mercoledì 11 novembre 2009

Agi 11.11.09
LIBRI: DOMANI ESCE LEFT 2006 E L'AUTORE NE PARLA A RADIOUNO

(AGI) - Roma, 11 nov. - Un anno di articoli, 43 per l'esattezza, dal rapporto sfumato con Fausto Bertinotti alle tragedie degli immigrati e delle carceri al rapporto uomo-donna, scritti dallo psichiatra Massimo Fagioli sul settimanale 'Left' nato tra anni fa dalle spoglie del vecchio 'Avvenimenti', diventa libro 'Left 2006'. In uscita nelle librerie domani, questo terzo libro edito da 'L'Asino d'oro', ha il suo asse portante nell'originalissimo intreccio tra politica, psichiatra e attualità. Ma è anche il racconto 'del sogno della nuova sinistra' di Fagioli che domani ne parla a RadioUno nel corso della trasmissione 'Nudo e crudo'. Poi il 5 dicembre Fagioli lo presenterà a Roma, alla Fiera nazionale della piccola e media editoria "Più Libri più liberi", insieme alla poetessa libanese Joumana Haddad, autrice de "Il ritorno di Lilith" (editore sempre 'L'Asino d'oro') che ha già venduto oltre 2000 copie in tutta Italia. "Il sogno magnifico di dar vita ad una nuova sinistra, a partire da un concetto inedito di uguaglianza quella che c'è tra gli esseri umani alla nascita - si legge in una nota - narrato attraverso un'originale trama di idee e riflessioni su politica, psichiatria e rapporto uomo-donna". Il libro raccoglie dunque i 43 articoli dello psichiatra dell'Analisi Collettiva, protagonista di una ricerca da oltre 50 anni sulla mente umana, apparsi nel 2006 sul settimanale "Left", nato per iniziativa di Luca Bonaccorsi, nella rubrica intitolata "Trasformazione". In "Left 2006", corredato dalle illustrazioni di Alessandro Ferraro, "alle vicende della politica, compreso il rapporto, poi tramontato, tra l'ex segretario del Prc, Fausto Bertinotti, e l'Analisi Collettiva, quel vasto movimento sociale e culturale di migliaia di persone che - precisa la nota - fa riferimento alla Teoria della nascita di Fagioli, si affiancano quelle dell'attualita' e della ricerca sull'identità umana. Ma c'è anche l'invito alla sinistra a riflettere su se stessa e a recuperare l'utopia delle origini - precisa la nota - Liberté Egalité Fraternité, unita alla idea di una trasformazione possibile: questo è il libro di Fagioli, che pur criticando Marx, riconosce alla sinistra un pressochè esclusivo "interesse per la realtà umana", ma le rivolge l'accusa di non riuscire a distinguere "tra bisogni ed esigenze" e di non avere mai pensato di trasformare la realtà mentale umana". (AGI) Pat

l’Unità 11.11.09
L’etica della furbizia
Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali
di Francesca Rigotti, università di Lugano

Vorrei intervenire con le parole della filosofia politica sulla questione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica italiana. Ma prima ancora desidero far notare che la risposta della Corte europea dei diritti dell'uomo alla richiesta della signora Lautsi è assolutamente in linea con la legislazione che abbiamo sottoscritto. La Corte ha infatti risposto con le parole dell'art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1952, sottoscritta anche dallo stato italiano, che stabilisce che «Lo Stato nell'esercizio delle funzioni che assume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento in modo conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche». Evidentemente nel Bel Paese si è preferito fare orecchie da mercante e ignorare tale diritto genitoriale, oltre a ironizzare sul fatto che la signora sia di origine straniera e quindi non abbia da interferire con le faccende italiane, ignorando probabilmente il fatto che qui si tratta di diritti dell'uomo, che per definizione non hanno confini nazionali né abbisognano di cittadinanze particolari. Oltre a ciò, una precedente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (del 1976) prescrive che le conoscenze religiose siano dispensate dalla scuola in modo «oggettivo, critico e pluralistico».
Leggo questi dati e riconosco la lodevole applicazione del principio di «ragionevole neutralità» nell'articolo di Marcello Ostinelli, «Etica pratica e cultura religiosa nella scuola pubblica ticinese» uscito su «Verifiche» (giugno 2007, no. 3, pp. 4-7). L'articolo contiene informazioni interessanti e proposte più che condivisibili. Le istituzioni liberali devono risultare neutrali rispetto alle visioni del mondo e alle concezioni del bene individuali che caratterizzano le società contemporanee. Questo atteggiamento è visibile particolarmente nella posizione che il liberalismo assume nei confronti della religione. Lo stato liberale è agnostico (indifferente) rispetto al problema religioso. Lo stato liberale è neutro rispetto ai valori. Tipica dello stato liberale è quindi la separazione tra stato e chiesa, nel rispetto dell'idea che la religione è qualcosa che interessa gli individui nella sfera privata ma non dovrebbe interessare lo stato. Lo stato liberale non ha una chiesa ufficiale ma rispetta le varie chiese presenti. Lo stato liberale è laico perché ragiona fuori dall'ipotesi di Dio, etsi deus non daretur, come se Dio non esistesse, il che non significa che non esiste – ricorda Ostinelli – ma vuol dire che bisogna sgomberare il campo da asserzioni dogmatiche. Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all' uso e all'abuso di termini quali libertà e liberalismo.❖

Repubblica 11.11.09
Il pensiero liberale e il potere berlusconiano
di Massimo L. Salvadori

Fin dagli albori del pensiero politico occidentale la riflessione sulla natura del potere ha ruotato intorno alle distinzioni relative a che questo sia detenuto da uno o da pochi o dai molti, abbia un carattere immoderato o moderato, sia concentrato al punto da divenire al limite dispotico oppure articolato e soggetto a controlli e contrappesi. E tutte le forme di governo si sono divise in assolutistiche e in variamente antiassolutistiche. Orbene, la specificità delle prime, nelle loro versioni tanto antiche quanto moderne, è di rendere impossibile ogni balance of power all´interno della macchina di governo e di tendere a impedire qualsiasi opposizione. La nascita del liberalismo è legata insieme agli eventi che nell´Inghilterra del Seicento posero fine alla monarchia assoluta e al pensiero dei due massimi maestri delle teorie antiassolutistiche, Locke e Montesquieu: l´uno affermò che i regimi liberi poggiano sulle istituzioni rappresentative, sulla piena espressione delle libertà politiche e civili e sul primato del potere legislativo su quello esecutivo; l´altro che la difesa della libertà poggia sulla divisione e sull´equilibrio dei poteri ponendo ad architrave il principio secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere».
Toccò ad una nuova generazione di pensatori liberali, ai Constant, Tocqueville, John Stuart Mill, levare l´allarme sul fatto che l´attacco all´equilibrio dei poteri poteva venire non soltanto dal vecchio assolutismo, ma anche vuoi da democrazie in cui la maggioranza invoca il diritto di restringere o annullare con un approccio illiberale i diritti delle minoranze, vuoi da leader che, avvoltisi nella bandiera della popolarità, usano degli strumenti offerti dalla democrazia per realizzare una sempre maggiore concentrazione di poteri fino ad esiti autoritari. La prima degenerazione dava luogo alla «tirannide della maggioranza», la seconda al neocesarismo. Tocqueville e Mill e in seguito Max Weber indagarono poi su un´altra componente del moderno assolutismo: quella derivante dal sommarsi del potere economico, politico e ideologico. Fu Weber a parlare in proposito del costituirsi in un simile caso di una «gabbia d´acciaio» da cui le libertà degli individui e dei gruppi sarebbero risultate sempre più soffocate. Egli, al pari di Tocqueville e Mill, aveva legato il sorgere della gabbia d´acciaio anzitutto all´avvento al potere di una dittatura socialistica collettivistica e statolatrica, ma al tempo stesso sottolineato con forza che essa poteva ben venire anche dal versante opposto, ovvero dalla plutocrazia.
Siffatta premessa non vuole essere un astratto excursus dottrinario, ma un richiamo alle categorie di giudizio che consentono di concretamente ragionare sul processo in atto da noi. È di non molto tempo fa l´articolo di un noto giornalista in cui si sosteneva che in Italia non si dà un «regime», perché vi sono pur sempre il Parlamento, il pluralismo politico, dell´informazione, ecc. Due osservazioni al riguardo. La prima concerne un uso improprio del linguaggio, che è andato diffondendosi, per cui il termine regime viene reso sinonimo di sistema autoritario o addirittura di dittatura, laddove esso è di per sé neutro e non altro significa se non forma di governo, ordinamento politico, il quale per qualificarsi richiede aggettivi come autoritario, liberale, democratico, dittatoriale, e via dicendo. La seconda riguarda la sostanza di ciò che implica il concludere che, se in Italia non vi è un "regime" (inteso secondo la prima deformante accezione), allora la democrazia resta viva e vegeta. Si tratta in questo caso di un aut aut concettuale rigido, che preclude la comprensione di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, dove si fanno ogni giorno più evidenti le molteplici pericolose restrizioni che la strategia del presidente del Consiglio ha già imposto e intende ulteriormente imporre al nostro sistema politico e istituzionale; il quale, se non ha i tratti di un regime organicamente autoritario, presenta però quelli di una democrazia minacciata proprio nei suoi fondamenti liberali da chi in maniera assordante pure pretende di essere il corifeo e il difensore dei valori e dei principi liberali.
Ebbene, usiamo le categorie fornite dai classici del pensiero liberale per ragionare sulla natura del potere berlusconiano. Esse ci dicono che le istituzioni liberali entrano in zona rossa quando si determina una concentrazione del potere politico ed economico; quando la formazione di un´opinione pubblica consapevole e autonoma viene limitata e pesantemente condizionata da un dilagante controllo dei mezzi di informazione; quando un potere dello Stato entra in conflitto permanente con un altro potere; quando la maggioranza parlamentare mira a costituirsi in rappresentanza monopolistica della volontà popolare. E, usando queste categorie, possiamo comprendere ciò a cui siamo di fronte.
Berlusconi come singolo assomma un´imponente quota del potere economico, politico e dell´informazione; una simile abnorme attribuzione di poteri, in costante crescendo e che non ha riscontri in nessun altro paese occidentale, poggia su una maggioranza parlamentare che guarda ai problemi del paese costantemente preoccupata di tutelare gli interessi personali di varia natura del capo del governo; questi si serve delle proprie televisioni private, dei quotidiani e periodici che a lui rispondono, della parte delle reti televisive pubbliche su cui è in grado di imprimere il proprio marchio per via politica, al fine di condurre campagne scandalistiche contro politici, magistrati, esponenti delle istituzioni, giornali e giornalisti «nemici»: si pensi solo ai più recenti casi dell´ex direttore dell´Avvenire, del giudice Misiano e di Corrado Augias. Abbiamo a che fare non con un sistema in cui potere frena potere, ma con un accumulo di poteri di stampo illiberale il quale altera gli equilibri; con una deriva di tipo plebiscitario che punta in maniera ormai sistematica alla delegittimazione del potere giudiziario, della Corte costituzionale, del ruolo di garanzia rappresentato dal Presidente della Repubblica; con la teoria che l´unico potere ad essere legittimato è quello del capo del potere esecutivo in quanto il solo espressione diretta della vox populi: un potere che ora mira apertamente a cambiare la Costituzione così da acquisire il completo primato. Locke, Montesquieu, Mill, Weber: tutti messi in soffitta.
Il paese si trova in un momento storico decisivo. La maggioranza parlamentare è chiamata a fare la conta di quanti non siano disposti a seguire Berlusconi nell´avventura finale in cui egli la trascina, l´opposizione a dar prova di quale pasta sia fatta, l´intero popolo a mostrare ai confratelli popoli d´Europa se intende continuare a soggiacere a uno stato di cose che, se ancora non lo ha chiuso nella weberiana gabbia d´acciaio, certo lo fa già vivere in una condizione che evidenzia una vera e propria immaturità politica e civile.

Corriere della Sera 11.11.09
D’Alema e il presidenzialismo «Meglio del sistema attuale»
E su Tangentopoli: «Sbagliammo a cavalcarla»
di Al. T.



ROMA — La caduta del Muro di Berlino «fu un grande evento positivo e liberatorio, anche se fu un momento drammatico che aprì conflitti, pensiamo ai Balcani». La lettura è di Massi­mo D’Alema, che ribatte a Fabri­zio Cicchitto in un dibattito sul­la caduta del Muro. E che rilan­cia sulle riforme: «Meglio il pre­sidenzialismo, con un Parlamen­to che lo bilancia». Quanto al bi­polarismo, sostiene D’Alema, va «civilizzato» e non è «incom­patibile con un sistema propor­zionale » . D’Alema ricostruisce gli anni di crisi e Mani Pulite: «Non fum­mo gli organizzatori di una Spectre che gestiva la magistra­tura contro Dc e Psi. A Botteghe Oscure non manovravamo Di Pietro e Borrelli. Se c’erano pote­ri forti non eravamo noi, che era­vamo debolissimi. Il nostro teso­riere Marcello Stefanini ricevet­te un avviso di garanzia e morì praticamente di crepacuore». Detto questo, il presidente di Ita­lianiEuropei aggiunge: «Facem­mo l’errore di illuderci, e lo dissi anche allora, che cavalcando l’ondata di antipolitica sarem­mo andati al potere. Sia chiaro, non fummo gli unici: anche la destra scese in piazza, Aleman­no gridava più di me contro i magistrati. Tutti senza capire che c’era qualcuno più attrezza­to per solcare le acque dell’anti­politica. E infatti vinse le elezio­ni Silvio Berlusconi».
D’Alema rievoca anche i gior­ni del camper, con l’ombra delle elezioni anticipate del ’91. Secon­do Cicchitto, Craxi si illuse di di­ventare leader di un centrosini­stra non più comunista. E inve­ce, sostiene, i comunisti distrus­sero la classe dirigente grazie ai rapporti più forti con la magi­stratura. Non fu così per D’Ale­ma, che riconosce i meriti di Cra­xi: «Ci aiutò a entrare nella fami­glia socialista europea e non mi­se ostacoli». D’Alema rievoca il colloquio nel camper, «un posto orribile»: «Ricordo bene che Cra­xi ebbe parole quasi per dire: se potessi io dirigere un partito co­me il vostro e non come il mio, si potrebbe aprire una prospetti­va diversa per il paese».
Sulla caduta del muro, ricor­da un colloquio con Michail Gor­baciov: «Mi disse che quel regime andava abbattuto. E che so­prattutto per noi che eravamo di sinistra quel regime era un pe­so insostenibile». 



Liberazione 10.11.09
La liberazione da regimi certamente oppressivi coincise con la vittoria del capitalismo più selvaggio
Ottantanove, un passaggio ambiguo e pericoloso
di Luciana Castellina

Pubblichiamo stralci di un articolo dell'ex eurodeputata di Rifondazione comunista già uscito nell'ultimo numero della rivista "Nuvole" (www.nuvole.it).

Vorrei concedermi - e me ne scuso - una breve nota autobiografica. Mi è necessaria affinché, chi di quei tempi antichi che sono ormai gli anni a cavallo fra i '60 e i '70 non può avere memoria (o ha scelto di non averla), non sia spinto a pensare che io sia una incallita ortodossa conservatrice comunista. Perché dico che l''89 non è la data di una gioiosa rivoluzione libertaria, ma un passaggio assai più ambiguo e gravido di conseguenze, non tutte meravigliose.
Insomma: per sgomberare il campo da possibili equivoci voglio ricordare che io, assieme ad altri, dal Pci fui, nel '69, radiata anche perché ritenevo che il sistema sovietico fosse ormai irriformabile e non più difendibile.
Vent'anni dopo, nell'‘89, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro (come noi pensavamo), non era certo in continuità con l'esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile, ma non una qualsiasi. In merito più che mai necessaria appariva una riflessione critica di tutte le forze che a quella storia si erano ispirate se volevano avere ancora un ruolo. Che invece non ci fu.
Se insisto nel dire - e oggi, ad altri vent'anni di distanza è ancora più evidente - che in quell'autunno dell'‘89, vi fu certo liberazione da regimi diventati oppressivi, ma non una risolutiva liberazione, è perché il crollo del Muro si verificò in un preciso contesto: non per la vittoria di forze animatrici di un positivo cambiamento, ma come riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Thatcher e Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria.
Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada il capitalismo più selvaggio e ogni forma di aggregazione nella società civile, espressione di qualche valore collettivo, venne cancellata, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, prepotenza, quando non peggio. Anche qui da noi, la morte del socialismo sovietico è stata vissuta come rinuncia ad ogni ipotesi di cambiamento. Persino un liberal democratico come Bobbio, che certo comunista non era, ebbe - lucidamente - a preoccuparsene.
Non era scontato che andasse così. Voglio dire che c'erano altri scenari possibili e che a quel risultato si è invece arrivati perché si era nel frattempo consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale, e il 1989 è una data che ci ricorda anche questo. Se il Pci avesse operato la rottura che poi operò nel 1981 con il sistema sovietico quando noi lo avevamo chiesto, in quegli anni '60 in cui i rapporti di forza stavano cambiando a favore delle forze di rinnovamento in tutti i continenti, sarebbe stata ancora possibile una uscita "da sinistra" dall'esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c'è stata.
Già all'inizio degli anni '80 il mondo era cambiato, alla fine del decennio era ulteriormente peggiorato.
Nel terzo mondo i paesi di nuova indipendenza, che avevano cercato di sottrarsi al neocapitalismo, erano ormai largamente finiti nelle mani di corrotte cosche "compradore", affossate quasi ovunque le grandi speranze che avevano animato i movimenti di liberazione che li avevano portati all'indipendenza.
Il solo paese che aveva ostinatamente cercato di seguire un modello diverso da quello imposto dalla burocrazia moscovita, la Jugoslavia, si trovava - morto Tito - alla vigilia di un conflitto interno che l'avrebbe dilaniata. Sotterrata, anche, l'illusione accesa dallo schieramento di Bandung di cui Belgrado era stata animatrice e che per qualche decennio aveva realmente contribuito a limitare l'arroganza delle due grandi potenze.
Il movimento operaio, in Occidente, era costretto a una linea difensiva per impedire che le conquiste dei decenni precedenti fossero rimangiate (e infatti lo furono). Il '68, appariva ormai addomesticato dalla rivoluzione passiva che i ceti dominanti erano riusciti a effettuare, integrando quanto in quello straordinario movimento c'era di indolore e cancellando ogni suo segno alternativo.
La leadership socialdemocratica europea - Brandt, Palme, Foot, Kreisky - che aveva coraggiosamente puntato a rimuovere la cortina di ferro col dialogo anziché con la minaccia militare, ovunque ormai scomparsa dalla scena, espulse dall'o.d.g. le proposte di denuclearizzazione almeno della fascia centrale europea.
In Italia, si collocava un Pci che prima aveva troppo tardato a prendere atto della crisi sovietica, e poi aveva accantonato il tentativo cui Berlinguer, prima della sua morte improvvisa e inaspettata, aveva lavorato: l'idea di non trarre «dall'esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d'ottobre» conclusioni liquidatorie di ogni ipotesi alternativa, ma anzi, l'indicazione di una possibile "terza via", ipotesi sulla quale aveva del resto intrecciato un fruttuoso scambio anche con settori importanti della socialdemocrazia. Proprio dalla caduta del Muro, il Pci, il più grande partito comunista dell'Occidente, ancora forte di quasi due milioni di iscritti e di quasi un terzo dei voti, prendeva spunto per proporre il proprio scioglimento, accingendosi ad una frettolosa abiura. Laddove, proprio in Italia, a differenza di altri paesi, sarebbe stato invece possibile un altro tipo di svolta: perché la rottura con l'Urss si era ormai consumata da tempo e la critica ai sistemi che aveva generato era non più patrimonio di piccole minoranze (come per molti versi era stato, vent'anni prima, all'epoca della radiazione del gruppo de Il Manifesto ), bensì di una larga maggioranza di iscritti al partito e di elettori. Avrebbe potuto essere l'occasione, finalmente, per una riflessione critica sulla propria storia che così non c'è stata. Complessivamente nessuno sforzo serio fu compiuto per riflettere criticamente su cosa era accaduto, per trarre forza in vista di un più adeguato tentativo di cambiare il mondo, ma solo qualche ristagno nostalgico e, altrimenti, la resa a un pensiero unico che indicava il capitalismo come solo orizzonte della storia. Per me e molti altri la data dell'‘89 è anche data di questo lutto.
E' un discorso che non vale solo per i comunisti, del resto. Per il modo come il Muro è caduto era chiaro che un impatto ci sarebbe stato, alla lunga, anche sull'altra corrente del movimento operaio, la socialdemocrazia. La cui crisi, sempre più accentuata, ne è oggi palese testimonianza. Perché è la legittimità stessa di ogni idea di sinistra che è stata messa in discussione. Non solo: anche se i partiti socialdemocratici erano stati sempre molto ostili al blocco sovietico bisogna ben dire che le loro conquiste sociali sono state strappate in Europa anche grazie al fatto che la borghesia era stata costretta a dei compromessi. Perché c'era una società che, con tutti i suoi difetti, aveva però spazzato via il feudalesimo e la reazione. Senza il vento dell'est quelle conquiste sarebbero state impensabili. E' tutta la sinistra, insomma, che da quel tipo di crollo dell'Urss ha sofferto (...).
Se nel nostro pezzo d'Europa ci fosse stata una sinistra più forte e lungimirante, essa avrebbe potuto cogliere l'occasione dello scioglimento dei due blocchi politico-militari per dare nuova forza al soggetto Europa, così riequilibrando i rapporti di forza nel mondo. E invece la sua debolezza finì solo per avallare una resa incondizionata al blocco atlantico, lasciando tutti alla mercè del dominio incontrastato degli Stati Uniti. La guerra contro l'Iraq, la catastrofe palestinese, e infine l'Afghanistan sono lì a provarlo. Quanto alle vecchie "democrazie popolari", sono tornate allo status vassallo di protettorato a dipendenza del capitalismo occidentale, riservato tra le due guerre all'Europa centrale e balcanica.
L'esempio forse più illuminante di come malamente hanno proceduto le cose è quello dell'unificazione della Germania, che pure era stata sogno legittimo del popolo tedesco. A 20 anni da quell'evento, una inchiesta pubblicata sul settimanale Spiegel ci dice che il 57% dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia di quel regime. Che francamente non era davvero bello. Vuol dire dunque che l'integrazione è stata solo conquista, e che l'ovest è arrivato come un rullo compressore, cancellando ogni cosa, anche i diritti sociali che lì erano stati sanciti e oggi vengono rimpianti.
Se insisto ancor oggi a sottolineare le occasioni mancate dell'‘89, e i guasti che il non averle colte ha provocato, è perché nell'agiografica euforia con cui viene ora celebrato il ventennale della caduta del Muro anche da una bella fetta della stessa sinistra, c'è qualcosa di anche più pericoloso: lo spensierato seppellimento di tutto il XX secolo, come se si fosse trattato solo di un cumulo di orrori, da dimenticare. Senza alcun rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c'è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del Novecento. Non solo: una riduzione gretta del concetto di libertà e democrazia, arretrato persino rispetto alla Rivoluzione Francese, che assieme alla parola liberté aveva pur collocato le altre due significative espressioni: egalité e fraternité , ormai considerate puerili e controproducenti obiettivi. Il mercato, infatti, non le può sopportare. Io non credo che andremo da nessuna parte se, invece, su quel secolo non torneremo a riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie. Buttare tutto nel cestino significa incenerire anche ogni velleità di cambiamento, di futuro. In quelle settimane di precipitosa accelerazione della storia che culminò con la fiumana umana che attraversava festosa la porta di Brandenburgo, a Berlino c'ero anch'io. Certo partecipe di quella gioia, come si è contenti ogni volta che un ostacolo al cambiamento viene abbattuto. Ma la libertà vera, quella per cui in tanti che credono che un "altro mondo" sia possibile si battono, quella non ha trionfato. Per questo l'‘89 non è una festa, è un passaggio contraddittorio e difficile. Un'occasione per riflettere.

COMUNICATO STAMPA 9 novembre ’09
"NEL MUNICIPIO XI, DA OGGI, TUTTI I CITTADINI ROMANI POTRANNO DEPOSITARE IL PROPRIO TESTAMENTO BIOLOGICO"

“La Giunta del Municipio Roma XI già il 21 maggio scorso ha istituito il Registro dei testamenti biologici e delle disposizioni di fine vita. A partire da questa data, ogni cittadino residente nel Municipio XI ha avuto la possibilità di depositare presso gli uffici anagrafici del Municipio, le proprie decisioni in ordine alla volontà o non volontà ad essere sottoposto a trattamento sanitario, inclusa l'idratazione e l'alimentazione forzate, nella eventualità di trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti. Con una ulteriore innovazione il Registro del Municipio XI ha previsto, oltre al testamento biologico, anche la possibilità di depositare le proprie volontà sulle forme (civili o religiose) di esequie funebri, sulla volontà in punto di morte di avvalersi o meno dell'assistenza religiosa, sulla volontà o meno di utilizzare il corpo per la donazione degli organi, sulla volontà o meno di essere cremati. Ora, a partire da oggi, attraverso la modifica apportata alla precedente delibera, non solo i residenti locali, ma tutti i cittadini residenti nel Comune di Roma potranno depositare le proprie volontà presso il Municipio XI – dichiarano Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI e Andrea Beccari, Assessore Politiche Sociali del Municipio Roma XI -.”
“Mentre il Parlamento discute la legge indecorosa licenziata dal Senato e approdata alla Camera. Una legge contro e non per la libertà di scelta del cittadino, dal momento che: riduce il testamento ad una semplice espressione di orientamento non vincolante per il medico, esclude l'idratazione e l'alimentazione forzati dal testamento e trasforma la figura del fiduciario in una sorta di secondino del testatore; il Municipio XI rilancia e mette a disposizione di tutta la cittadinanza romana il Registro dei Testamenti Biologici e di fine vita”.
“E' importantissimo dare la possibilità al maggior numero di cittadini di depositare le proprie volontà – concludono Catarci e Beccari -, prima che una nuova legge, voluta più dalle gerarchie ecclesiali e certamente in contrasto con la volontà popolare, espressamente anti-Costituzionale, limiti le volontà espresse dei cittadini e limiti la libertà di ogni individuo di autodeterminare il proprio destino.

martedì 10 novembre 2009

l’Unità 10.11.09
In extremis vertice alla Casa Bianca. Ma per la stampa israeliana il rapporto con gli Usa è in crisi
Il nodo colonie Il blocco degli insediamenti è la condizione per riprendere i negoziati con l’Anp
Obama pressa Netanyahu: unica soluzione i due Stati
Un incontro strappato in extremis. Difficile, nervoso. È quello svoltosi alla Casa Bianca tra Barack Obama e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Al centro la crisi del processo di pace e il dossier iraniano.
di Umberto De Giovannangeli

Un incontro in notturna. «Strappato» in extremis. Un incontro difficile, tra due alleati che non si amano, ma che sanno di non poter divorziare. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu entra nel-
lo Studio Ovale della Casa Bianca a tarda sera (notte inoltrata in Italia). A riceverlo è un Barack Obama che non nasconde la sua preoccupazione per un processo di pace in Medio Oriente che non decolla.
DIFFICILE INCONTRO
L'incontro è stato confermato a Washington solo l’altro ieri sera dopo che Netanyahu aveva annunciato da due settimane la sua partenza per gli Stati Uniti in occasione dell' Assemblea generale delle comunità ebraiche nordamericane, aggiungendo di sperare in un incontro con Obama. Nir Hafez, consigliere per i
media di Netanyahu, ha smentito che le relazioni bilaterali siano in difficoltà. Ma per il quotidiano Haaretz il ritardo nell'annuncio dell'incontro è la spia del fatto che le relazioni bilaterali «sono in crisi». «La Casa Bianca voleva far sudare Netanyahu prima di concedere un'udienza con il presidente e voleva che tutti lo vedessero sudare», scrive il quotidiano, secondo il quale il primo ministro è stato «umiliato». L'incontro, nota il giornale, è stato inoltre fissato nel pomeriggio, troppo tardi per il telegiornale israeliano della sera. La visita si svolge mentre gli Stati Uniti sono impegnati per far ripartire i negoziati di pace. I palestinesi chiedono come precondizione il congelamento delle costruzioni negli insediamenti, ma Israele è disposto a farlo solo dopo aver costruito 3mila appartamenti e se si esclude Gerusalemme est. Una proposta che la segretaria di Stato Usa Hillary Clinton aveva definito positiva,ma sulla quale ha dovuto poi fare marcia indietro ricordando che l'amministrazione americana chiede il pieno congelamento.
L’IMPEGNO AMERICANO
A Netanyahu, Obama ribadisce quanto da lui più volte affermato, in ultimo nel videomessaggio con cui il presidente Usa ha ricordato il quattordicesimo anniversario dell’uccisione di Yitzhak Rabin: l’inquilino della Casa Bianca è impegnato nel sostenere una soluzione di pace a «due Stati» per il conflitto israelo-palestinese. Due entità statali che, ribadisce Obama, «vivano fianco a fianco in pace e sicurezza». «Israele non arriverà ad avere sicurezza finché i palestinesi saranno in una situazione disperata», ha affermato ancora il presidente americano sottolineando che «i legami degli Stati Uniti con i nostri alleati israeliani sono granitici». «Noi ha aggiunto Obama non perderemo mai di vista il nostro fine comune: una pace giusta e durevole in Israele, in Palestina e nel mondo arabo». Al presidente Usa, Netanyahu ribadisce la sua volontà di «avviare in tempi rapidi negoziati senza pregiudiziali con l’Autorità Palestinese». Una determinazione contestata da Ramallah. Il rischio di una nuova ondata di violenze, se gli Stati Uniti non riusciranno a rilanciare il processo di pace israelo-palestinese, è reale. Questo è l’avvertimento di Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Anp. «La violenza aggiunge Rudeina riempirà il vuoto lasciato dal fallimento degli sforzi per rilanciare il processo di pace se l'amministrazione americana non si impegnerà a esercitare pressioni sul governo israeliano». «Se l' America ha continuato si mostrerà incapace di svolgere il ruolo che le compete, allora gli Usa e Israele saranno ritenuti responsabili delle conseguenze disastrose che ci saranno». Il portavoce palestinese ha affermato che lo stallo in cui si trova il processo di pace è dovuto «all'intransigenza di Israele e alla sua insistenza a continuare la politica di colonizzazione» in Cisgiordania.❖

l’Unità 10.11.09
Intervista a Giovanni De Luna
«Gli anni Settanta?
Un’epoca di passioni e di occasioni fallite...»
Ritorni Ricordare i morti dimenticati, come l’operaio Tonino Micciché, capire le ragioni profonde del nesso tra mobilitazioni politica e violenza: lo storico nel suo nuovo libro torna nelle viscere del «decennio caldo»
di Oreste Pivetta

Giovanni De Luna, storico, torna a riflettere sul decennio tra la fine degli anni sessanta e la fine dei settanta, dal nostro post Sessantotto alle lotte alla Fiat, alla marcia dei quarantamila nelle vie di Torino, dai nostri «anni di piombo» all’emersione di un nuovo «ceto medio», in un libro (Le ragioni di un decennio.
1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta memoria, pubblicato da Feltrinelli) che comincia ricordando alcuni morti d’allora, morti dimenticati, come Tonino Miccichè, animatore della lotta per la casa a Torino, e come Francesco Lorusso, Mariano Lupo, Giannino Zibecchi... È un libro in cui si parla spesso di Lotta Continua, il cui giornale è per Giovanni De Luna uno specchio del senso comune «a sinistra»... Giovanni De Luna, diciamo intanto che questa però non è un’altra storia di Lotta continua, movimento di cui hai fatto parte. Se mai è una storia che non oscura la tua condizione di testimone attivo. «Per restituire lo spirito del decennio, o almeno alcuni aspetti di quello spirito, mi sembra che le pagine di Lotta continua siano una fonte eccellente. Per ricostruire la cultura, le passioni, le aspirazioni di tanti, di una parte cospicua, e soprattutto di quei morti, come appunto Tonino Miccichè, di fronte a una lettura oggi prevalente di quegli anni attorno ad una sorta di paradigma vittimario, lettura tuttavia monca, che ricorda alcune vittime e non altre. Mi è sembrato giusto ridare un volto a quelle vittime, che sono nostre, come Tonino appunto, che non sono state vittime delle stragi o del terrorismo rosso, che non sono state vittime inconsapevoli, che sono state invece persone che hanno pagato con la vita la loro dedizione politica. Era necessario capire quali fossero state le ragioni che avevano spinto quei ragazzi alla totale dissipazione delle loro energie. Poi sono uno storico, che giudica con il ‘senno di poi’. Sono allo stesso tempo come chi sta nuotando in mezzo al mare e coglie sono la dimensione dello spazio d’acqua intorno a lui e chi, giunto sullo scoglio, osserva dall’alto». Tonino Miccichè, immigrato, operaio Fiat, licenziato, agitatore di quartiere, protagonista delle lotte per la casa. Mi sembra, e uso un brutto aggettivo, una figura emblematica, un “uomo nuovo” sulla scena politica.
«Tonino Miccichè presenta tutti i tratti della discontinuità rispetto alle altre generazioni dei militanti di sinistra del Novecento. Tonino non ha una famiglia che lo abbia instradato verso quelle idee, non ha letture che ne abbiano alimentato la formazione, non ha un partito al quale affidare se stesso e il proprio appuntamento con la storia. Tonino è un individuo, molto compreso della propria autonomia individuale, e il suo impegno fa leva sulla dimensione, usando un termine attuale, più del volontariato che della militanza rivoluzionaria. Un impegno quasi più esistenziale che politico e ideologico, che aveva trovato in Lotta continua un terreno fertile».
Il ragionamento che tu fai sulla violenza è assai complesso. Dapprima è la cosiddetta “marcia attraverso le istituzioni”, teorizzata dagli studenti tedeschi e in particolare dal loro leader da Rudi Dutschke, cioè la conquista di spazi di riforma e di democrazia subito nella università e nella scuola, poi nelle caserme, negli ospedali, nei manicomi, persino (e con successo: nacque allora il sindacato) nella polizia. Poi lo stragismo, che rompe questo tentativo. Di fronte a quella che si definì la “fascistizzazione dello Stato” si torna alle forme tradizionali di lotta: nelle strade quindi, nelle piazze, con l’inevitabile rischio della violenza... «Tappe reali, ma il passaggio decisivo è quello dalla violenza difensiva a quella offensiva. Al contrario di quanto testimoniano tanti dibattiti, il problema non sta nell’interrogarsi se prima si fosse innocenti. Il nesso tra mobilitazione politica e violenza fa parte della storia d’Italia. Se un paese partorisce nel Novecento la prima grande dittatura totalitaria e se per vent’anni questo paese viene privato della libertà, non basta chiudere una porta, perché la ferita si rimargini. Con il fascismo si dimostra che l’illegalità, la violazione dell’ordine, la negazione della libertà vengono da destra e che la difesa, anche armata, della legalità e della democrazia è compito della sinistra. È una responsabilità che si respira nell’aria nel Luglio Sessanta, che si respira nel ’64 di fronte al tentativo di colpo di Stato di De Lorenzo. È una responsabilità che diventa una eredità diffusa, ai margini della quale si innesta la svolta radicale di una concezione della violenza come strumento non tanto per difendere la democrazia, quanto per realizzare la rivoluzione. È il passo che compiono le Brigate rosse e dentro questa tempesta Lotta continua c’è, cercando prima di porsi in concorrenza con le Br, teorizzando la violenza di massa contro la violenza delle avanguardie, poi di fare argine. Il tentativo viene sconfitto e qui finisce la storia. La discussione su una ipotetica età dell’innocenza non c’entra per nulla».
Ma è una formula suggestiva...
«È una formula che non tiene conto del rapporto profondo tra violenza e comportamenti politici e quindi di
una eredità che ora ci pare lontanissima, totalmente novecentesca, ma che negli anni Sessanta si reggeva perché nella realtà si leggeva ancora la continuità dello Stato. Che Guida, all’epoca della strage, questore di Milano, fosse stato governatore di Ventotene, luogo del confino ai tempi del fascismo era sotto gli occhi di tutti. Nella continuità, antifascismo e lotta partigiana diventano riferimenti decisivi e da lì la teorizzazione della violenza ancora difensiva, interpretandola come replica alla repressione, arriva al movimento studentesco. Il Pci non pensava certo alla lotta armata, i gruppi operaisti e i gruppi marxisti leninisti sostenevano che la lotta armata fosse una deviazione piccolo borghese. Non c’è una elaborazione teorica del movimento in quella direzione, c’è solo un nesso comportamentale. Il nucleo teorico e la rottura emergono con le Br».
Una critica: in questa ricostruzione mi pare si perda la complessità di quegli anni... C’è anche uno Stato riformatore...
«Il libro vuole restituire una sensibilità dei tempi... dello statuto dei lavoratori non ce ne importava proprio nulla... Questa indifferenza il libro la riproduce fedelmente, alludendo però a una riflessione che oggi, con il ‘senno di poi’, si può tentare e cioè che forse la grande occasione fallita sia da cercarsi nella mancanza di sintonia tra il progetto riformista dall’alto e la mobilitazione spontanea dal basso. Anche se credo che il vero problema nostro, della sinistra, sia stato l’incomprensione di quanto stava accadendo nelle viscere della società. Quel decennio è stato l’ultimo veramente ‘politico’, quando si pensava che la politica potesse veramente recintare un territorio pedagogico in cui ‘fare gli italiani’. Trascorsa quella stagione, le aspettative si sono drasticamente ridimensionate. Alla politica si è cominciato a guardare come a qualcosa di chiuso, se non come a uno spreco. La definizione di una politica in chiave antipolitica nasce lì, in soggetti sociali di cui non ci accorgiamo, abbacinati dal mito della centralità operaia. Non dimentichiamo che il ’79 è già l’anno della Lega di Rocchetta nel Veneto».❖

l’Unità 10.11.09
Al cittadino non far sapere
di Giancarlo De Cataldo

Condivido pienamente le preoccupazioni espresse dal Corriere della Sera: se davvero insegnassimo nelle scuole «Cittadinanza e Costituzione» trasformeremmo, sciaguratamente, «la democrazia in catechismo». Parole sante. I nostri ragazzi devono essere tenuti alla larga da discutibilissimi precetti quali l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3), il ripudio della guerra (art. 11), la libertà di culto (art. 8), di associazione (art. 18), di pensiero (art. 21), il diritto alla salute (art. 32) e all’istruzione (art. 34), il dovere di pagare le tasse (incredibile, vero? Beh, c’è anche quello, all’art. 53), la irrevocabilità della forma repubblicana (art. 139). La maligna forza persuasiva di detti precetti è tale che i nostri figli potrebbero convincersi della validità della nostra Costituzione e mandare al diavolo quei politici, baroni e maestri del pensiero che da anni si battono per cambiarla (taluni sognando più mature e consapevoli forme di governo, ispirate a legislatori del calibro di Sardanapalo e del Leonida di Frank Miller). O, addirittura, potebbero prendere tanto sul serio questo confuso agglomerato di “buonismo democratico” da pretenderne l’applicazione. Inoltre, i nostri ragazzi potrebbero persino coltivare la perniciosa illusione che la scuola non serva soltanto a ingozzarli di nozioni come oche da foie gras, ma possa e debba contribuire (orrore) a farne cittadini civili e consapevoli. Ciarpame culturale che abbiamo già sperimentato con l’esecrando Sessantotto, e che, fortunatamente, il vento impetuoso del progresso (e le norme della Finanziaria) spazzeranno presto via. Così i nostri ragazzi, finalmente istruiti da savi maestri senza grilli per la testa, saranno liberi di formarsi una coscienza critica attraverso strumenti più adeguati: Wikipedia, la Curva, Miss Italia e il Grande Fratello.

Repubblica 10.11.09
La Cei: basta tagli alle scuole cattoliche
Il cardinale Bagnasco attacca ancora la sentenza sul crocifisso: una decisione surreale
di Orazio La Rocca

ASSISI «Clima politico troppo avvelenato». «Odio sociale» crescente, «pregiudiziale contrapposizione e conflittualità» esasperante tra partiti, politici e gruppi sociali. Ecco i mali che stanno affliggendo l´Italia e per i quali la Chiesa cattolica italiana chiede «una sorta di disarmo» generale a tutte le parti in causa prima di tutto ai rappresentanti dei partiti della maggioranza e dell´opposizione, ma anche ai responsabili dell´economia, dei media e della società civile per riprendere un possibile «dialogo comune» che punti a risollevare «le sorti del Paese». Un obiettivo che, comunque, per essere centrato non può fare a meno di «una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti» pubblici e privati dei responsabili istituzioni.
È l´allarme-richiamo con cui il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha aperto ieri ad Assisi l´Assemblea generale dei vescovi italiani. Il porporato parlando davanti ad una platea di circa 250 vescovi in rappresentanza di tutte le diocesi impegnati nelle assise episcopali fino a giovedì prossimo ha anche criticato duramente la sentenza del Tribunale dei diritti umani di Strasburgo contro l´esposizione dei crocifissi nelle scuole italiane, e toccato alcuni tra i temi cosiddetti «non negoziabili» come la difesa della vita nascente e il no alla pillola abortiva Ru486, per la quale ha invitato i farmacisti a fare l´obiezione di coscienza.
In apertura, Bagnasco rende noto il messaggio del Papa nel quale Benedetto XVI ricorda, significativamente, che «i problemi dell´Italia si possono risolvere solo attraverso l´unità». Esortazione prontamente condivisa da tutta l´assemblea con un eloquente applauso. «Il Paese incalza poi il cardinale deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito» a causa di una crisi economica internazionale, ma che ha livello nazionale tocca anche risvolti morali e comportamentali. Nel Paese si lamenta il cardinale «si registra infatti un´aria di sistematica e pregiudiziale contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli atteggiamenti di odio: se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in sé e pericoloso per la Nazione».
«In ogni caso avverte Bagnasco si impone una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti, diversamente verrebbe prima o poi ad inquinarsi il sentire comune». «Davvero ci piacerebbe confessa il presidente Cei che, nel riconoscimento di una sana per quanto vivace dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente».
Non meno teneri i giudizi sulla sentenza di Strasburgo, che Bagnasco torna a definire «surreale» e «sorprendente», una vera e propria «impostura frutto di minoranze «laiciste» e «esigue» che a parere del porporato finiscono per allontanare l´Europa dalla sua gente. Altrettanto netto l´appello all´obiezione di coscienza per i farmacisti, «anche quelli ospedalieri», per la pillola RU486 e la richiesta avanzata al governo di non operare tagli, in fase di Finanziaria, «sui fondi destinati alle scuole non statali cattoliche già penalizzate «da decurtazioni consistenti».

Repubblica 10.11.09
Bersani e il linguaggio di sinistra
di Michele Serra

«Non può dirsi popolare un partito che non riesce a parlare con chi guarda Rete 4». Lo ha detto il nuovo segretario del Pd Bersani nel suo discorso di insediamento, ed è una frase nevralgica. Fotografa la fatica, e forse l´angoscia, di un partito che si sente scalzato, se non dall´anima popolare del Paese, da alcune delle sue pulsioni e perfino delle sue abitudini. Un partito di insegnanti, di amministratori, di piccoli intellettuali, di ceto medio più o meno riflessivo, che pur contando su molti milioni di elettori sente sfocato e quasi inerte il suo rapporto con quelle che una volta si chiamavano masse popolari; e oggi sono il magma confuso, e confondibile, dei consumatori, dell´audience, delle clientele pubblicitarie e politiche (meglio: delle clientele pubblicitarie promosse a clientele politiche dal febbrile e a suo modo geniale lavoro del partito-azienda)
Bersani ha ragione, e mette (anzi rimette) il dito nella piaga. Ma enunciare con schiettezza un problema, tra l´altro noto e oramai annoso, ovviamente non basta a risolverlo. Specie se la soluzione di quel problema va a toccare tutte, o quasi, le ragioni profonde di una crisi di linguaggio che, per la sinistra italiana e non solo, è pluridecennale. In estrema sintesi: se per farsi capire da chi guarda Rete 4 bisogna parlare come Rete 4, allora ogni differenza, culturale e politica, perde senso e valore. Allora – brutalmente – Berlusconi ha stravinto. Perché la "chiave" di quel linguaggio è la semplificazione, e il suo successo "popolare" dipende esattamente dalla riduzione della realtà a un gradevole, maneggevole accessorio. Mentre la "chiave", pesante come una croce, maledetta come un dovere, che la sinistra si porta in spalle, è la complessità. È la cognizione che la realtà è una cosa complicata, che la sua lettura è una cosa complicata, e che il primo inganno da disinnescare, se si vuole provare a essere una comunità cosciente, è appunto la semplificazione in quanto tale: non solo e non tanto perché è strumento di propaganda, quanto perché in sé, nella politica come nella vita, la semplificazione è menzogna.
Il rovescio della medaglia, ben noto a chiunque faccia comunicazione o faccia politica o faccia, a qualunque titolo, lavoro sociale, è che la complicazione è complicata. Genera un linguaggio spesso criptico, spesso respingente, e nei casi peggiori altezzoso e inconcludente in pari misura: ciò che si riassume, volgarmente ma significativamente, nelle accuse di "snobismo" e di "antipatia" che oggi grandinano su molta sinistra e sugli intellettuali di ogni calibro, dall´accademico che si occupa di Rilke e non di Moccia, all´autore televisivo che preferisce invitare Ivano Fossati piuttosto che Pupo.
Tradotto in politica, proprio quella politica territoriale e popolare che a Bersani sta molto a cuore, questo significa che se la sinistra, per "farsi capire dal popolo", cerca di fronteggiare il breviario di slogan oggi in corso con un contro-breviario di slogan alternativi, e cerca di munirsi di una contro-suggestione virtuosa da opporre alla suggestione berlusconiana, perde anche se dovesse vincere. Vale a dire: baratterebbe, per qualche voto in più, proprio quel residuo e prezioso patrimonio di pazienza intellettuale, di capacità analitica, che Bersani ha rivendicato, nella sua campagna per le primarie, come un valore identitario. Lo stesso Bersani, dichiarando recentemente che non sa cosa farsene di candidature puramente simboliche (stoccata al veltronismo), mostra di non gradire la politica-spettacolo, quella che sa guadagnarsi qualche inquadratura di telegiornale in più ma perde aderenza nella vita sociale, come un pneumatico di bella presenza ma di grip scadente. Ma la politica della bella presenza, delle cerimonie edificanti, dei fondali color pastello, del cerone, delle frasi facili e delle soluzioni magiche, è esattamente il campo di battaglia dove più o meno tutti oggi ci si muove. Chi vuole entrare in quel campo, come tocca a Bersani e al suo Pd, con idee proprie e modi propri, deve sapere in anticipo che parte svantaggiato, che parte "antipatico", che lavora in salita. Quando si dice che oggi, in Italia, il conflitto politico è prima di tutto un conflitto culturale, si vuole dire esattamente questo: che bisogna cercare di restituire allo sguardo pubblico una profondità sgradita. E nessuno più del "popolo" – come sapeva bene un tempo la sinistra – ha bisogno di sentirsi rispettato nel suo diritto di conoscenza e di cultura, piuttosto che relegato nel cliché, profondamente classista, di una massa immatura e bambina, da intrattenere e spremere con un palinsesto di sogni. Di destra o di sinistra, sempre sogni rimangono.

Repubblica 10.11.09
Norma e diritto, da Platone a Brecht
di Roberto Esposito

Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un´idea astratta che governa ma il rifiuto dell´ingiustizia
Lo Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale

"Che cosa è la legge?" – chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt´altro che soddisfacente. Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge – di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E´ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo – sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale – alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all´argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l´autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente. Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità – lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall´altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge – intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti – è lungi dall´esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall´antico diritto alla moderna legge – di cui l´Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità – costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata. Anche quando, nei primi secoli della modernità, l´equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l´esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell´origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all´esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente. Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D´altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l´ha consegnata all´inferno. L´unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un´idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell´ingiustizia palese.
Qui l´autore torna a riproporre l´antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi – dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura – valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l´integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni. Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht – ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all´interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell´insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l´orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d´incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall´intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall´altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.

Repubblica 10.11.09
Nasce a Torino un istituto internazionale dedicato allo scrittore
Primo Levi, un centro studi e la traduzone in arabo
di Massimo Novelli

"Se questo è un uomo" diffuso nella lingua del Corano e in farsi, insieme ad Anna Frank, Shlomo Venezia e vari altri testi, da un sito che vuol combattere il negazionismo

TORINO. Una delle ultime traduzioni di Se questo è un uomo è in arabo. A curarla e a metterla in rete è stata l´associazione di scrittori, diplomatici e intellettuali "Projet Aladin", che ha promosso un sito di divulgazione e una biblioteca anche nella lingua del Corano e in farsi con vari testi sulla Shoah, tra cui, oltre a Levi, Il diario di Anna Frank e Sondercommando di Shlomo Venezia: ad avere la coraggiosa idea è stato Abraham Radkin, capo della britannica Human Rights Foundation, che ha coinvolto molti altri nel progetto, dal presidente del Senegal Abdoulaye Wade alla principessa del Bahrain Haya al-Khalifa, all´ex capo di stato francese Jacques Chirac, Gerhard Schroeder e l´Unesco. Oltre alla valenza culturale e a suo modo politica dell´iniziativa, tesa a contrastare nell´universo islamico il diffuso negazionismo, come sottolinea Amos Luzzatto, già presidente dell´Unione delle Comunità ebraiche, la pubblicazione online del libro, dato alle stampe da una piccola casa editrice torinese nel 1947, è un´ulteriore conferma della modernità e del valore di Primo Levi, uno dei narratori italiani più letti nel mondo.
Per raccogliere le edizioni delle sue opere, le numerose traduzioni (più di 800, in 30 lingue), la bibliografia critica e ogni altra documentazione sulla sua figura, compreso un ricco sito Internet e in prospettiva la possibile acquisizione del suo archivio, è stato creato a Torino, la città dove nacque, un Centro studi internazionali a lui dedicato. Ospitato in uno dei palazzi dei Quartieri militari progettati da Filippo Juvarra, l´organismo è presieduto da Luzzatto ed è diretto dallo storico Fabio Levi (soltanto omonimo dello scrittore). Entra ora nel vivo delle attività, peraltro nell´anno in cui cade il novantesimo anniversario della nascita dell´autore de I sommersi e i salvati, che morì nel 1987. I soci fondatori sono la Regione. il Comune e la Provincia, la Compagnia di San Paolo, la Comunità ebraica, la Fondazione per il libro, la musica e la cultura, i figli di Primo Levi. Tra i componenti del consiglio direttivo ci sono Bianca Guidetti Serra ed Ernesto Ferrero.
Il centro studi, come spiegano i promotori, "punta a diventare l´interlocutore di riferimento in Italia e all´estero per chi intende approfondire la conoscenza dello scrittore torinese". Tutto ciò è reso possibile dal fondo bibliografico di circa 2 mila titoli, usciti dal 1947 in avanti, in italiano, francese, inglese, tedesco e spagnolo, che è già consultabile presso la biblioteca dell´Istituto storico della Resistenza di Torino. Sul sito del centro, quindi, si può accedere alla bibliografia online, che raccoglie le diverse edizioni italiane dei suoi volumi, i riferimenti a quelle straniere e una descrizione analitica del patrimonio di testi critici finora censito. È stata realizzata da Domenico Scarpa e da Maurizio Vivarelli.
Primo Levi fu un romanziere, un poeta, un saggista, un chimico (lavorò per anni alla fabbrica Siva di Settimo Torinese), un intellettuale dai molteplici interessi. Sempre pronto a ragionare, soprattutto con i giovani, sulla sterminio degli ebrei e degli altri deportati, sui mali, sui vizi e sui drammi del nostro tempo. E fu ovviamente un testimone d´eccezione dell´Olocausto, così come uno dei pochi sopravvissuti, dunque un "fortunato". Ma un uomo che scampò all´inferno dei lager nazisti, poteva definirsi tale? Levi meditò a lungo su questo tema, indagando l´intreccio di casualità e di sistematicità, di "normale" burocrazia e di pianificazione degli eccidi, presente nella Shoah. Un argomento centrale nel suo pensiero, in sostanza, che oggi verrà affrontato da Robert Gordon, docente di Letteratura italiana a Cambridge, nel corso della prima "Lezione Levi". Lo studioso inglese parlerà pertanto sul "ruolo e sul significato del concetto di "fortuna" o di "casualità" nell´opera di Levi, che ne fu perennemente affascinato e preoccupato". La lezione si terrà ogni anno alla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell´Università torinese, dove Levi riuscì a laurearsi, nonostante i diktat delle legge razziali, all´inizio degli anni Quaranta. Ogni appuntamento sarà incentrato ovviamente su aspetti diversi della sua vita e della sua attività; la lezione verrà poi pubblicata dall´Einaudi, la casa editrice di tutti i suoi libri che tuttavia, nel dopoguerra, rifiutò all´inizio la pubblicazione del manoscritto di Se questo è un uomo, edito invece da De Silva.

Repubblica 10.11.09
Un libro di Nicotri sulla storia della ragazza scomparsa nel 1983
Depistaggi e misteri, ecco il caso Orlandi
Nella vicenda che coinvolse il mondo vaticano furono evocati Lupi grigi e servizi segreti
di Adriano Prosperi

Nel campo della ricerca storica capita spesso di suggerire ai giovani di studiare le società del passato attraverso le carte di un processo criminale, secondo l´assioma per cui nella infrazione delle regole è iscritta anche la regola che regge una società. E´ un principio euristico che trova conferma nel libro che Pino Nicotri ha dedicato a un celebre caso contemporaneo: Emanuela Orlandi. La verità. Dai Lupi Grigi alla banda della Magliana, Baldini e Castoldi 2008. Com´è noto, Emanuela, figlia quindicenne di un dipendente della Prefettura pontificia, scomparve di casa il 22 giugno 1983. Undici giorni dopo in Piazza San Pietro papa Wojtyla lanciò un clamoroso appello al «senso di umanità» dei responsabili del presunto rapimento. Come tutte le vicende criminali che hanno per teatro il minuscolo ma scrutatissimo stato papale, anche questa suscitò immediatamente una grande impressione: anche perché stavolta l´attenzione dei media fu stimolata non dal silenzio che di solito cala rapidamente sui casi criminali del mondo vaticano ma al contrario dall´annunzio fatto proprio dalla voce più diffusa e ascoltata nel mondo, quella del papa. Di quel deliberato clamore pubblico, singolarmente contrario a tutte le regole abituali in casi di rapimento, la spiegazione che Nicotri ha ricavato dalle sue ricerche è semplice: esso serviva a depistare l´attenzione da quello che fu probabilmente l´esito mortale di un delitto o di un incidente inconfessabile in qualche appartamento prelatizio del Vaticano.
Così venne montata una macchina sgangherata ma capace di tenere a lungo col fiato sospeso l´opinione pubblica: vi figurarono di volta in volta tutte le maschere del terrorismo mondiale, i Lupi grigi e Alì Agca, il KGB , i «Komunicati» di agenti turchi, le telefonate di un molto romanesco «Americano» e altre strabilianti vicende. Un invito a nozze per quella che si gabella come informazione e che è per lo più una macchina per produrre brividi di paura negli interni delle case. E non poteva mancare il contributo dei servizi segreti italiani o di una componente al solito «deviata», almeno secondo l´autorevole opinione del prefetto Parisi. Una zuppa italiana e romana, anzi romanesca, zeppa di monsignori e di briganti, in una città dove santità e brigantaggio, corruzione e ipocrisia si intrecciano. Una vicenda che culmina nel caso fra tutti strano e non spiegato di «Renatino» De Pedis, il capo della banda della Magliana, morto malamente e subito sepolto tra i santi e i principi della Chiesa in una antica basilica.
Questa storia potrebbe dire di sé: nella mia fine è il mio principio. Perché alla fine il vasto mondo del terrorismo scompare e tutto riporta al piccolo circuito del mondo vaticano: un mondo singolare se considerato dal punto di vista della legislazione in materia criminale. Qui, come ha scoperto Nicotri, vige la norma del «segreto pontificio» , cioè l´obbligo di tacere su tutte le cose nocive «all´edificazione della Chiesa». Qui una soave e segreta giurisdizione spirituale dalle remote e mai cancellate radici estende la sua mano su delitti altrove affrontati in pubblici procedimenti. Un solo esempio basti: il clamore suscitato dai casi di pedofilia ha portato il Vaticano a estendere su quel reato la giurisdizione di un tribunale ecclesiastico ufficialmente deputato a questioni di fede. E se la magistratura italiana pretende di indagare su qualche delitto si alza la cortina del silenzio e del segreto. Non senza compiacenti torsioni delle regole istituzionali. Nel caso Orlandi il giudice unico del Vaticano era anche il capo dell´ufficio legale del Parlamento italiano: lui si mandava le rogatorie e ancora lui, attraversato il Tevere, le respingeva al mittente, cioè a se stesso. Il resoconto della ricerca di Pino Nicotri merita dunque di essere letto. Fa riflettere sul legame tra due stati dalla diversissima legislazione. Il primo vive di scandali quotidiani e di una sfacciata immoralità e impunità dei potenti che anche se condannati si rifiutano di sottostare alla legge. Il secondo nasconde i vizi privati dei suoi potenti sotto l´affettazione pubblica della virtù.

Corriere della Sera 10.11.09
Il libro Pietrangelo Buttafuoco
«La sinistra bacchettona e l’incubo trans»
di Paolo Conti

ROMA — «Il fatto è che la sinistra è ancora appesantita da un certo bacchettonismo ormai datato, dal suo conformi­smo, e quindi anche l’erotismo diventa un problema socia­le... » E allora? «E allora c’è tuttora quell’ansia di codificare la rivoluzione e la liberazione sessuale. Alla fine, durante i son­ni funestati da cotanto materiale, ecco spuntare gli incubi. Magari sotto forma di transessuali francamente bruttini e con le loro manone da muratore...». Invece la destra? «Pro­pongo un paradosso. Ormai la destra è diventata la sinistra. Fantasia, creatività, sovversione del mito, un certo sessantot­tismo. E magari un’idea complessivamente moderna, anzi contemporanea della donna, penso alle Polverini o alle Peri­na... mostrano di fregarsene del banale codice estetico codifi­cato dalle regole 'al maschile e al femminile' che ci ha fra­stornato per decenni. A sinistra la parola 'direttora' è appar­sa una conquista rivoluzionaria. A destra mi pare che siano più sbrigativi, no?» Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale più che irregolare del­la destra e dintorni, ironizza e si mette in gioco su un’equazio­ne fin troppo facile, inevitabilmente venata di volgarità. Ov­vero: il centrodestra continua ad amare «tradizionalmente» le donne, al punto da farne un’ossessione (vedi il caso Berlu­sconi). Nel centrosinistra, ed è superfluo fare nomi in queste ore, ha scoperto la transessualità e l’ambi­guità. Proprio in queste ore esce l’ultimo libro di Buttafuoco, edito da Mon­dadori. Un manuale consa­crato alle donne «vere», al millenario indiscusso potere non solo sessuale che esercitano sul ma­schio «etero», all’olimpi­ca e solitaria sicurezza con cui scelgono un uo­mo, lo lasciano, fondano o disfano famiglie magari per crearne altre allargate o per restare sole. Il libro è un’antologia di grandi amori e instancabili ama­tori, da Gabriele d’Annun­zio passando per Benito Mussolini e le sue due donne, la moglie Rachele e l’amante Claretta, approdando a Porfirio Rubirosa, «lo sciu­pafemmine più famoso della sua epoca» che però conclude la sua vita innamorato come un quarantasettenne della sua splendida, soprattutto diciannovenne, moglie Odile Rodine. Destino vuole che Rubirosa muoia schiantandosi in auto qua­si all’alba del 5 luglio 1965 a Parigi ubriaco, probabilmente per dimenticare che la sua Odile è ormai nelle braccia di Bep­pe Piroddi, altro (ma ben più giovane) mitico amateur.
E torniamo all’interrogativo. Perché a destra, spesso osten­tatamente, si ama «all’antica» e in alcune pieghe del centrosi­nistra si approda altrove? «La sinistra ha perso la sua carica creativa e libertaria, si è impantanata nella banalità del con­formismo. Ovvio che la vicenda del transessuale appaia una trasgressione pazzesca. La destra ormai ha sfasciato la di­mensione del conservatorismo, del mondo come dovrebbe essere». In quanto a Berlusconi e alla sua passione per le don­ne giovani e giovanissime? «Vorrei rispondere parlando del tabù abbattuto. Nella nostra cultura si insegna che tutto è lecito, tutto è eros, si discute ogni momento di pillola e profi­lattici, di migrazione da un sesso all’altro. Diventa difficile ricorrere al tabù per i giovani, ragazze o ragazzi che siano. E impedire che si diano via con facilità. Mentre invece, ma di­ciamolo sottovoce, il tabù è essenziale per un buon eroti­smo ».

Corriere della Sera 10.11.09
Una nuova collana nazionale ripropone la storia della nostra prima poesia, con riproduzioni digitali
Italia, in principio fu il verso
La lirica delle origini, dai Siciliani al Nord, attraverso i canzonieri
di Cesare Segre

Se domandiamo a qual­cuno di dove venga la poesia, lo mettiamo certo in imbarazzo, o lo induciamo a fantasticherie, affascinanti o fumose che sia­no. Se invece domandiamo di dove venga la poesia lirica italiana, la risposta è facile e sicura. Infatti essa nasce per l’iniziati­va di un monarca illuminato come Federico II di Svevia, re di Sicilia, che convince i suoi fun­zionari a provarsi in composizioni analoghe, anche per la metrica, a quelle dei trovatori pro­venzali, che allora vagavano per l’Europa into­nando le loro canzoni. Così, un drappello di giuristi e notai si mettono in gara esprimendo amori immaginari con sempre maggiore mae­stria (del resto, i notai poeti non sono rari nel­la storia della letteratura). Nella corte federi­ciana, che poteva vantare in tutti i campi una cultura di livello internazionale, si forma così un vero cenacolo poetico. Con la fine della di­nastia sveva (1266) l’episodio ha termine, ma le composizioni dei Siciliani s’erano ormai dif­fuse in tutta la penisola.
È in Toscana che questa lirica viene più ap­prezzata, e a sua volta imitata. E se non si for­ma un vero cenacolo, data la frammentazione della regione, certo i poeti dei vari centri si scambiano testi, intrecciano dibattiti, nel qua­dro di un antagonismo creativo. Autori ormai quasi dimenticati, come Guittone d'Arezzo o Monte Andrea, sono al centro di piccole scuo­le provinciali, e raggiungono una fama straor­dinaria, continuando, ma ampliando, la tema­tica dei poeti federiciani. Sarà poco dopo Dan­te, insieme col Cavalcanti, a mettersi alla testa di una nuova scuola, ben più raffinata ed origi­nale, anche perché nutrita di un pensiero più elaborato; ma tutto è partito da loro, dai poeti siciliani e da quelli che chiamiamo siculo-to­scani. Da qualche anno, poi, la scoperta di ma­noscritti con testi lirici settentrionali, special­mente emiliani e lombardi, ha rivelato che an­che lì era giunta l’onda della poesia cortese, in date davvero precoci. Si era forse elaborata una maniera poetica analoga a quella sicilia­na, indipendentemente da questa? Le cose non sono ancora chiare; soprattutto non s’in­travede un centro preciso al quale riferire que­­st’attività, i cui prodotti, vidimati da studiosi come Stussi e Castellani, sono sotto i nostri oc­chi, a imbarazzarci.
Ma, tornando al problema delle origini, re­sta da chiarire come sia giunta sino a noi, do­po otto secoli, la poesia dei Siciliani e dei loro seguaci. Sappiamo che i poeti si esibivano re­citando, forse cantando, i loro testi, a un pub­blico di fan: un vero recital. Qualche volta li avranno pronunciati a memoria, qualche al­tra avranno tenuto un foglio scritto sott’oc­chio. Spesso ci furono dei professionisti, i giullari, a recitare (o cantare) testi altrui. Tut­to questo favorisce la memorizzazione più che la conservazione dei testi. Ma è facile im­maginare che qualche autore avrà raccolte le sue migliori poesie, magari avrà fatto omag­gio di queste raccolte ad amici potenti. E ci sarà anche stato qualche amatore di poesia a mettere assieme piccole antologie di quelle che preferiva. È qui che si può indicare la pro­babile base per la diffusione, che fu amplissi­ma, della poesia siciliana.
Oggi, perdute le trascrizioni d’autore, per­dute le antologie personali o collettive, ci re­stano le grandi raccolte manoscritte che chia­miamo canzonieri. Sono raccolte analoghe a quelle che si erano fatte per i trovatori, e che avevano avuto nell’Italia settentrionale, spe­cie nel Veneto, l’ambiente più favorevole alla loro diffusione. La continuità fra i canzonieri provenzali e i canzonieri italiani antichi è evi­dente. In Italia, comunque, si tende a seguire ora un ordine cronologico approssimativo, ora un programma di gerarchizzazione abba­stanza netto, che mette in vista gli autori più famosi e apprezzati, poi risale ai predecesso­ri, a partire dai Siciliani, e pone in fondo i contemporanei. E merita di essere sottolinea­to che uno dei più antichi tra i canzonieri ita­liani, forse il più antico, ancora in analogia con alcuni di quelli provenzali, è abbellito da luminose miniature.
Questi canzonieri sono piuttosto numero­si. Se ci limitiamo ai più antichi, diciamo quelli che arrivano fino agli stilnovisti (tenu­to conto che nei primissimi sono trascritte soltanto poche poesie di Dante e di Cavalcan­ti), non raggiungiamo il numero di venti. Ed è stato opportunamente creato da poco un Comitato per l’Edizione nazionale dei Canzo­nieri della Lirica italiana delle Origini, presso la Fondazione Enzo Franceschini di Firenze, che ha in programma di pubblicare i quindi­ci più antichi canzonieri, più una stampa del 1527 (la celebre Giuntina di rime antiche) che deriva da manoscritti perduti, con tutto l’apparato interpretativo che occorre. I primi tre canzonieri, senza dubbio i più preziosi e ricchi, che già erano apparsi, a cura di Lino Leonardi, nel 2000, in occasione delle cele­brazioni federiciane, vengono ora ripropo­sti, sempre da Leonardi, in apertura della nuova collana dell’Edizione nazionale ( I can­zonieri della lirica italiana delle origini , Firenze, Edizioni del Galluzzo): ai tre volumi di riproduzione fotografica segue un altro volume, imponente, di studi critici (pp. 458, con molte illustrazioni fuori testo), e, questa la novità principale, un dvd con la riproduzione digitale ad alta risoluzione degli stessi manoscritti, corredato di indici complessivi.
Gli studi critici sui tre manoscritti saranno un punto di riferimento indispensabile per la storia della nostra prima poesia. Ad opera dei principali specialisti (R. Antonelli, A. Petrucci, M. Palma, P. Larson, C. Bologna, L. Leonardi, S. Zamponi, G. Frosini, G. Savino, T. De Robertis, V. Pollidori, M.L. Meneghetti) essi esaminano i codici dal punto di vista filologico, linguistico e paleografico, nel quadro della cultura toscana intorno al 1300 (i manoscritti provengono da Firenze e Pisa, con un’incertezza sul terzo fra Pistoia e Firenze). Ma è ancora più importante l’analisi del modo in cui le tre raccolte furono messe assieme. Utilizzando ogni indizio, come i cambiamenti di mano dei copisti, le differenze d’impaginazione, l’ordi­namento dei testi, i passaggi da un fascicolo all’altro, i collaboratori riescono quasi a intra­vedere gli esemplari utilizzati per mettere as­sieme le tre raccolte, probabilmente in botte­ghe di amanuensi ben organizzate, e a rico­struire il lavoro di assemblaggio compiuto con intelligenza dai copisti. Si possono insom­ma ricostruire le ultime mosse della traslazio­ne della poesia siciliana e siculo-toscana dalle raccolte personali e collettive ai grandi, presto illustri canzonieri. Interessante poi il fatto che questi canzonieri rivelino le preferenze di chi li compilò, documentando il canone della no­stra poesia lirica delle origini, canone contro il quale già Dante incominciò a battersi, per esempio mettendo in dubbio l’eccellenza e l’autorità di Guittone, e contrapponendogli quella del bolognese Guinizzelli.

Corriere della Sera 10.11.09
Severino pubblica «Discussioni intorno al senso della verità». È anche una risposta ai suoi critici
Croce e Gentile, stranieri in casa
«I nostri filosofi sono esterofili, manca una seria analisi dell’idealismo»
di Armando Torno

La filosofia italiana contemporanea? «Ha fatto troppo rapidamente i conti con Croce e Gentile», risponde Ema­nuele Severino. E precisa: «Croce è stato liquidato per esterofilia, perché ormai tra­duciamo anche gli starnuti d’oltralpe; Gentile per la sue scelte politiche, ma in verità non co­nosco ancora una forte critica al suo pensie­ro ». Poi, una battuta: «Analitici e continentali? Provano a litigare, ma dicono e ripetono la stes­sa cosa: la finitezza del mondo e dell’uomo».
Abbiamo incontrato il filosofo nella sua ca­sa di Brescia per parlare dell’ultimo libro, Di­scussioni intorno al senso della verità , uscito in questi giorni per l’editore Ets nella collana di Adriano Fabris. È un’opera nella quale ri­sponde ai critici, a volte avversari, sovente allie­vi. Ma più correttamente diremo che queste pa­gine hanno interlocutori quali — citiamo te­stualmente l’elenco di Severino — «Vincenzo Vitiello, Massimo Cacciari, Carlo Arata, Vero Tarca, Massimo Donà, Mauro Visentin, Ines Te­stoni, Umberto Galimberti, Claudio Antonio Testi, Giulio Goggi, Erwin Tegtmeier». Alcuni di essi — nota — «sono critici veri e propri (per esempio Vitiello), altri svi­luppano con originalità (Ga­limberti, Testoni, Goggi) il mio discorso filosofico». Ed essi sono l’ultimo capitolo di una serie di discussioni che egli continua dal 1964, allor­ché sulla «Rivista di Filosofia Neoscolastica» (diretta da So­fia Vanni Rovighi) pubblicò il celebre Ritornare a Parmeni­de , confluito poi nell’ Essenza del nichilismo (Paideia 1970 e Adelphi 1981). Negli altri dibattiti, vi sono figure che vanno dal suo maestro Bontadini a Gadamer e Levi­nas, da Abbagnano a Pareyson, da Bobbio a Vattimo, da Irti a Reale al cardinal Ruini.
Severino si trova a suo agio con i confronti, le polemiche e senza tema di essere tacciati quali tifosi o partigiani si può dire che la sua struttura logica sia sempre uscita a testa alta. Del resto, egli è convinto che la critica contri­buisca alla manifestazione della verità. Di più, precisa: «Ritornando a Discussioni , devo dire che tutti questi critici, e tutti quelli con cui ho avuto a che fare in passato e che, se avrò tem­po, affronterò in futuro, con maggiore o mino­re potenza sviluppano con originalità il Conte­nuto al quale si rivolgono i miei scritti. Questa affermazione suona certo paradossale. E può sembrarlo ancor più se aggiungo che tutte le possibili critiche al Contenuto sono, tutte , svi­luppi spesso originali». Certo, viene da chiedersi a questo punto co­sa intenda Severino con il termine «Contenu­to », che ci ha pregato di scrivere con la maiu­scola. «Qui posso solo tentare — risponde — di alleggerire un poco il paradosso, dicendo che quel Contenuto è la verità. Immodesto non sono io, ma la verità, che ne ha il diritto perché non è cosa modesta e che attira a sé il linguaggio imponendogli di testimoniarla. Ma la verità è tale solo in quanto nega l’errore. Sen­za errore non c’è verità». Ci viene in mente Eraclito, l’antico filosofo greco, ma Severino in­calza: «L’errore con-ferma la verità, la rende ferma, perché essa ha 'il cuore che non tre­ma', per usare un’espressione di Parmenide, solo in quanto mostra che cosa significa 'erro­re' e la necessità di negarlo. Essa vive solo in quanto l’errore vive, ed è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la ricchezza che gli compe­te ». Dopo una breve pausa, sottolinea: «Tutto ciò vuol dire che la verità ha bisogno degli sca­vatori dell’errore che portino alla luce questa ricchezza con la convinzione di mettere in evi­denza proprio la verità (anche quando scrivo­no libri e libri per mostrare che non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per porta­re alla luce la verità non riesce a fare così bene, o non gli dedica il tempo e la convinzione do­vuti. In questo senso dico che tutti i critici e tutte le possibili critiche al Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti sono, di questi scritti, sviluppi originali».
Certo, c’è poi un Severino che incanta: è quello che sposta il discorso dall’orizzonte del­la nostra epoca o quello infinito, dove abita la filosofia. Per intenderci, è il pensatore che si lascia sfuggire una frase come la seguente: «La magnificenza dell’Occidente, che ormai con­quista la terra, è il tempo dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non ab­bandona a se stesso l’errore: esso cresce secon­do le leggi della verità». In altre parole è que­sta la dimensione che le appena pubblicate Di­scussioni desiderano affrontare, contro la co­mune convinzione che la verità, o meglio qual­siasi forma di verità , abbia un carattere stori­co e pragmatico. Severino, poi, prosegue riba­dendo: «Il Contenuto di cui sto parlando è la manifestazione del senso e della necessità del differire dei differenti . È il punto infinitamente più stabile di quello che ad Archimede sarebbe bastato per sollevare la terra. Ben vengano dun­que, daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere davvero tali, ossia intendano differire da ciò contro cui obbiettano e tengano quindi in gran conto la differenza dei differenti e l’im­possibilità di negarla». Infine, quasi come una sintesi della sua risposta a critici e allievi: «Una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in gran conto proprio quel Contenu­to contro il quale essi vorrebbero scagliarsi».

il Riformista 10.11.09
Madame Speaker è la vera artefice della vittoria anti-abortista di Obama
di Alessandra Cardinale

NANCY BOTOX. Veterana del Congresso, è dipinta da molti come un “diavolo in gonnella”. Rahm Emanuel la chiama “mamma”. È lei ad aver trovato la chiave di volta del compromesso sui fondi pubblici per le interruzioni volontarie di gravidanza, che ha permesso alla riforma sanitaria di Barack di passare l’esame della Camera.

New York. «Sono proprio incavolata, va bene che dobbiamo riformare la sanità, ma perché farlo a discapito delle donne. Questa mattina ho scritto una lettera a Nancy Pelosi, mi ha seriamente deluso». Mentre rovista tra gli scaffali del mega store Tj max a Chelsea, Danielle sfoga le sue frustrazioni da democratica convinta e femminista veterana. E lo fa prendendo a pugni quella donna che fino a quattro giorni fa veniva considerata la più liberal tra i liberal, e paventata come uno spettro nazi-comunista da parte dei suoi avversari politici. Danielle, come molte altre donne che da domenica stanno ingolfando con e-mail di protesta il sito web di Nancy Pelosi la Speaker della Camera dei Rappresentanti e vera craftswoman del passaggio della riforma sanitaria nella camera bassa del Parlamento americano-, non ha digerito l’emendamento anti-abortista proposto dal democratico del Michigan Bart Stupak. Questa modifica impedisce di usare le nuove coperture sanitarie per consentire interruzioni della gravidanza tranne nei «casi di violenza, incesto o quando la vita della madre è in pericolo» e, la sua approvazione è servita per fare quadrato e blindare la legge di riforma della sanità alla Camera.
occhi di tutti. Tant’è che, stando alle cronache di quei giornalisti assidui frequentatori dei corridoi del Campidoglio, la decisione di Nancy Pelosi avrebbe destabilizzato molte compagne di partito come Rosa De Lauro, portandole a versare lacrime durante le convulse ore pre-voto.
Il compromesso sull’emendamento anti-abortista, tema su cui da sempre viene misurata la maturità sociale e il progressismo dei politici americani, stretto con le frange più destrorse del partito democratico, porta la firma, seppur metaforicamente, di Nancy Patricia Pelosi: 69 anni, donna più influente a Capitol Hill e storica femminista. Giovedì sera, due giorni prima del voto alla Camera, la Pelosi ha sentito tirare venti sfavorevoli, sufficientemente forti da bloccare alla partenza il lungo percorso che la riforma della sanità deve intraprendere attraverso le aule di Capitol Hill. La signora dai macro-sorrisi -a dir il vero un po’ ingessatiha mostrato i muscoli e soprattutto una mente più pragmatica rispetto alle caricature da ultrà liberal della West Coast che i repubblicani amano fare di lei. E se come scrive il filosofo e intellettuale francese Raymond Aron il machiavellismo “coglie i sentimenti che fanno veramente muovere gi uomini, dando una visione di ciò che è realmente una società”, le ambizioni della signora Pelosi e il suo peso all’interno del Parlamento sono ormai sotto gli
Conoscitrice del bon-ton politico, la Madame Speaker non disdegna le frasi ad effetto ed è capace, a volte, di sganciare dichiarazioni bomba:«se qualcuno ti sta fregando allora devi fregarli anche tu» ha candidamente spiegato ai giovani e ambiziosi assistenti, tanto per fargli capire che la politica non è un gioco da bravi ragazzi. Stimata da moltissimi colleghi, tra cui Rahm Emanuel -a cui piace chiamarla “mamma” e con cui si sente telefonicamente «almeno una volta al giorno»raramente alza la voce o si scompone, ma mai teme di dire la sua verità. Anche con il Presidente Obama, con cui viene spesso ripresa in atteggiamenti affettuosi mentre ridacchiano o si abbracciano calorosamente, ci sono state piccole tensioni che risalgono alla scorsa estate. Un consigliere della Pelosi ha raccontato al New York magazine, che la Speaker era dispiaciuta per gli sforzi di Obama, secondo lei inutili, di approdare a una riforma sanitaria bi-partisan. «Stai perdendo tempo. Non voteranno mai con noi» ha ammonito la Pelosi al Presidente il cui difetto più grande «è quello di voler approvare la riforma e piacere a tutti, democratici e conservatori, e questo non è possibile». Per molti, ha raccontato Vincent Bzdek, autore della biografia Woman of the House, il suo modo di fare, spesso e volentieri autoritario e diretto, risulta fastidioso ai suoi avversari, ma stizzisce anche i suoi elettori. Per i conservatori la Pelosi è il diavolo in gonnella, “Mussolini in tailleur”, “Nancy Botox”, oppure “una nemica della Costituzione americana”. Questa estate, dopo la pubblicazione su USA Today, di un editoriale -scritto insieme a Steny Hoyer, leader della maggioranza democratica alla Camerain cui i fomentatori degli aggressivi dibattiti cittadini sulla sanità, venivano definiti come “anti-americani”, un commentatore radiofonico dichiarò che le avrebbe dato volentieri un pugno in faccia; al contempo, secondo una società di sondaggi, il suo consenso tra gli elettori della California, sarebbe sceso di 15 punti negli ultimi mesi. Ma nulla sembra abbatterla. D’altronde, per usare le sue parole “You can’t get things done and be loved”.

lunedì 9 novembre 2009

l’Unità 9.11.09
La Camera Usa ha approvato il testo che estende l’assistenza a milioni di americani
Il presidente esulta. Ora c’è lo scoglio del Senato. Compromesso sull’aborto
di Umberto De Giovannangeli


Sì alla riforma della sanità. Prima vittoria di Obama
La tensione si stempera in un sorriso radioso. Obama ha vinto la prima battaglia di una «guerra» epocale. Una «guerra» giusta che ha come posta in gioco il diritto alla salute per decine di milioni di americani.

Sorride Barack Obama, ed ha tutte le ragioni per farlo. È notte tarda a Washington (l’alba in Italia), quando la Camera dei Rappresentanti scrive una pagina storica nella vita degli Stati Uniti d’America: per la prima volta in decenni deputati americani hanno detto sì alla riforma del sistema sanitario.
LA DESTRA CONTRO
La Camera, in una rara seduta di sabato conclusasi a notte fonda, ha votato a favore della riforma fortemente voluta dal presidente Obama. Il testo è passato nonostante l'opposizione compatta di tutti i deputati repubblicani tranne uno, Ahn Joseph Cao, e di un certo numero di «blue dogs», deputati democratici moderati: 220 voti a favore, 200 i contrari. Il testo è passato anche grazie al compromesso sull’aborto trovato dalla speaker Nancy Pelosi, che prevede restrizioni ai finanziamenti pubblici per le interruzioni di gravidanza.
Affinché la riforma diventi legge, tuttavia, occorre che si esprima anche il Senato, dove la maggioranza democratica non è affatto data per scontata.
Nello stesso tempo, però, il sì della Camera rappresenta una vittoria politica di straordinaria portata per l'amministrazione Obama. Lo stesso presidente, infatti, nell'imminenza del voto si era recato la Congresso per esortare i deputati ad esprimersi a favore della riforma. E in una dichiarazione successiva aveva parlato di «momento storico» per gli Stati Uniti. Le stesse parole erano state usate dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi: «Oggi aveva detto – è una giornata storica per l'America. I nostri pensieri vanno al senatore Ted Kennedy, che era solito definire la riforma sanitaria come il grande lavoro incompiuto del nostro Paese». La riforma prevede la assistenza sanitaria nei confronti di 36 milioni di cittadini americani che attualmente non godono di alcuna copertura. Inoltre prevede in un arco di dieci anni di arrivare a coprire il 96% della popolazione, per un ammontare complessivo di 1.200 miliardi di dollari. Il testo introduce poi una serie di norme restrittive per le compagnie assicurative rispetto al sistema attuale.
COLPO ALLE ASSICURAZIONI PRIVATE
Non solo prevede di introdurre nel mercato la tanto contestata «public option», l'opzione pubblica voluta dal governo per «calmierare» il mercato, ma contiene regole nuove come per esempio l’obbligo da parte dei datori di lavoro di assicurare i loro dipendenti; oppure il divieto nei confronti delle compagnie di assicurazione di negare a clienti la copertura sulla base delle cosiddette «condizioni mediche preesistenti», oppure di alzare in misura significativa il prezzo delle polizze nei confronti delle persone più anziane. «Questa notte, con un voto storico, la Camera dei Deputati ha approvato un provvedimento che rende finalmente possibile la promessa di un'assistenza sanitaria di qualità per il popolo americano», ha commentato Obama in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca. Il provvedimento approvato dalla Camera, denominato Affordable Health Care for America Act, secondo Obama «fornirà stabilità e sicurezza agli americani che hanno l'assicurazione, e opzioni possibili di qualità a coloro che non ce l’hanno, abbassando i costi». Inoltre «contribuirà sul lungo termine a ridurre il deficit». «Ora siamo a soli due passi dal portare a compimento la riforma sanitaria in America», ha proseguito Obama che si è detto «assolutamente fiducioso» che il provvedimento passerà anche in Senato.
A condividere con Obama questa vittoria è Nancy Pelosi: «Che notte – ha commentato la combattiva Speaker della Camera I miei colleghi ed io abbiamo appena ricevuto una telefonata del presidente Obama che si congratula per il passaggio della riforma. È un passo storico fatto nell'interesse di tutti gli americani».❖

Repubblica 9.11.09
Una vittoria di misura
di Vittorio Zucconi


Stravolta ed esausta, come una maratoneta costretta a rifare il percorso dozzine di volte sotto il peso di un testo lungo 1.099 pagine, ma la prima legge per estendere l´assicurazione sanitaria a tutti i cittadini americani è finalmente stata approvata. L´ha votata per un soffio la Camera dei Rappresentanti.
Barack Obama ha avuto la sua prima vera vittoria politica dopo l´elezione e gli Stati Uniti si sono avvicinati al resto del mondo evoluto nel quale la sanità è un diritto civile e non un privilegio di chi la può pagare. Ma la maratona ricomincerà subito, sul monte Calvario del Senato che la deve sigillare e rendere applicabile.
Ancora lontanissima da quello che le nazioni europee, il Giappone e altri Stati evoluti considerano da generazioni normale e scontato, che tutti i cittadini abbiano diritto a cure mediche senza esclusione di censo e senza rischiare la bancarotta, la legge sulla riforma sanitaria votata venerdì sera nonostante le massicce defezioni del partito democratico che da 80 anni finge di volerla, cerca di integrare l´intervento della "mano pubblica" con gli interessi delle assicurazioni private. Si guarda bene dall´istituire quelle polizze di Stato offerte a chi non può permettersi le polizze commerciali, o dall´imitare l´ottimo sistema canadese del "pagatore singolo", cioè lo Stato, che interviene se i privati si tirano indietro. La lobby delle assicurazioni, l´intero partito repubblicano (meno un solo deputato) e 39 democratici su 258 l´avrebbero considerato la opzione di Stato, "opzione" si noti, non obbligo, come la reincarnazione dello stalinismo con la carnagione scura dell´afroamericano Obama, in camice e stetoscopio.
Ma è quel proverbiale «primo passo» che nessuno, da Roosevelt a Harry Truman al naufragio del duo Bill e Hillary Clinton era mai riuscito a fare. Tra lo stupore incredulo del resto del mondo, e degli ammiratori dell´America, che si sono sempre chiesti come potesse la nazione più ricca del mondo, lo Stato che può buttare senza un gemito ormai quasi mille miliardi per due inconcludenti guerre fatte «per scelta ideologica» su false premesse in Iraq e quasi 700 miliardi all´anno per il proprio apparato militare, impuntarsi e recalcitrare generazione dopo generazione davanti al costo della guerra per proteggere i propri cittadini dall´infermità, come se anche questa non fosse una fondamentale «guerra di civiltà». Il prezzo della legge è calcolato poco sopra i mille miliardi di dollari, che sono molti, ma meno di quando lo stesso governo federale abbia riversato nelle casseforti delle grandi banche e finanziarie per salvarle, senza che i beneficiati gridassero al neo leninismo.
La legge che ora deve passare nel tritacarne del Senato, dove il partito di Obama ha in teoria 60 voti su 100 ma sta già perdendo i pezzi di quei senatori disponibili come il finto indipendente Joe Libermann che rappresenta lo stato del Connecticut con la massima concentrazione di interessi assicurativi, è una versione annacquata e diluita di quella promessa da Obama in campagna elettorale. Ma di fatto obbliga tutti ad avere una copertura assicurativa, mettendo chi non ce la farebbe, in condizioni di acquisirla a tariffe di favore o sovvenzionato. E in quell´obbligo sta il nocciolo delle proteste anti statalisti dei duri (e dei ben finanziati).
Non avrebbe ottenuto neppure quei 220 voti necessari al passaggio, se non avesse ridotto il ruolo della "mano pubblica" a quello di integratore e calmieratore delle polizze, non di pagatore, per chi non ha i fondi per le polizze o un lavoro che garantisca anche la salute. E se non avesse proibito l´uso di questa "integrazione" pubblica per pagare le procedure di aborto, mentre estende almeno alle coppie gay la copertura oggi data alle coppie eterosessuali. Dunque le donne con polizze private potranno ancora abortire. Le più povere, che dovrebbero ricorrere anche al danaro pubblico, non potranno, o dovranno arrangiarsi da sole, nel segno della profonda carità degli ultraconservatori cristianisti che impongono la maternità soltanto a chi non può pagarsi l´interruzione.
Ma anche se questa prima breccia nel muro delle lobby, che finora era stato sbrecciato soltanto dall´assistenza pubblica per gli anziani oltre i 65 anni e per i bambini con famiglie di reddito inferiore, risponde al classico monito del cancelliere tedesco Bismarck («se vi piacciono le leggi e le salsicce non guardate come sono prodotte») è, come ha detto un Obama sollevato, «un evento storico». Qualcosa che la sua amministrazione, e il riottoso partito percorso da correnti opposte e contrarie che porta le sue insegne, «hanno fatto e porteranno fino in fondo non perché sia facile, ma perché è difficile». Una formula ripresa direttamente dal famoso "discorso della Luna" fatto da John Kennedy, quando promise di raggiungere il nostro satellite, proprio perché l´impresa si annunciava difficile.
Di questa breve schiarita, nelle nubi di una situazione che lo avevano visto in difficoltà tra la delusione dei suoi devoti e la violenta aggressività dei suoi avversari, il presidente aveva disperato bisogno, dopo la amara giornata elettorale di martedì scorso e l´ha avuta. Ha vinto, per appena cinque voti di maggioranza in una Camera dove pure i Democratici hanno sulla carta 40 voti di margine sui Repubblicani, perché perdere sarebbe stata una ferita mortale per la presidenza e per la sua immagine.
Non erano soltanto i soldi e le lobby di Big Pharma delle multinazionali del farmaco o della grandi Assicuratrici, quelle società che fanno profitti negando ai pazienti cure e coperture nel caso siano portatori di patologie preesistenti e che, arbitrariamente, capricciosamente, negano – o lesinano – rimborsi per limitare le spese e gonfiare i profitti a danni di pazienti, medici, ospedali, a fare muro.
Introdurre, sia pure dalla finestrina che questa legge apre e che molti in Senato tenteranno di chiudere quando nelle prossime settimane dovrà superare quel calvario, comporta una rivoluzione piccola forse nei fatti, ma enorme nella storia culturale degli Stati Uniti. La salute, come ogni altro aspetto della vita individuale e collettiva, non è mai stata vista qui come un diritto, ma come un prodotto, al quale può accedere chi lo possa acquistare, come un´automobile, un frigorifero, una laurea. Trasformarla in un diritto, al quale anche per i 47 milioni che non potevano "acquistarlo", escludendo per ora soltanto gli immigrati senza permesso di soggiorno o residenza (altra concessione), spiega perché i "nativisti", i difensori della americanità pura, dura e crudele, ma anche quella che ha fatto dell´America ciò che è, si oppongano con unghie e con denti.
In questo, Barack Obama, politico e presidente del tutto equilibrato e noi diremmo "centrista" nell´azione, quanto suona radicale nella retorica, appare come la nuova minaccia "socialista" e deve faticare per far capire che negare la chemioterapia a una donna afflitta da un tumore al seno recidivo, come fu per sua madre morta senza assistenza sanitaria, non è nazismo, stalinismo e neppure banale laburismo inglese. È semplice eguaglianza dei cittadini davanti a quella minaccia che non conosce partiti e non discrimina, la malattia.

Corriere della Sera 9.11.09
Interruzioni di gravidanza escluse dalla legge
Clausola anti-aborto Una ferita aperta in casa democratica
Il compromesso ottenuto dai vescovi
di P. Val.



WASHINGTON — Nella not­te che le ha regalato un posto nella Storia della politica ameri­cana, Nancy Pelosi ha dovuto accettare il compromesso che non avrebbe mai voluto. Per salvare la riforma sanitaria, la prima donna Speaker della Ca­mera, ardente paladina della li­bertà di scelta in materia d’aborto, ha ceduto alle richie­ste di una parte dei suoi demo­cratici, aprendo la strada a re­strizioni severe, che proibisco­no a ogni polizza medica acqui­stata con i sussidi del governo di coprire anche le interruzioni di gravidanza.
È stata una scelta inevitabi­le. Senza la quale gli antiaborti­sti della maggioranza avrebbe­ro sicuramente fatto mancare il loro appoggio alla legge, ap­provata con appena due voti di scarto sopra il quoziente neces­sario. Ma l’esito e la lunga batta­glia notturna lasciano nel Parti­to democratico una ferita aper­ta.
Uno dopo l’altro, i leader del­l’ala progressista hanno critica­to la versione finale del proget­to di riforma, anche se alla fi­ne, parole loro, «si sono turati il naso» e l’hanno votato. Dopo ore di durissima trattativa, cui hanno preso parte anche rap­presentanti della Conferenza episcopale cattolica, Pelosi alla fine ha ammesso alla votazione in aula l’emendamento di due deputati democratici, Brad Ell­sworth dell’Indiana e Bart Stu­pak del Michigan, che proibi­sce alle compagnie d’assicura­zione che partecipano alla co­siddetta «borsa» delle polizze di coprire le interruzioni di gra­vidanza. Il dibattito è stato di fuoco. Ad accentuare il tono drammatico, fuori da Capitol Hill un gruppo di dimostranti anti-abortisti ha inscenato una manifestazione con gigantogra­fie di feti abortiti. L’emenda­mento è passato con 240 voti a favore, 194 contrari e un repub­blicano dell’Arizona astenuto.
A convincere Pelosi e la lea­dership democratica a fare il compromesso è stata anche la mobilitazione della Conferenza episcopale negli ultimi dieci giorni. Favorevoli alla riforma sanitaria, i rappresentanti dei vescovi hanno invitato i parro­ci di tutto il Paese a sollevare il tema nelle Chiese, sollecitando i fedeli a contattare i Congres­sman delle loro circoscrizioni e a pregare per il successo delle modifiche anti-abortiste alla legge.
La guerra civile democratica sull’aborto rispecchia la varietà della nuova maggioranza, dove accanto ai deputati eletti nei tradizionali collegi progressi­sti, ci sono ora quelli che nel 2006 e 2008 hanno vinto il mandato in circoscrizioni mo­derate, dove i gruppi «pro-li­fe » sono molto attivi.



l’Unità 9.11.09
Dalla parte di tutte le bambine
di Emma Bonino


Si apre oggi nel Burkina Faso la conferenza mondiale per la messa al bando delle mutilazioni genitali. All’Onu il prossimo passo

Ricordo ancora con emozione il racconto di donne africane, con le quali ho poi stretto amicizia, sulla lotta che faticosamente e nella quasi totale clandestinità stavano portando avanti da oltre un ventennio. Eravamo alla fine degli anni Novanta, avevo da poco concluso il mio mandato di Commissaria europea e, nonostante ne avessi sentito parlare essendomi occupata di Africa a lungo, fino ad allora non mi ero impegnata in prima persona contro la pratica, così diffusa nel grande continente, delle mutilazioni genitali femminili. All’epoca, parlarne apertamente era impensabile in molte realtà, si trattava di un argomento tabù, gelosamente custodito all’interno delle comunità in nome di tradizioni antichissime spesso confuse con le religioni. La conoscenza dell’incidenza effettiva delle mutilazioni genitali femminili mi colpì per la sua violenza, per la sua portata simbolica di soggiogamento della donna, per le conseguenze nefaste sulla salute psicofisica delle vittime, ma soprattutto per la sua diffusione: due milioni di bambine esposte al rischio di mutilazione ogni anno.
La determinazione delle attiviste africane e la loro espressa richiesta di sostegno, mi convinse della necessità di un impegno di lungo periodo e fu così che con gli amici di Non c’è Pace Senza Giustizia decidemmo di lanciare una campagna internazionale. L’obiettivo della prima fase fu di contribuire a sollevare la coltre di silenzi. Grazie all’impegno della first lady egiziana Suzanne Mubarak, nel 2003 le militanti anti-mutilazioni si sono ritrovate sedute attorno allo stesso tavolo con i rappresentanti dei rispettivi governi e, per la prima volta, si è parlato di mutilazioni genitali femminili come violazione di uno dei diritti basilari della persona, il diritto all’integrità fisica. La partecipazione delle più alte autorità religiose musulmane e copte ha scardinato l’alibi religioso fino a quel momento usato per giustificare la pratica. Di lì a qualche settimana l’Unione Africana ha adottato il Protocollo di Maputo, un trattato entrato in vigore nel 2005 che bandisce le mutilazioni genitali come violazione dei diritti umani della donna.
Come spesso accade quando si tratta di conquiste di civiltà e di spazi di libertà individuale, le esperienze altrui possono giocare un ruolo decisivo nel determinare un’accelerazione, ed è proprio quello che è successo in questa campagna. Dopo il 2003 la rete di attiviste locali ha iniziato a fare sinergia, la loro azione con i governi è diventata più efficace e, ad oggi, 18 Stati africani sui 28 dove si praticano le mutilazioni genitali femminili hanno adottato una legge che punisce penalmente la pratica e hanno messo in campo campagne d’informazione e di sensibilizzazione. A distanza di quasi un decennio, i risultati ottenuti sono eccellenti e continua a crescere il numero di Paesi che scelgono di dotarsi di un quadro legislativo di prevenzione e sanzione. Nel corso della seconda Conferenza del Cairo, che si è tenuta nel dicembre del 2008 grazie al contributo del governo italiano, tutti i partecipanti, governativi e non, hanno preso atto dei considerevoli passi avanti compiuti negli ultimi cinque anni e hanno affermato l’intenzione di raddoppiare i propri sforzi.
È ormai evidente l’esistenza di una volontà generalizzata di creare le condizioni politiche per sradicare questa pratica una volta per tutte. Il governo italiano, da anni molto attento e sensibile a questa campagna, ha di recente adottato iniziative ai più alti livelli diplomatici affinché la prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvi una risoluzione di condanna delle mutilazioni genitali femminili come violazione dei diritti umani e che inviti i governi dei Paesi interessati ad adottare tutte le misure necessarie a contrastare il fenomeno.
Con questo spirito la first lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré, ha voluto organizzare con Non c’è Pace Senza Giustizia e con il sostegno della Cooperazione Italiana la conferenza «Dal Cairo a Ouagadougou: verso la definitiva messa al bando delle mutilazioni genitali femminili», che si apre oggi nella capitale burkinabé. Le first ladies dell’Africa occidentale sono state invitate a partecipare per sancire con la loro presenza l’impegno politico dei rispettivi Paesi a cooperare. Mentre fervono i preparativi per questo evento, le attiviste di tutta la regione cominciano ad arrivare in una torrida e caotica Ouagadougou, dove i venti degli ultimi giorni hanno colorato il cielo di sfumature rosso-arancio e dove le donne burkinabé sfrecciano per le strade sui loro scooter, lasciandosi dietro nuvoloni multicolori che si mescolano alle mille tinte dei loro abiti tradizionali. ❖

Repubblica 9.11.09
Rabbia e amicizia il carteggio inedito tra Jaspers e Heidegger
Caro Martin che rabbia doverle ancora scrivere
di Antonio Gnoli


Esce il carteggio inedito tra i due grandi filosofi. La loro amicizia cominciò negli anni Venti. Il nazismo la spaccò. Ma poi lentamente riprese tra accuse e spiegazioni che l´autore di "Essere e Tempo" non volle mai dare
Conobbi Lukács nel 1913: dall´uomo ricco di spirito che era è venuto fuori un burattino meccanico
Husserl è uscito dai binari, ciondola da una parte all´altra e dice trivialità. Si prova solo pena

Martin Heidegger e Karl Jaspers si conoscono nella primavera del 1920 in casa di Edmund Husserl. Possiamo immaginare l´atmosfera che avvolge quell´incontro: i toni sono formali, i pensieri alati. Husserl è un filosofo ormai venerato. Heidegger ha 31 anni e la fama di enfant prodige della filosofia. Jaspers ha 37 anni, proviene da studi di medicina e psichiatria, ma al tempo stesso nutre un grande interesse per il pensiero filosofico. I due sembrano fatti per intendersi. In quel pomeriggio trascorso nel salotto Husserl, Heidegger e Jaspers parlano fittamente. Non hanno occhi per la Germania uscita tragicamente dalla guerra, si disinteressano di politica, della disoccupazione che incombe, del marco che traballa. C´è solo la filosofia ad attrarli e la volontà di poterne fare qualcosa di radicalmente nuovo.
Senza questa premessa difficilmente si capirebbe un carteggio, che tra speranze ed equivoci, delusioni e rabbia, si distenderà per oltre quarant´anni (Lettere 1920-1963, Raffaello Cortina, pagg. 295, euro 33). Si danno del lei e la loro resterà prevalentemente un´amicizia mentale, sublimata in quello spirito accademico che solo due tedeschi nati alla fine dell´Ottocento sanno effondere nelle loro lettere.
Jaspers vive e insegna a Heidelberg, Heidegger è a Friburgo. Sono convinti che intorno a loro ci sia il deserto filosofico. Davvero non c´è nessuno - in quella Germania comunque ricca di teste finissime - che regga il confronto? Jaspers, salverebbe Weber e Rathenau. Che a dire il vero non sono proprio dei filosofi. Heidegger tace. Salvo, improvvisamente, prendersela con Husserl, il maestro, al quale riserva un trattamento di rara ferocia. È come un colpo di fucile: «Lei sa di certo», scrive a Jaspers, «che Husserl ha ricevuto una chiamata da Berlino, si comporta peggio di un libero docente che abbia scambiato il proprio posto di ordinario con un certificato valevole per l´eternità... è completamente uscito dai binari. Ammesso che mai vi abbia corso dentro... Va ciondolando da una parte e dall´altra e dice per giunta delle trivialità, e non si può che provarne pena. Vive per la sua missione di "fondatore della fenomenologia" e nessuno sa bene che cosa ciò significhi».
In pubblico il maestro è omaggiato, Heidegger passerà le vacanze nella casa di Husserl in Engandina, gli dedicherà perfino Essere e Tempo, nella prima edizione del 1927 (salvo toglierla alla quinta). Ma nel privato ne demolisce la figura e il magistero. Lo tratta come un ferro vecchio. Lo mette alla berlina. Il cuore selvaggio dell´allievo non ha pietà per il maestro.
Jaspers è molto più cauto, se proprio deve prendere a sberle qualcuno, lo fa come reazione a un insulto, a una stroncatura. Per esempio contro Lukács, reo di aver demolito in un colpo solo sia Heidegger che Jaspers. «Conobbi Lukács prima del 1913. La metamorfosi avvenuta in lui è stata uno spettacolo raccapricciante. Dell´uomo spumeggiante, ricco di spirito che era è venuto fuori un desolante burattino meccanico. La sua piattezza è stupefacente». La lettera è del 1949. Molte cose nel frattempo sono accadute. Heidegger e Jaspers hanno ripreso a scriversi dopo anni di silenzio e di imbarazzo. Di ferite lasciate aperte e mai veramente rimarginate. Ma come si potevano sanare visto l´entusiasmo con cui Heidegger nel 1933 aderisce al nazismo?
All´origine del dissidio tra i due vi è il celebre discorso che Heidegger pronuncia nel 1933 per la carica di rettore all´università di Friburgo. In un primo momento Jaspers sembra apprezzarne il tono, la profondità, la densità, anche se qua e là quel discorso gli sembra condizionato dai tempi che si vivono, forzato dalle circostanze e nutrito con certe frasi che risuonano nel vuoto. Ma nella sostanza lo giudica favorevolmente. Salvo ripensarci anni dopo, quando spiega che già nel 1933 non si fida più di Heidegger e vede chiaramente in lui un nemico, lo strumento di una potenza minacciosamente pericolosa e deleteria. Quella potenza è il nazionalsocialismo.
Nonostante ciò i due continueranno a scriversi fino al 1936. Poi ci sarà un´interruzione di 12 anni con in mezzo una sola lettera del 1942. Per Heidegger è un periodo terribile, nel quale è in gioco anche la salute mentale.
Del resto, già dalla fine 1935 Heidegger sembra aver perso quel furore ideologico che accompagna certi passi del suo Discorso del rettorato. L´ebbrezza allora provata è smaltita. Confessa a Jaspers di vivere in una solitudine pressoché assoluta e di avvertire come una spina il fallimento del rettorato, dal quale si è distaccato rinunciando alla carica. Jaspers risponde con toni cordiali. Nulla farebbe presagire la distanza critica e il giudizio aspro che manifesterà anni dopo. È solo nel 1942 che le cose si chiariscono: «Caro Heidegger, mi trovo in imbarazzo non solo a ringraziarla per il suo saggio su Platone - e per la sua interpretazione di Hölderlin - bensì anche a scriverle una risposta al riguardo. Non so nemmeno più esattamente, né chiaramente a chi io stia scrivendo, perché da quasi dieci anni non ci parliamo più».
Continueranno a non parlarsi ancora a lungo. A guerra ormai finita, nel 1948, Jaspers torna a scrivergli. Chiede a Heidegger una spiegazione plausibile della sua adesione al nazismo: «Mi sarei aspettato da parte sua una lettera che potesse spiegarmi l´incomprensibile». Lo incalza: «Non potrò mai dimenticare le sue parole riguardo alla cerchia intellettuale di Max Weber né il suo uso della parola "ebreo" secondo il significato che aveva allora per noi».
Heidegger non risponde. È come muto, schiacciato dai provvedimenti che lo hanno privato dell´insegnamento, della casa e della biblioteca (queste ultime due gli verranno in parte restituite grazie all´interessamento dello stesso Jaspers).
È in questo clima di assoluta privazione che il silenzio di Heidegger si fa sempre più impenetrabile. Jaspers prova a romperlo nel 1949: «Una volta tra noi c´era qualcosa che ci legava. Non posso credere che sia sparito senza lasciare traccia». Passano alcuni mesi, quando Heidegger spedisce una lettera sibillina che così si conclude: «Non si deve parlare di solitudine. Ma questa resterà la sola località dove il pensare e il poetare secondo le umane capacità restano nei pressi dell´essere».
Poi, quasi rendendosi conto che comunque una qualche spiegazione deve fornire all´antico amico, scrive in una successiva lettera: «Se non mi addentro, qui, nelle spiegazioni cui lei allude, questo non significa che io voglia sorvolare su qualcosa. Il mero dare spiegazioni può proseguire all´infinito senza portare da nessuna parte. La discussione sulla sciagura tedesca e sul suo intreccio con la moderna storia mondiale durerà per il resto delle nostre vite... Ho la sensazione di stare ancora crescendo nelle radici, e non più sulla cima dei rami».
Nella sostanza il loro rapporto finisce qui. Sono state due vite separate da un muro invalicabile fatto di riservatezza, reticenza, incomprensione, anche filosofica. Gli antichi entusiasmi lasciano il posto ai dubbi, al punto che Jaspers impietosamente gli scrive: «Continuo a inciampare nelle sue frasi... Certe sue parole cruciali non riesco a comprenderle». È l´oscurità del lessico heideggeriano a irritare e disorientare Jaspers. Come sono lontani i progetti comuni, il fervore e la baldanza teorica degli anni Venti. Ormai l´inverno è sceso nei loro cuori.

Repubblica 9.11.09
"In principio c'era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani


Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c´era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell´annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l´opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all´origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c´è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l´elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un´idea non condivisibile, per non dire che è un´idea sciagurata».
L´adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all´infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all´uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l´esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all´interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.

Corriere della Sera 9.11.09
Discussioni Scuola, l’intervento di Galli della Loggia riapre il dibattito sui modelli educativi
L’ora di Costituzione che divide
Corradini: stiamo solo sperimentando. Marramao: niente catechismi
di Dario Fertilio


Il ministro Gelmini: «Non darà luogo a voti né ci sarà un testo base»

Si possono insegnare i princìpi della de­mocrazia a scuola, magari a bambini di sei anni, come se fossero precetti di­vini da non discutere, comandamenti del catechismo da imparare a memoria? Un primo effetto l’ha già ottenuto, questa doman­da provocatoria lanciata ieri sul «Corriere» da Ernesto Galli della Loggia: perché ha scompa­ginato gli schieramenti politico-culturali e cre­ato inedite alleanze.
Sì, risponde ad alta voce Luciano Corradini, presidente della commissione ministeriale che ha lanciato l’idea della materia denomina­ta «Cittadinanza e Costituzione», esponente certo non pentito di un’area dossettiana catto­lico- progressista. Ma eccepisce anche il mini­stro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, salda­mente ancorata ai principi di centrodestra. Mentre il consenso più convinto a Galli della Loggia viene dal filosofo Giacomo Marramao, di formazione marxista e riformista, alcuni dubbi sul fronte liberale li esprime un altro fi­losofo, Dario Antiseri.
Il fatto è che il punto centrale dell’argomen­tazione di Galli della Loggia esula dagli schiera­menti tradizionali, puntando diritto al cuore del problema: la scuola deve istruire i ragazzi in modo da consentire a ognuno di farsi una cultura (e quindi maturare opinioni proprie, magari sbagliate ma pur sempre libere), oppu­re deve formarli secondo il modello del buon cittadino, fedele a valori eterni che si accetta­no in obbedienza all’autorità (compresi quelli costituzionali?). Ben lontano dall’essere un in­terrogativo retorico, quello di Galli della Log­gia tocca in realtà un aspetto centrale non solo della scuola, ma dello stesso dibattito politico. Tiene a sottolineare Luciano Corradini, pa­dre putativo della contestata materia, che l’ora di «Cittadinanza e Costituzione» non è ancora a regime, ma soltanto «in fase di sperimenta­zione », sia pure in assenza di una proposta precisa da parte del ministero. Così gli istituti scolastici, sulla base della loro autonomia, pos­sono decidere sul contenuto di questa speri­mentazione, incluso il numero delle ore da de­dicare all’insegnamento e il voto da mettere in pagella. E comunque, dichiara Corradini, l’ini­ziativa «è il contrario di un catechismo demo­cratico, o di una sacralizzazione della Costitu­zione. I ragazzi saranno chiamati a confrontar­si anche sul dibattito intorno alle modifiche della legge fondamentale italiana e alla sua comparazione con quelle di altri Paesi». Certo, mettere in discussione la Carta non significa per Corradini ribaltarne i principi inviolabili compresi nella prima parte; l’importante se mai è farli conoscere: «Il vero male — osserva — oggi è l’indifferenza, da cui discende anche la dittatura».
Il ministro Gelmini non disconosce a sua volta l’iniziativa, pur precisando: «Cittadinan­za e Costituzione non sarà una materia a sé stante, non darà luogo a un voto né prevederà un testo base. D’altra parte, è coerente con la filosofia del centrodestra: integrazione sì pur­ché si conoscano le nostre leggi, istituzioni e tradizioni». E neppure, a giudizio del mini­stro, è giusto parlare di un metodo d’insegna­mento autoritario: «La Costituzione può esse­re tranquillamente cambiata, ciò non toglie che occorra insegnarla, anche per favorire l’in­tegrazione degli stranieri».
L’altro appunto polemico di Galli della Loggia, l’esistenza cioè di un’oligarchia accade­mico- ministeriale, di stam­po progressista, che condi­zionerebbe le scelte dei vari ministri indipendentemente dal loro credo politico, viene respinta dalla Gel­mini: «Le mie scelte sul maestro unico e la ri­forma dell’università, ad esempio, sono lì a di­mostrarlo ». Sull’altro fronte, il filosofo Giacomo Marra­mao apprezza l’impostazione del problema di Galli della Loggia: «Nessuna Costituzione è un testo sacro, e al termine di un ciclo storico è più che legittimo chiederne una riforma. Ben­ché io consideri la nostra una tra le più avanza­te del mondo occidentale, trovo eccessiva e inopportuna l’idea di tradurla in materia obbli­gatoria. Mi piacerebbe, questo sì, che gli stu­denti imparassero a confrontare le Carte fon­damentali dei vari Paesi, e allora un insegna­mento simile io lo chiamerei 'Cittadinanza re­pubblicana e Costituzioni'».
In chiaroscuro Dario Antiseri: «Sono d’ac­cordo con Galli della Loggia su un punto, cioè che la scuola italiana oggi sia infarcita di pedagogismo verboso. È anche giusto, come afferma, fornire ai ragazzi la chiave dei sape­ri, perché imparino a risolvere da sé i proble­mi, tanto più che né la politica, né la televisio­ne né le famiglie oggi li aiutano più. Però — aggiunge — non basta possedere la cultura per essere buoni cittadini: la Germania di Go­ethe e la Russia di Tolstoj ci hanno dato nazi­smo e comunismo. E allora dico che i valori della Costi­tuzione italiana devono esse­re conosciuti per poter esse­re difesi: i bulli, quelli che in­frangono le regole, si deve imparare a disprezzarli».
Al punto da considerare la Costituzione qualcosa di sacro? Una simile prospettiva non spaventa lo storico Nicola Tranfaglia: «Succede in America, perché non da noi? La nostra Carta — ricorda — è quanto di più lontano da qualsiasi totalitarismo». Buona, quindi, l’idea di insegnarla già nelle prime classi.
Entusiasta invece della provocazione di Gal­li della Loggia lo storico Dino Cofrancesco: «Sono incondizionatamente con lui. Dietro questa idea dell’ora di democrazia c’è il basso continuo di un Paese che, o fascista o comuni­sta, ha sempre bisogno del catechismo».

Corriere della Sera 9.11.09
Un saggio «relativista» sulla mente
Come il cervello conosce se stesso
di Edoardo Boncinelli


Il confronto serrato tra neuroscienze e psicologia nello studio della comprensione

Richiesto di dare un parere sulla bontà di una data spiegazione scien­tifica, un mio amico biolo­go inglese usava dire: «Di­pende dalla domanda che mi pongo, cioè da che cosa voglio sapere». Questa è una premessa che si do­vrebbe sempre fare, quan­do si parla di una classe di fenomeni e della loro spie­gazione. Purtroppo non lo si fa quasi mai. Con un ag­gravante per noi italiani. Afflitto da un inguaribile infantilismo culturale, da­vanti alla domanda «Che cosa vuoi sapere riguardo a questa questione?» l’ita­liano tipico risponderebbe «tutto». Così non si va da nessuna parte. Tutto non si può mai sapere. Di nulla. Il neurochirurgo Arnal­do Benini, autore del bel li­bretto Che cosa sono io. Il cervello alla ricerca di sé stesso (Garzanti, pp. 154, e 13), sembra sapere quale domanda si pone in que­sto libro. Fin dall’inizio si chiede infatti: «Entro quali limiti è possibile affronta­re il problema 'Che cosa so­no io' in termini naturali­stici? ». E ancora: «La do­manda è se l’autoreferen­zialità del cervello che stu­dia se stesso ponga un limi­te (insuperabile?) alla sua capacità di capirsi».
Ho l’impressione che l’autore faccia il tifo per una conclusione negativa per entrambe le domande, ma non lo dice mai esplici­tamente, e ci dà comunque un bel saggio di come si possano divulgare senza inutili complicazioni le conquiste della più moder­na neuroscienza, lo studio scientifico di alcuni aspetti del cervello e del suo fun­zionamento. Ci racconta di molti esperimenti e di mol­te osservazioni cliniche, an­che se gli autori più citati sono filosofi e letterati. Pa­re quasi vergognarsi di es­sere solo un medico e uno scienziato! Ed è un pecca­to, perché il meglio di sé l’autore ce lo dà proprio nei due capitoli nei quali parla di cose delle quali è più direttamente compe­tente: «Il senso del tempo e i suoi disturbi» e «La mente del cervello mala­to ». Qua può dispiegare tutta la sua conoscenza e la sua capacità di comunica­re, senza paura di sembra­re inadeguato e di dover ri­correre a tipi «superiori» di spiegazione, consistenti spesso solo in belle frasi ad effetto. A questo proposito voglio prendere al volo l’oc­casione per notare come gli autori del fortunato li­bro Neuromania (Laterza), molto lodato anche da alcu­ni filosofi, si rendano col­pevoli per me di una scor­rettezza fondamentale. Nel­l’ansia di screditare una problematica e discutibile riduzione del mentale al neuroscientifico, ci sugge­riscono un’ancora più im­proponibile riduzione del mentale allo psicologico, anzi allo psicologistico, condannandoci così a cade­re dalla padella nella bra­ce. Il libro di Benini è inve­ce abbastanza equilibrato, così da rappresentare una proficua lettura sia per chi si vuole confermare nella propria convinzione che non capiremo mai il cervel­lo fino in fondo, sia per chi cerca illuminazioni e ag­giornamenti sull’attuale scienza del cervello.
Voglio terminare con due osservazioni di caratte­re generale, tese a tempera­re il generale scetticismo delle persone che la pensa­no come Benini. La prima è che se non si può preten­dere che un fenomeno ab­bia al momento una spiega­zione scientifica, si può e si deve pretendere che le spiegazioni alternative che se ne danno al presente non siano almeno in con­trasto con quello che la scienza ci dice. A buon in­tenditore… Per la seconda, se l’individuo singolo non può pretendere di spiegare la mente perché «l’autore­ferenzialità del cervello che studia se stesso» rap­presenta un problema ap­parentemente insuperabi­le, è anche vero che esiste un’istanza superiore forse capace di trascendere que­sta autoreferenzialità in uno sforzo che una volta io definii «la follia delle fol­lie »: si tratta del collettivo umano, cioè dell’insieme di uomini di ieri e di oggi che si sono occupati e si oc­cupano del problema in questione. Detto diversa­mente, un solo cervello non può andare «alla ricer­ca di se stesso», ma molti cervelli sì. Altrimenti è me­glio chiudere bottega. E sta­re zitti.

Corriere della Sera 9.11.09
Riviste Storia di una lettera del 1938 contro l’antisemitismo
Razzismo, il «ribrezzo» di Croce
di Antonio Carioti


Il filosofo liberale voleva far conoscere all’estero la sua opposizione alle leggi antiebraiche

Benedetto Croce non apprezzava la vo­lontà degli ebrei di conserva­re la loro identità culturale. La considerava un «millena­rio separatismo», da superare con l’assimilazione. Ma l’anti­semitismo fascista incontrò la sua fiera opposizione, che egli desiderava avesse la mag­giore pubblicità possibile.
Lo conferma un articolo di Annalisa Capristo, autrice del libro L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane (Za­morani). Sul nuovo numero della rivista «Quaderni di sto­ria », edita da Dedalo e diretta da Luciano Canfora, la studio­sa approfondisce le vicende di una lettera contro le perse­cuzioni antiebraiche che Cro­ce scrisse il 5 agosto 1938, po­chi giorni dopo la pubblica­zione del «Manifesto della raz­za », e che gli attirò dure ram­pogne della stampa fascista.
A sollecitarne la sortita, ri­vela Annalisa Capristo, era sta­to il liberale svedese Gillis Hammar, molto impegnato in favore degli ebrei. Questi aveva scritto a Croce per chie­dergli che cosa pensasse del­l’antisemitismo dilagante. E il filosofo gli rispose manife­stando il suo «ribrezzo» per la politica di Hitler e la sua ap­prensione per il fatto che an­che in Italia si era «iniziata un’azione razzistica e antie­braica ». Inequivocabile la con­danna: «Quel che accade in­nanzi ai nostri occhi stupiti in molta parte del mondo esce fuori da tutti i sentimenti e i costumi nei quali gli uomini della mia generazione furono educati».
Hammar ricevette la lette­ra, ma non la rese nota. Croce però, scrive Annalisa Capri­sto, «era estremamente deter­minato a far sì che la sua pre­sa di posizione fosse resa pub­blica ». Nel timore che la cen­sura postale avesse bloccato la missiva, chiese a due amici ebrei, che stavano per lascia­re l’Italia, di contattare Ham­mar. Il primo, Paolo Treves, si limitò a scrivere allo svedese; il secondo, Chaim Wardi (let­tore d’italiano all’Università ebraica di Gerusalemme), fe­ce lo stesso e in più si adope­rò per diffondere il testo di Croce nella Terrasanta sotto mandato britannico.
Fu così che la lettera del fi­losofo uscì sul «Palestine Post», quotidiano di Gerusa­lemme in lingua inglese, il 2 ottobre 1938. E venne ripresa il 21 dicembre dal giornale «Il Tevere», diretto dall’antisemi­ta Telesio Interlandi, che accusò Croce di essersi schierato «coi nemici dell’Italia». Ne seguì un certo cla­more sulla stampa in­ternazionale. Più tar­di il filosofo ripubbli­cò la lettera nelle Pa­gine sparse , con varianti che inasprivano la denuncia. Era­no gli inizi del 1943: con la Shoah in corso e Mussolini ancora al potere, Croce non si rassegnava a tacere.