venerdì 6 novembre 2009

l’Unità 6.11.09
I numeri della follia carceraria
di Luigi Manconi

Degli imputati che lasciano il carcere la metà vi è rimasta non più di dieci giorni. Una detenzione inutile che tuttavia contribuisce al sovraffolamento

Molte possono essere le concezioni della pena – anche anticipata e in attesa di giudizio – che si possono coltivare (alcune condivisibili, altre meno, altre ancora ripugnanti): ma, tutte, hanno, o si presume che abbiano, un loro senso, una loro razionalità, una qualche forma di rapporto tra mezzi da adottare (tipo di sanzioni) e fini da perseguire (scopo delle sanzioni). E se, invece, scoprissimo che ciò che manca all’esecuzione della pena, in Italia, è esattamente un qualunque senso? Proprio uno straccio di significato, pure il più miserevole e sdrucito. I dati che qui presento, elaborati sulla base delle statistiche e di alcuni studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sembrano dirlo in maniera inequivocabile e definitiva. Questo carcere è né più né meno che una follia. Nel periodo considerato, 2002-2007 la percentuale di soggetti imputati, che vengono reclusi, per non più di dieci giorni, rappresenta oltre la metà di tutti coloro che passano attraverso il carcere nel corso di dodici mesi. Ed è assai significativo che il dato rimanga costante negli anni e che un evento importante come l’Indulto lo lasci inalterato.
Avete letto bene: oltre la metà degli imputati che lasciano il carcere vi sono rimasti non più di dieci giorni; e circa il 35% esce dopo 48 ore. Serve altro per proclamare il fallimento totale e incondizionato dell’Istituto della pena detentiva, specie quando è anticipata, nel nostro sistema di giustizia? È sufficiente riflettere un po’: 48 o 240 ore di permanenza in carcere, a quale finalità rispondono? Non alla finalità più tetra e regressiva (la pena come vendetta) perché si tratta, a ben vedere, di una “vendetta” sostanzialmente assai lieve: appena 2 giorni o 3, 4, 5, 6... di reclusione. E non risponde nemmeno alla concezione della pena come retribuzione: in primo luogo perché la gran parte di quei soggetti è ancora in attesa di giudizio e poi perché quelle ore e quei giorni non corrispondono ad alcuna misura di equità rispetto al reato di cui si è imputati. Non all’idea della pena come salvaguardia sociale, dal momento che la tutela della sicurezza affidata a una reclusione tanto breve risulta semplicemente priva di qualunque efficacia anche solo deterrente e intimidatoria. Per non parlare, poi, della funzione “rieducativa” della pena: in due o dieci giorni si fa giusto in tempo ad apprendere qualche rudimento del vocabolario carcerario e qualche modalità di rapporto con i compagni di cella e con i superiori. Tanto meno, quella reclusione breve, potrà svolgere un ruolo “espiativo”: in qui pochi giorni si potrà, a mala pena, scrivere ai familiari e all’avvocato, difendere la propria incolumità, attrezzarsi nell’evenienza che la reclusione si protragga. Dunque, si torna al punto di partenza: all’assoluta inutilità di quella detenzione, alla sua totale mancanza di senso, alla sua inefficacia rispetto a un qualsivoglia fine si attribuisca a quella cella chiusa a chiave.
All’opposto, da tale insensatezza, discende un effetto abnorme. Ed è il sabotaggio del sistema penitenziario. Un sabotaggio diretto e rovinoso, esplicito e irreparabile, che avvicina il collasso del sistema stesso. Perché quella reclusione, breve, brevissima un risultato, certo, lo produce: ovvero l’intasamento, il sovraffollamento, il blocco. Cioè la disfunzione cieca e ottusa e totale. Con l’intento di perseguire una pulsione punitiva e penalizzante, con la volontà di sanzionare pesantemente comportamenti devianti e irregolari e, tuttavia, incapaci di suscitare allarme sociale, con la tendenza alla carcerizzazione di stati di marginalità, debolezza, e miseria (immigrati, tossicomani, poveri, senzacasa, malati di mente...) si arriva fatalmente a ricorrere al carcere – magari per periodi irrisori – pur di affermare, prima sul piano ideologico che su quello sociale, un principio d’ordine e un esercizio di autorità.
Le conseguenze sono nefaste: si pensi solo a quale gigantesca dissipazione di energie, di risorse umane ed economiche, comporti un simile turnover. Si pensi a quale defaticante stress si induca negli operatori del sistema penitenziario, negli agenti come negli psicologi, negli educatori come nel personale amministrativo, costringendo un’intera macchina a farsi carico, affannosamente e sbrigativamente, di una popolazione di migliaia di persone che entrano, soggiornano per qualche tempo, vengono dimessi, e tutto ciò senza che nessuno sia in grado di trovare, in questo flusso ininterrotto e cieco, alcuna razionalità. Se non l’idea, forse più ottusa che barbarica, che un simile carcere possa funzionare come modello di controllo sociale e forma della giustizia. ❖

l’Unità 6.11.09
Nomine Ue Pressing di Berlusconi per D’Alema
Il premier in campo per l’ex ministro degli Esteri. Berlusconi avrebbe chiamato anche la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy per spingere la candidatura D’Alema a capo della diplomazia europea.
di Marco Mongiello

Il presidente del Consiglio avrebbe contattato le più importanti cancellerie
La Polonia evoca il «passato comunista» dell’ex ministro degli Esteri

Si accende la partita per l'assegnazione delle cariche europee combattuta a colpi di consultazioni e insinuazioni.
In questi giorni, secondo fonti della maggioranza, Berlusconi avrebbe contattato le principali cancellerie del Continente per promuovere la candidatura di Massimo D'Alema a futuro Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue. Una candidatura che, ha ripetuto il ministro Frattini, «sosterremo con convinzione».
IL NODO INGLESE
Le possibilità dell'Italia sembrano sempre più concrete man mano che aumentano le prese di distanza del super favorito, l'attuale capo della diplomazia britannica David Miliband. Lui ha continuato a ripetere di essere «non disponibile» ad andare a Bruxelles e il suo Governo continua a promuovere un improbabile Tony Blair alla carica di Presidente del Consiglio Ue, l'altra poltrona in gioco. Su Londra pesano anche le dichiarazioni euroscettiche del leader conservatore e probabile futuro premier David Cameron, che ha promesso: «Mai più trasferimenti di sovranità a Bruxelles». I bookmaker inglesi, che prima scommettevano su Miliband, ora lo danno a pari possibilità con D'Alema.
Al momento non è certa neanche la disponibilità dell'altro super favorito, il premier belga Herman Van Rompuy, che Sarkozy e Merkel vorrebbero fare presidente, ma che i belgi vorrebbero tenere a fare da mediatore tra valloni e fiamminghi.
In questo clima di fibrillazione qualcuno tra i Paesi dell'Est Europa si gioca le proprie carte, rivendicando uno dei due posti per i nuovi Stati membri dell'Ue.
D'Alema è «stato menzionato più volte in passato come qualcuno di affidabile e autorevole», ha detto l'ambasciatore polacco presso l'Ue Jan Tombinski, ma il suo passato comunista «sarebbe un problema» e «sarebbe meglio ci fosse una persona la cui autorità non fosse contesta-
bile per le sue passate affiliazioni». La Polonia, si è affrettato a chiarire il portavoce della rappresentanza polacca Kacper Chmielewski, «non si oppone ad alcuna candidatura», Più esplicito il presidente polacco dell'Europarlamento, Jerzy Buzek, che ha chiesto un «equilibrio geografico» nelle nomine, che secondo lui «al momento non riflettono la realtà di un'Unione europea a 27». Il comunismo non c'entra, ha spiegato all'Unità l'eurodeputato romeno Adrian Severin. Ex ministro degli Esteri socialista e membro della commissione Affari esteri dell'Europarlamento, Severin è tra nomi inseriti nella lista dei possibili capi della diplomazia Ue stilata dal Pse. «Contano i meriti e non qualche pregiudizio ideologico», ha detto, e «in ogni caso l'ultima parola spetta al Parlamento europeo che dovrà approvare le nomine dei commissari, inclusa di quello dell'Alto rappresentante che è anche vicepresidente della Commissione». Secondo lui le voci che danno Miliband in testa «ignorano i fatti oggettivi: lui non è disponibile, il Governo non lo promuove e, secondo i sondaggi, il 48% dei britannici sarebbero contrari». Secondo il vicepresidente del Parlamento Ue, Gianni Pittella (Pd), quello del comunismo «è un argomento ridicolo».
D'Alema è gradito alla maggioranza dell'Europarlamento: è stato anche eurodeputato, ha spiegato, e «con la missione in Libano ha dato prova di europeismo. Con Miliband, non si avrebbe la certezza di avere un filoeuropeo».
LE TAPPE
Chiunque sarà scelto il 4 dicembre dovrà passare l'audizione della commissione Affari esteri dell'Assemblea di Strasburgo, che oggi è presieduta dall'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (Pdl). «Io come italiano sarei entusiasta di avere un connazionale in questa posizione di altissimo profilo.❖

Repubblica 6.11.09
La responsabilità del potere
di Ezio Mauro

Per le vie tortuose che ritiene evidentemente più comode, in forma obliqua e non diretta, senza mai citare un fatto concreto e incontestabile, il presidente del Consiglio dopo sei mesi ha finalmente deciso di rispondere alle dieci domande che Repubblica gli rivolge dal 14 maggio, rilanciate dai giornali di tutto il mondo.
È positivo che un leader di governo senta infine la responsabilità di rendere conto all´opinione pubblica, o almeno a quella parte di opinione che lo interroga. Anche se questo avviene con un ritardo politicamente di grande significato, dopo insulti rivolti ai cronisti del nostro giornale che gli ponevano in pubblico le domande, dopo l´invito alle aziende a non fare pubblicità sui giornali "catastrofisti", dopo l´appello agli imprenditori perché boicottassero Repubblica, dopo l´accusa esplicita di eversione, dopo la decisione di citare le dieci domande per un milione di euro di danni, portandole in tribunale perché un giudice le facesse tacere. Questa strategia del Premier, accompagnata dai violenti attacchi personali – a colpi di dossier – della stampa di famiglia a chiunque criticasse il suo operato, non ha evidentemente pagato. Le dieci domande sono rimaste al loro posto per il semplice motivo giornalistico per cui erano nate, e cioè per chiedere conto di contraddizioni e bugie sugli scandali che da sei mesi circondano il Capo del governo, dopo la denuncia del "ciarpame politico" da parte della first lady: lo scambio di favori di giovani ragazze in cambio di candidature politiche.
Molto semplicemente, avevamo chiesto al Premier di cancellare quei dubbi, rispondendo alle domande con un´intervista. Dopo i quattro giorni di attesa concordati, non avendo ricevuto una risposta, abbiamo pubblicato le domande. Da allora, le abbiamo ripresentate ogni giorno per la buona ragione che non c´era stata alcuna risposta. Il bisogno di capire, il diritto di sapere, ci hanno autorizzati ad andare avanti, nella convinzione che là dove si aprono spazi di opacità e di menzogna nel potere pubblico, si apre anche uno spazio che noi consideriamo naturale e obbligatorio per il giornalismo.
Questa indagine giornalistica permanente ha provocato molte reazioni in Italia. I lettori hanno risposto con grandissimo interesse, prendendo parte in ogni modo come cittadini a questa richiesta di rendiconto del potere. Alcuni giornali ci hanno spiegato invece che non si fa così, in Italia non usa: e si vede. Più significative due accuse – tra le tante – che in questi mesi sono state lanciate contro Repubblica. La prima sostiene che la critica di un giornale ad un leader è un atto contro la sovranità popolare, contro l´unione in un solo corpo mistico tra il Capo e il suo popolo, intangibile e insindacabile: basta rispondere che nei Paesi democratici il potere è sottoposto ogni giorno al giudizio della stampa e della pubblica opinione, e il voto non è un salvacondotto, anche perché nella nostra Costituzione la sovranità appartiene al popolo, non "emana" dal popolo verso il leader. Ma questa prima accusa prepara la seconda: l´antipatriottismo, l´azione anti-nazionale di chi criticando il potere indebolisce la sacra unzione che consacra l´unione carismatica tra leader e popolo nel destino della nazione.
È ovvio che chi critica il legittimo potere – di fronte a ciò che ritiene un errore, una menzogna, un abuso – ama il suo Paese almeno quanto chi detiene quel potere, o chi sta a guardare: lo ama attraverso la democrazia, la Costituzione, il rispetto delle istituzioni, della regola civica dei diritti e dei doveri che deve valere per tutti, governanti e cittadini. In più, il proprio Paese si serve quando ognuno realizza in libertà e coscienza il proprio compito svolgendo il proprio ruolo. E le democrazie contemplano e annoverano i casi molteplici in cui – nello svolgere ognuno le sue libere funzioni– stampa e potere giungono ad un confronto anche duro, che spesso diventa conflitto. Con una differenza: negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna le inchieste e le campagne sul potere di giornali che nessuno si è sognato di definire «nemici» o «fabbriche di odio» non sono mai state tacciate di antipatriottismo né di violazione della volontà popolare. Nemmeno quando i leader messi sotto accusa erano eletti dal popolo davvero.
La realtà e la verità sanno comunque farsi strada, in questo falso rumore italiano di comodo. Lo scandalo berlusconiano ha posto prima una questione di verità, con le bugie non spiegate, poi una questione di libertà, con gli attacchi ai giornali. La reazione violenta ha fatto vittime. Il direttore di Avvenire ha perso il posto e il lavoro dopo aver criticato il Premier perché un giornale di famiglia ha pubblicato un foglio anonimo scritto nel linguaggio dei servizi che lo tacciava di omosessualità. Il presidente della Camera, per le sue opinioni costituzionali e dunque non ortodosse è stato ammonito a mettersi in riga, pena il ricorso a presunte vecchie dicerie a sfondo sessuale: si è cioè cercato di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato. Il giudice Mesiano, colpevole di aver pronunciato una sentenza civile non favorevole a Fininvest nella causa con la Cir in seguito all´accertata corruzione che ha deviato fraudolentemente il corso imprenditoriale della Mondadori, è stato pestato mediaticamente, con l´arma del dileggio, sulle televisioni di proprietà del Premier.
È un panorama impressionante, sullo sfondo delle 10 domande. Lo ha disegnato il Capo del governo, pur di non rispondere, pur di non chiarire, pur di non assumersi una responsabilità. Come se una grande democrazia, in mezzo all´Europa e al 2009, si potesse governare a colpi di dossier, di intimidazioni, di minacce, seminando la paura al posto dell´autorevolezza, usando i telegiornali sotto dominio per occultare e re-inventare la realtà, i giornali per colpire non le idee avverse, ma gli avversari fisicamente, togliendoli di mezzo, se possibile rovistando nei loro letti.
Di fronte a questo quadro italiano, i giornali di ogni Paese (di altri Paesi) hanno usato lo stesso canone di Repubblica, con il medesimo allarme, uguali interrogativi e giudizi assai simili. Si sono mossi intellettuali, giuristi, migliaia di cittadini. Roberto Saviano ha spiegato che «la libertà di stampa significa anche libertà di non avere la vita distrutta, senza un clima di minaccia, senza avere contro non un´opinione opposta, ma una campagna che mira al discredito totale di chi la esprime». Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero e Stefano Rodotà hanno raccolto mezzo milione di firme denunciando l´"intimidazione" contro chi esercita il diritto dovere di informare. Il direttore del Guardian ha scritto che Repubblica ha «tutti i diritti del mondo» di fare le sue 10 domande. La Nieman Foundation per il giornalismo e la Kennedy School di Harvard hanno spiegato che «il governo deve essere responsabile nei confronti dei cittadini e il ruolo della stampa è pretendere questa responsabilità».
La ragione delle dieci domande, per tutti questi mesi, sta infatti proprio qui: la responsabilità del potere davanti alla pubblica opinione. Ed è la stessa ragione che infine ha sopravanzato - per ora - gli insulti e i dossier, le querele e gli attacchi, costringendo il Premier a rispondere. Lo ha fatto in forma obliqua, evitando il confronto con Repubblica, in forma ambigua, facendosi riformulare le domande dal suo intervistatore-notaio, in un libro edito dalla casa editrice di sua proprietà. Un´operazione politica controllata e protetta, dunque. Dove l´interesse del Premier non è la verità da chiarire, ma la pressione dei giornali da allentare.
Il risultato, come i lettori possono constatare, è una prudentissima navigazione al largo delle vere questioni, senza fatti, senza veri chiarimenti, senza circostanze che possano spiegare la verità ai cittadini. È come la denuncia – tutta politica, esplicita, certificata dal suo notaio, che ieri ha annunciato alle agenzie "la risposta alle dieci domande di Repubblica"– di un limite. Dobbiamo prendere atto di ciò che il Premier ha fatto, e anche del modo in cui ha voluto e potuto farlo: ha dovuto infine rispondere, dopo sei mesi, dimostrando che le domande erano legittime e doverose, com´era doveroso affrontarle, tanto che il ritardo nei confronti dei nostri lettori è politicamente colpevole. E ha risposto nell´unico modo imbarazzato, generico e circospetto che può oggi permettersi. La vera risposta – ecco il punto – è la coscienza politica di questo limite, che mentre il Premier replica, lascia la questione fondamentale della verità intatta, e irrisolta. Questo è un problema aperto non con Repubblica, ma con il Paese, insieme con un´ultima inevitabile domanda: signor Presidente, qual è la ragione che su queste vicende le impedisce di dire davvero la verità ai suoi concittadini? Come se fossimo in un Paese normale, noi continueremo a chiederlo, finché lo capiremo.

Repubblica 6.11.09
Ma ora è sfiorita la rosa d´Europa
di Timothy Garton Ash

Il 1989 è stato l´anno più importante nella storia del mondo dal 1945 in poi. In ambito politico internazionale ha portato un cambiamento totale: ha segnato la fine del comunismo in Europa, dell´Unione Sovietica, della guerra fredda e del breve ventesimo secolo. Ha aperto la strada all´unificazione tedesca, a una estensione senza precedenti dell´Unione Europea, da Lisbona a Tallin, all´allargamento della Nato, a due decenni di supremazia americana, alla globalizzazione e all´ascesa dell´Asia. L´unica cosa che non ha cambiato è la natura umana.
Nel 1989 gli europei proposero un nuovo modello di rivoluzione non violenta, la rivoluzione di velluto, in contrapposizione all´esempio violento del 1789, che per due secoli ha rappresentato il concetto comune di "rivoluzione".
Al posto dei giacobini e della ghigliottina misero il people power e i negoziati attorno a un tavolo rotondo. Con la sensazionale rinuncia all´uso della forza da parte di Mikhail Gorbaciov (fulgido esempio del peso dell´individuo nella storia), un impero dotato di armi nucleari che agli occhi di molti europei era sembrato perenne e inespugnabile come le Alpi, non da ultimo proprio perché possedeva quelle armi di distruzione totale, svanì all´improvviso in punta di piedi. Ma poi, un po´ come se tutto questo fosse troppo bello per essere vero, il 1989 portò anche la fatwa dell´Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie – dando il via ad un altro lungo conflitto in Europa, ancor prima che l´ultimo si fosse davvero concluso.
Anni così capitano una o due volte al massimo in una lunga vita. Anche il 2001, con gli attacchi terroristici dell´11 settembre, è stato un anno importante, certo, soprattutto perché ha cambiato le priorità degli Stati Uniti nel mondo, ma non ha prodotto trasformazioni paragonabili a quelle frutto del 1989. La guerra fredda aveva interessato fino al più minuscolo stato africano rendendolo un potenziale pedone nella partita a scacchi tra Est e Ovest, e la sua fine fu altrettanto pervasiva. Luoghi come l´Afghanistan finirono nel dimenticatoio, trascurati da Washington dato che non contavano più nulla nel contesto globale con l´ormai ex Unione Sovietica. Il mujahiddin ha fatto il suo lavoro, il mujahiddin può andare. Ma il mujahiddin di nome Osama bin Laden la pensava in maniera un po´ diversa.
L´epicentro del 1989 era l´Europa tra il Reno e gli Urali ed è lì che si è verificato il grosso dei cambiamenti. Tutti i paesi confinanti con la Polonia oggi sono nuovi, diversi da com´erano nel 1989. A dire il vero molti degli stati e parecchie delle frontiere dell´Europa orientale oggi sono più recenti di quelli africani. E la vita di ogni uomo, donna e bambino è cambiata tanto da essere irriconoscibile, più che mai nella ex Ddr, la cui condanna a morte compie vent´anni il prossimo lunedì, anniversario della caduta del muro di Berlino.
Così, da una parte abbiamo le esistenze di tanti individui: dei giovani cechi, ungheresi e tedeschi dell´est, nati nel 1989, che stanno beneficiando delle opportunità di libertà, e le storie dei molti anziani, meno fortunati, che da allora se la passano male e sono arrabbiati e delusi.
All´estremo opposto abbiamo il balletto globale delle superpotenze, vecchie e nuove. Potenzialmente oggi sono tre: gli Usa, la Cina e l´Ue. Gli Stati Uniti sono ancora l´unica vera superpotenza a tre dimensioni. La settimana scorsa gli ex presidenti Gorbaciov e Bush si sono incontrati a Berlino con l´ex cancelliere Helmut Kohl e Bush senior ha ampiamente ossequiato il suo amico "Mikhail". Poteva permettersi tanta generosità, dopotutto l´America ha vinto. Per l´esattezza gli Usa sono risultati vincitori, grazie in parte alla loro politica, ma anche all´operato degli altri. Ma sarebbe difficile sostenere che hanno fatto buon uso dei due successivi decenni di supremazia – e men che meno sotto Bush figlio. Il paese ha scialacquato ricchezze accumulando un enorme debito pubblico e delle famiglie. Non ha creato un nuovo ordine internazionale durevole. Ora ha un meraviglioso presidente che ha in mente quell´obiettivo ma probabilmente non ha più i mezzi per realizzarlo.
Il vero vincitore a sorpresa è la Cina. Ricordate quando Gorbaciov, in visita a Pechino all´inizio dell´estate del 1989, fu fatto entrare di soppiatto nello Zhongnanhai, sede del partito comunista cinese, passando da un ingresso secondario perché piazza Tienanmen era invasa dai dimostranti. La Cina pareva allora sull´orlo di una sua rivoluzione di velluto. Ma poi venne il massacro del 4 giugno. Un brivido percorse l´Eurasia, da Pechino a Berlino. La Cina e l´Europa imboccarono strade nettamente diverse. Traumatizzati dalle proteste di Tienanmen e dal crollo del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale, i vertici del partito comunista cinese fecero tesoro dell´esperienza altrui per evitare il destino dei loro compagni europei. Cogliendo le opportunità economiche offerte dalla globalizzazione, a sua volta decisamente stimolata dalla fine del comunismo in Europa, proseguirono sulla via su cui li aveva instradati Deng Xiaoping (un individuo accostabile a Gorbaciov quanto a impatto sulla storia).
Risultato: un sistema ibrido che può essere rozzamente definito per sommi capi come Capitalismo leninista, qualcosa di semplicemente inimmaginabile nel 1989. E una superpotenza emergente con riserve in valuta estera per 2000 miliardi di dollari, che tiene gli Usa stretti in una morsa finanziaria. Certo, è una superpotenza fragile, con molte tensioni e contraddizioni interne, e troppo poca libertà, ma resta un formidabile antagonista per il capitalismo democratico liberale di stampo occidentale. Ben più formidabile, detto per inciso, dell´islamismo militante, orientato al passato, che è sì una reale minaccia, ma non un serio rivale ideologico.
E poi ci siamo noi: la vecchia Europa, da cui è partito tutto. In altra sede, in un saggio per la New York Review of Books, ho definito il 1989 come l´anno migliore della storia d´Europa. È un´affermazione ardita e invito i lettori a contestarla indicando un altro anno. Ma a vent´anni di distanza e nei miei momenti più bui il 1989 a volte mi appare come l´ultima fioritura tardiva di una vecchissima rosa. Senza dubbio da allora abbiamo fatto grandi cose. Abbiamo allargato l´Unione Europea. Abbiamo (o quantomeno alcuni di noi hanno) la moneta unica. La nostra economia è, per dimensioni, la maggiore del mondo. Sulla carta l´Europa sta bene. Ma la realtà politica è assai diversa.
Questa non è l´Europa dal cuore grande che sognavano i visionari come Vaclav Havel nel 1989. È l´Europa dell´altro Vaclav, Vaclav Klaus, che firma il trattato di Lisbona digrignando i denti, dopo aver preteso qualche piccola concessione. È l´Europa di David Cameron che, per la sua visione ristretta e nazionale ben rappresenta in effetti l´europeo contemporaneo. (Parafrasando Wordsworth invoco: Churchill! Ah, se tu fossi in vita. L´Europa di te ha bisogno). Immersi nel narcisismo delle piccole differenze, solo parzialmente consci del mondo di giganti che li circonda, la media dei politici in Francia, Germania o Polonia è di poco migliore.
Così a vent´anni di distanza l´interrogativo che si pone a noi europei è il seguente: siamo in grado di riappropriarci delle ardite strategie e dell´immaginazione storica del 1989? Oppure lasceremo agli altri il compito di plasmare il mondo mentre noi ci rannicchiamo sottoterra come Hobbit nelle nostre tane nazionali, facendo finta di non sentire il passo pesante dei giganti sopra le nostre teste? www.timothygartonash.com

Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 6.11.09
L’apocalisse in casa
Lo psichiatra che ha ucciso preparava i soldati a morire
di Vittorio Zucconi

Li avrebbe dovuti curare, e programmare come diligenti soldatini di piombo da fondere nel crogiolo delle guerre fantasma del terzo millennio, l´ufficiale medico psichiatra, ma nessuno aveva pensato a curare lui, il medico, che ha ucciso i suoi pazienti futuri.

Una nuova apocalisse in casa per l´America sempre più fragile

Quei soldati che a migliaia tornano dalle guerre per «esportare la democrazia» avendo perduto per sempre, come lui, l´anima e la mente. Erano pronti e preparati a morire in Iraq o in Afghanistan, i suoi soldati, come quei cinquemila e 281 loro fratelli nelle uniformi delle forze armate americane che già sono tornati indietro nelle bare d´acciaio verniciato, non a essere abbattuti nella loro casa, nel forte più forte del Texas, Fort Hood, dove si sentivano invulnerabili e invincibili dentro i loro mezzi corazzati e sotto le insegne della Cavalleria, la più nobile delle armi. E da chi avrebbe dovuto convincerli e «strizzargli il cervello», come si dice nello slang americano di psichiatri e psicologi clinici.
E se non sappiamo davvero nulla dell´autore di questa Apocalisse «now and here», ora e qui, oltre il grado e la specializzazione medica, dell´ufficiale che ha aperto il fuoco sui propri soldati nel momento della loro promozione, alla vigilia della partenza per il fronte, oltre quel nome arabo che subito suscita pensieri sinistri, il maggiore Malik Nadai Hasan, nè dei suoi due complici arrestati, la domanda che da otto anni i comandi americani si pongono torna prepotente: fino a quando si può tendere l´elastico di un esercito formidabile, addestratissimo, armatissimo, motivatissimo, ma pur sempre fatto di essere umani? Bastano lo psichiatra, il cappellano militare, i discorsi, le marcette, le parole di circostanza dette da ogni presidente e anche ieri sera da Barack Obama, per illudersi che l´elastico di una mente non si strappi mai?
Sono ormai nove anni che in Afghanistan e sei in Iraq, più tempo di ogni altra guerra americana e vicinissimo all´orribile record del Vietnam, uomini e donne sono spremuti in combattimenti che non hanno altro che tunnel alla fine del tunnel, nonostante le solite promesse di tutti i generali e di tutti i governanti di tornare a casa per Natale, ma senza mai specificare «quale Natale». Il maggiore psichiatra che ha guidato questo ammutinamento, che a chi conosce la storia della guerra ricorda gli ammutinamenti dei soldati francesi sulla Marna nelle ore più truci della Grande Guerra, sarebbe dovuto partire per l´Iraq nelle prossime ore e in lui l´elastico troppo teso è saltato. Che lo abbia spezzato il suo essere evidentemente di sangue arabo, sembra nato in Giordania, di fronte alla continua strage di arabi e di mussulmani nel nome della loro liberazione, che sia stata la umana paura di andare a saltare su una mina, a essere catturato e torturato e sgozzata da terroristi mussulmani decisi a punire nell´orrore il suo tradimento della «umma», della comunità islamica, ancora non sappiamo. Si indaga sul suo passato, sulle possibile affinità ideologiche con i combattenti e i terrorirsti anti cristiani, sull´ipotesi di cellule maligne infiltrate nel corpo della US Army, che a Fort Hood ha una delle proprie fortezze più gigantesche. Quasi 50 mila soldati, panzer M1A1, trasporti corazzati e le insegne della divisione di cavalleria più gloriosa nella storia militare americana, la Prima Divisione. Quella che da sola, nel 1950, rallentò l´invasione dei nord coreani e salvò almeno la metà di quella penisola. E che i registi dei film di guerra, come Coppola in Apocalipse Now, amano raccontare come i più coraggiosi, i più matti, i più temerari, nel segno della testa di cavallo nero sul fondo giallo.
Ma questa volta, la cavalleria non è arrivata in tempo a salvare la cavalleria. Nessun generale, nessun colonnello, nessun camerata o collega si era accorto che qualcosa era saltato nell´anima di quel Giordano divenuto medico, psichiatra, americano, ufficiale e gentiluomo sotto il segno della nazione che lo aveva adottato, gli Stati Uniti e che la sua fosse semplice e comprensibile pazzia, o tentacolo di un complotto arrivato dentro il santuario dell´americanità e delle sue forze corazzate, il Texas e già questo è, in ogni caso, «orribile» come ha detto Obama. Addirittura, nella confusione della notte, qualcuno aveva dubitato che la facoltà di medicina e psichiatria dove lui si era laureato, a Bethesda, nei sobborghi di Washington, esistesse, come invece esiste, parte dell´ospedale della Marina. Questa è la materia per indagini, ispezioni e polemiche. Quello che rimane di questa Apocalisse ora, e qui, non a diecimila chilometri, è il fatto di essere il settimo incidente, dall´invasione dell´Iraq, di soldati americani che sparano ad altri soldati americani, con ormai più di 40 caduti. Il settimo.
Situazione normale, dunque. All´Ovest, generale, niente di nuovo.

Repubblica 6.11.09
La giustizia e la vendetta
di Nadia Urbinati

All´origine del sentimento di giustizia c´é un sentimento naturale di vendetta – gli utilitaristi lo chiamavano sentimento "animale" per sottolinarne l´utilitá immediata per l´individuo ma anche la necessitá della sua rieducazione. È un sentimento "naturale" nel senso che viene prima di ogni educazione morale e intellettuale, prima della riflessione ragionata e delle istituzioni, e serve a orientare la nostra risposta all´ambiente in vista della nostra sopravvivenza, il bene primario.
Uno dei padri fondatori del liberalismo, John Locke, sosteneva per questo che benché capaci di naturale giudizio morale e di ragionevolezza, gli esseri umani non riescono a vivere fuori dello stato per una ragione molto semplice: perché non sanno essere imparziali. Quando vengono offesi o danneggiati giudicano in maniera parziale perché danno a se stessi e alle proprie cose un valore sproporzionato in eccesso. Per questo serve un giudice esterno: una norma che non sia fatta né da chi ha subito il danno (giustizia come vendetta) né da chi il danno vuole perpetrarlo (giustizia come licenza) ma da chi si mette ipoteticamente nella condizione ideale di un giudice disancorato o di chi non é parte in causa e che per questo riesce a valutare spassionatamente. Su queste premesse riposa la possibilitá di creare la pace sociale.
La civilitá puó essere a ragione definita come un processo faticoso, e a quanto pare mai compiuto, per superare o domare il sentimento "animale" della giustizia come vendetta e ritorsione in un sentimento riflessivo che sappia giudicare a prescindere dalle passioni che l´ingiustizia provoca nella vittima o dagli interessi che un comportamento equo puó imporre di sacrificare. Come si puó intuire, ragionare secondo giustizia é un esercizio tutt´altro che spontaneo e facile: l´educazione che i genitori ci impartiscono quando siamo bambini e che l´obbedienza delle leggi ci conferma quando siamo adulti é un segno di quanto sia innaturale ragionare secondo giustizia e quanto venga invece spontaneo farci guidare dall´istinto di proteggere noi stessi e le nostre cose con tutti i mezzi e sopra tutto e tutti. Lo Stato di diritto, la norma uguale per tutti, l´autonomia della sfera giuridica da quella politica sono gli esiti piú importanti di questo grande e difficile cammino della civilitá dalla naturalitá del sentimento di vendetta al sentimento ragionato di giustizia.
In Italia si assiste a una trasvalutazione dei valori, a un rovesciamento vero e proprio del sentimento di giustizia per cui si sente dire con rituale frequenza e impudica chiarezza che i giudici perseguitano o che la giustizia si vendica, mentre la giustizia vera sarebbe quella più vicina ai propri desideri e interessi. Ovviamente la giustizia che si fa vendetta é un atto gravissimo. Ma quando ciò succede si é già fuori della giustizia, si é già nella dimensione del reato, per giudicare del quale é comunque necessaria una visione della giustizia come imparzialità. Per questo é sempre sbagliatissimo e improvvido associare la giustizia alla persecuzione o alla vendetta, anche quando per le ragioni le più diverse si dissente dall´operato dei giudici. Ed é sbagliatissimo soprattutto quando a fare questi proclami non sono cittadini ordinari che chiacchierano davanti a un bicchiere di vino, ma invece uomini delle istituzioni e mezzi di informazione. Siamo qui di fronte a un caso di stravolgimento di quella che é la relazione impersonale ordinata dalla legge tra il cittadino (potenzialmente tutti senza distinzione) che può aver o ha violato la legge e il magistrato che ha il compito di verificare che ciò sia avvenuto per poter giudicare il reato, comminare la pena e così restaurare l´integrità della legge.
Quando questa relazione viene stravolta dichiarandola vendicativa e questo stravolgimento addirittura esaltato in nome di più vera giustizia e fatto passare nel linguaggio ordinario si produce gravissimo danno non tanto o soltanto alle istituzioni, ma anche e soprattutto alla nostra personale sicurezza, poiché a cadere insieme al senso di giustizia é la fiducia reciproca (se giustizia é vendetta di chi ci si può più fidare?) e con essa la tranquillità della vita quotidiana. E purtroppo questo stravolgimento valoriale e linguistico ha effetti che sono difficili perfino da immaginare e controllare e che vanno ben al di là del fatto specifico per il quale esso é stato ad arte creato, ovvero la protezione degli interessi particolari di chi ci governa. Il paradosso é che proprio colui dal quale vengono le accusa di persecuzione rivolte ai giudici, poi quando deve trovare un argomento di difesa del suo operato si appella proprio a una giustizia dei giudici. Rispondendo alle domande di Bruno Vespa sulla sua ricattabilitá, il Presidente del consiglio ha detto che quando nei suoi «confronti sono state avanzate richieste che secondo il giudizio [suo] e dei [suoi] legali si configuravano come ricattatorie, [egli si é] immediatamente rivolto all´autorità giudiziaria» – e se questo é vero é perché egli stesso deve presumere che questa autorità sia imparziale e per questo meritevole di autorità.

Corriere della Sera 6.11.09
Uso di cocaina, Italia tra i primi 5 Paesi
I consumatori sono il doppio della media Ue. Davanti a tutti per la cannabis
di Alessandra Arachi


ROMA — Polvere. Bianca e leggera. In gergo ha un nome lieve: neve. In pratica è quell’ar­ma letale con un nome interna­zionale: cocaina. Si consuma da decenni. Ma è un consumo che non passa di moda. Anzi: aumenta, sempre di più. In Eu­ropa, come ci segnala l’ultimo rapporto che arriva dall’osser­vatorio di Bruxelles, sono di­ventati 13 milioni i cittadini che ne hanno fatto uso almeno una volta (7,5 milioni hanno tra i 15 e i 34 anni). E anche la cannabis tiene il passo. Anzi, supera di gran carriera: 74 mi­lioni i consumatori europei, l’Italia in pole position.
Per gli spinelli, come per la neve. Il consumo della cocai­na, dice il Cnr, nell’ultimo de­cennio è praticamente raddop­piato, passando dai 400 mila consumatori del 2001 al milio­ne dell’anno passato. Di più: è proprio l’osservatorio di Bru­xelles che ci segnala come l’Ita­lia sia fra i cinque paesi che consumano più cocaina in Eu­ropa, insieme alla Spagna, la Gran Bretagna, la Danimarca, l’Irlanda.
Per capire: la media Europea di consumo della polvere bian­ca è di circa lo 0,4% della popo­lazione. In Italia è dello 0,8%. Per capire meglio: a dispetto di un consumo dell’1,1% spagno­lo e dell’1% inglese non c’è pa­ragone fra la cocaina che si con­suma a Milano e a Londra. Mi­lano stravince.
Le analisi le hanno fatte al­l’Istituto Mario Negri di Mila­no, analizzando le acque reflue delle città (oltre Milano e Lon­dra anche Lugano e altre quat­tro città italiane). I risultati li spiega Silvio Garattini, respon­sabile della ricerca: «Abbiamo calcolato che a Milano si consu­mano ogni giorno una media di 9,1 dosi di cocaina per mille abitanti, contro le 6,9 di Lon­dra (le 6,1 di Lugano, 7,4 di La­tina, 4,7 Cagliari, 3,2 Varese, 2,1 Cuneo). Siamo rimasti dav­vero sorpresi. Non ce lo aspet­tavamo ».
Milano sorprende e spiazza. Sempre. E non è un caso che la Lombardia guida (dati Cnr) la classifica delle regioni che con­sumano più cocaina: 3,4% del­le persone fra i 15 e i 64 anni, seguita dal 3,2% del Lazio, 3% del Piemonte, 2,6% della Ligu­ria. Non è un caso che proprio qui sia nato il primo centro di recupero dedicato e mirato al­la cocaina.
Una comunità mista fra pub­blico e privato sociale (associa­zione Saman, Lotta contro l’emarginazione, cooperativa di Bessino). Ha aperto i batten­ti un mese e mezzo fa. Ed è sta­ta letteralmente presa d’assal­to.
Spiega Riccardo De Facci, il presidente: «Nel nostro addic­tion center si cura principal­mente il consumo di cocaina abbinato all’alcool. E da noi si usa una formula nuova per il recupero. Modulare. Nel sen­so: si rivolgono a noi professio­nisti, manager, giovani rampol­li di famiglie in vista, consulen­ti finanziari. Persone, cioè, che non hanno in testa il vecchio metodo di chiudersi per anni dentro una comunità. Che arri­vano da noi per un primo step di qualche settimana. Anche se più di uno ci ha già chiesto di tornare».
Milano che spiazza. Sempre all’Istituto Mario Negri di Mila­no hanno calcolato negli scari­chi che ogni giorno a Milano entra un chilo di cocaina e che diventa un chilo e mezzo du­rante il fine settimana. Anche i giovani italiani sono abbon­dantemente sopra la media del consumo europeo, ci segnala l’osservatorio di Bruxelles. E sono ben tre milioni i giovani europei che l’hanno provata nell’ultimo anno, così a certifi­care il consumo che aumenta.
Ma c’è una voce che si leva forte dal coro contro questa ca­tastrofe. E non è una voce da nulla, visto che è quella di Gio­vanni Serpelloni, capo del no­stro dipartimento nazionale an­tidroga. Dice: «Dobbiamo guar­dare al futuro con ottimismo. Perché se scorporiamo i dati e li puntiamo sui 15-16enni, ve­diamo che per la prima volta in questa fascia il consumo del­la cocaina in Italia diminuisce. E non è certo una cosa da po­co, visto che sono loro, gli ado­lescenti, a segnare il trend». 


Corriere della Sera 6.11.09
Gentile e l’ora di religione. Sì ma solo nelle elementari
risponde Sergio Romano 


Lei ha sostenuto che la Chiesa avrebbe chiesto e ottenuto l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane.
Se questo è vero sarebbe però utile ricordare come l’insegnamento della religione fosse stato già introdotto dalle riforme gentiliane della scuola, le quali non possono, data la statura intellettuale del proponente, essere liquidate come semplice tappa di avvicinamento alla Conciliazione, tanto più che Gentile stesso fornì ripetutamente motivazioni filosofiche della sua scelta pedagogica. Il problema era tanto sentito tra i cattolici italiani che Alcide De Gasperi, nel primo dopoguerra, caldeggiava il mantenimento di tale insegnamento nelle scuole delle terre redente, ove era previsto in virtù della normativa Imperiale al riguardo, la quale però prevedeva, come a Trieste, anche l'insegnamento della religione israelitica.
David Rettura 


Caro Rettura, 
Il problema dell’insegna­mento della religione nel­le scuole elementari fu concretamente affrontato quando Benedetto Croce di­venne ministro della Pubbli­ca istruzione nel governo di Giovanni Giolitti fra il 1920 e il 1921. Il filosofo era convin­to che la scuola elementare non potesse essere «neutra» e che la religione cattolica, se i genitori ne desideravano l’insegnamento, potesse esse­re «appaltata» ai sacerdoti. Era la naturale reazione di un liberale a cui sembrava che lo Stato, nelle questioni che non erano di sua diretta responsa­bilità, facesse un passo indie­tro e garantisse ai cattolici una sorta di «autogestione». Gentile, che in quel momen­to era il più intimo consiglie­re di Croce, riteneva invece che l’insegnamento della reli­gione fosse una sorta d’intro­duzione allo studio della filo­sofia e che lo Stato, quindi, dovesse tenerlo saldamente nelle sue mani.
Il passaggio di Croce al pa­lazzo della Minerva (dove era allora il ministero) durò sol­tanto dodici mesi, dal giugno 1920 al giugno 1921, e il com­pito della riforma cadde final­mente, dopo la formazione del primo governo Mussoli­ni, su Giovanni Gentile. A proposito della natura e dei compiti della scuola elemen­tare il filosofo siciliano non aveva dubbi. Disse che dove­va essere «aderente al senti­mento, all’esperienza, alle tendenze, ai costumi, alla lin­gua, all’anima del popolo, reli­giosa insieme e poetica, lega­ta alle forme venerande delle credenze tradizionali, ma aperta e pronta alle suggestio­ni e ispirazioni della poesia e dell’arte che sorgono sponta­nee dalla psicologia più inge­nua e sognante della moltitu­dine dei fanciulli». La religio­ne quindi sarebbe stata inse­gnata come mito, favola, rac­conto poetico. Sarebbe stata cattolica perché il cristianesi­mo romano era la forma stori­ca della spiritualità italiana. Ma avrebbe lasciato il posto alla filosofia non appena il bambino fosse divenuto ado­lescente.
 È inutile dire che questa im­postazione non poteva piace­re alla Chiesa. Ed è altrettanto superfluo ricordare che Genti­le fu contrario al Concordato. In un discorso a Bologna, nel 1926, disse: «Lo Stato (...) contiene e garantisce tutti i valori spirituali, la religione compresa, né può ammette­re, senza spogliarsi d’ogni principio di sovranità, potere superiore». Gentile non pote­va ignorare che il governo sta­va negoziando con la Santa Sede la «conciliazione», ma sperò sino all’ultimo momen­to di evitare quella che a lui sembrava una resa dello Sta­to alla Chiesa. Perdette la par­tita l’11 febbraio 1929.

Repubblica 6.11.09
Scrupoli ideologici. Il film sul caso Englaro. I pugni in tasca
I 70 anni di Bellocchio il ribelle "Ho smesso di bruciare il mondo"
E ora il regista rompe il tabù della pubblicità
di Paolo D’Agostini


Tutti i vecchi scrupoli ideologici contro la pubblicità "al servizio del capitalismo e della borghesia" non hanno più senso
Ho in testa un film sul caso Englaro Ma l´architettura non è ancora chiara Sta lì, in attesa di prendere forma

ROMA. Marco Bellocchio festeggia i 70 anni (lunedì) debuttando nella pubblicità. Il primo spot della sua vita, realizzato per il Monte dei Paschi, è in circolazione da qualche giorno sul web e sulle tv. «Percepisco una pensione di 824 euro. Dunque devo sperare di mantenere buona salute, cervello funzionante e immaginazione vivace perché ho bisogno di lavorare. Mi hanno chiamato, mi hanno fatto questa offerta e l´ho accettata. Siamo nel 2009 e sempre che non venga offesa la dignità professionale tutti i vecchi scrupoli ideologici contro la pubblicità "al servizio del capitalismo e della borghesia" non hanno più senso. Non ho tradito alcun ideale o principio. Appartiene al passato remoto la contraddizione secondo cui il comunista che faceva la pubblicità si era venduto».
Senza offesa questo ragionamento denuncia la sua età. Molti oggi stenterebbero a capirlo.
«È vero. Appartiene a un bagaglio di moralismi e utopie oggi incomprensibile».
Per lei essere "il regista dei Pugni in tasca" è stato condizionante, o addirittura una condanna?
«Questa etichetta mi ha inseguito per molti anni e un po´ l´ho subita. Cioè ho sentito trascurate o sottovalutate le mie tappe successive. Cristallizzato, bloccato lì: ai miei 25 anni. Certamente, me ne rendo conto oggi più pacatamente e senza sentirmi perseguitato, quel titolo ha una sua "mitologia": se vado in giro per il mondo è sempre la prima cosa che salta fuori. Pazienza, comunque. Che continuino a classificarmi e limitarmi, ciò che conta è il presente e quello che si fa e si ha voglia di fare».
È corretto dire che lei è stato segnato e accompagnato da un forte sentimento anticlericale?
«È stato uno dei temi ricorrenti. Rappresentato in modo diverso nel tempo. Nel nome del padre faceva riferimento alle complicità con la classe politica democristiana, c´erano molte forzature ideologiche. L´ora di religione è tutt´altra cosa: non c´è lo stesso risentimento distruttivo: non voglio più "bruciare" niente. Il mio cuore batte in un altro modo, per altre cose. Qualche sacerdote, in quest´ultima fase, ha perfino sostenuto che sono molto religioso. Nel mio nuovo progetto ispirato al caso di Eluana Englaro - che però è ancora da mettere a punto, non ho ancora trovato il centro - difendo la vita ma rifiuto la costrizione imposta dalla Chiesa e dai partiti che per ingraziarsela ipocritamente le ubbidiscono. Nel frattempo, qualcuno mi ha suggerito di fare un film su Craxi. Ma sinceramente non mi convince. Non basta qualche immagine potente - il lancio di monetine fuori dall´hotel Raphael - per fare una storia, per costruire un film».
La statura del personaggio ci sarebbe, no?
«Sì, la politica - anche quella odierna - mi suggerisce spesso tentazioni. Ma non sono sufficienti. Non per me. La materia, pur interessante, non è di per sé cinema. Scusi l´immodestia ma il mio modello resta Ejzenstejn».
E andiamo alla sua parentesi maoista, ´68 e dintorni. Qualche pentimento, un po´ di vergogna? Sotto il famoso appello contro il commissario Calabresi nel ´71, compariva anche la sua firma.
«Il fatto che io manco me lo ricordo dimostra…».
È anche peggio: indica una specie di automatismo conformista, frutto di un clima diffuso tra gli "intellettuali di sinistra".
«Sì, ma era un clima genericamente "contro", che credeva alla tesi dell´assassinio di Pinelli. Talmente generico, e diffuso, che se non sbaglio lì dentro c´è anche la firma di Fellini. Io non sono stato mai coinvolto in niente di violento, non saprei dire se per coraggio o per viltà. Ma non diminuisco né nascondo uno sbaglio che rimane. Anche se, dovendo pentirmi di qualcosa, penso più agli errori della sfera privata. Per me è stata importantissima, un decennio dopo, l´esperienza dell´analisi fagioliana».
Ecco il punto più controverso. L´incontro e poi la collaborazione artistica con lo psicoanalista Massimo Fagioli, che ha investito almeno quattro suoi film a partire da Il diavolo in corpo.
«Che resta, me lo lasci dire, un film bellissimo».
Però le voltarono le spalle in tanti.
«Sì, ero diventato succube e rincoglionito. Ma avevano torto loro. Ho guadagnato molto da quell´esperienza, di novità e di "scandalo". E non mi ha impedito di riprendermi poi pienamente la mia libertà e autonomia».
A partire da Il principe di Homburg e La balia, per arrivare poi a Buongiorno, notte ha dato l´idea di una nuova raggiunta felicità. Creativa, forse anche personale.
«Direi che è vero. E il punto più alto di libertà e felicità è stato L´ora di religione. Che, non lo dimentico, ricevette solo il David di Donatello a Piera Degli Esposti mentre meritava di più. Una costante nel mio percorso. Di persona che occupa una posizione non controllabile, un po´ "fuori". Cui viene permesso di lavorare ma tenuto un po´ in disparte».
Non abbastanza riconosciuto.
«Non del tutto accettato, dalla stessa famiglia della sinistra. Ma fa parte ed è la conseguenza di una scelta, che difendo».
Famiglia nella quale invece si è sempre più integrato il suo compagno di ribellione giovanile Bernardo Bertolucci. C´è mai stata amicizia tra voi?
«Per essere sinceri da giovani c´era una certa rivalità. E da parte mia, quando Bernardo ha preso il volo con Ultimo tango e Novecento dimostrando ad appena 30 anni quelle capacità e conquistando quella notorietà, l´ho invidiato».
Tra i suoi temi più cari è giusto mettere al primo posto il sentimento ribelle verso codici e costrizioni familiari?
«La parola ribellione è giusta. Continua a definirmi. Ribellione ai padri, a chi vive di una rendita che non merita, a chi trucca il gioco, agli ipocriti. Certo, la famiglia esaltata come l´estrema difesa dal caos e dal disordine non la condivido. Dentro le famiglie può esserci tanta falsità, dolore, angoscia».
Sono cambiati nel tempo gli oggetti d´ispirazione?
«Forse sì. Nel progetto ispirato al caso Englaro la costrizione violenta nel tenere in vita chi è morto si opponeva a quella di un medico che impone la vita a una ragazza che vuole morire ma ha tutte le potenzialità per vivere».
Perché usa l´imperfetto?
«Il progetto c´è, ma l´architettura non è ancora chiara. Sta lì in una cartellina, in attesa di prendere forma».

Repubblica 6.11.09
Scrittori, registi, autori: verranno ricevuti il 21 novembre, chiamati da Benedetto XVI
In visita. Dal papa 250 artisti. Giallo sull’invito a Dario Fo


L´iniziativa è stata organizzata da Monsignor Ravasi. Fra i presenti Mario Botta e Nanni Moretti, Margaret Mazzantini e Paolo Sorrentino, i Pooh e Morricone

CITTA DEL VATICANO. Papa Ratzinger chiama e gli artisti rispondono. In massa. Sono infatti 260 gli esponenti del mondo dell´arte, della letteratura e dello spettacolo che saranno ricevuti il 21 novembre prossimo da Benedetto XVI in Vaticano. L´elenco, però, è destinato ad allungarsi perché sono oltre 500 gli inviti diramati dal Vaticano in tutto il mondo. Scopo dichiarato dell´iniziativa, commemorare il il 45esimo anniversario del primo incontro di Paolo VI con gli artisti e il decennale della Lettera al mondo dell´arte scritta da Giovanni Paolo II. Due ricorrenze storiche che ora Benedetto XVI intende celebrare nella Cappella Sistina con uno scopo ancora più ambizioso, «rilanciare e rivitalizzare il dialogo tra Chiesa cattolica e arti contemporanee», spiega alla presentazione dell´iniziativa - ieri in Vaticano - l´arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura.
Praticamente tutte le discipline artistiche saranno rappresentate all´udienza. Moltissimi i nomi, da Paolo Portoghesi, Daniel Libeskind, Santiago Calatrava, Mario Botta per la sezione architettura, a Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, Jannis Kounells per la pittura e la scultura. Tra gli invitati per la letteratura, Edoardo Albinati, Alberto Bevilacqua, Vincenzo Cerami, Maurizio Cucchi, Margaret Mazzantini, Susanna Tamaro. Per cinema, teatro, danza e fotografia Franco Zeffirelli, Marco Bellocchio, Pupi Avati, Lino Banfi, Sergio Castellitto, Carla Fracci, Ugo Gregoretti, Monica Guerritore, Mario Monicelli, Laura Morante, Arnoldo Foà, Paolo Sorrentino, Alma Manera, la Madonna del recital Maria di Nazareth patrocinato dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Ci sarà anche Nanni Moretti, il cui prossimo film sarà dedicato all´elezione di un Papa che, dopo la nomina, sarà oppresso dalla paura e avrà bisogno di uno psichiatra, impersonato dallo stesso Moretti. Altrettanto folto il gruppo dei musicisti con Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Riccardo Cocciante, I Pooh, Antonello Venditti ed Ennio Morricone.
Molti artisti non hanno potuto partecipare «a causa di impegni precedentemente presi», puntualizza Ravasi. Tra questi il maestro Riccardo Muti, «che per quella data ha un concerto a Filadelfia», e Daniel Barenboim, «impegnato nelle prove generali al Teatro alla Scala». Giallo, invece, sul premio Nobel Dario Fo. «Lo abbiamo invitato, ma finora non ci ha risposto», assicura Ravasi. «Non è vero, non mi è arrivato nessun invito», risponde piuttosto seccato Dario Fo, il quale chiude l´incidente con una battuta, «sarà stato uno scherzo da prete, come al solito». «Gli artisti invitati non appartengono solo al mondo cattolico. Sono stati scelti - assicura Ravasi - prescindendo dal loro credo o dalle appartenenze nazionali, etniche e politiche». Si tratta, quindi, di una udienza tutta particolare con la quale la Chiesa - auspica Ravasi - «punterà a ricostruire il rapporto con l´arte contemporanea dopo il divorzio consumato il secolo scorso». «Ho accettato con entusiasmo questo invito per incontrare il Papa, ma anche perché la Chiesa ha avuto un ruolo molto importante per la mia formazione culturale», confessa l´architetto Mario Botta. «Quando si riceve un invito del genere si accetta con piacere», ammette il regista Paolo Sorrentino.
Per lo scrittore Alberto Bevilacqua l´udienza porterà alla mente «i precedenti incontri che ebbi con Paolo VI al quale, su suo invito, dedicai anche un poemetto scritto per i 75 anni che fu pubblicato dall´Osservatore Romano». «Incontrare il papa nella Cappella Sistina, i luoghi di Michelangelo per eccellenza - per Mimmo Paladino - è una esperienza unica ed irripetibile che mi auguro possa servire ad aprire un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo dell´arte».

Caterina Deregibus
Repubblica Roma 6.11.09
Caterina, dai ricordi di Etiopia a una Medea con la lingua dell´Africa
di Carola Susani


"Sono tornata nella casa dove era cresciuta mia madre, era un posto che avevamo dentro, che apparteneva alla nostra geografia degli affetti. Quando sono tornata non ero più la stessa"
Di cognome fa Deregibus e ora vive a Monteverde La mamma è nata a Addis Abeba e il papà è un musicista Storia di un´attrice

Caterina abita al confine di Monteverde, una strada dalle palazzine piccole, i balconi larghi su cui spazzano i cedri del libano. Caterina ha lineamenti precisi e nobili, una voce profonda. Fa l´attrice. L´ho vista recitare solo un paio di volte, era un racconto di Cristina Ali Farah, un´adolescente del Corno d´Africa timida e scontrosa. Ma Caterina ha interpretato Medea con la regia di Fabio Sonzogni e le recensioni raccontano della sua mobile atroce intensità. La sua Medea parla in italiano, ma a volte anche in amarico. Medea è la straniera e la maga, ma parla in amarico anche per ragioni più intime. Perché Caterina Deregibus è per parte di madre etiope. Per parte di padre invece è piemontese. "Sono nata in Italia, a Casale Monferrato". Suo padre era andato in Etiopia a suonare la tromba e il trombone. Aveva un contratto in un hotel frequentato da italiani. "È ad Addis che ha incontrato mia madre. Penso che lei cercasse un filo per andare via e mio padre ha fatto di tutto per farla venire in Italia". Sediamo in cucina, davanti a un tè. Caterina si fa pensierosa: "Tra mia madre e mio padre c´era l´amore, ma non c´era linguaggio. Adesso nelle giovani coppie miste ci sono più strumenti". Sorride. "Vivevo a Casale sentendomi italiana. Eravamo andati in Etiopia una volta sola. Sentivo che c´era un tesoro legato a mia madre. Vedevo la sua espressività: era qualcosa che non c´entrava assolutamente niente con il mondo che mi circondava. Ci ho messo molti anni a integrare. In mio padre amo la musica. Un po´ mi sento formata dalla musica di mio padre". Per andare all´Università, da Casale Monferrato i ragazzi partono tutti. "Mi ero iscritta a Filosofia, ma ho mollato subito. Ho fatto un provino per la Scuola del Teatro stabile di Torino e mi hanno preso. Sentivo che avevo un´espressività dentro che premeva".
A Roma Caterina ha una parte in Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Resta. Fa provini per la televisione, per la pubblicità, per altri spettacoli, ma - mi spiega: "Non avevo veramente una direzione. Quando decidi di diventare attrice senza avere alle spalle una tradizione familiare, capisci con gli anni quello che vuoi essere, che immagine vuoi dare. Ho capito che voglio realizzare un´immagine di donna che ha un´identità, un´affettività, una professione, che vuole avere una famiglia. E riuscire a coordinare tutto non è sempre facile. Questo è un mestiere in cui in genere si hanno i figli molto tardi o non si hanno i figli. Quando sono partita non avevo davvero un´idea del percorso. Avevo diciannove anni, ero giovane. Adesso mi permetto di cercare i registi con cui voglio lavorare. Mi piacerebbe fare cinema, mi piacerebbe lavorare con Belloccio, con registi che siano autori", molto spesso, mi racconta, un attore deve far da sé, mentre la relazione con un regista è importante per crescere. Ma sta imparando a fare i conti anche con quello che effettivamente il mercato richiede, me lo spiega come un fatto di maturità.
Nel 2004 va in Etiopia con la madre. "La cosa bella è stata che una volta arrivate in aeroporto, siamo salite su un minibus e ci sembrava di essere lì da sempre. Era un posto che avevamo dentro, che apparteneva alla nostra geografia degli affetti. Abbiamo incontrato parenti, zii, zie. Io mi sentivo in dovere di aiutare, facevo l´occidentale; ho fatto anche un viaggio con mia nonna. Mia nonna era una contadina nella città. La sua casa era molto povera, piccola, fatta di un letto, di una cucina". Quando torna in Italia, è frastornata: "Non mi riconoscevo più. Ero qui e mi domandavo: perché non sono là". Qualcosa era stato evocato dalla lingua, dai rapporti, dalla geografia, dal paesaggio. "Questa parte etiope l´ho sentita in maniera violenta, vulcanica. Ho fatto un progetto sulla storia della regina di Saba e l´identità femminile. La storia etiope, le leggende. Nel 2004 ero nel pieno della rivalutazione delle mie radici africane... ma poi vedevo i film di Olmi e tutta quella nebbia e dicevo: casa! Olmi, Bellocchio, il film di Maselli Il sospetto. Anche il film di Mazzacurati, La giusta distanza. Sentirmi a casa in quei paesaggi mi ha sciolto".
Roma è stata la città dello spaesamento. "Negli ultimi anni sto cominciando ad amarla. Il mio pensiero si è pulito. In questi anni ho cercato di integrare la mia componente meticcia. Ora l´innamoramento per l´Etiopia è decantato sul fondo e non ho più bisogno di rappresentarlo. Ho cominciato a usarlo nel lavoro, per questo in Medea ho messo dei pezzi in amarico. Mi piace quando posso tirarlo fuori. Insieme al mio essere attrice, essere donna, essere italiana. Trovare un dialogo che sia creativo. Certo in un momento come questo mi piace anche lavorare su progetti che mostrino come l´Altro non è poi così diverso." "Cos´è che abbiamo tutti in comune?", le domando. "Penso alla nascita, all´affettività, alla capacità di volere, di scegliere. Ho scelto di fare l´attrice per la libertà. E poi mi piace essere sul palcoscenico e dire delle parole importanti per la comunità". Il suo ultimo spettacolo, Sotto un velo di sabbia, parla dei campi di detenzione per gli immigrati in Libia. Di Roma ama il Gianicolo. "Quando mi perdevo andavo là. Ora che non mi sento più persa vado al Gianicolo per guardare la città dall´alto, come se l´avessi domata. Amo Piazza Santa Cecilia. E camminare lungo i Fori. E l´Auditorium. Una volta ho fatto un sogno in cui c´era tutto: c´era Roma, c´era l´Etiopia, c´erano le colline di Casale Monferrato".

giovedì 5 novembre 2009

Repubblica 5.11.09
Il Crocifisso e la sentenza europea
risponde Corrado Augias

Caro Augias, la sentenza della Corte Europea che considera il crocifisso nelle aule una violazione alla libertà di religione degli alunni, solleva non pochi dubbi. Le tradizioni, espresse anche dai simboli, fanno parte di un patrimonio culturale e storico che non può essere cancellato da una sentenza. Per miliardi di uomini e donne la croce rappresenta più di un simbolo che nulla toglie alle altre religioni o a chi non aderisce ad alcuna religione. Nell'Occidente ebraico-cristiano questa guerra iconoclasta non ha alcuna possibilità di riuscita perché non tocca la coscienza dei popoli, ma solo quella di una élite radical-chic .
Corrado Stillo corradostillo@tiscali.it

Ricordo che sulla questione c'era già stata una sentenza della Corte di Cassazione (numero 439 01/03/2000) che andava nella stessa direzione ora indicata dai giudici europei. Uno scrutatore di seggio elettorale si era rifiutato di assumere il suo ufficio in presenza del crocifisso. Alla fine dell'iter giudiziario la Corte gli dette ragione con motivazioni che sembrano anticipare quelle di Strasburgo. La Sezione IV penale valutò, ampiamente argomentando, che la presenza del crocifisso, elemento distintivo di una religione, viola l'art. 3, comma 1 del testo costituzionale. Pertanto la richiesta di esporre i crocifissi in edifici pubblici non solo era illegittima, ma anche incostituzionale. Si è cercato poi di giustificare la presenza di quel simbolo depotenziandolo, riducendolo (come anche fa il signor Stillo) al ricordo di una tradizione, di una cultura. Un escamotage quasi blasfemo. Il crocifisso o è il segno tragico di una grande religione o è un cadavere appeso a un patibolo. Interessante il ragionamento della Cassazione: «Neppure è sostenibile la giustificazione collegata al valore simbolico di un'intera civiltà o della coscienza etica collettiva e, quindi, secondo un parere del consiglio di Stato 27/4/1988, n. 63, "universale, indipendente da una specifica confessione religiosa". In altro ordinamento dell'unione europea s'è ritenuto, viceversa, una sorta di "profanazione della croce" non considerare questo simbolo in collegamento con uno specifico credo (Bundes Verfassungs Gericht, 16 maggio 1995) che ha dichiarato illegittima l'affissione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche della Baviera per l'influenza sugli alunni obbligati a confrontarsi di continuo con siffatto simbolo religioso». Non si tratta quindi di sottovalutare la religione, al contrario di dare a tutte le religioni (e all'assenza di religione) il peso che meritano, tanto più in un'Europa diventata plurale.

Repubblica 5.11.09
"Un bluff il quoziente intellettivo quello che serve è la rapidità"
Gli scienziati smontano il test del QI, la prova con Bush
di Elena Dusi

Un valore alto non corrisponde alla capacità di prendere le decisioni giuste
Le critiche sul "New Scientist" Il cervello deve bilanciare potenza e controllo

ROMA - Dopo aver osservato quanto è alto il quoziente intellettivo di George W. Bush, gli scienziati si sono interrogati sulla validità di questo metodo di misurazione. L´ex inquilino della Casa Bianca, con un punteggio di oltre 120, si inserisce nel 10% della popolazione più dotata. Ma i casi in cui un valore alto nel test non corrisponde a un´effettiva capacità di prendere le decisioni giuste sono molto più frequenti di quanto si creda, fa notare un articolo su "New Scientist".
Keith Stanovich, professore di sviluppo umano e psicologia applicata all´università di Toronto, sulla rivista prova a fare ordine fra le varie idee di intelligenza. Ci sono facoltà come logica, ragionamento astratto, capacità di apprendere e capienza della memoria di lavoro. Per misurarle il test sul quoziente intellettivo è in effetti adatto. Ma altrettanto importante per la vita di tutti i giorni (e per le scelte di un uomo politico) è l´abilità nel prendere decisioni rapide in contesto di vita reale. «Il QI – spiega Stanovich – riesce a prevedere in maniera abbastanza precisa quale sarà il successo a scuola e sul lavoro. Ma trascura abilità che ci rendono pensatori efficienti», sostiene il professore che da 15 anni (ben prima di Bush, effettivamente) è diventato uno dei critici più puntuali del test del QI, e che l´anno scorso ha pubblicato il volume "What intelligence tests miss" presso la Yale University Press. L´idea che l´intelligenza sia più multiforme e sfaccettata di quel che una batteria di quiz riesca a catturare è accettata ormai comunemente, così come il fatto che uomini e donne ragionino in modo differente o che raramente nella vita come nei test esista un´unica risposta esatta (seppure esiste). E da tempo si è iniziato a parlare di "intelligenze" al plurale, intese come le molteplici abilità che un individuo deve sfoderare per muoversi tra i vari ruoli che la società gli assegna o per evitare i cortocircuiti in cui il cervello cade in maniera ricorrente. L´evoluzione infatti ha reso il nostro organo del pensiero rapido ed efficiente, ma poco preciso e incline ad affidarsi all´intuizione, che spesso nasconde dei trabocchetti. Per Daniel Kahneman, professore alla Princeton University e premio Nobel per l´economia nel 2002, il cervello è una macchina che deve bilanciare potenza e controllo. «Molte persone hanno grandi capacità intellettive, ma trascurano il pensiero analitico e si affidano alle intuizioni», spiega Jonathan Evans, psicologo cognitivo dell´università di Plymouth su "New Scientist" (con il pensiero forse che va proprio a Bush). Alla ricerca di una definizione di intelligenza, Richard Haier dell´università della California sostiene di averla fotografata in una regione a cavallo fra il lobo frontale e parietale, suggerendo un metodo di misurazione "visivo" mentre altri hanno ancorato l´abilità intellettiva allo spessore della corteccia cerebrale. Nonostante le critiche mosse contro il quoziente di intelligenza, alla fine, nessuno dei metodi alternativi (il "quoziente di razionalità" o la "competenza decisionale") è mai riuscito a rimpiazzare il test tradizionale. E per arrivare alla Casa Bianca, come conferma Obama, occorre un QI al di sopra della media. Anche se non è necessario raggiungere il livello di Bush.

Liberazione Lettere 5.11.09
Io mi sento sollevato
Cara “Liberazione”, è vero, credo, che il crocifisso non sia solo un simbolo religioso, ma anche culturale, come dicono, perché fu necessario, per affermare l’assoluta necessità del messia redentore, contrapporgli la peccaminosità di Adamo. Il primo uomo, caduto nella colpa, era figura indispensabile, idea di Paolo di Tarso, per poter sostenere la centralità del Cristo, perché senza colpa non c’era alcun bisogno di redentori. L’innata peccaminosità degli esseri umani, la loro originaria malvagità è quindi il pensiero fondante del cristianesimo. Un’ideologia, prima ancora che una religione, che la cultura ebraica prima e quella islamica poi hanno sempre rifiutato. Oggi, finalmente, anche la Corte europea dei diritti degli uomini impone allo Stato di togliere il crocifisso almeno dalle aule scolastiche. E io mi sento sollevato dall’idea che sparisca un simbolo che molti vogliono essere di amore, ma che io ho sempre sentito come un’imposizione di chi mi voleva malvagio, peccatore, corrotto semplicemente per essere nato...
Fabio Della Pergola via e-mai

mercoledì 4 novembre 2009

Repubblica 4.11.09
La battaglia su un simbolo
di Stefano Rodotà

Ancora una volta una sentenza prevedibile, ben argomentata giuridicamente, non suscita le riflessioni che meritano le difficili questioni affrontate, ma induce a proteste sopra le righe, annunci di barricate, ambigue sottovalutazioni.
Dovremmo ricordare che le precedenti decisioni italiane, che avevano ritenuto legittima la presenza del crocifisso nelle aule, erano state assai criticate per la debolezza del ragionamento giuridico, per il ricorso ad argomenti che nulla avevano a che fare con la legittimità costituzionale. E, considerando il fatto che la nostra Corte costituzionale aveva ritenuto inammissibile per ragioni formali un ricorso in materia, s´era parlato addirittura di una "fuga della Corte", nelle cui sentenze si potevano ritrovare molte indicazioni nel senso della illegittimità della esposizione del crocifisso.
Nella decisione della Corte europea dei diritti dell´uomo di Strasburgo, che ha ritenuto quella esposizione in contrasto con quanto disposto dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo, non v´è traccia alcuna di sottovalutazione della rilevanza della religione, della quale, al contrario, si mette in evidenza l´importanza addirittura determinante per quanto riguarda il diritto dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e la libertà religiosa degli alunni. La sentenza, infatti, sottolinea come la scuola sia un luogo dove convivono presenze diverse, caratterizzate da molteplici credenze religiose o dal non professare alcuna religione. Si tratta, allora, di evitare che la presenza di un "segno esteriore forte" della religione cattolica, quale certamente è il crocifisso, "possa essere perturbante dal punto di vista emozionale per gli studenti di altre religioni o che non ne professano alcuna".
Inoltre, il rispetto delle convinzioni religiose di alcuni genitori non può prescindere dalle convinzioni degli altri genitori. È in questo crocevia che si colloca la decisione dei giudici di Strasburgo che, in ossequio al loro mandato, devono garantire equilibri difficili, evitare ingiustificate prevaricazioni, assicurare la tutela d´ogni diritto.
Non si può ricorrere, infatti, all´argomento maggioritario, come incautamente aveva fatto il Tar del Veneto, che per primo aveva respinto la richiesta di togliere il crocifisso dalle aule, ricorrendo ai risultati di un sondaggio che sottolineava come la grande maggioranza degli interpellati fosse a favore del mantenimento di quel simbolo.
Un grande teorico del diritto, Ronald Dworkin, ha ricordato che «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera». La garanzia del diritto, fosse pure quella di uno solo, è sempre un essenziale punto di riferimento per misurare proprio la tenuta di uno Stato costituzionale.
Guai a considerare la sentenza di ieri come un documento che apre un insanabile conflitto, che nega l´identità europea, che è "sintomo di una dittatura del relativismo", addirittura "un colpo mortale all´Europa dei valori e dei diritti". Soprattutto da chi ha responsabilità di governo sarebbe lecito attendersi un linguaggio più sorvegliato. Non vorrei che, abbandonandosi a queste invettive e parlando di una "corte europea ideologizzata", si volesse trasferire in Europa lo stereotipo devastante dei giudici "rossi", che tanti guai sta procurando al nostro paese. Allo stesso modo sarebbe sbagliato se il fronte "laicista" cavalcasse il pronunciamento per rilanciare una battaglia anti-cristiana.
Mantenendo lucidità di giudizio, si dovrebbe piuttosto concludere che la sentenza della Corte europea vuole sottrarre il crocifisso a ogni contesa. In questo è la sua superiore laicità. Viviamo tempi in cui la difesa della libertà religiosa non può essere disgiunta dal rispetto del pluralismo, da una riflessione più profonda sulla convivenza tra diversi. L´ossessione identitaria, manifestata anche in questa occasione e che percorre pericolosamente i territori dell´Unione europea, era lontanissima dai pensieri e dalla consapevolezza che ispirarono i padri fondatori dell´Europa, tra i quali i cattolici Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, che proprio quando si scrisse la Convenzione sui diritti dell´uomo nel 1950, quella sulla quale è fondata la sentenza di ieri, mai cedettero alla tentazione di ancorarla a "radici cristiane", che avrebbero introdotto un elemento di divisione nel momento in cui si voleva unificare l´Europa, anche intorno all´eguale diritto di tutti e di ciascuno. Dobbiamo rimpiangere quella lungimiranza?
Questa sentenza ci porta verso un´Europa più ricca, verso un´Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all´educazione dei genitori che i cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti. Libera anche il mondo cattolico da argomentazioni strumentali che, pur di salvare quella presenza sui muri delle scuole, riducevano il simbolo drammatico della morte di Cristo a una icona culturale, ad una mediocre concessione compromissoria ai partiti d´ispirazione cristiana (così è scritto nella memoria presentata a Strasburgo della nostra Avvocatura dello Stato). L´Europa ci guarda e, con il voto unanime dei suoi giudici, ci aiuta.

l’Unità 4.11.09
Pena di morte all’italiana
risponde Luigi Cancrini

Trattando del suicidio in carcere di Diana Blefari, Michela Marzano (su la Repubblica del 2 novembre) evidenzia che dall’inizio dell’anno, peraltro non ancora concluso, nelle prigioni italiane ci sono stati ben 61 suicidi. Come se tra tutti gli italiani, bambini esclusi, si suicidassero in un anno 50.000 persone!
ASCANIO DE SANCTIS

RISPOSTA Il caso di Diana Blefari è stato affrontato con una incredibile superficialità da persone non competenti. Affetta da un disturbo psichiatrico grave, Diana doveva essere curata in ambiente adatto, il suo suicidio poteva essere evitato, quella che è stata applicata nel suo caso è una “pena di morte all’italiana” maturata in un clima di ostracismo esagerato verso persone che, a differenza di altre, più furbe o più flessibili, non hanno saputo utilizzare la clausola del “pentimento”. Quello su cui il caso di Diana deve far riflettere, d’altra parte, è che la quantità di problemi psichiatrici con cui ci si confronta nel carcere è molto alta e che il suicidio è fra tutti i sintomi l’unico che le mura del carcere non riescono a nascondere. Inutilmente ho sottolineato per due anni, da parlamentare, la necessità di rispondere a questa emergenza con delle task force socio-sanitarie affidate, con gli opportuni finanziamenti, alle Asl che dal maggio 2007 sono responsabili della salute mentale nel carcere. Senza ottenere udienza dai politici veri e puri, quelli che decidono tutto, a cui di chi sta in carcere non importa purtroppo nulla.

l’Unità 4.11.09
Voltiamo pagina
Caro Bersani non svegliare Diliberto
di Vincenzo Cerami

Bersani, ti prego in ginocchio, Diliberto no. Sta tanto bene dove sta, lascialo nel congelatore. Non ritirare fuori i fantasmi, le mummie sovietiche. Bersani, questo è un grido di dolore vero e proprio. La più grande carità che si può fare ai morti è di non resuscitarli. La sinistra ha passato la vita a suicidarsi, ti prego interrompi questa vocazione autodistruttiva del nostro partito. Diliberto, ti rendi conto? Quello che odia Fellini e ama le barzellette di Pierino e i film carta igienica, che vuole portare la salma di Lenin a Roma, che invece di Padre Pio, sul cruscotto della macchina ha incollato l’immaginetta di Stalin.
Bersani, no. Risparmiaci questa pena. È vero che quanto non ci uccide ci rende più forti, ma non spingere oltre quel pedale, perché è dimostrato che nei casi gravi bisogna lasciar perdere l’omeopatia e ricorrere velocemente agli antibiotici. Con Diliberto abbiamo già dato tutto quello che avevamo, abbiamo svuotato il cassetto dei ricordi. Ti prego. D’altronde lo sai che Diliberto non ti serve a niente, nemmeno a smaltare di vecchie gloriose utopie la politica di oggi, che sai benissimo essere costosa, e se è costosa vuol dire che ha bisogno di soldi da trovare in giro. E tu lo sai benissimo. Diliberto ha le tasche vuote e si ubriaca in un’osteria degli anni Sessanta. Cosa ha da darti? Ma dove vivi Bersani, che ci fai con Diliberto? Guarda che il mondo è andato da un’altra parte, e non da ieri.
Diliberto no. Rischi di restare imbrigliato nelle ragnatele. Parlane con il tuo pantocratore D’Alema, ti dirà le stesse cose. Ti dirà che è passata molta acqua sotto i ponti e che Renato Zero ha già fatto il suo tempo. Figurati Diliberto.
Non oso pensare a Pecoraro Scanio. Spero che tu non sia riuscito a trovare il suo numero telefonico, che per fortuna nessuno più compone. In questo caso mi metto in ginocchio davanti a te con pietoso atteggiamento per chiederti di pensare ad altro, magari ai tortellini bolognesi. Distraiti Bersani, che il nome di Pecoraro Scanio non sfiori le tue trombe di Eustachio.
Non guardarti troppo intorno. Lo stesso Bertinotti, buttato a mare da Vespa dopo che ha fatto per anni, insieme all’inane Sansonetti, propaganda pro Berlusconi, non porta ormai granché alla tua causa. Senza kashmir Bertinotti è come Sansone senza capelli. È anche lui, come direbbe il Belli, cadavere di morto.
Bersani: dicci che sei con noi. Credici. Dicci che il passato ti fa schifo, che vuoi ben altro. Prova a farci sognare. Il Pd voleva essere questo, non certo il riciclaggio delle cose vecchie e il risveglio degli zombie come Diliberto. Bersani, io sono con te, dal fondo della periferia politica. Conta anche su chi non ti ha votato, ma non offrirci yogurt scaduti. Diliberto no, ti prego in ginocchio. Diliberto no. È come tornare all’Italia delle cambiali e delle radio con l’occhio magico. ❖

l’Unità 4.11.09
La scienza e la scoperta della pace
La mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative. Eppure questa dote naturale viene continuamente repressa
di Umberto Veronesi

Q uelle connerie, la guerre” scriveva Jacques Prévert, che fesseria, che assurdità. Soprattutto chi, come noi medici, vive accanto al dolore, non può non trovare assurdo che sia l’uomo con le guerre a produrre altro dolore, quando già ci affligge quello provocato dalle malattie. La guerra, è un’assurdità figlia della paura e dell’insicurezza: ce lo dice il buon senso, e ce lo conferma la scienza. Le istruzioni del nostro Dna, come quello di tutti gli esseri viventi, sono di conservarsi, riprodursi. Uccidere, prevaricare, violentare, non sono necessità biologiche, ma meccanismi primitivi di difesa. La forza della razionalità può allora essere la chiave per vincere appunto il dolore più grande, la guerra. È questa convinzione che ha fatto nascere Science for Peace, il movimento che ho voluto creare per promuovere la cultura della non violenza, della tolleranza, della risoluzione pacifica delle conflittualità, puntando sulla razionalità. Quella stessa razionalità che è il motore trainante della scienza e che ha portato l’uomo a tante conquiste che hanno migliorato la sua vita. Sappiamo che dobbiamo alla ricerca scientifica i contributi più importanti al progresso e alla soluzione dei problemi più gravi che affliggono l’umanità: malattie, denutrizione, mancanza d’acqua e di cibo. L’aspetto innovativo, o la sfida se vogliamo, del nostro neonato movimento è ora di rivelare il contributo inedito del pensiero razionale scientifico anche al processo di pacificazione mondiale. Disseminando il pensiero razionale, la scienza ha da sempre una funzione civilizzatrice e pacificatrice e può fare molto per la pace. Per esempio rifiuta il principio esasperato dell’identità nazionale o della razza, e utilizza un linguaggio universale che non conosce frontiere e nazionalismi.
La razionalità è dunque un antidoto all’aggressività e alla sua origine, la paura. Ha scritto Tara Gandhi, nipote del Mahatma e parte attiva del nostro Movimento: «Il mondo sta attraversando un terribile momento di violenza; esiste una continua catena di vendetta, violenza e ancora vendetta. ̆La paura è quindi il risultato di tutto questo. Noi dobbiamo interrompere questa catena continua di violenza. Paura e amore non possono convivere». Ecco la finalità di Science for Peace: razionalizzare le nostra paura e trasformarla in un atteggiamento di fiducia, in gesti pacificatori, in pensieri costruttivi. Assecondando la nostra naturale attitudine di esseri umani alla socializzazione e alla solidarietà: è stato infatti recentemente dimostrato che anche i principi morali, che ciascuno sente di rispettare, non ci vengono solo inculcati dall’educazione che riceviamo, ma sono anche innati nel nostro cervello e hanno basi neurologiche. Nonostante le violenze e le guerre che ricorrono nell’ancora breve storia dell’umanità, c’è l’evidenza scientifica che la mente umana è largamente tesa verso soluzioni collaborative e non antagonistiche. La nostra specie aspira naturalmente alla pace, e la collaborazione tra gli individui, che ha portato alla formazione prima delle tribù e poi delle nazioni, tende a diventare sempre più ampia.
Noi vogliamo la pace non solo per vivere, ma anche per progredire. Gli ultimi 60 anni di assenza di grandi conflitti mondiali sono stati la premessa per i grandi avanzamenti scientifici (l’uomo sulla luna, la decodifica del Dna) e per gli enormi avanzamenti tecnologici che stanno cambiando il nostro modo di vivere. Primo fra tutti l’incredibile sviluppo delle comunicazioni e dell’informatica, che con Internet mette in comune le conoscenze di tutto il mondo e crea un dialogo tra milioni di persone. È davvero giunto il momento per la nostra società di prepararsi ad affrontare regole e leggi di una moderna cultura pluralistica multietnica, multi confessionale. E di fare nostro l’impegno che il Presidente Obama ha preso davanti ai suoi concittadini: garantire la convivenza pacifica di una comunità pluralistica, per una soluzione non violenta dei conflitti e per una maggiore tolleranza, giustizia e rispetto dei diritti umani. Lo vediamo ogni giorno: la cultura pacifica è quella vincente, mentre l’aggressività e la prevaricazione si rivelano spesso inutili, se non controproducenti.
Invito tutti i cittadini che la pensano come a me ad aderire al movimento «La Scienza per la Pace», attraverso il sito www.fondazioneveronesi.it e a partecipare alla Conferenza Internazionale di Milano il 20 e 21 novembre prossimi. ❖

l’Unità 4.11.09
Non sarà una sfida al femminile quella per il dopo-Marrazzo
Freddo il Pd sull’esponente Radicale. Berlusconi vuole Tajani
Lazio, non decolla la Bonino. A rischio anche la Polverini
Oggi Bersani vede prima Bonino e Pannella e poi Casini e Cesa. Tema degli incontri: battaglie dell’opposizione e regionali. Se D’Alema otterrà l’incarico di ministro degli Esteri Ue, il premier farà correre Tajani.
di Simone Collini

Si profilava come una sfida tutta al femminile, quella per la presidenza del Lazio, ma più passano i giorni e più perde quota l’ipotesi che alle regionali si assisterà ad un confronto tra Emma Bonino e Renata Polverini. Anzi, se i tasselli nelle mani dei vertici Pd e Pdl andranno al posto giusto, nessuna delle due a marzo sarà in campo per la poltrona occupata da Piero Marrazzo.
STRADA IN SALITA PER LA BONINO
La candidatura dell’esponente Radicale è nata come tam-tam sul web e rilanciata fuori dalla terra telematica dall’area Pd che al congresso ha sostenuto Marino. Il freno a mano è stato però subito tirato dagli esponenti che al congresso hanno sostenuto Franceschini. «È persona di grande valore, ma sono le regionali, serve una figura che conosca la Regione», ha sostenuto Ermete Realacci. Ma la realtà, come dicono senza riserve ex popolari come Pierluigi Castagnetti, è che la
candidatura della Bonino significherebbe rinunciare in partenza al voto cattolico e a un’alleanza con l’Udc.
La vicepresidente del Senato quando ha visto il suo nome inserito nella “short list” delle candidature di centrosinistra non è andata più in là di un «non ho mai escluso nulla nella mia vita». Ma le reazioni dei vertici del Pd, tra i niet pubblici e l’indifferenza fuori dall’ufficialità (nessun democrat l’ha chiamata per discutere se e come dar corpo alla candidatura), le ha registrate eccome.
L’occasione per discutere la questione si presenta oggi, quando Bersani la incontrerà insieme a Pannella al Senato. Ma il segretario del Pd vuole impostare il colloquio su altri binari, cioè sulla riorganizzazione del centrosinistra e il rilancio di una battaglia comune sulla crisi democratica e sociale. Quanto alle regionali, Bersani evita di avviare una discussine sui nomi, sostenendo che prima si parla di contenuti, poi di alleanze e
alla fine di candidature. Ma non è un segreto che il segretario del Pd punta ad incassare l’accordo con l’Udc soprattutto nelle regioni date in bilico, tra le quali c’è il Lazio. E tanto meno lo è che Casini e Cesa che Bersani incontrerà sempre oggi a Montecitorio neanche avvieranno la discussione se in campo c’è la candidatura Bonino. E poi c’è una variabile indipendente che potrebbe rendere determinante la contesa del voto moderato, resa più complicata dopo l’indisponibilità a candidarsi del fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.
POLVERINI A RISCHIO CADUTA LIBERA
La candidatura di Renata Polverini stenta a decollare, al di là delle dichiarazioni pubbliche. La Consulta del Pdl laziale si è chiusa senza un’ufficializzazione attesa da tempo. Il che, unito al fatto che Berlusconi a sorpresa si è detto contrario a un voto anticipato nel Lazio, ha fatto emergere nel Pd un sospetto. Che cioè il premier aspetti la chiusura della partita delle nomine europee e veramente tifi per D’Alema ministro degli Esteri dell’Ue. E non nonostante ma proprio perché questo comporterebbe il rientro di Tajani. Che Berlusconi, soprattutto se non riuscirà a incassare la candidatura di Nicola Cosentino in Campania, vorrebbe far correre nel Lazio, con buona pace di una candidatura in quota Fini.❖

l’Unità 4.11.09
Lévi-Strauss, la rivoluzione dello sguardo occidentale
di Bruno Gravagnuolo

La scomparsa Il padre dell’antropologia si è spento in Borgogna nel fine settimana a quasi 101 anni
La vita Le spedizioni, i «Tristi Tropici», lo strutturalismo: così ha cambiato il modo di vedere l’uomo
Ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo. Dalle spedizioni in Amazzonia negli anni ’30 fino all’indagine sul simbolico, ritratto di uno dei più grandi studiosi del ’900. I suoi funerali si sono già svolti in Borgogna.
Avrebbe compiuto 101 anni il 28 novembre. Ma non ce l’ha fatta. In compenso ha traguardato il secolo di vita, con un’attività intellettuale lucida fino all’ultimo. E con un’opera ciclopica, che ha cambiato il nostro «sguardo» sul mondo. Eppure Claude Lévi-Strauss di suo era un temperamento mite e sembrava destinato a un tranquillo insegnamento nei licei, al più all’Università.
Figlio di un pittore, con entrambi i genitori francesi, era nato in Belgio nel 1908 e passò infanzia e giovinezza a Parigi. Laureato in filosofia nel 1931, dopo un breve insegnamento alle superiori, concorre per una cattadra di Sociologia all’Università di San Paolo in Brasile, dove avviene la svolta della sua vita. Una svolta chiamata «antropologia», nel segno dell’etnografia «americanistica», compiuta con due spedizioni nel Mato Grosso e in Amazzonia. Due libri da quelle due spedizioni: La vita familiare e sociale degli indiani Nambikwara, e Le strutture elementari dela parentela (1948 e 1949). Tra
l’esperienza brasiliana e il primo viaggio negli Usa nel 1940 c’è intanto la prima rivoluzione di Lévi-Strauss. La connessione tra antropologia americana e linguistica.
Dunque tra la lezione di F. Boas, e quella del linguista russo Roman Jacobson, che aveva conosciuto a New York, sospinto dall’interesse per la fonologia.
Sta qui il nucleo più profondo dello «strutturalismo», l’invenzione più importante del grande antropologo. Non solo, proprio a partire di qui Lévi-Strauss introdurrà in Europa il frutto più maturo delle scienze umane statunitensi: «l’antropologia culturale». Piccolo inciso. Proprio mentre rivoluziona lo sguardo occidentale sulle «culture» come sistemi, Progresso e «primitivi», lo studioso è del tutto inconsapevole della tragedia che incombe sull’Europa. Di ritorno dagli Usa, tenterà addirittura di tornare ad insegnare nel suo vecchio liceo parigino, prima di essere messo sull’avviso da un funzionario ai permessi di Vichy, che gli dirà: «Professore, con un nome così!. Segno non solo di un temperamento da studioso assorbito dai suoi lavori, ma anche di un certo motato come ministro della pubblica istruzione (non se ne fece nulla).
Ma torniamo alla sua rivoluzione epistemologica, consegnata a opere quali, Strutture elementari di parentela; Razza e Storia; Tristi Tropici; Antropologia strutturale; Il crudo e il cotto. Da un lato c’era la «cultura», in quanto sistema di relazioni sociali. «Unica», nelle sue varietà geografiche e storiche, secondo la linea di Boas. E cultura riletta con gli occhi di Durkheim, risposta «funzionale» ai bisogni di produzione e riproduzione del mondo. Dall’altro però c’era il linguaggio. Ma non tanto come lingua parlata, bensì come modello: sistema di segni alla Saussure. E segni coincidenti con le «strutture di parentela». Con i riti e i miti, le abitudini alimentari. Ecco la rivoluzione: il linguaggio come sfera del simbolico. Codificato in invarianti, inclusioni ed esclusioni, tabù e procedure consentite/obbligate. Era la famosa «struttura». Atemporale, inconscia, sovrapersonale. Irriducibile ad altre strutture di altre culture, benché confrontabile, sul piano metodologico.
LA POLEMICA CON SARTRE
Stanno qui le radici della famosa disputa tra storicisti e strutturalisti, la polemica con Sartre e l’ esistenzialismo. Se gli storicisti rivendicavano il ruolo dell’umano e della storia, lo strutturalismo mirava alla struttura tendenzialmente non modificabile, se non per rotture, «coupures» epistemologiche. Come quelle dei «paradigmi linguistici» in Foucault o in Althusser, o in storici della scienza come Kuhn. E il punto affermato da Lévi-Strauss era questo: nelle società primitive era il «simbolico» a fungere da tecnica produttiva. Cioè l’incesto e la sua proibizione, le regole familiari e claniche. E l’economia era riproduzione culturale e non «economica». Come accade nello «scambio simbolico» del dono teorizzato da Marcel Mauss, tra i maestri di Levi-Strauss. All’opposto, con la modernità occidentale, è l’economia a fare cultura, almeno in una prospettiva marxista o post-marxista (anche in Weber). Ne derivava non solo un’intera scuola di pensiero: Lacan, Foucault, Baudrillard. Ma un nuovo criterio interpretativo del vivere sociale, dove l’immaginario inconscio e rappresentativo è inseparabile dall’economia, anche nelle società moderne. La sfida teorica che Levi Strauss ci lascia è allora questa: il potere dei segni come forza produttiva di ogni società e di ogni relazione. Ieri come oggi.❖

l’Unità 4.11.09
L’ultima intervista
«I miei Tristi Tropici, come un romanzo»
di Anna Tito

2005, nel cinquantenario di quella sua opera, concesse a l’Unità una delle sue ultime rare interviste. La ricerca sul campo, l’odio per i viaggi, l’ebraismo, Hitler, la politica. Ecco cosa ci disse

Nel 2005 Claude Lévi-Strauss concesse a l’Unità una delle rare interviste dei suoi ultimi anni. Ecco ampi stralci di quel colloquio.
In occasione dell’Anno del Brasile in Francia, Lévi-Strauss accetta di tornare con noi sul suo rapporto con il Paese dal legno color brace. Ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Tristi Tropici, un romanzo più che un testo scientifico, dedicato agli indios del Brasile, che ha segnato un’epoca e che tuttora seduce e intriga: «Lo scrissi per diversi motivi spiega -: in primo luogo perché mi ero appena sposato per la terza volta e la mia vita era cambiata, poi perché l’editore Plon mi aveva chiesto un libro per lanciare una nuova collana, e infine per cimentarmi nella narrativa». (...) «Il Brasile rappresenta l’esperienza più importante della mia vita, specie per la lontananza e il contrasto. La natura mi appariva tanto diversa da quella che conoscevo. Me ne andai nel 1939 e vi tornai, per pochi giorni, nel 1985. Quel viaggio mi sconvolse: San Paolo, scomparsi i residui dell’epoca coloniale, era ormai una città spaventosa».(...) Dopo il Brasile abbandonò quasi del tutto le ricerche sul campo: (...) «Io non riesco a vivere per due o tre anni insieme a un popolo, osservandolo. Mi sono orientato nel dopoguerra verso l’etnologia, che era in fase evolutiva, e si erano accumulate tali quantità di materiali e in maniera tanto confusa da renderli inutilizzabili. Scrissi perciò Le strutture elementari della parentela, per analizzare e razionalizzare tutti i dati disponibili sulle regole del matrimonio, per raggiungere un nuovo traguardo... Ma senza la guerra, nonostante la mia totale mancanza di talento, avrei forse continuato a lavorare “sul campo”».
Già, la guerra, di cui non avvertì l’imminenza, ammette laconico: «così come non mi resi conto del pericolo che rappresentava Hitler, o della minaccia fascista». (...) Ma, continua senza tentare di giustificarsi, «non si può vedere ciò che non ha precedente alcuno». (...) Ricorda ridendo che: «nel settembre del 1940, subito dopo la disfatta e l’armistizio, mi venne in mente di recarmi a Vichy per chiedere l’autorizzazione di tornare a Parigi, occupata dai nazisti, per insegnare nel liceo al quale ero stato assegnato! ».(...) Dell’antisemitismo Lévi-Strauss ritiene di essere stato poco vittima, anche se «fin dalla scuola materna mi hanno trattato da “sporco ebreo”. E continuarono al liceo. Ma io reagivo a pugni». E poco lo interessava il sionismo (...). Prima della partenza per il Brasile si era però impegnato in politica: «Militavo nel Partito socialista. Collaboravo con il giovane e brillante parlamentare Georges Monnet, per il quale scrissi non poche proposte di legge». E a San Paolo l’antropologo ascoltava emozionato sulle onde corte i risultati delle elezioni francesi del 1936, che portarono alla formazione del governo del Fronte Popolare. Monnet era stato nominato ministro e «ero convinto che mi avrebbe voluto al suo fianco (...)».
È forse per via di questa mancata carriera politica che, al ritorno dagli Stati Uniti, contrariamente ai suoi colleghi, sempre rifiutò di prendere posizione (...). La sua reticenza emerse nel corso degli avvenimenti del maggio ’68, e poi nei confronti delle forme più «urlate» dell’anticolonialismo e dell’antirazzismo.
Il fatto che lo abbiano definito un conservatore lascia Lévi-Strauss del tutto indifferente: «il mondo è troppo complesso e un ricercatore non può prendere posizione su tutto ciò che avviene».❖

Repubblica 4.11.09
Le lezioni di un mestro che reinventava il mito
di Marino Niola

Insegnava al Collège de France e venivano ad ascoltarlo da tutto il mondo
La sua opera è ricaduta come una pioggia benefica su tutti i campi del sapere

Austero, secco, elegantemente severo. Il tratto sempre cortese, la retorica alta e distaccata, l´ironia tagliente e l´erudizione sterminata erano quelli del grande classico. E Claude Lévi-Strauss classico lo era fino in fondo, perfino nel corpo. La prima volta che lo vidi mi apparve come una stupefacente reincarnazione di quei grandi moralisti che amava spesso citare nei suoi libri e nelle sue affollatissime lezioni al Collège de France. Come la Bruyère, come l´amato Montaigne. Apparentemente distante e disincantato eppure pronto ad aprirsi improvvisamente a digressioni personali, vere e proprie confessioni in stile rousseauiano, sofferenti, veementi, persino violente. Sideralmente distante da ogni forma di compagnonnage con allievi e collaboratori la sua impeccabile formalità metteva spesso a disagio i suoi interlocutori. Il grande antropologo americano Marshall Sahlins mi raccontò che quando era in visita a Parigi temeva moltissimo le cene in casa di Lévi-Strauss poiché la raffinatezza proustiana del maestro lo intimoriva. Tanto che al primo invito bevve un whisky per sciogliersi. Evidentemente si sciolse troppo e il risultato fu un´atmosfera gelidamente silenziosa.
Eppure era questo stile d´altri tempi ad affascinare chi lo ascoltava. E perfino chi lo leggeva. Nessuno si rialza indenne da una lettura di Lévi-Strauss, diceva spesso Yvan Simonis, un suo allievo belga che nel 1968 gli dedicò un libro appassionato e concitato. In quegli anni i corsi di Lévi-Strauss erano incredibilmente affollati da giovani che accorrevano da tutte le parti del mondo per ascoltare la voce gnomica dell´uomo che reinventava in diretta la scienza dei miti davanti al suo pubblico incantato. Come un Orfeo ammaliatore, attraversato dalla poeticità delle sue stesse parole, posseduto dalla materia incandescente di quei racconti e al tempo stesso capace di farla colare negli stampi rigorosi di una logica di stringente razionalità. L´effetto era una miscela straordinariamente suggestiva di ragione e passione, un intreccio irripetibile fra Immanuel Kant e Giambattista Vico. È la forza del suo pensiero, l´urgenza della sua interrogazione filosofica che ha consentito a Claude Lévi-Strauss quella rivoluzione scientifica, ma anche esistenziale che lo ha proiettato nell´Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell´Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell´Occidente. In un nuovo modo di pensare l´uomo. Facendo così dell´antropologia il fondamento di una critica radicale dell´Occidente e dei pericoli della mondializzazione che si profilava.
L´uomo che ha inventato l´antropologia ha incarnato in pieno l´ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell´umanità. In questo senso l´autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall´arte alla musica contemporanea, l´opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su tutti questi campi dando loro nuova linfa. Quando apparvero le Strutture elementari della parentela nel 1949 Simone de Beauvoir che fu la prima a recensire il libro, lo salutò come una pietra miliare nella conoscenza dell´uomo. E artisti come Max Ernst, come André Breton, come Luciano Berio hanno tradotto il pensiero di Lévi-Strauss in pittura, in poesia, in musica.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lèvi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell´astrazione pura che parla dell´uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa.
È proprio questa irripetibile alchimia di pathos e logos, teoria e poesia, rigore e fantasia la vera lezione di Claude Lévi-Strauss.

Repubblica 4.11.09
Dalla delusione per la filosofia all´incontro con i popoli selvaggi
La fuga dall´occidente alla ricerca dell´altro
di Umberto Galimberti

Dopo l´avventurosa peregrinazione nel Mato Grosso si chiede: "Cosa sono venuto a fare qui?"

Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di «un capriccio un po´ perverso» di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissionoe incaricata di organizzare l´università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.
In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell´Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell´antropologia del Novecento.
Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un´inquietudine che rode l´anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al "sistema" si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca "sur le terrain" come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.
Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d´origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un´avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: «Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più». Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c´è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell´orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l´esistenza dell´Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.
Agli "antipodi" dell´Occidente Lévi-Strauss vede: «Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?».
Quella "antitesi", che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l´Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l´ha promossa, l´intenzione profonda che l´ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.


l’Unità 4.11.09
Il governo secondo
Luttazzi: disastri italiani
da Brunetta a Bondi
di Daniele Luttazzi

Tremonti e il crac delle borse, l’elmetto di carne di Bondi, Prestigiacomo contro le misure salva-clima Ue... ecco il nuovo libro del satiro più pericoloso d’Italia
Calderoli: «Semplificazione delle leggi? Se le capisce lui le capiscono tutti»
La Russa: «Con un sorriso ha crepato un blindato: è così felice dei Tornado»


È in uscita il nuovo libro di Daniele Luttazzi, «La guerra civile fredda» (Feltrinelli, pagg.228, euro 14). Eccone un’anticipazione.
Con la crisi economica che c’è, sono felice di avere questo governo e questi ministri. Felice in un senso nauseato. Credo che l’Italia sia un test, perché se le cose andassero davvero come si dice, gli italiani sarebbero incazzati. Ah, sono incazzati? Non è un test. Questi ministri rovesciano in piazza gente sempre più furibonda, prontamente identificata dalla polizia; il tutto nell’oblio coordinato del tg unico.
Tremonti, ministro dell’economia. L’estate scorsa ha proposto una finanziaria approvata in nove minuti e mezzo che a furia di tagli fa sparire lo stato sociale e i vostri diritti: scuola, pensione, assistenza, previdenza. Tagli in una fase di crescita zero che adesso Tremonti si vanta di aver previsto. L’avevi prevista e hai fatto lo stesso una finanziaria di tagli? E nonostante il crack delle borse dici che non verrà toccata? Ma cosa sei, stronzo? Allora sei stronzo! Arriva il crack delle borse, creato da decenni di deregulation, e Tremonti dice:Occorre vietare bilanci falsi e paradisi fiscali.Come se chi ha depenalizzato il falso in bilancio e fatto i condoni, in Italia, non fosse lui.
Ma Tremonti, dopo aver sfoggiato la capacità di programmazione economica di una zitella che gioca al lotto, dichiara solennemente:-Noi siamo il Paese che per l’economia reale ha fatto più degli altri.Purtroppo per il nostro Roosevelt da arena estiva, fra i Paesi dell’Unione Europea l’Italia è l’unico che dà un contributo negativo ai pacchetti di stimolo fiscale: le misure anti-crisi hanno aumentato più le tasse delle spese. ( Tito Boeri, la Repubblica, 13 marzo 2009) Intanto, secondo un sondaggio, il 90% degli anziani userà la «social card» per comprare una pistola.
Maroni, ministro dell’Interno. Ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, contro l’art.35 della Costituzione che riconosce la libertà di emigrazione. Come faccio a sopportare Maroni? Mi immagino uno spot leghista in tv con Borghezio nudo, la bocca sporca di sangue, in mano una spazzola per pulire i vetri. Borghezio fa un rutto e dice:-Mi sono appena mangiato un extracomunitario.La Lega. Ne saremmo capaci.
La Russa, difesa. È così felice dell’invio dei nostri Tornado da guerra in Afghanistan che ieri con un sorriso ha crepato un blindato.
Brunetta, funzione pubblica. Brunetta è un incubo o sono le mie medicine? Ha esasperato quella strategia di comunicazione del potere pubblico che da vent’anni è imperniata sulla colpevolizzazione del cittadino. Pubblica amministrazione? I dipendenti lavorino in giacca e cravatta. Sicurezza? No ai poliziotti panzoni. Ricercatori precari? Lasciarne a casa il 60%. Ma qui Brunetta rassicura:-Risolveremo simultaneamente il problema dei precari e il problema della mancanza di organi per trapianti.Uh? (Volevo vedere se stavate davvero seguendo.)
Quello che Brunetta è per i lavoratori pubblici, Confindustria è per quelli privati. Il nuovo accordo proposto ai sindacati è: lavorare di più per vivere peggio. Voi accettereste?
-Sì!Bonanni, piantala!
Alfano, giustizia. Il lodo Alfano salvava Berlusconi dai processi Media
set e Mills. La Consulta l’ha bocciato, Berlusconi andrà a processo, fine del regno birbonico. Alleluja.
La tre giorni del Meeting etichette indipendenti, dal 27 al 29 novembre, si trasformerà in una sorta di Woodstock del 2009: saranno ripercorse le tappe dello storico festival attraverso proiezioni video di quel che accadde in quei giorni, che rispetteranno esattamente gli orari e proveranno a ricreare l'atmosfera di quel che accadde in quel momento.
Scajola, attività produttive. Scajola vuole a tutti i costi il nucleare, nonostante diversi premi Nobel l’abbiano circondato per spiegargli che è inutile, costoso, pericoloso e troppo inquinante. Il nucleare, non Scajola. Premi Nobel per la fisica. Come Scajola, del resto. Ma Scajola ha già varato l’Agenzia per la sicurezza nucleare: dovrà smaltire i nuovi rifiuti radioattivi. Se la ’ndrangheta non scompare prima.
Bondi, ministro dei beni culturali. Quale giudizio migliore sull’attuale situazione culturale italiana? Bondi, col suo elmetto di carne, ministro dei beni culturali. Si è vantato di non capire nulla di arte moderna. Va alle mostre a fare le boccacce ai Picasso.
Prestigiacomo, ambiente. Breve riassunto: il capitalismo mondiale sta immettendo nell’atmosfera una tale quantità di anidride carbonica che oceani e foreste non riescono più ad assorbirla. Questo causa il riscaldamento globale e crea disastri. L’Unione Europea prepara un pacchetto di misure salvaclima, ma la Prestigiacomo, a nome dell’Italia, si OPPONE. Perché la Prestigiacomo è una ribelle. La Prestigiacomo è la Amy Winehouse dell’Unione Europea. Curiosità: la famiglia Prestigiacomo ha interessi in aziende petrolchimiche a Priolo, Siracusa, polo industriale fra i più vasti e i più inquinanti d’Italia. Altra curiosità: la Prestigiacomo, ministro dell’ambiente, ha rimosso i tecnici che indagavano sull’inquinamento da diossina dell’Ilva di Taranto. Padrone dell’Ilva? Emilio Riva, uno dei soci della cordata CAI/Alitalia. Fatevi da soli il collegamento. Io sono esausto.
Calderoli, ministro della semplificazione delle leggi. Gliele fanno leggere: se le capisce Calderoli, le capiscono tutti.
Carfagna. L’ho incrociata una volta per caso davanti a Montecitorio. Favolosa. Alta, prorompente, con quegli occhioni spalancati. Sapete perché ha quegli occhioni spalancati? Un giorno un suo amico le dice: –Mara, sei ministro.E lei: -Cosa? (Spalanca gli occhi.) Le palpebre non sono più scese. ❖