La battaglia su un simbolo
di Stefano Rodotà
Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s´era parlato addirittura di una "fuga della Corte", nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo, non v´è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l´importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un "segno esteriore forte" della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, "possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna".
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d´ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all´argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l´identità europea, che è "sintomo di una dittatura del relativismo", addirittura "un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti". Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una "corte europea ideologizzata", si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici "rossi", che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte "laicista" cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L´ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell´Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell´Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell´uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a "radici cristiane", che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l´Europa, anche intorno all´eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?
Questa sentenza ci porta verso un´Europa più ricca, verso un´Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all´educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d´ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L´Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.
l’Unità 4.11.09
Pena di morte all’italiana
risponde Luigi Cancrini
Trattando del suicidio in carcere di Diana Blefari, Michela Marzano (su la Repubblica del 2 novembre) evidenzia che dall’inizio dell’anno, peraltro non ancora concluso, nelle prigioni italiane ci sono stati ben 61 suicidi. Come se tra tutti gli italiani, bambini esclusi, si suicidassero in un anno 50.000 persone!
ASCANIO DE SANCTIS
RISPOSTA Il caso di Diana Blefari è stato affrontato con una incredibile superficialità da persone non competenti. Affetta da un disturbo psichiatrico grave, Diana doveva essere curata in ambiente adatto, il suo suicidio poteva essere evitato, quella che è stata applicata nel suo caso è una “pena di morte all’italiana” maturata in un clima di ostracismo esagerato verso persone che, a differenza di altre, più furbe o più flessibili, non hanno saputo utilizzare la clausola del “pentimento”. Quello su cui il caso di Diana deve far riflettere, d’altra parte, è che la quantità di problemi psichiatrici con cui ci si confronta nel carcere è molto alta e che il suicidio è fra tutti i sintomi l’unico che le mura del carcere non riescono a nascondere. Inutilmente ho sottolineato per due anni, da parlamentare, la necessità di rispondere a questa emergenza con delle task force socio-sanitarie affidate, con gli opportuni finanziamenti, alle Asl che dal maggio 2007 sono responsabili della salute mentale nel carcere. Senza ottenere udienza dai politici veri e puri, quelli che decidono tutto, a cui di chi sta in carcere non importa purtroppo nulla.
l’Unità 4.11.09
Voltiamo pagina
Caro Bersani non svegliare Diliberto
di Vincenzo Cerami
Bersani, ti prego in ginocchio, Diliberto no. Sta tanto bene dove sta, lascialo nel congelatore. Non ritirare fuori i fantasmi, le mummie sovietiche. Bersani, questo è un grido di dolore vero e proprio. La più grande carità che si può fare ai morti è di non resuscitarli. La sinistra ha passato la vita a suicidarsi, ti prego interrompi questa vocazione autodistruttiva del nostro partito. Diliberto, ti rendi conto? Quello che odia Fellini e ama le barzellette di Pierino e i film carta igienica, che vuole portare la salma di Lenin a Roma, che invece di Padre Pio, sul cruscotto della macchina ha incollato l’immaginetta di Stalin.
Bersani, no. Risparmiaci questa pena. È vero che quanto non ci uccide ci rende più forti, ma non spingere oltre quel pedale, perché è dimostrato che nei casi gravi bisogna lasciar perdere l’omeopatia e ricorrere velocemente agli antibiotici. Con Diliberto abbiamo già dato tutto quello che avevamo, abbiamo svuotato il cassetto dei ricordi. Ti prego. D’altronde lo sai che Diliberto non ti serve a niente, nemmeno a smaltare di vecchie gloriose utopie la politica di oggi, che sai benissimo essere costosa, e se è costosa vuol dire che ha bisogno di soldi da trovare in giro. E tu lo sai benissimo. Diliberto ha le tasche vuote e si ubriaca in un’osteria degli anni Sessanta. Cosa ha da darti? Ma dove vivi Bersani, che ci fai con Diliberto? Guarda che il mondo è andato da un’altra parte, e non da ieri.
Diliberto no. Rischi di restare imbrigliato nelle ragnatele. Parlane con il tuo pantocratore D’Alema, ti dirà le stesse cose. Ti dirà che è passata molta acqua sotto i ponti e che Renato Zero ha già fatto il suo tempo. Figurati Diliberto.
Non oso pensare a Pecoraro Scanio. Spero che tu non sia riuscito a trovare il suo numero telefonico, che per fortuna nessuno più compone. In questo caso mi metto in ginocchio davanti a te con pietoso atteggiamento per chiederti di pensare ad altro, magari ai tortellini bolognesi. Distraiti Bersani, che il nome di Pecoraro Scanio non sfiori le tue trombe di Eustachio.
Non guardarti troppo intorno. Lo stesso Bertinotti, buttato a mare da Vespa dopo che ha fatto per anni, insieme all’inane Sansonetti, propaganda pro Berlusconi, non porta ormai granché alla tua causa. Senza kashmir Bertinotti è come Sansone senza capelli. È anche lui, come direbbe il Belli, cadavere di morto.
Bersani: dicci che sei con noi. Credici. Dicci che il passato ti fa schifo, che vuoi ben altro. Prova a farci sognare. Il Pd voleva essere questo, non certo il riciclaggio delle cose vecchie e il risveglio degli zombie come Diliberto. Bersani, io sono con te, dal fondo della periferia politica. Conta anche su chi non ti ha votato, ma non offrirci yogurt scaduti. Diliberto no, ti prego in ginocchio. Diliberto no. È come tornare all’Italia delle cambiali e delle radio con l’occhio magico. ❖
l’Unità 4.11.09
La scienza e la scoperta della pace
La mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative. Eppure questa dote naturale viene continuamente repressa
di Umberto Veronesi
Q uelle connerie, la guerre” scriveva Jacques Prévert, che fesseria, che assurdità. Soprattutto chi, come noi medici, vive accanto al dolore, non può non trovare assurdo che sia l’uomo con le guerre a produrre altro dolore, quando già ci affligge quello provocato dalle malattie. La guerra, è un’assurdità figlia della paura e dell’insicurezza: ce lo dice il buon senso, e ce lo conferma la scienza. Le istruzioni del nostro Dna, come quello di tutti gli esseri viventi, sono di conservarsi, riprodursi. Uccidere, prevaricare, violentare, non sono necessità biologiche, ma meccanismi primitivi di difesa. La forza della razionalità può allora essere la chiave per vincere appunto il dolore più grande, la guerra. È questa convinzione che ha fatto nascere Science for Peace, il movimento che ho voluto creare per promuovere la cultura della non violenza, della tolleranza, della risoluzione pacifica delle conflittualità, puntando sulla razionalità. Quella stessa razionalità che è il motore trainante della scienza e che ha portato l’uomo a tante conquiste che hanno migliorato la sua vita. Sappiamo che dobbiamo alla ricerca scientifica i contributi più importanti al progresso e alla soluzione dei problemi più gravi che affliggono l’umanità: malattie, denutrizione, mancanza d’acqua e di cibo. L’aspetto innovativo, o la sfida se vogliamo, del nostro neonato movimento è ora di rivelare il contributo inedito del pensiero razionale scientifico anche al processo di pacificazione mondiale. Disseminando il pensiero razionale, la scienza ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Per esempio rifiuta il principio esasperato dell’identità nazionale o della razza, e utilizza un linguaggio universale che non conosce frontiere e nazionalismi.
La razionalità è dunque un antidoto all’aggressività e alla sua origine, la paura. Ha scritto Tara Gandhi, nipote del Mahatma e parte attiva del nostro Movimento: «Il mondo sta attraversando un terribile momento di violenza; esiste una continua catena di vendetta, violenza e ancora vendetta. ̆La paura è quindi il risultato di tutto questo. Noi dobbiamo interrompere questa catena continua di violenza. Paura e amore non possono convivere». Ecco la finalità di Science for Peace: razionalizzare le nostra paura e trasformarla in un atteggiamento di fiducia, in gesti pacificatori, in pensieri costruttivi. Assecondando la nostra naturale attitudine di esseri umani alla socializzazione e alla solidarietà: è stato infatti recentemente dimostrato che anche i principi morali, che ciascuno sente di rispettare, non ci vengono solo inculcati dall’educazione che riceviamo, ma sono anche innati nel nostro cervello e hanno basi neurologiche. Nonostante le violenze e le guerre che ricorrono nell’ancora breve storia dell’umanità, c’è l’evidenza scientifica che la mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative e non antagonistiche. La nostra specie aspira naturalmente alla pace, e la collaborazione tra gli individui, che ha portato alla formazione prima delle tribù e poi delle nazioni, tende a diventare sempre più ampia.
Noi vogliamo la pace non solo per vivere, ma anche per progredire. Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati la premessa per i grandi avanzamenti scientifici (l’uomo sulla luna, la decodifica del Dna) e per gli enormi avanzamenti tecnologici che stanno cambiando il nostro modo di vivere. Primo fra tutti l’incredibile sviluppo delle comunicazioni e dell’informatica, che con Internet mette in comune le conoscenze di tutto il mondo e crea un dialogo tra milioni di persone. È davvero giunto il momento per la nostra società di prepararsi ad affrontare regole e leggi di una moderna cultura pluralistica multietnica, multi confessionale. E di fare nostro l’impegno che il Presidente Obama ha preso davanti ai suoi concittadini: garantire la convivenza pacifica di una comunità pluralistica, per una soluzione non violenta dei conflitti e per una maggiore tolleranza, giustizia e rispetto dei diritti umani. Lo vediamo ogni giorno: la cultura pacifica è quella vincente, mentre l’aggressività e la prevaricazione si rivelano spesso inutili, se non controproducenti.
Invito tutti i cittadini che la pensano come a me ad aderire al movimento «La Scienza per la Pace», attraverso il sito www.fondazioneveronesi.it e a partecipare alla Conferenza Internazionale di Milano il 20 e 21 novembre prossimi. ❖
l’Unità 4.11.09
Non sarà una sfida al femminile quella per il dopo-Marrazzo
Freddo il Pd sull’esponente Radicale. Berlusconi vuole Tajani
Lazio, non decolla la Bonino. A rischio anche la Polverini
Oggi Bersani vede prima Bonino e Pannella e poi Casini e Cesa. Tema degli incontri: battaglie dell’opposizione e regionali. Se D’Alema otterrà l’incarico di ministro degli Esteri Ue, il premier farà correre Tajani.
di Simone Collini
Si profilava come una sfida tutta al femminile, quella per la presidenza del Lazio, ma più passano i giorni e più perde quota l’ipotesi che alle regionali si assisterà ad un confronto tra Emma Bonino e Renata Polverini. Anzi, se i tasselli nelle mani dei vertici Pd e Pdl andranno al posto giusto, nessuna delle due a marzo sarà in campo per la poltrona occupata da Piero Marrazzo.
STRADA IN SALITA PER LA BONINO
La candidatura dell’esponente Radicale è nata come tam-tam sul web e rilanciata fuori dalla terra telematica dall’area Pd che al congresso ha sostenuto Marino. Il freno a mano è stato però subito tirato dagli esponenti che al congresso hanno sostenuto Franceschini. «È persona di grande valore, ma sono le regionali, serve una figura che conosca la Regione», ha sostenuto Ermete Realacci. Ma la realtà, come dicono senza riserve ex popolari come Pierluigi Castagnetti, è che la
candidatura della Bonino significherebbe rinunciare in partenza al voto cattolico e a un’alleanza con l’Udc.
La vicepresidente del Senato quando ha visto il suo nome inserito nella “short list” delle candidature di centrosinistra non è andata più in là di un «non ho mai escluso nulla nella mia vita». Ma le reazioni dei vertici del Pd, tra i niet pubblici e l’indifferenza fuori dall’ufficialità (nessun democrat l’ha chiamata per discutere se e come dar corpo alla candidatura), le ha registrate eccome.
L’occasione per discutere la questione si presenta oggi, quando Bersani la incontrerà insieme a Pannella al Senato. Ma il segretario del Pd vuole impostare il colloquio su altri binari, cioè sulla riorganizzazione del centrosinistra e il rilancio di una battaglia comune sulla crisi democratica e sociale. Quanto alle regionali, Bersani evita di avviare una discussine sui nomi, sostenendo che prima si parla di contenuti, poi di alleanze e
alla fine di candidature. Ma non è un segreto che il segretario del Pd punta ad incassare l’accordo con l’Udc soprattutto nelle regioni date in bilico, tra le quali c’è il Lazio. E tanto meno lo è che Casini e Cesa che Bersani incontrerà sempre oggi a Montecitorio neanche avvieranno la discussione se in campo c’è la candidatura Bonino. E poi c’è una variabile indipendente che potrebbe rendere determinante la contesa del voto moderato, resa più complicata dopo l’indisponibilità a candidarsi del fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.
POLVERINI A RISCHIO CADUTA LIBERA
La candidatura di Renata Polverini stenta a decollare, al di là delle dichiarazioni pubbliche. La Consulta del Pdl laziale si è chiusa senza un’ufficializzazione attesa da tempo. Il che, unito al fatto che Berlusconi a sorpresa si è detto contrario a un voto anticipato nel Lazio, ha fatto emergere nel Pd un sospetto. Che cioè il premier aspetti la chiusura della partita delle nomine europee e veramente tifi per D’Alema ministro degli Esteri dell’Ue. E non nonostante ma proprio perché questo comporterebbe il rientro di Tajani. Che Berlusconi, soprattutto se non riuscirà a incassare la candidatura di Nicola Cosentino in Campania, vorrebbe far correre nel Lazio, con buona pace di una candidatura in quota Fini.❖
l’Unità 4.11.09
Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo occidentale
di Bruno Gravagnuolo
La scomparsa Il padre dell’antropologia si è spento in Borgogna nel fine settimana a quasi 101 anni
La vita Le spedizioni, i «Tristi Tropici», lo strutturalismo: così ha cambiato il modo di vedere l’uomo
Ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Dalle spedizioni in Amazzonia negli anni ’30 fino all’indagine sul simbolico, ritratto di uno dei più grandi studiosi del ’900. I suoi funerali si sono già svolti in Borgogna.
Avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Ma non ce l’ha fatta. In compenso ha traguardato il secolo di vita, con un’attività intellettuale lucida fino all’ultimo. E con un’opera ciclopica, che ha cambiato il nostro «sguardo» sul mondo. Eppure Claude Lévi-Strauss di suo era un temperamento mite e sembrava destinato a un tranquillo insegnamento nei licei, al più all’Università.
Figlio di un pittore, con entrambi i genitori francesi, era nato in Belgio nel 1908 e passò infanzia e giovinezza a Parigi. Laureato in filosofia nel 1931, dopo un breve insegnamento alle superiori, concorre per una cattadra di Sociologia all’Università di San Paolo in Brasile, dove avviene la svolta della sua vita. Una svolta chiamata «antropologia», nel segno dell’etnografia «americanistica», compiuta con due spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia. Due libri da quelle due spedizioni: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, e Le strutture elementari dela parentela (1948 e 1949). Tra
l’esperienza brasiliana e il primo viaggio negli Usa nel 1940 c’è intanto la prima rivoluzione di Lévi-Strauss. La connessione tra antropologia americana e linguistica.
Dunque tra la lezione di F. Boas, e quella del linguista russo Roman Jacobson, che aveva conosciuto a New York, sospinto dall’interesse per la fonologia.
Sta qui il nucleo più profondo dello «strutturalismo», l’invenzione più importante del grande antropologo. Non solo, proprio a partire di qui Lévi-Strauss introdurrà in Europa il frutto più maturo delle scienze umane statunitensi: «l’antropologia culturale». Piccolo inciso. Proprio mentre rivoluziona lo sguardo occidentale sulle «culture» come sistemi, Progresso e «primitivi», lo studioso è del tutto inconsapevole della tragedia che incombe sull’Europa. Di ritorno dagli Usa, tenterà addirittura di tornare ad insegnare nel suo vecchio liceo parigino, prima di essere messo sull’avviso da un funzionario ai permessi di Vichy, che gli dirà: «Professore, con un nome così!. Segno non solo di un temperamento da studioso assorbito dai suoi lavori, ma anche di un certo motato come ministro della pubblica istruzione (non se ne fece nulla).
Ma torniamo alla sua rivoluzione epistemologica, consegnata a opere quali, Strutture elementari di parentela; Razza e Storia; Tristi Tropici; Antropologia strutturale; Il crudo e il cotto. Da un lato c’era la «cultura», in quanto sistema di relazioni sociali. «Unica», nelle sue varietà geografiche e storiche, secondo la linea di Boas. E cultura riletta con gli occhi di Durkheim, risposta «funzionale» ai bisogni di produzione e riproduzione del mondo. Dall’altro però c’era il linguaggio. Ma non tanto come lingua parlata, bensì come modello: sistema di segni alla Saussure. E segni coincidenti con le «strutture di parentela». Con i riti e i miti, le abitudini alimentari. Ecco la rivoluzione: il linguaggio come sfera del simbolico. Codificato in invarianti, inclusioni ed esclusioni, tabù e procedure consentite/obbligate. Era la famosa «struttura». Atemporale, inconscia, sovrapersonale. Irriducibile ad altre strutture di altre culture, benché confrontabile, sul piano metodologico.
LA POLEMICA CON SARTRE
Stanno qui le radici della famosa disputa tra storicisti e strutturalisti, la polemica con Sartre e l’ esistenzialismo. Se gli storicisti rivendicavano il ruolo dell’umano e della storia, lo strutturalismo mirava alla struttura tendenzialmente non modificabile, se non per rotture, «coupures» epistemologiche. Come quelle dei «paradigmi linguistici» in Foucault o in Althusser, o in storici della scienza come Kuhn. E il punto affermato da Lévi-Strauss era questo: nelle società primitive era il «simbolico» a fungere da tecnica produttiva. Cioè l’incesto e la sua proibizione, le regole familiari e claniche. E l’economia era riproduzione culturale e non «economica». Come accade nello «scambio simbolico» del dono teorizzato da Marcel Mauss, tra i maestri di Levi-Strauss. All’opposto, con la modernità occidentale, è l’economia a fare cultura, almeno in una prospettiva marxista o post-marxista (anche in Weber). Ne derivava non solo un’intera scuola di pensiero: Lacan, Foucault, Baudrillard. Ma un nuovo criterio interpretativo del vivere sociale, dove l’immaginario inconscio e rappresentativo è inseparabile dall’economia, anche nelle società moderne. La sfida teorica che Levi Strauss ci lascia è allora questa: il potere dei segni come forza produttiva di ogni società e di ogni relazione. Ieri come oggi.❖
l’Unità 4.11.09
L’ultima intervista
«I miei Tristi Tropici, come un romanzo»
di Anna Tito
2005, nel cinquantenario di quella sua opera, concesse a l’Unità una delle sue ultime rare interviste. La ricerca sul campo, l’odio per i viaggi, l’ebraismo, Hitler, la politica. Ecco cosa ci disse
Nel 2005 Claude Lévi-Strauss concesse a l’Unità una delle rare interviste dei suoi ultimi anni. Ecco ampi stralci di quel colloquio.
In occasione dell’Anno del Brasile in Francia, Lévi-Strauss accetta di tornare con noi sul suo rapporto con il Paese dal legno color brace. Ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Tristi Tropici, un romanzo più che un testo scientifico, dedicato agli indios del Brasile, che ha segnato un’epoca e che tuttora seduce e intriga: «Lo scrissi per diversi motivi spiega -: in primo luogo perché mi ero appena sposato per la terza volta e la mia vita era cambiata, poi perché l’editore Plon mi aveva chiesto un libro per lanciare una nuova collana, e infine per cimentarmi nella narrativa». (...) «Il Brasile rappresenta l’esperienza più importante della mia vita, specie per la lontananza e il contrasto. La natura mi appariva tanto diversa da quella che conoscevo. Me ne andai nel 1939 e vi tornai, per pochi giorni, nel 1985. Quel viaggio mi sconvolse: San Paolo, scomparsi i residui dell’epoca coloniale, era ormai una città spaventosa».(...) Dopo il Brasile abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: (...) «Io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo... Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”».
Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista». (...) Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno». (...) Ricorda ridendo che: «nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato! ».(...) Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni». E poco lo interessava il sionismo (...). Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco (...)».
È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione (...). La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo.
Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente: «il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».❖
Repubblica 4.11.09
Le lezioni di un mestro che reinventava il mito
di Marino Niola
Insegnava al Collège de France e venivano ad ascoltarlo da tutto il mondo
La sua opera è ricaduta come una pioggia benefica su tutti i campi del sapere
Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l´ironia tagliente e l´erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l´amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un´atmosfera gelidamente silenziosa.
Eppure era questo stile d´altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell´uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L´effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l´urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell´Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell´Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell´Occidente. In un nuovo modo di pensare l´uomo. Facendo così dell´antropologia il fondamento di una critica radicale dell´Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava.
L´uomo che ha inventato l´antropologia ha incarnato in pieno l´ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell´umanità. In questo senso l´autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall´arte alla musica contemporanea, l´opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell´uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell´astrazione pura che parla dell´uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa.
È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.
Repubblica 4.11.09
Dalla delusione per la filosofia all´incontro con i popoli selvaggi
La fuga dall´occidente alla ricerca dell´altro
di Umberto Galimberti
Dopo l´avventurosa peregrinazione nel Mato Grosso si chiede: "Cosa sono venuto a fare qui?"
Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po´ perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissionoe incaricata di organizzare l´università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.
In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell´Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell´antropologia del Novecento.
Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un´inquietudine che rode l´anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.
Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d´origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un´avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c´è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell´orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l´esistenza dell´Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.
Agli "antipodi" dell´Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?».
Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l´Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l´ha promossa, l´intenzione profonda che l´ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.
l’Unità 4.11.09
Il governo secondo
Luttazzi: disastri italiani
da Brunetta a Bondi
di Daniele Luttazzi
Tremonti e il crac delle borse, l’elmetto di carne di Bondi, Prestigiacomo contro le misure salva-clima Ue... ecco il nuovo libro del satiro più pericoloso d’Italia
Calderoli: «Semplificazione delle leggi? Se le capisce lui le capiscono tutti»
La Russa: «Con un sorriso ha crepato un blindato: è così felice dei Tornado»
È in uscita il nuovo libro di Daniele Luttazzi, «La guerra civile fredda» (Feltrinelli, pagg.228, euro 14). Eccone un’anticipazione.
Con la crisi economica che c’è, sono felice di avere questo governo e questi ministri. Felice in un senso nauseato. Credo che l’Italia sia un test, perché se le cose andassero davvero come si dice, gli italiani sarebbero incazzati. Ah, sono incazzati? Non è un test. Questi ministri rovesciano in piazza gente sempre più furibonda, prontamente identificata dalla polizia; il tutto nell’oblio coordinato del tg unico.
Tremonti, ministro dell’economia. L’estate scorsa ha proposto una finanziaria approvata in nove minuti e mezzo che a furia di tagli fa sparire lo stato sociale e i vostri diritti: scuola, pensione, assistenza, previdenza. Tagli in una fase di crescita zero che adesso Tremonti si vanta di aver previsto. L’avevi prevista e hai fatto lo stesso una finanziaria di tagli? E nonostante il crack delle borse dici che non verrà toccata? Ma cosa sei, stronzo? Allora sei stronzo! Arriva il crack delle borse, creato da decenni di deregulation, e Tremonti dice:Occorre vietare bilanci falsi e paradisi fiscali.Come se chi ha depenalizzato il falso in bilancio e fatto i condoni, in Italia, non fosse lui.
Ma Tremonti, dopo aver sfoggiato la capacità di programmazione economica di una zitella che gioca al lotto, dichiara solennemente:-Noi siamo il Paese che per l’economia reale ha fatto più degli altri.Purtroppo per il nostro Roosevelt da arena estiva, fra i Paesi dell’Unione Europea l’Italia è l’unico che dà un contributo negativo ai pacchetti di stimolo fiscale: le misure anti-crisi hanno aumentato più le tasse delle spese. ( Tito Boeri, la Repubblica, 13 marzo 2009) Intanto, secondo un sondaggio, il 90% degli anziani userà la «social card» per comprare una pistola.
Maroni, ministro dell’Interno. Ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, contro l’art.35 della Costituzione che riconosce la libertà di emigrazione. Come faccio a sopportare Maroni? Mi immagino uno spot leghista in tv con Borghezio nudo, la bocca sporca di sangue, in mano una spazzola per pulire i vetri. Borghezio fa un rutto e dice:-Mi sono appena mangiato un extracomunitario.La Lega. Ne saremmo capaci.
La Russa, difesa. È così felice dell’invio dei nostri Tornado da guerra in Afghanistan che ieri con un sorriso ha crepato un blindato.
Brunetta, funzione pubblica. Brunetta è un incubo o sono le mie medicine? Ha esasperato quella strategia di comunicazione del potere pubblico che da vent’anni è imperniata sulla colpevolizzazione del cittadino. Pubblica amministrazione? I dipendenti lavorino in giacca e cravatta. Sicurezza? No ai poliziotti panzoni. Ricercatori precari? Lasciarne a casa il 60%. Ma qui Brunetta rassicura:-Risolveremo simultaneamente il problema dei precari e il problema della mancanza di organi per trapianti.Uh? (Volevo vedere se stavate davvero seguendo.)
Quello che Brunetta è per i lavoratori pubblici, Confindustria è per quelli privati. Il nuovo accordo proposto ai sindacati è: lavorare di più per vivere peggio. Voi accettereste?
-Sì!Bonanni, piantala!
Alfano, giustizia. Il lodo Alfano salvava Berlusconi dai processi Media
set e Mills. La Consulta l’ha bocciato, Berlusconi andrà a processo, fine del regno birbonico. Alleluja.
La tre giorni del Meeting etichette indipendenti, dal 27 al 29 novembre, si trasformerà in una sorta di Woodstock del 2009: saranno ripercorse le tappe dello storico festival attraverso proiezioni video di quel che accadde in quei giorni, che rispetteranno esattamente gli orari e proveranno a ricreare l'atmosfera di quel che accadde in quel momento.
Scajola, attività produttive. Scajola vuole a tutti i costi il nucleare, nonostante diversi premi Nobel l’abbiano circondato per spiegargli che è inutile, costoso, pericoloso e troppo inquinante. Il nucleare, non Scajola. Premi Nobel per la fisica. Come Scajola, del resto. Ma Scajola ha già varato l’Agenzia per la sicurezza nucleare: dovrà smaltire i nuovi rifiuti radioattivi. Se la ’ndrangheta non scompare prima.
Bondi, ministro dei beni culturali. Quale giudizio migliore sull’attuale situazione culturale italiana? Bondi, col suo elmetto di carne, ministro dei beni culturali. Si è vantato di non capire nulla di arte moderna. Va alle mostre a fare le boccacce ai Picasso.
Prestigiacomo, ambiente. Breve riassunto: il capitalismo mondiale sta immettendo nell’atmosfera una tale quantità di anidride carbonica che oceani e foreste non riescono più ad assorbirla. Questo causa il riscaldamento globale e crea disastri. L’Unione Europea prepara un pacchetto di misure salvaclima, ma la Prestigiacomo, a nome dell’Italia, si OPPONE. Perché la Prestigiacomo è una ribelle. La Prestigiacomo è la Amy Winehouse dell’Unione Europea. Curiosità: la famiglia Prestigiacomo ha interessi in aziende petrolchimiche a Priolo, Siracusa, polo industriale fra i più vasti e i più inquinanti d’Italia. Altra curiosità: la Prestigiacomo, ministro dell’ambiente, ha rimosso i tecnici che indagavano sull’inquinamento da diossina dell’Ilva di Taranto. Padrone dell’Ilva? Emilio Riva, uno dei soci della cordata CAI/Alitalia. Fatevi da soli il collegamento. Io sono esausto.
Calderoli, ministro della semplificazione delle leggi. Gliele fanno leggere: se le capisce Calderoli, le capiscono tutti.
Carfagna. L’ho incrociata una volta per caso davanti a Montecitorio. Favolosa. Alta, prorompente, con quegli occhioni spalancati. Sapete perché ha quegli occhioni spalancati? Un giorno un suo amico le dice: –Mara, sei ministro.E lei: -Cosa? (Spalanca gli occhi.) Le palpebre non sono più scese. ❖