lunedì 9 novembre 2009

l’Unità 9.11.09
La Camera Usa ha approvato il testo che estende l’assistenza a milioni di americani
Il presidente esulta. Ora c’è lo scoglio del Senato. Compromesso sull’aborto
di Umberto De Giovannangeli


Sì alla riforma della sanità. Prima vittoria di Obama
La tensione si stempera in un sorriso radioso. Obama ha vinto la prima battaglia di una «guerra» epocale. Una «guerra» giusta che ha come posta in gioco il diritto alla salute per decine di milioni di americani.

Sorride Barack Obama, ed ha tutte le ragioni per farlo. È notte tarda a Washington (l’alba in Italia), quando la Camera dei Rappresentanti scrive una pagina storica nella vita degli Stati Uniti d’America: per la prima volta in decenni deputati americani hanno detto sì alla riforma del sistema sanitario.
LA DESTRA CONTRO
La Camera, in una rara seduta di sabato conclusasi a notte fonda, ha votato a favore della riforma fortemente voluta dal presidente Obama. Il testo è passato nonostante l'opposizione compatta di tutti i deputati repubblicani tranne uno, Ahn Joseph Cao, e di un certo numero di «blue dogs», deputati democratici moderati: 220 voti a favore, 200 i contrari. Il testo è passato anche grazie al compromesso sull’aborto trovato dalla speaker Nancy Pelosi, che prevede restrizioni ai finanziamenti pubblici per le interruzioni di gravidanza.
Affinché la riforma diventi legge, tuttavia, occorre che si esprima anche il Senato, dove la maggioranza democratica non è affatto data per scontata.
Nello stesso tempo, però, il sì della Camera rappresenta una vittoria politica di straordinaria portata per l'amministrazione Obama. Lo stesso presidente, infatti, nell'imminenza del voto si era recato la Congresso per esortare i deputati ad esprimersi a favore della riforma. E in una dichiarazione successiva aveva parlato di «momento storico» per gli Stati Uniti. Le stesse parole erano state usate dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi: «Oggi aveva detto – è una giornata storica per l'America. I nostri pensieri vanno al senatore Ted Kennedy, che era solito definire la riforma sanitaria come il grande lavoro incompiuto del nostro Paese». La riforma prevede la assistenza sanitaria nei confronti di 36 milioni di cittadini americani che attualmente non godono di alcuna copertura. Inoltre prevede in un arco di dieci anni di arrivare a coprire il 96% della popolazione, per un ammontare complessivo di 1.200 miliardi di dollari. Il testo introduce poi una serie di norme restrittive per le compagnie assicurative rispetto al sistema attuale.
COLPO ALLE ASSICURAZIONI PRIVATE
Non solo prevede di introdurre nel mercato la tanto contestata «public option», l'opzione pubblica voluta dal governo per «calmierare» il mercato, ma contiene regole nuove come per esempio l’obbligo da parte dei datori di lavoro di assicurare i loro dipendenti; oppure il divieto nei confronti delle compagnie di assicurazione di negare a clienti la copertura sulla base delle cosiddette «condizioni mediche preesistenti», oppure di alzare in misura significativa il prezzo delle polizze nei confronti delle persone più anziane. «Questa notte, con un voto storico, la Camera dei Deputati ha approvato un provvedimento che rende finalmente possibile la promessa di un'assistenza sanitaria di qualità per il popolo americano», ha commentato Obama in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca. Il provvedimento approvato dalla Camera, denominato Affordable Health Care for America Act, secondo Obama «fornirà stabilità e sicurezza agli americani che hanno l'assicurazione, e opzioni possibili di qualità a coloro che non ce l’hanno, abbassando i costi». Inoltre «contribuirà sul lungo termine a ridurre il deficit». «Ora siamo a soli due passi dal portare a compimento la riforma sanitaria in America», ha proseguito Obama che si è detto «assolutamente fiducioso» che il provvedimento passerà anche in Senato.
A condividere con Obama questa vittoria è Nancy Pelosi: «Che notte – ha commentato la combattiva Speaker della Camera I miei colleghi ed io abbiamo appena ricevuto una telefonata del presidente Obama che si congratula per il passaggio della riforma. È un passo storico fatto nell'interesse di tutti gli americani».❖

Repubblica 9.11.09
Una vittoria di misura
di Vittorio Zucconi


Stravolta ed esausta, come una maratoneta costretta a rifare il percorso dozzine di volte sotto il peso di un testo lungo 1.099 pagine, ma la prima legge per estendere l´assicurazione sanitaria a tutti i cittadini americani è finalmente stata approvata. L´ha votata per un soffio la Camera dei Rappresentanti.
Barack Obama ha avuto la sua prima vera vittoria politica dopo l´elezione e gli Stati Uniti si sono avvicinati al resto del mondo evoluto nel quale la sanità è un diritto civile e non un privilegio di chi la può pagare. Ma la maratona ricomincerà subito, sul monte Calvario del Senato che la deve sigillare e rendere applicabile.
Ancora lontanissima da quello che le nazioni europee, il Giappone e altri Stati evoluti considerano da generazioni normale e scontato, che tutti i cittadini abbiano diritto a cure mediche senza esclusione di censo e senza rischiare la bancarotta, la legge sulla riforma sanitaria votata venerdì sera nonostante le massicce defezioni del partito democratico che da 80 anni finge di volerla, cerca di integrare l´intervento della "mano pubblica" con gli interessi delle assicurazioni private. Si guarda bene dall´istituire quelle polizze di Stato offerte a chi non può permettersi le polizze commerciali, o dall´imitare l´ottimo sistema canadese del "pagatore singolo", cioè lo Stato, che interviene se i privati si tirano indietro. La lobby delle assicurazioni, l´intero partito repubblicano (meno un solo deputato) e 39 democratici su 258 l´avrebbero considerato la opzione di Stato, "opzione" si noti, non obbligo, come la reincarnazione dello stalinismo con la carnagione scura dell´afroamericano Obama, in camice e stetoscopio.
Ma è quel proverbiale «primo passo» che nessuno, da Roosevelt a Harry Truman al naufragio del duo Bill e Hillary Clinton era mai riuscito a fare. Tra lo stupore incredulo del resto del mondo, e degli ammiratori dell´America, che si sono sempre chiesti come potesse la nazione più ricca del mondo, lo Stato che può buttare senza un gemito ormai quasi mille miliardi per due inconcludenti guerre fatte «per scelta ideologica» su false premesse in Iraq e quasi 700 miliardi all´anno per il proprio apparato militare, impuntarsi e recalcitrare generazione dopo generazione davanti al costo della guerra per proteggere i propri cittadini dall´infermità, come se anche questa non fosse una fondamentale «guerra di civiltà». Il prezzo della legge è calcolato poco sopra i mille miliardi di dollari, che sono molti, ma meno di quando lo stesso governo federale abbia riversato nelle casseforti delle grandi banche e finanziarie per salvarle, senza che i beneficiati gridassero al neo leninismo.
La legge che ora deve passare nel tritacarne del Senato, dove il partito di Obama ha in teoria 60 voti su 100 ma sta già perdendo i pezzi di quei senatori disponibili come il finto indipendente Joe Libermann che rappresenta lo stato del Connecticut con la massima concentrazione di interessi assicurativi, è una versione annacquata e diluita di quella promessa da Obama in campagna elettorale. Ma di fatto obbliga tutti ad avere una copertura assicurativa, mettendo chi non ce la farebbe, in condizioni di acquisirla a tariffe di favore o sovvenzionato. E in quell´obbligo sta il nocciolo delle proteste anti statalisti dei duri (e dei ben finanziati).
Non avrebbe ottenuto neppure quei 220 voti necessari al passaggio, se non avesse ridotto il ruolo della "mano pubblica" a quello di integratore e calmieratore delle polizze, non di pagatore, per chi non ha i fondi per le polizze o un lavoro che garantisca anche la salute. E se non avesse proibito l´uso di questa "integrazione" pubblica per pagare le procedure di aborto, mentre estende almeno alle coppie gay la copertura oggi data alle coppie eterosessuali. Dunque le donne con polizze private potranno ancora abortire. Le più povere, che dovrebbero ricorrere anche al danaro pubblico, non potranno, o dovranno arrangiarsi da sole, nel segno della profonda carità degli ultraconservatori cristianisti che impongono la maternità soltanto a chi non può pagarsi l´interruzione.
Ma anche se questa prima breccia nel muro delle lobby, che finora era stato sbrecciato soltanto dall´assistenza pubblica per gli anziani oltre i 65 anni e per i bambini con famiglie di reddito inferiore, risponde al classico monito del cancelliere tedesco Bismarck («se vi piacciono le leggi e le salsicce non guardate come sono prodotte») è, come ha detto un Obama sollevato, «un evento storico». Qualcosa che la sua amministrazione, e il riottoso partito percorso da correnti opposte e contrarie che porta le sue insegne, «hanno fatto e porteranno fino in fondo non perché sia facile, ma perché è difficile». Una formula ripresa direttamente dal famoso "discorso della Luna" fatto da John Kennedy, quando promise di raggiungere il nostro satellite, proprio perché l´impresa si annunciava difficile.
Di questa breve schiarita, nelle nubi di una situazione che lo avevano visto in difficoltà tra la delusione dei suoi devoti e la violenta aggressività dei suoi avversari, il presidente aveva disperato bisogno, dopo la amara giornata elettorale di martedì scorso e l´ha avuta. Ha vinto, per appena cinque voti di maggioranza in una Camera dove pure i Democratici hanno sulla carta 40 voti di margine sui Repubblicani, perché perdere sarebbe stata una ferita mortale per la presidenza e per la sua immagine.
Non erano soltanto i soldi e le lobby di Big Pharma delle multinazionali del farmaco o della grandi Assicuratrici, quelle società che fanno profitti negando ai pazienti cure e coperture nel caso siano portatori di patologie preesistenti e che, arbitrariamente, capricciosamente, negano – o lesinano – rimborsi per limitare le spese e gonfiare i profitti a danni di pazienti, medici, ospedali, a fare muro.
Introdurre, sia pure dalla finestrina che questa legge apre e che molti in Senato tenteranno di chiudere quando nelle prossime settimane dovrà superare quel calvario, comporta una rivoluzione piccola forse nei fatti, ma enorme nella storia culturale degli Stati Uniti. La salute, come ogni altro aspetto della vita individuale e collettiva, non è mai stata vista qui come un diritto, ma come un prodotto, al quale può accedere chi lo possa acquistare, come un´automobile, un frigorifero, una laurea. Trasformarla in un diritto, al quale anche per i 47 milioni che non potevano "acquistarlo", escludendo per ora soltanto gli immigrati senza permesso di soggiorno o residenza (altra concessione), spiega perché i "nativisti", i difensori della americanità pura, dura e crudele, ma anche quella che ha fatto dell´America ciò che è, si oppongano con unghie e con denti.
In questo, Barack Obama, politico e presidente del tutto equilibrato e noi diremmo "centrista" nell´azione, quanto suona radicale nella retorica, appare come la nuova minaccia "socialista" e deve faticare per far capire che negare la chemioterapia a una donna afflitta da un tumore al seno recidivo, come fu per sua madre morta senza assistenza sanitaria, non è nazismo, stalinismo e neppure banale laburismo inglese. È semplice eguaglianza dei cittadini davanti a quella minaccia che non conosce partiti e non discrimina, la malattia.

Corriere della Sera 9.11.09
Interruzioni di gravidanza escluse dalla legge
Clausola anti-aborto Una ferita aperta in casa democratica
Il compromesso ottenuto dai vescovi
di P. Val.



WASHINGTON — Nella not­te che le ha regalato un posto nella Storia della politica ameri­cana, Nancy Pelosi ha dovuto accettare il compromesso che non avrebbe mai voluto. Per salvare la riforma sanitaria, la prima donna Speaker della Ca­mera, ardente paladina della li­bertà di scelta in materia d’aborto, ha ceduto alle richie­ste di una parte dei suoi demo­cratici, aprendo la strada a re­strizioni severe, che proibisco­no a ogni polizza medica acqui­stata con i sussidi del governo di coprire anche le interruzioni di gravidanza.
È stata una scelta inevitabi­le. Senza la quale gli antiaborti­sti della maggioranza avrebbe­ro sicuramente fatto mancare il loro appoggio alla legge, ap­provata con appena due voti di scarto sopra il quoziente neces­sario. Ma l’esito e la lunga batta­glia notturna lasciano nel Parti­to democratico una ferita aper­ta.
Uno dopo l’altro, i leader del­l’ala progressista hanno critica­to la versione finale del proget­to di riforma, anche se alla fi­ne, parole loro, «si sono turati il naso» e l’hanno votato. Dopo ore di durissima trattativa, cui hanno preso parte anche rap­presentanti della Conferenza episcopale cattolica, Pelosi alla fine ha ammesso alla votazione in aula l’emendamento di due deputati democratici, Brad Ell­sworth dell’Indiana e Bart Stu­pak del Michigan, che proibi­sce alle compagnie d’assicura­zione che partecipano alla co­siddetta «borsa» delle polizze di coprire le interruzioni di gra­vidanza. Il dibattito è stato di fuoco. Ad accentuare il tono drammatico, fuori da Capitol Hill un gruppo di dimostranti anti-abortisti ha inscenato una manifestazione con gigantogra­fie di feti abortiti. L’emenda­mento è passato con 240 voti a favore, 194 contrari e un repub­blicano dell’Arizona astenuto.
A convincere Pelosi e la lea­dership democratica a fare il compromesso è stata anche la mobilitazione della Conferenza episcopale negli ultimi dieci giorni. Favorevoli alla riforma sanitaria, i rappresentanti dei vescovi hanno invitato i parro­ci di tutto il Paese a sollevare il tema nelle Chiese, sollecitando i fedeli a contattare i Congres­sman delle loro circoscrizioni e a pregare per il successo delle modifiche anti-abortiste alla legge.
La guerra civile democratica sull’aborto rispecchia la varietà della nuova maggioranza, dove accanto ai deputati eletti nei tradizionali collegi progressi­sti, ci sono ora quelli che nel 2006 e 2008 hanno vinto il mandato in circoscrizioni mo­derate, dove i gruppi «pro-li­fe » sono molto attivi.



l’Unità 9.11.09
Dalla parte di tutte le bambine
di Emma Bonino


Si apre oggi nel Burkina Faso la conferenza mondiale per la messa al bando delle mutilazioni genitali. All’Onu il prossimo passo

Ricordo ancora con emozione il racconto di donne africane, con le quali ho poi stretto amicizia, sulla lotta che faticosamente e nella quasi totale clandestinità stavano portando avanti da oltre un ventennio. Eravamo alla fine degli anni Novanta, avevo da poco concluso il mio mandato di Commissaria europea e, nonostante ne avessi sentito parlare essendomi occupata di Africa a lungo, fino ad allora non mi ero impegnata in prima persona contro la pratica, così diffusa nel grande continente, delle mutilazioni genitali femminili. All’epoca, parlarne apertamente era impensabile in molte realtà, si trattava di un argomento tabù, gelosamente custodito all’interno delle comunità in nome di tradizioni antichissime spesso confuse con le religioni. La conoscenza dell’incidenza effettiva delle mutilazioni genitali femminili mi colpì per la sua violenza, per la sua portata simbolica di soggiogamento della donna, per le conseguenze nefaste sulla salute psicofisica delle vittime, ma soprattutto per la sua diffusione: due milioni di bambine esposte al rischio di mutilazione ogni anno.
La determinazione delle attiviste africane e la loro espressa richiesta di sostegno, mi convinse della necessità di un impegno di lungo periodo e fu così che con gli amici di Non c’è Pace Senza Giustizia decidemmo di lanciare una campagna internazionale. L’obiettivo della prima fase fu di contribuire a sollevare la coltre di silenzi. Grazie all’impegno della first lady egiziana Suzanne Mubarak, nel 2003 le militanti anti-mutilazioni si sono ritrovate sedute attorno allo stesso tavolo con i rappresentanti dei rispettivi governi e, per la prima volta, si è parlato di mutilazioni genitali femminili come violazione di uno dei diritti basilari della persona, il diritto all’integrità fisica. La partecipazione delle più alte autorità religiose musulmane e copte ha scardinato l’alibi religioso fino a quel momento usato per giustificare la pratica. Di lì a qualche settimana l’Unione Africana ha adottato il Protocollo di Maputo, un trattato entrato in vigore nel 2005 che bandisce le mutilazioni genitali come violazione dei diritti umani della donna.
Come spesso accade quando si tratta di conquiste di civiltà e di spazi di libertà individuale, le esperienze altrui possono giocare un ruolo decisivo nel determinare un’accelerazione, ed è proprio quello che è successo in questa campagna. Dopo il 2003 la rete di attiviste locali ha iniziato a fare sinergia, la loro azione con i governi è diventata più efficace e, ad oggi, 18 Stati africani sui 28 dove si praticano le mutilazioni genitali femminili hanno adottato una legge che punisce penalmente la pratica e hanno messo in campo campagne d’informazione e di sensibilizzazione. A distanza di quasi un decennio, i risultati ottenuti sono eccellenti e continua a crescere il numero di Paesi che scelgono di dotarsi di un quadro legislativo di prevenzione e sanzione. Nel corso della seconda Conferenza del Cairo, che si è tenuta nel dicembre del 2008 grazie al contributo del governo italiano, tutti i partecipanti, governativi e non, hanno preso atto dei considerevoli passi avanti compiuti negli ultimi cinque anni e hanno affermato l’intenzione di raddoppiare i propri sforzi.
È ormai evidente l’esistenza di una volontà generalizzata di creare le condizioni politiche per sradicare questa pratica una volta per tutte. Il governo italiano, da anni molto attento e sensibile a questa campagna, ha di recente adottato iniziative ai più alti livelli diplomatici affinché la prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvi una risoluzione di condanna delle mutilazioni genitali femminili come violazione dei diritti umani e che inviti i governi dei Paesi interessati ad adottare tutte le misure necessarie a contrastare il fenomeno.
Con questo spirito la first lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré, ha voluto organizzare con Non c’è Pace Senza Giustizia e con il sostegno della Cooperazione Italiana la conferenza «Dal Cairo a Ouagadougou: verso la definitiva messa al bando delle mutilazioni genitali femminili», che si apre oggi nella capitale burkinabé. Le first ladies dell’Africa occidentale sono state invitate a partecipare per sancire con la loro presenza l’impegno politico dei rispettivi Paesi a cooperare. Mentre fervono i preparativi per questo evento, le attiviste di tutta la regione cominciano ad arrivare in una torrida e caotica Ouagadougou, dove i venti degli ultimi giorni hanno colorato il cielo di sfumature rosso-arancio e dove le donne burkinabé sfrecciano per le strade sui loro scooter, lasciandosi dietro nuvoloni multicolori che si mescolano alle mille tinte dei loro abiti tradizionali. ❖

Repubblica 9.11.09
Rabbia e amicizia il carteggio inedito tra Jaspers e Heidegger
Caro Martin che rabbia doverle ancora scrivere
di Antonio Gnoli


Esce il carteggio inedito tra i due grandi filosofi. La loro amicizia cominciò negli anni Venti. Il nazismo la spaccò. Ma poi lentamente riprese tra accuse e spiegazioni che l´autore di "Essere e Tempo" non volle mai dare
Conobbi Lukács nel 1913: dall´uomo ricco di spirito che era è venuto fuori un burattino meccanico
Husserl è uscito dai binari, ciondola da una parte all´altra e dice trivialità. Si prova solo pena

Martin Heidegger e Karl Jaspers si conoscono nella primavera del 1920 in casa di Edmund Husserl. Possiamo immaginare l´atmosfera che avvolge quell´incontro: i toni sono formali, i pensieri alati. Husserl è un filosofo ormai venerato. Heidegger ha 31 anni e la fama di enfant prodige della filosofia. Jaspers ha 37 anni, proviene da studi di medicina e psichiatria, ma al tempo stesso nutre un grande interesse per il pensiero filosofico. I due sembrano fatti per intendersi. In quel pomeriggio trascorso nel salotto Husserl, Heidegger e Jaspers parlano fittamente. Non hanno occhi per la Germania uscita tragicamente dalla guerra, si disinteressano di politica, della disoccupazione che incombe, del marco che traballa. C´è solo la filosofia ad attrarli e la volontà di poterne fare qualcosa di radicalmente nuovo.
Senza questa premessa difficilmente si capirebbe un carteggio, che tra speranze ed equivoci, delusioni e rabbia, si distenderà per oltre quarant´anni (Lettere 1920-1963, Raffaello Cortina, pagg. 295, euro 33). Si danno del lei e la loro resterà prevalentemente un´amicizia mentale, sublimata in quello spirito accademico che solo due tedeschi nati alla fine dell´Ottocento sanno effondere nelle loro lettere.
Jaspers vive e insegna a Heidelberg, Heidegger è a Friburgo. Sono convinti che intorno a loro ci sia il deserto filosofico. Davvero non c´è nessuno - in quella Germania comunque ricca di teste finissime - che regga il confronto? Jaspers, salverebbe Weber e Rathenau. Che a dire il vero non sono proprio dei filosofi. Heidegger tace. Salvo, improvvisamente, prendersela con Husserl, il maestro, al quale riserva un trattamento di rara ferocia. È come un colpo di fucile: «Lei sa di certo», scrive a Jaspers, «che Husserl ha ricevuto una chiamata da Berlino, si comporta peggio di un libero docente che abbia scambiato il proprio posto di ordinario con un certificato valevole per l´eternità... è completamente uscito dai binari. Ammesso che mai vi abbia corso dentro... Va ciondolando da una parte e dall´altra e dice per giunta delle trivialità, e non si può che provarne pena. Vive per la sua missione di "fondatore della fenomenologia" e nessuno sa bene che cosa ciò significhi».
In pubblico il maestro è omaggiato, Heidegger passerà le vacanze nella casa di Husserl in Engandina, gli dedicherà perfino Essere e Tempo, nella prima edizione del 1927 (salvo toglierla alla quinta). Ma nel privato ne demolisce la figura e il magistero. Lo tratta come un ferro vecchio. Lo mette alla berlina. Il cuore selvaggio dell´allievo non ha pietà per il maestro.
Jaspers è molto più cauto, se proprio deve prendere a sberle qualcuno, lo fa come reazione a un insulto, a una stroncatura. Per esempio contro Lukács, reo di aver demolito in un colpo solo sia Heidegger che Jaspers. «Conobbi Lukács prima del 1913. La metamorfosi avvenuta in lui è stata uno spettacolo raccapricciante. Dell´uomo spumeggiante, ricco di spirito che era è venuto fuori un desolante burattino meccanico. La sua piattezza è stupefacente». La lettera è del 1949. Molte cose nel frattempo sono accadute. Heidegger e Jaspers hanno ripreso a scriversi dopo anni di silenzio e di imbarazzo. Di ferite lasciate aperte e mai veramente rimarginate. Ma come si potevano sanare visto l´entusiasmo con cui Heidegger nel 1933 aderisce al nazismo?
All´origine del dissidio tra i due vi è il celebre discorso che Heidegger pronuncia nel 1933 per la carica di rettore all´università di Friburgo. In un primo momento Jaspers sembra apprezzarne il tono, la profondità, la densità, anche se qua e là quel discorso gli sembra condizionato dai tempi che si vivono, forzato dalle circostanze e nutrito con certe frasi che risuonano nel vuoto. Ma nella sostanza lo giudica favorevolmente. Salvo ripensarci anni dopo, quando spiega che già nel 1933 non si fida più di Heidegger e vede chiaramente in lui un nemico, lo strumento di una potenza minacciosamente pericolosa e deleteria. Quella potenza è il nazionalsocialismo.
Nonostante ciò i due continueranno a scriversi fino al 1936. Poi ci sarà un´interruzione di 12 anni con in mezzo una sola lettera del 1942. Per Heidegger è un periodo terribile, nel quale è in gioco anche la salute mentale.
Del resto, già dalla fine 1935 Heidegger sembra aver perso quel furore ideologico che accompagna certi passi del suo Discorso del rettorato. L´ebbrezza allora provata è smaltita. Confessa a Jaspers di vivere in una solitudine pressoché assoluta e di avvertire come una spina il fallimento del rettorato, dal quale si è distaccato rinunciando alla carica. Jaspers risponde con toni cordiali. Nulla farebbe presagire la distanza critica e il giudizio aspro che manifesterà anni dopo. È solo nel 1942 che le cose si chiariscono: «Caro Heidegger, mi trovo in imbarazzo non solo a ringraziarla per il suo saggio su Platone - e per la sua interpretazione di Hölderlin - bensì anche a scriverle una risposta al riguardo. Non so nemmeno più esattamente, né chiaramente a chi io stia scrivendo, perché da quasi dieci anni non ci parliamo più».
Continueranno a non parlarsi ancora a lungo. A guerra ormai finita, nel 1948, Jaspers torna a scrivergli. Chiede a Heidegger una spiegazione plausibile della sua adesione al nazismo: «Mi sarei aspettato da parte sua una lettera che potesse spiegarmi l´incomprensibile». Lo incalza: «Non potrò mai dimenticare le sue parole riguardo alla cerchia intellettuale di Max Weber né il suo uso della parola "ebreo" secondo il significato che aveva allora per noi».
Heidegger non risponde. È come muto, schiacciato dai provvedimenti che lo hanno privato dell´insegnamento, della casa e della biblioteca (queste ultime due gli verranno in parte restituite grazie all´interessamento dello stesso Jaspers).
È in questo clima di assoluta privazione che il silenzio di Heidegger si fa sempre più impenetrabile. Jaspers prova a romperlo nel 1949: «Una volta tra noi c´era qualcosa che ci legava. Non posso credere che sia sparito senza lasciare traccia». Passano alcuni mesi, quando Heidegger spedisce una lettera sibillina che così si conclude: «Non si deve parlare di solitudine. Ma questa resterà la sola località dove il pensare e il poetare secondo le umane capacità restano nei pressi dell´essere».
Poi, quasi rendendosi conto che comunque una qualche spiegazione deve fornire all´antico amico, scrive in una successiva lettera: «Se non mi addentro, qui, nelle spiegazioni cui lei allude, questo non significa che io voglia sorvolare su qualcosa. Il mero dare spiegazioni può proseguire all´infinito senza portare da nessuna parte. La discussione sulla sciagura tedesca e sul suo intreccio con la moderna storia mondiale durerà per il resto delle nostre vite... Ho la sensazione di stare ancora crescendo nelle radici, e non più sulla cima dei rami».
Nella sostanza il loro rapporto finisce qui. Sono state due vite separate da un muro invalicabile fatto di riservatezza, reticenza, incomprensione, anche filosofica. Gli antichi entusiasmi lasciano il posto ai dubbi, al punto che Jaspers impietosamente gli scrive: «Continuo a inciampare nelle sue frasi... Certe sue parole cruciali non riesco a comprenderle». È l´oscurità del lessico heideggeriano a irritare e disorientare Jaspers. Come sono lontani i progetti comuni, il fervore e la baldanza teorica degli anni Venti. Ormai l´inverno è sceso nei loro cuori.

Repubblica 9.11.09
"In principio c'era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani


Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c´era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell´annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l´opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all´origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c´è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l´elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un´idea non condivisibile, per non dire che è un´idea sciagurata».
L´adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all´infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all´uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l´esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all´interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.

Corriere della Sera 9.11.09
Discussioni Scuola, l’intervento di Galli della Loggia riapre il dibattito sui modelli educativi
L’ora di Costituzione che divide
Corradini: stiamo solo sperimentando. Marramao: niente catechismi
di Dario Fertilio


Il ministro Gelmini: «Non darà luogo a voti né ci sarà un testo base»

Si possono insegnare i princìpi della de­mocrazia a scuola, magari a bambini di sei anni, come se fossero precetti di­vini da non discutere, comandamenti del catechismo da imparare a memoria? Un primo effetto l’ha già ottenuto, questa doman­da provocatoria lanciata ieri sul «Corriere» da Ernesto Galli della Loggia: perché ha scompa­ginato gli schieramenti politico-culturali e cre­ato inedite alleanze.
Sì, risponde ad alta voce Luciano Corradini, presidente della commissione ministeriale che ha lanciato l’idea della materia denomina­ta «Cittadinanza e Costituzione», esponente certo non pentito di un’area dossettiana catto­lico- progressista. Ma eccepisce anche il mini­stro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, salda­mente ancorata ai principi di centrodestra. Mentre il consenso più convinto a Galli della Loggia viene dal filosofo Giacomo Marramao, di formazione marxista e riformista, alcuni dubbi sul fronte liberale li esprime un altro fi­losofo, Dario Antiseri.
Il fatto è che il punto centrale dell’argomen­tazione di Galli della Loggia esula dagli schiera­menti tradizionali, puntando diritto al cuore del problema: la scuola deve istruire i ragazzi in modo da consentire a ognuno di farsi una cultura (e quindi maturare opinioni proprie, magari sbagliate ma pur sempre libere), oppu­re deve formarli secondo il modello del buon cittadino, fedele a valori eterni che si accetta­no in obbedienza all’autorità (compresi quelli costituzionali?). Ben lontano dall’essere un in­terrogativo retorico, quello di Galli della Log­gia tocca in realtà un aspetto centrale non solo della scuola, ma dello stesso dibattito politico. Tiene a sottolineare Luciano Corradini, pa­dre putativo della contestata materia, che l’ora di «Cittadinanza e Costituzione» non è ancora a regime, ma soltanto «in fase di sperimenta­zione », sia pure in assenza di una proposta precisa da parte del ministero. Così gli istituti scolastici, sulla base della loro autonomia, pos­sono decidere sul contenuto di questa speri­mentazione, incluso il numero delle ore da de­dicare all’insegnamento e il voto da mettere in pagella. E comunque, dichiara Corradini, l’ini­ziativa «è il contrario di un catechismo demo­cratico, o di una sacralizzazione della Costitu­zione. I ragazzi saranno chiamati a confrontar­si anche sul dibattito intorno alle modifiche della legge fondamentale italiana e alla sua comparazione con quelle di altri Paesi». Certo, mettere in discussione la Carta non significa per Corradini ribaltarne i principi inviolabili compresi nella prima parte; l’importante se mai è farli conoscere: «Il vero male — osserva — oggi è l’indifferenza, da cui discende anche la dittatura».
Il ministro Gelmini non disconosce a sua volta l’iniziativa, pur precisando: «Cittadinan­za e Costituzione non sarà una materia a sé stante, non darà luogo a un voto né prevederà un testo base. D’altra parte, è coerente con la filosofia del centrodestra: integrazione sì pur­ché si conoscano le nostre leggi, istituzioni e tradizioni». E neppure, a giudizio del mini­stro, è giusto parlare di un metodo d’insegna­mento autoritario: «La Costituzione può esse­re tranquillamente cambiata, ciò non toglie che occorra insegnarla, anche per favorire l’in­tegrazione degli stranieri».
L’altro appunto polemico di Galli della Loggia, l’esistenza cioè di un’oligarchia accade­mico- ministeriale, di stam­po progressista, che condi­zionerebbe le scelte dei vari ministri indipendentemente dal loro credo politico, viene respinta dalla Gel­mini: «Le mie scelte sul maestro unico e la ri­forma dell’università, ad esempio, sono lì a di­mostrarlo ». Sull’altro fronte, il filosofo Giacomo Marra­mao apprezza l’impostazione del problema di Galli della Loggia: «Nessuna Costituzione è un testo sacro, e al termine di un ciclo storico è più che legittimo chiederne una riforma. Ben­ché io consideri la nostra una tra le più avanza­te del mondo occidentale, trovo eccessiva e inopportuna l’idea di tradurla in materia obbli­gatoria. Mi piacerebbe, questo sì, che gli stu­denti imparassero a confrontare le Carte fon­damentali dei vari Paesi, e allora un insegna­mento simile io lo chiamerei 'Cittadinanza re­pubblicana e Costituzioni'».
In chiaroscuro Dario Antiseri: «Sono d’ac­cordo con Galli della Loggia su un punto, cioè che la scuola italiana oggi sia infarcita di pedagogismo verboso. È anche giusto, come afferma, fornire ai ragazzi la chiave dei sape­ri, perché imparino a risolvere da sé i proble­mi, tanto più che né la politica, né la televisio­ne né le famiglie oggi li aiutano più. Però — aggiunge — non basta possedere la cultura per essere buoni cittadini: la Germania di Go­ethe e la Russia di Tolstoj ci hanno dato nazi­smo e comunismo. E allora dico che i valori della Costi­tuzione italiana devono esse­re conosciuti per poter esse­re difesi: i bulli, quelli che in­frangono le regole, si deve imparare a disprezzarli».
Al punto da considerare la Costituzione qualcosa di sacro? Una simile prospettiva non spaventa lo storico Nicola Tranfaglia: «Succede in America, perché non da noi? La nostra Carta — ricorda — è quanto di più lontano da qualsiasi totalitarismo». Buona, quindi, l’idea di insegnarla già nelle prime classi.
Entusiasta invece della provocazione di Gal­li della Loggia lo storico Dino Cofrancesco: «Sono incondizionatamente con lui. Dietro questa idea dell’ora di democrazia c’è il basso continuo di un Paese che, o fascista o comuni­sta, ha sempre bisogno del catechismo».

Corriere della Sera 9.11.09
Un saggio «relativista» sulla mente
Come il cervello conosce se stesso
di Edoardo Boncinelli


Il confronto serrato tra neuroscienze e psicologia nello studio della comprensione

Richiesto di dare un parere sulla bontà di una data spiegazione scien­tifica, un mio amico biolo­go inglese usava dire: «Di­pende dalla domanda che mi pongo, cioè da che cosa voglio sapere». Questa è una premessa che si do­vrebbe sempre fare, quan­do si parla di una classe di fenomeni e della loro spie­gazione. Purtroppo non lo si fa quasi mai. Con un ag­gravante per noi italiani. Afflitto da un inguaribile infantilismo culturale, da­vanti alla domanda «Che cosa vuoi sapere riguardo a questa questione?» l’ita­liano tipico risponderebbe «tutto». Così non si va da nessuna parte. Tutto non si può mai sapere. Di nulla. Il neurochirurgo Arnal­do Benini, autore del bel li­bretto Che cosa sono io. Il cervello alla ricerca di sé stesso (Garzanti, pp. 154, e 13), sembra sapere quale domanda si pone in que­sto libro. Fin dall’inizio si chiede infatti: «Entro quali limiti è possibile affronta­re il problema 'Che cosa so­no io' in termini naturali­stici? ». E ancora: «La do­manda è se l’autoreferen­zialità del cervello che stu­dia se stesso ponga un limi­te (insuperabile?) alla sua capacità di capirsi».
Ho l’impressione che l’autore faccia il tifo per una conclusione negativa per entrambe le domande, ma non lo dice mai esplici­tamente, e ci dà comunque un bel saggio di come si possano divulgare senza inutili complicazioni le conquiste della più moder­na neuroscienza, lo studio scientifico di alcuni aspetti del cervello e del suo fun­zionamento. Ci racconta di molti esperimenti e di mol­te osservazioni cliniche, an­che se gli autori più citati sono filosofi e letterati. Pa­re quasi vergognarsi di es­sere solo un medico e uno scienziato! Ed è un pecca­to, perché il meglio di sé l’autore ce lo dà proprio nei due capitoli nei quali parla di cose delle quali è più direttamente compe­tente: «Il senso del tempo e i suoi disturbi» e «La mente del cervello mala­to ». Qua può dispiegare tutta la sua conoscenza e la sua capacità di comunica­re, senza paura di sembra­re inadeguato e di dover ri­correre a tipi «superiori» di spiegazione, consistenti spesso solo in belle frasi ad effetto. A questo proposito voglio prendere al volo l’oc­casione per notare come gli autori del fortunato li­bro Neuromania (Laterza), molto lodato anche da alcu­ni filosofi, si rendano col­pevoli per me di una scor­rettezza fondamentale. Nel­l’ansia di screditare una problematica e discutibile riduzione del mentale al neuroscientifico, ci sugge­riscono un’ancora più im­proponibile riduzione del mentale allo psicologico, anzi allo psicologistico, condannandoci così a cade­re dalla padella nella bra­ce. Il libro di Benini è inve­ce abbastanza equilibrato, così da rappresentare una proficua lettura sia per chi si vuole confermare nella propria convinzione che non capiremo mai il cervel­lo fino in fondo, sia per chi cerca illuminazioni e ag­giornamenti sull’attuale scienza del cervello.
Voglio terminare con due osservazioni di caratte­re generale, tese a tempera­re il generale scetticismo delle persone che la pensa­no come Benini. La prima è che se non si può preten­dere che un fenomeno ab­bia al momento una spiega­zione scientifica, si può e si deve pretendere che le spiegazioni alternative che se ne danno al presente non siano almeno in con­trasto con quello che la scienza ci dice. A buon in­tenditore… Per la seconda, se l’individuo singolo non può pretendere di spiegare la mente perché «l’autore­ferenzialità del cervello che studia se stesso» rap­presenta un problema ap­parentemente insuperabi­le, è anche vero che esiste un’istanza superiore forse capace di trascendere que­sta autoreferenzialità in uno sforzo che una volta io definii «la follia delle fol­lie »: si tratta del collettivo umano, cioè dell’insieme di uomini di ieri e di oggi che si sono occupati e si oc­cupano del problema in questione. Detto diversa­mente, un solo cervello non può andare «alla ricer­ca di se stesso», ma molti cervelli sì. Altrimenti è me­glio chiudere bottega. E sta­re zitti.

Corriere della Sera 9.11.09
Riviste Storia di una lettera del 1938 contro l’antisemitismo
Razzismo, il «ribrezzo» di Croce
di Antonio Carioti


Il filosofo liberale voleva far conoscere all’estero la sua opposizione alle leggi antiebraiche

Benedetto Croce non apprezzava la vo­lontà degli ebrei di conserva­re la loro identità culturale. La considerava un «millena­rio separatismo», da superare con l’assimilazione. Ma l’anti­semitismo fascista incontrò la sua fiera opposizione, che egli desiderava avesse la mag­giore pubblicità possibile.
Lo conferma un articolo di Annalisa Capristo, autrice del libro L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane (Za­morani). Sul nuovo numero della rivista «Quaderni di sto­ria », edita da Dedalo e diretta da Luciano Canfora, la studio­sa approfondisce le vicende di una lettera contro le perse­cuzioni antiebraiche che Cro­ce scrisse il 5 agosto 1938, po­chi giorni dopo la pubblica­zione del «Manifesto della raz­za », e che gli attirò dure ram­pogne della stampa fascista.
A sollecitarne la sortita, ri­vela Annalisa Capristo, era sta­to il liberale svedese Gillis Hammar, molto impegnato in favore degli ebrei. Questi aveva scritto a Croce per chie­dergli che cosa pensasse del­l’antisemitismo dilagante. E il filosofo gli rispose manife­stando il suo «ribrezzo» per la politica di Hitler e la sua ap­prensione per il fatto che an­che in Italia si era «iniziata un’azione razzistica e antie­braica ». Inequivocabile la con­danna: «Quel che accade in­nanzi ai nostri occhi stupiti in molta parte del mondo esce fuori da tutti i sentimenti e i costumi nei quali gli uomini della mia generazione furono educati».
Hammar ricevette la lette­ra, ma non la rese nota. Croce però, scrive Annalisa Capri­sto, «era estremamente deter­minato a far sì che la sua pre­sa di posizione fosse resa pub­blica ». Nel timore che la cen­sura postale avesse bloccato la missiva, chiese a due amici ebrei, che stavano per lascia­re l’Italia, di contattare Ham­mar. Il primo, Paolo Treves, si limitò a scrivere allo svedese; il secondo, Chaim Wardi (let­tore d’italiano all’Università ebraica di Gerusalemme), fe­ce lo stesso e in più si adope­rò per diffondere il testo di Croce nella Terrasanta sotto mandato britannico.
Fu così che la lettera del fi­losofo uscì sul «Palestine Post», quotidiano di Gerusa­lemme in lingua inglese, il 2 ottobre 1938. E venne ripresa il 21 dicembre dal giornale «Il Tevere», diretto dall’antisemi­ta Telesio Interlandi, che accusò Croce di essersi schierato «coi nemici dell’Italia». Ne seguì un certo cla­more sulla stampa in­ternazionale. Più tar­di il filosofo ripubbli­cò la lettera nelle Pa­gine sparse , con varianti che inasprivano la denuncia. Era­no gli inizi del 1943: con la Shoah in corso e Mussolini ancora al potere, Croce non si rassegnava a tacere.

domenica 8 novembre 2009

l’Unità 8.11.09
Bersani in sella, inizia la sfida: «Partito nuovo per l’alternativa»
Le lacrime di Rosy presidente «Un grande riconoscimento»
Il vincitore delle primarie proclamato segretario: guardare avanti, senza nostalgie
Le defezioni non mi piacciono, ma il Pd non lascia alcun fronte scoperto
di Simone Collini


Prima iniziativa, un’assemblea di amministratori Pd e non sul federalismo fiscale: «La Lega racconta favole, noi non staremo zitti». Sfida alla destra sulle riforme: bicameralismo, costi della politica, legge elettorale.

«Vi spiego subito e con chiarezza i nostri essenziali compiti: costruire il partito, preparare l’alternativa». Pier Luigi Bersani lascia zero spazio alla retorica e di fronte all’Assemblea nazionale del Pd che lo proclama segretario chiede impegno e assunzione di responsabilità, indica la rotta avvertendo che ora «partono alcune correzioni a quello che abbiamo visto fin qui», che «organizzazione e apertura alla società si tengono» e che è «inutile cercare scorciatoie» perché altrimenti si sfocia nel «populismo». Se c’è ancora chi teme passi indietro, Bersani ribadisce ai mille raccolti alla Fiera di Roma (e non solo) che non ha «nessuna nostalgia» del passato e che «il nuovo da costruire» sarà un Pd che si rivolgerà «a tutta l’area del centrosinistra, senza trattini o distinzioni di ruoli». E se c’è chi come Rutelli è andato via senza neanche aspettare le sue prime mosse, dice: «Le defezioni non fanno mai piacere, ma noi non abbiamo fronti scoperti, abbiamo una ricchezza di culture per tutta l’area del centrosinistra».
SFIDA ALLA DESTRA SULLE RIFORME
Eccolo il nuovo segretario del Pd, che per mezz’ora parla di temi economici ed entra nel dettaglio delle misure che aiuterebbero a far superare la crisi («non è alle spalle, serve
Eccolo il nuovo segretario, che si presenta tutto concretezza e niente tatticismi e poi si blinda sul fronte ex-Ppi tra Bindi presidente, Letta vicesegretario e Franceschini capogruppo, che affida la cassa del partito a un collaboratore del Nens (l’associazione fondata insieme a Visco) come Antonio Misiani. E che promette «un partito plurale» ma ad eventuali male intenzionati anticipa anche «meccanismi centripeti e coesivi propri di ogni associazione» per evitare il rischio dell’«anarchismo e la feudalizzazione». Insomma, non mancherà «assoluta libertà di espressione», ma il nuovo statuto la bilancerà con l’esigenza di «preservare autorevolezza e univocità delle posizioni del partito».❖

Marco Pannella a Pierluigi Bersani: il tuo caldo e tremendo equivoco...
Dichiarazione di Marco Pannella:


Discorso davvero splendido e ricchissimo quello che da Radio Radicale l’Italia ha potuto ascoltare da Pierluigi Bersani (rtsp://video-1.radioradicale.it/store-4/2009/20091107_11.15.24.mp3). Un solo, drammatico se non pestilenziale, limite: Bersani pensa e parla come se avesse dietro di sé non la politica partitocratica, per cinquant’anni, del comunismo organizzato italiano, nelle sue varie edizioni, ma come se avesse dalla sua la storia immensa di cent’anni di “Giustizia e Libertà”, di componente liberale della sinistra europea, in una parola persino il presente ideale ed esistenziale del Partito Radicale e della sua diaspora. Noi non mettiamo in discussione la personale onestà intellettuale di Bersani: tutt’altro! Ma, poche parole, il suo rischia di essere oggettivamente copertura di una espressione della vera, attuale, Peste Italiana che insidia di nuovo il mondo, in primo luogo l’Europa.
Nella candidatura assolutamente berlusconiana di Massimo D’Alema a posizione di assoluto rilievo e potere nell’Unione europea, non v’è che la parte terminale di un lungo percorso berlusconiano e d’alemiano, e di una verità così chiara da essere accecante per troppi, quasi per tutti: la regia berlusconiana e il convergere “strategico” del leader democratico D’Alema stanno per arrivare ad una tappa finale, foriera di un epocale disastro politico e istituzionale.
Dalla metà degli anni ’90, gli episodi di questo sottotraccia della struttura e del percorso del Regime monopartitico italiano sono stati, ad esempio, ripeto: ad esempio, volti ad impedire dell’affermarsi della volontà popolare italiana di portare alla Presidenza della Repubblica nel 2000 Emma Bonino. La candidatura di Massimo D’Alema ha oggi la forza esclusiva e determinante del potere di Berlusconi e della sua proclamata ossessivamente “italianità”.
Rischia di trionfare, e per lo stesso Bersani rischia di esplodere come una seconda tragica illusione ed errore. Ma anche lui come per ora tutta la “Democrazia” (sic!) italiana, riedizione profonda di quell’”Unità Nazionale” che di già portò agli anni più tragici della seconda metà dei settanta e della prima metà degli ottanta il nostro Paese, sicché l’imperativo, tanto assoluto quanto celato, è, oggi come negli anni ’30 in Europa, eliminare, rendere inconoscibile al popolo la grande lotta, la grande Resistenza liberale contro lo tsunami fascista, nazista, comunista che, trionfante, temeva solo quella parola, quel pensiero, quella lotta. Oggi, amico e compagno Bersani, anche, persino per te, non deve esistere, deve essere assassinata.
E negli ultimi tre anni la storia del Partito Democratico sta riuscendo, pare, a essere lo strumento, il killeraggio necessario al Sessantennio partitocratico per continuare il suo tragico cammino, la sua tragica dittatura.
Voglia Iddio (al contrario del Vaticano) che questo disegno, come in gran parte degli anni ‘70, non vi riesca. So benissimo che tu e il tuo popolo non vorreste andare fino in fondo nel tentativo allora, fallito. Ma, davvero, so che tu credi di rappresentare, di avere dietro di te e di voi, non la vostra storia ma la nostra.
Noi Radicali – ripeto: Radicali – lotteremo per il possibile contro il probabile, per continuare per altri cinquant’anni a rendere sempre più viva e forte l’alternativa democratica, federalista, laica, liberale, nonviolenta. Anche per te e per voi.

Repubblica 8.11.09
Rivoluzione copernicana nel Pd" D'Alema "benedice" il segretario
di Goffredo De Marchis


ROMA - In prima fila, accanto al corridoio centrale. Massimo D´Alema occupa la sua poltronissima giù dal palco, sempre la stessa da quando è nato il Pd. Quella del dirigente senza incarichi, ma alla quale tutti guardano per vaticinare il futuro del centrosinistra. Da lì oggi vengono sorrisi e disponibilità. Al microfono della nuova Fiera di Roma, opera veltroniana e teatro degli appuntamenti democratici fin dagli esordi, sta parlando il neosegretario Pierluigi Bersani, il suo candidato. Missione compiuta, dunque. Partito riconquistato. «Nel discorso di Pierluigi vedo una rivoluzione copernicana», commenta l´ex ministro degli Esteri.
Lo convince il tono generale. Lo convincono alcuni passaggi-chiave. «Può nascere finalmente il Pd che parla al Paese, che si occupa dei temi concreti, quelli che toccano la vita dei cittadini», dice D´Alema giocando con un pezzetto di carta. Ma non parlava ai cittadini anche un partito del 33 per cento? Non erano quelli voti in carne e ossa? D´Alema scuote la testa: «Abbiamo preso il 33 per cento, poi siamo caduti precipitosamente verso soglie molto più basse. Non è una mia opinione. Sono numeri, dati di fatto. Qualcosa non funzionava, è evidente». Il confronto con la maggioranza così come lo ha declinato Bersani, esemplifica il superamento definitivo dell´era veltronian-franceschiniana. Una nuova fase dell´opposizione. «Su questo Pierluigi è stato perfetto. Il problema non è dialogo sì dialogo no. Il problema è: dialogo su che cosa. Su quali materie, su quali proposte. Il Pd ha le sue. Quali sono quelle del centrodestra? Vale lo stesso ragionamento sulla giustizia. Dobbiamo uscire dalla contrapposizione tra chi è pro magistrati e chi è contro. Dobbiamo metterci nell´ottica dei cittadini, di quello che serve a loro. Come ha fatto Bersani».
La testa è da un´altra parte, alla corsa per la carica di ministro degli Esteri europeo. Ma D´Alema rispetta la liturgia. Si alza solo per salutare le signore. Ascolta tutti gli interventi e li sottolinea con un´irrefrenabile mimica facciale. Si allontana, e salta alcune votazioni finali, solo per una misteriosa e lunghissima telefonata in inglese. Manifesta inedite simpatie. Pippo Civati, della mozione Marino, gli piace: «Ragazzo in gamba». Però i leader politici sono come gli elefanti. E D´Alema non dimentica le accuse di correntismo ricevute da quel fronte. «Facciamo un gioco. Se Marino è il primo a congratularsi con Civati significa che sono una corrente, giusto?». Civati scende dal palco, il senatore-chirurgo scatta dalla sedia e si affretta a stringergli la mano. «Visto...», esclama D´Alema con un sorrisetto. Conferma antiche freddezze. La memoria pachidermica si applica anche a Debora Serracchiani. Senza perdono. L´eurodeputata gli ha dato dell´antipatico, poi il voto: un bel cinque. Ma è brava, no? D´Alema fulmina con lo sguardo: «Ci siamo presentati dieci minuti fa, non la conosco abbastanza».
Ora che l´ennesimo segretario prende il timone il pericolo è che il Pd cominci subito a divorarlo. Bersani resisterà, ha davvero la stoffa del leader? «Penso proprio di sì - risponde D´Alema -. Ma la certezza ce la darà il suo lavoro, la prova del budino si fa mangiandolo. E le leadership si misurano sul campo». Dell´intervento di Dario Franceschini, l´ex segretario che si era candidato contro «quelli che c´erano prima», cioè D´Alema, apprezza le conclusioni. «Farsi carico di una responsabilità collettiva anche nei momenti difficili non appartiene solo alla demagogia, alle frasi di circostanza. Non adesso almeno perché il Pd è atteso da elezioni regionali complicate e mancano solo cinque mesi. Significa che se le cose non andassero bene, un pezzo del partito non punta a mettere in discussione il segretario subito dopo. Non si ricomincia daccapo».
Dove sarà lui tra cinque mesi è il problema di cui D´Alema si occupa pancia a terra da settimane. Mostra il palmare e dice: «Qui c´è tutto quello che occorre sapere sulla corsa a Mr Pesc. Anche un messaggio del ministro degli Esteri polacco. Ho fatto pace con loro». L´esternazione dell´ambasciatore di Polonia a Bruxelles contro il suo passato comunista è ormai un caso chiuso. Ma sono altri i problemi. D´Alema lo sa bene: «La Gran Bretagna aspira a una delle due cariche, presidente stabile della Ue o ministro degli Esteri. Dopo il no a Blair è difficile per l´Europa dire di no una seconda volta. Si rischia di alimentare il sentimento antieuropeo degli inglesi già piuttosto diffuso». Questo è lo scoglio più grande. Gli equilibri della geopolitica, non la caratura degli avversari. D´Alema non smette di fare la sua partita, anche se «arrivare secondi è peggio che arrivare sesti». Racconta alcuni particolari del suo lavoro diplomatico: «Se Blair fa qualche telefonata alle cancellerie europee anch´io sto facendo le mie. È vero che la questione interessa le famiglie politiche, ma parlare con i leader è necessario. Decide il Consiglio europeo, sono loro che siedono lì». E l´ultimatum lanciato dal Partito socialista europeo ai laburisti inglesi («ora basta, dateci un nome») aiuta fino a un certo punto.
Domani D´Alema è atteso a un convegno a Palermo. Poi comincia il rush finale. «Da martedì sono in stand by, controllo gli sviluppi e sono pronto anche a muovermi, vediamo in quale direzione...», dice alludendo a un possibile viaggio all´estero. Si sente coperto sul fronte italiano. Non ha dubbi sull´appoggio pieno di Berlusconi. E protegge questa carta. Perciò non fa polemiche, si fida anche di Antonio Tajani, commissario uscente del Pdl che certo non sta con le mani in mano per ottenere la riconferma: «Si sta comportando in maniera esemplare. Finora è stato correttissimo».

Corriere della Sera 8.11.09
Bersani lancia il Pd (ma riparte dal via)
di Paolo Franchi


Costruire l’alternativa, costruire il partito. Non sono affatto scontati, i due obiettivi sui quali Pier Luigi Bersani ha centrato il suo discorso di investitura davanti all’assemblea nazionale del Pd. Anche perché, indicandoli così esplicitamente, il nuovo segretario ha voluto significare che, allo stato, non si vedono con la necessaria chiarezza né l’una né l’altro; e che per cercare di metterli a fuoco occorre lavorare sodo.
Lavorare cominciando con il la­sciarsi risolutamente alle spalle anche molte ambiguità (e alcune autentiche sciocchezze) del passato recente e me­no recente.
Il più antiberlusconiano di tutti è chi riesce a mandar via Berlusconi, aveva detto nelle settimane scorse, da quell’emiliano realista che è. E ieri a Silvio Berlusconi e al centrodestra ha concesso poco o nulla. Ma non se ne è lasciato neanche dominare. Il fanta­sma ingombrante del presidente del Consiglio non ha aleggiato più di tan­to sulla fiera di Roma: Bersani non ha fatto in alcun modo ricorso a un anti­berlusconismo puro e duro che gli è estraneo politicamente e culturalmen­te, convinto com’è che, per questa strada, il Pd non andrebbe da nessu­na parte, e anzi continuerebbe ad esse­re esposto a condizionamenti e intru­sioni esterne. Le radici della sconfitta del centrosinistra e della sinistra stan­no, per Bersani, nella separazione, che rischia di diventare incomunicabi­­lità, tra questione democratica e que­stione sociale. Ha cercato, quindi, di indicare, assieme a una serie di ragio­nevoli riforme istituzionali, i temi eco­nomici e sociali su cui far leva, nella crisi, per una opposizione che voglia diventare domani governo, e i princi­pali soggetti sociali ai quali a suo giu­dizio un partito magari non socialde­mocratico, ma popolare sì, deve fare riferimento se intende avere un futu­ro. E ha ufficialmente archiviato il tempo della «vocazione maggiorita­ria », impegnando il suo partito, che è di gran lunga la principale forza di op­posizione, ma certo non l’unica, ad ac­corciare le distanze con tutti gli inter­locutori possibili, dall’Udc a una parte importante della sinistra non rappre­sentata in Parlamento; e chiamando tutti gli interlocutori in questione a fa­re, per la parte che loro compete, al­trettanto.
Forse questo è troppo poco, anzi, si­curamente lo è, per chi si aspettava che ieri cominciasse a prendere for­ma qualcosa di simile a un progetto riformatore compiuto, a un program­ma di governo e, prima ancora, a un’idea di Paese nitidamente alterna­tivi rispetto a quelli sui quali il centro­destra piaccia o non piaccia ha costru­ito la sua egemonia. Ma, sempre che fossero sincere, aspettative simili era­no a dir poco eccessive. Da Bersani era lecito attendersi realismo politico (non è una parolaccia) e uno sforzo per rimettere il Pd con i piedi per ter­ra. E questo innegabilmente ha fatto. Anche a proposito dello stato di salu­te di un partito, il suo, che, sin dai suoi primi vagiti, si è preteso nuovo, anzi, nuovissimo, ma è risultato sin qui a lungo afflitto da un’identità in­certa (è un eufemismo) e da un radica­mento nella società assai esile (ed è un eufemismo anche questo). Bene il voto degli iscritti, bene le primarie. Ma il partito nuovo, ha detto, è in lar­ga misura da costruire, e la lunga sta­gione dell’incertezza e del vuoto di re­gole ha esposto il Pd, in molte realtà, a un rischio assai concreto di «anar­chismo » e di «feudalizzazione», non­ché di comportamenti personali inac­cettabili, più pericoloso ancora delle defezioni che pure non sono mancate e non mancheranno. Difficile dargli torto. Facile, invece, pronosticare che, in tempi in cui i richiami alla di­sciplina e ai codici etici valgono quel­lo che valgono, quello di costruire un partito «vero» sia, tra i tanti compiti che attendono Bersani, il più difficile.

l’Unità 8.11.09
Intervista a Shulamit Aloni
«Colpa di Israele le dimissioni di Abu Mazen»
L’ex ministra di Rabin: «La scelta del presidente dell’Anp non è affare palestinese Netanyahu ha ucciso ogni speranza di pace»
di U.D.G.


uNo, la rinuncia di Abu Mazen non è un affare interni ai palestinesi, come ipocritamente affermano i gover-
nanti del mio Paese. La sua rinuncia a candidarsi per le elezioni presidenziali del 24 gennaio è anche, direi soprattutto un “affare” di Israele, perché sono stati i “nostri” governanti ad affossare la sua leadership, con la loro politica scellerata, irresponsabile, che ha svuotato di ogni significato concreto la parola “negoziato””. A denunciarlo è una delle figure storiche della sinistra laica e pacifista d’Israele: Shulamit Aloni, scrittrice, fondatrice di Gush Shalom (Pace Adesso), più volte ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres.
“Un affare interno ai palestinesi”. Così il vice ministro degli Esteri israeliano, Dany Ayalon, ha commentato la decisione del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) di non ricandidarsi alle elezioni del 24 gennaio. «Trovo di una ipocrisia ributtante questa affermazione di Ayalon. Israele c’entra e come in questa decisione di Abu Mazen. C’entra perché ha sabotato ogni possibilità di giungere ad un compromesso accettabile con i palestinesi. C’entra perché la colonizzazione dei territori occupati, lo strangolamento di Gaza, i crimini commessi nel corso dell’operazione “Piombo Fuso” nella Striscia, hanno tagliato le gambe ad una dirigenza palestinese che ha provato a raccontare alla sua gente che poteva esistere un’alternativa alla lotta armata e al terrorismo per veder riconosciuti e realizzati i propri diritti. Israele ha ucciso questa speranza. Ma d’altro canto cosa ci si poteva attendere da un governo che ha scelto come ministro degli Esteri, un pericoloso oltranzista, un estremista di destra come Avigdor Lieberman? Un governo in cui la maggioranza dei suoi membri considerano Barack Obama un nemico di Eretz Israel (la Terra d’Israele, ndr)?». In un suo recente scritto, lei ha lanciato un grido d’allarme sullo stato della democrazia in Israele, che ha scatenato un mare di polemiche. «Non recedo di una virgola da quell’atto di accusa. L’ho maturato con la morte nel cuore ma a ragion veduta. Ho combattuto nell’Haganah per avere uno Stato ebraico in Palestina, ed ora mi ritrovo con uno Stato colonialista, con una democrazia scivolata sempre più verso una china pericolosa: quella di una etnocrazia. Non ci sto, ho vergogna di questi governanti che, in nome della sicurezza, distruggono vite e ogni nostro valore umano. Oggi, nello Stato di Israele, la democrazia esiste solo in senso formale: ci sono partiti ed elezioni e un buon sistema giudiziario. Ma c’è anche un esercito onnipotente il quale ignora le decisioni legali che limitano il furto di terra posseduta e coltivata da gente che durante gli ultimi 42 anni ha vissuto sotto occupazione. D’altro canto, quando si comincia a parlare di “guerra giusta”, il razzismo dilaga e la rapina viene chiamata “restituzione di proprietà. L’amara verità è che oggi Israele è ostaggio del fanatismo religioso e da un ultranazionalismo che pensa di poter risolvere con la forza la questione palestinese. È straziante, ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia soggetta a un ordinamento “ebraico e democratico”».
I suoi contestatori le risponderebbero che Israele è una “democrazia in trincea” e che è costretto ad usare la forza per tutelare la propria sicurezza”.
«Non si può essere al sicuro opprimendo un altro popolo. Questa è una tragica, oltre che vergognosa, illusione per un Paese che si vuole democratico. Tutto questo ha tanto a che vedere con la decisione di Abu Mazen».
Le sue denunce si avvicinano a quelle dell’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che per le sue posizioni è stato aspramente criticato dalle autorità israeliane.
«L’attacco dell’establishment ebraico a Carter si fonda sul fatto che questi ha osato dire la verità che è nota a tutti: tramite l’esercito, il governo di Israele pratica una forma brutale di apartheid nel territorio che occupa. L’esercito ha trasformato ogni villaggio ed ogni cittadina palestinese in un campo di detenzione recintato o bloccato; tutto questo per tenere d’occhio gli spostamenti della popolazione, e rendere loro la vita difficile in Cisgiordania, e impossibile a Gaza».❖

Repubblica 8.11.09
Uomini contro
Theo Angelopulos
di Mario Serenellini



Per tutta la sua vita da regista ha teso trappole al tempo che passa. Il tempo ibernato nel marmo della sua Grecia e quello del Novecento che ha vissuto da protagonista. E oggi che l´Europa affonda nella sua mancanza di identità, ripete: "Siamo sempre alla storia di Omero, all´Odissea, si decide di partire e si finisce per tornare. Anche se non si sa, alla fine, se si è tornati davvero"
Credevamo che saremmo rinati a nuova vita, ma tutto quello che ci aspettavamo di fare e di ottenere è precipitato Non siamo riusciti a cambiare il mondo

MONTREAL . «Tutto esiste già prima di un film: linee, forme, ritmi, la musica che ci portiamo dentro. Realizzare un´opera d´arte significa ritrovare questo tutto preesistente. Non al cinquanta per cento, altrimenti è un fallimento, ma al cento per cento». Nel suo quasi mezzo secolo di cinema, Theo Angelopoulos ha ogni volta cercato d´inghiottire per intero quel tutto e, film dopo film, di riconsegnarcelo intatto: non solo negli intrecci spaziali, ma nella sua anima più intima e inafferrabile, il tempo. Angelopoulos, per tutta la vita, ha teso trappole al tempo. Contraendolo in simultaneità visionarie («Il passato è solo il presente in altra forma», dice, citando Brecht) o, talvolta, cogliendolo di sorpresa, strappando alla sua immutabile, regolata macina d´ore supplementi inattesi, tipo L´eternità e un giorno. Tutto, nel cinema di Angelopoulos, è tempo e oltre il tempo, come quel giorno in più, aggiunto a un cronologico infinito.
In La recita, il film di quattro ore che nel 1975 l´ha introdotto trionfalmente nel nuovo cinema europeo, quattordici anni di storia nazionale (1939-1952) diventano un viavai tra teatro, politica e vita privata, scheggia di memoria collettiva da Elettra a Hitler, dalla Resistenza all´occupazione angloamericana. Memoria che si amplifica nei film successivi, da Viaggio a Citera a Un paesaggio nella nebbia, a Lo sguardo di Ulisse, disponendo i tasselli di ieri sempre più lontani e di domani incombenti in un eterno presente: «In Grecia il passato è solido marmo, è presente sempre, sin dalla nascita, sia nella gente comune che nei poeti, come Kavafis, Seferis, che non han fatto che dialogare con l´antichità. Nel mio nuovo film, La polvere del tempo, è come se il tempo non esistesse e tutto fosse al presente. Come scrive Eliot, il tempo non è passato né futuro ma presente: il presente è il futuro al passato».
Proiettato a Montreal al Festival des Films du Monde, dopo la partecipazione alla Berlinale, secondo episodio dell´ennesima trilogia sui "sogni infranti", aperta nel 2004 da La sorgente del fiume, il film è una saga visiva sulla perdita di ogni illusione di un mondo migliore, riassunta dalla sequenza glaciale, all´alba del Duemila, della neve che cade silenziosa su una Berlino deserta e un´era consunta. La polvere del tempo, coprodotto dall´Italia, è un nuovo, lungo viaggio dentro la storia, dilatato al Novecento più sanguinoso e cieco, nazismo, Stalin, Vietnam, fino alla caduta del Muro di Berlino.
«Sono un maratoneta del cinema», scherza il regista greco, accolto dal pubblico canadese con una standing ovation alla prima del film. «A Maratona ho la mia casa di campagna, scampata di poco all´incendio che ha devastato la nostra estate. I miei film sono percorsi tenaci, senza traguardi possibili, dentro il mio secolo, devastato da altri incendi, altre tragedie. Il Novecento è la mia storia. Sono nato ad Atene il 27 aprile 1935 e mi sono trovato faccia a faccia con la prima dittatura in Grecia, quella del generale Matexas. Trentadue anni dopo, golpe e regime Papadopoulos. Poi, la destra di Karamanlis. Ora riecco Papandreu, che però non ha nulla a che fare con la politica di suo padre. Ogni volta, impossibile rimanere solo spettatori: sono avvenimenti di cui abbiamo subìto ogni minima conseguenza, i greci, la mia famiglia, io. La mia vita s´è iscritta in questa vergogna, come quella di mia madre, delle nostre famiglie: ecco la storia, la nostra e quella degli altri».
La sua, in particolare? «Ad Atene ho seguito i corsi di diritto, ma senza l´ambizione di divenire avvocato. È stato solo un modo di congelare l´attesa, prima di partire. Mi sono sorbito anche il servizio di leva: due anni. È stata la prima volta che mi sono sentito lontano dalla Grecia, Paese di luce, dove, secondo i più allettanti slogan turistici, il sole splende sempre. Da soldato, sono stato sballottato in posti senza sole, senza amici, ricoperti di neve e solitudine». La fuga? «A venticinque anni. Sono partito con il biglietto in tasca: e nient´altro. Sono arrivato a Parigi, nel 1960, in piena Nouvelle Vague, utopia di cinema, di cultura, di politica. Ognuno aveva l´impressione che tutto sarebbe cambiato, che saremmo rinati a nuova vita».
E invece? «Quel che oggi gli spettatori apprezzano nel mio cinema, cioè l´afflato poetico, un lirismo estenuato, è solo un profondo senso di disillusione: tutto quel che ci aspettavamo di fare e di ottenere è precipitato, non siamo riusciti a cambiare il mondo. Anche La polvere del tempo, come i film precedenti, è una dichiarazione di disfatta: se il pubblico non lo percepisce, è perché, come diceva François Truffaut, il cinema è sempre meno di quel che abbiamo voluto dire. In quella Parigi di paradiso, ho trascorso quattro anni, seguendo corsi di letteratura e antropologia alla Sorbonne e studiando cinema all´Idhec, dove ho conosciuto Jean Rouch. Sono tornato in Grecia nel 1964, critico cinematografico d´un quotidiano di sinistra, Allaghi, chiuso tre anni dopo dai colonnelli».
Spezzata la stagione di critico, inizia quella di cineasta, già assaggiata con un paio di corti e prove d´attore. «Sono passato dietro la cinepresa per fare politica sotto forma di cinema, con ampio ricorso, dati i tempi, alla metafora. Sin dal primo titolo, nel 1970, Ricostruzione di un delitto, girato con una manciata di soldi, in bianco e nero, in acrobatica clandestinità, ho inserito numerose allusioni alla Grecia contemporanea. Prima proiezione, al Forum della Berlinale, dove l´ho portato senza permesso, le pizze nascoste in una valigia di metallo. In Grecia, dove ho poi partecipato al Festival di Salonicco, sono rientrato senza più preoccuparmi di occultare le pizze. La condizione di clandestinità che ha segnato le riprese di vari miei film, l´ho trovata sempre eccitante: avevo l´impressione di prender parte, in altro modo, alla Resistenza. Sensazione captata da alcune scuole di cinema, come prova il giudizio espresso da Andrzey Wayda quando ha visto La recita a Parigi: "È fondamentale che il film sia stato girato in clandestinità, costruendosi all´interno di sé"».
Clandestino è oggi l´allarme d´una realtà più cruda, che non riguarda più il cinema ma la nostra quotidianità, in Italia come in Grecia. «Il mio Paese non è l´ultimo approdo, ma solo una tappa dell´immigrazione che si rovescia sull´Europa. Da noi arrivano dalla Turchia, in fuga soprattutto dall´Afghanistan, esodo iniziato quando gli Usa vi hanno portato la guerra. Sono soprattutto i giovani che partono, per non morire nel proprio Paese. Purtroppo, è stato ora distrutto un villaggio di rifugiati a Patrasso, punto di partenza, magari su camion di trasporto merci dove i clandestini spesso soccombono, per l´Italia e altri paesi del miraggio-Europa. È l´Unione Europea che dovrebbe intervenire, affrontando il problema di questi viaggi della morte, stabilendo regole precise contro le attuali allergie razziste agli sbarchi».
Il suo cinema è stato subito sensibile a queste emergenze. «Come ignorarle? Stiamo attraversando un periodo di grandi immigrazioni, come nel Medioevo. Fin dal 1991, con Il passo sospeso della cicogna, ambientato in un villaggio straripante di rifugiati, alla frontiera di due paesi immaginari, ero ricorso al paradosso per mostrare l´assurdo delle divisioni artificiali, razziali, religiose, politiche, tra gli uomini, facendo unire in matrimonio gli sposi, uno al di qua, l´altro al di là del confine. L´idea m´era venuta durante un viaggio a New York, quando ho visto nel Bronx due neri che in perfetta sincronia danzavano ai due lati opposti d´una strada. Ciò mostra tra l´altro l´imprevedibilità dell´ispirazione. Occorre avere sempre occhi aperti e mente sveglia: solo se si è ricettivi si riceve».
Non è anche Angelopoulos, con i suoi viaggi continui, gli espatri, gli andirivieni grande schermo tra miti antichi e realtà contemporanea, un uomo diviso, di frontiera? «Non ho mai lasciato davvero la Grecia, se non per studi o per lavoro. Viaggio molto, è vero, ma in una maniera che definirei brutale: due giorni in un posto, e via. Attraversare un paese: l´espressione abituale per definire un viaggio va presa, nel mio caso, alla lettera. La mia identità è dunque integra. Ma da rivedere alla luce di quel che mi hanno fatto capire in Sardegna, quando ho presentato Alessandro il Grande all´Università di Cagliari: "Non c´è Grecia, non c´è Italia, non c´è Spagna né Francia, c´è il Mediterraneo. Quel che conta è l´affinità di temperamenti". Dunque, dovrei definirmi, prima ancora che greco, meridionale. Sarà per questo che mi sono divenuti subito familiari, quasi fratelli, gli attori italiani con cui ho lavorato, Omero Antonutti, Marcello Mastroianni, Gian Maria Volonté, e il mio sceneggiatore del cuore, Tonino Guerra. E sarà soprattutto per questo che un caffè così, non riesco proprio a berlo!», ride Angelopoulos, fissando il suo espresso canadese, derelitto sul fondo d´una tazza gigante.
Il suo cinema non è anche una risposta a questo caffè, ibrido clone? Attento alle ferite del distacco, della distanza, spaziale e temporale, non è un cinema d´esilio, magari interiore? «Heidegger dice che la nostra identità è la lingua di nostra madre. Ma anche l´aroma dell´infanzia, i suoni, i visi, i profumi, contribuiscono a creare un´identità, che non è, si voglia o no, quella dichiarata. Siamo sempre alla storia di Omero, all´Odissea: si decide di partire e si finisce per tornare. Anche se non si sa, alla fine, se si è tornati davvero».

Corriere della Sera Salute 8.11.09
Primi vagiti
Alla nascita sappiamo già la lingua
I neonati «strillano» con l’intonazione della lingua parlata dai genitori
di Luigi Ripamonti


Forse è vero che non si finisce mai di imparare, ma certamente si inizia molto prima di quanto si creda. A confermarlo ci pensano due studi su apprendimento e intelligenza fetali.
Il primo arriva dall’università di Würzburg, e, forte dell’analisi di 60 neonati francesi e tedeschi, postula che i futuri bambini abbiano un ottimo «orecchio» ben prima di vedere la luce. Talmente buono da assimilare l’intonazione della voce dei propri genitori sin dal terzo trimestre di gestazione e da imparare a imitarla coi propri vagiti. In altre parole i neonati tedeschi, una volta nati, strillerebbero con un'intonazione decrescente «teutonica», mentre quelli francesi si farebbero sentire «in levare», riproducendo in qualche modo l'inflessione della lingua d'oltralpe. Solo una curiosità?
Niente affatto, perché il rilievo confermerebbe altri studi che indicano quanto i bambini siano sensibili agli stimoli provenienti dal mondo esterno, linguaggio compreso.
Il secondo studio sulle «facoltà intellettuali precoci» del feto è invece firmato da Irena Nulman dell'Hospital for Sick Children di Toronto, e può consolare le mamme maggiormente vessate dalle nausee gravidiche. Secondo la ricerca, infatti, il disturbo in questione potrebbe essere il segnale che il bebè è destinato ad avere un alto quoziente di intelligenza.
Per arrivare a questa conclusione la dottoressa Nulman e i suoi colleghi hanno eseguito vari test su tre gruppi di bambini tra i 3 e i 7 anni e fra questi, quelli le cui mamme avevano sofferto di nausea durante la gestazione hanno dimostrato in vari ambiti cognitivi (linguistico, matematico etc) performance migliori. Non si sa da che cosa dipenda questa correlazione, ma è certo che i bambini più 'vivaci' si fanno sentire molto presto. E magari quelli meno «sopportabili» sono quelli che daranno le maggiori soddisfazioni

Corriere della Sera Salute 8.11.09
Medicina forense. Sentenza italiana discussa in tutto il mondo
I colpevoli del crimine sono i geni «cattivi»?
Riduzione di pena grazie all’analisi del Dna
di Daniela Natali


Il caso. L’omicida, la vittima, il giudice
La vicenda assomiglia a tante che si meritano solo poche righe sui giornali, ma in questo caso qualche dettaglio va dato. Un cittadino algerino (la nazionalità va precisata per meglio capire i fatti), da molti anni in Italia, con pregressi ricoveri per problemi psichiatrici, musulmano fervente, solito truccarsi col kajal gli occhi (per 'motivi religiosi', dichiara), viene irriso da un boliviano che lo definisce gay.
L’algerino, offeso, si allontana, ma solo per procurarsi un coltello.
Ritornato sui suoi passi, colpisce non chi lo aveva insultato ma, per sbaglio, una persona che gli somiglia. L’accoltellato muore.
In prima istanza, all’uccisore viene comminata, principalmente per effetto delle attenuanti generiche e per la riconosciuta parziale infermità di mente, una pena di nove anni e due mesi. Si va all’Appello, su richiesta della difesa che lamenta come al condannato non sia stato concessa la massima riduzione delle pena prevista in caso di seminfermità mentale. Il giudice chiede un’ulteriore perizia psichiatrica.
In base a questa nuova documentazione, il magistrato decide di dare il pieno sconto della pena all’imputato, e la reclusione comminata scende così da 9 anni e due mesi a 8 anni.
Ha sottolineato l’avvocato del condannato: «Il mio cliente era chiaramente una persona malata e qualsiasi cosa potesse consentire al giudice la migliore valutazione possibile andava investigata».

Un lungo articolo su una ri­vista scientifica, Nature , ri­chieste di interviste perfino dalla Corea e dal Giappone: dif­ficilmente una perizia pschia­trica suscita un clamore inter­nazionale, questa lo ha fatto. E la sentenza è italiana. La ragio­ne di tanto rumore? Motivan­do la decisione di ridurre di un terzo la pena a un omicida (vedi box), la Corte d'Appello di Trieste ha fatto riferimento a una perizia in cui si docu­mentavano le caratteristiche neuronali e genetiche, correla­te al vizio di mente dell’impu­tato, che lo avrebbero reso più incline a sviluppare comporta­menti aggressivo-impulsivi. Da qui a titolare su un giorna­le spagnolo: 'Pena ridotta. Non è colpa sua, ma dei suoi geni' c'è voluto poco.
«Le cose non stanno così— ribatte Giuseppe Sartori, do­cente di neuroscienze cogniti­ve e di neuropsicologia clinica all'Università di Padova, uno dei due autori dello studio —. La riduzione della pena è stata data sulla base di una perizia che comprendeva 'anche' un' analisi genetica».
Eppure Nature osserva, cri­ticamente, che mai finora una valutazione genetica aveva in­fluenzato così una sentenza... «Questa non è la prima volta in cui usiamo 'la cassetta degli attrezzi' delle neuroscienze ­genetica più tecniche di ima­ging e neuropsicologia - , è pe­rò vero che mai una sentenza aveva fatto riferimento in mo­do così esplicito al contributo della genetica. Ma se il giudice della Corte d'Appello si è rivol­to a me, e al collega Pietro Pie­trini, era perché voleva qualco­sa in più rispetto alle perizie presentate in primo grado ­che pure avevano accertata la seminfermità mentale - , qual­cosa che le oggettivasse mag­giormente. Chiariamo però: la perizia è servita per inquadra­re in modo più preciso l'infer­mità dell'imputato e non per giustificare deterministica­mente il reato». Come si è svolto l'esame? «Intervista clinica e test psico­diagnostici, che ci hanno per­messo di confermare un qua­dro psicotico. E poi: esame neuropsicologico con cui ab­biamo diagnosticato livello co­gnitivo basso, deficit d'atten­zione, impulsività».
Passaggio ulteriore? «Riso­nanza magnetica e risonanza funzionale: abbiamo esamina­to il paziente mentre si sotto­poneva a un test che valuta la capacità di bloccare le azioni impulsive e abbiamo visto che le carenze nel rispondere al test erano accompagnate da un'alterata funzione frontale ti­pica dei quadri psicotici — spiega Sartori —. È stata una conferma oggettiva di quanto già diagnosticato. Noi doveva­mo escludere ogni possibilità di simulazione: il paziente di­ceva di sentire gli angeli, co­me sapere se mentiva? Per escluderlo l’occhio clinico non basta, servono anche neuroi­maging e genetica».
Genetica: la parola a Pietro Pietrini, psichiatra e ordinario di biochimica clinica all'uni­versità di Pisa. «Non vedo per­ché scandalizzarsi per questo ricorso a un'indagine sul DNA. Come la genetica ci serve per individuare meglio una patolo­gia, o per impostare trattamen­ti farmacologici diversi per persone geneticamente diver­se, può venirci in aiuto in un' aula di tribunale».
Su quanti geni avete indaga­to? «Cinque. Due legati alla tra­smissione serotoninergica che regola il tono dell'umore e due per il metabolismo delle cate­colamine, neurotrasmettitori cerebrali legati anche alla ri­sposta allo stress. In tutti i casi nel paziente erano presenti va­rianti 'sfavorevoli' di questi geni. Ad esempio, la variante 'MAOA' che determina livelli dell’enzima monoaminossida­si più bassi della media. Più studi hanno dimostrato che li­velli ridotti, se l’ambiente è ne­gativo, facilitano l'aggressivi­tà » .
Ancora un gene... «Abbia­mo analizzato anche quello che codifica per il recettore del­la dopamina DRD4 e abbiamo verificato la presenza della va­riante legata a iperattività e ag­gressività » . Questo vuol dire che i geni segnano il nostro destino di ag­gressivi o pacifici? «La presen­za di certi geni non è condizio­ne nè necessaria, nè sufficien­te perché si presenti una malat­tia o un comportamento, ma aumenta significativamente la possibilità che si manifesti, specie se l'individuo cresce in un ambiente sfavorevole e vi­ve in isolamento sociale, come il nostro paziente».
Cinque geni li avete studiati, ma ne abbiamo circa ventimi­la... «Nel nostro genoma sono state identificate oltre dieci mi­lioni di varianti genetiche, so­lo di un numero ristretto cono­sciamo il significato funziona­le. Siamo agli inizi, ma queste ricerche ci porteranno a capire sempre meglio i meccanismi molecolari che regolano l’inte­razione tra geni e ambiente». 


sabato 7 novembre 2009

l’Unità 7.11.09
Un sistema da copione
di Dario Fo

La relazione è immobile e funziona sempre: se un cittadino commette errori il sistema può sventrare la sua privacy per metterlo in sicurezza alla luce delle sue responsabilità. Ma se è il sistema a commettere degli errori, ogni tentativo di penetrarne la dinamica viene cassato, respinto. Il potere si garantisce soprattutto in caso di errori. Ecco perché faremo molta fatica per sapere cosa è successo a Stefano Cucchi. Del resto, è un sistema sapiente, riesce perfino a passare dei copioni standard alle sue vittime, alle vittime del suo «temperamento», copioni che le vittime sono tenute a recitare, come una litania nel caso abbiano fatto i conti con la rituale violenza di una istituzione carceraria. Devono dire e ripetere: «Mi sono fatto male da solo cadendo per le scale», quando qualcuno chiederà spiegazioni per i lividi e le ossa rotte. Tutti lo sanno, ma tutti devono fingere di non saperlo, è una sorta di convenzione teatrale che impone soggezione e omertà a una società intera. Tanto, in cella finiscono solo i «residui» di quella società, gli «scarti», i «vuoti a perdere»; un patto non pronunciato regge così quella veccchia relazione di potere: a igienizzare il tuo ambiente di vita ci penso io, tu, però, non fare troppe domande, sennò quel lavoro te lo fai da solo e non lo sai fare. Poi, però, ci muore tra le braccia un ragazzetto lieve lieve di meno di quaranta chili, che non ha ucciso nessuno, non ha fatto resistenza
all’arresto, non sa cosa voglia dire far del male a chicchessia. Uno che dice candido di essere caduto dalle scale di un edificio gestito dalle forze di sicurezza. Ma prima di morire minaccia: voglio il mio avvocato sennò non mangio e non bevo più. E allora è più difficile fingere che non sia successo niente: quel bersaglio ispira tenerezza e la tenerezza è una brutta bestia se si infila tra le maglie di una meccanica repressiva. Ecco: allora si può cercare di dare qualcosa al pubblico avvelenato dalla tenerezza, magari cercando le «mele marce», i responsabili della violazione sventurata di un codice non scritto ma che sappiamo a memoria e che disgraziatamente è venuto a galla. Questo è il vero errore. Insomma, conviene porgere qualche responsabile del pestaggio mortale: sarà sgradevole ma va fatto. Così come andrebbe fatto che ogni cittadino italiano a partire dal presidente del Consiglio fosse prelevato di tanto in tanto dalla sua casa e trasferito per qualche tempo in una cella del nostro sistema di sicurezza. Non per provare il peso della punizione, ma per sapere di che pasta è fatta la sua civiltà. Diceva Voltaire a un amico che voleva proporgli di trasferirsi, fuggendo, a Brema: «...perché io possa capire la civiltà e la democrazia che si respira nel tuo paese, parlami delle vostre carceri». E tuttavia, nessuno può oggi nascondersi l’evidenza: l’infamia, l’inciviltà del carcerare. La segregazione in un luogo che normalmente senza annaspare in casi limite insegna la violenza, la furbizia, la falsità, un vademecum esattamente contrario al senso di una positiva educazione alla vita. Un breviario che viene consegnato in prima battuta ai poveri diavoli che fanno uso di droghe e che, sulla base di una disgraziata legge di questa destra, intasano oggi le celle italiane. Ingiustamente. Lì impareranno che se fossero stati truffatori non sarebbero mai stati privati della libertà.

l’Unità 7.11.09
L’Associazione Mazziniana e il crocefisso
di Stefano Covello

La presidenza nazionale dell'Associazione Mazziniana Italiana ha diramato la seguente nota: «I mazziniani italiani invitano la classe politica a considerare la recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche come uno spunto di riflessione. Piuttosto che denunciare complotti ideologici e lamentare la sconfessione delle radici cristiane, occorrerebbe doman-
darsi come mai l'Italia sia sempre più lontana dal resto dell'Europa nel campo dei diritti civili e delle relazioni tra Stato e Chiesa. Lascia perplessi la fretta del Governo di ricorrere contro la decisione di Strasburgo, prima ancora di una adeguata valutazione delle motivazioni, e prima di una reazione ufficiale della Santa Sede. Non si può continuare ad ignorare che la società del XXI secolo deve fondarsi sulla laicità, il pluralismo e il reciproco rispetto. Nella scuola, in particolare, è opportuno rimettere in discussione tutti i residui del confessionalismo, inclusa l’ora di religione: come scongiurare altrimenti il pericolo che l'odierna realtà multietnica si traduca in una nazione ''a spicchi'', in cui ciascuna confessione faccia parte per se stessa in un clima di odio e di avversione? L'appello dei mazziniani è che la scuola educhi alla coscienza religiosa e non faccia catechismo».

l’Unità 7.11.09
I furbetti del crocefisso
di Moni Ovadia

La vicenda della “ostensione” dei crocefissi nelle scuole e la sentenza della Corte Suprema del Parlamento Europeo ha dato la stura all’ennesima cagnara dei soliti politici che hanno imbracciato la spada del crociato per correre in difesa della presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche. Povero crocefisso usato come libretto di assegni per comprare qualche piccola rendita di potere. Del vero merito della questione, la laicità dell’Europa, accettata come valore fondante da tutte le serie democrazie del vecchio continente in Italia non gliene frega niente quasi a nessuno. La laicità da noi è stata condannata a morte per il reato capitale di laicismo, reato immaginario inventato dai chierici dell’integralismo nostrano. La Corte Suprema del Parlamento Europeo ha fatto semplicemente la sua parte perché non è tenuta a conformarsi alle anomalie di una classe politica di piccolo cabotaggio incistita solo nei propri piccoli interessi di potere e che non ha rispetto per il ruolo delle istituzioni preposte a tutelare i principi universali su cui l’Unione Europea si fonda. Personalmente non ho niente contro il crocefisso, sono cresciuto fra crocefissi alle pareti di centinaia di luoghi in cui sono stato, ho lavorato e ho vissuto e non mi hanno certo condizionato. Per quanto mi riguarda possono rimanere dove stanno. Del resto, in un Paese in cui ci sono migliaia di chiese e chiesette, di campanili possenti e svettanti o intimi e modesti, anche se i crocefissi venissero rimossi la situazione della “ostensione” non cambierebbe granché. Ma è grave invece il fatto che i crociati di casa nostra invece di preoccuparsi dei valori cristiani universali si abbandonino ad una invereconda cagnara su questioni di lana caprina.❖

Repubblica 7.11.09
I nunzi in giro per le capitali. Il cardinal Bertone: "Faremo tutti i passi per reagire al provvedimento Ue"
Vaticano, pressing sull´Europa "I governi rifiutino quella sentenza"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - E intanto i nunzi apostolici vanno all´attacco in tutta Europa per convincere i governi dell´Unione a respingere al mittente la sentenza del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo. Mentre le polemiche sul crocifisso non accennano a diminuire, gli ambasciatori del Papa da qualche giorno sono stati riservatamente invitati a far presente presso le cancellerie europee «il disappunto, l´amarezza e la delusione» con cui Oltretevere è stata accolta la «bocciatura» del crocifisso nelle scuole italiane. Nessun comunicato ufficiale, nessun ordine scritto, ma solo indicazioni verbali trasmesse attraverso i canali diplomatici pontifici, lungo i quali i collaboratori di papa Ratzinger hanno incaricato i nunzi di spiegare ai governanti europei le ragioni per cui il Vaticano intende fare tutto il possibile per «difendere» la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Una battaglia - ragionano in Segreteria di Stato - che «per ora» riguarda solo le scuole pubbliche d´Italia, ma che non è escluso che si possa allargare a macchia d´olio in altri ambiti pubblici e in tutto il vecchio continente.
Il cardinale segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone già aveva indirettamente fatto capire qualche cosa del genere mercoledì scorso quando, parlando all´ospedale Bambino Gesù di Roma, aveva annunciato che «la Santa Sede farà i passi che le spettano per stimolare i cristiani a reagire alla sentenza». Pur precisando che «non possiamo interferire nelle decisioni della Corte europea», il porporato aveva auspicato che «anche altri governi facciano ricorso contro la sentenza il governo italiano... «. L´input ai nunzi sembra partito proprio dall´»auspicio» esternato dal cardinal Bertone, anche se nei Sacri Palazzi ci si limita a far notare solo che «è prassi consolidata che la Santa Sede attraverso i nunzi apostolici apostolici informi gli altri governi delle questioni che riguardano la Chiesa... come appunto potrebbe essere il caso esploso in seguito alla sentenza sui crocifissi nelle scuole italiane».
Fulmini sul pronunciamento di Strasburgo arrivano anche da altri due cardinali, il presidente della Cei Angelo Bagnasco - che parla di «sentenza fortemente ideologica, non certamente condivisa dal sentire comune», e Stanislao Dziwicsz, storico segretario di papa Wojtyla. Entrambi si dicono «perplessi per il futuro dell´Europa» perché così - spiega Bagnasco a un convegno su minori e tv a Genova dove è arcivescovo - «la gente si allontanerà dal vecchio continente». Mentre Dziwicsz, in un commento fatto ieri dalla sua diocesi di Cracovia (Polonia), teme che «quanto stabilito da Strasburgo possa mettere a rischio anche la libertà religiosa in Europa, perché così facendo si tenta di eliminare il cristianesimo dalla vita pubblica». Severo, infine, il giudizio del quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, che in un editoriale a firma di Domenico Delle Foglie accusa i giudici di Strasburgo di essere «professionisti di cattiva laicità» e di «peccato di presunzione».

Repubblica 7.11.09
Crocifisso, il governo fa ricorso alla Ue
Berlusconi: resteranno nelle aule, la decisione di Strasburgo non è vincolante
Di Pietro: "Giusto tentare di sospendere l´esecuzione del pronunciamento"
di Marina Cavalieri

ROMA - Continua la battaglia del governo in difesa del crocifisso. «La decisione di Strasburgo è assolutamente non rispettosa della realtà per un paese cattolico come il nostro. Come ebbe a dire Benedetto Croce, il nostro paese non può non dirsi cristiano e il Cdm ha deciso di ricorrere immediatamente contro questa sentenza».
L´annuncio è stato fatto da Berlusconi al termine del consiglio dei ministri, in una conferenza stampa durante la quale ha però precisato che non sarà fatto nessun referendum: «Penso non ci sia nessuna necessità, la nostra storia è quella cristiana, anche un ateo non può che essere d´accordo».
Per la Corte europea dei diritti dell´uomo la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Una sentenza che ha scatenato fortissime polemiche in Italia, nel mondo politico molti i contrari, pochi quelli schierati a favore. E nessuna guerra tra destra e sinistra. Il governo comunque liquida la sentenza come senza fondamento. «Non è vincolante», ha detto Berlusconi. E nessun crocifisso sarà staccato dalle pareti.
Nella guerra per il crocefisso il governo ha una linea «ferma e decisa», ha detto Calderoli e si schierano accanto al premier i ministri. «La sentenza di Strasburgo resterà in ogni caso una grida manzoniana», prevede Ignazio La Russa, che ha annunciato che nei prossimi giorni verrà avviata una raccolta di firme a sostegno del ricorso del governo. Danno il loro sostegno anche le ministre Gelmini e Meloni.
Per l´opposizione il crocifisso non va escluso dalle aule anche se il governo sbaglia nel tipo di difesa. «La nostra interpellanza al presidente del Consiglio», spiega Vannino Chiti vicepresidente del Senato, «è per dire al governo che le motivazioni dell´Italia davanti alla Corte non possono essere sostenute, così come è stato fatto, su argomenti di opportunità politica. Noi vorremmo che ci fosse un confronto serio in Parlamento e che si presenti un ricorso che abbia il sostegno dell´insieme delle forze politiche». Antonio Di Pietro, leader dell´Italia dei Valori, definisce «senza capo né coda» la pronuncia. «Qualora giuridicamente ci sia la possibilità di sospendere l´esecutività della sentenza ben venga. La figura di Cristo in croce è un segno di pace, valido per chi pratica qualsiasi religione o è ateo».
Se in Parlamento non esistono sostanziali spaccature, nelle strade e nelle aule c´è chi alza barricate. Il sindaco di Ostra Vetere nelle Marche ha stabilito una sanzione di 500 euro a chi toglie il crocifisso dalle aule. Mentre l´ex ministro Ferrero di Rifondazione comunista commenta: «Invece del ricorso il governo pensi al taglio dei supplenti».

l’Unità 7.11.09
Pd, Bersani vuole un «bambino nuovo» Letta il suo vice, oggi l’Assemblea
I mille scelti attraverso le primarie si riuniscono a Roma. Verrà votata la Direzione del partito. Venti nomi saranno scelti dal segretario. Franceschini e Finocchiaro capigruppo. Ventura, Calipari, Zanda e Casson i vice.
di Simone Collini

Presidenza. Alla Bindi saranno affiancati come vice Marina Sereni e Ivan Scalfarotto
Deciso anche il tesoriere: sarà Antonio Misiani. Fioroni vuole un incarico

È la giornata di Pier Luigi Bersani, della proclamazione ufficiale del nuovo segretario, del discorso che segna il «Pd che riparte e si pone come alternativa» al governo Berlusconi. E poi dei mille scelti attraverso le primarie, dell’Assemblea nazionale del partito che si riunisce ed elegge i 120 membri della Direzione (più quelli di diritto e i 20 nominati dal segretario), della “Canzone popolare” che torna a farsi sentire («mi sarebbe piaciuto metterla anche da candidato ma ho pensato che non fosse giusto usarla come canzone di una mozione, l’Ulivo è di tutti»). È la giornata dell’elezione a presidente del Pd di Rosy Bindi, di un deputato bergamasco finora pressoché sconosciuto come Antonio Misiani che sarà eletto tesoriere, di Enrico Letta che sarà vicesegretario e forse anche coordinatore della segreteria, anche se c’è Beppe Fioroni che scalpita per avere uno dei due incarichi. È la giornata di Dario Franceschini che non interviene perché non è il caso di fare oggi da «contraltare», di Ignazio Marino che interviene perché Bersani l’ha chiamato e gli ha detto che gli farebbe piacere, di Massimo D’Alema che starà solo ad ascoltare perché c’è troppa Europa nei suoi pensieri (ieri è andato alla sede del Pd e con il segretario ha parlato dell’incarico di “Mister Pesc”, oltre che del futuro del partito).
IL DISCORSO DI BERSANI
Ai mille riuniti alla Nuova Fiera di Roma Bersani prometterà «un bambino nuovo»: «Il mio Pd guarda avanti». Un modo per mettere in chiaro che non ha nessuna intenzione di «tornare indietro», di guardare alla socialdemocrazia, perché quello che serve oggi è «un partito popolare dei tempi moderni». Un modo per rispondere senza citarli agli «ingenerosi», ai Rutelli, ai Cacciari, ai Calearo che hanno detto addio senza aspettare le prime mosse, a quelli che credono in una separazione dei compiti: «Io non credo nel centro-sinistra, col trattino, partiti di centro che puntano ai consensi dei moderati e partiti di sinistra che pensano al resto. Il Pd non è una coperta che tiri di qua o di là, avrà capacità attrattiva in tutti gli ambiti».
Il nuovo leader del Pd parlerà della necessità di «recuperare il rapporto con i ceti popolari e produttivi», metterà al centro le «politiche industriali e il lavoro», criticherà un governo che in questi mesi «non è stato in grado di mettere in campo una manovra economica per far fronte alla crisi», darà la «disponibilità per un confronto sulle riforme, giustizia inclusa, ma non sui problemi personali del premier», anche avanzando delle proposte sul terreno istituzionale (in primis, superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari), parlerà di politica estera, Europa e anche della caduta del Muro. Altro che nostalgia per il rosso, che restaurazione: «Dovunque sono andato ho cambiato quello che ho trovato», dirà. Ringrazierà tra gli altri Romano Prodi, che oggi non ci sarà ma al quale si deve l’intuizione dell’Ulivo: «Va recuperato il movimento di riscossa civica a cui diede vita».
L’ORGANIGRAMMA
Oggi si inizierà a delineare anche l’organigramma del Pd. Ad affiancare la Bindi ci saranno due vicepresidenti del Pd: Marina Sereni per l’area Franceschini e Ivan Scalfarotto per quella Marino. Vice di Franceschini, capogruppo alla Camera, saranno Michele Ventura (bersaniano) e Rosa Calipari (elettrice del senatore chirurgo). Vice di Anna Finocchiaro, riconfermata capogruppo al Senato, saranno Luigi Zanda e Felice Casson. Ci sarà una segreteria composta da giovani «che sono già in campo» e un ufficio politico con dentro tutti i big.❖

Corriere della Sera 7.11.09
«I cattolici? Sentono il Pd come loro partito»
di Virginio Rognoni



L’uscita di Rutelli dal Pd ha provocato una serie di opi­nioni sulle con­seguenze. È sta­to il progetto del Pd a essere giu­dicato. Si è parlato del fallimen­to della auspicata fusione; di un partito che si modella, anche per la vittoria di Bersani, come l’ennesima riposizione dei Ds. C’è, però, un fatto che spazza via tutte le analisi: oltre tre mi­lioni di cittadini hanno espres­so la preferenza per il segretario di un partito che ritengono affi­dabile. È stato un voto democra­tico, per così dire laico. È lecita la conseguenza che Rutelli riten­ga giusto puntare sul «grande centro». Può essere, e forse è co­sì; ma qui mi sembra più conve­niente osservare che sono i cat­tolici democratici e i popolari nel Pd a essere interpellati. Sen­tono questo partito come il «lo­ro » partito? Io ritengo di sì. Non ho mai pensato che alla base del Pd vi sia una sorta di meticciato di culture. La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco del­la libertà e al dovere della giusti­zia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd. 
L’intervento completo di Virginio Rognoni su www.corriere.it

l’Unità 7.11.09
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato»

Tra Chiesa e Stato in Italia c'è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l'Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall'Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».

l’Unità 7.11.09
La Cgil porta la «scuola in piazza»
«Cento piazze» per la scuola. La Cgil oggi in tutta Italia farà iniziative per sensibilizzare gli italiani sui problemi che i tagli del governo stanno comportando. Interverranno personalità della cultura e dello spettacolo.
di G. V.

In cento luoghi del paese oggi iniziativa per parlare di quel che si fa negli istituti scolastici
E di quanto pesino i tagli voluti dal governo. A Roma nel pomeriggio in piazza Navona

Oggi la CGIL sarà in piazza per la seconda giornata nazionale della tutela individuale: "100 piazze per la Conoscenza". Con questa iniziativa la Federazione Lavoratori della Conoscenza Cgil intende sensibilizzare i cittadini su cosa fanno quotidia-
namente i ricercatori precari, i docenti "fannulloni", i "bidelli che non puliscono", gli studenti a cui stanno togliendo il futuro. Un appuntamento che vedrà anche la partecipazione di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo e, ovviamente, non mancherà la musica ad accompagnare le nostre iniziative. Un pomeriggio con lezioni all'aperto, esperimenti, musica e cultura: i lavoratori della conoscenza informano, divertono e coinvolgono per mostrare quanto valgono ed esigere il rispetto che meritano.
Le iniziative nelle piazze più importanti di tutto il Paese. A Roma, in Piazza Navona, a partire dalle ore 15.00 un ricco programma di avvenimenti. In molte altre città le iniziative della FLC si accompagneranno a quella della CGIL. In Veneto manifestazione regionale a Treviso in Piazza dei Signori ore 11,00 interviene Guglielmo Epifani, segretario generale CGIL. Tante le iniziative previste in Toscana. A Firenze il sistema dei servizi CGIL sarà in piazza Gino Bartali dalle 9:00 alle ore 13:00, mentre a partire dalle 14, saranno i lavoratori della scuola, dell'università e della ricerca, a parlare alla città. A Pisa, alle ore 9, partenza del corteo da piazza Vittorio Emanuele II che si concluderà con un comizio in Piazza Martiri della libertà. Fra gli interventi, previsto quello di Enrico Panini, segreterio nazionale CGIL. L'appuntamento con la FLC Campania è a Napoli, in Piazza Dante a partire dalle ore 10.00 e fino alle 21. In Sicilia: «Diritti & Cultura in piazza», è il titolo dell'iniziativa che si svolgerà a partire dalle ore 9.00 e fino alle 20.00 a Palermo in Piazza Giuseppe Verdi (Teatro Massimo). Dalle ore 14,30 lezioni in piazza con Margherita Hack, Mary Cipolla, Antonio Ingroia, docenti e alunni. ❖

l’Unità 7.11.09
Intervista a Carol Beebe Tarantelli
«Fort Hood, un pazzo o un terrorista. La guerra non c’entra»
La psicanalista, esperta di America: «La paura di andare a Kabul non genera massacri, verificherei la pista di un attentato modello metrò di Londra»
di Rachele Gonnelli

Il perché degli spari
«Chi soffre di stress
post traumatico è stato
a rischio, lui no. Vorrei
capire se è entrato
in un gruppo estremista»

In Italia è più facile vedere uomini che uccidono la moglie, i figli, la suocera, in America la violenza si scatena più facilmente sul vicinato, i compagni di università o i commilitoni come in questo caso». Carol Beebe Tarantelli, psicanalista, docente dell’Università La Sapienza di Roma, studia in particolare i meccanismi della violenza e della violenza politica, terrorismo incluso, sia in Italia sia in America. Sul caso di Fort Hood ha iniziato ieri mattina presto, seduta a colazione davanti ai programm tv americani, a cercare una spiegazione. O almeno a cercare di ricostruire la storia di questa tragedia.
Il killer era un ufficiale medico, pacifista, a quanto sembra. Aveva i tratti di un personaggio buono, invece... «Uno psichiatra, più di un medico. Ma credo però che sul suo personaggio ci sia ancora molta confusione. Guardando bene nelle dichiarazioni del cugino non viene mai confermato che stesse per essere inviato in Afghanistan. Aveva molta paura di andarci, ma la paura di per sé non produce stragi».
La sindrome di burnout colpisce i medici che curano i soldati con forti traumi di guerra. Si ammalano per empatia. Lo dice l’Iraq War Clinician Guide 2009.
«Naturalmente stiamo parlando in via ipotetica, nessuno di noi lo conosce o ci ha parlato. Ma no, io non credo che una traumatizzazione vicaria, cioè di ordine secondario, possa provocare una esplosione di violenza di questo tipo. Lavoro con due gruppi di donne, uno è di donne torturate e l’altro di vittime della tratta. Parlare con le prime è molto duro, quindi so cosa significa questo lavoro. Resto convinta che per arrivare a questi estremi allora doveva avere una patologia sottostante. I soldati che soffrono di disturbi da stress post traumatico o patologie simili sono stati a rischio di vita. Lui no. Anche se fosse stato mandato in Afghanistan non avrebbe combattuto. Per fare una strage così ci possono essere due motivi: una motivazione ideologica e un appoggio collettivo come nel caso di quelli che si fanno esplodere oppure una disintegrazione della personalità per cui l’uomo che non contiene più se stesso passa all’azione perchè si sente lui a rischio di morte psichica».
Allora lei propende per ipotizzare che si tratti di un terrorista. Ma non potrebbe aver covato odio per essere stato tartassato in quanto islamico? «Varie fonti hanno detto che aveva in effetti incontrato un clima di sospetto e anche dubbi sulla sua religione. Ciò può produrre una grande amarezza ma anche questa non può essere una precondizione del massacro. Altrimenti i neri americani dopo 150 anni di razzismo avrebbero dovuto sterminare metà della popolazione bianca. E poi i suoi genitori erano naturalizzati americani, lui è nato americano. Non ho gli elementi per avanzare un sospetto. Ma se fossi io a dover rendere conto del caso cercherei innanzitutto di verificare se si fosse unito a degli estremisti islamici come è stato negli attentati alla metro di Londra del 2 luglio 2005. Cercherei di escludere intanto questa pista».
Il colonnello Lee suo superiore alla Fox ha detto che aveva sperato in un ritiro delle truppe Usa da Iraq e Afghanistan e disilluso, covava ora molta rabbia.
«Inverosimile anche solo come sfondo. Si sta parlando di un soldato non di qualcuno seduto sul divano a mille miglia di distanza dai problemi logistici della guerra. Doveva sapere che ci vogliono anni anche solo per inviare rinforzi. Inoltre Obama sull’Afghanistan non ha preso ancora alcuna decisione mentre dall’Iraq sta ritirando le truppe. Dovrebbe anche qui essere completamente fuori dalla realtà, incapace di percepirla, primo sintomo della follia. Ci deve essere una faglia per produrre un terremoto, non una fenditura nella terra».
Lei studia anche gli stupratori, i serial killer. Che cosa caratterizza la violenza politica e ne differenzia i meccanismi?
«È complesso, ci sto scrivendo un saggio per The International Journal of Psychoanalysis. Gli attori della violenza politica vengono abilitati dai singoli e dai valori della loro collettività ma c’è anche qualcosa di personale. Molti in Italia condividevano l’ideologia del terrorismo ma non dedicavano la loro vita ad atti violenti. L’ideologia è la foglia di fico che giustifica desideri violenti che altrimenti non si esprimerebbero». ❖

Repubblica 7.11.09
Il disagio delle truppe dopo 8 anni di guerre: già 134 suicidi nel 2009
Stress, violenza, ansia quel male oscuro che divora i Marines
di Francesca Cafarri

La grande famiglia è malata. Non serviva la strage di Fort Hood a scoprirlo, ma ora nasconderlo è diventato impossibile. Unità, solidarietà, coraggio: sono gli slogan delle Forze armate americane. Li vedi stampati ovunque, girando nelle caserme, negli accampamenti e negli ospedali. Siamo una "famiglia" e ci prendiamo cura di ogni membro, è il messaggio. Una parola sola aleggia costante nell´aria ma non compare mai: stress. O, nella sua forma più corretta, PTSD post-traumatic stress disorder.
Il male oscuro dei militari Usa, che il maggiore Nidal Malik Hasan aveva guardato in faccia per anni come medico al Walter Reed Hospital e che temeva l´aggredisse in Afghanistan, è racchiuso in queste quattro lettere: tradotte nella vita di tutti i giorni significano incubi, difficoltà di riadattamento a un´esistenza normale, violenza fisica, depressione, alcolismo. Come il male abbia potuto aggredire "la famiglia" è facile capirlo: due guerre che vanno avanti da otto anni ormai con turni sul terreno di 12 mesi che per un lungo periodo sono diventati di 15, hanno piegato le forze armate più potenti del mondo. Lo scorso anno 140 soldati si sono suicidati, il numero più alto mai registrato. Che sarà con tutta probabilità superato nel 2009: fra gennaio e ottobre ci sono già stati 134 suicidi. E non è questa l´unica statistica a evidenziare il disagio: il 35% di quelli che tornano da Iraq e Afghanistan, dicono gli esperti, soffre o soffrirà di PTSD. Il numero delle persone che hanno mostrato sintomi di disagio è cresciuto del 50% nel 2008 rispetto all´anno precedente. I tassi di divorzio sono in costante crescita, così come quelli sugli ex militari homeless e senza lavoro. E tutti i problemi aumentano proporzionalmente alla lunghezza dello schieramento sul terreno.
Il Pentagono ha cercato negli ultimi mesi di correre ai ripari: sono stati aumentati i finanziamenti, potenziati i servizi di assistenza e introdotto un test obbligatorio per i militari di rientro dai teatri di guerra. Inoltre il capo supremo delle Forze armate americane, generale Mike Mullen, ha invitato a più riprese i suoi uomini a non vergognarsi e a farsi curare senza temere conseguenze. Basterà? L´unica soluzione reale che gli esperti raccomandano è proprio quella che lo Stato maggiore non può scegliere in questo momento: tempi di permanenza a casa più lunghi per dare modo ai militari di recuperare il loro equilibrio. Un´utopia o quasi: secondo un recente studio dell´Institute for the Study of war, un think tank di Washington, solo tre brigate dell´esercito e una dei Marines (fra gli 11mila e i 15mila uomini e donne) potrebbero in questo momento mandare sul terreno soldati che sono rimasti a casa 12 mesi fra uno schieramento e l´altro. Un dato che Obama non può non tenere presente nel momento in cui deve decidere se inviare nuove truppe in Afghanistan.

Repubblica 7.11.09
L´integrazione impossibile del maggiore che ha fatto strage nella base Usa
Le due anime del maggiore Hasan tra il Corano e il sogno americano
di Vittorio Zucconi

Il maggiore della US Army dottor Nidal Malik Hasan cominciò a morire la mattina dell´11 settembre 2001, quando da un televisione nell´ospedale della Marina a Washington dove studiava psichiatria, guardò due aerei conficcarsi dentro due grattacieli a Manhattan e spezzare per sempre la sua identità di americano e di arabo.
Il suo corpo non riportò neppure un graffio, e ancora oggi resiste, affidato alla misericordia di respiratori e tubi. Fu la sua anima di palestinese nato in America da profughi fuggiti dalle rive del Giordano nel 1967, di musulmano e cittadino, di giovane uomo cresciuto tra la devozione al Corano e la devozione al sogno americano, che cominciò a morire, quando scoprì di essere diventato il nemico più temuto dell´uniforme che indossava e della nazione che aveva giurato di difendere. Non per qualche cosa che avesse fatto, ma soltanto perché si chiamava Nidal, che significa "la lotta", come Abu Nidal, il superterrorista; perché gli arabi sono il male nello «scontro di civiltà» che ha rimpiazzato la «minaccia rossa»; e perché ogni venerdì, vestendo ancora l´uniforme, pregava in una moschea di Silver Spring, il sobborgo più multietnico di Washington.
La storia della sua vita fa dunque più spavento della biografia di un fanatico, perché la sua sembrava una storia perfetta di integrazione e di assimilazione voluta, avvenuta e compiuta. Suo padre era fuggito dal giardino di ulivi che possedeva e coltivava nella Palestina della Bibbia e dei Vangeli, quando Israele l´aveva strappata alla Giordania nel 1967, per sistemarsi nel piccolo mondo dei profughi arabi che vivono di negozietti e di voglia di farcela. Nidal, "la lotta", era stato spinto sulla strada maestra che gli immigrati più intelligenti e più laboriosi imboccano, quella dello studio, con la scorciatoia e i soldi dei militari sempre affamati di reclute. Aveva preso una laurea in biologia al Politecnico della Virginia, quello stesso dove nel 2007 uno studente coreano, Seung-Hui Cho, aveva fatto fuori 32 fra studente e professori. Perché follia, armi automatiche e odio non sono monopolio di nessun popolo e di nessuna religione.
Da soldato semplice, Nidal era divenuto cadetto nel corso allievi ufficiali che le università offrono. Da sottotenente era stato accettato alla facoltà di Medicina dell´Ospedale navale di Bethesda, che è un altro sobborgo di Washington con un nome mistico, Bethesda, la località della piscina miracolosa. Nei formulari in triplice copia che le burocrazie militari divorano non aveva mai indicato una preferenza religiosa né ai compagni, poi camerati, poi colleghi nel reparto di psichiatria specializzata nei traumi da grandi disastri, aveva mai dato l´impressione di essere un credente devoto. Semmai uno psichiatra mediocre, sul quale i superiori dovevano periodicamente intervenire per guidarlo nei rapporti coi pazienti. Alla domanda sulla nazionalità, indicava sempre «palestinese», anche se era nato in Virginia. Era l´unico segno che dentro di lui il sogno americano non aveva cancellato l´incubo palestinese, convivendoci soltanto.
Fino a quel mattino di settembre, e a quegli aerei che si abbatterono sulla fragilità di tutte le doppie nature, delle doppie nazionalità, delle doppie culture che dormono sotto le copertine del passaporti. Il suo nome divenne oggetto di sospetti, di battute, di allusioni che lui inghiottiva perché, ci informa per coprirsi il didietro la US Army, non fece mai denunce per «molestie», sapendo bene che negli eserciti è spesso il querelante a rovinarsi la carriera, con la fama di "rompicoglioni".
La sua carriera avanzava. Tenente, capitano, poi maggiore, già un grado superiore, come avanzava la guerra fra la sua anima americana e quella palestinese, fra la sua nazione, gli Usa, e la sua natura, arabo-palestinese. Se fosse rimasto a occuparsi di vittime di catastrofi naturali, non avremmo mai conosciuto il suo nome. Ma nella Forze armate americane, dove le guerre senza fine in Iraq e Afghanistan stanno logorando nervi e cervelli anche dei più duri e sicuri, i suoi pazienti erano quei reduci che a decine di migliaia non sanno vivere con gli spettri di quello che hanno visto, che hanno fatto, che hanno subito.
«Ci raccontava degli orrori e degli incubi che i suoi soldati gli rovesciavano addosso», spiega ora la zia di Nidal, Noel Hasan. Parlava apertamente contro le due guerre, soprattutto quella più insensata, l´invasione dell´Iraq senza reali motivi, protestava con i colleghi, aveva votato e sperato in Obama per un ritiro rapido, cominciava ad affacciarsi ai siti internet dell´Islam radicale, sollevando l´attenzione delle autorità che lo sorvegliavano, ma senza agire. «Un soldato che si butta su una bomba a mano per salvare i compagni» gli sembrava paragonabile al kamikaze che si fa esplodere per difendere la propria gente, massacrando innocenti.
Quando gli fu detto che presto avrebbe dovuto raggiungere il Primo Cavalleria in Iraq, la sua anima, morta otto anni or sono, finì di decomporsi. «No, in Iraq no, meglio l´Afghanistan», implorava, ma con la Cavalleria non si negozia. Ora si dice che gridasse Allah akhbar mentre sparava sul mucchio a Fort Hood. «L´orrore, troppo orrore», aveva detto poco prima Nidal, l´uomo rimasto due volte senza identità, senza quella natale che non esiste, senza quella adottiva che lo aveva, nella sua testa, tradito. Se il suo Dio è davvero misericordioso, come lui crede, spegnerà anche il suo corpo, dopo avere lasciato uccidere la sua anima.


l’Unità 7.11.09
Intervista a Saeber Erekat
«Abu Mazen lascia per protesta
Israele vuole la nostra resa»
Il capo negoziatore dell’Anp: le nuove colonie in Cisgiordania rendono impossibile la nascita dello stato di Palestina, ne fanno un bantustan»
di Umberto De Giovannangeli

Così si affossa la pace
«Netanyahu non riconosce
nessuno dei nostri diritti
Le sue pregiudiziali
rendono impossibile riaprire
il tavolo del negoziato»
Chiacchiere e fatti
«Se Usa e Europa vogliono
che il nostro presidente
torni indietro, devono
fermare la colonizzazione
nei Territori»

La decisione del presidente Abbas è l’esatto opposto di una fuga dalle proprie responsabilità. Con la sua scelta, il presidente Abbas ha lanciato al mondo un grido d’allarme: Israele sta affossando ogni speranza di pace. Ed è inutile, ipocrita da parte della comunità internazionale lanciare appelli al dialogo e sostenere a parole la leadership di Abbas, quando nei fatti si è succubi, se non complici, della politica dei fatti compiuti perseguita da Israele».
A parlare è uno dei dirigenti più autorevoli in campo palestinese: Saeber Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), il più stretto consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
Erekat è stato a fianco di Abu Mazen nella lunga notte che ha portato il rais palestinese ad annunciare di non volersi ricandidare alla presidenza dell’Anp nelle elezioni fissate per il 24 gennaio 2010.
Il mondo s’interroga sulla decisione di Abu Mazen. Lei che è stato vicino al rais nei momenti cruciali, può spiegarne le ragioni?
«Il presidente Abbas ha messo tutti di fronte ad una realtà drammatica, che in molti fingono di non vedere...».
E quale sarebbe questa realtà amara? «L’impotenza della comunità internazionale, le parole mai seguite da atti conseguenti. A parole tutti, dal presidente Obama ai leader europei, ribadiscono il loro sostegno ad un negoziato che porti ad un accordo globale fra Israele e Anp; tutti, a parole, premono su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Tutti, a parole, si dicono sostenitori del principio “due popoli, due Stati”, A parole...».
E nei fatti?
«Nei fatti Israele continua ad avere mano libera nel portare avanti la politica dei fatti compiuti». Ma il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ripete di essere pronto a riaprire da subito il tavolo negoziale.
«Netanyahu meriterebbe l’Oscar dell’ambiguità. Netanyahu ha imposto al presidente Abbas un diktat che lui spaccia per disponibilità, dichiarando che Gerusalemme unificata resterà l'eterna capitale di Israele, che la questione dei profughi (palestinesi) non sarà discussa, che il nostro Stato sarà smilitarizzato, che dovremo riconoscere lo Stato ebraico, che i confini (dello Stato palestinese) non saranno quelli del 1967 (antecedenti il conflitto arabo-israeliano e che lo spazio aereo palestinese resterà sotto il controllo di Israele". E questo sarebbe voler negoziare senza pregiudiziali?».
Lei è stato tra i protagonisti delle diverse fasi dei negoziato israelo-palestinesi. La conosciamo come un dirigente abile, prudente nelle sue esternazioni. Eppure, qualche giorno fa, una sua affermazione ha fatto il giro del mondo: “È forse giunta l’ora che il presidente Abbas dica la verità al suo popolo...”. Qual è questa verità?
«La verità è che con la continuazione delle attività israeliane di insediamento nella Cisgiordania occupata la soluzione di due Stati non è più un'opzione praticabile».
Ma quale alternativa resterebbe in campo?
«L’alternativa rimasta ai palestinesi è di riportare la loro attenzione alla soluzione di un solo Stato, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere su basi di uguaglianza. Per noi questo e' molto serio. È il momento della verità. In passato abbiamo commesso un grave errore nel non legare la nostra disponibilità a negoziare con il blocco degli insediamenti da parte israeliana. Ora basta».
Ma Israele non prenderà mai in considerazione l’idea di uno Stato binazionale che metterebbe fine alla propria identità nazionale ebraica. «E allora dicano chiaramente che il loro intento è di realizzare un bantustan palestinese spacciandolo per Stato. E il mondo si esprima su questo. Vogliono l’apartheid in Palestina? E si pretende che il presidente Abbas avalli questo scempio?».
Gli Usa, le cancellerie europee, i leader arabi moderati chiedono al presidente Abbas di tornare sui suoi passi.
«C’è un unico modo per convincerlo: dimostrare con i fatti che si vuole imprimere una svolta in Medio Oriente, agendo su Israele perché ponga fine alla colonizzazione dei territori occupati. Il tempo delle chiacchiere è finito». Di fronte all’annuncio di Abu Mazen, le autorità israeliane si sono trincerate dietro “è un fatto interno ai palestinesi”.
«In questi anni, dal dopo Rabin, Israele ha di fatto operato per indebolire, delegittimare la controparte palestinese. Negoziare significa riconoscere i diritti dell’altro, significa rispettare la legalità internazionale. Significa abbandonare una logica militarista per cui la pace è la ratifica dei rapporti di forza imposti al nemico. Questa non è pace. È una resa. Che Abu Mazen non firmerà mai». ❖

l’Unità 7.11.09
Piantiamo la democrazia
Ben Jelloun: L’idea di Mediterraneo è un’opportunità per sradicare dittatura e totalitarismo
intervista di Maria Serena Palieri

sÈpalieri@unita.it natoaFessessantacinque anni fa ma da trentotto vive in Francia. Tahar Ben Jelloun di cui appare in queste settimane per le Edizioni del Leone l’antologia di versi Doppio esilio ha ricevuto ieri a Treviso il Premio Mediterraneo di Poesia. Un riconoscimento che, dalla «a» di Albania alla «t» di Turchia, seleziona l’opera di scrittori nati su tutte le sponde del «mare nostrum». Ecco il nostro colloquio con l’autore di romanzi come Creatura di sabbia, raccolte poetiche come Stelle velate, ma anche d’una saggistica su temi roventi, come razzismo e Islam.
Lei ha trascorso da giovane molti mesi in un campo di disciplina dell’Esercito. Ma, quando ha lasciato il Marocco, non fu per ragioni direttamente politiche. Quale significato dà, allora, per ciò che la concerne, alla parola «esilio»?
«È una forma di fuga; cerchi di salvarti la vita o almeno di viverla in condizioni umanamente accettabili. Nel 1971 in Marocco vigeva lo “stato di eccezione”: niente libertà, niente democrazia, lo Stato era uno Stato poliziesco e gli intellettuali sotto controllo, alcuni torturati e incarcerati. Quando ho avuto l’opportunità di abbandonarlo per la Francia non ho esitato. Fu una liberazione, soprattutto perché sapevo di cosa fossero capaci i militari, avendoli subiti per diciotto mesi».
Uno scrittore mediterraneo Tahar Ben Jelloun, in Italia per il Premio Mediterraneo Poesia e per il Med-Film
Lei è in Italia in questi giorni per il Premio Mediterraneo, presiede la giuria del Festival del cinema mediterraneo e poi sarà a Marsiglia per un incontro sulla cultura mediterranea. È un’enfasi, questa sulla cultura mediterranea, che produce frutti?
«Il Mediterraneo ormai è una specie di gadget per chi organizza eventi! Ma resta importante parlarne, celebrarlo, spiegarlo. Per me è una visione del mondo, un umanesimo particolare che dona virtù a uomini e donne. La poesia è per sua essenza mediterranea, perché parla del mare, del cielo, della solitudine dell’anima, della bellezza e del fato. Dice, di quest’entità, le contraddizioni. Bisogna fare del Mediterraneo un’opportunità per piantare la democrazia nei paesi mediterranei che ancora non la hanno. Il Mediterraneo deve essere allergico a dittatura e totalitarismo». Un suo connazionale, lo scrittore
Mohammed Bennis, ci diceva di recente che l’idea francese (sarkoziana) di «unione mediterranea» è neocolonialista. Concorda?
«Potrebbe essere una buona idea a condizione che non si compia con capi di Stato che si fanno “eleggere” col 90% dei voti! Così è un’unione impossibile, contronatura, non è neocoloniale, è irrealizzabile. Prima, bisogna bonificare la situazione in quei paesi dove gli oppositori vengono uccisi e si organizzano carnevalate elettorali. Bisogna rompere con quei paesi».
Il suo pamphlet «Il razzismo spiegato a mia figlia» è stato tradotto in 25 lingue, esperanto compreso. Vuol dire che il razzismo è un problema universale? E come può spiegarlo a un Paese, l’Italia, che il Ku Klux Kklan, notizia fresca, ha scelto come luogo ideale per la sua prima «filiale» all’estero?
«Il razzismo è universale. S’incolla alla pelle, che tu sia africano, asiatico, europeo, arabo, musulmano, ebreo, cattolico... E purtroppo non è una moda che passa, è vecchio come il mondo. Nessuna società al mondo è al riparo dalla deriva razzista. L’Italia ha dimenticato che i suoi stessi cittadini hanno subito il razzismo. Così oggi apre la porta all’intolleranza e confonde immigrazione e clandestinità. I politici hanno sempre sfruttato le paure dei cittadini per conquistare il potere. Succede in Italia come in Francia, come in Olanda. Sfruttare ignoranza e paura, mischiare religione e terrorismo, confondere rom e rumeni, ecco il regno dell’ignoranza e della stupidità. Se uno straniero commette un delitto, va giudicato come qualunque altro cittadino. Se non ha fatto niente, va rispettato. È inammissibile che si nutra un pregiudizio perché una persona è straniera o di un colore diverso. È un peccato che l’Italia si abbandoni a questa pericolosa deriva».
Nel 1987 lei è stato il primo scrittore non francese a vincere il premio Goncourt. Ora, per il secondo anno, esso va a un naturalizzato, Atiq Rahimi l’anno scorso, quest’anno a Marie Ndiaye. A proposito di integrazione culturale in Francia, il Goncourt registra un dato di
fatto oppure una speranza, un po’ come il Nobel per la Pace a Barack Obama? «Il Goncourt è il premio letterario più prestigioso, in Francia. Da quando sono membro dell’Accademia, cerco di farlo aprire ad altri orizzonti, agli scrittori che scrivono in francese ma non sono nati su questo suolo. Quest’anno però Marie Ndyaie si è imposta con la forza e la potenza della sua scrittura, come Atiq l’anno scorso. Difendiamo anzitutto la letteratura, quando è di qualità, l’origine etnica non è un criterio, sennò cadremmo nel razzismo. A volte bisogna guardar altrove e scoprire delle perle. È il caso di questi due ultimi Goncourt. La stampa americana ha titolato La Francia per la prima volta assegna il premio Goncourt a una donna nera!. Ecco, questa è aneddotica. Il suo libro in realtà da settembre sta ottenendo un successo magnifico».
Dopo la poesia, dopo il saggio, Tahar Ben Jelloun ci regalerà un altro romanzo? «Sì, io scrivo ogni giorno».●

l’Unità 7.11.09
Viaggio pulp nella biblioteca senza libri
Alla Nazionale Centrale di Roma ci sono la caffetteria, il bookshop, i computer per i cataloghi, le sale di lettura, i bagni, le mostre temporanee, un corridoio che pare una pista di atterraggio... Ma i volumi no, non si vedono
di Chiara Valerio

Io ho sempre avuto una grande passione per le cartoline. Da adolescente ne avevo più di seicento appiccicate una di fianco all’altra sulle pareti della mia camera. Ovviamente molte le avevo comprate io stessa. Se vi capita di aprire una volta il sito della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma o di Firenze o della Marciana di Venezia e
vi capita poi di consultare il sito della Biblioteca Nazionale di Francia o della British Library, vi accorgerete che se gli italiani amano le cartoline, i francesi e gli inglesi amano i libri. Quello che c’è scritto dentro. Mi piacerebbe pensare che questo non significhi per forza che in Italia trattiamo libri come illustrazioni. Come scatole ornamentali. Come oggetti che stanno in un posto dove c’è Palazzo Ducale, la cupola di Brunelleschi o un cielo blu dipinto di blu. In ogni modo. La Biblioteca Nazionale Centrale di Ro-
ma sembra un giocattolo. L’edificio principale è un parallelepipedo di vetri specchiati e mattoni rossi, forse alluminio. Dietro c’è un altro parallelepipedo, bianco, e a sinistra dell’edificio principale, un anfiteatro, probabilmente di cemento. Tutto è megalitico. Il complesso sta acquattato in mezzo a pezze di verde molto più disordinate di una aiuola e quindi molto più accoglienti. Io spesso, in estate mi ci stendo a leggere. Anche se poi l’umido mi perfora le ossa del collo. E d’autunno un poco ci cammino, tra una foglia caduta e un’altra, giocando alle prime righe de I Peccatori di Peyton Place. Che più o meno suonano L’estate indiana è come una donna appassionata e incostante, che va e viene a suo piacimento in modo che non si è mai sicuri se arriverà a tutti, né per quanto tempo rimarrà. Un po’ è che io ho sempre bisogno di impalcature narrative per rendere reali i luoghi, un po’ è che quando frequenti la Nazionale di Roma, sai benissimo che puoi accedere più facilmente ai libri se li sai a memoria. Comunque. Una biblioteca si presenta anche dal suo guardaroba. Perché all’entrata, a meno che tu non sia uscito di casa con i pantaloni, una giacca e una penna, cosa che qualche volta capita, al guardaroba devi passare. D’inverno è più difficile. Non so, per esempio hai un cappotto pesante, o uno zaino con un cappello e qualche foglio in fotocopia. O un paio di blocchi di appunti. Da quando la Nazionale di Roma è stata ristrutturata, o rimodernata, o ripensata, riqualcosa insomma, il settore guardaroba sembra la parete esterna di una nave da crociera. La sigla anni ottanta di Love Boat, ma senza musica. Sportellini piccoli e grandi tutti con un oblò ovale. Forse perché chi non si ricorda il numero, si ricorda come era vestito o cosa si era portato dietro. Forse perché, come per i secchi della spazzatura, le trasparenze scoraggiano l’attacco bombe. Come se qualcuno potesse decidere di far saltare l’edificio delle sale di lettura della biblioteca. E non i libri. E se la mia questione vi pare oziosa, dovete andare a farci un giro. Perché nell’edificio principale della Nazionale di Roma, ci sono la caffetteria, il bookshop, le sale di lettura, i computer per i cataloghi online, i cataloghi cartacei, un corridoio che pare una pista di atterraggio, vetrate che paiono serre, un linoleum lucidissimo, i bagni, le mostre temporanee, ma i libri no. Giuro. Ci sono scaffali laschi e quasi smarriti in mezzo alle sale delle scienze o della letteratura e linguistica. Il grosso delle collezioni è nel palazzo bianco e altissimo che se uscite fuori per una boccata d’aria o una di fumo, incombe alle spalle dell’edificio dal quale siete appena riemersi. Quando entro alla Biblioteca Nazionale Centrale mi sento in una fabbrica di caramelle, negli antibagni americani di film sempre americani sugli stadi di baseball, oppure in una gigantesca sala d’aspetto per un viaggio spaziale. E questo perché non ho accesso alla complessa rete di rulli che portano i libri dai magazzini ai lettori, che somiglieranno di certo a una asettica ma capillare biblioteca di Alessandria. Da questo punto di vista la Biblioteca Nazionale Centrale sembrerebbe Nightmare before Christmas (tra l’altro stesse iniziali, anche se riarrangiate), quando Jack cerca di sostituirsi a Babbo Natale e vien fuori l’orrore. Un orrore molto ordinato. Tornelli, cartellonistica che incombe sulla testa a ricordarti dove girare, la caffetteria in agguato sulla destra appena passate le porte a vetri riquadrati bianchi e soprattutto le strutture fisse ma pop-up che azzurrissime ti vengono incontro mentre cerchi di capire solo e sempre dove si consultano i cataloghi. D’altronde sei lì per cercare un libro. Ma mi raccomando non cercarne più di tre alla volta. Un po’ mi distraggo sempre, un po’ ci si distrae quando intorno ti occhieggia qualsiasi cosa che maschera la funzione dell’edificio nel quale stai camminando almeno da quattro minuti senza vedere un volume, anche pubblicitario. Tranne quelli nell’acquario sulla sinistra, prima delle porte a vetri. Ma sono davvero libri o è una istallazione? Che so, la versione tridimensionale di Nighthawk di Hopper? La prima volta che sono entrata alla Nazionale di Roma era il millenovecentonovantacinque, avevo diciassette anni e menomale che mia madre aveva insistito per accompagnarmi. Perché altrimenti, al di qua della fantomatica soglia dei diciotto anni, non sarei potuta entrare. Neanche oggi potrei, se avessi diciassette anni. Sono ancora così umiliata per quel rifiuto che non mi ricordo nemmeno che libri ero andata a consultare ma solo mia madre che entra e esce dalle porte a vetri brandendo la patente tutta rosa come se tenesse lontano il male e vantandosi dei cassettini di ferro a scorrimento del catalogo cartaceo. Perché nel millenovecentonovantacinque e oggi i minorenni non possano entrare e leggere è una domanda che ancora mi gira in testa e la risposta migliore, e anche complottista e Potere Operaio, mi è sempre sembrata che questa impossibilità fosse un cascame dell’indice dei libri proibiti. In fondo se invece di proibire la lettura di certi libri proibisci i libri a certe fasce d’età, è quasi lo stesso. È un controllo, che oggi è solo di insopportabile natura economica, sull’accesso alla cultura.
ACCESSO ALLO STUDIO?
Comunque, io a Potere Operaio non mi sarei iscritta, la lotta deve essere democratica e i libri sono la cosa più democratica del mondo. Quando riesci a prenderli in mano e a leggerli. Faccenda che alla Nazionale di Roma non è sempre scontata. L’accesso ai libri non è easy quanto il restilyng, gli orari di richiesta sono stitici, il numero di volumi consultabili è irrisorio, la sera dopo le sette e mezza la biblioteca è chiusa. Se le strutture sono amichevoli e le uniche barriere abbattute sono quelle architettoniche allora siamo ancora alla sola forma. Non voglio la forma su un bisogno essenziale come l’accesso allo studio. Io so che un’altra soluzione è possibile. Perché ci ho camminato dentro. La biblioteca centrale dell’università di Cambridge è un edificio che somiglia alla Tate Modern, e infatti è dello stesso architetto, Sir Giles Gilbert Scott. Quando apro wikipedia per guardare in faccia Sir Giles leggo che ha anche disegnato le cabine del telefono rosse. Sir Giles è la Gran Bretagna quasi quanto Elisabetta II. La facciata della biblioteca è il logo che sta su ogni tessera di ingresso. Mattoni rossi e vetro, una porta girevole con le finiture di ottone. Sei piani per due corpi, nord e sud, cinque piani per due ali, est e ovest, una stanza dei libri rari, sale di lettura, otto milioni di libri. Otto milioni di libri tutti ad accesso libero, senza limitazioni di numero di volumi da poter tenere sul proprio tavolo. A questo pensavo. Che alla Nazionale di Roma di milioni di libri ce ne sono solo sei.●

Repubblica 7.11.09
Negli ultimi anni il maestro compie una rivoluzione testimoniata da una straordinaria mostra al Grand Palais
Le Bagnanti dipinte con il pennello legato alla mano

PARIGI. La straordinaria mostra su Renoir nel XX secolo s´è inaugurata al Grand Palais di Parigi (ove rimarrà fino al 4 gennaio 2010; andrà poi a Los Angeles e a Filadelfia); ampia per quanto attiene l´opera tarda di Renoir, essa documenta anche gli esiti delle sue influenze esercitate sulla generazione successiva, presentando opere del Picasso mediterraneo e post-cubista, del Matisse orientaleggiante d´anni Venti, di Maillol, di Bonnard.
Muove dagli ultimi anni dell´Ottocento, la mostra: un decennio che vedrà Renoir dedito a numerosissimi viaggi di studio, tra l´altro in Italia, a Madrid, poi a Londra, a Dresda, ad Amsterdam. Già un viaggio precedente, sempre in Italia, a Roma e Pompei in particolare, l´aveva fatto dubitare dei passi compiuti nel settimo e nell´ottavo decennio, a fianco della nuova pittura impressionista. Raffaello, allora, aveva risvegliato in lui la lezione di Ingres: così che, tornato in Francia, Renoir aveva scambiato la luce trasparente e mutevole, filtrata attraverso le chiome degli alberi, della Altalena e del Ballo al Moulin de la Galette con quella immobile e eterna delle Grandi bagnanti, il dipinto che egli aveva impiegato tre anni a licenziare, terminandolo solo nel 1887. Stava per compiere, allora, cinquant´anni, Renoir. E può dirsi che, passati pochi anni ancora, cominci da lì la sua età tarda: che durerà fino al 1919, l´anno della morte. Sarà gravida di capolavori e rimetterà questo pittore così alieno da ogni atteggiamento e pensiero d´avanguardia nel cuore dell´età moderna, in un momento in cui essa, consumati all´inizio del secolo nuovo i passi più arrischiati, avvertiva - dopo i disastri della Grande Guerra - il bisogno d´una pausa, e di un ritorno alle radici classiche dell´arte occidentale.
Questa tarda età di Renoir non era mai stata oggetto di un´indagine particolare: del che s´incarica la mostra del Grand Palais. Che s´inizia con le Giovanette al pianoforte del ‘92: un dipinto che, tramato com´è attorno allo sguardo intento che le due giovani posano sullo spartito, e sul silenzioso legame sentimentale che le stringe l´un l´altra, sembrerebbe appartenere ancora al Renoir dei decenni trascorsi. Ma l´interno in cui esse sono ritratte rinuncia a narrarsi con l´attenzione che un tempo Renoir aveva destinato ai suoi ambienti borghesi; e sveltamente egli ritrae un vaso di fiori sul pianoforte, riassumendo poi l´ampio tendaggio che chiude lo sguardo alle spalle delle fanciulle solo con un gran soffio di morbido colore. La medesima sintesi del visibile, la stessa concentrazione sul dialogo muto che intessono i protagonisti è nei dipinti immediatamente successivi: prefigurando il modo ancor più drastico che verrà, in cui i verdi e i rosa ovattati del fondo si fondono come una lava, non descrivono più nulla, e solo ribaltano sul primo piano la figura che il poco spazio contiene ormai a stento.
Così avviene nelle molte, splendide Bagnanti che Renoir immagina a partire dal 1903. La salute, ormai, è seriamente compromessa dalla malattia (un´artrite reumatoide che lo spingerà a trascorrere sempre più tempo nel clima caldo del Sud). Cammina ormai a stento, con l´aiuto del bastone; le sue dita cominciano a ripiegarsi su sé stesse, contratte in quello spasmo che lo costringerà a farsi legare il pennello alla mano, per dipingere; inventa un sistema di carrucole collegate al cavalletto che gli consentono di governare tele di grande dimensione pur immobilizzato com´è sulla sedia a rotelle. Eppure, nella pittura, trova insospettati momenti di benessere, e fin di allegrezza: quando, scelto con un´occhiata il pennello, volgeva lo sguardo sul paesaggio, o più spesso sulla modella e, a dispetto delle atroci sofferenze, «dipingendo si metteva a canticchiare», secondo quanto ricorderà Jean Renoir. Vanno a rendergli omaggio molti dei padri della nuova pittura: su tutti Matisse, che vede a più riprese gli ultimi quadri del vecchio pittore, «dipinti sempre più stupefacenti», fino a che la «facilità» con cui sono affrontati non lo conduce a comporre, nelle Bagnanti del 1918-´19, «i nudi più meravigliosi che siano mai stati dipinti».
Le "Bagnanti" ultime sono il termine estremo d´un processo avviato vent´anni prima. Da allora Tiziano e Rubens,, ma anche Velàzquez e Goya, avevano sostituito, per Renoir, la grazia del Settecento francese, di Boucher e Fragonard; da allora l´antico, e il museo, sono stati per lui non più canone e norma, ma dismisura e trasgressione. E la donna si farà trionfo di carne, immensa e quasi senz´ossa, «fantasma regressivo della donna tellurica archetipale», è stato detto con malevolenza. Certo «eccessiva», questa donna (come eccessive saranno le donne di Picasso dei primi anni Venti, che tanto devono a quelle di Renoir), essa pur tuttavia nasce da pensieri colmi di una seduzione che è insieme atemporale e flagrante, datata all´inizio del secolo: dalle Bagnanti di Vienna e di Filadelfia, almeno, due dei più straordinari dipinti in mostra, ove il nudo femminile occupa tutta la superficie, eludendo il fondo inessenziale - carne da toccare, veramente, come è stato scritto - mentre la fanciulla, svelata ormai d´ogni pudore, guarda intensa, gli occhi semichiusi e come intorpiditi, il pittore che la ritrae.

Corriere della Sera 7.11.09
Nizza con Matisse
Qui i pittori scoprirono il «cielo perfetto» Un giro in tram tra le opere d’avanguardia
di Stefano Montefiori

Nizza d’inverno, come Matisse. Il principe dei «Fauves» arrivò per la prima volta il giorno di Natale del 1917. La città del sole tutto l’anno gli riservò un’accoglienza d’ecce­zione, una tempesta di vento e pioggia talmente violenta che l’arti­sta fu tentato di lasciare subito la stanza sul mare presa all’allora mo­desto Hotel du Beau Rivage. Il tem­po di salutare Auguste Renoir, nel­la vicina Cagnes-sur-Mer, e il gior­no dopo il cielo era di nuovo blu brillante. «Quando ho capito che ogni mattina avrei rivisto quella lu­ce, non riuscivo a capacitarmi del­la mia fortuna». Matisse sarebbe ri­masto a Nizza fino alla morte, il 3 novembre del 1954.

Da pochi giorni, e fino al 18 gen­naio, al Musée Matisse sulla colli­na di Cimiez viene esposta la colle­zione di immagini sull’artista scat­tate da grandi fotografi dell’epoca (da Hélène Adant al cineasta Frie­drich Wilhelm Murnau all’agenzia URoger-Viollet): la capitale della Co­sta Azzurra celebra il più amato tra i tanti suoi figli adottivi.

Un viaggio a Nizza d’inverno può cambiare la vita, come accad­de a Matisse, o almeno divertire. La quinta città di Francia sta viven­do una fase di rinascita, simile a quella che qualche anno fa ha toc­cato la Marsiglia di Zidane: impan­tanata per decenni nell’immobili­smo e nell’affarismo della dinastia dei Médecin (il sindaco Jacques Médecin fuggì in Uruguay dopo 37 anni di scandali e imbarazzanti di­chiarazioni di sostegno a Le Pen e al Sudafrica dell’apartheid), oggi Nizza sta ringiovanendo. Accanto alle statue di Giuseppe Garibaldi, che qui è nato nel 1807, ecco final­mente la nuova gloria del premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio. Metà dei 350 mila nizzar­di hanno meno di 40 anni, quasi 30 mila ragazzi studiano nel vicino polo universitario di Sophia Antipolis, la cri­minalità (che ancora affligge la periferia Nord) è in calo e il sin­daco nizzardo Chri­stian Estrosi, ex cam­pione di motocicli­smo, cerca di fare del­lo stretto legame con il presidente Sarkozy una leva per lo sviluppo urbano della città: una «Grande Nizza città verde del Me­diterraneo » sul modello della «Grande Parigi», con un tram che taglia in modo spettacolare la zona pedonale di Place Massena (presto arriverà una seconda linea), 900 bi­ciclette a disposizione dei cittadini come a Parigi (e a Milano), e il pro­getto di un Tgv che unirà la spiag­gia a Parigi in quattro ore.

Un itinerario nella Nizza di Ma­tisse, che unisca l’epoca d’oro della città con il dinamismo di questi an­ni, può partire dall’Hotel du Beau Rivage prima dimora dell’artista, da poco completamente rinnovato da Jean-Michel Wilmotte, per pro­seguire fino all’estremità dell’affol­lato Cours Saleya, nel cuore del Vieux Nice dei ristoranti e del mer­cato di fiori, frutta e verdura. Qui, al numero 1 di Place Charles Felix, al terzo e quarto piano dello splen­dido palazzo ocra chiamato Caïs de Pierlas, Matisse ha abitato dal 1921 al 1938 e creato tra gli altri «Il violinista alla finestra», «Tempesta a Nizza», «La siesta», «Odalisca con cofanetto rosso»; eppure non c’è neppure una targa commemo­rativa. La vista su Quai des Eta­ts- Unis e sulla Promenade des An­glais è fantastica, e i più coraggiosi potrebbero chiedere una sbirciata agli inquilini (sperando nella buo­na sorte, perché non tutti sono pro­dighi di gentilezze). Proseguendo verso il porto, al numero 50 del boulevard Franck Pilatte c’è il Club Nautico da dove ogni pomeriggio Matisse partiva per fare canottag­gio.

Tra le decine di gallerie d’arte, da non perdere l’Atelier Soardi, al numero 8 di rue Désiré Niel. Qui nel 1930 Matisse stabilì il suo stu­dio, dove per tre anni lavorò alla monumentale «Danza» commissio­natagli dal collezionista americano Albert C. Barnes. E qui espongono oggi gli emergenti del collettivo South Art: giovedì 19 novembre vernissage di «Hypothétiques», di­segni di sei artisti in mostra fino al 16 gennaio.

Unità 07.11.09
Stefano Cucchi
E così inciderete una targa per dare il suo nome a un vicolo sperduto della Capitale. Poi la toglierete. Ne parlerete ancora l'anno prossimo, quando ricorrerà l'anniversario della sua morte. Poi lo dimenticherete. Peserà sulle vostre coscienze per un po'. Poi scomparirà, leggero come una piuma, come il suo corpo martoriato. Di lui rimarranno soltanto le lacrime di chi gli ha voluto bene, macigni salati sui vostri inconsci anaffettivi.
Paolo Izzo