lunedì 2 novembre 2009

l’Unità 2.11.09
Scarti sociali
di Luigi Manconi

In carcere ci si toglie la vita 15-17 volte più di quanto si faccia fuori dal carcere. Nel corso del 2009 i suicidi sono stati 61: se tale ritmo dovesse continuare, avremmo a fine anno il più alto numero di suicidi dal 1990. Ci si ammazza, in carcere, con tutte le modalità che fantasia e disperazione suggeriscono: fornello a gas, chiodi e pezzi di vetro, autosoffocamento, impiccagione. A quest’ultimo metodo ha fatto ricorso Diana Blefari.
La domanda, quasi elementare, è: perché mai si trovava in carcere e non in una struttura psichiatrica protetta? Si intende: una struttura da cui non poter evadere e in cui scontare il suo ergastolo, ma curata per i gravi problemi psichici che, da molto tempo, aveva manifestato. E che decine di perizie avevano documentato. Al punto che, quando mi trovai ad avere tra il 2006 e il 2008 la responsabilità politica del sistema penitenziario, sollecitai la sua assegnazione a un regime che ne garantisse la «sorveglianza a vista 24 ore su 24».
Dunque, altro che suicidio annunciato. È stato un atto dichiarato, proclamato, per così dire atteso. Come in tanti altri casi, dove i reiterati tentativi di autolesionisno non ottengono una vigilanza sufficiente a sventare l’ultimo, quello definitivo. E così, nel corso di pochi giorni, dalle carceri italiane sono giunte tre terribili notizie: oltre a quella su Diana Blefari, quella su Stefano Cucchi e quella sul carcere di Teramo, dove il comandante dà istruzioni a un sottoposto su come «picchiare» i detenuti in assenza di testimoni.
In tutti questi casi, c’è un tabù che fatica a emergere: ed è l’idea che ciò possa accadere perché le vittime, alla resa dei conti, sono degli scarti sociali. È ovvio: la coscienza democratica, di destra e di sinistra, mai lo ammetterà, ma a ben vedere a questo tende l’orientamento di senso comune che, dopo il primo momento di emozione, sembra dominare. Cucchi: tossicomane, epilettico, piccolo spacciatore, forse sieropositivo; Blefari: quella che partecipa attivamente all’omicidio di Marco Biagi.
Il primo socialmente inerme ed esposto alla marginalità, la seconda condannata per un crimine efferato. Siamo proprio sicuri è questo il dubbio che si insinua nella mentalità collettiva che meritino tutte le garanzie e tutti i diritti che spettano a quegli irreprensibili che noi siamo?
La risposta è scontata, ma non per questo meno faticosa da elaborare e, soprattutto, da sostenere fino in fondo. Ogni vita in sé merita il massimo di tutela e quella tutela ha da essere ancora più salda quando la possibile vittima, a prescindere dal suo passato e dal curriculum penale, è affidata alla custodia dello Stato. Da quel momento, quella vita dev’essere sacra per chi (lo Stato e i suoi apparati) la riceve nelle proprie mani. Non solo. Il sistema delle garanzie è indivisibile: ridurre un diritto della Blefari significa accettare un processo che porta, fatalmente, alla riduzione di un diritto equivalente per il più incensurato dei cittadini. Dunque, come hanno affermato uomini saggi: la qualità di una democrazia la si verifica all’interno delle sue galere.

Repubblica 2.11.09
Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri: dietro le sbarre ancora troppi diritti disattesi
"Era malata, non poteva stare dentro inascoltate decine di perizie psichiatriche"
di Alessandra Retico

I segnali di instabilità psichica erano evidenti e reiterati da anni. Eppure non è stato fatto niente
Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere. Insensato
Ai reclusi si dovrebbero dare speranze e chance: soluzioni impensabili per questo governo

ROMA - «Morte annunciata». Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi con delega alle carceri (2006-2008), presidente dell´associazione "A buon diritto", ha seguito da vicino il caso di Nadia Blefari.
Professore, se lo aspettava?
«Mi occupai di lei all´epoca del mio incarico nel precedente governo, sollecitando l´amministrazione penitenziaria a seguire con particolare attenzione una persona reclusa che, già allora, mostrava segni evidenti e reiterati di instabilità psichica. Eppure non è stato fatto niente».
Ci furono anche molte perizie.
«Decine. Tutte quelle cui la Blefari è stata sottoposta in questi anni hanno dato una diagnosi inequivocabile: "Gravi disturbi mentali". Non mi pare che ci si possa confondere, sono valutazioni che stanno lì a testimoniare di una condizione che avrebbe dovuto imporre il suo ricovero in una struttura psichiatrica protetta».
Invece?
«Condannata all´ergastolo: come dire, segnata dal destino».
La vicenda Cucchi è assai diversa.
«È entrato con le sue gambe in caserma e ne è uscito cadavere. Ma il problema non è (solo) la disumanità della galera, a me interessano i diritti disattesi. Se tu cedi un diritto, rinunci a un sistema generale di garanzie. Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere per contenere i reati minori e le più nuove aggravanti come quello della clandestinità: a giugno prossimo avremo oltre 70 mila detenuti. Assurdo, folle, insensato».
C´è una relazione tra sovraffollamento e suicidi?
«C´è un dato inequivocabile, prodotto da molti studi: in carcere ci si ammazza tra le 15 e le 17 volte più che fuori, più i giovani che gli anziani, più nei primi giorni dell´ingresso negli istituti penitenziari che non dopo. Inutile mettere dentro chi può stare fuori».
Per esempio?
«Gli indiziati di reati minori, i clandestini. Ogni anno passano per la galera circa 170mila persone, recluse per non più di tre giorni e poi scarcerate. Mettere una persona in prigione per tre giorni non ha senso. Non punisce, non sanziona, non educa, non salva. L´unica cosa che si ottiene è l´intasamento: il personale non c´è, non ce la fa».
Cosa servirebbe?
«Attese, chance, speranze. Posto che ogni suicidio è ovviamente una storia a sé, la tentazione a togliersi la vita nei detenuti è legata da una parte all´assenza di qualsiasi aspettativa, dall´altra all´impatto con una realtà oscura, con le sue regole, i suoi sistemi di relazioni».
Provvedimenti pratici?
«Nella precedente amministrazione, furono due, entrambi disincentivanti: l´indulto e i presidi ai nuovi giunti, quelli cioè che sono appena arrivati in carcere, alcuni di loro per la prima volta. Tutte e due le soluzioni sono oggi fuori dall´orizzonte di questo governo: a chi è dentro non si dà fiducia di poter invertire quel punto di non ritorno, a chi vi arriva, magari per reati minori, non si dà l´assistenza necessaria per superare quel trauma che può disarticolare un´esistenza. L´unica soluzione è depenalizzare e ricorrere a misure alternative».

Repubblica 2.11.09
Il diritto all’umanità
di Michela Marzano

In carcere per l´omicidio di Marco Biagi, commesso nel 2002, la terrorista Diana Blefari si è uccisa dopo aver ricevuto notifica della sentenza della Corte di Cassazione che confermava il suo ergastolo.
Si è impiccata facendo un cappio con le lenzuola del letto, nella sua cella di Rebibbia. Le condizioni psichiche della terrorista erano pessime. Molti lo sapevano. I medici del carcere ne avevano già chiesto il trasferimento in un´altra struttura più idonea e avevano sottolineato, a varie riprese, il rischio di un gesto irreversibile. "Un suicidio prevedibile", dichiara Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio. "Il sessantesimo caso di suicidio in carcere dall´inizio dell´anno", ribadisce il presidente dell´associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti. Come è possibile che un paese democratico che proclama l´universalità dei diritti dell´uomo e considera la dignità della persona un valore supremo da rispettare sempre e comunque non prenda le misure adeguate per evitare una tragedia come questa? Per quanto in prigione per ragioni legittime, nessun detenuto merita questa sorte.
La necessità di far rispettare la legge uguale per tutti, è fuori discussione. Non si tratta in alcun modo di mettere in dubbio uno dei cardini della giustizia, il principio chiave di ogni sistema giudiziario, in base al quale ad ogni crimine corrisponde una pena. L´esistenza di un´infrazione, di un crimine o di un delitto merita la giusta punizione. Non solo perché si sono infrante delle leggi e si è messo in pericolo l´ordine pubblico, ma anche e soprattutto perché, nel caso di crimini contro le persone, in particolare un omicidio, qualcuno si è arrogato il diritto di alzare la mano contro un altro essere umano. Esistono dei doveri cui tutti devono sottoporsi e, nel momento in cui questi non vengano rispettati intenzionalmente (mens rea), non si è solo responsabili, ma anche colpevoli.
Ma cosa significa punire? Come determinare la pena adeguata per l´autore di un crimine senza tornare alla legge del taglione? "Occhio per occhio, dente per dente", recita l´adagio. Ma la giustizia comincia dal momento in cui si abbandona la logica della vendetta per definire una pena proporzionale al delitto commesso. Nel famoso saggio di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, il filosofo milanese insisteva sul ruolo preventivo della pena. Per Beccaria il fine delle pene non doveva essere "vendicativo", ma "rieducativo". È per questo che oggi si è d´accordo nel ritenere che una sanzione sia giusta non soltanto se è proporzionata alla colpa, ma anche se l´autore di un delitto o di un crimine è riconosciuto legalmente responsabile, ossia capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Una volta, però, che la pena è stata pronunciata, in che modo applicarla? Si possono dimenticare le circostanze particolari in cui si trovano i condannati, e non fare attenzione allo stato di salute di coloro che, privati della libertà personale, scontano la propria pena in carcere?
"Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona", sostiene la legge promulgata nel 1975 per regolamentare le condizioni di vita delle carceri italiane. Eppure, in questi ultimi anni, le condizioni di vita dei carcerati sono diventate sempre più precarie. Gli spazi disponibili si sono drasticamente ridotti. I momenti comunitari sono scomparsi. Il numero dei suicidi è aumentato in modo esponenziale. Al punto tale che l´Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell´uomo per "trattamenti inumani e degradanti". Questo ultimo gesto drammatico, il suicidio di Diana Blefari, non è che un sintomo supplementare; il segno che qualcosa non funziona più. Come dice il Conseil d´État in Francia, l´amministrazione penitenziaria – e più generalmente lo Stato – è responsabile dello stato di salute di un detenuto e colpevole di mancata vigilanza nel caso di un suicidio (CE, 9 luglio 2007)
Diana Blefari era malata. Il suo stato psichico necessitava il ricovero. La sua fragilità aveva bisogno di un´attenzione che nessuno dovrebbe negare a chi, pur colpevole, soffre talmente tanto da non esitare a mettere fine ai propri giorni. Punire non significa dimenticarsi che ciò che ci rende umani non è solo la capacità di vivere in una società rispettandone le regole, ma anche e soprattutto la compassione di fronte alla sofferenza.
Se vuoi conoscere davvero un paese, diceva Voltaire, visitane le prigioni.

l’Unità 2.11.09
Era reclusa a Rebibbia. I medici ne avevano chiesto il ricovero in una struttura più idonea
Ha eluso la sorveglianza e tagliato le lenzuola. Aperta un’inchiesta. Forse voleva collaborare
La Br Blefari s’impicca in cella Le perizie: era depressa grave
Diana Blefari Melazzi, condannata in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi, si è impiccata sabato sera nella sua cella di Rebibbia. La donna da tempo soffriva di disturbi psichici.
di Massimo Solani

La condanna
Solo poche ore prima aveva avuto la notifica definitiva dell’ergastolo

Il fragile equilibrio su cui la mente di Diana Blefari Melazzi si reggeva da anni si è spezzato ieri pomeriggio quando dall’ufficio matricole del carcere romano di Rebibbia le hanno notificato la sentenza con cui la Cassazione, soltanto quattro giorni prima, l’aveva condannata definitivamente all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi. Confermata la seconda sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna dopo che la prima era stata annullata per un vizio di motivazione proprio relativo alla sua condizione psichica. Diana Blefari ha atteso qualche ora poi, intorno alle dieci e mezza di sera, ha annodato insieme alcune lenzuola che aveva tagliato e si è impiccata nella sua cella, reparto detenuti comuni della sezione femminile, a pochi metri dal gabbiotto della polizia penitenziaria. Le agenti in servizio hanno sentito un tonfo sordo. Quan-
do sono arrivate non c’era più niente da fare. Aveva 43 anni, ed era stata arrestata sul litorale romano il 22 dicembre del 2003 perché affittuaria del “covo” di via Montecuccoli e indicata dalla pentita Cinzia Banelli come componente della staffetta che aveva pedinato, anche il 19 marzo 2002 sera dell’omicidio Marco Biagi.
«FORTEMENTE PROVATA»
Sulla dinamica del suicidio il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha annunciato l’apertura di una inchiesta amministrativa parallela a quella già aperta dalla procura. Atti che serviranno a verificare se la sorveglianza disposta nei confronti di Diana Blefari, che non era più detenuta al 41 bis, fosse adatta alle sue condizioni di salute. Soltanto giovedì, infatti, la donna era stata visitata da uno psichiatra che, dopo la notizia della sentenza della Cassazione, aveva definito «fortemente provato» lo stato d’animo dell’ex br accertando un «forte stato di prostrazione» correlato alla depressione che era stata riscontrata anche nell’ultima perizia psichiatrica eseguita ad aprile. E che per la detenuta concreto fosse il rischio di suicidio lo avevano scritto anche i consulenti della sua difesa nel 2006 spiegando che la Blefari era affetta da uno stato paranoide di origine psicotica. «Insomma da anni denunciavamo che Diana non stava bene ricorda l’avvocato Caterina Calia Qualcuno adesso avrà capito che il nostro allarme non è mai stato preso in considerazione». In realtà, proprio per le sue condizioni di salute, alla Blefari un anno e mezzo fa era stato revocato il carcere duro (il 41 bis) e su disposizione del Dap erano state messe in atto misure specifiche: il blindato della sua cella, infatti, restava costantemente aperto e al personale di polizia penitenziaria era stato prescritta una sorveglianza continua. «Una sistemazione corretta» ha spiegato il capo del Dap, Franco Ionta, che ieri pomeriggio si è recato a Rebibbia per un sopralluogo. Nel carcere romano la Blefari era tornata da appena 10 giorni lo scorso 21 ottobre e dove nel 2008 aveva aggredito un agente di polizia penitenziaria (il processo si sarebbe dovuto aprire a metà novembre). In precedenza l’ex brigatista aveva a lungo peregrinato fra l’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino, i centri di detenzione de L’Aquila e quello fiorentino di Sollicciano dove, per le sue condizioni di salute, era stata sottoposta ad un trattamento sanitario obbligatorio. Proprio a Rebibbia Diana Blefari avrebbe dovuto incontrare a giorni gli inquirenti romani che stanno indagando su Massimo Papini, l’uomo arrestato lo scorso primo ottobre perché sospettato di aver fatto parte del gruppo romano che faceva capo a Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi. Papini, infatti, negli scorsi anni era stato legato sentimentalmente alla Blefari e a suo carico gli inquirenti avevano raccolto dei contatti telefonici con la ex Br passati attraverso alcune utenze cellulari utilizzate dall’organizzazione. Dettagli sui quali Blefari aveva chiesto ufficialmente alla Digos e al pool antiterrorismo di essere ascoltata. ❖

l’Unità 2.11.09
Di carcere si muore. Situazione invivibile. Tagli continui del governo, mancano 6mila guardie
La carenza d’organico nel femminile di Rebibbia è del 40%. A Verona un giovane s’impicca
Ventimila detenuti di troppo. Pochi gli agenti, già 61 suicidi
Il governo promette da tempo il nuovo e rivoluzionario «piano carceri», ma intanto il numero dei detenuti è già ben oltre il tollerabile. In compenso diminuiscono gli agenti di polizia penitenziaria.
di Massimo Solani

Le carceri italiane sono sull’orlo del collasso

In carcere si muore, di carcere si muore. Si muore per cause misteriose, come Stefano Cucchi il 22 ottobre, o si muore per malattia (l’ultimo Marcello Calì, deceduto a Poggioreale il 28 ottobre). E quest’anno sono già 147 i detenuti che hanno perso la vita dietro le sbarre, più del 2008 (142), più del 2007 (123) e del 2006 (134). Ma in carcere si muore soprattutto per suicidio: Domenico Improta, 29 anni, che ieri a Verona si è impiccato con la sua maglietta, è stato l’ultimo. Aziz, un marocchino di 34 anni morto nel carcere di Spoleto il 3 gennaio, era stato il primo. In mezzo a loro, nelle statistiche, tanti nomi senza volto di una catena ininterrotta che conta già 61 maglie. Sessantuno casi di suicidio che fanno già del 2009 l’anno più nero dal 2001 ad oggi.
ALLARME SOVRAFFOLLAMENTO
C’è un dato che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia ha ritoccato per l’ultima volta due settimane fa: 64.979. Tanti sono infatti i detenuti nelle carceri italiane, che da regolamento potrebbero contenere soltanto 43.074 ospiti e che, a voler chiudere un occhio sulle brande ammassate nelle celle e sui turni per dormire, potrebbero “tollerare” fino a 64.111 detenuti. Sempre 800 in meno di quanti sono oggi dietro alle sbarre. Siamo oltre il tollerabile, insomma, come recita il titolo dell’ultimo rapporto curato dall’associazione Antigone. Il tollerabile di una situazione diventata emergenza stabile, il tollerabile di un problema che il governo Berlusconi annunciava di voler risolvere in un “amen” e che invece è ancora tutta lì, ogni giorno peggiore.
PIÙ DETENUTI, MENO AGENTI
Anche perché nel frattempo, grazie al combinato disposto Lega-Tremonti fra tagli al bilancio e sicurezza da spot, nelle carceri italiane si assiste ad uno strano fenomeno. Mentre aumentano i detenuti (a gennaio erano 59.060 oggi sono 64.979) a diminuire sono gli agenti di polizia penitenziaria: a gennaio in servizio ce n’erano 39.156, a fine agosto erano già 38.549 di cui soltanto 35.343 al lavoro negli istituti. Sarebbe a dire che le scoperture nell’organico sono il 15% rispetto al personale previsto (41.268). La situazione peggiore è quella della Liguria dove lo scoperto raggiunge il 33%, mentre nel Lazio è “soltanto” del 20%. Prendiamo il caso di Rebibbia, dove Diana Blefari Melazzi si è impiccata sabato approfittando di un momento di distrazione degli agenti. «Il Dap è gravemente colpevole accusava ieri Leo Beneduci, segretario dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria per una insostenibile carenza di organico che a Rebibbia femminile è arrivata al 40%». «Attualmente ha proseguito Beneduci ci sono 330 detenute, di cui 88 nel reparto dove era detenuta la Blefari. Le agenti dovrebbero essere 164 ma sono 110. E questo perché il Dap continua a distaccare personale femminile per impiegarlo in servizi amministrativi. Proprio sabato, quando due agenti sono rientrate da L’Aquila, altre tre sono state distaccate al Dap. Non ne possiamo più». Un problema che Franco Ionta, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, conosce bene. A lui il governo ha chiesto di trovare il modo per costruire subito nuove carceri, ma l’ex procuratore aggiunto di Roma, presentando il suo piano a maggio al ministro della Giustizia Alfano, non ha potuto fare a meno di sollevare due problemi: mancano i soldi per costruire nuove carceri, e comunque ci sono migliaia di agenti penitenziari in meno rispetto all’organico previsto. Una situazione, ha spiegato Ionta, che ovviamente peggiorerà con l’apertura di nuove strutture. ❖

l’Unità 2.11.09
Intervista a Guido Calvi
«Tossicodipendenti, immigrati.
Le nostre carceri scoppiano»
Sovraffollamento. «Ogni mese la popolazione dei penitenziari aumenta di mille unità Una tragedia che accomuna detenuti e agenti. Così è impossibile ogni reinserimento»
di Toni Jop

Depenalizzare
«Il carcere deve restare la soluzione estrema. Che senso ha trattenere in cella chi si droga o l’immigrato non in regola?»

Stefano Cucchi è morto “per caso” in cella; ma Diana Blefari Melazzi si è certamente suicidata. Modi diversi per dire addio alla vita nel suggestivo scenario delle carceri italiane, anzi, in questi due casi, romane. Qualunque cosa sia successa a Stefano per metterlo in quelle terribili condizioni, l’atrocità della sua morte ha comunque riportato a galla un problema e una consuetudine antichi: la violenza, omologabile alla tortura, che si consuma ancora tra le maglie del nostro sistema di sicurezza con perseveranza endemica. L’Europa ha obiettato al nostro dispositivo carcerario che la tortura esiste già nel costringere i detenuti in spazi pro capite inferiori ai tre metri quadri. Ne parliamo con Guido Calvi, uno dei più bravi e impegnati penalisti d’Italia.
Che accade? La cronaca non ci aiutano a ricordare che in questa terra è stata cancellata dall’ordinamento giuridico la pena di morte. Nelle nostre celle si muore troppo facilmente... «Veramente il nostro Paese è anche quello che nell’articolo 27 della sua Carta costituzionale prevede, riferendosi alla pena, la rieducazione e la reintroduzione di chi ha sbagliato nella società civile. Tanti altri paesi non hanno inteso dare al trattamento della pena un senso così elevato e profondamente umano...»
Tanto peggio, allora. Cos’è che ci spinge indietro con tanta brutalità? «Partiamo da un dato: il sovraffollamento. E ogni mese questa popolazione aumenta di mille nuove unità. Siamo del tutto fuori norma e chi afferma che la soluzione è aumentare “i posti letto” non capisce la radice del problema. Ma ecco altri elementi utili: quest’anno si sono tolti la vita tre agenti della polizia penitenziaria. Questo, mentre sempre nel 2009 si registra un incremento di 20 casi di suicidio tra i detenuti. Per restare ad ottobre, otto detenuti sono morti in cella, di cui tre suicidi, tre per malore e due per cause non ancora accertate, tra cui anche il povero Stefano Cucchi. Siamo di fronte a una tragedia immensa che accomuna detenuti e personale carcerario. Una defaillance di sistema e non è una banale questione di cubature...»
Arriviamo alla radice, se esiste...
«Mi aiuto ancora con delle quantità. Un terzo degli ospiti delle nostre carceri sono tossicodipendenti, un terzo extracomunitari, un terzo, infine, sono dentro per reati comuni. A parte il fatto che da questo elemento si può prendere atto di come sia praticamente impossibile per un colletto bianco finire in prigione, e la gente lo sa, ecco che sotto questa luce si possono prendere in considerazione le responsabilità di due leggi ad hoc, quella, appunto, sulle tossicodipendenze e quella sulla clandestinità. Queste sono le chiavi principali della situazione che stiamo cercando di affrontare. Se decidiamo che un ragazzo come Stefano Cucchi può finire in prigione in quelle condizioni, se vogliamo punire con il carcere l’extracomunitario che non ha documenti regolari, non possiamo allargare la cubatura delle prigioni per risolvere il problema, le celle non basteranno mai». Depenalizzare è la via d’uscita? «Operare attraverso altri strumenti restrittivi, il carcere deve restare la soluzione estrema. Che senso ha, anche sotto il profilo del dettato costituzionale, trattenere in cella migliaia di persone che si drogano? Sanzioni amministrative, allora, e interdizioni. Al medico che prescrive il doping per un ciclista, si può comminare la sospensione dall’esercizio della professione, per esempio».

domenica 1 novembre 2009

l’Unità 1.11.09
In memoria di un socialista eretico
Riccardo Lombardi 25 anni dopo
di Carlo Patrignani

Lo si è ricordato, Riccardo Lombardi ma per un tempo troppo breve un mese e mezzo fa in occasione dei 25 anni dalla sua cremazione senza riti religiosi. D’altra parte, disse nel 1984, uno degli migliori sindacalisti della Cgil e suo «amico compagno», Fausto Vigevani, «nemmeno per poche ore i “vincitori” possono permettersi che appaia e resti sulla scena oltre il minimo indispensabile». E i “vincitori” sono quelli che ieri come oggi non ne sopportano più di tanto la presenza scomoda.
Qualche esempio. L’onestà. «Cosa mi ha insegnato la vita? Ad esser onesto, innanzitutto». Questo il suo principio morale fondante che ripeteva quotidianamente. La carriera? «Non amo le poltrone», disse a Aldo Moro che gli offriva il Ministero del Bilancio nel ‘64. Avere più soldi? «Non avrei saputo che cosa farne. Non ho neppure una casa. Mi basta poter comperare dei libri». La politica? «È dialettica, confronto: a noi non è dato smettere di far ricerca». Per trovare una «via d’uscita» dall’ordine economico e politico capitalistico e arrivare ad una società socialista, quella che «riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di decidere della propria esistenza e di costruire la propria vita». Una società «diversamente ricca», dove il benessere non è più salario e beni voluttuari, ma più dignità, più tempo libero per sé e per far l'amore, più cultura, per realizzare la propria identità.
Politico eretico identificava il capitalismo nei gruppi parassitari e nelle rendite in mano ai nani e avvertiva nel 1975 che il fascismo, «è anche violenza (...) ma finalizzata alla conservazione di certi poteri e di certi privilegi».
L'Ingegnere «a-comunista» allergico ai dogmi infallibili e alle verità rivelate, ha lasciato un patrimonio di idee, proposte ed intuizioni che sono di tutta la sinistra, di chi ama la democrazia. Mi ritrovo con quanto scrisse Giorgio Ruffolo a Fausto Bertinotti nel rifiutare l’invito ad una commemorazione dell' Ingegnere. «Mi scuso ancora per la defezione e le noie che ti ha procurato. Sento il bisogno di ripetere che in questa decisione non c’è traccia di razzismo politico. Si può mutare campo senza incorrere in anatemi. Credo tuttavia che se ne debba pagare il costo. Che, nel caso specifico, è almeno quello di osservare una certa “discrezione” rispetto alla memoria di persone cui si sono inflitte ferite dolorose. Di questo e di nient'altro si tratta».
E Ruffolo con Giolitti, Foa, Banfi, Trentin, Santi, Vigevani, fa parte degli “amici compagni” come diceva la donna che gli fu vicina per 52 anni, Ena Viatto, rispetto ai tanti discepoli “compagni amici” pronti al trasformismo, a lisciare il pelo al gatto, finiti per sete di potere nella pattumiera di Tangentopoli.

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
La lotta è sfinita
Quarant’anni fa Il primo novembre 1969 nasceva il giornale del collettivo di operai e studenti Oggi i giornalisti di allora ricordano quell’esperienza e soprattutto quegli anni, tra entusiasmo politico e il nodo della violenza. Guido Viale: «Non lo rifarei». Adriano Sofri: «Ricomincerei da capo»
di Oreste Pivetta

Fuori tempo. Le iscrizioni sono chiuse», mi risponde Erri De Luca che vigilava sulla salute fisica di Lotta Continua. Il biblista napoletano era capo del servizio d’ordine. Con il giornale di Sofri, Viale, Langer, Deaglio, fondato il primo novembre del 1969, è successo come per il Mondo di Pannunzio. Quando si celebrò il cinquantennale del primo numero fu una corsa a iscriversi: non v’era giornalista in Italia che non vi avesse collaborato. Un po’ così è accaduto per Lc, militanti e giornalisti, militanti o giornalisti, qualche decennio dopo, a funerali avvenuti, a bandiere della nostalgia dispiegate. Wikipedia ha compilato l’elenco, sbagliato. Ovviamente ignorando la «base», che doveva essere tutto. «Dall’alto o dal basso? Dal basso, dal basso!», recitava un titolo del quotidiano. Ovviamente è rimasto l’alto, qualcuno in posizioni che si definirebbero sommamente incoerenti rispetto al passato: che ci fa Ninì Briglia dalle parti di Mediaset? Del basso vi è debole traccia nelle, prime, ricostruzione storiche (vedi il libro di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio appena pubblicato da Feltrinelli). Ma non sappiamo ancora nulla del compagno operaio che parlò ai cancelli della Fiat il giorno del rapimento di Aldo Moro. Lotta Continua fu strenuamente trattativista.
Sarebbe stato utile almeno conoscere uno per uno i quattrocento che un paio di domeniche fa come mi racconta Guido Viale si ritrovarono a Pescara per festeggiare con Enrico Deaglio il quarantennale. Quattrocento: un buon numero per ricominciare. Adriano Sofri, che non vuol ricordare, mi dice almeno: «Ricomincerei da capo». Guido Viale, il primo «saggista» del Movimento studentesco (sulle pagine però dei Quaderni Piacentini), non ricomincerebbe: «Non lo rifarei. C’è altro da fare adesso, anche se non mi sento di certo un pentito. Sono stato anche il primo condannato, come primo proprietario della testata, per un volantino allegato al giornale. Si parlava male della Fiat. Venni assolto in appello. Il merito di Lotta continua fu quello di interpretare meglio di altri lo spirito dei tempi. Anche quel motto maoista: ribellarsi è giusto. Significava raccogliere la spinta antiautoritaria, contro le gerarchie e le accademie, dar corpo a quella che veniva definita la lunga marcia attraverso le istituzioni: l’università, gli ospedali, le carceri, i manicomi, l’esercito, persino la polizia...». E fu un gran risultato ad esempio la nascita del sindacato di polizia. «Eravamo meno dottrinari di altri gruppi, che avevano aderito alla vulgata marxista alcuni banalmente altri per snobismo teorico, come il Manifesto e Potere operaio... È vero quello che diceva Silverio Corvisieri e che ripresi in un libro: Lotta continua è soprattutto uno stato d’animo. Lotta
continua era anche l’espressione di una forma d’amicizia tra chi condivideva una medesima condizione e medesimi bisogni, secondo una sensibilità che valorizzava la dimensione umana della politica. Se c’è stato un Sessantotto bello, abbiamo dato voce a quel Sessantotto». Guido Viale mi racconta una parte di verità. La lettura postuma del giornale ce ne presenta altre.
Metti ad esempio un titolo come il seguente: «Il compagno Mao Tse Tung è morto. I proletari di tutto il mondo gli rendono omaggio con la più grande commozione, ma anche con orgoglio e gioia, perché nella sua vita trovano conferme delle possibilità di contare su se stessi e liberarsi della fame, dalla guerra, dallo sfruttamento, dalle idee false. La vita di un grande rivoluzionario, una inesauribile fonte di insegnamento». Tutto d’un fiato. Per giustizia si dovrà ricordare che una decina di giorni dopo veniva pubblicata una intervista a Gianni Sofri, il professore esperto di questioni internazionali, che più di una perplessità elencava a proposito dei misteri del dopo Mao.
Ne dovrà passare dell’acqua sotto i ponti prima di veder scritto in prima pagina il titolo più bello di Lotta Continua: «È rimorto il Papa». Era il 1978 e a Paolo VI era succeduto Albino Luciani. Testimonia Enrico Deaglio: «Sentimmo: è rimorto il Papa. Era il nostro amministratore, Claudio Brunaccioli, viareggino di tempra assai dissacrante». Deaglio vanta anche le prime rivelazioni sull’esistenza della P2 e del suo capo, Licio Gelli (quattro puntate di una inchiesta di Marco Ventura) e il primo inviato a Teheran ai tempi della rivoluzione khomeinista (Carlo Panella). Pare che all’epoca Lotta continua vendesse più di Repubblica. Questione politica, di tensione politica di quegli anni, di contenuti, di linguaggio, in un’alternanza un po’ schizofrenica tra comunicati del partito e resoconti degli interventi dei leader e cronache di vita quotidiana. «Mi presentai a Lotta continua ricorda Giovanni De Luna con un articolo dedicato ad Agostino o’pazzo, il motociclista napoletano che terrorizzava la città. Viale lo lesse e me lo restituì: riscrivilo. Mi spiegò che dovevamo sforzarci ad una scrittura semplice, via il politichese, via i termini colti».
Gad Lerner, tra i più giovani, fu protagonista della stagione più vivace di Lotta Continua: «Chiuso il partito ci si poteva muovere con ben altra autonomia. Si poteva tornare creativi, anche scoprendo tematiche lontane dalla nostra tradizione politica e forme più spregiudicate. Ad esempio l’uso del titolo ironico. Il Male nacque come inserto di Lotta continua. Per cui diventammo oggetto di racconto anche da parte degli altri giornalisti, che spesso venivano a trovarci in redazione. Eravamo un campione. Il nodo fu la violenza, lo scontro tra le diverse anime del movimento. Noi fummo definiti “umanitari”». Lerner a quel punto se ne andò.
Il tema della violenza torna nella voce critica di Guido Crainz, lo storico dell’Italia del dopoguerra, perché i movimenti collettivi della sinistra non seppero porre un argine: «I gruppi extraparlamentari nascono con un deficit di cultura democratica, nel disprezzo delle regole, in una affermazione di individualismo a scapito del rispetto della collettività e delle sue norme». Il professore ex di Lotta continua, che nel ’76 ci spiegava: «Il marxismo insegna a contare sulle nostre forze anche in campo teorico», adesso ci ammonisce: «Se concentriamo lo sguardo su Lotta Continua non capiremo nulla di quegli anni». «La via è tortuosa, ma l’orizzonte è rosa». Purtroppo non fu così. Ultimo numero nel 1982: dedicato alla vittoria italiana ai mondiali di calcio.❖

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
Avvicinò studenti e operai ma non capì i cambiamenti
di Oreste Pivetta

Lotta continua il giornale nacque nel 1969, il primo di novembre, quarant’anni fa. Venne dopo La lotta continua, un ciclostilato degli studenti di Palazzo Campana pensato come un’occasione di incontro con gli operai, che a Torino non mancavano. Operai e studenti uniti nella lotta: era davvero la novità, la fine di una separatezza, la rottura dell’incomunicabilità. Così nel ciclostilato si ritrovarono Sofri, Viale, Vittorio Rieser e gli ex dei Quaderni Rossi. Il ciclostilato durò poco, come il sodalizio redazionale. Da quella fine germogliò il foglio periodico, Lotta continua, appunto, di cui il primo direttore responsabile fu Piergiorgio Bellocchio, il fondatore con Grazia Cherchi dei Quaderni Piacentini, mentre figurava come unico proprietario Guido Viale, che di quei primi tempi ricorda una condanna poi cancellata in appello, per un volantino allegato che incitava gli operai della Fiat alla lotta. Si sa che la Fiat non si poteva toccare: dava da mangiare alla città.
Quella era la situazione. Le lotte degli studenti, subito antiaccademiche e antiautoritarie, provavano a incontrare i protagonisti ancora di una società povera e sfruttata. Dopo i morti di Avola, Adriano Sofri scese ad esempio al sud, per conoscere le altre facce dell’Italia proletaria e sottoproletaria e lì diede vita a un giornale di breve vita che si chiamò Mo’ che il tempo s’avvicina, da una canzone di protesta del dopoguerra scoperta da Ernesto De Martino in Emilia: il verso successivo faceva: «...si fa avanti la grande Cina». Nel frattempo, ed è sempre questione di pochi mesi, vi erano stati il Maggio francese e l’Agosto di Praga, che suscitarono emozioni contrastanti nel movimento, assai flebili peraltro di fronte alle sorti dei dimostranti cecoslovacchi e della democrazia in genere. In Italia si fece avanti invece la strategia della tensione: il dicembre fu quello di Piazza Fontana, della morte di Pino Pinelli, del mostro Valpreda, dei depistaggi, delle piste anarchiche. Il cronista della Stampa di Torino riferiva: «Il dr. Calabresi... mi dice: “Certo è in questo settore che
dobbiamo puntare: estremismo, ma estremismo di sinistra... Sono i dissidenti di sinistra: anarchici, cinesi, operaisti (Potere operaio, Lotta continua)”».
Dopo la morte di Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, su Lotta continua comparve un fondo dal titolo: «Bombe finestre e lotta di classe». Fu l’inizio della campagna contro Calabresi o per la verità sulla fine di Giuseppe Pinelli. E qui prese il via un’altra puntata di una tragica storia: Lotta Continua fu querelata da Calabresi, s’aprirono processi (contro il direttore responsabile Pio Baldelli), s’avviarono altre indagini. Il commissario Calabresi fu assassinato il giorno stesso in cui sarebbe stato interrogato da Gerardo D’Ambrosio, il pm titolare dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, trent’anni dopo furono condannati Bompressi e Pietrostefani, in seguito alle rivelazioni del pentito Marino. Sullo sfondo, non dimentichiamo, la nostra Italia sull’ultimo treno per le riforme, ma ormai nell’imbuto del consumismo, un paese in cui il centrosinistra giocava le sue ultime carte e la Dc sognava il «centro», quando si avviava invece a crollare la «centralità operaia» per la semplice ragione che le fabbriche cominciavano a chiudere e i ceti medi si presentavano alla ribalta un po’ meno gelatinosi...
Furono anche gli anni della riforma del diritto del lavoro (che Lotta continua non apprezzò) e del referendum sul divorzio (che Lotta continua ancora non apprezzò perché vi riconosceva scarsi segni di lotta di classe). Furono anche «anni di piombo»... Nel 1972, l’11 aprile, Lotta continua periodico divenne quotidiano, lasciando la piccola sede a Milano dietro il Cordusio sopra il bar dell’Amaro 18 Isolabella, trasferendosi a Roma, in via Dandolo, direttore Adriano Sofri. Nel 1975 comprarono, dall’America, anche una rotativa usata a quattro bocche d’uscita, e per farlo crearono una cooperativa che si chiamò «Tipografia 15 giugno», in omaggio alla vittoria elettorale del Pci. Era stata l’unica volta in cui Lotta continua aveva dato una indicazione di voto a favore dei comunisti di Enrico Berlinguer. Per il resto sul gior-
nale son solo attacchi ai «revisionisti». Quotidiano il giornale sperimentò le difficoltà del mercato e della formula e soprattutto dell’inevitabile richiamo alla politica e con questa alle tentazioni che venivano dall’estremismo terrorista. Nella sua vena spontaneista, dal basso verso l’alto, fece del proprio meglio dando la parola agli operai, ai disoccupati organizzati, ai «proletari», ai sofferenti d’ogni genere (le foto sono una sequenza straordinaria, degna di «brutti sporchi e cattivi»), che diedero corpo a una rappresentazione del paese, mobilitante e, ahimè, assai parziale. Ma a leggere tra le righe tra una infinità di scioperi, di occupazioni (delle case) e di bastonate sulla testa della classe operaia si capisce ciò che Lotta Continua non aveva capito: che un’epoca si stava chiudendo, che la «modernizzazione» nella peggior fattispecie s’era fatta avanti, che il mercato come già aveva spiegato Hobsbawm agli studenti stava trionfando e che gli stessi giovani che protestavano rappresentavano la fetta più ricca di quel mercato.
Nel novembre ’76 vennero i giorni del congresso di Rimini, quando Adriano Sofri decise di sciogliere Lotta Continua, partito, per sottrarre il movimento alle secche dell’imprinting leninista (tra segreterie, leader, capi e capetti) e soprattutto per tagliare di netto con le scorciatoie della cosiddetta «violenza rivoluzionaria». Il giornale dedicò pagine e pagine all’evento e una sola pagina il 6 novembre per la mancanza di soldi e la stanchezza dei redattori. In compenso in quel pezzo unico comparve un articolo di Alex Langer (anche lui direttore responsabile) che dimostrava come di fronte alle evoluzioni del mondo si trattasse di «continuare, col massimo coraggio, a vivere “con il terremoto” e con le contraddizioni aperte». Per l’Unità commentò Giuliano Ferrara. Lotta continua quotidiano continuò (direttore divenne Enrico Deaglio) meno ingessato di prima, vivacemente onnivoro, pervicacemente dialogante con i suoi mondi e le lettere al giornale (vecchia tradizione) divennero una lente sui conflitti non solo di lavoro o di scuola ma soprattutto di cuore, di sentimenti, di ragioni, di passioni dentro una generazione.
Purtroppo il vento degli anni ottanta si portò via Lotta Continua, portandosi via tanta politica. La ragione? Probabilmente la nostra difettosa democrazia, che neppure Lotta continua volle correggere per la parte che la riguardava. Condividendo la responsabilità con un largo fronte di sinistra.

Repubblica 1.11.09
Vent’anni dopo piccoli muri crescono
di Ilvo Diamanti

Mancano pochi giorni all´anniversario della caduta del muro di Berlino. Ma, vent´anni dopo, l´entusiasmo non è più lo stesso.
Anche se il 1989 ha segnato il nostro tempo. Perché quel muro marcava una divisione al tempo stesso geopolitica, economica, ideologica. Fra sistemi democratici e regimi comunisti, liberismo e dirigismo. Fra mercato e statalismo. La sua caduta ha prodotto effetti violenti. Anche da noi. In Italia. Il regime più socialista dell´Occidente. Visto l´intreccio fra economia, politica e stato. Il muro, in Italia, è crollato qualche anno dopo. Nel 1992. Ha seppellito la prima Repubblica. Il partito comunista più importante dell´Occidente costretto a cambiar nome, pelle e identità. I partiti di governo, spazzati via da Tangentopoli, ma anche dalla fine della rendita di posizione garantita dall´anticomunismo.
Vent´anni dopo la caduta del muro di Berlino, quindici anni dopo il crollo della prima Repubblica, l´emozione si è un po´ raffreddata. Non solo per effetto del tempo, della routine. È l´impressione che altri muri siano sorti al loro posto. Alcuni, negli stessi luoghi del passato. Anzitutto, il comunismo. In Italia non se n´è mai sentito parlare così tanto come da quando non c´è più. Comunisti. Tutti coloro che stanno a sinistra. Di Berlusconi. Anzi: tutti quelli che sono contro di lui. D´altronde, il suo successo politico si deve anche – e in buona misura – a questo. Aver tenuto vivo l´anticomunismo senza – e dopo – il comunismo. Al posto del muro di Berlino: il muro di Arcore. Per costringere l´elettorato di centrosinistra dentro gli stessi confini del Fronte Popolare nel 1948. Anche se da allora è cambiato tutto, nella politica e nella società. Proprio per questo, però, le passioni si scatenano – talora – più violente di prima. Perché non sono in gioco diverse idee della storia e del futuro. Ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti ci sono le persone. I leader. Pubblico e privato: senza soluzione di continuità. Sotto gli occhi di tutti. Comunicati sui media. Per cui le differenze vengono ribadite, gridate. Scavano solchi profondi. Mentre ieri erano (auto) evidenti e riconosciute.
Il muro di Berlino. È crollato insieme allo statalismo e al trionfo del mercato e del privato. Ma oggi, dopo il disastro della finanza globale, in Occidente si assiste al ritorno dello Stato. Invocato dovunque e soprattutto in Italia. Per proteggere i settori sociali colpiti dalla crisi. Sempre più ampi. Ma reclamato anche dagli attori del mercato stesso. Gli imprenditori. Perfino le banche. Cosa farebbero senza il soccorso dello Stato?
E poi gli Stati nazionali. La fine del muro di Berlino ne annunciava la crisi. Insieme ai confini. Parallelamente al rafforzarsi di altre – e nuove – entità sovranazionali. Sono sempre lì. Evocati e invocati. Attenti a rivendicare la loro autorità. All´interno dei loro confini. Per quanto cambiati profondamente, rispetto a vent´anni fa. Si veda la "grande" Germania ri-unita. Così pronta a tutelare il proprio interesse nazionale.
Certo, il crollo del muro ha allargato ad Est le frontiere d´Europa. Ci ha avvicinati all´Oriente. E ha favorito il flusso di milioni di cittadini. Attraverso confini sempre più aperti. E noi, impauriti dal numero crescente degli immigrati: ci fingiamo "padroni a casa nostra". Invochiamo altri muri. Nuovi muri. Per terra e per mare. Ma, soprattutto, erigiamo nuovi confini davanti e intorno a noi. Preferiamo non vedere. Non confonderci. Con gli stranieri: che restino tali.
La caduta del muro di Berlino, vent´anni fa. Ha allungato la nostra storia recente. Ci ha ributtato indietro, ben oltre gli anni Ottanta. Fin dentro agli anni Settanta. Con cui non abbiamo mai saputo fare i conti. Così, quarant´anni dopo, abbiamo abbattuto anche il muro del Sessantotto. Liquidato senza rimpianto da molti critici. Talora, gli stessi protagonisti di quella stagione. Non ce n´era bisogno, in realtà. Il Sessantotto era già finito da tempo. Ma al suo posto è emerso l´antisessantottismo. Di chi invoca il ritorno dell´autorità perduta. Dei padri e dei professori. Delle istituzioni e dei valori della tradizione.
Nuovi muri. Che, paradossalmente, ridimensionano trasformazioni sociali e conquiste civili importanti, che parevano irreversibili. Basta pensare alla divisione di genere. Tante lotte e tante contestazioni. Nel privato e nel pubblico. Il femminismo. Le pari opportunità. Contro la segregazione femminile nelle carriere. Nel lavoro, nelle professioni. Contro l´immagine della donna-oggetto. Per ritrovarci, oggi, in un paese di veline. Dove le misure che contano, per le donne, non riguardano certo il quoziente intellettivo. Dove la sessualità è esibita come segno di potere. Usata come merce sui media. Dove si ironizza su Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Neanche cinquant´anni fa…
Fra tanti nuovi muri che sorgono intorno a noi, solo uno pare definitivamente crollato. Quello fra le generazioni. Padri e figli. Professori e studenti. Anziani e giovani. Duro da scalare, per i ragazzi. Marcava il cambiamento. L´innovazione sociale. Oggi non c´è più. Perché i ventenni, nati nel 1989 (come il mio figlio maggiore), sono impegnati ad affrontare il loro eterno presente. Precari per definizione. In bilico. Senza passato e senza futuro. E senza territorio, vista la loro confidenza con le tecnologie della comunicazione ("Info-nauti", li hanno definiti nei giorni scorsi Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico su Repubblica.it). Mentre gli adulti latitano e i vecchi sono scomparsi. Vista l´ostinazione con cui insistiamo a dirci tutti – eternamente – giovani.
Così, vent´anni dopo, è difficile non cogliere un po´ di nostalgia. Del Muro. Quand´era uno solo. Visibile. A modo suo, rassicurante. Capace di separare il giusto dall´ingiusto e il bene dal male. Mentre oggi che è crollato – e il mondo è più largo e più aperto – incontriamo muri ovunque. Piccoli e invisibili. Siamo noi stessi a costruirli. Per bisogno di riconoscerci. Per paura di perderci. Per paura.

Corriere della Sera 1.11.09
I radicali: ora serve un garante per le carceri
di Daria Gorodisky

ROMA - «Le conosciamo, quelle cadute accidentali in carcere… È la spiegazione classica che un detenuto dà quando ha paura, nel caso dicesse altro, di prenderne ancora». Rita Bernardini, deputata Radicale del Pd, si dedica da anni alle condizioni di vita nei penitenziari: «Perché ancora oggi sono un'istituzione oscura, dove accadono cose incredibili». Ne ha visitati decine e decine, domani si recherà a Teramo dove ci sarebbero registrazioni a proposito di maltrattamenti ai prigionieri; e sottolinea che oltre la metà di casi di morte durante la detenzione è rappresentata da suicidi e cause da accertare.
E il caso di Stefano Cucchi?
«Abbiamo subito presentato interrogazioni parlamentari. Ma come Radicali abbiamo anche depositato due proposte di legge. Però ormai in Parlamento non si calendarizza più niente…» Che cosa chiedete?
«Nella prima, l'istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Potrebbe essere un parlamentare, magari individuato su proposta dei presidenti di Camera e Senato. In alcune realtà locali esistono già, ma a livello nazionale no».
E nella seconda proposta?
«Un'anagrafe pubblica online di tutte le carceri: per ognuno, quanti detenuti, composizione dell'organico, come aiutare con il volontariato e quale è il regolamento interno».
Ogni istituto ne ha uno?
«No, e questo è il punto: tranne casi rarissimi, ai detenuti non viene consegnata nessuna carta dei diritti e dei doveri che indichi, per esempio, come ci si comporta per le telefonate, la possibilità di avere prodotti particolari, la disciplina dei colloqui».
In genere qual è la frequenza delle visite consentita?
«Solitamente, un paio di volte alla settimana».
E se il detenuto è ricoverato?
«Può essere lo stesso, si chiede al direttore del carcere di poter avere un incontro nel reparto penitenziario dell'ospedale».

Corriere della Sera 1.11.09
I nuovi scenari globali che si aprono al di là delle alleanze fra le grandi potenze
La Tecnica, un Superstato oltre i confini della politica
Perché l’incontro Europa-Russia va nella direzione giusta
di Emanuele Severino

«Sono ben calibrati, i rap­porti che l’Italia ha con la Russia?» — si chiede­va qualche tempo fa, il 20 ottobre scorso precisamente, Fran­co Venturini sul «Corriere», prenden­do spunto dall’incontro di Berlusconi e Putin a San Pietroburgo. Concordo con lui nel ritenerla «la domanda chiave della nostra politica estera». Ma la sua risposta è negativa: man­cherebbero, quei rapporti, di «oppor­tunità e bilanciamento». Inopportu­no che un Paese come il nostro abbia la pretesa di fare da intermediario tra Stati Uniti e Russia, sbilanciandosi ec­cessivamente in favore di quest’ulti­ma e aprendo contenziosi con gli Sta­ti Uniti, come quello, ad esempio, re­lativo al gasdotto Nabucco, promos­so da Europa e Stati Uniti ma di fatto ostacolato da Germania e Italia.
Tuttavia esiste, in Europa, un diret­torio: Inghilterra, Germania, Francia. L’Italia è tenuta fuori. Se non si rasse­gna, la mossa pressoché obbligata non è forse stabilire rapporti privile­giati con Mosca, soprattutto nell’at­tuale fase filoamericana di quei tre Stati? Favorendo la presenza della Russia in Europa non si riduce forse la distanza tra i membri del diretto­rio e l’Italia? Per la politica estera ita­liana è meglio avere in mano una car­ta da giocare per riguadagnare terre­no in Europa, o evitare di correre il rischio di sembrare 'inopportuna'?
Questa mossa pressoché obbligata il centro-sinistra non ha potuto farla: non ha potuto fare quello che oggi il centro-destra invece può. Durante il suo ultimo governo, Prodi ha dichia­rato che un ingresso della Russia nel­l’Unione Europea sarebbe stato asso­lutamente fuori luogo. Se avesse det­to l’opposto avrebbe dato corda all’ac­cusa, rivolta da Berlusconi al cen­tro- sinistra, di non essersi ancora li­berato dal comunismo. La Russia è pur sempre l’ex Unione Sovietica. In­vece il centrodestra può permettersi di sembrare filorusso. E lo fa con qualche ragione.
Ci si deve anche chiedere se quel direttorio (di cui l’Italia vorrebbe far parte) sia vantaggioso per l’Europa, cioè se sia compatibile con l’intento, ribadito recentemente dal presiden­te della Commissione Europea, di raf­forzare il più possibile il mercato uni­co europeo. Un obbiettivo certo irri­nunciabile. Tuttavia anche oggi è im­possibile per i popoli riuscire ad esse­re economicamente floridi se sono militarmente deboli. E questa è ap­punto la condizione in cui l’ Europa verrà a trovarsi anche quando sarà uscita dalla crisi economica.
Oggi il mondo è un vulcano in eru­zione.
Troppo sconveniente far torto a Obama credendo che egli voglia per davvero arrivare al disarmo ato­mico totale. Come se in una città infe­stata da ladri e assassini si congedas­se la polizia e si togliessero le porte alle case. L’Europa è senza porte e senza polizia. Con l’aggravante che il pericolo maggiore non proviene da ladri e assassini, ma dalla fame e dal­le ingiustizie sociali che pesano su gran parte dell’umanità — sì che, an­che quanto sarà ricca, l’Europa non solo continuerà ad esser debole, ma, come tutto il mondo ricco, non avrà nemmeno la coscienza a posto. D’al­tra parte vorrà continuare a vivere. (Ai popoli non ha senso fare predi­che morali. Né a quelli sfruttati, nè agli sfruttatori). Ma come potrà vive­re se continuerà ad esser debole?
D’altra parte, la solidità economica è essenziale all’Europa. Non solo per­ché il benessere è preferibile alla pe­nuria, ma perché la ricchezza è per l’Europa indispensabile per trattare da pari a pari con la Russia: in una cooperazione dove l’Europa assicure­rebbe l’esistenza di un mercato fio­rente e la Russia avrebbe quella forza militare, e innanzitutto quell’arsena­le nucleare, senza di cui oggi nessu­na economia sana può sopravvivere.
Gli Stati Uniti di Bush solo a parole hanno trattato l’Europa da partner. Di fatto hanno agito come se essa fos­se un satellite. La stessa cosa avver­rebbe, e anche peggio, in un’apparen­te partnership tra la Russia e un’Euro­pa economicamente debole. Ma la Russia ha bisogno, molto più degli Stati Uniti, di una economia europea in buona salute. È per questo che, se l’Europa non è destinata al declino economico, la progressiva integrazio­ne di Europa e Russia è nell’«ordine delle cose». Non certo perché sia nel­l’ «ordine delle cose» che l’Europa di­venga un avversario degli Stati Uniti, ma perché la partnership tra Europa e Russia, da un lato, e Stati Uniti dal­­l’altro, sia reale e non apparente. Si aggiunga che se l’entrata della Tur­chia in Europa è una possibilità con­creta, questa entrata renderebbe più equilibrato il rapporto demografico tra i Russi e gli attuali Europei.
Che nell’«ordine delle cose» ci sia la progressiva integrazione di Europa e Russia lo dicevo d’altronde ben pri­ma che tale integrazione diventasse l’obiettivo sempre più esplicito della politica estera dell’attuale governo di centro-destra. Lo dicevo sin dagli ini­zi degli anni novanta, al tempo della fine dell’Unione Sovietica (nel sesto capitolo de Il declino del capitalismo, pubblicato da Rizzoli nel 1993), e ho poi ripreso il concetto anche su que­ste colonne.
Ma, infine, ci si deve chiedere: Eu­ropa, Stati Uniti, Russia — e si ag­giungano Cina, India, Giappone, ecce­tera — riescono a scorgere il volto au­tentico dell’«ordine delle cose»? Essi agiscono ancora politicamente, cioè come Stati che nel loro fronteggiarsi credono di essere in grado di servirsi della potenza della Tecnica per far prevalere le loro rispettive forme sta­tuali. Non si rendono conto che le lo­ro tensioni e la loro elaborazione dei problemi del mondo — le quali sono peraltro l’insieme di eventi oggi più visibile — stanno diventando una lot­ta di retroguardia; che tuttavia è ne­cessaria proprio per andar oltre, nel­la direzione che vado da tempo indi­cando. Incomincia infatti ad affiorare il contrario di quanto essi credono: affiora che è la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e mi­­litare, a servirsi sempre di più degli Stati per accrescere la propria poten­za, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti.
L’integrazione Europa-Russia, os­sia la riduzione delle autonomie sta­tuali, è un passo importante in que­sta direzione.

Corriere della Sera Salute 1.11.09
Medicina del lavoro Una ricerca italiana analizza gli effetti fisici delle angherie in ufficio
Mobbing, fa davvero crollare
Il «cedimento» non è solo psichico, ma anche neurobiologico
di Elena Meli



Konrad Lorenz, l’etologo, è stato il primo a parlare di mob­bing. Non si riferiva a colleghi dell’università di Vienna vessa­ti da qualche 'barone', ma alle anatre selvatiche quando ag­grediscono in gruppo un altro uccello, con un assalto colletti­vo che lo spaventa e lo fa fuggi­re. Un comportamento che esi­ste in natura prima che nel po­sto di lavoro. E che, si scopre oggi, ha effetti ben precisi a li­vello biologico: una ricerca del­l’Università di Napoli, pubbli­cata su Psychotherapy and Psychosomatics , dimostra che nelle vittime di mobbing si modifica l’attività dell’asse ipo­talamo- ipofisi-surrene.
«Si tratta del principale si­stema biologico per la risposta allo stress ambientale: quando questo sistema si attiva, l’orga­nismo mobilita tutte le risorse necessarie per affrontare la si­tuazione, con la lotta o la fu­ga » — spiega Mario Maj, auto­re della ricerca e presidente della World Psychiatric Asso­ciation —. Finora nessuno ave­va studiato i correlati biologici del mobbing, per capire se e come variano in base alla dura­ta dei soprusi e alla personali­tà delle vittime. I nostri risulta­ti dimostrano per la prima vol­ta che l’esposizione prolunga­ta a mobbing porta a una sorta di 'esaurimento funzionale' dell’asse ipotalamo-ipofi­si- surrene».
In pratica, i livelli di cortiso­lo, l’ormone dello stress, si ri­ducono al lumicino (il contra­rio di quel che accade in rispo­sta a uno stress acuto): Maj lo ha visto mettendo a confronto 10 persone senza problemi sul lavoro con 10 'mobbizzati', che sopportavano le angherie in ufficio da almeno 9 mesi. Ed è sulla lunga distanza che il cortisolo cola a picco e l’orga­nismo cede: «È come se, dopo una fase di allarme e resisten­za, le risorse per far fronte allo stress venissero meno — dice Maj —. Chi per carattere è mol­to cauto, apprensivo, inibito e ha scarsa capacità di auto-diri­gersi sembra particolarmente vulnerabile a tale 'cedimento biologico': l’inibizione sociale e comportamentale rende que­ste persone meno capaci di af­frontare la violenza sul lavoro e meno popolari in ufficio, e ciò riduce la possibilità di ave­re il sostegno del gruppo dei colleghi. Un aiuto che invece sarebbe essenziale per il mob­bizzato, anche per documenta­re sul piano medico-legale quanto subisce».
Di modi per rendere la vita impossibile in ufficio ce n’è a iosa. Secondo un’indagine con­dotta da ricercatori della Boc­coni su 3000 persone che si so­no rivolte alla Clinica del Lavo­ro di Milano, il metodo preferi­to è negare ferie, permessi, tra­sferimenti. E poi critiche conti­nue, mansioni dequalificanti, carichi di lavoro esagerati con scadenze impossibili, maldi­cenze e mezzi più o meno sub­doli per far sentire emarginati. Risultato: ansia, depressione e disturbi fisici come dolori mu­scolari, cefalea, palpitazioni, tremori.
«Questi sono l’espressione esasperata della risposta biolo­gica acuta allo stress — chiari­sce lo psichiatra —. Con l’an­dare del tempo possono pren­dere piede i sintomi che espri­mono il cedimento dell’organi­smo, di cui il calo del cortisolo è spia: decadimento generale, scomparsa del desiderio e del­la potenza sessuale, patologie cardiovascolari, ulcera gastri­ca o duodenale». Come uscir­ne?
In teoria chiedendo aiuto: oggi esistono numerosi centri anti-mobbing. «Ma quasi mai le vittime ci vanno, perché non sanno che ci sono, temo­no ritorsioni sul lavoro o non credono di poter essere aiuta­te — dice Maj —. Un supporto psicoterapeutico è molto utile perché il mobbizzato trovi l’at­teggiamento più adatto a fron­teggiare la situazione. E se i sintomi ansiosi e depressivi so­no disturbanti, possono servi­re anche i farmaci». L’impor­tante è reagire. 


Corriere della Sera Salute 1.11.09
Depressione. Scoperta sui tempi di risposta alle terapieSubito dopo la pillola un’inconsapevole allegria
di Cesare Peccarisi

La depressione è da sem­pre considerata una malattia cronica e recidivante che ha bisogno di trattamenti a lun­go termine.
Uno studio dei ricercatori dell’Università di Oxford di­retti da Catherine Harmer, pubblicato dal Journal of American Psychiatry , dimo­strerebbe che la terapia anti­depressiva può avere effetti rapidissimi di cui i pazienti non si accorgono subito, ma che sono rilevati dai medici con particolari test.
Solo 3 ore dopo aver as­sunto una dose molto bassa di un vecchio antidepressi­vo, la reboxetina, i pazienti presentavano comportamen­ti oggettivi che dal punto di vista clinico indicano un in­dubbio miglioramento: os­servando una serie di volti coglievano con insolita pron­tezza le espressioni facciali felici (men­tre i depressi sono più attenti a quelle tristi); rispondevano prima ad attribuzio­ni positive nei loro confronti; la memo­ria di passate situa­zioni personali posi­tive non era ridotta.
Tre aspetti, questi, che nel depresso hanno sempre se­gno negativo, tant’è che nei pazienti par­tecipanti allo studio trattati con placebo non si sono pre­sentati.
Non si sa se quanto osser­vato possa valere per ogni antidepressivo e se questo ef­fetto si tradurrà in benefici clinici. La ricerca, condotta su 33 soggetti con depressio­ne lieve-moderata non in te­rapia e 31 persone sane co­me gruppo di controllo, ha utilizzato una singola dose di farmaco o un placebo iner­te.
Prima di iniziare, in tutti è stato valutato il livello sog­gettivo di umore e di ansia tramite 6 specifiche scale. Le scale di valutazione sono sta­te poi riproposte, tre ore do­po l’assunzione del farmaco, insieme ai test di riconosci­mento dei volti. Risultato: nelle scale i valori non cam­biavano, né i pazienti si sen­tivano migliorati, mentre la valutazione oggettiva di rico­noscimento emotivo dei vol­ti indicava che il migliora­mento c’era stato.«Da un po’ di tempo si so­spetta che l’azione degli ini­bitori della ricaptazione del­la serotonina, della noradre­nalina o di entrambe inizi già dopo alcune ore, facendo aumentare i recettori di que­sti neurotrasmettitori, — di­ce Claudio Mencacci, diretto­re del dipartimento psichia­trico del Fatebenefratelli di Milano — mentre la cosid­detta neurogenesi, cioè la formazione di nuove cellule nervose a rimpiazzo di quel­le alterate dalla malattia, co­mincia dopo alcune settima­ne».
Non è strano che questo effetto rapido sia stato osser­vato con la reboxetina: nella depressione, per passare da un miglioramento significa­tivo al benessere completo è necessario riappropriarsi di una specifica dimensione le­gata alla cognizione di sé e dei rapporti con noi e gli al­tri. Dal punto di vista neuro­biologico questo passaggio è legato al sistema noradre­nergico, sul quale la reboxeti­na agisce in maniera seletti­va.
«Il farmaco ha agito sui meccanismi emotivi prima che si manifestassero cam­biamenti dell’umore e della sintomatologia — conclude Mencacci —. La traduzione di questo cambiamento in un migliorato umore ha biso­gno di tempo, perché il pa­ziente deve imparare a ri­spondere a questa nuova vi­sione positiva che deriva dal risettaggio delle trasmissio­ni nervose indotto dal farma­co».

sabato 31 ottobre 2009

Fidarsi di D’Alema?
L’ex presidente del Consiglio nella rosa proposta dai socialisti Ue: «Grato al governo»
Berlusconi apre a D’Alema candidato agli Esteri in Europa
Massimo D'Alema è tra i candidati dei socialisti eu­ropei come «ministro de­gli Esteri» della Ue. L'ex premier ha subito ottenu­to un'apertura dal premier Silvio Berlusconi: «Il go­verno valuterà con serietà le candidature capaci di as­sicurare all'Italia un incari­co di così alto prestigio». Anche il ministro Maroni e il leader dell'Udc, Casini hanno dato il loro appog­gio a D'Alema, che si è det­to «onorato» della candida­tura e «grato» al governo.
«Ma non farò inciuci»
dal Corsera e da Repubblica

Repubblica 31.10.09
Se il mondo smette di fare figli
di Enrico Franceschini

Il calo delle nascite non riguarda più soltanto l´Occidente ricco ma anche molti Paesi emergenti Svanisce così l´incubo della sovrappopolazione mondiale Secondo l´Economist è uno dei benefici della globalizzazione e della diffusione della ricchezza
Per gli economisti il tasso di natalità comincia a scendere quando il reddito pro-capite raggiunge i mille dollari all´anno

«Crescete e moltiplicatevi», ordina il Signore Iddio nella Bibbia, e i discendenti di Adamo ed Eva hanno obbedito con ostinata determinazione: eravamo 50 milioni al tempo dell´Impero Romano, un miliardo nel 1800, 2 miliardi e mezzo nel 1950, oggi siamo quasi 7 miliardi e saremo 9 miliardi nel 2050. Eppure questa corsa alla sovrappopolazione, durata venti secoli, sembra sul punto di arrestarsi. Il tasso demografico del pianeta è in calo costante: dopo essere scesa nel mondo industrializzato, la natalità diminuisce anche nei paesi in via di sviluppo che cominciano a conoscere un minimo di benessere grazie alle trasformazioni economiche portate dalla globalizzazione. Il tasso di fertilità globale, che negli anni ‘50 era 5-6 figli a coppia, è già sceso per metà del pianeta a 2,1 o meno, il livello consistente con una popolazione stabile, ovvero con una crescita zero. Per questo gli esperti lo chiamano anche «tasso di sostituzione»: due figli ogni due genitori, due nuovi terrestri al posto di due destinati a essere rimpiazzati.
Tra il 2020 e il 2050, prevedono gli specialisti della materia, il tasso di natalità mondiale scenderà sotto il «tasso di sostituzione», interrompendo il prodigioso aumento della popolazione terrestre, che raggiungerà il suo picco appunto a quota 9 miliardi di persone e da quel momento smetterà di crescere, cominciando piuttosto a decrescere. Il mondo, che secondo gli scenari più pessimistici rischiava di esplodere sotto la spinta di una inarrestabile bolla demografica, divorando più risorse di quelle disponibili, si salverà da solo.
A fotografare un fenomeno che solo recentemente si è delineato sotto gli occhi degli studiosi è l´Economist, il settimanale britannico (perché nato a Londra e perché ha qui la sua redazione centrale) che è stato a sua volta cambiato dalla globalizzazione, moltiplicando le copie (oggi sono un milione e mezzo) e vendendole in tutti i continenti (soltanto il 20 per cento della tiratura è distribuito nel Regno Unito). Il sorridente neonato che precipita in copertina, sotto il titolo «Falling fertility» (Fertilità in caduta), simboleggia la rivoluzione della nascite.
L´Occidente ricco e sviluppato è stato il primo a rallentare il tasso demografico, ma adesso la stessa cosa sta accadendo in paesi emergenti come il Brasile, l´Indonesia, parti dell´India (oltre che naturalmente in Cina, dove è vietato avere più di un figlio a coppia). E mentre la transizione da cinque a due figli a coppia ha impiegato 130 anni, dal 1800 al 1930, a manifestarsi in Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale, in Corea del Sud sono bastati vent´anni, dal 1965 al 1985. Se in Europa e negli Stati Uniti la media è di due figli (o meno) a famiglia, oggi le donne del Terzo Mondo possono aspettarsi di averne tre: le loro madri ne avevano sei. In alcuni paesi la caduta del tasso di natalità è ancora più repentina: l´Iran è passato da sette figli a coppia nel 1984 a 1,9 nel 2006, e ad appena 1,5 a Teheran. Il cambiamento che qualche mese fa si coglieva nelle manifestazioni di protesta nelle strade della capitale iraniana si intravede anche nelle culle.
Il motivo è lo stesso che ha fatto calare il tasso demografico nell´Occidente industrializzato, scrive l´Economist: «Quando la gente diventa più ricca, le famiglie diventano più piccole; e man mano che le famiglie diventano più piccole, la gente diventa più ricca». L´agricoltura della mera sussistenza, che era fino a un decennio fa la principale fonte di guadagno della popolazione del Terzo Mondo, e dunque della maggior parte della popolazione mondiale, aveva bisogno di famiglie numerose per tirare avanti: quei sei figli a coppia servivano per aiutare i genitori nei campi. Ma per le nuovi classi medie della Cina, dell´India, del Brasile, un figlio può essere una gioia, un problema, un caso fortuito, comunque non un´assicurazione sulla vita, non un aiuto per sopravvivere. Gli analisti di macroeconomia hanno individuato il momento in cui la situazione cambia: la natalità comincia a scendere, dicono, quando il reddito annuale pro-capite sale da poche decine o centinaia di dollari fino a 1.000-2.000 a persona; e scende fino al «tasso di sostituzione», due figli per famiglia, quando il reddito sale a 4-10 mila dollari l´anno pro-capite.
È dunque il più diffuso benessere introdotto dalla globalizzazione la ragione per cui dai soli 24 paesi che avevano un tasso di natalità del 2,1 per cento nel 1970 si è passati in quattro decenni a oltre 70, distribuiti in ogni continente, anche in Africa.
Il minor numero di figli per coppia fotografa il passaggio dalla povertà alla classe media, da una società agricola a una moderna e complessa. Tanti fattori accompagnano questa transizione: un maggior grado di istruzione media; un maggior uso di contraccettivi (uno studio calcola che negli anni ‘90 un quarto delle nascite nei paesi in via di sviluppo fossero gravidanze indesiderate); e per l´appunto maggiore benessere. «Ecco come il problema della sovrappopolazione mondiale si risolve da solo», titola l´Economist, ma con un ammonimento: il calo delle nascite non basterà, di per sé, a curare il pianeta da altri problemi, come il cambiamento climatico e la necessità di risorse sostenibili. Occorre che i paesi poveri, sulla strada del benessere e del «tasso di sostituzione», non imitino nella loro crescita economica i paesi ricchi dell´Occidente. Oggi i più poveri africani producono 0,1 tonnellata di CO2 a testa all´anno, in confronto alle 20 tonnellate a testa di ogni americano: se copiano il consumo e l´inquinamento del mondo industrializzato, le conseguenze per il pianeta saranno disastrose. Se è vero che il mondo sta salvando se stesso con una rallentata crescita demografica, bisogna perciò che gli esseri umani gli diano una mano, con accordi di governo e tecnologie, per rallentare anche effetto serra e spreco di risorse. Come che sia, siamo cresciuti e ci siamo moltiplicati abbastanza: ora è venuta l´ora di fermarci.

Repubblica 31.10.09
La denatalità nel nostro Paese è contagiosa. I nuovi arrivi non basteranno a contrastare il declino demografico
L´immigrazione non salverà l´Italia
di Massimo Livi Bacci

Può l´immigrazione raddrizzare il bilancio riproduttivo del nostro paese, che da un quarto di secolo è inchiodato su esangui livelli? Le statistiche ci dicono che il figlio di genitori "stranieri" era davvero una rarità fino all´inizio degli anni ‘90 (uno ogni cento nati); la frequenza è poi rapidamente aumentata e nel 2008 un nato ogni otto era figlio di stranieri. Tra meno di dieci anni la proporzione sarà di uno su cinque.
Ma anche col contributo degli stranieri la natalità italiana rimane insufficiente a evitare un forte declino e un costoso stravolgimento della struttura per età. È facile comprenderlo confrontando i 577.00 nati in Italia nel 2008 con i 750.000 della Gran Bretagna e gli 800.000 della Francia, paesi che hanno una popolazione di dimensioni all´incirca uguale alla nostra, ma che vantano conti demografici "in ordine". Da un punto di vista strettamente contabile - perciò - il contributo degli stranieri alla natalità italiana è cospicuo in sé, ma modesto in termini relativi, e difficilmente potrà rimettere in sesto il bilancio riproduttivo. L´eventuale ripresa dipenderà soprattutto da nuovi comportamenti dell´intera comunità nazionale.
È possibile che le comunità straniere crescano a dismisura non solo perché alimentate da nuovi arrivi, ma soprattutto perché fanno tanti figli? E che sommergano "noi" autoctoni per la loro alta natalità? Prima di rispondere, una considerazione è d´obbligo. Nei paesi a forte immigrazione molti nati sono figli di genitori non più "stranieri" perché hanno acquisito la nazionalità del paese di arrivo, o sono figli di terza o quarta generazione di immigrati naturalizzati. Questi paesi convertono un´alta proporzione di immigrati in cittadini. La loro progenie si diluisce in quella autoctona, diventa essa stessa autoctona e le comunità immigrate, alla lunga, tendono a dissolversi. Non così in Italia: nonostante un recente aumento, la proporzione degli stranieri che acquisisce la cittadinanza è molto bassa, una piccola frazione di quanto avviene altrove. I nati degli immigrati rimangono stranieri, e così rischiano di rimanerlo i loro figli, perpetuando la barriera giuridica che li separa dagli italiani.
Per quanto riguarda i comportamenti riproduttivi, è vero che le donne straniere hanno mediamente più figli delle italiane: ma non di molto. Metà delle straniere proviene da paesi europei che hanno una natalità uguale o minore di quella italiana; l´altra metà è originaria di paesi nei quali la natalità è in rapido declino. Inoltre nelle seconde generazioni il divario con gli autoctoni tende ad annullarsi. Il modello della famiglia numerosa è - del resto - svantaggiosissimo nelle società urbane e postindustriali d´immigrazione, e l´alta abortività delle straniere testimonia della dolorosa volontà di adattamento ai nuovi contesti di vita. Per questa ragione (al netto dei nuovi arrivi) le comunità di origine straniera tenderanno a stabilizzarsi su ritmi di crescita non troppo diversi da quelli della popolazione di origine italiana.


l’Unità 31.10.09
Italia libera indivisa e laica
La laicità trascende qualsiasi manifesto dei valori a sfondo religioso Un libro per capire perché
di Stefano Rodotà

Il brano che qui anticipiamo è tratto da un saggio di Rodotà: «Una laicità costituzionale». Fa parte dell’antologia a cura di Emilio D’Orazio: «La laicità vista dai laici». Con contributi di Zagrebelski, Rusconi, Antonella Besussi ed altri. Al centro l’essere laici nei molteplici ambiti della vita e dei saperi.
Mai come in questi tempi la laicità è stata al centro della discussione pubblica, ha determinato conflitti politici, ha diviso le coscienze. Una situazione così tesa induce più d’uno a sottolineare la necessità di lavorare perché si possa giungere ad un’etica condivisa tra laici e cattolici. Proposito encomiabile, che è giusto condividere, a condizione però che siano chiare le premesse di questo lavoro comune. E queste si trovano nel testo per definizione comune per tutti, dunque nella Costituzione.
«Il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica». Così, nel 1989, scriveva la Corte costituzionale, mettendo in evidenza come la laicità sia ormai un elemento costitutivo dello stesso sistema democratico. Questo vuol dire che la vita democratica vive di rispetto reciproco, di confronto libero delle opinioni, di spirito critico e non di imposizioni autoritarie. Certo, la storia e molte aspre cronache di questi mesi sembrano allontanarci da questa idea di laicità costitutiva del comune tessuto democratico, dando spazio quasi esclusivo all’antica laicità oppositiva, ad una contrapposizione radicale tra laici e cattolici.
SENZA PORTATORI DI VERITÀ
Da questa situazione si può uscire se, nel confronto pubblico, nessuno si pretende portatore di verità, di valori «non negoziabili», che gli altri debbono accettare; se la legittima presenza della Chiesa nella sfera pubblica avviene in condizione di parità con tutti gli altri soggetti politici; se si abbandona l’ingannevole semplificazione che descrive la laicità come prigioniera di riferimenti deboli, incapaci di esprimere principi comuni. Che altro sono la dignità e l’eguaglianza, la solidarietà e le molteplici libertà alle quali proprio la Costituzione dà sostanza? E, se vogliamo usare ancora lo schema laici/cattolici, guardiamo alla grande ricchezza del mondo cattolico, le cui posizioni spesso divergono da quelle delle gerarchie vaticane, e anche alle debolezze di un mondo laico troppe volte incapace di comprendere che la difesa di alcune posizioni coincide con le ragioni stesse della democrazia.
Su questo sfondo si delineano le questioni oggi particolarmente impegnative, a partire da quelle relative ai temi «eticamente sensibili», che sono poi quelli che inducono le gerarchie vaticane ad affermare che siamo di fronte a valori non negoziabili, sì che lo stesso Parlamento dovrebbe assumerli come riferimento obbligato. Ma proprio in questa pretesa si coglie una contraddizione palese con i principi della democrazia, una rottura sul terreno della laicità costituzionale. Su questioni specifiche, o sugli stessi fondamenti dell’ordine giuridico, si pronunciano sempre più spesso soggetti diversi, che propongono i loro «manifesti dei valori», confezionati per l’occasione o tratti da dottrine o esperienze, da quelle religiose in primo luogo. Operazioni in sé legittime, non solo perché manifestazione della libertà di opinione, ma per il contributo che da esse può venire alla fecondità della discussione democratica. Inammissibili, invece, sono le pretese e i tentativi di far divenire quei manifesti, quei valori non negoziabili, vere e proprie «costituzioni parallele», volte appunto a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana, quella dei principi, delle libertà e dei diritti. Fino a quando quei manifesti e quei valori affermati non negoziabili non si saranno sottoposti alla stessa procedura di legittimazione che ha fondato la Costituzione, ad essi non può essere attribuito alcun valore vincolante. È inammissibile la pretesa di realizzare nei fatti una vera e propria «revisione costituzionale».
Lo spazio democraticamente legittimo è quello che risulta dall’insieme dei principi costituzionali, che non può essere sostituito da altri principi e altre assiologie attraverso forme improprie, appunto, di «revisione» costituzionale, come accade quando, ad esempio, agli articoli della Costituzione vengono contrapposti, quasi portatori di una superiore legalità, passi di encicliche papali o di altri documenti vaticani.
Dovrebbe essere del tutto evidente, infatti, che nello Stato costituzionale di diritto gli unici principi «non negoziabili» sono quelli contenuti appunto nella Costituzione. Ogni altro punto di vista, opinione, credenza entra nello spazio pubblico senza poter godere di alcuna supremazia o privilegio. Deve sottoporsi in condizione di parità alla regola del confronto, del rispetto delle opinioni diverse, della libertà di critica. Diviene così del tutto evidente la coincidenza degli elementi costitutivi della laicità con le ragioni della democrazia. Per questo è giusto parlare di una laicità costituzionale... ●

l’Unità 31.10.09
Intervista a Riad Al-Malki
«A Hillary diremo che Israele uccide la speranza della pace»
Il ministro degli Esteri dell’Anp: non c’è un solo atto di Netanyahu che vada nella direzione indicata da Obama. Occorre cambiare rotta
di Umberto De Giovannangeli

Non c’è un atto che sia uno compiuto dal primo ministro israeliano che vada nella direzione auspicata dal presidente Obama. Netanyahu usa le parole per nascondere la realtà dei fatti. Ma la realtà è quella che conta: Netanyahu sta uccidendo ogni speranza di pace». A parlare è Riad Al-Malki, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese. Alla vigilia della missione in Israele e nei Territori di Hillary Clinton, Al-Malki anticipa a l’Unità ciò che la dirigenza palestinese dirà alla segretaria di Stato Usa: «Insisteremo – afferma il ministro degli Esteri dell’Anp – sull’importanza del fattore tempo. Le prossime due-tre settimane saranno decisive». «Il blocco del negoziato e la politica di chiusura praticata dal governo israeliano – aggiunge Al-Malki – indeboliscono la leadership palestinese e finiscono per favorire le spinte estremiste. Anche di questo parleremo con la signora Clinton».
Signor ministro, la segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, sta per giungere in Israele e nei Territori con l’obiettivo di ridare slancio al negoziato di pace. E’ una missione impossibile?
«Impossibile forse no, ma certo è molto, molto difficile. E la ragione fondamentale va ricercata nel comportamento del governo israeliano...».
Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu ha ribadito a più riprese la sua disponibilità a riprendere le trattative...
«Netanyahu usa le parole per cercare di mascherare la realtà. E la realtà dei fatti sta a dimostrare che la campagna di colonizzazione e la terribile crisi umanitaria nei territori palestinesi proseguono. È quanto ribadiremo alla signora Clinton: non c’è un atto concreto compiuto dal governo israeliano che vada nella direzione indicata dal presidente Obama, quella di una pace giusta, tra pari, fondata sul principio di due popoli, due Stati». Che impatto lo stallo dei negoziati sugli orientamenti politici dei palestinesi?
«La delusione è forte e ciò non rafforza la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr). L’intransigenza d’Israele mette in grave difficoltà non solo la dirigenza palestinese ma tutti i leader arabi impegnati nel rilancio del processo di pace». Signor ministro, il presidente Abu Mazen parla di un accordo globale. Le chiedo: su quali basi questo accordo dovrebbe fondarsi?
«Le basi sono quelle della legalità internazionale e del principio di reciprocità. La legalità è quella sancita da tre risoluzioni Onu e sviluppata nella Road Map. Si tratta poi di calare il principio della “pace in cambio dei Territori” nella realtà di oggi...».
Le accuse
«La colonizzazione continua, nei Territori c’è crisi umanitaria»
Il che vuol dire?
«Vuol dire che da parte nostra c’è disponibilità a negoziare una modifica, comunque limitata, dei confini del ’67. E questo sulla base della reciprocità nella definizione delle frontiere tra i due Stati: a terre inglobate da Israele devono corrispondere terre che diventano parte dello Stato di Palestina. Uno Stato indipendente, pienamente sovrano su tutto il suo territorio nazionale, da Gaza alla Cisgiordania, senza insediamenti al proprio interno, con Gerusalemme est come sua capitale».
Netanyahu ritiene Gerusalemme capitale eterna e indivisibile dello Stato ebraico. «Su questo occorre la massima chiarezza: nessun dirigente palestinese, neanche il più aperto e disposto al compromesso, potrà mai sottoscrivere una pace che escluda Gerusalemme. Gerusalemme può essere ciò che è Roma: capitale di due Stati».
Signor ministro, a giorni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite discuterà il Rapporto Goldstone sulla guerra a Gaza. Qual è in merito la posizione dell’Anp?
«Accogliamo di buon grado le indicazioni e le richieste che emergono dal Rapporto Goldstone. Stiamo prendendo molto sul serio le accuse in esso contenute. Insistiamo sul rispetto del ruolo della legge ed affermiamo il nostro impegno nel condurre inchieste attraverso procedure legali al fine di trattare quest’importante argomento. Al tempo stesso, però, respingiamo ogni equipa- razione tra l’aggressione e i crimi- ni compiuti dall’esercito israelia- no e le azioni di risposta condotte dalla parte palestinese».
Il presidente Obama ha più volte ri- petuto in questo suo primo anno al- la Casa Bianca di essere impegnato in prima persona nella pace fra israe- liani e palestinesi.
«Abbiamo apprezzato le parole e gli sforzi del presidente Obama. Ma questi sforzi continuano a coz- zare contro l’intransigenza d’Israe- le. Il presidente Obama parla di “Muri” da abbattere: inizi da quel- lo israeliano». ❖
(ha collaborato Osama Hamdan)



Corriere della Sera 31.10.09
Lo scenario Prende corpo l’ipotesi per le Regionali. Ma la radicale Bernardini: scelte come ospiti di un programma tv 
Bonino-Polverini Due donne per il Lazio 
Il sì di «Secolo» e «Unità». L’incognita cattolica
di Monica Guerzoni 




ROMA — E se fossero due donne a correre per la presiden­za del Lazio? Sarebbe una «rivo­luzione rosa», una sfida trasver­sale e «senza veleni, senza coltel­lo tra i denti». Così il quotidiano della destra finiana Secolo d’Ita­lia , che ieri ha dedicato una pagi­na a un possibile duello tra Boni­no e Polverini, la segretaria del­­l’Ugl: «Tutti tifano Emma e Rena­ta ». Il periodico online della Fon­dazione Farefuturo (Ffwebmaga­zine) sponsorizza la sfida in rosa e, da sinistra, L’Unità si unisce al coro: «Lazio, parte il tam—tam per la Bonino. Piace ai laici del Pd».

L’ex ministro Giulio Santaga­ta è uno di questi. Per lui «Em­ma è fantastica, è stata un otti­mo ministro, è una persona mol­to leale e ha un’ottima visione delle cose». É vero, Emma Boni­no piace a tutti. A sinistra, a de­stra, ma un po’ meno al centro. Piemontese, nata a Bra il 9 mar­zo del ’48, è stata deputata a Stra­sburgo, Commissario europeo e ministro nel Prodi II. In queste ore si tiene lontana dai microfo­n i, lavora alle liste Bonino—Pannella per le regiona­li, però non smentisce quel «mai dire mai» lasciato cadere a pro­posito del dopo—Marrazzo.

L’idea di spendere il nome del­la leader Radicale sarebbe nata nella testa di Goffredo Bettini, come alternativa nel caso in cui Ignazio Marino dovesse sfilarsi. Nell’attesa di sciogliere la riser­va, l’ex sfidante di Bersani e Fran­ceschini non lesina complimen­ti alla Bonino, ne ricorda «il ca­rattere rigoroso e la grande com­petenza nelle materie economi­che » e si dice pronto a sostener­la. Però Marino avverte: «Anche una grande personalità come Emma Bonino deve passare per le primarie».

Il nodo è tutto qui. Perché, se è vero che non sarà facile unire le opposizioni sul nome della vi­cepresidente del Senato, è vero anche che, se si facessero le pri­marie, la Bonino avrebbe tutto l’interesse a tentare la corsa: qua­le miglior vetrina per trainare la lista alle Regionali? E le primarie potrebbero farsi davvero, visto il cratere in cui lo scandalo Marraz­zo ha precipitato il Pd. «È la stra­da maestra — ribadisce Bettini —. Sarebbe gravissimo se qual­cuno le mettesse in discussione in un momento così delicato». Per Bettini sia Marino, sia la Bo­nino che Mondello «sono candi­dature eccellenti», ma sta a loro «decidere liberamente» se con­correre o no. Emma ci sta pensando. Però è pronta a tirarsi indietro qualora non dovessero verificarsi le con­dizioni. Non a caso la radicale Ri­ta Bernardini osserva che da noi la politica funziona come in tv: «Quando mi invitano ci trovo sempre Mussolini e Santanchè, tanto per fare due nomi. E in po­litica è lo stesso, se c’è una don­na in corsa ecco che le mettono contro un’altra donna». Non pensa che, dopo la bufera dei trans, potrebbe servire a rassere­nare il clima? «Polverini e Boni­no sono due persone eccellenti — risponde la Bernardini — Ma questo modo di intendere la poli­tica non mi piace».

Ma ben prima del via, la corsa di Emma contro Renata ha già in­contrato il primo ostacolo. I cat­tolici del Pd sono pronti a stop­parne la corsa. «È una personali­tà importante — riconosce Pier­luigi Castagnetti —. Ma la sua candidatura sarebbe inutilmente polemica nei confronti del mon­do cattolico». Francesco Saverio Garofani, vicino a Dario France­schini, invita a cercare «un nome che non escluda l’Udc». Beppe Fioroni prende tempo: «Prima bi­sogna eleggere il segretario regio­nale, poi c’è da fare la coalizio­ne... ». E un ostacolo potrebbe in­contrarlo anche la Polverini, la cui candidatura sembra a prova di bomba. Da Capri ieri Luisa To­dini è tornata in corsa: «Se rinun­cio? No, non sono io che deci­do ». E la segretaria dell’Ugl? «È una candidata perfetta».

venerdì 30 ottobre 2009

Repubblica 30.10.09
"Ovuli e sperma dalle staminali presto bimbi senza uomo e donna"
La Stanford University: svolta nella lotta all´infertilità
Ricerca su Nature: possibile riprodurre le cellule germinali dalla pelle dei donatori
di Enrico Franceschini

LONDRA - Prima ci è stato detto che, per fare figli, non c´è più bisogno dell´uomo. Ora sembra che non serva più nemmeno la donna. Scienziati americani sono riusciti per la prima volta a creare in laboratorio degli spermatozoi e degli ovuli, entrambi ricavati da cellule staminali. Entro cinque anni, gli studiosi prevedono che sperma e ovociti così prodotti saranno in grado di creare embrioni umani. La notizia, pubblicata sulla autorevole rivista scientifica britannica "Nature", ha fatto immediatamente il giro del mondo, accolta con favore e giudicata una svolta importante dalla comunità scientifica, ricevuta con allarme e timori da parte di associazioni religiose. Non è la prospettiva di un bebè artificiale, ammoniscono gli specialisti della materia, sottolineando che di artificiale, in quegli embrioni e in quegli ovuli, non c´è nulla: provengono da cellule umane, dunque da donatori in carne ed ossa. E tuttavia l´idea che un bambino possa nascere dalla pelle di un donatore, dalla quale vengono fatti crescere sperma e ovuli, suona come una rivoluzione non solo scientifica, ma anche con profonde implicazioni etiche e sociali.
Per il momento, occorre precisare, gli scienziati della Stanford University autori della ricerca non hanno alcuna intenzione di "giocare a fare Dio" e concepire neonati sui vetrini di un laboratorio utilizzando cellule geneticamente modificate. L´obiettivo dichiarato della dottoressa Renee Rejio Pera, che ha guidato la ricerca, è semplicemente quello di capire come crescono spermatozoi ed ovociti, e quindi migliorare le tecniche per curare l´infertilità. «Tra il 10 e il 15 per cento delle copie non sono fertili», afferma la studiosa. «Circa metà di questi casi sono dovuti all´incapacità di creare ovuli o sperma. Individuare la ricetta genetica necessaria a sviluppare sperma e ovociti da cellule staminali ci darà gli strumenti per capire cosa c´è che non va». In un futuro ancora tutto da regolamentare dal punto di vista legale, e da sottoporre a una nuova concezione morale, naturalmente la scoperta della Stanford University apre il campo a una prospettiva allettante per chi non può avere figli naturalmente e nemmeno con la fecondazione artificiale: avere dei bambini che sono geneticamente propri, poiché provengono dalle proprie cellule, anche in mancanza di sperma o ovuli.
La dottoressa Rejio Pera e i suoi collaboratori dicono di essere giunti a questo stadio mettendo a punto un cocktail di sostanze chimiche e vitamine che riesce a interagire con le cellule staminali embrionali, per trasformarle in ovociti e spermatozoi. Gli spermatozoi così ottenuti hanno la testa e la coda più piccola di quelli normali, ma sembrano comunque in grado, secondo gli scienziati, di poter fertilizzare un ovulo. Gli ovociti appaiono in uno stadio non avanzato, ma sono comunque più sviluppati di quanto sia avvenuto finora in altre ricerche simili. Nel luglio scorso studiosi della Newcastle University annunciarono di avere creato sperma ragionevolmente maturo da cellule staminali embrionali, ma la loro affermazione non convinse altri esperti e la documentazione prodotta come prova è stata successivamente ritirata a causa di errori emersi nelle procedure. «Questa scoperta apre una nuova finestra in quello che fino a poco tempo fa era un campo sconosciuto dello sviluppo umano», commenta Susan Shurin, direttrice dell´Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development, l´istituto che ha finanziato il progetto della Stanford University.

Repubblica 30.10.09
Giuseppe Novelli, preside di Medicina a Tor Vergata
"Un passo decisivo ma la vera riproduzione resta un processo oscuro"
Un figlio senza genitori? Ancora non è possibile. Non carichiamo questa scoperta di significati eccessivi
di Elena Dusi

ROMA - «Lo scopo di questa ricerca è trovare una cura per l´infertilità. Nessuno vuol far nascere bambini senza padre o madre». Giuseppe Novelli, genetista e preside della facoltà di Medicina a Roma Tor Vergata, è un po´ preoccupato per il significato che all´esperimento di Stanford è stato attribuito.
Produrre ovuli e spermatozoi in laboratorio non apre le porte alla loro fecondazione?
«Da quelle cellule germinali non potrà mai nascere un bambino. Dopo che ovuli e spermatozoi sono stati prodotti nel nostro organismo, devono passare attraverso varie fasi di imprinting che sono essenziali per la loro fertilità. Questo processo è ancora piuttosto oscuro e non può essere riprodotto in laboratorio: si tratta di sopprimere selettivamente alcuni geni che non sono coerenti con il sesso di appartenenza. La natura ha impiegato 400 milioni di anni a rendere efficiente la riproduzione sessuale, evidentemente le cose non sono così semplici».
Perché allora ripercorrerne i passi in laboratorio?
«Lo studio di Stanford è uno studio di genetica. Molti casi di infertilità hanno origine nei geni, e noi ai pazienti sappiamo ancora spiegare molto poco. I ricercatori hanno deciso di riprodurre in laboratorio il processo di formazione di ovuli e spermatozoi per osservare passo dopo passo quali geni si attivano durante lo sviluppo. Solo così potremmo fare diagnosi precise ed eventualmente trovare delle cure».
E da questo punto di vista la ricerca ha avuto successo?
«È uno studio davvero importante. Ottenere cellule germinali in generale è complicato, perché bisogna ridurre il set di cromosomi da due a uno, passando da 46 a 23. Gli spermatozoi in particolare hanno una struttura complessa, difficile da riprodurre, mentre la forma raggiunta a Stanford è quasi perfetta. Ora sappiamo quali geni producono una morfologia ottimale».

Repubblica 30.10.09
Il progetto di Dio
Monsignor Sgreccia, della Pontificia accademia per la vita
"Moralmente inaccettabile è una deriva pericolosa per l´intero genere umano"
Non si può concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «È sempre moralmente inaccettabile affidarsi a tecniche riproduttive senza l´uomo e la donna uniti nel sacro vincolo del matrimonio. La Chiesa cattolica non potrà mai accettarlo». L´arcivescovo Elio Sgreccia boccia senza mezzi termini l´annuncio della rivista scientifica "Nature" sull´eventualità di produrre in laboratorio sperma ed ovuli senza l´intervento del maschio e della femmina. Presidente emerito della Pontificia accademia per la vita - stretto collaboratore di papa Ratzinger su morale e bioetica - , il presule teme, persino, che «si tratti di una prospettiva pericolosa per la stessa specie umana».
Monsignor Sgreccia perché tanta diffidenza?
«È solo un annuncio. Ci vuole tempo per vederne gli sviluppi ed, eventualmente, le applicazioni. Tuttavia, produrre - anche se in futuro - sperma ed ovuli destinati alla riproduzione senza l´uomo e la donna è moralmente da condannare, inaccettabile e pericoloso per il genere umano».
Ma gli autori di questi esperimenti dicono che così si curerà l´infertilità.
«Ribadisco che per la Chiesa è immorale ed inaccettabile concepire una creatura senza l´incontro d´amore tra l´uomo e la donna secondo il progetto di Dio. Qualsiasi sistema che escluda tale prospettiva, come sono le tecniche annunciate da questi scienziati americani, sarà sempre condannato dalle autorità ecclesiali».
Nemmeno se si tratta di tecniche curative?
«Purtroppo è un crinale pericoloso. Abbiamo già visto quante discutibili tecniche sono state già varate per far fronte all´infertilità come uteri in prestito o scambi di ovuli. Ma con scopi ben diversi. Ora si parla di sperma ed ovuli ricavati in laboratorio con interventi su cellule germinali umane. È una strada pericolosa invisa agli stessi scienziati».

Corriere della Sera 30.10.09
Esperimento dell’università di Stafford: serviranno per la fecondazione in vitro
Le nascite senza genitori. La vita dalle staminali
Ovuli e seme maschile dalle cellule. «La sconfitta della sterilità»
di Adriana Bazzi

MILANO — È una promessa per la cura della sterilità: un grup­po di ricercatori americani è riu­scito a trasformare cellule stami­nali embrionali in ovuli e sperma­tozoi «primitivi» e spera, entro cinque anni, di fabbricare la ver­sione «matura» da utilizzare per la fecondazione in vitro. Per pro­creare, estremizzando, senza pa­dre o senza madre ma con cellule di embrione. Renee Reijo Pera e il suo gruppo hanno focalizzato l’attenzione sui geni scoprendo la «ricetta» genetica capace di tra­sformare le staminali in cellule specializzate nella riproduzione, e pubblicandola sulla rivista Na­ture .

«Dal 10 al 15 per cento delle coppie sono sterili — ha com­mentato Pera che lavora alla Stan­ford University in California — e metà dei casi è legata all’impossi­bilità di fabbricare ovuli e sper­matozoi efficienti. Spesso questo difetto è genetico».

Non è facile utilizzare gli ani­mali come modello per studiare il sistema riproduttivo umano perché quest’ultimo è unico ed è piuttosto sofisticato. Ecco per­ché studiare come funzionano i geni, che trasformano una stami­nale embrionale in una cellula ri­produttiva adulta (questo proces­so di trasformazione avviene nor­malmente nell’embrione umano durante la gravidanza) può servi­re non solo per produrre, in futu­ro, ovuli e spermatozoi in labora­torio, ma anche per capire le cau­se genetiche della sterilità.

I ricercatori americani hanno individuato una famiglia di geni chiamati Daz (e le proteine da lo­ro prodotte) e ne hanno studiati in particolare tre: il primo, il Dazl, è un gene che interviene nelle prime fasi e controlla la tra­sformazione da cellula staminale embrionale umana (che possie­de 46 cromosomi) in un precur­sore delle cellule riproduttive (anche queste con un patrimo­nio di 46 cromosomi). Gli altri due controllano, invece, il pas­saggio successivo che porta alla formazione di ovuli e spermato­zoi «primitivi» e contribuiscono alla meiosi, cioè alla riduzione del loro patrimonio genetico a so­li 23 cromosomi. Riduzione indi­spensabile, dal momento che ovuli e spermatozoi (ognuno con 23 cromosomi) ricostituisco­no, con la fertilizzazione, il patri­monio completo di 46 cromoso­mi che è presente in tutte le cellu­le umane.

Spegnendo e accendendo questi geni, i ricercatori sono, dunque, riusciti a ottenere pre­cursori di ovuli e spermatozoi (questi ultimi già in grado di «nuotare» in un liquido) e spe­rano di perfezionare la procedu­ra nei prossimi anni. Non solo. Queste ricerche fanno ipotizza­re anche altri tipi di cura: un’idea è quella di partire dalle cellule germinali immature di una persona, che non può avere figli, di «correggere» i geni in modo da ottenere ovuli e sper­matozoi «maturi» e di utilizzare questi ultimi per la fecondazio­ne in vitro, senza ricorrere a sta­minali embrionali estranee, ma­turate in laboratorio.

Una terza strada prevede la possibilità di prelevare cellule adulte, per esempio di un indivi­duo sterile, riprogrammarle per riportarle allo stadio di staminali e di manipolarne i geni in modo da costringerle a trasformarsi in cellule riproduttive che avranno così il patrimonio genetico del­l’individuo di partenza. Non è la prima volta che i ricercatori an­nunciano di aver ricavato cellule riproduttive da staminali, ma questa nuova strada sembra la più promettente.

Corriere della Sera 30.10.09
Prospettiva che seduce
di Edoardo Boncinelli

Lo si sapeva fare nei topi di laboratorio e ora si è passati alla nostra specie. Con le cellule staminali si possono fare anche i gameti, cioè la cellula-uovo femminile o lo spermatozoo maschile. Dal punto di vista conoscitivo è una grande notizia che può portare a due diversi sviluppi entrambi collegati alla sterilità o alla ridotta fertilità. Questa ricerca può servire a comprendere sempre meglio i meccanismi che portano alla produzione di gameti maturi e preludere quindi a sempre nuove cure, farmacologiche o direttamente cellulari. Nello stesso tempo si può pensare di arrivare a produrre direttamente gameti dalle cellule di un individuo che proprio «non ne vuole sapere» di produrre gameti vitali. Quale delle due prospettive sia più realistica è difficile dire, ma con il tempo è ragionevole pensare che si realizzeranno entrambe. Certo, la seconda è più seducente: produrre gameti, per esempio spermatozoi, dalle cellule di una determinata persona. È qualcosa di più di una fecondazione medicalmente assistita, perché per uno dei due partner — o per entrambi — non si usano gameti prodotti per via normale. È il massimo sforzo possibile contro la sterilità. Una persona che non riesce assolutamente a produrre gameti, per esempio spermatozoi, può divenire ugualmente padre per questa via e il suo patrimonio genetico passerà così comunque al figlio o ai figli. L’unico passaggio che, per ora, non si può saltare è quello dell’utilizzazione di un utero femminile per far crescere l’embrione e il feto. Una «mamma» che mette il suo utero deve comunque sempre esserci. La scienza mette a disposizione della società sempre nuove opportunità. A noi spetta farne un buon uso, informandosi accuratamente e decidendo con oculatezza.

Corriere della Sera 30.10.09
Il Bacco degli Uffizi

Caravaggio, autoritratto nella brocca
Mina Gregori: «Dipinse se stesso. Meglio una scoperta che mostre inutili»
di Pierluigi Panza

Intorno al 1596-97 Caravaggio si dipinse in maniera microscopica dentro la brocca del suo Bacco, quasi presagio al naufragio nel vino e nei bagordi che di lì a poco avrebbe caratterizzato la sua stessa vita.

Le iniziative che si vanno predisponendo per il IV centenario della morte del Merisi (18 luglio 1610) incominciano con questa scoperta conse­guita, come ormai sta diventando abitudine ne­gli studi d’arte, attraverso analisi scientifiche. Una riflettografia multispettrale condotta da Art-Test sulla piccola tela (95 x 85 cm) del Bacco conservato agli Uffizi ha rivelato ciò che da seco­li si sospettava, ovvero che anche il Merisi si fos­se ritratto specchiandosi direttamente nel qua­dro mentre dipingeva. La novità, documentata in Nuove Scoperte sul Caravaggio , edita dalla Fondazione Roberto Longhi, sarà presentata og­gi dal Comitato nazionale per le celebrazioni del IV Centenario alle 15.30 presso l’Aula Magna di Studio Art Centers International (via Sant’Anto­nino 11, Firenze) da Mina Gregori e Roberta La­pucci. «Nella caraffa alla destra di Bacco - affer­ma la Gregori, una delle maggiori studiose del pittore - Caravaggio dipinse la sagoma di un per­sonaggio in posizione eretta, con un braccio sporgente in avanti verso un cavalletto da pitto­re con sopra una tela. Di questa sagoma sono distinguibili i lineamenti del volto, in particola­re naso e occhi. Per me è il suo autoritratto men­tre stava dipingendo. Anche il Merisi, in­fatti, dipingeva utilizzano gli specchi nei quali si rifletteva, come racconta Baglio­ne, un suo biografo ». Scrive infatti Gio­vanni Baglione in Le Vite de’ Pittori, Scultori, Architetti, ed Intagliatori del 1642 che il Merisi «fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve di­verse ».

Anna Pelagotti, che ha condotto la ri­flettografia multispettrale a infrarossi, spiega perché si arriva solo oggi alla sco­perta del particolare: «Perché sopra al particolare sono stesi una vernice colorata e ma­teriale depositato nei secoli; per cui senza gli in­frarossi la sagoma non è visibile. Di certo Cara­vaggio la dipinse, e sembra proprio di vedere un giovanissimo Merisi, che crea con il pennello in mano». La lettura a infrarossi è un’operazione della durata di un’oretta e dal costo massimo di circa mille euro.

«Meglio una scoperta come questa che predi­sporre per l’anniversario esposizioni inutili, con vecchi quadri, senza tenere conto di tutto il di­battito avvenuto sul pittore dalla mostra di Lon­ghi del 1951 a Milano ad oggi», afferma la Grego­ri. «Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le interpretazioni sul pittore: giudico sbagliate le proposte, che ho sentito ventilare, di fare per l’anniversario solo esposizioni con quadri del Merisi e non dei caravaggeschi. Bisogna discute­re ancora molto delle sue attribuzioni! Prendia­mo il 'Narciso'; nell’85 io stessa ho sostenuto che fosse autentico; oggi siamo propensi a rite­nerlo di altro autore, forse dello Spadarino».

Il Comitato è presieduto da Maurizio Calvesi ed è stato proprio lui, in una riunione prelimina­re, ricorda la Gregori, «a suggerire di finanziare analisi di laboratorio. Io ero scettica, ma mi so­no convinta». Di certo gli studi di storia dell’arte si stanno spostando sempre più da un piano di lettura anche narrativa dell’opera (come era pro­prio pure del Longhi) a uno di indagine scientifi­co- oggettivistica, che di certo aumenta i dati di conoscenza, ma che non accompagna a una vici­nanza emotiva ed empatica con l’opera.

Che il volto del Merisi fosse nascosto da qual­che parte nel dipinto di Bacco si sospettava. Ma nessuno l’aveva documentato. A seguito della pulitura di questa tela, nel 1922, Matteo Maran­goni disse infatti di aver scorso, riflessa nella brocca una testi­na simile al «Fruttaio­lo » o al «Bacco» Bor­ghese, che volle ricolle­gare alla fisionomia dello stesso Caravag­gio: «Grandi orbite oculari, naso a base lar­ga e un po’ camusa, labbra carnose e semi aper­te ». Da allora solo oggi, ma agli infrarossi, si rie­sce ad intravedere un casco di capelli neri, un accenno di volto, un tocco di bianco per il collet­to. Altre interpretazioni, pure autorevoli, riten­gono che sia invece il volto del Bacco l’autoritrat­to del pittore, anche se ignoravano l’esistenza di una figura dentro la brocca.

Il «Bacco» fu commissionato al Merisi dal car­dinal Del Monte per regalarlo a Ferdinando I de’ Medici in occasione della celebrazione delle noz­ze del figlio Cosimo II. Nella tela il vino è stato versato da poco e Bacco tiene in realtà in mano il calice con poca sicurezza. Maurizio Calvesi ha interpretato questo quadro come opera di gene­re allegorico-mitologico: l’androginia del sogget­to è da intendersi come unione dei contrari. Per altri l’opera allegorizza il sangue di Cristo offer­to per la salvezza dell’uomo.