellire i componenti del Senato accademico e dei Cda. Se la governance non verrà rivista, 3 mesi di deroga, poi il commissariamento.
CDA CON DENTRO I PRIVATI
Sarà aperto al territorio, enti locali e mondo produttivo il consiglio di amministrazione. Attribuzione al Consiglio di amministrazione delle funzioni di indirizzo strategico, competenze sull’attivazione o soppressione di corsi e sedi. Il Cda sarà composto di 11 componenti, incluso il rettore e una rappresentenza elettiva degli
studenti. Il mandato sarà di 4 anni, quello degli studenti solo biennale. Scompare la figura del direttore amministrativo e subentra quella del direttore generale con compiti di gestione e organizzazione dei serviti, Un vero manager. Il Cda non sarà elettivo, ma fortemente responsabilizzato e competente, con il 40% di membri esterni. Il presidente del cda potrà essere esterno. Il direttore generale avrà compiti di grande responsabilità e dovrà rispondere delle sue scelte, come un vero e proprio manager dell’ateneo.
FONDO PER IL MERITO
Istituito presso il ministero dell’Economia (e non dell’Istruzione) il fondo per «sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti». La gestione è affidata a Consap Spa. Erogherà borse e buoni ma non a pioggia: per accedere bisognerà partecipare a test nazionali.
RECLUTAMENTO PROF.
Per i docenti arriva l’abilitazione nazionale di durata quadriennale assegnata sulla base delle pubblicazioni da una commissione sorteggiata tra esperti nazionali e internazionali. Solo chi ha l’abilitazione può partecipare ai concorsi di Ateneo che avverranno sulla base di titoli e del curriculum con i bandi pubblicati anche sul sito della Ue e del Miur.
RICERCATORI SOLO A TEMPO
Niente più concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato. Solo contratti a termine di 3 anni rinnovabili con selezioni pubbliche. Dopo il 3 ̊ anno lo studioso può essere chiamato dall’Ateneo per un posto docente.
BILANCI TRASPARENTI
Verrà introdotta una contabilità economico-patrimoniale uniforme, secondo criteri nazionali concordati tra i ministeri dell’Istruzione e del Tesoro. Debiti e crediti saranno resi più chiari nel bilancio. È previsto il commissariamento per gli atenei in dissesto finanziario. ❖

l’Unità 29.10.09
Largo ai privati, decideranno su tutto
Problema affollamento

Le perplessità dei tecnici, i dubbi sul ruolo delle Fondazioni Il rischio di avere anche 600 docenti per facoltà. E su tutto anche le parti condivise, l’incubo dei soldi, che non ci sono

Il ricercatore del Cnr: «Se non altro si sono accolte le indicazioni sul codice etico»
Lo scenario. Si attendono i decreti Ma la nuova impostazione degli atenei è dirigista

Senza soldi non si canta la Messa, è il detto. E senza soldi la decantata riforma dell’Università varata ieri andrà da nessuna parte, introduce pesantemente nella gestione il ministero dell’Economia, senza che sia chiaramente definito il margine di competenze, rispetto a quelle del ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Il rischio vero è che si riduca l’autonomia universitaria, dal momento che sono aperte le porte all’ingresso di privati nei consigli di amministrazione. E nella foga propagandistica di ridurre i corsi universitari, si limita a dodici il numero di facoltà sia negli atenei delle grandi città che in quelli più periferici con meno iscritti.
Secondo Rino Falcone, ricercatore dell’Istituto Scienze e tecnologie cognitive del Cnr, membro del coordinamento dell’Osservatorio della Ricerca, già collaboratore del ministro Fabio Mussi, ci sono parecchi punti di criticità nella riforma Gelmini (o meglio, Gelmini-Tremonti, con relativi complimenti paternalistici del secondo ai «giovani ministri crescono»). Falcone osserva che sono state raccolte alcune indicazioni dell’ex ministro Mussi: il codice etico che eviti i passaggi di cattedre per via parentale e l’incompatibilità per conflitto d’interessi; il mandato temporaneo per i rettori (non più di due per un massimo di otto anni); la riduzione dei settori scientifico-disciplinari. E, nonostante Mariastel-la Gelmini inizialmente aveva detto di non volerla adottare, è stata varata l’Agenzia di valutazione (introdotta da Mussi con un decreto poi convertito in legge) per la valutazione delle università e degli enti di ricerca, la cui attuazione richiede tempi molto lunghi, e finanziamenti.
I punti critici: «la messa sotto tutela del ministero dell’Univerità e ricerca rispetto al ministero dell’Economia», osserva Falcone, «che dovrà autorizzare molti interventi», quindi si prevede un’influenza forte del Tesoro sulla vita degli atenei, al di là delle competenze di spesa. E basti pensare ai tagli sui precari attuati nella scuola da Gelmini per conto di Tremonti.
Atenei privatizzati. Un punto «preoccupante», secondo Falcone è «la possibilità che si offre ai privati di contribuire significativamente alle decisioni strategiche delle università con l’ingresso nei Cda di almeno il 40 per cento di esterni con competenze gestionali-amministrative». Il che si tradurrà in un «travaso di poteri» dal Senato accademico ai Cda. Università come aziende, quindi,tanto più con l’ampliata possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni private (prevista per legge l’anno scorso). La porta aperta ai privati dà il via ai tagli di fondi alle università, ed il rischio è «un deterioramento del tessuto di conoscenza del paese», intaccando un sistema che è ancora considerato forte sul piano internazionale, prova nei sia la fuga di cervelli.
Sulle fondazioni, lo storico di destra Franco Cardini scrisse su Il Secolo nel luglio 2008 che tale trasformazione sarebbe stata «il passaggio da una concezione culturale comunitaria a una patrimoniale e privatistica del sapere», da una università di tutti con i suoi limiti a una «costosa università per ricchi», salvando forse alcuni atenei privatizzandoli, ma mandando «a farsi benedire il diritto allo studio: o meglio, lo studio come diritto».
Facoltà superaffollate: La riduzione indifferenziata a 12 facoltà per tutte, sembra scriteriata: avverrà che «La Sapienza» di Roma avrà le stesse 12 facoltà dell'università di Urbino, arrivando, nel caso di Roma, a dei mostri con 600 docenti per facoltà. Dei mega organismi nei quali sarà impossibile prendere qualsiasi decisione collegiale.
Ricercatori: se l’introduzione della «tenure track» (tre anni di contratto e un rinnovo di tre anni previo seconda valutazione, e poi l’eventuale assunzione come professore associato) allinea l’Italia agli altri paesi, secondo Falcone un altro punto critico può venire dalla «duplicazione delle modalità di reclutamento». Ovvero, se parallelamente resta in vigore l’attuale sistema, il concorso sulla base dell’abilitazione nazionale, ci sarà una pericolosa duplicazione di sistemi. E permane il rischio dell’ingresso pilotato previo raccomandazioni e favoritismi.
Insomma, la riforma al momento è solo abbozzata, lo stesso testo completo non è reperibile, al di là della «copertina» illustrata nel Consiglio dei ministri, e bisogna vedere cosa succederà con i decreti attuativi. Ma, nell’insieme, ne risulta una «chiara riduzione dell’autonomia universitaria, e uno schema più dirigista» degli atenei stessi, conclude Falcone. ❖

l’Unità 29.10.09
L’università? Una faccenda privata
di Paolo Bertinetti

Il disegno di legge sull’Università presentato ieri in consiglio dei Ministri nasce dall’assenza di un serio confronto con il mondo universitario, tranne forse con qualche Rettore ben felice di dare il consenso a una legge che prevede maggiori poteri per i Rettori stessi. Una parte del disegno di legge riguarda gli organi di governo dell’Università: meno cariche elettive, più nomine dall’alto, più esterni a valutare e ad amministrare, meno “logica pubblica” e più intervento privato. Ma curiosamente le università private (in realtà tutte lautamente sovvenzionate dallo Stato) sono escluse dalla legge: potranno continuare a fare quel che loro pare. L’idea che sta dietro al disegno di legge, all’insegna di “più banche e meno democrazia”, è che l’Università come servizio pubblico venga smantellata. La parte restante sembra essere stata pensata da persone che non hanno la minima esperienza pratica di gestione dell’attività universitaria a livello decisionale. Si prevede, ad esempio, che i corsi di laurea facciano capo non più alle Facoltà ma ai Dipartimenti. I Dipartimenti esistenti, che nei settori umanistici spesso non rispondono a criteri e raggruppamenti scientifici affini, quasi mai hanno le caratteristiche e i mezzi organizzativi che consentirebbero loro di gestire la didattica. Infatti, uscite dalla porta, le Facoltà rientrano dalla finestra come organismo amministrativo. La legge, a questo punto, dà i numeri, prevedendo che le Facoltà siano 12 nelle Università con più di 3000 docenti (cioè Roma e Napoli) e 9 se i docenti sono meno di 3000. E perché non 10? E perché il tetto è 3000 e non 2000? E perché si contano i professori e non gli studenti? E soprattutto, perché non dovrebbero valutare la cosa le singole Università, in base alle caratteristiche della loro offerta didattica?
Il massimo della (apparente) incompetenza dei redattori della legge riguarda il reclutamento dei docenti. Si prevede un’abilitazione nazionale seguita dalla chiamata (per “concorsino”) da parte dell’Università locale. Il risultato sarà: o una mascherata promozione ope legis (tutti diventeranno professori) o la creazione di un esercito di illusi, professori di nome, ma che nessuna università chiamerà a prendere servizio. Con la scusa demagogica di bloccare i favoritismi dei baroni, i concorsi sono fermi da quasi quattro anni (mentre centinaia di docenti sono andati e continuano ad andare in pensione). La legge tuttavia pensa ai giovani: infatti potranno diventare titolari di un contratto (preferibilmente senza stipendio) o diventare ricercatori a tempo determinato. I migliori, cioè, andranno all’estero. In realtà l’unico criterio ispiratore della legge è quello stabilito un anno fa dal vero ministro dell’Università, Giulio Tremonti: riduzione della spesa. Non a caso, una delle espressioni più spesso ricorrenti nel testo è: “senza oneri aggiuntivi”. ❖

l’Unità 29.10.09
I protestanti tedeschi hanno un nuovo Papa. Ed è una donna
di Laura Lucchini

Margot Kässmann vescovo di Hannover, ha 51 anni, è divorziata, ha 4 figli
Il Sinodo l’ha eletta a larghissima maggioranza. È la prima «Papessa» evangelica

142 voti, 133 per lei
Nel suo ultimo libro si racconta: l’ex marito, la menopausa, il cancro...

«I figli sono grandi, il cane anziano». Così Margot Kässman ha accolto la nomina del Sinodo dei protestanti. È la prima donna dallo scisma di Martin Lutero a governare gli evangelici tedeschi.

È il momento delle donne, in Germania. Ieri, mentre Angela Merkel giurava il suo secondo mandato di fronte al Parlamento, un incarico che la riconferma come la donna più potente del mondo, le agenzie stavano battendo un’altra notizia: Margot Kässmann, 51 anni, vescovo di Hannover veniva eletta a capo della Chiesa Evangelica Tedesca. Per la prima volta nella storia del paese i valdesi saranno presieduti da una «papessa».
Margot Kässman, divorziata, quattro figli, un cancro alle spalle e un cane anziano che le fa compagnia, ha assicurato ieri alla stampa tedesca di aver dormito bene la notte di mercoledì e di essersi alzata alla mattina per fare jogging lungo il Danubio, come sempre. Con i capelli neri tagliati corti, lo sguardo vivace e una croce di perle al collo, ha assicurato, «se è quello che i Sinodali vogliono, lo farò. I figli sono grandi e il cane è anziano».
GOVERNERÀ 25 MILIONI DI FEDELI
Si è mostrata felice e ha festeggiato anche se si è subito resa conto
del peso dell’impegno di rappresentare una comunità di 25 milioni di fedeli. «La mia vita ora cambierà», ha osservato con lucidità.
I parlamentari della camera della chiesa evangelica tedesca l’hanno eletta con una maggioranza trionfale, 132 voti su 142. Sostituirà Wolfgang Huber, 67 anni, pronto per la pensione, e ha detto da subito che lavorerà per avvicinare alla fede protestante nuovi fedeli e per una chiesa che sia «contemporanea».
Kässmann, una figura popolare, che per la sua parlantina sciolta è assidua frequentatrice dei salotti televisivi, ha pubblicato due settimane fa un libro che dice molto sulla sua vita e che si occupa, in particolare, della «mezz’età» delle donne, di relazioni conflittuali con il partner, di figli che a un certo punto se ne vanno di casa, di carriere non sempre realizzanti e della menopausa. Ha raccontato anche le sofferenze personali: un tumore al seno e il dolore dell’asportazione.
«NON NASCONDE LE DEBOLEZZE»
Secondo un articolo pubblicato dal quotidiano di centro sinistra Süddeutsche Zeitung, «Il Sinodo l’ha eletta perché per dieci anni ha svolto bene il suo lavoro come vescovo della chiesa (quella di Hannover, ndr) più grande del suo Land, e perché si comporta in modo sicuro in pubblico e sa dare interviste, ma anche perché è autentica e non ha mai cercato di nascondere le proprie debolezze».
Lontano dal Sinodo di Ulm, a Berlino, anche Angela Merkel ha festeggiato ieri un primato. Per la prima volta nella storia tedesca, un Cancelliere è stato rieletto alla testa di una coalizione differente dalla precedente. Dopo essere stata per quattro anni a capo della Grosse Koalition, Angela Merkel è stata rieletta dal Bundestag per guidare la nuova coalizione nero-gialla. Dei 612 deputati presenti (10 in meno del totale e, tra gli assenti, anche Oskar Lafontaine), sono andati al Cancelliere 323 voti favorevoli, rispetto a 285 contrari e 4 astenuti. In totale, sono venuti a mancare alla Merkel 5 voti tra gli appartenenti ai gruppi della Cdu e della Fdp.
Seguendo una tradizione consolidata da tempo, il primo appuntamento all'estero della Merkel sarà in serata all'Eliseo da Nicolas Sarkozy, mentre domani insieme al nuovo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, sarà invece a Bruxelles.
ARIA DI CAMBIAMENTO
Si tratta di due donne conservatrici che però incarnano, in questo momento, il modello tedesco del cambiamento. In un paese che ha dovuto guadagnarsi con la lotta la parità dei sessi ieri è stato un giorno di festa. Lontano (neanche tanto) dall’Italia, da Silvio Berlusconi e da Papa Ratzinger, c’è un altro mondo, con Angela Merkel e Margot Kässmann. ❖

Repubblica 29.10.09
Biotestamento il Pdl rifiuta le modifiche
di Giovanna Casadio

Biotestamento, il Pdl chiude è scontro con l´opposizione
Si torna al testo del Senato. Dissenso dei finiani
Roccella: "È un buon testo frutto di ampio dibattito, è non vuole essere un no a Fini"
Binetti allineata al Pd. "Non c´entra nulla Bersani, voterò sempre a favore della vita"

Biotestamento: nessuna modifica. Alla Camera si riparte dal testo del Senato. Il Pdl fa quadrato e il Pd insorge e accusa: «volete lo scontro». Persino la teodem Binetti ha votato contro l´imposizione della maggioranza sulla legge.

ROMA - Il centrodestra chiude al dialogo sul biotestamento: alla Camera, dopo tre mesi di audizioni e confronti, si riparte dal testo approvato in Senato, quello in cui si prevede la cosiddetta "norma Englaro", l´obbligatorietà cioè di alimentazione e idratazione artificiale nel fine vita. «Un atto di arroganza e di miopia» per il Pd. «Un fatto grave» anche per Fabio Granata, vicino a Gianfranco Fini. Era stato infatti proprio il presidente di Montecitorio a denunciare il rischio di «Stato etico» e a chiedere un nuovo inizio. Per i finiani è quasi una provocazione nel clima di tensione che si respira dentro la maggioranza di governo. E annunciano l´offensiva alla prima occasione utile, ovvero riproponendo «in aula sotto forma di emendamenti le proposte che avevamo formulato in commissione per garantire in forma estremamente equilibrata la possibilità di biotestamento. Si tratta di una battaglia di civiltà e di una rivendicazione di libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili».
Scontro ieri tra Pd e Pdl in commissione Affari sociali quando Domenico Di Virgilio, il relatore, ha annunciato la linea dura. «A sorpresa - spiega Livia Turco, ex ministro della Sanità nel governo Prodi - perché era stata annunciata nessuna chiusura: è stata allora una presa in giro del lavoro parlamentare di tre mesi. Così la destra ha deciso di riproporre lo scontro, mentre il Pd ha detto no in modo compatto». Paola Binetti, teodem e rutelliana, benché abbia più volte dichiarato che avrebbe detto sì al testo del Senato, questa volta si allinea. Per non dispiacere il neo segretario Bersani? «Non c´entra nulla Bersani, voterò sempre a favore della vita. Ma non mi aspettavo che Di Virgilio facesse questa stessa proposta ora. Tre mesi fa avrei votato sì, ma dopo tre mesi di esame no...». Ne approfitta il capogruppo Pdl in commissione, l´ex socialista craxiano Lucio Barani: «L´opposizione post-comunista ha votato contro e colpisce l´atteggiamento dei teodem e della Binetti, viene da pensare che il primo effetto della segreteria Bersani è la vittoria del socialismo di stampo sovietico che mortifica il dibattito in una moderna epurazione». Tra Barani e Turco si alzano i toni.
Il Pd accusa il governo di volere blindare il testo, per ingraziarsi il Vaticano. Il sottosegretario Eugenia Roccella dice che no, «nessuna proposta di legge all´esame del Parlamento è blindata, però questo è un buon testo». È un modo per sbattere la porta in faccia anche a Fini? «Non è un "no" a nessuno, però c´è stato molto dibattito durante la prima approvazione in Senato». «È un gioco sporco sulla pelle dei malati», taglia netto la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni. I dipietristi parlano di un «atto di arrogante chiusura». Il relatore Di Virgilio si difende: «Giusto riproporre il lavoro del Senato», ma lui stesso ammette modifiche. Tra quindici giorni la commissione si riunisce per discutere gli emendamenti: l´opposizione ne presenterà a pioggia e darà battaglia. «È una scelta sbagliata e ingiusta» per Ignazio Marino. Prima della commissione il Pd aveva riunito i suoi deputati, idem il Pdl.

Repubblica 29.10.09
La vita ostaggio della politica
di Stefano Rodotà

La vicenda parlamentare del testamento biologico ha conosciuto ieri una violenta accelerazione. Era imprevedibile? Non credo. Troppi segnali si erano accumulati negli ultimi tempi, troppe convenienze politiche si erano svelate perché si potesse prestar fede a qualche apertura, peraltro ambigua, venuta dalla maggioranza. La chiusura immotivata del confronto in Commissione, allora, assume un triplice significato. Smentisce la tesi secondo la quale la maggioranza è sempre disposta al dialogo, mentre l´opposizione è arroccata intorno a immotivate posizioni di rifiuto.
Rivela una prepotenza che si dà una veste giuridica incostituzionale. Conferma la subordinazione della politica del governo a quella vaticana: non è un caso che la decisione del Pdl sia venuta all´indomani dell´incontro tra Gianni Letta e Benedetto XVI.
1. Giochi di potere. Da tempo in Vaticano vi era una fila lunga, e mortificante, di politici che portavano le loro offerte, racchiuse soprattutto in quel contenitore allettante che si chiama appunto testamento biologico e che sprigiona veleni tali da inquinare non solo l´ambiente istituzionale, ma l´intera società. Un´offerta sacrificale, dove le vittime sono le persone alle quali si vuole negare il diritto di decidere liberamente sulla fine della loro vita. Tutto questo è all´interno di un gioco politico che, da una parte, vuole rinsaldare i rapporti tra governo e Vaticano e, dall´altra, rende evidente una concorrenza tra i partiti di maggioranza, dove la Lega si offre alla Chiesa come l´interlocutore più affidabile, il vero partito cristiano.
Dopo che Bossi aveva esibito i suoi incontri ai più alti livelli, con la Segreteria di Stato e con il presidente della Cei, Berlusconi ha fatto la sua mossa. Debole com´è, bisognoso di una rinnovata legittimazione vaticana, ha cercato di tornare al centro del gioco, accettando la richiesta vaticana di tenere fermo l´impianto proibizionista e autoritario della legge sul testamento biologico. Inammissibile ingerenza della Chiesa o, invece, crescente debolezza della politica italiana? La risposta è nei fatti, nella sempre più marcata accettazione delle posizioni della Chiesa in tutte le materie che riguardano le decisioni sulla vita: la procreazione, con le resistenze contro la legittima utilizzazione della pillola Ru486; le relazioni personali, con la perdurante ostilità al riconoscimento delle unioni di fatto; il morire, appunto con la pretesa di cancellare la possibilità di libere scelte delle persone. In queste materie delicatissime si è ormai realizzata una cogestione tra governo italiano e governo vaticano.
2. Obiezione di coscienza. Per sfuggire a questa stretta e recuperare un po´ di autonomia per i parlamentari, si era invocata la loro libertà di coscienza, di cui lo stesso presidente della Camera si era fatto garante. Anche questa mossa rischia ora di essere vanificata. E però bisogna sottolineare che si tratta comunque di una iniziativa inadeguata rispetto alla specifica situazione che abbiamo di fronte. Infatti, quando le decisioni parlamentari incidono direttamente sul diritto delle persone di governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista. Qui la libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi "eticamente sensibili", la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, mentre finisce con l´essere minima quella delle persone alle quali si rivolge la legge. Ci si deve chiedere, allora, se siano in sé legittimi interventi legislativi tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, il diritto di ciascuno di governare liberamente la propria vita.
3. Habeas corpus. Questa è l´antica formula con la quale il sovrano si impegna a "non mettere la mano" sul corpo dei cittadini. È l´impegno che il sovrano democratico, l´Assemblea costituente, rinnova quando, nell´articolo 32 della Costituzione dedicato al diritto fondamentale alla salute, conclude perentoriamente che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Il Parlamento non può ignorare tutto questo, deputati e senatori debbono ricordare che, scrivendo quelle parole, l´Assemblea costituente era ben consapevole di porre un limite invalicabile al loro potere, di individuare un´area non solo sottratta all´arbitrio delle maggioranze parlamentari, ma indecidibile dal legislatore, dunque un luogo dove neppure la legge può penetrare. Questa logica costituzionale è sovvertita dal testo in discussione alla Camera. Il diritto fondamentale all´autodeterminazione è cancellato, perché si esclude il valore vincolante delle decisioni della persona riguardanti la fine della vita; e perché si impone a tutti l´obbligo di sottoporsi all´alimentazione e alla idratazione forzata, di cui abusivamente si nega il carattere di trattamento terapeutico, ignorando l´opposta opinione di quasi tutta la comunità scientifica proprio per cancellare il diritto, da lungo tempo riconosciuto, di rifiutare le cure. Siamo di fronte a un grave tentativo di impadronirsi della vita delle persone, di una mossa autoritaria che altera il rapporto tra Stato e cittadino. Cercando di reagire a questa deriva pericolosa, venti parlamentari della maggioranza avevano scritto al presidente del Consiglio una "lettera sul disarmo ideologico", proponendo "una riserva deontologica sulla materia del fine vita, demandando al rapporto tra pazienti, familiari, fiduciari e medici la decisione in ordine a ogni scelta di cura".
Da anni insisto sulla necessità di analizzare il rapporto tra la vita e le regole sottraendolo in generale alla pretesa di un diritto pervasivo, che si fa strumento di una politica che vuole impadronirsi della libertà delle persone. Ma non basta invocare un´assenza del diritto, che potrebbe poi lasciare il campo libero a qualsiasi incursione autoritaria. Bisogna seguire l´indicazione costituzionale e fondare l´autonomia della persona sul riconoscimento dell´intangibilità di tale autonomia. Una norma sobria, una soglia legislativa minima che riconosca che la zona dell´essere può essere "recintata" solo dallo stesso interessato. Se, invece, si confermerà la strada segnata dal testo già approvato dal Senato, non ci si dovrà poi meravigliare se la terribile e "politica" Corte costituzionale farà il suo mestiere e interverrà per eliminare le inammissibili limitazioni alla libertà delle persone. Non v´è dubbio, infatti, che siamo di fronte a un testo violentemente ideologico e giuridicamente sgangherato.
4. Privato e pubblico. Questo vuol forse dire che, rifiutando ogni intervento invasivo del legislatore, si deve pure invocare pure un generale disinteresse pubblico per le questioni di vita? La stessa Commissione parlamentare, ieri così irragionevolmente chiusa, ha approvato un testo per garantire l´accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore. Qui la presenza del legislatore non è invasiva o abusiva, non si sostituisce alla volontà della persona, ma consente a ciascuno di prendere le proprie decisioni in condizioni di vera libertà. Lo stesso accade quando si prevede una indennità per i familiari che assistono in casa una persona in stato vegetativo: lo ha fatto in febbraio l´Assemblea nazionale francese, lo ha appena deciso la Regione Lombardia. Qui il rapporto tra la vita e le regole non è affidato alla prepotenza, ma alla creazione di servizi adeguati, di un ambiente nel quale vengono rimossi gli ostacoli che limitano l´esercizio libero della volontà. Questo è il vero compito al quale la Repubblica, per rispetto della Costituzione, non può sottrarsi.

Repubblica 29.10.09
Lo Stato laico e l’ora di religione
risponde Corrado Augias

Egregio Augias, vedo nella sua rubrica lettere contrarie all'ora di religione cattolica, si propone lo studio di tutte le religioni. Mi domando se la proposta non nasconda il proposito di emarginare l'ora di religione cattolica. A suo tempo si propose, in alternativa all'ora di religione cattolica, la storia delle religioni, ma dopo attenta valutazione l'ipotesi fu scartata proprio da alcuni laici i quali temevano che una esposizione approfondita degli aspetti più controversi del Corano per esempio, potesse causare ostilità nei confronti dei musulmani. D'altra parte l'eventuale abolizione dell'ora di religione cattolica, scelta volontariamente dal 91% degli studenti, renderebbe più difficile comprendere la letteratura, l'arte e la storia del nostro paese. Attualmente questo insegnamento non è confessionale, ma solo una spiegazione di questa religione nella sua realtà. Certamente lei non spiegherebbe la religione cattolica ufficiale ma una sua interpretazione che non sarebbe più quella cattolica. Per questo gli insegnanti di questa religione sono scelti dai Vescovi. Per me padre di due figli questa è una garanzia perché desidero che conoscano la vera religione cattolica. Sappia che non sono il solo a pensarla così.
Carlo A. Innocenti ecofar2000@yahoo.it

Pubblico volentieri la lettera del signor Innocenti che racchiude buona parte dei pregiudizi sull'insegnamento confessionale della religione. Non mi risulta che siano stati "proprio alcuni laici" a dichiararsi contrari alla storia delle religioni. Ammesso che sia vero, la motivazione addotta mi pare debolissima. Nel Corano, come nella Bibbia e altrove, si trova tutto ciò che si vuole. Basta scegliere la citazione giusta e ogni fatto e misfatto può trovare un riferimento, se non una giustificazione, in un qualche testo sacro. La percentuale del 91 per cento di "scelta volontaria" scenderebbe notevolmente se la religione fosse collocata alla prima o all'ultima ora della giornata. A non farla scendere contribuirà anche l'eventuale inserimento della "religione" nella valutazione complessiva del profitto. Con quale rispetto della laicità non c'è bisogno di dire. Il signor Innocenti dice di desiderare che i suoi figli "conoscano la vera religione cattolica". È un suo diritto e va difeso non solo da lui ma da tutti. La vera questione però è se sia la scuola pubblica di uno Stato laico il posto più indicato dove essere istruiti non su una disciplina ma su una fede. L'entrata della religione nello spazio pubblico non significa che una particolare confessione debba assumere una posizione "dominante" e accaparrare per sé l'intero tempo disponibile. Mi dispiace constatare come questi elementari principi di un liberalismo affermatosi altrove fin dal XVIII secolo stentino in tal modo da noi.

Corriere della Sera 29.10.09
Come fare l’ora di religione tra Concordato e reciprocità
risponde Sergio Romano

Il cardinale Bagnasco ha detto che l’attuale ora di religione voluta dal Concordato non è di catechesi confessionale bensì una disciplina culturale, perché è indispensabile per comprendere la nostra cultura. Perché, allora, gli insegnanti sono scelti dai vescovi, anche se pagati dallo Stato Italiano, come se quelli nominati dal ministero non avessero i numeri per far comprendere ai ragazzi l’importanza che la religione ha avuto nella storia e nell’arte? Per sbrogliare questo nodo è più facile, politicamente s’intende, denunciare il Concordato o consentire l’ora musulmana, organizzarla, gestirla ecc.?
Quindi: più religione o meno religione?
Giorgio Costa

Non sono d’accordo sul fatto che dovrebbe essere inserita l’ora di religione islamica per la numerosità dei musulmani. L’Italia è un Paese cattolico e la religione ufficiale insegnata nelle scuole è il cattolicesimo.
Inglesi e tedeschi residenti in Italia non hanno mai chiesto che venisse inserita l’ora di religione protestante, ma hanno civilmente accettato le usanze del Paese che li ospita. Non capisco questa disponibilità nei confronti di un popolo che non accetta le nostre usanze e cerca di farci saltare per aria spesso e volentieri. E mi piacerebbe sapere se nel loro Paese i musulmani hanno la stessa disponibilità verso gli italiani che vi risiedono. Non credo proprio.
Maria Flumiani , Milano

Cari lettori,
Le vostre lettere (che mi spiace avere abbreviato per motivi di spazio) sollevano contemporanea­mente molti problemi. Cer­cherò d’individuarli e di ri­spondere brevemente.
Insegnamento della religio­ne cattolica nelle scuole pub­bliche. Lo Stato non dovreb­be avere l’obbligo d’insegna­re una religione, quale che sia, nelle sue istituzioni scola­stiche. Ha certamente l’obbli­go invece di assicurare le con­dizioni affinché ogni confes­sione religiosa possa libera­mente creare le proprie istitu­zioni e impartire il proprio in­segnamento. E può dare un contributo finanziario se que­ste istituzioni svolgono fun­zioni delegate e utili alla so­cietà nel suo insieme.
Concordato. Gli accordi fir­mati con la Santa Sede confe­riscono alla Chiesa il diritto d’impartire nelle scuole italia­ne un insegnamento religio­so facoltativo. È un errore, a mio avviso. Ma non credo che esistano in questo mo­mento le condizioni per una revisione del Concordato o per la sua abolizione. E non credo che sia nell’interesse ge­nerale del Paese avanzare pro­poste che contribuirebbero a rendere il suo clima ancora più agitato di quanto non sia. Ma sarebbe ora che il ministe­ro dell’Istruzione rendesse l’ora di religione effettiva­mente facoltativa offrendo agli studenti alternative credi­bili.
Musulmani e altri stranie­ri. Esiste una sostanziale diffe­renza. Gli inglesi, i tedeschi e gli svizzeri rappresentano pic­cole minoranze, sono general­mente benestanti e si sono spontaneamente organizzati, senza imbattersi in particola­ri difficoltà, con scuole, chie­se e istituzioni culturali. I mu­sulmani sono molto più nu­merosi, sono più poveri e tro­vano sulla loro strada, quan­do vogliono aprire una scuo­la o costruire una moschea, difficoltà spesso insormonta­bili.
Musulmani e terrorismo. Pensare che le comunità isla­miche siano la quinta colon­na del fondamentalismo è cer­tamente sbagliato. E temo che nell’errore si nasconda un pregiudizio razziale.
Reciprocità. Potrei dare qualche esempio positivo co­me la scuola dei salesiani al Cairo, frequentata anche da allievi musulmani. Ma prefe­risco ricordare che esistono due forme di reciprocità. La prima consiste nel concedere a uno straniero soltanto i di­ritti che il suo Stato concede agli italiani; la seconda consi­ste nel concedergli tutti i dirit­ti che lo Stato italiano conce­de, salvo accordi particolari, a tutti gli stranieri residenti nel Paese. Le buone democra­zie preferiscono la seconda.

Repubblica 29.10.09
La replica de ´"L´Osservatore Romano" all’articolo apparso ieri su "Repubblica"
La Chiesa insorge contro il teologo Küng

Il quotidiano del Vaticano definisce le accuse "false e inesatte" Il professore svizzero aveva criticato la decisione del Papa di accogliere i tradizionalisti anglicani

Città del Vaticano. Lontano dalla realtà». «Critiche ingiuste, aspre e senza fondamento», ma soprattutto «false e inesatte». Se non è una scomunica nel senso più classico del termine, poco ci manca. Anche perché, a richiamare con uno sferzante commento il teologo svizzero Hans Küng per le accuse rivolte - ieri su Repubblica - al Papa in seguito alla decisione di accogliere nella Chiesa cattolica i tradizionalisti anglicani (compresi vescovi, pastori e seminaristi sposati), è l´Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede oggi in edicola. L´altolà arriva sotto forma di editoriale pubblicato, autorevolmente, in prima pagina e firmato dal direttore del giornale vaticano, lo storico Giovanni Maria Vian, il quale - fin dalle prima battute - lamenta che «ancora una volta una decisione di Benedetto XVI torna a essere dipinta con tinte forti, precostituite e soprattutto lontanissime dalla realtà».
Da qui il titolo dell´editoriale con un eloquente «Lontano dalla realtà» che, in un certo senso, controbatte l´altrettanto eloquente titolo del testo di Küng - «Quel Papa che pesca nell´acqua di destra» - nel quale si accusa, tra l´altro, Ratzinger di voler «rimpolpare» le file cattoliche aprendo le porte della Chiesa di Roma ai gruppi più reazionari e conservatori, come dimostra la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani ed ora col sì agli anglicani tradizionalisti. Decisione, quest´ultima, definita da Küng «una tragedia» per l´ecumenismo «dopo le offese già arrecate da Benedetto XVI agli ebrei e ai musulmani, ai protestanti e ai cattolici riformisti».
Critiche, richiami ed accuse seccamente rispedite al mittente, anche se il giornale della Santa Sede non nasconde il timore che «l´articolo circolerà molto e contribuirà a una rappresentazione tanto fosca quanto infondata della Chiesa cattolica e di Benedetto XVI». Un testo scritto - per di più - da un teologo, Hans Küng, «suo antico collega e amico, che lo stesso Papa nel 2005, solo cinque mesi dopo la sua elezione, volle incontrare, in amicizia, per discutere delle comuni basi etiche delle religioni e del rapporto tra ragione e fede». Un incontro clamoroso ed inatteso «benché nel 1979, agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, Küng - ricorda Vian con una malcelata vena polemica - fosse stato sanzionato per alcune sue posizioni dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (allora guidata dal cardinale croato Franjo Seper) che, al termine d´un procedimento iniziato negli ultimi anni di Paolo VI, dichiarò di non poterlo considerare un teologo cattolico». «Da allora - prosegue il direttore del quotidiano pontificio - più volte, Küng, infallibilmente ripreso da influenti media, è tornato a criticare, con asprezza e senza fondamento, Benedetto XVI».
«Come fa adesso, rilanciato con clamore in Inghilterra da The Guardian e in Italia da la Repubblica, che certo - teme Vian - non resteranno le uniche testate nel mondo a pubblicare il suo articolo, a proposito dell´annuncio, davvero storico, da parte della Santa Sede della prossima costituzione di strutture canoniche che permetteranno l´entrata nella comunione con la Chiesa cattolica di molti anglicani. Un gesto che è volto a ricostituire l´unità voluta da Cristo e riconosce il lungo e faticoso cammino ecumenico compiuto in questo senso, ma che viene distorto e rappresentato enfaticamente come se si trattasse di un´astuta operazione di potere da leggersi in chiave politica, naturalmente di estrema destra». «Non vale proprio la pena sottolineare le falsità e le inesattezze di questo ultimo scritto di Küng, i cui toni ancora una volta non fanno onore alla sua storia personale...», conclude Vian, dopo aver espresso tutta la sua «amarezza di fronte a questo ennesimo gratuito attacco alla Chiesa di Roma e al suo indiscutibile impegno ecumenico».

Corriere della Sera 29.10.09
Il nastro bianco
Il villaggio inquietante di Haneke: nei bambini i germi del nazismo
di Paolo Mereghetti

La prima idea per questo film — l’ha dichiarato il regista alla rivi­sta Positif — risale al 1970, leg­gendo una sceneggiatura su dei bambi­ni rinchiusi in un orfanotrofio/riforma­torio e firmata da Ulrike Meinhof, ai tempi non ancora passata alla lotta ar­mata. Da allora, l’idea dei condiziona­menti che l’ambiente sociale esercita sui più piccoli non ha smesso di interes­sare Haneke, anche se l’impegno e l’am­piezza della storia che andava elaboran­do gli faceva sempre rimandare il pro­getto. È riuscito a realizzar­lo solo un anno fa, grazie al­l’impegno di quattro diver­si produttori (tra cui l’italia­no Andrea Occhipinti) e il risultato è stato la conqui­sta della Palma d’oro all’ulti­mo festival di Cannes.
A maggio, dopo la visio­ne non certo ottimale du­rante il festival, mi era sembrato che il «marchio di fabbrica» dell’ambiguità, che Haneke usa spesso nei suoi film per dare un diverso spessore alle storie che racconta, qui fosse usato in manie­ra fin troppo programmatica. Tale da non cancellare l’impressione di una cer­ta meccanicità. Adesso, rivisto per l’edi­zione italiana (per una volta doppiata ottimamente, a partire dalla voce nar­rante di Omero Antonutti), il film mi è sembrato più ricco e meglio costruito, anche se qualche perplessità di fronte agli elogi quasi unanimi resta.
Ambientato nel 1913, in un piccolissi­mo villaggio della Prussia, il film rac­conta una serie di strani «incidenti» av­venuti nel giro di un anno: qualcuno ha tirato un filo tra due alberi per far cade­re il dottore che tornava a cavallo; due dei bambini, il figlio del barone e quel­lo, ritardato, della levatrice, subiscono a distanza l’uno dall’altro due incom­prensibili «punizioni» (so­no ritrovati legati, picchia­ti e, nel caso del bambino ritardato, quasi accecato); il granaio va a fuoco. Senza che se ne scoprano i re­sponsabili, nonostante le inchieste della polizia. Nel­lo stesso periodo avvengo­no anche altri misfatti — dalla morte di una contadina claudican­te per l’incuria in cui era lasciata una se­gheria allo sfregio fatto al campo di ca­voli del barone (padrone naturalmente anche della segheria) dal figlio maggio­re della donna morta, all’atto di ribellio­ne della figlia del pastore locale — che contribuiscono a rendere sempre più elettrica e angosciosa la vita quotidia­na.
Haneke, che affida la narrazione ai ri­cordi del maestro ele­mentare diventato vec­chio, gioca abilmente con l’ambiguità e il non-detto per trasmet­tere allo spettatore lo stesso sentimento di in­sicurezza e di frammen­tazione. Identifica gli adulti con la loro fun­zione sociale (il baro­ne, il medico, il pastore, l’insegnante, il contadino) e attribuisce i nomi propri esclusivamente ai bambini e alle don­ne, ricostruendo una struttura sociale retta rigidissimamente sul dominio di classe e sulla perpetuazione dei valori cristiano-borghesi. E usa il bianco e ne­ro per aumentare il senso di ieraticità e di immutabilità che nemmeno il cam­bio delle stagioni sembra capace di scal­fire.
In questo modo offre allo spettatore il ritratto di una comunità apparente­mente solidissima e che invece nascon­de al suo interno gli elementi che pos­sono farla implodere. E che gli occhi dei bambini si incaricano di svelare allo spettatore, a volte in maniera inconscia (il figlio del dottore che vede quello che solo un adulto può leggere come un tentativo di incesto sulla sorella mag­giore), a volte in maniera più esplicita (il furto dello zuffolo al figlio del baro­ne).
Il messaggio è chiaro. Lo dice la voce del maestro all’inizio del film quando spiega che quei fatti possono chiarire «alcuni processi maturati nel nostro Pa­ese » e l’allusione al nazismo che subito dopo la prima guerra mondiale prese piede in Germania è fin troppo chiara. Proprio come il significato del nastro bianco (che dà il titolo al film) e che il pastore lega al braccio di due suoi figli, in passato «simbolo di purezza» e inve­ce adesso «segnale di peccato». Le cose più pure e incontaminate, come i bam­bini, possono nascondere dentro di sé i germi del male, soprattutto se costretti a seguire regole di comportamento co­sì rigide e assolute.
Ma è proprio questo passaggio che la­scia qualche dubbio, perché se è indub­bio che i rigidi valori conservatori su cui era fondata la Germania, e non solo la Germania, all’inizio del secolo non potevano non innescare violenze e pul­sioni distruttive, è un po’ superficiale pensare che solo da lì sia nato il nazi­smo, «inventato» da una generazione che da bambina era stata educata con principi troppo coercitivi e punitivi. L’ambiguità che in altri film Haneke usava per mettere in crisi le certezze dello spettatore, qui si ribalta nel suo opposto: dietro la rigidità morale si na­sconde il verminaio, dietro il rigore c’è il masochista (vedi il dottore) o il bigot­to (il pastore). Possibile, ma non neces­sario. E riduttivo rispetto alla complessi­tà del reale che pure Haneke racconta magistralmente, come quando allude ai tormenti della baronessa.

Corriere della Sera 29.10.09
La sorpresa di Bellocchio: uno spot per la banca
di R. S.

MILANO — Marco Bellocchio debutta nella pubblicità. Il regista simbolo dell’impegno ha diretto il nuovo spot di una banca. Il «cortissimo», durata 1 minuto e mezzo circa, titolo «Una storia italiana dal 1472», si può vedere da ieri in anteprima su Internet, all’interno del canale YouTube del Monte dei Paschi di Siena (nella foto il regista con il presidente Giuseppe Mussari). In tv lo vedremo solo a partire da domenica. Lo spot, del quale esistono diverse versioni, è costato circa 10 milioni di euro, racconta una giornata italiana vista da diversi punti di vista e omaggia anche alcuni simboli del made in Italy, dal design alla cultura di oggi, all’arte di ieri. «È stata un'esperienza che ho vissuto benissimo», ha commentato Bellocchio. Il regista ha anche spiegato perché in passato ha rifiutato più volte di dedicarsi alle campagne pubblicitarie: «In certi anni, se stavi a sinistra, fare pubblicità poteva essere penalizzante anche ideologicamente». La colonna sonora della campagna è «Il cielo è sempre più blu» di Rino Gaetano.

Repubblica Lettere 29.10.09
Il Dizionario Biografico alle prese col budget
Alla discussione relativa al Dizionario Biografico degli Italiani vorrei aggiungere una mia personale esperienza. Spesso lo studioso incaricato di redigere la biografia di un personaggio deve spostarsi, a proprie spese, per consultare libri rari o manoscritti (io personalmente ho passato recentemente qualche giorno a Genova a leggere le carte di un frate vissuto nel Settecento fra Roma e la Liguria di cui sto scrivendo la "voce"). Il compenso, non certo faraonico, corrisposto agli autori molte volte si riduce quindi a un rimborso spese per viaggi, telefonate e fotocopie: eliminarlo porrà i collaboratori del Biografico, spesso dottorandi o ricercatori precari, nella condizione di dover scegliere se scrivere i loro articoli con il materiale che hanno sotto casa, o continuare a farlo a regola d'arte rimettendoci di tasca propria.
David Armando