mercoledì 4 novembre 2009

Repubblica 4.11.09
La battaglia su un simbolo
di Stefano Rodotà

Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s´era parlato addirittura di una "fuga della Corte", nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo, non v´è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l´importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un "segno esteriore forte" della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, "possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna".
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d´ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all´argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l´identità europea, che è "sintomo di una dittatura del relativismo", addirittura "un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti". Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una "corte europea ideologizzata", si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici "rossi", che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte "laicista" cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L´ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell´Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell´Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell´uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a "radici cristiane", che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l´Europa, anche intorno all´eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?
Questa sentenza ci porta verso un´Europa più ricca, verso un´Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all´educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d´ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L´Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

l’Unità 4.11.09
Pena di morte all’italiana
risponde Luigi Cancrini

Trattando del suicidio in carcere di Diana Blefari, Michela Marzano (su la Repubblica del 2 novembre) evidenzia che dall’inizio dell’anno, peraltro non ancora concluso, nelle prigioni italiane ci sono stati ben 61 suicidi. Come se tra tutti gli italiani, bambini esclusi, si suicidassero in un anno 50.000 persone!
ASCANIO DE SANCTIS

RISPOSTA Il caso di Diana Blefari è stato affrontato con una incredibile superficialità da persone non competenti. Affetta da un disturbo psichiatrico grave, Diana doveva essere curata in ambiente adatto, il suo suicidio poteva essere evitato, quella che è stata applicata nel suo caso è una “pena di morte all’italiana” maturata in un clima di ostracismo esagerato verso persone che, a differenza di altre, più furbe o più flessibili, non hanno saputo utilizzare la clausola del “pentimento”. Quello su cui il caso di Diana deve far riflettere, d’altra parte, è che la quantità di problemi psichiatrici con cui ci si confronta nel carcere è molto alta e che il suicidio è fra tutti i sintomi l’unico che le mura del carcere non riescono a nascondere. Inutilmente ho sottolineato per due anni, da parlamentare, la necessità di rispondere a questa emergenza con delle task force socio-sanitarie affidate, con gli opportuni finanziamenti, alle Asl che dal maggio 2007 sono responsabili della salute mentale nel carcere. Senza ottenere udienza dai politici veri e puri, quelli che decidono tutto, a cui di chi sta in carcere non importa purtroppo nulla.

l’Unità 4.11.09
Voltiamo pagina
Caro Bersani non svegliare Diliberto
di Vincenzo Cerami

Bersani, ti prego in ginocchio, Diliberto no. Sta tanto bene dove sta, lascialo nel congelatore. Non ritirare fuori i fantasmi, le mummie sovietiche. Bersani, questo è un grido di dolore vero e proprio. La più grande carità che si può fare ai morti è di non resuscitarli. La sinistra ha passato la vita a suicidarsi, ti prego interrompi questa vocazione autodistruttiva del nostro partito. Diliberto, ti rendi conto? Quello che odia Fellini e ama le barzellette di Pierino e i film carta igienica, che vuole portare la salma di Lenin a Roma, che invece di Padre Pio, sul cruscotto della macchina ha incollato l’immaginetta di Stalin.
Bersani, no. Risparmiaci questa pena. È vero che quanto non ci uccide ci rende più forti, ma non spingere oltre quel pedale, perché è dimostrato che nei casi gravi bisogna lasciar perdere l’omeopatia e ricorrere velocemente agli antibiotici. Con Diliberto abbiamo già dato tutto quello che avevamo, abbiamo svuotato il cassetto dei ricordi. Ti prego. D’altronde lo sai che Diliberto non ti serve a niente, nemmeno a smaltare di vecchie gloriose utopie la politica di oggi, che sai benissimo essere costosa, e se è costosa vuol dire che ha bisogno di soldi da trovare in giro. E tu lo sai benissimo. Diliberto ha le tasche vuote e si ubriaca in un’osteria degli anni Sessanta. Cosa ha da darti? Ma dove vivi Bersani, che ci fai con Diliberto? Guarda che il mondo è andato da un’altra parte, e non da ieri.
Diliberto no. Rischi di restare imbrigliato nelle ragnatele. Parlane con il tuo pantocratore D’Alema, ti dirà le stesse cose. Ti dirà che è passata molta acqua sotto i ponti e che Renato Zero ha già fatto il suo tempo. Figurati Diliberto.
Non oso pensare a Pecoraro Scanio. Spero che tu non sia riuscito a trovare il suo numero telefonico, che per fortuna nessuno più compone. In questo caso mi metto in ginocchio davanti a te con pietoso atteggiamento per chiederti di pensare ad altro, magari ai tortellini bolognesi. Distraiti Bersani, che il nome di Pecoraro Scanio non sfiori le tue trombe di Eustachio.
Non guardarti troppo intorno. Lo stesso Bertinotti, buttato a mare da Vespa dopo che ha fatto per anni, insieme all’inane Sansonetti, propaganda pro Berlusconi, non porta ormai granché alla tua causa. Senza kashmir Bertinotti è come Sansone senza capelli. È anche lui, come direbbe il Belli, cadavere di morto.
Bersani: dicci che sei con noi. Credici. Dicci che il passato ti fa schifo, che vuoi ben altro. Prova a farci sognare. Il Pd voleva essere questo, non certo il riciclaggio delle cose vecchie e il risveglio degli zombie come Diliberto. Bersani, io sono con te, dal fondo della periferia politica. Conta anche su chi non ti ha votato, ma non offrirci yogurt scaduti. Diliberto no, ti prego in ginocchio. Diliberto no. È come tornare all’Italia delle cambiali e delle radio con l’occhio magico. ❖

l’Unità 4.11.09
La scienza e la scoperta della pace
La mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative. Eppure questa dote naturale viene continuamente repressa
di Umberto Veronesi

Q uelle connerie, la guerre” scriveva Jacques Prévert, che fesseria, che assurdità. Soprattutto chi, come noi medici, vive accanto al dolore, non può non trovare assurdo che sia l’uomo con le guerre a produrre altro dolore, quando già ci affligge quello provocato dalle malattie. La guerra, è un’assurdità figlia della paura e dell’insicurezza: ce lo dice il buon senso, e ce lo conferma la scienza. Le istruzioni del nostro Dna, come quello di tutti gli esseri viventi, sono di conservarsi, riprodursi. Uccidere, prevaricare, violentare, non sono necessità biologiche, ma meccanismi primitivi di difesa. La forza della razionalità può allora essere la chiave per vincere appunto il dolore più grande, la guerra. È questa convinzione che ha fatto nascere Science for Peace, il movimento che ho voluto creare per promuovere la cultura della non violenza, della tolleranza, della risoluzione pacifica delle conflittualità, puntando sulla razionalità. Quella stessa razionalità che è il motore trainante della scienza e che ha portato l’uomo a tante conquiste che hanno migliorato la sua vita. Sappiamo che dobbiamo alla ricerca scientifica i contributi più importanti al progresso e alla soluzione dei problemi più gravi che affliggono l’umanità: malattie, denutrizione, mancanza d’acqua e di cibo. L’aspetto innovativo, o la sfida se vogliamo, del nostro neonato movimento è ora di rivelare il contributo inedito del pensiero razionale scientifico anche al processo di pacificazione mondiale. Disseminando il pensiero razionale, la scienza ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Per esempio rifiuta il principio esasperato dell’identità nazionale o della razza, e utilizza un linguaggio universale che non conosce frontiere e nazionalismi.
La razionalità è dunque un antidoto all’aggressività e alla sua origine, la paura. Ha scritto Tara Gandhi, nipote del Mahatma e parte attiva del nostro Movimento: «Il mondo sta attraversando un terribile momento di violenza; esiste una continua catena di vendetta, violenza e ancora vendetta. ̆La paura è quindi il risultato di tutto questo. Noi dobbiamo interrompere questa catena continua di violenza. Paura e amore non possono convivere». Ecco la finalità di Science for Peace: razionalizzare le nostra paura e trasformarla in un atteggiamento di fiducia, in gesti pacificatori, in pensieri costruttivi. Assecondando la nostra naturale attitudine di esseri umani alla socializzazione e alla solidarietà: è stato infatti recentemente dimostrato che anche i principi morali, che ciascuno sente di rispettare, non ci vengono solo inculcati dall’educazione che riceviamo, ma sono anche innati nel nostro cervello e hanno basi neurologiche. Nonostante le violenze e le guerre che ricorrono nell’ancora breve storia dell’umanità, c’è l’evidenza scientifica che la mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative e non antagonistiche. La nostra specie aspira naturalmente alla pace, e la collaborazione tra gli individui, che ha portato alla formazione prima delle tribù e poi delle nazioni, tende a diventare sempre più ampia.
Noi vogliamo la pace non solo per vivere, ma anche per progredire. Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati la premessa per i grandi avanzamenti scientifici (l’uomo sulla luna, la decodifica del Dna) e per gli enormi avanzamenti tecnologici che stanno cambiando il nostro modo di vivere. Primo fra tutti l’incredibile sviluppo delle comunicazioni e dell’informatica, che con Internet mette in comune le conoscenze di tutto il mondo e crea un dialogo tra milioni di persone. È davvero giunto il momento per la nostra società di prepararsi ad affrontare regole e leggi di una moderna cultura pluralistica multietnica, multi confessionale. E di fare nostro l’impegno che il Presidente Obama ha preso davanti ai suoi concittadini: garantire la convivenza pacifica di una comunità pluralistica, per una soluzione non violenta dei conflitti e per una maggiore tolleranza, giustizia e rispetto dei diritti umani. Lo vediamo ogni giorno: la cultura pacifica è quella vincente, mentre l’aggressività e la prevaricazione si rivelano spesso inutili, se non controproducenti.
Invito tutti i cittadini che la pensano come a me ad aderire al movimento «La Scienza per la Pace», attraverso il sito www.fondazioneveronesi.it e a partecipare alla Conferenza Internazionale di Milano il 20 e 21 novembre prossimi. ❖

l’Unità 4.11.09
Non sarà una sfida al femminile quella per il dopo-Marrazzo
Freddo il Pd sull’esponente Radicale. Berlusconi vuole Tajani
Lazio, non decolla la Bonino. A rischio anche la Polverini
Oggi Bersani vede prima Bonino e Pannella e poi Casini e Cesa. Tema degli incontri: battaglie dell’opposizione e regionali. Se D’Alema otterrà l’incarico di ministro degli Esteri Ue, il premier farà correre Tajani.
di Simone Collini

Si profilava come una sfida tutta al femminile, quella per la presidenza del Lazio, ma più passano i giorni e più perde quota l’ipotesi che alle regionali si assisterà ad un confronto tra Emma Bonino e Renata Polverini. Anzi, se i tasselli nelle mani dei vertici Pd e Pdl andranno al posto giusto, nessuna delle due a marzo sarà in campo per la poltrona occupata da Piero Marrazzo.
STRADA IN SALITA PER LA BONINO
La candidatura dell’esponente Radicale è nata come tam-tam sul web e rilanciata fuori dalla terra telematica dall’area Pd che al congresso ha sostenuto Marino. Il freno a mano è stato però subito tirato dagli esponenti che al congresso hanno sostenuto Franceschini. «È persona di grande valore, ma sono le regionali, serve una figura che conosca la Regione», ha sostenuto Ermete Realacci. Ma la realtà, come dicono senza riserve ex popolari come Pierluigi Castagnetti, è che la
candidatura della Bonino significherebbe rinunciare in partenza al voto cattolico e a un’alleanza con l’Udc.
La vicepresidente del Senato quando ha visto il suo nome inserito nella “short list” delle candidature di centrosinistra non è andata più in là di un «non ho mai escluso nulla nella mia vita». Ma le reazioni dei vertici del Pd, tra i niet pubblici e l’indifferenza fuori dall’ufficialità (nessun democrat l’ha chiamata per discutere se e come dar corpo alla candidatura), le ha registrate eccome.
L’occasione per discutere la questione si presenta oggi, quando Bersani la incontrerà insieme a Pannella al Senato. Ma il segretario del Pd vuole impostare il colloquio su altri binari, cioè sulla riorganizzazione del centrosinistra e il rilancio di una battaglia comune sulla crisi democratica e sociale. Quanto alle regionali, Bersani evita di avviare una discussine sui nomi, sostenendo che prima si parla di contenuti, poi di alleanze e
alla fine di candidature. Ma non è un segreto che il segretario del Pd punta ad incassare l’accordo con l’Udc soprattutto nelle regioni date in bilico, tra le quali c’è il Lazio. E tanto meno lo è che Casini e Cesa che Bersani incontrerà sempre oggi a Montecitorio neanche avvieranno la discussione se in campo c’è la candidatura Bonino. E poi c’è una variabile indipendente che potrebbe rendere determinante la contesa del voto moderato, resa più complicata dopo l’indisponibilità a candidarsi del fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.
POLVERINI A RISCHIO CADUTA LIBERA
La candidatura di Renata Polverini stenta a decollare, al di là delle dichiarazioni pubbliche. La Consulta del Pdl laziale si è chiusa senza un’ufficializzazione attesa da tempo. Il che, unito al fatto che Berlusconi a sorpresa si è detto contrario a un voto anticipato nel Lazio, ha fatto emergere nel Pd un sospetto. Che cioè il premier aspetti la chiusura della partita delle nomine europee e veramente tifi per D’Alema ministro degli Esteri dell’Ue. E non nonostante ma proprio perché questo comporterebbe il rientro di Tajani. Che Berlusconi, soprattutto se non riuscirà a incassare la candidatura di Nicola Cosentino in Campania, vorrebbe far correre nel Lazio, con buona pace di una candidatura in quota Fini.❖

l’Unità 4.11.09
Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo occidentale
di Bruno Gravagnuolo

La scomparsa Il padre dell’antropologia si è spento in Borgogna nel fine settimana a quasi 101 anni
La vita Le spedizioni, i «Tristi Tropici», lo strutturalismo: così ha cambiato il modo di vedere l’uomo
Ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Dalle spedizioni in Amazzonia negli anni ’30 fino all’indagine sul simbolico, ritratto di uno dei più grandi studiosi del ’900. I suoi funerali si sono già svolti in Borgogna.
Avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Ma non ce l’ha fatta. In compenso ha traguardato il secolo di vita, con un’attività intellettuale lucida fino all’ultimo. E con un’opera ciclopica, che ha cambiato il nostro «sguardo» sul mondo. Eppure Claude Lévi-Strauss di suo era un temperamento mite e sembrava destinato a un tranquillo insegnamento nei licei, al più all’Università.
Figlio di un pittore, con entrambi i genitori francesi, era nato in Belgio nel 1908 e passò infanzia e giovinezza a Parigi. Laureato in filosofia nel 1931, dopo un breve insegnamento alle superiori, concorre per una cattadra di Sociologia all’Università di San Paolo in Brasile, dove avviene la svolta della sua vita. Una svolta chiamata «antropologia», nel segno dell’etnografia «americanistica», compiuta con due spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia. Due libri da quelle due spedizioni: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, e Le strutture elementari dela parentela (1948 e 1949). Tra
l’esperienza brasiliana e il primo viaggio negli Usa nel 1940 c’è intanto la prima rivoluzione di Lévi-Strauss. La connessione tra antropologia americana e linguistica.
Dunque tra la lezione di F. Boas, e quella del linguista russo Roman Jacobson, che aveva conosciuto a New York, sospinto dall’interesse per la fonologia.
Sta qui il nucleo più profondo dello «strutturalismo», l’invenzione più importante del grande antropologo. Non solo, proprio a partire di qui Lévi-Strauss introdurrà in Europa il frutto più maturo delle scienze umane statunitensi: «l’antropologia culturale». Piccolo inciso. Proprio mentre rivoluziona lo sguardo occidentale sulle «culture» come sistemi, Progresso e «primitivi», lo studioso è del tutto inconsapevole della tragedia che incombe sull’Europa. Di ritorno dagli Usa, tenterà addirittura di tornare ad insegnare nel suo vecchio liceo parigino, prima di essere messo sull’avviso da un funzionario ai permessi di Vichy, che gli dirà: «Professore, con un nome così!. Segno non solo di un temperamento da studioso assorbito dai suoi lavori, ma anche di un certo motato come ministro della pubblica istruzione (non se ne fece nulla).
Ma torniamo alla sua rivoluzione epistemologica, consegnata a opere quali, Strutture elementari di parentela; Razza e Storia; Tristi Tropici; Antropologia strutturale; Il crudo e il cotto. Da un lato c’era la «cultura», in quanto sistema di relazioni sociali. «Unica», nelle sue varietà geografiche e storiche, secondo la linea di Boas. E cultura riletta con gli occhi di Durkheim, risposta «funzionale» ai bisogni di produzione e riproduzione del mondo. Dall’altro però c’era il linguaggio. Ma non tanto come lingua parlata, bensì come modello: sistema di segni alla Saussure. E segni coincidenti con le «strutture di parentela». Con i riti e i miti, le abitudini alimentari. Ecco la rivoluzione: il linguaggio come sfera del simbolico. Codificato in invarianti, inclusioni ed esclusioni, tabù e procedure consentite/obbligate. Era la famosa «struttura». Atemporale, inconscia, sovrapersonale. Irriducibile ad altre strutture di altre culture, benché confrontabile, sul piano metodologico.
LA POLEMICA CON SARTRE
Stanno qui le radici della famosa disputa tra storicisti e strutturalisti, la polemica con Sartre e l’ esistenzialismo. Se gli storicisti rivendicavano il ruolo dell’umano e della storia, lo strutturalismo mirava alla struttura tendenzialmente non modificabile, se non per rotture, «coupures» epistemologiche. Come quelle dei «paradigmi linguistici» in Foucault o in Althusser, o in storici della scienza come Kuhn. E il punto affermato da Lévi-Strauss era questo: nelle società primitive era il «simbolico» a fungere da tecnica produttiva. Cioè l’incesto e la sua proibizione, le regole familiari e claniche. E l’economia era riproduzione culturale e non «economica». Come accade nello «scambio simbolico» del dono teorizzato da Marcel Mauss, tra i maestri di Levi-Strauss. All’opposto, con la modernità occidentale, è l’economia a fare cultura, almeno in una prospettiva marxista o post-marxista (anche in Weber). Ne derivava non solo un’intera scuola di pensiero: Lacan, Foucault, Baudrillard. Ma un nuovo criterio interpretativo del vivere sociale, dove l’immaginario inconscio e rappresentativo è inseparabile dall’economia, anche nelle società moderne. La sfida teorica che Levi Strauss ci lascia è allora questa: il potere dei segni come forza produttiva di ogni società e di ogni relazione. Ieri come oggi.❖

l’Unità 4.11.09
L’ultima intervista
«I miei Tristi Tropici, come un romanzo»
di Anna Tito

2005, nel cinquantenario di quella sua opera, concesse a l’Unità una delle sue ultime rare interviste. La ricerca sul campo, l’odio per i viaggi, l’ebraismo, Hitler, la politica. Ecco cosa ci disse

Nel 2005 Claude Lévi-Strauss concesse a l’Unità una delle rare interviste dei suoi ultimi anni. Ecco ampi stralci di quel colloquio.
In occasione dell’Anno del Brasile in Francia, Lévi-Strauss accetta di tornare con noi sul suo rapporto con il Paese dal legno color brace. Ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Tristi Tropici, un romanzo più che un testo scientifico, dedicato agli indios del Brasile, che ha segnato un’epoca e che tuttora seduce e intriga: «Lo scrissi per diversi motivi spiega -: in primo luogo perché mi ero appena sposato per la terza volta e la mia vita era cambiata, poi perché l’editore Plon mi aveva chiesto un libro per lanciare una nuova collana, e infine per cimentarmi nella narrativa». (...) «Il Brasile rappresenta l’esperienza più importante della mia vita, specie per la lontananza e il contrasto. La natura mi appariva tanto diversa da quella che conoscevo. Me ne andai nel 1939 e vi tornai, per pochi giorni, nel 1985. Quel viaggio mi sconvolse: San Paolo, scomparsi i residui dell’epoca coloniale, era ormai una città spaventosa».(...) Dopo il Brasile abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: (...) «Io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo... Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”».
Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista». (...) Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno». (...) Ricorda ridendo che: «nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato! ».(...) Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni». E poco lo interessava il sionismo (...). Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco (...)».
È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione (...). La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo.
Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente: «il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».❖

Repubblica 4.11.09
Le lezioni di un mestro che reinventava il mito
di Marino Niola

Insegnava al Collège de France e venivano ad ascoltarlo da tutto il mondo
La sua opera è ricaduta come una pioggia benefica su tutti i campi del sapere

Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l´ironia tagliente e l´erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l´amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un´atmosfera gelidamente silenziosa.
Eppure era questo stile d´altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell´uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L´effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l´urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell´Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell´Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell´Occidente. In un nuovo modo di pensare l´uomo. Facendo così dell´antropologia il fondamento di una critica radicale dell´Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava.
L´uomo che ha inventato l´antropologia ha incarnato in pieno l´ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell´umanità. In questo senso l´autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall´arte alla musica contemporanea, l´opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell´uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell´astrazione pura che parla dell´uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa.
È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.

Repubblica 4.11.09
Dalla delusione per la filosofia all´incontro con i popoli selvaggi
La fuga dall´occidente alla ricerca dell´altro
di Umberto Galimberti

Dopo l´avventurosa peregrinazione nel Mato Grosso si chiede: "Cosa sono venuto a fare qui?"

Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po´ perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissionoe incaricata di organizzare l´università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.
In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell´Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell´antropologia del Novecento.
Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un´inquietudine che rode l´anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.
Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d´origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un´avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c´è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell´orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l´esistenza dell´Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.
Agli "antipodi" dell´Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?».
Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l´Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l´ha promossa, l´intenzione profonda che l´ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.


l’Unità 4.11.09
Il governo secondo
Luttazzi: disastri italiani
da Brunetta a Bondi
di Daniele Luttazzi

Tremonti e il crac delle borse, l’elmetto di carne di Bondi, Prestigiacomo contro le misure salva-clima Ue... ecco il nuovo libro del satiro più pericoloso d’Italia
Calderoli: «Semplificazione delle leggi? Se le capisce lui le capiscono tutti»
La Russa: «Con un sorriso ha crepato un blindato: è così felice dei Tornado»


È in uscita il nuovo libro di Daniele Luttazzi, «La guerra civile fredda» (Feltrinelli, pagg.228, euro 14). Eccone un’anticipazione.
Con la crisi economica che c’è, sono felice di avere questo governo e questi ministri. Felice in un senso nauseato. Credo che l’Italia sia un test, perché se le cose andassero davvero come si dice, gli italiani sarebbero incazzati. Ah, sono incazzati? Non è un test. Questi ministri rovesciano in piazza gente sempre più furibonda, prontamente identificata dalla polizia; il tutto nell’oblio coordinato del tg unico.
Tremonti, ministro dell’economia. L’estate scorsa ha proposto una finanziaria approvata in nove minuti e mezzo che a furia di tagli fa sparire lo stato sociale e i vostri diritti: scuola, pensione, assistenza, previdenza. Tagli in una fase di crescita zero che adesso Tremonti si vanta di aver previsto. L’avevi prevista e hai fatto lo stesso una finanziaria di tagli? E nonostante il crack delle borse dici che non verrà toccata? Ma cosa sei, stronzo? Allora sei stronzo! Arriva il crack delle borse, creato da decenni di deregulation, e Tremonti dice:Occorre vietare bilanci falsi e paradisi fiscali.Come se chi ha depenalizzato il falso in bilancio e fatto i condoni, in Italia, non fosse lui.
Ma Tremonti, dopo aver sfoggiato la capacità di programmazione economica di una zitella che gioca al lotto, dichiara solennemente:-Noi siamo il Paese che per l’economia reale ha fatto più degli altri.Purtroppo per il nostro Roosevelt da arena estiva, fra i Paesi dell’Unione Europea l’Italia è l’unico che dà un contributo negativo ai pacchetti di stimolo fiscale: le misure anti-crisi hanno aumentato più le tasse delle spese. ( Tito Boeri, la Repubblica, 13 marzo 2009) Intanto, secondo un sondaggio, il 90% degli anziani userà la «social card» per comprare una pistola.
Maroni, ministro dell’Interno. Ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, contro l’art.35 della Costituzione che riconosce la libertà di emigrazione. Come faccio a sopportare Maroni? Mi immagino uno spot leghista in tv con Borghezio nudo, la bocca sporca di sangue, in mano una spazzola per pulire i vetri. Borghezio fa un rutto e dice:-Mi sono appena mangiato un extracomunitario.La Lega. Ne saremmo capaci.
La Russa, difesa. È così felice dell’invio dei nostri Tornado da guerra in Afghanistan che ieri con un sorriso ha crepato un blindato.
Brunetta, funzione pubblica. Brunetta è un incubo o sono le mie medicine? Ha esasperato quella strategia di comunicazione del potere pubblico che da vent’anni è imperniata sulla colpevolizzazione del cittadino. Pubblica amministrazione? I dipendenti lavorino in giacca e cravatta. Sicurezza? No ai poliziotti panzoni. Ricercatori precari? Lasciarne a casa il 60%. Ma qui Brunetta rassicura:-Risolveremo simultaneamente il problema dei precari e il problema della mancanza di organi per trapianti.Uh? (Volevo vedere se stavate davvero seguendo.)
Quello che Brunetta è per i lavoratori pubblici, Confindustria è per quelli privati. Il nuovo accordo proposto ai sindacati è: lavorare di più per vivere peggio. Voi accettereste?
-Sì!Bonanni, piantala!
Alfano, giustizia. Il lodo Alfano salvava Berlusconi dai processi Media
set e Mills. La Consulta l’ha bocciato, Berlusconi andrà a processo, fine del regno birbonico. Alleluja.
La tre giorni del Meeting etichette indipendenti, dal 27 al 29 novembre, si trasformerà in una sorta di Woodstock del 2009: saranno ripercorse le tappe dello storico festival attraverso proiezioni video di quel che accadde in quei giorni, che rispetteranno esattamente gli orari e proveranno a ricreare l'atmosfera di quel che accadde in quel momento.
Scajola, attività produttive. Scajola vuole a tutti i costi il nucleare, nonostante diversi premi Nobel l’abbiano circondato per spiegargli che è inutile, costoso, pericoloso e troppo inquinante. Il nucleare, non Scajola. Premi Nobel per la fisica. Come Scajola, del resto. Ma Scajola ha già varato l’Agenzia per la sicurezza nucleare: dovrà smaltire i nuovi rifiuti radioattivi. Se la ’ndrangheta non scompare prima.
Bondi, ministro dei beni culturali. Quale giudizio migliore sull’attuale situazione culturale italiana? Bondi, col suo elmetto di carne, ministro dei beni culturali. Si è vantato di non capire nulla di arte moderna. Va alle mostre a fare le boccacce ai Picasso.
Prestigiacomo, ambiente. Breve riassunto: il capitalismo mondiale sta immettendo nell’atmosfera una tale quantità di anidride carbonica che oceani e foreste non riescono più ad assorbirla. Questo causa il riscaldamento globale e crea disastri. L’Unione Europea prepara un pacchetto di misure salvaclima, ma la Prestigiacomo, a nome dell’Italia, si OPPONE. Perché la Prestigiacomo è una ribelle. La Prestigiacomo è la Amy Winehouse dell’Unione Europea. Curiosità: la famiglia Prestigiacomo ha interessi in aziende petrolchimiche a Priolo, Siracusa, polo industriale fra i più vasti e i più inquinanti d’Italia. Altra curiosità: la Prestigiacomo, ministro dell’ambiente, ha rimosso i tecnici che indagavano sull’inquinamento da diossina dell’Ilva di Taranto. Padrone dell’Ilva? Emilio Riva, uno dei soci della cordata CAI/Alitalia. Fatevi da soli il collegamento. Io sono esausto.
Calderoli, ministro della semplificazione delle leggi. Gliele fanno leggere: se le capisce Calderoli, le capiscono tutti.
Carfagna. L’ho incrociata una volta per caso davanti a Montecitorio. Favolosa. Alta, prorompente, con quegli occhioni spalancati. Sapete perché ha quegli occhioni spalancati? Un giorno un suo amico le dice: –Mara, sei ministro.E lei: -Cosa? (Spalanca gli occhi.) Le palpebre non sono più scese. ❖

martedì 3 novembre 2009

Agi 2.11.09
Poesia: Joumana Haddad, con Lilith un successo gigantesco
(AGI) - Roma, 2 nov. - Quasi 2 mila copie vendute in poco piu' di una settimana, un gran pubblico entusiasta accorso alle sue presentazioni, numerose interviste radiotelevisive e della carta stampata. Questi i dati del gran successo avuto da Joumana Haddad con 'Il ritorno di Lilith', la prima opera integrale in italiano edita da 'L'Asino d'oro, nella sua tournee italiana appena conclusasi. "Non e' stato un gran successo ma un successo gigantesco!", chiosa la scrittrice libanese, che annuncia una nuova avventura letteraria sempre con l'Asino d'oro per il 2010. E, assicura, nel suo stile: scrivere con le unghie perche' le piace scavare, andare in profondita'. Come ha fatto con 'Il ritorno di Lilith' per sferzare le donne: perche' non fate sentire le vostre voci? Non mostrate le vostre unghie? Quali i motivi di questo 'successo gigantesco' che tra l'altro smentisce il luogo comune che la poesia non la legge nessuno? "Innanzitutto il valore letterario dell'opera. Poi il lavoro, la riflessione del poeta che deve sostenere, accompagnare il testo non smentirlo ma rendendolo piu' solido e forte", risponde certa e soddisfatta la Haddad. "Quindi l'ottimo lavoro della casa editrice - aggiunge - ed infine la qualita' della traduzione: sono questi i quattro elementi del successo gigantesco. E direi non solo del libro in se'. Ma del dialogo culturale che ha piu' valore del dialogo politico". 'Il ritorno di Lilith', e' un libro di poesia ed affronta un tema attualissimo ma al tempo stesso controverso: la donna ed il suo essere, e poi il suo ruolo nella societa'. "Verissimo - precisa la Haddad - Il libro ruota tutto attorno alla donna, alla sua identita', al suo essere: e in questo sta il suo valore letterario". E si puo' dire che in questo sta il suo valore culturale che si integra con il dialogo culturale di cui ha parlato? "Si' sono d'accordo, noi tutti abbiamo bisogno - spiega la Haddad - del dialogo a livello culturale, che ha piu' valore del dialogo politico, perche' si riscontrano i segni piu' solidi di sensibilita' e comunicazione da parte della gente". Che per la politica ha ben poca fiducia. "Sono convinta che e' dal dialogo culturale che ci si conosce meglio, di piu' e - precisa la Haddad - e piu' profondamente". Contaminarsi dunque come cultura, tradizione, modo e stile di vita, insomma. "Si' e' a questo che penso", evidenzia la Haddad anche sulla base del gran successo anzi del successo gigantesco, riscontrato come presenza di pubblico. Joumana Haddad, e lo ha spiegato bene, vuole, con 'Il ritorno di Lilith', sprigionare e poi alimentare una 'speranza' per le donne arabe oppresse ma anche di altri paesi, Italia compresa: del resto l'oppressione della donna, pur se registra diverse modalita' sul piano fisico, e' identica come intenzionalita'. E Lilith la prima donna creata che non si sottomise e non si ridusse in schiavitu' ad Adamo e' la speranza per le donne. Dunque, "donne ribellatevi - e' il messaggio della Haddad - fate sentire la vostra voce, mostrate le unghie". (AGI)

Velino 29.10.09
Ferrero (Prc) apre a Vendola e Di Pietro ma non ai radicali
Roma, 29 OTT (Velino) - Domani venerdì 30 ottobre, in edicola su LEFT, Paolo Ferrero rilascia un'intervista esclusiva a Manuele Bonaccorsi, redattore del settimanale. Parla dei suoi rapporti con Di Pietro, in vista della manifestazione anti-Berlusconi del 5 dicembre, dei futuri scenari politici insieme a Vendola, chiude ai Radicali e lancia una proposta al nuovo segretario del Pd. "In Italia c'è una drammatica assenza di opposizione. Con Di Pietro concordiamo sulla necessità di costruire un'opposizione politica al governo Berlusconi molto più forte. Su questo con Di Pietro abbiamo trovato importanti convergenze". "Certo - prosegue - nella politica dell'Idv ci sono elementi positivi, ma anche contraddizioni. Insomma c'è un dialogo aperto, anche se restano le differenze che ci sono tra un partito della sinistra moderata e chi, come il Prc, pone la questione dell'alternativa". (segue) (com/mat) 291824 OTT 09 NNNN

Velino 29.10.09
Ferrero (Prc) apre a Vendola e Di Pietro ma non ai radicali (2)
Roma, 29 OTT (Velino) - Ferrero si sofferma a lungo sui rapporti con il Pd e con Pierluigi Bersani nuovo segretario: "Siamo interessati a proseguire un dialogo col Pd su come costruire e allargare l'opposizione. Un punto di cambiamento vero, col nuovo segretario Pd, è sull'idea del sistema politico". "La proposta che avanziamo a lui - spiega il segretario di Rifondazione - è un sistema elettorale proporzionale, sul modello tedesco". E naturalmente affronta la questione con Sinistra e libertà: "Sono interessato a un dialogo con quelle parti di Sinistra e libertà che pongono il tema dell'alternativa ma se la proposta di Vendola è un cartello che va dai Radicali al Prc, mi sembra una cosa priva di senso. Uno spettro così ampio di forze avrebbe difficoltà persino a presentare un programma comune. Nichi dovrebbe chiarire la sua proposta. Siamo interessati ad aprire un dialogo per le regionali. Ma su posizioni precise". (com/mat) 291824 OTT 09 NNNN

ASCA 29.10.09
Pd: Realacci, Rutelli non andare via - e a Bonelli, vieni con noi
(ASCA) - Roma, 29 ott - Ermete Realacci dalle pagine di LEFT lancia un appello a Rutelli perché non lasci il Partito Democratico. L'eventuale uscita di Rutelli, ha detto Realacci, "mi sembra una sconfitta per il Pd e un brutto segnale. Condivido alcune critiche che Rutelli muove al Pd ma non l'assenza di autocritica sugli errori che lui stesso ha compiuto, nè la prospettiva che indica. Una sconfitta per il Pd perché conferma che si sta restringendo la sua capacità di attrazione". Nello stesso tempo Realacci rivolge un secondo appello ai Verdi: "Penso che i Verdi avrebbero dovuto investire i loro talenti e non sotterrarli, e questo non è accaduto. Penso che le porte del Pd siano aperte anche a Bonelli. Se invece il Pd dovesse prendere strade diverse da quelle che ho indicato, beh... ragioneremo di altro". Realacci affrontando il tema delle alleanze ha poi affermato: "Prima devi preoccuparti di parlare alla maggioranza degli italiani, poi delle alleanze. Aggiungendo pezzi non si risolve il problema di contendere a Pdl e Lega il centro del sentire degli italiani. Dopo di che, siamo per il bipolarismo, non per il bipartitismo (...) I Verdi dovrebbero entrare nel Pd. Preferisco mettere in primo piano le proposte degli italiani, anzichè impantanarmi nelle alchimie della politica". min/sam/alf 291841 OTT 09 NNN

Adnkronos 29.10.09
Pd: Realacci, giuste certe critiche di Rutelli, ma se esce sbaglia - I Verdi di Bonelli dovrebbero entrare nel partito
Roma, 29 ott. (Adnkronos) - Le parole di Francesco Rutelli, pronto, come ha annunciato mercoledì a Milano, a "tracciare un tragitto differente" rispetto al progetto del Pd, sono "una sconfitta e un brutto segnale". Lo sottolinea in un'intervista a LEFT, Ermete Realacci che propone al partito di aprire ai Verdi di Angelo Bonelli. "Condivido alcune critiche che Rutelli muove al Pd - aggiunge il parlamentare democratico - ma non l'assenza di autocritica sugli errori che lui stesso ha compiuto, ne' la prospettiva che indica. Una sconfitta per il Pd perché conferma che si sta restringendo la sua capacità di attrazione". L'esponente del Pd rilancia la necessità di allacciare un rapporto con i Verdi che, dice, "avrebbero dovuto investire i loro talenti e non sotterrarli e questo non è accaduto. Penso che le porte del Pd siano aperte anche a Bonelli. Se invece il Pd dovesse prendere strade diverse da quelle che ho indicato, ragioneremo di altro. I Verdi dovrebbero entrare nel Pd. Preferisco mettere in primo piano le proposte degli italiani, anzichè impantanarmi nelle alchimie della politica". Un tema che si ripropone quando si parla di alleanze. "Prima - osserva in conclusione Realacci - devi preoccuparti di parlare alla maggioranza degli italiani, poi delle alleanze. Aggiungendo pezzi non si risolve il problema di contendere a Pdl e Lega il centro del sentire degli italiani. Dopo di che, siamo per il bipolarismo, non per il bipartitismo". (Pol/Gs/Adnkronos) 29-OTT-09 18:44

Velino 29.10.09
Pd, Realacci: Uscita Rutelli è sconfitta, i Verdi benvenuti
Roma, 29 OTT (Velino) - Domani, in edicola su LEFT Ermete Realacci rilascia un'intervista esclusiva a Sofia Basso, redattrice del settimanale. Per l'ambientalista del Pd, l'uscita di Rutelli è una sconfitta per il partito e apre all'entrata di Bonelli: "Mi sembra una sconfitta per il Pd e un brutto segnale. Condivido alcune critiche che Rutelli muove al Pd ma non l'assenza di autocritica sugli errori che lui stesso ha compiuto, ne' la prospettiva che indica. Una sconfitta per il Pd perché conferma che si sta restringendo la sua capacità di attrazione". "Penso che i Verdi avrebbero dovuto investire i loro talenti e non sotterrarli, e questo non è accaduto. Penso che le porte del Pd siano aperte anche a Bonelli. Se invece il Pd dovesse prendere strade diverse da quelle che ho indicato, beh ragioneremo di altro". Parla del nuovo segretario e del suo appoggio per il candidato sconfitto: "Io sostengo Franceschini che durante le primarie ha sollevato problemi molto veri". "Bersani ha cominciato a parlare di green economy ma obiettivamente l'ambientalismo non è nelle sue corde in maniera prioritaria". (segue) (com/mlm) 291903 OTT 09 NNNN

Velino 29.10.09
Pd, Realacci: Uscita Rutelli è sconfitta, i Verdi benvenuti (2)
Roma, 29 OTT (Velino) - E infine affronta il tema delle alleanze: "Prima devi preoccuparti di parlare alla maggioranza degli italiani, poi delle alleanze. Aggiungendo pezzi non si risolve il problema di contendere a Pdl e Lega il centro del sentire degli italiani. Dopo di che, siamo per il bipolarismo, non per il bipartitismo". "I Verdi dovrebbero entrare nel Pd. Preferisco mettere in primo piano le proposte degli italiani, anziche' impantanarmi nelle alchimie della politica". (com/mlm) 291903 OTT 09 NNNN

Repubblica 3.11.09
La memoria è il fondamento della nostra identità e del rapporto col mondo in cui viviamo
È la mappa dei nostri ricordi a dirci chi siamo e dove siamo
di Umberto Galimberti

la memoria è il fondamento della nostra identità e del mondo che abitiamo. Basta infatti un black out della memoria che più non sappiamo chi siamo e in che mondo ci muoviamo, come capita alle persone anziane che perdono la memoria e si perdono nel mondo. Già Platone, del resto, annotava nel Menone (81 c) che «conoscere è ricordare», dove il ricordo è innanzitutto un ri-accordo, che dalla dispersione genera unità e nell´unità rintraccia quell´identità soggettiva e oggettiva che siamo soliti chiamare "Io" e "Mondo".
Sia l´uno che l´altro non sono dati di realtà, ma costruzioni della memoria. Non ci sarebbe "Io" se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come "miei" azioni, vissuti, pensieri e sentimenti. Non ci sarebbe "Mondo" se la memoria non cucisse la successione delle visioni, che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro irrelate.
Lo vediamo nei bambini che nascono senza avere una mappa del mondo che consenta loro di sapere chi sono e dove sono. I loro sguardi persi e i loro gesti irrelati dicono che, senza memoria, ancora non dispongono di quelle mappe cognitive ed emotive che si strutturano in modo abbastanza definitivo, secondo Freud entro i primi sei anni e secondo i recenti studi delle neuroscienze entro i primi tre.
Costruendo Io e Mondo, la memoria dischiude quell´apertura al senso da cui è escluso l´animale che, senza memoria, non sa di sé e del mondo che lo circonda. «L´animale tace - scrive Heidegger - perché non sa cosa dire», la mancanza di memoria gli cancella qualsiasi orizzonte come offerta di un possibile senso. Il senso della vita, prerogativa tipicamente umana, dipende infatti dalla visione del mondo di cui disponiamo grazie alla memoria, che consente di interpretare sé e il mondo a partire da quegli schemi cognitivi ed emotivi che nella primissima infanzia ci siamo costruiti. Nessuno di noi abita il "mondo", ma esclusivamente la propria "visione del mondo" costruita dalla memoria, che in essa deposita la cultura di appartenenza, le esperienze che abbiamo maturato nella famiglia in cui siamo nati, la lingua che utilizziamo, le forme emotive che abbiamo acquisito, che insieme, attraverso i percorsi accidentati della vita, consentono a ciascuno di rintracciare nella propria biografia una forma, uno stile che ci rende unici e inconfondibili.
Le recenti scoperte scientifiche che hanno verificato (per ora a livello di moscerini) la possibilità di iscrivere nella memoria "falsi ricordi", modificando le mappe cognitive ed emotive che ci orientano nell´esperienza, erano già implicite, senza sapere né il come né il perché, nella neuropsichiatria di Eugen Bleuler e Carl Gustav Jung da un lato e nella psicoanalisi di Freud dall´altro, che puntavano a modificare in senso positivo, con l´associazione delle idee, la memoria inconscia alla base della nevrosi.
Loro lo facevano con la parola, oggi, se le ricerche proseguiranno, lo si potrà fare con la biochimica: sia nel bene, per togliere dalla memoria ricordi dolorosi responsabili della sofferenza psichica; sia nel male, condizionando con "falsi ricordi" la visione del mondo per meglio adattare il comportamento a vantaggio di chi ci preferisce meno uomini e più robotizzati. Un problema serio, dunque.

Corriere della Sera 3.11.09
Il figlio del giornalista ucciso parla a 40 anni dalla nascita del gruppo
«Io e Lotta continua, il germe della violenza c’era già alle origini»
Andrea Casalegno: Marino non mente, in Lc lo sanno
di Aldo Cazzullo

Il caso Calabresi e l’inchiesta
«Quando seppi dell’assassinio di Calabresi pensai che Lc fosse del tutto estranea, a noi il commissario serviva da vivo. Poi l’arresto di Sofri, le accuse di Marino: capii che non poteva aver agito di testa sua» La (falsa) perdita dell’innocenza

«È falso pensare che la strage di Piazza Fontana rappresenti la perdita dell’innocenza. Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, disse che allora i futuri br si stavano già preparando alla lotta armata»


«E’ una storia, quella cominciata qua­rant’anni fa, che sento raccontare a volte in modo compiaciuto, a volte in modo falso. E’ falso che piazza Fontana abbia rappresenta­to la “perdita dell’innocenza” per una gene­razione di militanti di sinistra. E’ falso che Marino possa essersi inventato di aver con­dotto l’auto dell’assassino di Luigi Calabre­si. Ma questo gli ex di Lotta continua lo san­no tutti».

Andrea Casalegno sta per compiere 65 an­ni. «Molti più di quelli che aveva mio padre quando fu assassinato dalla Brigate Rosse». Carlo Casalegno, azionista, partigiano, vice­direttore della Stampa su cui teneva la rubri­ca «Il nostro Stato», morì a Torino il 29 no­vembre 1977. «L’attentato» si intitola il li­bro, pubblicato da Chiarelettere, in cui suo figlio ricostruisce la tragedia della famiglia. Sempre a Torino, quarant’anni fa, era nata dall’autunno caldo Lotta continua, di cui An­drea Casalegno fu un militante.

«E’ una storia che comincia bene ma qua­si subito conosce un’involuzione. C’ero: partecipai all’occupa­zione dell’università, andavo alle assem­blee studenti-operai. Gli operai si ribellava­no dopo quindici anni di un controllo op­pressivo e oscuranti­sta, e lo facevano no­nostante il Pci e i sin­dacati 'pompieri', co­me allora li definiva­mo, avvicinandoci molto alla realtà. Cer­to, so bene che quan­do il padrone perde il controllo della fabbri­ca sono guai, non bia­simo la marcia dei 40 mila e l’operazione co­raggiosa con cui la Fiat riprese le redini. Ma ho un ricordo e un giudizio positivo di quelle lotte. Presto pe­rò nascono i partitini. Comincia l’irrigidi­mento ideologico. E comincia la violenza. Fu giusto scrivere li­bri come 'La strage di Stato', scoprire le radi­ci nere di piazza Fonta­na. Ma non fu giusto – sostiene Casalegno – definire piazza Fon­tana come 'la perdita dell’innocenza' per i rivoluzionari di sini­stra. E’ un’espressio­ne di cui si palleggiano la paternità due per­sone tra loro diverse come Luigi Manconi e Adriano Sofri; ma, pur essendo teste pensan­ti e brillanti, hanno tutti e due torto. Qualsia­si persona sensata sa, anche senza aver letto Machiavelli e Sartre, che chi fa politica non è mai innocente; dire il contrario è ridicolo. Oltretutto sappiamo per bocca di un fonda­tore, Alberto Franceschini, che i futuri briga­tisti già si preparavano alla lotta armata. At­tribuire la responsabilità del terrorismo ros­so alla bomba di piazza Fontana è una scioc­chezza. Le responsabilità sono sempre per­sonali, e vanno sempre separate le une dalle altre. Anche se la strategia della tensione eb­be certo un ruolo nel precipitare il paese ne­gli anni di piombo».

Nel maggio 1972, Andrea Casalegno fu ar­restato a Torino, per aver distribuito i volan­tini con cui Lotta continua approvava l’omi­cidio di Calabresi. «Ero entrato da poco in Lc, dopo 18 mesi di servizio militare. Quan­do seppi dell’assassinio del commissario, pensai che il nostro gruppo fosse del tutto estraneo. Ucciderlo mi pareva un’aberrazio­ne non solo morale ma politica: a noi Cala­bresi serviva vivo, in vista del processo che avrebbe dovuto far luce sulla morte di Pinel­li, di cui i principali giornali italiani avevano accreditato versioni inverosimili. Completa­mente diversa fu la mia reazione quando, se­dici anni dopo, seppi dell’arresto di Sofri. So­prattutto perché c’era di mezzo Marino». Perché? «Perché tutti sapevano benissimo chi era Leonardo Marino. Solo qualche sprovveduto può ancora far finta di ignorar­lo ». Vale a dire? «Marino non era uno qualsi­asi. Fu la prima avanguardia Fiat licenziata – e mai riassunta - per la sua attività politica. L’emblema dell’operaio-massa. Ed era politi­camente e umanamente molto vicino a So­fri. 'Marino libero, Marino innocente' non è più di una battuta. Difficile che abbia agito di testa sua; del resto, in un’organizzazione rivoluzionaria chi mette a repentaglio le vite dei compagni con un’azione inconsulta vie­ne allontanato, e questo a Marino non è ac­caduto. Ci vuol davvero molta ingenuità, o peggio, a sostenere che si sia inventato ogni cosa. Non è così. E questo gli ex di Lotta con­tinua lo pensano tutti». Ma non lo dicono. «Sì invece. A ben vedere, in molti l’hanno fatto capire, magari per allusioni. Ma non voglio esprimermi oltre. Non è mia intenzio­ne maramaldeggiare. Certo non troverete la mia firma in calce ai manifesti che protesta­no l’assoluta estraneità di Sofri. Né del resto mi è mai stata chiesta. Non frequento più i vecchi compagni, tranne un paio di veri ami­ci ».

Furono due compagni di allora, Gad Ler­ner e Andrea Marcenaro, a intervistare Casa­legno per il quotidiano Lotta continua, dopo il ferimento del padre. Un’intervista in cui Casalegno rievocava la prima azione delle Br, il sequestro Macchiarini (marzo 1972): «A noi di Lc quel rapimento non era dispia­ciuto perché, dicevamo, e forse era vero, un sacco di operai ne erano contenti. Però quel­lo era il primo passo nella logica che li ha portati a sparare in faccia a mio padre, senza neppure conoscerlo». Oggi però Casalegno dice che «quell’intervista fu sopravvalutata. Sì, molti fanno risalire ad allora la propria presa di coscienza. Però quella notte le co­pie del giornale furo­no bruciate davanti ai cancelli di Mirafiori.

Ricordo la sorpresa con cui fu annotata la commozione degli amici di papà al suo capezzale: ci si stupi­va nel notare che gli azionisti torinesi non erano esponenti della borghesia marcia e ipocrita, che erano uo­mini come noi». Gio­vanni De Luna ha rav­visato un tratto comu­ne, ad esempio nel moralismo, tra gli azionisti torinesi e i militanti di Lotta con­tinua. «Una parentela c’era, anche in senso tecnico – dice Casale­gno - . Molti di noi, da Revelli a Gobetti ad Agosti, eravamo figli o nipoti di azionisti, così come altri veniva­no da famiglie comu­niste. Ma i nostri pa­dri si erano battuti contro nazisti e fasci­sti, ed erano nel giu­sto. Noi ci siamo bat­tuti per la rivoluzione, ed eravamo nel torto.

Molti però sono tutto­ra convinti di aver sempre avuto ragio­ne, sia all’epoca sia og­gi che magari lavora­no per il nostro presi­dente del Consiglio o militano nel suo cam­po. Invece abbiamo commesso errori terribi­li. E non lo dico perché sono il figlio di una persona assassinata. Certo è impossibile ar­rivare a una memoria completa, ma non dobbiamo smettere di esercitare la riflessio­ne critica, la ricerca storica. Sono contrario a colpi di spugna, a una presunta pacificazio­ne per chiudere una guerra che non è mai esistita. La penso come il figlio del giudice Galli, assassinato nell’80 da Prima Linea, l’organizzazione terroristica nata dal servi­zio d’ordine di Lotta continua: sono contra­rio a film come quello che getta una luce ac­cattivante su Sergio Segio, che di Prima Li­nea fu uno dei capi. Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno».

lunedì 2 novembre 2009

l’Unità 2.11.09
Scarti sociali
di Luigi Manconi

In carcere ci si toglie la vita 15-17 volte più di quanto si faccia fuori dal carcere. Nel corso del 2009 i suicidi sono stati 61: se tale ritmo dovesse continuare, avremmo a fine anno il più alto numero di suicidi dal 1990. Ci si ammazza, in carcere, con tutte le modalità che fantasia e disperazione suggeriscono: fornello a gas, chiodi e pezzi di vetro, autosoffocamento, impiccagione. A quest’ultimo metodo ha fatto ricorso Diana Blefari.
La domanda, quasi elementare, è: perché mai si trovava in carcere e non in una struttura psichiatrica protetta? Si intende: una struttura da cui non poter evadere e in cui scontare il suo ergastolo, ma curata per i gravi problemi psichici che, da molto tempo, aveva manifestato. E che decine di perizie avevano documentato. Al punto che, quando mi trovai ad avere tra il 2006 e il 2008 la responsabilità politica del sistema penitenziario, sollecitai la sua assegnazione a un regime che ne garantisse la «sorveglianza a vista 24 ore su 24».
Dunque, altro che suicidio annunciato. È stato un atto dichiarato, proclamato, per così dire atteso. Come in tanti altri casi, dove i reiterati tentativi di autolesionisno non ottengono una vigilanza sufficiente a sventare l’ultimo, quello definitivo. E così, nel corso di pochi giorni, dalle carceri italiane sono giunte tre terribili notizie: oltre a quella su Diana Blefari, quella su Stefano Cucchi e quella sul carcere di Teramo, dove il comandante dà istruzioni a un sottoposto su come «picchiare» i detenuti in assenza di testimoni.
In tutti questi casi, c’è un tabù che fatica a emergere: ed è l’idea che ciò possa accadere perché le vittime, alla resa dei conti, sono degli scarti sociali. È ovvio: la coscienza democratica, di destra e di sinistra, mai lo ammetterà, ma a ben vedere a questo tende l’orientamento di senso comune che, dopo il primo momento di emozione, sembra dominare. Cucchi: tossicomane, epilettico, piccolo spacciatore, forse sieropositivo; Blefari: quella che partecipa attivamente all’omicidio di Marco Biagi.
Il primo socialmente inerme ed esposto alla marginalità, la seconda condannata per un crimine efferato. Siamo proprio sicuri è questo il dubbio che si insinua nella mentalità collettiva che meritino tutte le garanzie e tutti i diritti che spettano a quegli irreprensibili che noi siamo?
La risposta è scontata, ma non per questo meno faticosa da elaborare e, soprattutto, da sostenere fino in fondo. Ogni vita in sé merita il massimo di tutela e quella tutela ha da essere ancora più salda quando la possibile vittima, a prescindere dal suo passato e dal curriculum penale, è affidata alla custodia dello Stato. Da quel momento, quella vita dev’essere sacra per chi (lo Stato e i suoi apparati) la riceve nelle proprie mani. Non solo. Il sistema delle garanzie è indivisibile: ridurre un diritto della Blefari significa accettare un processo che porta, fatalmente, alla riduzione di un diritto equivalente per il più incensurato dei cittadini. Dunque, come hanno affermato uomini saggi: la qualità di una democrazia la si verifica all’interno delle sue galere.

Repubblica 2.11.09
Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri: dietro le sbarre ancora troppi diritti disattesi
"Era malata, non poteva stare dentro inascoltate decine di perizie psichiatriche"
di Alessandra Retico

I segnali di instabilità psichica erano evidenti e reiterati da anni. Eppure non è stato fatto niente
Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere. Insensato
Ai reclusi si dovrebbero dare speranze e chance: soluzioni impensabili per questo governo

ROMA - «Morte annunciata». Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi con delega alle carceri (2006-2008), presidente dell´associazione "A buon diritto", ha seguito da vicino il caso di Nadia Blefari.
Professore, se lo aspettava?
«Mi occupai di lei all´epoca del mio incarico nel precedente governo, sollecitando l´amministrazione penitenziaria a seguire con particolare attenzione una persona reclusa che, già allora, mostrava segni evidenti e reiterati di instabilità psichica. Eppure non è stato fatto niente».
Ci furono anche molte perizie.
«Decine. Tutte quelle cui la Blefari è stata sottoposta in questi anni hanno dato una diagnosi inequivocabile: "Gravi disturbi mentali". Non mi pare che ci si possa confondere, sono valutazioni che stanno lì a testimoniare di una condizione che avrebbe dovuto imporre il suo ricovero in una struttura psichiatrica protetta».
Invece?
«Condannata all´ergastolo: come dire, segnata dal destino».
La vicenda Cucchi è assai diversa.
«È entrato con le sue gambe in caserma e ne è uscito cadavere. Ma il problema non è (solo) la disumanità della galera, a me interessano i diritti disattesi. Se tu cedi un diritto, rinunci a un sistema generale di garanzie. Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere per contenere i reati minori e le più nuove aggravanti come quello della clandestinità: a giugno prossimo avremo oltre 70 mila detenuti. Assurdo, folle, insensato».
C´è una relazione tra sovraffollamento e suicidi?
«C´è un dato inequivocabile, prodotto da molti studi: in carcere ci si ammazza tra le 15 e le 17 volte più che fuori, più i giovani che gli anziani, più nei primi giorni dell´ingresso negli istituti penitenziari che non dopo. Inutile mettere dentro chi può stare fuori».
Per esempio?
«Gli indiziati di reati minori, i clandestini. Ogni anno passano per la galera circa 170mila persone, recluse per non più di tre giorni e poi scarcerate. Mettere una persona in prigione per tre giorni non ha senso. Non punisce, non sanziona, non educa, non salva. L´unica cosa che si ottiene è l´intasamento: il personale non c´è, non ce la fa».
Cosa servirebbe?
«Attese, chance, speranze. Posto che ogni suicidio è ovviamente una storia a sé, la tentazione a togliersi la vita nei detenuti è legata da una parte all´assenza di qualsiasi aspettativa, dall´altra all´impatto con una realtà oscura, con le sue regole, i suoi sistemi di relazioni».
Provvedimenti pratici?
«Nella precedente amministrazione, furono due, entrambi disincentivanti: l´indulto e i presidi ai nuovi giunti, quelli cioè che sono appena arrivati in carcere, alcuni di loro per la prima volta. Tutte e due le soluzioni sono oggi fuori dall´orizzonte di questo governo: a chi è dentro non si dà fiducia di poter invertire quel punto di non ritorno, a chi vi arriva, magari per reati minori, non si dà l´assistenza necessaria per superare quel trauma che può disarticolare un´esistenza. L´unica soluzione è depenalizzare e ricorrere a misure alternative».

Repubblica 2.11.09
Il diritto all’umanità
di Michela Marzano

In carcere per l´omicidio di Marco Biagi, commesso nel 2002, la terrorista Diana Blefari si è uccisa dopo aver ricevuto notifica della sentenza della Corte di Cassazione che confermava il suo ergastolo.
Si è impiccata facendo un cappio con le lenzuola del letto, nella sua cella di Rebibbia. Le condizioni psichiche della terrorista erano pessime. Molti lo sapevano. I medici del carcere ne avevano già chiesto il trasferimento in un´altra struttura più idonea e avevano sottolineato, a varie riprese, il rischio di un gesto irreversibile. "Un suicidio prevedibile", dichiara Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio. "Il sessantesimo caso di suicidio in carcere dall´inizio dell´anno", ribadisce il presidente dell´associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti. Come è possibile che un paese democratico che proclama l´universalità dei diritti dell´uomo e considera la dignità della persona un valore supremo da rispettare sempre e comunque non prenda le misure adeguate per evitare una tragedia come questa? Per quanto in prigione per ragioni legittime, nessun detenuto merita questa sorte.
La necessità di far rispettare la legge uguale per tutti, è fuori discussione. Non si tratta in alcun modo di mettere in dubbio uno dei cardini della giustizia, il principio chiave di ogni sistema giudiziario, in base al quale ad ogni crimine corrisponde una pena. L´esistenza di un´infrazione, di un crimine o di un delitto merita la giusta punizione. Non solo perché si sono infrante delle leggi e si è messo in pericolo l´ordine pubblico, ma anche e soprattutto perché, nel caso di crimini contro le persone, in particolare un omicidio, qualcuno si è arrogato il diritto di alzare la mano contro un altro essere umano. Esistono dei doveri cui tutti devono sottoporsi e, nel momento in cui questi non vengano rispettati intenzionalmente (mens rea), non si è solo responsabili, ma anche colpevoli.
Ma cosa significa punire? Come determinare la pena adeguata per l´autore di un crimine senza tornare alla legge del taglione? "Occhio per occhio, dente per dente", recita l´adagio. Ma la giustizia comincia dal momento in cui si abbandona la logica della vendetta per definire una pena proporzionale al delitto commesso. Nel famoso saggio di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, il filosofo milanese insisteva sul ruolo preventivo della pena. Per Beccaria il fine delle pene non doveva essere "vendicativo", ma "rieducativo". È per questo che oggi si è d´accordo nel ritenere che una sanzione sia giusta non soltanto se è proporzionata alla colpa, ma anche se l´autore di un delitto o di un crimine è riconosciuto legalmente responsabile, ossia capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Una volta, però, che la pena è stata pronunciata, in che modo applicarla? Si possono dimenticare le circostanze particolari in cui si trovano i condannati, e non fare attenzione allo stato di salute di coloro che, privati della libertà personale, scontano la propria pena in carcere?
"Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona", sostiene la legge promulgata nel 1975 per regolamentare le condizioni di vita delle carceri italiane. Eppure, in questi ultimi anni, le condizioni di vita dei carcerati sono diventate sempre più precarie. Gli spazi disponibili si sono drasticamente ridotti. I momenti comunitari sono scomparsi. Il numero dei suicidi è aumentato in modo esponenziale. Al punto tale che l´Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell´uomo per "trattamenti inumani e degradanti". Questo ultimo gesto drammatico, il suicidio di Diana Blefari, non è che un sintomo supplementare; il segno che qualcosa non funziona più. Come dice il Conseil d´État in Francia, l´amministrazione penitenziaria – e più generalmente lo Stato – è responsabile dello stato di salute di un detenuto e colpevole di mancata vigilanza nel caso di un suicidio (CE, 9 luglio 2007)
Diana Blefari era malata. Il suo stato psichico necessitava il ricovero. La sua fragilità aveva bisogno di un´attenzione che nessuno dovrebbe negare a chi, pur colpevole, soffre talmente tanto da non esitare a mettere fine ai propri giorni. Punire non significa dimenticarsi che ciò che ci rende umani non è solo la capacità di vivere in una società rispettandone le regole, ma anche e soprattutto la compassione di fronte alla sofferenza.
Se vuoi conoscere davvero un paese, diceva Voltaire, visitane le prigioni.

l’Unità 2.11.09
Era reclusa a Rebibbia. I medici ne avevano chiesto il ricovero in una struttura più idonea
Ha eluso la sorveglianza e tagliato le lenzuola. Aperta un’inchiesta. Forse voleva collaborare
La Br Blefari s’impicca in cella Le perizie: era depressa grave
Diana Blefari Melazzi, condannata in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi, si è impiccata sabato sera nella sua cella di Rebibbia. La donna da tempo soffriva di disturbi psichici.
di Massimo Solani

La condanna
Solo poche ore prima aveva avuto la notifica definitiva dell’ergastolo

Il fragile equilibrio su cui la mente di Diana Blefari Melazzi si reggeva da anni si è spezzato ieri pomeriggio quando dall’ufficio matricole del carcere romano di Rebibbia le hanno notificato la sentenza con cui la Cassazione, soltanto quattro giorni prima, l’aveva condannata definitivamente all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi. Confermata la seconda sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna dopo che la prima era stata annullata per un vizio di motivazione proprio relativo alla sua condizione psichica. Diana Blefari ha atteso qualche ora poi, intorno alle dieci e mezza di sera, ha annodato insieme alcune lenzuola che aveva tagliato e si è impiccata nella sua cella, reparto detenuti comuni della sezione femminile, a pochi metri dal gabbiotto della polizia penitenziaria. Le agenti in servizio hanno sentito un tonfo sordo. Quan-
do sono arrivate non c’era più niente da fare. Aveva 43 anni, ed era stata arrestata sul litorale romano il 22 dicembre del 2003 perché affittuaria del “covo” di via Montecuccoli e indicata dalla pentita Cinzia Banelli come componente della staffetta che aveva pedinato, anche il 19 marzo 2002 sera dell’omicidio Marco Biagi.
«FORTEMENTE PROVATA»
Sulla dinamica del suicidio il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha annunciato l’apertura di una inchiesta amministrativa parallela a quella già aperta dalla procura. Atti che serviranno a verificare se la sorveglianza disposta nei confronti di Diana Blefari, che non era più detenuta al 41 bis, fosse adatta alle sue condizioni di salute. Soltanto giovedì, infatti, la donna era stata visitata da uno psichiatra che, dopo la notizia della sentenza della Cassazione, aveva definito «fortemente provato» lo stato d’animo dell’ex br accertando un «forte stato di prostrazione» correlato alla depressione che era stata riscontrata anche nell’ultima perizia psichiatrica eseguita ad aprile. E che per la detenuta concreto fosse il rischio di suicidio lo avevano scritto anche i consulenti della sua difesa nel 2006 spiegando che la Blefari era affetta da uno stato paranoide di origine psicotica. «Insomma da anni denunciavamo che Diana non stava bene ricorda l’avvocato Caterina Calia Qualcuno adesso avrà capito che il nostro allarme non è mai stato preso in considerazione». In realtà, proprio per le sue condizioni di salute, alla Blefari un anno e mezzo fa era stato revocato il carcere duro (il 41 bis) e su disposizione del Dap erano state messe in atto misure specifiche: il blindato della sua cella, infatti, restava costantemente aperto e al personale di polizia penitenziaria era stato prescritta una sorveglianza continua. «Una sistemazione corretta» ha spiegato il capo del Dap, Franco Ionta, che ieri pomeriggio si è recato a Rebibbia per un sopralluogo. Nel carcere romano la Blefari era tornata da appena 10 giorni lo scorso 21 ottobre e dove nel 2008 aveva aggredito un agente di polizia penitenziaria (il processo si sarebbe dovuto aprire a metà novembre). In precedenza l’ex brigatista aveva a lungo peregrinato fra l’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino, i centri di detenzione de L’Aquila e quello fiorentino di Sollicciano dove, per le sue condizioni di salute, era stata sottoposta ad un trattamento sanitario obbligatorio. Proprio a Rebibbia Diana Blefari avrebbe dovuto incontrare a giorni gli inquirenti romani che stanno indagando su Massimo Papini, l’uomo arrestato lo scorso primo ottobre perché sospettato di aver fatto parte del gruppo romano che faceva capo a Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi. Papini, infatti, negli scorsi anni era stato legato sentimentalmente alla Blefari e a suo carico gli inquirenti avevano raccolto dei contatti telefonici con la ex Br passati attraverso alcune utenze cellulari utilizzate dall’organizzazione. Dettagli sui quali Blefari aveva chiesto ufficialmente alla Digos e al pool antiterrorismo di essere ascoltata. ❖

l’Unità 2.11.09
Di carcere si muore. Situazione invivibile. Tagli continui del governo, mancano 6mila guardie
La carenza d’organico nel femminile di Rebibbia è del 40%. A Verona un giovane s’impicca
Ventimila detenuti di troppo. Pochi gli agenti, già 61 suicidi
Il governo promette da tempo il nuovo e rivoluzionario «piano carceri», ma intanto il numero dei detenuti è già ben oltre il tollerabile. In compenso diminuiscono gli agenti di polizia penitenziaria.
di Massimo Solani

Le carceri italiane sono sull’orlo del collasso

In carcere si muore, di carcere si muore. Si muore per cause misteriose, come Stefano Cucchi il 22 ottobre, o si muore per malattia (l’ultimo Marcello Calì, deceduto a Poggioreale il 28 ottobre). E quest’anno sono già 147 i detenuti che hanno perso la vita dietro le sbarre, più del 2008 (142), più del 2007 (123) e del 2006 (134). Ma in carcere si muore soprattutto per suicidio: Domenico Improta, 29 anni, che ieri a Verona si è impiccato con la sua maglietta, è stato l’ultimo. Aziz, un marocchino di 34 anni morto nel carcere di Spoleto il 3 gennaio, era stato il primo. In mezzo a loro, nelle statistiche, tanti nomi senza volto di una catena ininterrotta che conta già 61 maglie. Sessantuno casi di suicidio che fanno già del 2009 l’anno più nero dal 2001 ad oggi.
ALLARME SOVRAFFOLLAMENTO
C’è un dato che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia ha ritoccato per l’ultima volta due settimane fa: 64.979. Tanti sono infatti i detenuti nelle carceri italiane, che da regolamento potrebbero contenere soltanto 43.074 ospiti e che, a voler chiudere un occhio sulle brande ammassate nelle celle e sui turni per dormire, potrebbero “tollerare” fino a 64.111 detenuti. Sempre 800 in meno di quanti sono oggi dietro alle sbarre. Siamo oltre il tollerabile, insomma, come recita il titolo dell’ultimo rapporto curato dall’associazione Antigone. Il tollerabile di una situazione diventata emergenza stabile, il tollerabile di un problema che il governo Berlusconi annunciava di voler risolvere in un “amen” e che invece è ancora tutta lì, ogni giorno peggiore.
PIÙ DETENUTI, MENO AGENTI
Anche perché nel frattempo, grazie al combinato disposto Lega-Tremonti fra tagli al bilancio e sicurezza da spot, nelle carceri italiane si assiste ad uno strano fenomeno. Mentre aumentano i detenuti (a gennaio erano 59.060 oggi sono 64.979) a diminuire sono gli agenti di polizia penitenziaria: a gennaio in servizio ce n’erano 39.156, a fine agosto erano già 38.549 di cui soltanto 35.343 al lavoro negli istituti. Sarebbe a dire che le scoperture nell’organico sono il 15% rispetto al personale previsto (41.268). La situazione peggiore è quella della Liguria dove lo scoperto raggiunge il 33%, mentre nel Lazio è “soltanto” del 20%. Prendiamo il caso di Rebibbia, dove Diana Blefari Melazzi si è impiccata sabato approfittando di un momento di distrazione degli agenti. «Il Dap è gravemente colpevole accusava ieri Leo Beneduci, segretario dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria per una insostenibile carenza di organico che a Rebibbia femminile è arrivata al 40%». «Attualmente ha proseguito Beneduci ci sono 330 detenute, di cui 88 nel reparto dove era detenuta la Blefari. Le agenti dovrebbero essere 164 ma sono 110. E questo perché il Dap continua a distaccare personale femminile per impiegarlo in servizi amministrativi. Proprio sabato, quando due agenti sono rientrate da L’Aquila, altre tre sono state distaccate al Dap. Non ne possiamo più». Un problema che Franco Ionta, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, conosce bene. A lui il governo ha chiesto di trovare il modo per costruire subito nuove carceri, ma l’ex procuratore aggiunto di Roma, presentando il suo piano a maggio al ministro della Giustizia Alfano, non ha potuto fare a meno di sollevare due problemi: mancano i soldi per costruire nuove carceri, e comunque ci sono migliaia di agenti penitenziari in meno rispetto all’organico previsto. Una situazione, ha spiegato Ionta, che ovviamente peggiorerà con l’apertura di nuove strutture. ❖

l’Unità 2.11.09
Intervista a Guido Calvi
«Tossicodipendenti, immigrati.
Le nostre carceri scoppiano»
Sovraffollamento. «Ogni mese la popolazione dei penitenziari aumenta di mille unità Una tragedia che accomuna detenuti e agenti. Così è impossibile ogni reinserimento»
di Toni Jop

Depenalizzare
«Il carcere deve restare la soluzione estrema. Che senso ha trattenere in cella chi si droga o l’immigrato non in regola?»

Stefano Cucchi è morto “per caso” in cella; ma Diana Blefari Melazzi si è certamente suicidata. Modi diversi per dire addio alla vita nel suggestivo scenario delle carceri italiane, anzi, in questi due casi, romane. Qualunque cosa sia successa a Stefano per metterlo in quelle terribili condizioni, l’atrocità della sua morte ha comunque riportato a galla un problema e una consuetudine antichi: la violenza, omologabile alla tortura, che si consuma ancora tra le maglie del nostro sistema di sicurezza con perseveranza endemica. L’Europa ha obiettato al nostro dispositivo carcerario che la tortura esiste già nel costringere i detenuti in spazi pro capite inferiori ai tre metri quadri. Ne parliamo con Guido Calvi, uno dei più bravi e impegnati penalisti d’Italia.
Che accade? La cronaca non ci aiutano a ricordare che in questa terra è stata cancellata dall’ordinamento giuridico la pena di morte. Nelle nostre celle si muore troppo facilmente... «Veramente il nostro Paese è anche quello che nell’articolo 27 della sua Carta costituzionale prevede, riferendosi alla pena, la rieducazione e la reintroduzione di chi ha sbagliato nella società civile. Tanti altri paesi non hanno inteso dare al trattamento della pena un senso così elevato e profondamente umano...»
Tanto peggio, allora. Cos’è che ci spinge indietro con tanta brutalità? «Partiamo da un dato: il sovraffollamento. E ogni mese questa popolazione aumenta di mille nuove unità. Siamo del tutto fuori norma e chi afferma che la soluzione è aumentare “i posti letto” non capisce la radice del problema. Ma ecco altri elementi utili: quest’anno si sono tolti la vita tre agenti della polizia penitenziaria. Questo, mentre sempre nel 2009 si registra un incremento di 20 casi di suicidio tra i detenuti. Per restare ad ottobre, otto detenuti sono morti in cella, di cui tre suicidi, tre per malore e due per cause non ancora accertate, tra cui anche il povero Stefano Cucchi. Siamo di fronte a una tragedia immensa che accomuna detenuti e personale carcerario. Una defaillance di sistema e non è una banale questione di cubature...»
Arriviamo alla radice, se esiste...
«Mi aiuto ancora con delle quantità. Un terzo degli ospiti delle nostre carceri sono tossicodipendenti, un terzo extracomunitari, un terzo, infine, sono dentro per reati comuni. A parte il fatto che da questo elemento si può prendere atto di come sia praticamente impossibile per un colletto bianco finire in prigione, e la gente lo sa, ecco che sotto questa luce si possono prendere in considerazione le responsabilità di due leggi ad hoc, quella, appunto, sulle tossicodipendenze e quella sulla clandestinità. Queste sono le chiavi principali della situazione che stiamo cercando di affrontare. Se decidiamo che un ragazzo come Stefano Cucchi può finire in prigione in quelle condizioni, se vogliamo punire con il carcere l’extracomunitario che non ha documenti regolari, non possiamo allargare la cubatura delle prigioni per risolvere il problema, le celle non basteranno mai». Depenalizzare è la via d’uscita? «Operare attraverso altri strumenti restrittivi, il carcere deve restare la soluzione estrema. Che senso ha, anche sotto il profilo del dettato costituzionale, trattenere in cella migliaia di persone che si drogano? Sanzioni amministrative, allora, e interdizioni. Al medico che prescrive il doping per un ciclista, si può comminare la sospensione dall’esercizio della professione, per esempio».

domenica 1 novembre 2009

l’Unità 1.11.09
In memoria di un socialista eretico
Riccardo Lombardi 25 anni dopo
di Carlo Patrignani

Lo si è ricordato, Riccardo Lombardi ma per un tempo troppo breve un mese e mezzo fa in occasione dei 25 anni dalla sua cremazione senza riti religiosi. D’altra parte, disse nel 1984, uno degli migliori sindacalisti della Cgil e suo «amico compagno», Fausto Vigevani, «nemmeno per poche ore i “vincitori” possono permettersi che appaia e resti sulla scena oltre il minimo indispensabile». E i “vincitori” sono quelli che ieri come oggi non ne sopportano più di tanto la presenza scomoda.
Qualche esempio. L’onestà. «Cosa mi ha insegnato la vita? Ad esser onesto, innanzitutto». Questo il suo principio morale fondante che ripeteva quotidianamente. La carriera? «Non amo le poltrone», disse a Aldo Moro che gli offriva il Ministero del Bilancio nel ‘64. Avere più soldi? «Non avrei saputo che cosa farne. Non ho neppure una casa. Mi basta poter comperare dei libri». La politica? «È dialettica, confronto: a noi non è dato smettere di far ricerca». Per trovare una «via d’uscita» dall’ordine economico e politico capitalistico e arrivare ad una società socialista, quella che «riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di decidere della propria esistenza e di costruire la propria vita». Una società «diversamente ricca», dove il benessere non è più salario e beni voluttuari, ma più dignità, più tempo libero per sé e per far l'amore, più cultura, per realizzare la propria identità.
Politico eretico identificava il capitalismo nei gruppi parassitari e nelle rendite in mano ai nani e avvertiva nel 1975 che il fascismo, «è anche violenza (...) ma finalizzata alla conservazione di certi poteri e di certi privilegi».
L'Ingegnere «a-comunista» allergico ai dogmi infallibili e alle verità rivelate, ha lasciato un patrimonio di idee, proposte ed intuizioni che sono di tutta la sinistra, di chi ama la democrazia. Mi ritrovo con quanto scrisse Giorgio Ruffolo a Fausto Bertinotti nel rifiutare l’invito ad una commemorazione dell' Ingegnere. «Mi scuso ancora per la defezione e le noie che ti ha procurato. Sento il bisogno di ripetere che in questa decisione non c’è traccia di razzismo politico. Si può mutare campo senza incorrere in anatemi. Credo tuttavia che se ne debba pagare il costo. Che, nel caso specifico, è almeno quello di osservare una certa “discrezione” rispetto alla memoria di persone cui si sono inflitte ferite dolorose. Di questo e di nient'altro si tratta».
E Ruffolo con Giolitti, Foa, Banfi, Trentin, Santi, Vigevani, fa parte degli “amici compagni” come diceva la donna che gli fu vicina per 52 anni, Ena Viatto, rispetto ai tanti discepoli “compagni amici” pronti al trasformismo, a lisciare il pelo al gatto, finiti per sete di potere nella pattumiera di Tangentopoli.

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
La lotta è sfinita
Quarant’anni fa Il primo novembre 1969 nasceva il giornale del collettivo di operai e studenti Oggi i giornalisti di allora ricordano quell’esperienza e soprattutto quegli anni, tra entusiasmo politico e il nodo della violenza. Guido Viale: «Non lo rifarei». Adriano Sofri: «Ricomincerei da capo»
di Oreste Pivetta

Fuori tempo. Le iscrizioni sono chiuse», mi risponde Erri De Luca che vigilava sulla salute fisica di Lotta Continua. Il biblista napoletano era capo del servizio d’ordine. Con il giornale di Sofri, Viale, Langer, Deaglio, fondato il primo novembre del 1969, è successo come per il Mondo di Pannunzio. Quando si celebrò il cinquantennale del primo numero fu una corsa a iscriversi: non v’era giornalista in Italia che non vi avesse collaborato. Un po’ così è accaduto per Lc, militanti e giornalisti, militanti o giornalisti, qualche decennio dopo, a funerali avvenuti, a bandiere della nostalgia dispiegate. Wikipedia ha compilato l’elenco, sbagliato. Ovviamente ignorando la «base», che doveva essere tutto. «Dall’alto o dal basso? Dal basso, dal basso!», recitava un titolo del quotidiano. Ovviamente è rimasto l’alto, qualcuno in posizioni che si definirebbero sommamente incoerenti rispetto al passato: che ci fa Ninì Briglia dalle parti di Mediaset? Del basso vi è debole traccia nelle, prime, ricostruzione storiche (vedi il libro di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio appena pubblicato da Feltrinelli). Ma non sappiamo ancora nulla del compagno operaio che parlò ai cancelli della Fiat il giorno del rapimento di Aldo Moro. Lotta Continua fu strenuamente trattativista.
Sarebbe stato utile almeno conoscere uno per uno i quattrocento che un paio di domeniche fa come mi racconta Guido Viale si ritrovarono a Pescara per festeggiare con Enrico Deaglio il quarantennale. Quattrocento: un buon numero per ricominciare. Adriano Sofri, che non vuol ricordare, mi dice almeno: «Ricomincerei da capo». Guido Viale, il primo «saggista» del Movimento studentesco (sulle pagine però dei Quaderni Piacentini), non ricomincerebbe: «Non lo rifarei. C’è altro da fare adesso, anche se non mi sento di certo un pentito. Sono stato anche il primo condannato, come primo proprietario della testata, per un volantino allegato al giornale. Si parlava male della Fiat. Venni assolto in appello. Il merito di Lotta continua fu quello di interpretare meglio di altri lo spirito dei tempi. Anche quel motto maoista: ribellarsi è giusto. Significava raccogliere la spinta antiautoritaria, contro le gerarchie e le accademie, dar corpo a quella che veniva definita la lunga marcia attraverso le istituzioni: l’università, gli ospedali, le carceri, i manicomi, l’esercito, persino la polizia...». E fu un gran risultato ad esempio la nascita del sindacato di polizia. «Eravamo meno dottrinari di altri gruppi, che avevano aderito alla vulgata marxista alcuni banalmente altri per snobismo teorico, come il Manifesto e Potere operaio... È vero quello che diceva Silverio Corvisieri e che ripresi in un libro: Lotta continua è soprattutto uno stato d’animo. Lotta
continua era anche l’espressione di una forma d’amicizia tra chi condivideva una medesima condizione e medesimi bisogni, secondo una sensibilità che valorizzava la dimensione umana della politica. Se c’è stato un Sessantotto bello, abbiamo dato voce a quel Sessantotto». Guido Viale mi racconta una parte di verità. La lettura postuma del giornale ce ne presenta altre.
Metti ad esempio un titolo come il seguente: «Il compagno Mao Tse Tung è morto. I proletari di tutto il mondo gli rendono omaggio con la più grande commozione, ma anche con orgoglio e gioia, perché nella sua vita trovano conferme delle possibilità di contare su se stessi e liberarsi della fame, dalla guerra, dallo sfruttamento, dalle idee false. La vita di un grande rivoluzionario, una inesauribile fonte di insegnamento». Tutto d’un fiato. Per giustizia si dovrà ricordare che una decina di giorni dopo veniva pubblicata una intervista a Gianni Sofri, il professore esperto di questioni internazionali, che più di una perplessità elencava a proposito dei misteri del dopo Mao.
Ne dovrà passare dell’acqua sotto i ponti prima di veder scritto in prima pagina il titolo più bello di Lotta Continua: «È rimorto il Papa». Era il 1978 e a Paolo VI era succeduto Albino Luciani. Testimonia Enrico Deaglio: «Sentimmo: è rimorto il Papa. Era il nostro amministratore, Claudio Brunaccioli, viareggino di tempra assai dissacrante». Deaglio vanta anche le prime rivelazioni sull’esistenza della P2 e del suo capo, Licio Gelli (quattro puntate di una inchiesta di Marco Ventura) e il primo inviato a Teheran ai tempi della rivoluzione khomeinista (Carlo Panella). Pare che all’epoca Lotta continua vendesse più di Repubblica. Questione politica, di tensione politica di quegli anni, di contenuti, di linguaggio, in un’alternanza un po’ schizofrenica tra comunicati del partito e resoconti degli interventi dei leader e cronache di vita quotidiana. «Mi presentai a Lotta continua ricorda Giovanni De Luna con un articolo dedicato ad Agostino o’pazzo, il motociclista napoletano che terrorizzava la città. Viale lo lesse e me lo restituì: riscrivilo. Mi spiegò che dovevamo sforzarci ad una scrittura semplice, via il politichese, via i termini colti».
Gad Lerner, tra i più giovani, fu protagonista della stagione più vivace di Lotta Continua: «Chiuso il partito ci si poteva muovere con ben altra autonomia. Si poteva tornare creativi, anche scoprendo tematiche lontane dalla nostra tradizione politica e forme più spregiudicate. Ad esempio l’uso del titolo ironico. Il Male nacque come inserto di Lotta continua. Per cui diventammo oggetto di racconto anche da parte degli altri giornalisti, che spesso venivano a trovarci in redazione. Eravamo un campione. Il nodo fu la violenza, lo scontro tra le diverse anime del movimento. Noi fummo definiti “umanitari”». Lerner a quel punto se ne andò.
Il tema della violenza torna nella voce critica di Guido Crainz, lo storico dell’Italia del dopoguerra, perché i movimenti collettivi della sinistra non seppero porre un argine: «I gruppi extraparlamentari nascono con un deficit di cultura democratica, nel disprezzo delle regole, in una affermazione di individualismo a scapito del rispetto della collettività e delle sue norme». Il professore ex di Lotta continua, che nel ’76 ci spiegava: «Il marxismo insegna a contare sulle nostre forze anche in campo teorico», adesso ci ammonisce: «Se concentriamo lo sguardo su Lotta Continua non capiremo nulla di quegli anni». «La via è tortuosa, ma l’orizzonte è rosa». Purtroppo non fu così. Ultimo numero nel 1982: dedicato alla vittoria italiana ai mondiali di calcio.❖

l’Unità 1.11.09
Dossier LOTTA CONTINUA
Avvicinò studenti e operai ma non capì i cambiamenti
di Oreste Pivetta

Lotta continua il giornale nacque nel 1969, il primo di novembre, quarant’anni fa. Venne dopo La lotta continua, un ciclostilato degli studenti di Palazzo Campana pensato come un’occasione di incontro con gli operai, che a Torino non mancavano. Operai e studenti uniti nella lotta: era davvero la novità, la fine di una separatezza, la rottura dell’incomunicabilità. Così nel ciclostilato si ritrovarono Sofri, Viale, Vittorio Rieser e gli ex dei Quaderni Rossi. Il ciclostilato durò poco, come il sodalizio redazionale. Da quella fine germogliò il foglio periodico, Lotta continua, appunto, di cui il primo direttore responsabile fu Piergiorgio Bellocchio, il fondatore con Grazia Cherchi dei Quaderni Piacentini, mentre figurava come unico proprietario Guido Viale, che di quei primi tempi ricorda una condanna poi cancellata in appello, per un volantino allegato che incitava gli operai della Fiat alla lotta. Si sa che la Fiat non si poteva toccare: dava da mangiare alla città.
Quella era la situazione. Le lotte degli studenti, subito antiaccademiche e antiautoritarie, provavano a incontrare i protagonisti ancora di una società povera e sfruttata. Dopo i morti di Avola, Adriano Sofri scese ad esempio al sud, per conoscere le altre facce dell’Italia proletaria e sottoproletaria e lì diede vita a un giornale di breve vita che si chiamò Mo’ che il tempo s’avvicina, da una canzone di protesta del dopoguerra scoperta da Ernesto De Martino in Emilia: il verso successivo faceva: «...si fa avanti la grande Cina». Nel frattempo, ed è sempre questione di pochi mesi, vi erano stati il Maggio francese e l’Agosto di Praga, che suscitarono emozioni contrastanti nel movimento, assai flebili peraltro di fronte alle sorti dei dimostranti cecoslovacchi e della democrazia in genere. In Italia si fece avanti invece la strategia della tensione: il dicembre fu quello di Piazza Fontana, della morte di Pino Pinelli, del mostro Valpreda, dei depistaggi, delle piste anarchiche. Il cronista della Stampa di Torino riferiva: «Il dr. Calabresi... mi dice: “Certo è in questo settore che
dobbiamo puntare: estremismo, ma estremismo di sinistra... Sono i dissidenti di sinistra: anarchici, cinesi, operaisti (Potere operaio, Lotta continua)”».
Dopo la morte di Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, su Lotta continua comparve un fondo dal titolo: «Bombe finestre e lotta di classe». Fu l’inizio della campagna contro Calabresi o per la verità sulla fine di Giuseppe Pinelli. E qui prese il via un’altra puntata di una tragica storia: Lotta Continua fu querelata da Calabresi, s’aprirono processi (contro il direttore responsabile Pio Baldelli), s’avviarono altre indagini. Il commissario Calabresi fu assassinato il giorno stesso in cui sarebbe stato interrogato da Gerardo D’Ambrosio, il pm titolare dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, trent’anni dopo furono condannati Bompressi e Pietrostefani, in seguito alle rivelazioni del pentito Marino. Sullo sfondo, non dimentichiamo, la nostra Italia sull’ultimo treno per le riforme, ma ormai nell’imbuto del consumismo, un paese in cui il centrosinistra giocava le sue ultime carte e la Dc sognava il «centro», quando si avviava invece a crollare la «centralità operaia» per la semplice ragione che le fabbriche cominciavano a chiudere e i ceti medi si presentavano alla ribalta un po’ meno gelatinosi...
Furono anche gli anni della riforma del diritto del lavoro (che Lotta continua non apprezzò) e del referendum sul divorzio (che Lotta continua ancora non apprezzò perché vi riconosceva scarsi segni di lotta di classe). Furono anche «anni di piombo»... Nel 1972, l’11 aprile, Lotta continua periodico divenne quotidiano, lasciando la piccola sede a Milano dietro il Cordusio sopra il bar dell’Amaro 18 Isolabella, trasferendosi a Roma, in via Dandolo, direttore Adriano Sofri. Nel 1975 comprarono, dall’America, anche una rotativa usata a quattro bocche d’uscita, e per farlo crearono una cooperativa che si chiamò «Tipografia 15 giugno», in omaggio alla vittoria elettorale del Pci. Era stata l’unica volta in cui Lotta continua aveva dato una indicazione di voto a favore dei comunisti di Enrico Berlinguer. Per il resto sul gior-
nale son solo attacchi ai «revisionisti». Quotidiano il giornale sperimentò le difficoltà del mercato e della formula e soprattutto dell’inevitabile richiamo alla politica e con questa alle tentazioni che venivano dall’estremismo terrorista. Nella sua vena spontaneista, dal basso verso l’alto, fece del proprio meglio dando la parola agli operai, ai disoccupati organizzati, ai «proletari», ai sofferenti d’ogni genere (le foto sono una sequenza straordinaria, degna di «brutti sporchi e cattivi»), che diedero corpo a una rappresentazione del paese, mobilitante e, ahimè, assai parziale. Ma a leggere tra le righe tra una infinità di scioperi, di occupazioni (delle case) e di bastonate sulla testa della classe operaia si capisce ciò che Lotta Continua non aveva capito: che un’epoca si stava chiudendo, che la «modernizzazione» nella peggior fattispecie s’era fatta avanti, che il mercato come già aveva spiegato Hobsbawm agli studenti stava trionfando e che gli stessi giovani che protestavano rappresentavano la fetta più ricca di quel mercato.
Nel novembre ’76 vennero i giorni del congresso di Rimini, quando Adriano Sofri decise di sciogliere Lotta Continua, partito, per sottrarre il movimento alle secche dell’imprinting leninista (tra segreterie, leader, capi e capetti) e soprattutto per tagliare di netto con le scorciatoie della cosiddetta «violenza rivoluzionaria». Il giornale dedicò pagine e pagine all’evento e una sola pagina il 6 novembre per la mancanza di soldi e la stanchezza dei redattori. In compenso in quel pezzo unico comparve un articolo di Alex Langer (anche lui direttore responsabile) che dimostrava come di fronte alle evoluzioni del mondo si trattasse di «continuare, col massimo coraggio, a vivere “con il terremoto” e con le contraddizioni aperte». Per l’Unità commentò Giuliano Ferrara. Lotta continua quotidiano continuò (direttore divenne Enrico Deaglio) meno ingessato di prima, vivacemente onnivoro, pervicacemente dialogante con i suoi mondi e le lettere al giornale (vecchia tradizione) divennero una lente sui conflitti non solo di lavoro o di scuola ma soprattutto di cuore, di sentimenti, di ragioni, di passioni dentro una generazione.
Purtroppo il vento degli anni ottanta si portò via Lotta Continua, portandosi via tanta politica. La ragione? Probabilmente la nostra difettosa democrazia, che neppure Lotta continua volle correggere per la parte che la riguardava. Condividendo la responsabilità con un largo fronte di sinistra.

Repubblica 1.11.09
Vent’anni dopo piccoli muri crescono
di Ilvo Diamanti

Mancano pochi giorni all´anniversario della caduta del muro di Berlino. Ma, vent´anni dopo, l´entusiasmo non è più lo stesso.
Anche se il 1989 ha segnato il nostro tempo. Perché quel muro marcava una divisione al tempo stesso geopolitica, economica, ideologica. Fra sistemi democratici e regimi comunisti, liberismo e dirigismo. Fra mercato e statalismo. La sua caduta ha prodotto effetti violenti. Anche da noi. In Italia. Il regime più socialista dell´Occidente. Visto l´intreccio fra economia, politica e stato. Il muro, in Italia, è crollato qualche anno dopo. Nel 1992. Ha seppellito la prima Repubblica. Il partito comunista più importante dell´Occidente costretto a cambiar nome, pelle e identità. I partiti di governo, spazzati via da Tangentopoli, ma anche dalla fine della rendita di posizione garantita dall´anticomunismo.
Vent´anni dopo la caduta del muro di Berlino, quindici anni dopo il crollo della prima Repubblica, l´emozione si è un po´ raffreddata. Non solo per effetto del tempo, della routine. È l´impressione che altri muri siano sorti al loro posto. Alcuni, negli stessi luoghi del passato. Anzitutto, il comunismo. In Italia non se n´è mai sentito parlare così tanto come da quando non c´è più. Comunisti. Tutti coloro che stanno a sinistra. Di Berlusconi. Anzi: tutti quelli che sono contro di lui. D´altronde, il suo successo politico si deve anche – e in buona misura – a questo. Aver tenuto vivo l´anticomunismo senza – e dopo – il comunismo. Al posto del muro di Berlino: il muro di Arcore. Per costringere l´elettorato di centrosinistra dentro gli stessi confini del Fronte Popolare nel 1948. Anche se da allora è cambiato tutto, nella politica e nella società. Proprio per questo, però, le passioni si scatenano – talora – più violente di prima. Perché non sono in gioco diverse idee della storia e del futuro. Ma stili di vita, opinioni, valori che riguardano la vita quotidiana. E al posto dei partiti ci sono le persone. I leader. Pubblico e privato: senza soluzione di continuità. Sotto gli occhi di tutti. Comunicati sui media. Per cui le differenze vengono ribadite, gridate. Scavano solchi profondi. Mentre ieri erano (auto) evidenti e riconosciute.
Il muro di Berlino. È crollato insieme allo statalismo e al trionfo del mercato e del privato. Ma oggi, dopo il disastro della finanza globale, in Occidente si assiste al ritorno dello Stato. Invocato dovunque e soprattutto in Italia. Per proteggere i settori sociali colpiti dalla crisi. Sempre più ampi. Ma reclamato anche dagli attori del mercato stesso. Gli imprenditori. Perfino le banche. Cosa farebbero senza il soccorso dello Stato?
E poi gli Stati nazionali. La fine del muro di Berlino ne annunciava la crisi. Insieme ai confini. Parallelamente al rafforzarsi di altre – e nuove – entità sovranazionali. Sono sempre lì. Evocati e invocati. Attenti a rivendicare la loro autorità. All´interno dei loro confini. Per quanto cambiati profondamente, rispetto a vent´anni fa. Si veda la "grande" Germania ri-unita. Così pronta a tutelare il proprio interesse nazionale.
Certo, il crollo del muro ha allargato ad Est le frontiere d´Europa. Ci ha avvicinati all´Oriente. E ha favorito il flusso di milioni di cittadini. Attraverso confini sempre più aperti. E noi, impauriti dal numero crescente degli immigrati: ci fingiamo "padroni a casa nostra". Invochiamo altri muri. Nuovi muri. Per terra e per mare. Ma, soprattutto, erigiamo nuovi confini davanti e intorno a noi. Preferiamo non vedere. Non confonderci. Con gli stranieri: che restino tali.
La caduta del muro di Berlino, vent´anni fa. Ha allungato la nostra storia recente. Ci ha ributtato indietro, ben oltre gli anni Ottanta. Fin dentro agli anni Settanta. Con cui non abbiamo mai saputo fare i conti. Così, quarant´anni dopo, abbiamo abbattuto anche il muro del Sessantotto. Liquidato senza rimpianto da molti critici. Talora, gli stessi protagonisti di quella stagione. Non ce n´era bisogno, in realtà. Il Sessantotto era già finito da tempo. Ma al suo posto è emerso l´antisessantottismo. Di chi invoca il ritorno dell´autorità perduta. Dei padri e dei professori. Delle istituzioni e dei valori della tradizione.
Nuovi muri. Che, paradossalmente, ridimensionano trasformazioni sociali e conquiste civili importanti, che parevano irreversibili. Basta pensare alla divisione di genere. Tante lotte e tante contestazioni. Nel privato e nel pubblico. Il femminismo. Le pari opportunità. Contro la segregazione femminile nelle carriere. Nel lavoro, nelle professioni. Contro l´immagine della donna-oggetto. Per ritrovarci, oggi, in un paese di veline. Dove le misure che contano, per le donne, non riguardano certo il quoziente intellettivo. Dove la sessualità è esibita come segno di potere. Usata come merce sui media. Dove si ironizza su Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Neanche cinquant´anni fa…
Fra tanti nuovi muri che sorgono intorno a noi, solo uno pare definitivamente crollato. Quello fra le generazioni. Padri e figli. Professori e studenti. Anziani e giovani. Duro da scalare, per i ragazzi. Marcava il cambiamento. L´innovazione sociale. Oggi non c´è più. Perché i ventenni, nati nel 1989 (come il mio figlio maggiore), sono impegnati ad affrontare il loro eterno presente. Precari per definizione. In bilico. Senza passato e senza futuro. E senza territorio, vista la loro confidenza con le tecnologie della comunicazione ("Info-nauti", li hanno definiti nei giorni scorsi Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico su Repubblica.it). Mentre gli adulti latitano e i vecchi sono scomparsi. Vista l´ostinazione con cui insistiamo a dirci tutti – eternamente – giovani.
Così, vent´anni dopo, è difficile non cogliere un po´ di nostalgia. Del Muro. Quand´era uno solo. Visibile. A modo suo, rassicurante. Capace di separare il giusto dall´ingiusto e il bene dal male. Mentre oggi che è crollato – e il mondo è più largo e più aperto – incontriamo muri ovunque. Piccoli e invisibili. Siamo noi stessi a costruirli. Per bisogno di riconoscerci. Per paura di perderci. Per paura.

Corriere della Sera 1.11.09
I radicali: ora serve un garante per le carceri
di Daria Gorodisky

ROMA - «Le conosciamo, quelle cadute accidentali in carcere… È la spiegazione classica che un detenuto dà quando ha paura, nel caso dicesse altro, di prenderne ancora». Rita Bernardini, deputata Radicale del Pd, si dedica da anni alle condizioni di vita nei penitenziari: «Perché ancora oggi sono un'istituzione oscura, dove accadono cose incredibili». Ne ha visitati decine e decine, domani si recherà a Teramo dove ci sarebbero registrazioni a proposito di maltrattamenti ai prigionieri; e sottolinea che oltre la metà di casi di morte durante la detenzione è rappresentata da suicidi e cause da accertare.
E il caso di Stefano Cucchi?
«Abbiamo subito presentato interrogazioni parlamentari. Ma come Radicali abbiamo anche depositato due proposte di legge. Però ormai in Parlamento non si calendarizza più niente…» Che cosa chiedete?
«Nella prima, l'istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Potrebbe essere un parlamentare, magari individuato su proposta dei presidenti di Camera e Senato. In alcune realtà locali esistono già, ma a livello nazionale no».
E nella seconda proposta?
«Un'anagrafe pubblica online di tutte le carceri: per ognuno, quanti detenuti, composizione dell'organico, come aiutare con il volontariato e quale è il regolamento interno».
Ogni istituto ne ha uno?
«No, e questo è il punto: tranne casi rarissimi, ai detenuti non viene consegnata nessuna carta dei diritti e dei doveri che indichi, per esempio, come ci si comporta per le telefonate, la possibilità di avere prodotti particolari, la disciplina dei colloqui».
In genere qual è la frequenza delle visite consentita?
«Solitamente, un paio di volte alla settimana».
E se il detenuto è ricoverato?
«Può essere lo stesso, si chiede al direttore del carcere di poter avere un incontro nel reparto penitenziario dell'ospedale».

Corriere della Sera 1.11.09
I nuovi scenari globali che si aprono al di là delle alleanze fra le grandi potenze
La Tecnica, un Superstato oltre i confini della politica
Perché l’incontro Europa-Russia va nella direzione giusta
di Emanuele Severino

«Sono ben calibrati, i rap­porti che l’Italia ha con la Russia?» — si chiede­va qualche tempo fa, il 20 ottobre scorso precisamente, Fran­co Venturini sul «Corriere», prenden­do spunto dall’incontro di Berlusconi e Putin a San Pietroburgo. Concordo con lui nel ritenerla «la domanda chiave della nostra politica estera». Ma la sua risposta è negativa: man­cherebbero, quei rapporti, di «oppor­tunità e bilanciamento». Inopportu­no che un Paese come il nostro abbia la pretesa di fare da intermediario tra Stati Uniti e Russia, sbilanciandosi ec­cessivamente in favore di quest’ulti­ma e aprendo contenziosi con gli Sta­ti Uniti, come quello, ad esempio, re­lativo al gasdotto Nabucco, promos­so da Europa e Stati Uniti ma di fatto ostacolato da Germania e Italia.
Tuttavia esiste, in Europa, un diret­torio: Inghilterra, Germania, Francia. L’Italia è tenuta fuori. Se non si rasse­gna, la mossa pressoché obbligata non è forse stabilire rapporti privile­giati con Mosca, soprattutto nell’at­tuale fase filoamericana di quei tre Stati? Favorendo la presenza della Russia in Europa non si riduce forse la distanza tra i membri del diretto­rio e l’Italia? Per la politica estera ita­liana è meglio avere in mano una car­ta da giocare per riguadagnare terre­no in Europa, o evitare di correre il rischio di sembrare 'inopportuna'?
Questa mossa pressoché obbligata il centro-sinistra non ha potuto farla: non ha potuto fare quello che oggi il centro-destra invece può. Durante il suo ultimo governo, Prodi ha dichia­rato che un ingresso della Russia nel­l’Unione Europea sarebbe stato asso­lutamente fuori luogo. Se avesse det­to l’opposto avrebbe dato corda all’ac­cusa, rivolta da Berlusconi al cen­tro- sinistra, di non essersi ancora li­berato dal comunismo. La Russia è pur sempre l’ex Unione Sovietica. In­vece il centrodestra può permettersi di sembrare filorusso. E lo fa con qualche ragione.
Ci si deve anche chiedere se quel direttorio (di cui l’Italia vorrebbe far parte) sia vantaggioso per l’Europa, cioè se sia compatibile con l’intento, ribadito recentemente dal presiden­te della Commissione Europea, di raf­forzare il più possibile il mercato uni­co europeo. Un obbiettivo certo irri­nunciabile. Tuttavia anche oggi è im­possibile per i popoli riuscire ad esse­re economicamente floridi se sono militarmente deboli. E questa è ap­punto la condizione in cui l’ Europa verrà a trovarsi anche quando sarà uscita dalla crisi economica.
Oggi il mondo è un vulcano in eru­zione.
Troppo sconveniente far torto a Obama credendo che egli voglia per davvero arrivare al disarmo ato­mico totale. Come se in una città infe­stata da ladri e assassini si congedas­se la polizia e si togliessero le porte alle case. L’Europa è senza porte e senza polizia. Con l’aggravante che il pericolo maggiore non proviene da ladri e assassini, ma dalla fame e dal­le ingiustizie sociali che pesano su gran parte dell’umanità — sì che, an­che quanto sarà ricca, l’Europa non solo continuerà ad esser debole, ma, come tutto il mondo ricco, non avrà nemmeno la coscienza a posto. D’al­tra parte vorrà continuare a vivere. (Ai popoli non ha senso fare predi­che morali. Né a quelli sfruttati, nè agli sfruttatori). Ma come potrà vive­re se continuerà ad esser debole?
D’altra parte, la solidità economica è essenziale all’Europa. Non solo per­ché il benessere è preferibile alla pe­nuria, ma perché la ricchezza è per l’Europa indispensabile per trattare da pari a pari con la Russia: in una cooperazione dove l’Europa assicure­rebbe l’esistenza di un mercato fio­rente e la Russia avrebbe quella forza militare, e innanzitutto quell’arsena­le nucleare, senza di cui oggi nessu­na economia sana può sopravvivere.
Gli Stati Uniti di Bush solo a parole hanno trattato l’Europa da partner. Di fatto hanno agito come se essa fos­se un satellite. La stessa cosa avver­rebbe, e anche peggio, in un’apparen­te partnership tra la Russia e un’Euro­pa economicamente debole. Ma la Russia ha bisogno, molto più degli Stati Uniti, di una economia europea in buona salute. È per questo che, se l’Europa non è destinata al declino economico, la progressiva integrazio­ne di Europa e Russia è nell’«ordine delle cose». Non certo perché sia nel­l’ «ordine delle cose» che l’Europa di­venga un avversario degli Stati Uniti, ma perché la partnership tra Europa e Russia, da un lato, e Stati Uniti dal­­l’altro, sia reale e non apparente. Si aggiunga che se l’entrata della Tur­chia in Europa è una possibilità con­creta, questa entrata renderebbe più equilibrato il rapporto demografico tra i Russi e gli attuali Europei.
Che nell’«ordine delle cose» ci sia la progressiva integrazione di Europa e Russia lo dicevo d’altronde ben pri­ma che tale integrazione diventasse l’obiettivo sempre più esplicito della politica estera dell’attuale governo di centro-destra. Lo dicevo sin dagli ini­zi degli anni novanta, al tempo della fine dell’Unione Sovietica (nel sesto capitolo de Il declino del capitalismo, pubblicato da Rizzoli nel 1993), e ho poi ripreso il concetto anche su que­ste colonne.
Ma, infine, ci si deve chiedere: Eu­ropa, Stati Uniti, Russia — e si ag­giungano Cina, India, Giappone, ecce­tera — riescono a scorgere il volto au­tentico dell’«ordine delle cose»? Essi agiscono ancora politicamente, cioè come Stati che nel loro fronteggiarsi credono di essere in grado di servirsi della potenza della Tecnica per far prevalere le loro rispettive forme sta­tuali. Non si rendono conto che le lo­ro tensioni e la loro elaborazione dei problemi del mondo — le quali sono peraltro l’insieme di eventi oggi più visibile — stanno diventando una lot­ta di retroguardia; che tuttavia è ne­cessaria proprio per andar oltre, nel­la direzione che vado da tempo indi­cando. Incomincia infatti ad affiorare il contrario di quanto essi credono: affiora che è la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e mi­­litare, a servirsi sempre di più degli Stati per accrescere la propria poten­za, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti.
L’integrazione Europa-Russia, os­sia la riduzione delle autonomie sta­tuali, è un passo importante in que­sta direzione.

Corriere della Sera Salute 1.11.09
Medicina del lavoro Una ricerca italiana analizza gli effetti fisici delle angherie in ufficio
Mobbing, fa davvero crollare
Il «cedimento» non è solo psichico, ma anche neurobiologico
di Elena Meli



Konrad Lorenz, l’etologo, è stato il primo a parlare di mob­bing. Non si riferiva a colleghi dell’università di Vienna vessa­ti da qualche 'barone', ma alle anatre selvatiche quando ag­grediscono in gruppo un altro uccello, con un assalto colletti­vo che lo spaventa e lo fa fuggi­re. Un comportamento che esi­ste in natura prima che nel po­sto di lavoro. E che, si scopre oggi, ha effetti ben precisi a li­vello biologico: una ricerca del­l’Università di Napoli, pubbli­cata su Psychotherapy and Psychosomatics , dimostra che nelle vittime di mobbing si modifica l’attività dell’asse ipo­talamo- ipofisi-surrene.
«Si tratta del principale si­stema biologico per la risposta allo stress ambientale: quando questo sistema si attiva, l’orga­nismo mobilita tutte le risorse necessarie per affrontare la si­tuazione, con la lotta o la fu­ga » — spiega Mario Maj, auto­re della ricerca e presidente della World Psychiatric Asso­ciation —. Finora nessuno ave­va studiato i correlati biologici del mobbing, per capire se e come variano in base alla dura­ta dei soprusi e alla personali­tà delle vittime. I nostri risulta­ti dimostrano per la prima vol­ta che l’esposizione prolunga­ta a mobbing porta a una sorta di 'esaurimento funzionale' dell’asse ipotalamo-ipofi­si- surrene».
In pratica, i livelli di cortiso­lo, l’ormone dello stress, si ri­ducono al lumicino (il contra­rio di quel che accade in rispo­sta a uno stress acuto): Maj lo ha visto mettendo a confronto 10 persone senza problemi sul lavoro con 10 'mobbizzati', che sopportavano le angherie in ufficio da almeno 9 mesi. Ed è sulla lunga distanza che il cortisolo cola a picco e l’orga­nismo cede: «È come se, dopo una fase di allarme e resisten­za, le risorse per far fronte allo stress venissero meno — dice Maj —. Chi per carattere è mol­to cauto, apprensivo, inibito e ha scarsa capacità di auto-diri­gersi sembra particolarmente vulnerabile a tale 'cedimento biologico': l’inibizione sociale e comportamentale rende que­ste persone meno capaci di af­frontare la violenza sul lavoro e meno popolari in ufficio, e ciò riduce la possibilità di ave­re il sostegno del gruppo dei colleghi. Un aiuto che invece sarebbe essenziale per il mob­bizzato, anche per documenta­re sul piano medico-legale quanto subisce».
Di modi per rendere la vita impossibile in ufficio ce n’è a iosa. Secondo un’indagine con­dotta da ricercatori della Boc­coni su 3000 persone che si so­no rivolte alla Clinica del Lavo­ro di Milano, il metodo preferi­to è negare ferie, permessi, tra­sferimenti. E poi critiche conti­nue, mansioni dequalificanti, carichi di lavoro esagerati con scadenze impossibili, maldi­cenze e mezzi più o meno sub­doli per far sentire emarginati. Risultato: ansia, depressione e disturbi fisici come dolori mu­scolari, cefalea, palpitazioni, tremori.
«Questi sono l’espressione esasperata della risposta biolo­gica acuta allo stress — chiari­sce lo psichiatra —. Con l’an­dare del tempo possono pren­dere piede i sintomi che espri­mono il cedimento dell’organi­smo, di cui il calo del cortisolo è spia: decadimento generale, scomparsa del desiderio e del­la potenza sessuale, patologie cardiovascolari, ulcera gastri­ca o duodenale». Come uscir­ne?
In teoria chiedendo aiuto: oggi esistono numerosi centri anti-mobbing. «Ma quasi mai le vittime ci vanno, perché non sanno che ci sono, temo­no ritorsioni sul lavoro o non credono di poter essere aiuta­te — dice Maj —. Un supporto psicoterapeutico è molto utile perché il mobbizzato trovi l’at­teggiamento più adatto a fron­teggiare la situazione. E se i sintomi ansiosi e depressivi so­no disturbanti, possono servi­re anche i farmaci». L’impor­tante è reagire. 


Corriere della Sera Salute 1.11.09
Depressione. Scoperta sui tempi di risposta alle terapieSubito dopo la pillola un’inconsapevole allegria
di Cesare Peccarisi

La depressione è da sem­pre considerata una malattia cronica e recidivante che ha bisogno di trattamenti a lun­go termine.
Uno studio dei ricercatori dell’Università di Oxford di­retti da Catherine Harmer, pubblicato dal Journal of American Psychiatry , dimo­strerebbe che la terapia anti­depressiva può avere effetti rapidissimi di cui i pazienti non si accorgono subito, ma che sono rilevati dai medici con particolari test.
Solo 3 ore dopo aver as­sunto una dose molto bassa di un vecchio antidepressi­vo, la reboxetina, i pazienti presentavano comportamen­ti oggettivi che dal punto di vista clinico indicano un in­dubbio miglioramento: os­servando una serie di volti coglievano con insolita pron­tezza le espressioni facciali felici (men­tre i depressi sono più attenti a quelle tristi); rispondevano prima ad attribuzio­ni positive nei loro confronti; la memo­ria di passate situa­zioni personali posi­tive non era ridotta.
Tre aspetti, questi, che nel depresso hanno sempre se­gno negativo, tant’è che nei pazienti par­tecipanti allo studio trattati con placebo non si sono pre­sentati.
Non si sa se quanto osser­vato possa valere per ogni antidepressivo e se questo ef­fetto si tradurrà in benefici clinici. La ricerca, condotta su 33 soggetti con depressio­ne lieve-moderata non in te­rapia e 31 persone sane co­me gruppo di controllo, ha utilizzato una singola dose di farmaco o un placebo iner­te.
Prima di iniziare, in tutti è stato valutato il livello sog­gettivo di umore e di ansia tramite 6 specifiche scale. Le scale di valutazione sono sta­te poi riproposte, tre ore do­po l’assunzione del farmaco, insieme ai test di riconosci­mento dei volti. Risultato: nelle scale i valori non cam­biavano, né i pazienti si sen­tivano migliorati, mentre la valutazione oggettiva di rico­noscimento emotivo dei vol­ti indicava che il migliora­mento c’era stato.«Da un po’ di tempo si so­spetta che l’azione degli ini­bitori della ricaptazione del­la serotonina, della noradre­nalina o di entrambe inizi già dopo alcune ore, facendo aumentare i recettori di que­sti neurotrasmettitori, — di­ce Claudio Mencacci, diretto­re del dipartimento psichia­trico del Fatebenefratelli di Milano — mentre la cosid­detta neurogenesi, cioè la formazione di nuove cellule nervose a rimpiazzo di quel­le alterate dalla malattia, co­mincia dopo alcune settima­ne».
Non è strano che questo effetto rapido sia stato osser­vato con la reboxetina: nella depressione, per passare da un miglioramento significa­tivo al benessere completo è necessario riappropriarsi di una specifica dimensione le­gata alla cognizione di sé e dei rapporti con noi e gli al­tri. Dal punto di vista neuro­biologico questo passaggio è legato al sistema noradre­nergico, sul quale la reboxeti­na agisce in maniera seletti­va.
«Il farmaco ha agito sui meccanismi emotivi prima che si manifestassero cam­biamenti dell’umore e della sintomatologia — conclude Mencacci —. La traduzione di questo cambiamento in un migliorato umore ha biso­gno di tempo, perché il pa­ziente deve imparare a ri­spondere a questa nuova vi­sione positiva che deriva dal risettaggio delle trasmissio­ni nervose indotto dal farma­co».