Giochi di governo sulla pelle dei malati
di Maria Farina Coscioni
Si qualifica da sola l’affermazione del vice-ministro alla Salute Fazio che ha liquidato il mio sciopero della fame iniziato l’8 novembre scorso a fianco dei malati di Sclerosi laterale amiotrofica come un problema di perdita di qualche chilo, una dieta insomma. Dal ministro della Salute Sacconi, invece, un silenzio eloquente che significa indifferenza, fastidio. Il 6 novembre alcuni malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica, appunto), Salvatore Usala, Giorgio Pinna, Mauro Serra, Claudio Sabelli, hanno intrapreso uno sciopero della fame. Come già Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, hanno deciso di lottare in prima persona, con gli strumenti della nonviolenza. «Viviamo senza alcuna assistenza», hanno scritto in una lettera aperta. Stiamo parlando di pazienti e di famiglie in situazioni spesso disperate, senza aiuti economici adeguati o assistenza. È sconcertante che il ministro della Salute e il suo vice-ministro, che tanto tempo trovano per ergersi a difesa degli embrioni crioconservati in azoto liquido, non trovino il tempo perché si completi l’iter che riguarda i cosiddetti “Lea”, cioé i Livelli essenziali di assistenza, e con questi si aggiorni finalmente il Nomenclatore degli ausili e delle protesi, fermo al 1999.
Ricordo gli obiettivi dell’iniziativa: 1. rendere noto l’effettivo utilizzo dei finanziamenti stanziati nel 2007 e nel 2008 per i «comunicatori», cioé macchine di nuova generazione che consentono a soggetti con compromissione della voce di comunicare; 2. rendere operativa l’approvazione della nuova versione dell’assistenza protesica del nuovo Nomenclatore in modo che sia garantita la fornitura adeguata ad ogni persona con disabilità; 3. adottare le linee guida cui le Regioni si conformano nell’assicurare un’assistenza domiciliare adeguata per i soggetti malati di sclerosi laterale amiotrofica.
Giovedì scorso ho appreso che il ministero della Salute, rispondendo a una mia precisa interrogazione, ha detto il falso: ha infatti assicurato che la questione dei nuovi Lea era approdata in sede di Conferenza Stato-Regioni e attendeva che fossero espletati gli adempimenti che a quella Conferenza spettano. Non era vero. Il vice ministro Fazio in Consulta ha infatti dichiarato: «Siamo molto vicini, all’invio dei Lea alla Conferenza Stato-Regioni». Il contrario di quanto scritto nella risposta del 20 ottobre. Il ministero, insomma, ammette di non aver fatto nulla, e promette di investire la Conferenza Stato e Regioni venerdì 13 o martedì 17. Venerdì e martedì sono passati. Si continua a giocare con la pelle dei malati.
In questa nostra lotta si sono uniti circa 400 cittadini; li ringrazio, e tra questi anche i colleghi parlamentari Maurizio Turco e il direttore di Notizie Radicali Valter Vecellio. È il modo, dandoci forza, di darsi forza. ❖
l’Unità 19.11.09
Obama avverte Israele: con le colonie salta la pace
Dalla Cina il presidente americano critica le scelte di Netanyahu sugli insediamenti
L’ira palestinese dopo il sì a nuove costruzioni a Gerusalemme Est: è il nostro futuro Stato
di Umberto De Giovannangeli
Novecento nuove abitazioni a Gerusalemme. Israele difende il piano. Barack Obama non nasconde la profonda irritazione. Nuovi insediamenti inaspriscono i palestinesi «in un modo che può finire pericolosamente».
La rabbia di Obama esplode a Pechino. A irritare il presidente Usagiunto oggi in Corea del Sud, ultima tappa del suo tour asiaticonon il Gigante cinese, ma l’Alleato israeliano. Un alleato sempre più scomodo per la Casa Bianca. La decisione israeliana sugli insediamenti inasprisce i palestinesi «in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente», avverte Obama in una intervista alla Fox News. «La situazione in Medio Oriente è molto difficile e io ho detto ripetutamente e lo ribadisco che la sicurezza di Israele è un interesse nazionale vitale degli Stati Uniti'», dice l’inquilino della Casa Bianca aggiungendo però che «la costruzione di nuovi insediamenti non contribuisce alla sicurezza di Israele, mentre rende difficile la convivenza con i vicini. Penso che inasprisca i palestinesi in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente».
BIBI NON RECEDE
Un messaggio chiaro, quello che Obama indirizza al premier israeliano, Benjamin «Bibi» Netanyahu. Un messaggio che non sembra scalfire la determinazione del governo di Gerusalemme nel proseguire la sua politica di insediamenti. Alla voce del presidente Usa si aggiunge quella del segretario generale delle Nazioni Unite. In un comunicato diffuso dal suo ufficio di New York, Ban Ki-moon «deplora la decisione del governo di Israele di estendere la colonia di Gilo, costruita su un territorio palestinese occupato da Israele nella guerra del 1967». «'Il segretario generale – prosegue la nota ribadisce la sua posizione secondo la quale le colonie sono illegali e richiama Israele a rispettare i suoi impegni, nei termini della Road map, a cessare ogni attività di colonizzazione, compresa quella corrispondente alla crescita naturale». Ma le critiche della comunità internazionale non smuovono Netanyahu. Israele ha difeso la sua decisione di dare il via libera alla costruzione di 900 nuove quartiere ebraico di Gilo, a Gerusalemme Est. «Congelare le costruzioni a Gilo è come congelare le costruzioni in un qualsiasi quartiere di Gerusalemme e di Israele», dichiara il ministro dell'Interno israeliano, Elie Yishai, rispondendo ai critici. «Non si tratta di un nuovo insediamento e non capiamo le reazioni, in particolare quelle americane. Si tratta di un piano per costruire 900 nuove unità abitative all’interno del territorio d’Israele, perché Gerusalemme è parte del territorio d’Israele. Non c’è quindi nessun nuovo insediamento», gli fa eco Avni Panzer, portavoce del governo, già ambasciatore israeliano a Roma e Parigi. Anche Tzipi Livni, ex ministra degli Esteri e leader di Kadima, principale forza di opposizione alla Knesset, ha difeso le nuove costruzioni, sottolineando come ci sia un «consenso israeliano» su Gilo, che deve essere compreso «in tutti i colloqui sulle frontiere permanenti e nel quadro di un futuro accordo di pace». Netanyahu, rimarca una autorevole fonte governativa israeliana, «è disposto "a mostrare la più grande moderazione possibile per quanto riguarda le costruzioni nei Territori, ed è stato elogiato per questa sua disponibilità. Ma ciò riguarda la Cisgiordania. Gilo è a Gerusalemme, e questa è la capitale». E Gerusalemme, capitale «eterna e indivisibile» dello Stato ebraico, per Benjamin Netanayhu non è materia negoziabile.
RAMALLAH IN FERMENTO
Immediata la risposta palestinese. «Nessuno riconosce a Israele il diritto di Israele di estendere le costruzioni a Gerusalemme Est», afferma il capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Saeb Erekat alla radio militare israeliana. «Le terre su cui edificate quei quartieri aggiunge fanno parte del nostro futuro Stato. Questo deve cessare: Israele deve scegliere la pace o le colonie. E noi logicamente speriamo che opti per la prima soluzione». Ma Erekat non si fa illusioni: i dirigenti dell' Anp non si attendono nel prossimo futuro alcuno sviluppo diplomatico positivo. ❖
l’Unità 19.11.09
Insieme alla bellezza dell’umanità scienza e cultura costruiranno la pace
Science for Peace è un movimento nato per creare soluzioni scientifiche e concrete
La psichiatra araba spiega qui perché ha aderito al progetto promosso da Veronesi
di Rita El Khayat, psichiatra www.ritaelkhayat.org
Il ruolo delle donne. Donano e portano la vita e rifiuteranno sempre la violenza
Science for Peace è nato su iniziativa di Umberto Veronesi con l’obiettivo di cercare soluzioni concrete per il raggiungimento della pace. Insieme a molti scienziati ha aderito anche la psichiatra Rita El Khayat.
Ho aderito a Science for Peace perché, in quanto donna di scienza, credo che sia essenziale che oggi la scienza trasformi il mondo. E in quanto scienziata araba, rivendico la possibilità, anche per gli arabi, di esprimersi in ambito scientifico.
Ogni scienziato può contribuire a diffondere la pace. Io sono prima di tutto psichiatra e psicanalista e aiuto i giovani a essere più tranquilli: il mio lavoro consiste nel lottare contro la sofferenza, l’ansia, il disordine interiore. Dunque riporto, per quanto è possibile, la pace nelle persone che curo. Ma la pace è un lavoro per tutti, da svolgere in ogni momento e per tutta la vita, ed è un lavoro che oggi, fortunatamente, interessa a un numero sempre maggiore di persone.
SALUTE, EDUCAZIONE, DIGNITÀ
Il rapporto tra scienza e pace è semplice e complesso insieme. La scienza ci ha dato i mezzi per migliorare la salute e l’istruzione. Eppure, in un’umanità che ha tutto per vivere bene, avvengono ancora tanti massacri, perché i mezzi scientifici sono stati utilizzati anche per produrre armi devastanti. La scienza, se male utilizzata, può portare alle stragi, alla violenza. Eppure, nella sua concezione originaria, la scienza rappresenta un bene; anche grazie a Science for peace vogliamo fare del nostro meglio affinché questa idea originaria si diffonda ovunque e perché gli scienziati di tutto il mondo si uniscano per condividerla.
Credo che le donne avranno un ruolo importante in tutto questo. Le donne donano la vita, portano la vita; sono loro che riproducono la specie, per questo non possono amare la morte. Sono certa che la parte femminile dell’umanità rifiuterà sempre ogni forma di violenza. E questo è un motivo in più per cui occorrono più donne di scienza; per adesso sono ancora troppo poche in rapporto agli uomini. Quando ci saranno molte donne scienziate che si impegneranno per creare la pace attraverso la scienza, penso che davvero qualcosa migliorerà.
Un ruolo centrale per la costruzione della pace può essere svolto anche dai mezzi di informazione: la conoscenza scientifica dovrebbe avere maggior visibilità nei media di ogni tipo. La scienza è un determinante dell’evoluzione dei popoli di tutto il mondo: bisogna che la diffondiamo, e quando si arriverà a condivi-
derla avremo ottenuto la pace. Oggi la crisi delle ideologie e dei sistemi economici può rappresentare un’opportunità. È vero che il crollo del capitalismo ha distrutto la speranza di molte persone. E in queste condizioni di crisi economica, di ingiustizia tra i popoli, d’incapacità di nutrire tutti, di prendersi cura di tutti, in questa specie di zona d’ombra in cui si muove l’umanità al giorno d’oggi, nonostante il suo progresso scientifico, risulta evidente che i sistemi umani che abbiamo creato non sono affatto perfetti. Eppure la possibilità di ripresa sta nelle «persone non importanti», i Nip, come li chiamo io con un acronimo che ho creato nel 2008. L’umanità è formata per il 99,9% di Nip e io credo in loro, perché sono queste persone, sconosciute e anonime, che rappresentano la bellezza dell’umanità. Sono loro che si svegliano alle 4 del mattino per fare il pane, che stanno tutta la notte in ospedale a prendersi cura dei malati, che si occupano dei bambini, che tengono pulite le case, gli aeroporti, ecc. Il mio messaggio finale è una rivendicazione d’amore e di condivisione per i Nip. Bisogna, in questo periodo, che impariamo a condividere. Non avrà più valore avere delle Rolls Royce in garage o far indossare alle donne chili di diamanti. Bisogna portare la scienza a tutti gli esseri umani e garantire loro le condizioni per una vita in salute, per l’educazione e la dignità. Tre condizioni da rispettare per ottenere la pace.❖
Repubblica 19.11.09
Così la tristezza ci rende migliori
Queste emozioni negative ma benefiche non vanno confuse con la depressione
di Enrico Franceschini
Un po´ di malinconia aiuta a ricordare gli eventi con più precisione e affina le capacità di giudizio dell´uomo Per alcuni psicologi australiani l´umore affranto è un elemento determinante nella storia dell´evoluzione
Londra. "Tristezza, per favore vai via", recita la nota canzone. Ma se invece un po´ di malinconia fosse desiderabile, almeno di tanto in tanto, per l´animo umano? È quello che affermano nuove ricerche nel campo della psicologia, da cui risulta che la tristezza sarebbe stata un elemento determinante nell´evoluzione umana: ovvero che una dose di avvilimento fa bene ed è anzi necessaria per esaminare il mondo con realismo. A partire dagli studi pioneristici in materia condotti negli anni 70 dal professor Paul Elkman, gli psicologi hanno identificato sei fondamentali tipi di emozione umana: felicità, sorpresa, paura, rabbia, disgusto e tristezza. Due sono positivi, quattro negativi. «Ebbene, se queste emozioni negative sono sopravvissute al test del processo evolutivo, forse significa che hanno offerto all´uomo qualche vantaggio», afferma Joe Fargas, docente di psicologia alla University del New South Wales in Australia.
Una serie di esperimenti condotti da Fargas hanno rivelato che gli individui, quando sono in uno stato di tristezza, ricordano meglio gli eventi, hanno una maggiore capacità di persuasione e una migliore capacità di giudizio. Un umore negativo, per esempio, diminuisce il pregiudizio razziale: è meno probabile che una persona si affidi agli stereotipi nel reagire di fronte a un gruppo o a una minoranza etnica differenti dalla propria. Le sue conclusioni rappresentano un passo avanti in una materia a lungo esplorata dalla scienza. «A partire dal libro di Charles Darwin, "The expression of emotions in man and animals" (L´espressione delle emozioni nell´uomo e negli animali), molti studiosi sostengono che tutte le emozioni riflettono dei benefici nell´adattamento dell´uomo durante l´evoluzione della nostra specie», osserva Jennifer Lerner, direttrice del Laboratory for Decision Science dell´università di Harvard. Da tempo siamo consapevoli che le dita dei piedi ci aiutano a mantenere l´equilibrio e i capelli ci tengono calda la testa: per questo l´evoluzione, nel corso di milioni di anni, ce li ha dati. Ma quale vantaggio può averci dato la tristezza? Come è possibile che un sentimento che ci fa sentire così male abbia migliorato le possibilità dei nostri antenati di passare i loro geni a future generazioni, sopravvivere? «I benefici di certe emozioni sono abbastanza facili da comprendere», risponde Fargas al Financial Times. «Generalmente, la paura è il segnale di stare lontani da qualcosa, un campanello d´allarme che può salvarti la pelle quando ti trovi di fronte a un animale feroce. In modo simile, il disgusto ti trattiene dall´addentare, per quanta fame uno possa avere, una porzione di maleodorante di cibo andato a male».
E la tristezza? Immaginiamo che un uomo entri a contatto con un nuovo gruppo sociale ma non si senta accettato. Il fatto lo indispettisce, lo mette di cattivo umore, lo rattrista. «Ciò lo spinge a prestare più attenzione ai meccanismi del gruppo, a guardare da fuori, ascoltare, cercare di adattarsi alle nuove norme sociali per essere accettato. In pratica è lo stesso tipo di segnale inviato dalla paura o dal disgusto, ma probabilmente in modo più attutito». Beninteso, premettono Fargas e altri studiosi: la tristezza non va confusa con la depressione, malattia seria e grave, da cui stare alla larga. E va da sé che nessuno vuole essere triste. Ma dobbiamo chiederci, in una società come la nostra in cui tutti cercano la felicità piena ad ogni costo, se davvero vorremmo eliminare completamente dalla nostra esistenza un po´ di "normale tristezza", come la definisce lo psicologo australiano. La vecchia canzone ha ragione: tristezza, per favore vai via; ma prometti di tornare a trovarci, ogni tanto.
Repubblica 19.11.09
Anna Frank
Quell'ultimo bacio e poi l'orrore della tragedia finale
di Pietro Citati
Torna in una edizione ridotta il celebre "Diario" e la spensierata voce della ragazza olandese che annotava passioni e amori. Prima che fosse inghiottita nell´orrore di un lager
Ricevette in dono il quaderno per i suoi tredici anni. E lo tenne nascosto come un tesoro
Commentava vanitosamente le sue fotografie Le fossette sulle guance e sul mento
Non sapeva se era innamorata di Peter o se desiderava solo un´amicizia
Nell´agosto del ´44 la polizia nazista l´arrestò con la famiglia. Morì a Bergen-Belsen
Circa sessant´anni fa, quando apparvero I Diari di Anne Frank (Einaudi 1954, con una bella prefazione di Natalia Ginzburg), risvegliarono un´emozione profondissima: sembrò che il massacro degli ebrei trovasse per la prima volta una voce - la lieve, spiritosa, spensierata voce di una ragazza olandese. Ci furono edizioni successive, nelle quali fu ripristinato il complesso testo originale: la monumentale edizione critica a cura di David Barnouw, Harry Pape e Gerrold van der Stroom, tradotta in Italia nel 2002, sempre da Einaudi (euro 67). Ed ora Frediano Sessi ne cura una forma ridotta (traduzione di Laura Pignatti, con una intelligente introduzione di Eraldo Affinati, Einaudi, pagg. XXVIII-360, euro 12,50), che riporterà i Diari originali a contatto con un pubblico vastissimo. Di solito, una testimonianza biografica - diario, o lettere, o vita - patisce il peso degli anni: la polvere e l´alone della storia. Ma i Diari di Anne Frank hanno attraversato questi sessant´anni, senza che noi ce ne accorgessimo: conservano l´immediatezza, la naturalezza, la grazia del cuore, che ci colpì allora; come se proprio in questo momento una ragazza di 13 anni stia attraversando le strade di Amsterdam, colla stella gialla sul braccio, per raggiungere lietamente la scuola ebraica.
Anne Frank ricevette in dono il diario - ricoperto da una stoffa scozzese - il 12 giugno 1942, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Gli diede un nome, Kitty; e lo teneva nascosto, come se contenesse il tesoro della sua vita, insieme alla grande penna stilografica d´oro, che le aveva regalato la nonna. Kitty era un´amica, alla quale Anne voleva confidare tutti i suoi segreti, e le lettere non inviate alle sue amiche reali. Non era un semplice quaderno. Qualcosa di più: una vera e propria persona, un organismo vivente, con un corpo, un´anima, un cuore, nel quale si rispecchiava profondamente il suo cuore. Stava lì, di fronte a lei, e la consolava, la mitigava, dava consigli, alludeva, la educava. Possedeva una saggezza misteriosa che veniva da molto lontano; e a lei non spettava che ascoltare e obbedire a quelle parole. Sapeva che vi avrebbe scritto sempre - finché, forse, un giorno remoto, anche lei sarebbe diventata una scrittrice saggia come il suo diario.
Tutti conosciamo le sue fotografie. Lei le commentava vanitosamente: le piacevano le fossette sulle guance e quelle sul mento, mentre deplorava la bocca troppo grande - quella bocca ridente, che a noi pare l´incarnazione della sua inebriata felicità. Era civettuola: le piaceva che tutta la classe fosse innamorata di lei; ma avrebbe voluto ricevere anche dichiarazioni d´amore scritte nella più bella calligrafia. Apparteneva ad una famiglia ricca e privilegiata, e se ne rendeva conto. Disprezzava le ragazze povere che venivano dalle periferie. Era dura, crudele. Giudicava spietatamente i compagni: «J., vanitosa, spiona, odiosa, piena d´aria, falsa ed ipocrita»; R., «è un ragazzo falso, bugiardo, sventato e noioso». Nel diario parla delle sue gatte, del padre, che leggeva Dickens, della madre, di una pianta di rose, di una camicetta azzurra, del gioco di Monopoli, di un vasetto di crema, di una torta di fragole, di una moltitudine di regali che le giungevano da tutte le parti. Appena si guardava attorno, con i suoi occhi limpidi e lucidissimi, tutto si agitava, brillava, scintillava, entrava in quel movimento ininterrotto, che era il cuore della sua esistenza.
Nel luglio 1942, il padre di Anne, Otto Frank, decise di chiudersi insieme ad alcuni amici in un Alloggio segreto, a Prinsengracht 263. Vi rimasero più di due anni. In quel periodo l´ottica di Anne cambiò completamente. Non più le strade, la scuola, gli alberi, le amicizie, i giochi. Ma l´esperienza della più estrema concentrazione: ora Anne possedeva una specie di microscopio, con cui fissava i particolari più minuziosi della vita segregata, come un topo avrebbe scrutato un piccolo gruppo di topi in una soffitta o in una cantina. Tutto diventò minimo e romanzesco, come in una prigione del Seicento. Con questo crudele occhio d´adolescente, Anne guardava la vita dei genitori e degli amici; e tutto quello che una volta le sembrava normale, ora appariva meschino, miserabile, infimo: un orrore, che eccitava il suo disprezzo. Solo ogni quarto d´ora, il rintocco di una campana vicina dava un ritmo quieto al suo tempo interiore. Ma Anne era troppo vivace per lasciarsi opprimere. Mentre gli altri erano prigionieri e vittime del loro carcere, lei guardava, notava, si affacciava segretamente alla finestra, vedeva gli alberi, le nuvole, il cielo e si sentiva una creatura libera in una Natura liberissima e vasta. Nessuno avrebbe potuto rinchiuderla.
La persecuzione antiebraica le era sembrata, fino ad allora, una specie di gioco insensato e ridicolo. «Gli ebrei devono consegnare le biciclette; gli ebrei non devono prendere il tram: gli ebrei non devono salire su nessuna automobile, nemmeno privata; gli ebrei possono fare la spesa dalle tre alle cinque; gli ebrei possono andare solo da parrucchieri ebrei; gli ebrei non devono uscire per la strada dalle otto di sera alle sei di mattina; gli ebrei non possono trattenersi nei teatri, nei cinema e nei luoghi di svago; gli ebrei non possono andare in piscina, né nei campi di tennis, hockey o altri sport; gli ebrei non possono vogare; gli ebrei non possono praticare nessun genere di sport in pubblico?» Ma lassù, racchiusa nell´Alloggio segreto, la verità sui massacri cominciò lentamente a trapelare. Anne rimase sconvolta: «Non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutte camminano insieme verso la morte». Pensava che tutto sarebbe finito, che la loro isoletta protetta sarebbe stata trascinata via, che per loro non ci sarebbe stato nessun mondo normale, nessun futuro, nessuna salvezza. Presto cominciò a maturare in lei una limpida coscienza ebraica, e credette nella missione simbolica del suo popolo. «Chi ci ha costretti a servire così? È stato Dio a farci così e a risollevarci. Se sopporteremo questo dolore e alla fine resteremo ancora ebrei, allora gli ebrei da comandati che erano, saranno d´esempio». Sognava la redenzione; e, ciò che è più grandioso, la redenzione del mondo attraverso gli ebrei.
* * *
Mentre gli anni passavano, Anne cresceva, e sentiva che qualcosa si muoveva e si trasformava nel suo corpo: qualcosa che non capiva completamente. Entrava nell´adolescenza: ora gioiva della trasformazione che avvertiva in sé stessa, ora rimpiangeva dolorosamente l´ilare, frenetica infanzia, che la stava abbandonando. In apparenza, continuava la sua vita di sempre. Giocava con la gatta: cercava di conservare nel rifugio le abitudini della famiglia: ascoltava le notizie della radio inglese: rappresentava festosamente il teatro della vita segreta: leggeva i suoi libri di mitologia classica; attaccava al muro le fotografie delle sue dive; disegnava le tavole genealogiche delle famiglie reali. Ma qualcosa cambiò. Odiò, odiò violentemente, con un rancore che non si placava mai, le miserie, i litigi, le meschinità degli adulti, che vivevano, parlavano, mangiavano accanto a lei. Non perdonava niente. «Gli adulti sono soltanto invidiosi perché noi siamo giovani». «Quegli stupidi adulti, che comincino un po´ a imparare loro, prima di criticare tanto i figli». Il suo furore la portò a una specie di nichilismo.Spesso odiava la madre. «Voglio molto più bene a papà». E l´odio per la madre cresceva: diventava meticoloso e feroce. Non ne sopportava il carattere né le prediche: diceva che aveva idee esattamente opposte alle sue; avrebbe voluto darle uno schiaffo, tanto era intensa la sua antipatia. La madre era fredda, gelida; Anne non tollerava il modo sarcastico con cui trattava i suoi affetti più cari. Poi, la riprendeva un´ondata di affetto infantile; e di nuovo questo calore scompariva, e accusava duramente la madre di non essere una vera madre, ma un´amica astiosa e irritata. Era gelosa della sorella maggiore, Margot, che trovava ingiustamente preferita e accarezzata. Per il padre, che chiamava affettuosamente Pim, aveva una tenerezza dolorosa e materna. Infine, spazzava dall´orizzonte tutta la famiglia. Nemmeno il padre la capiva, e usava con lei le parole che si usano con una bambina dall´infanzia capricciosa e difficile. Nessuno la comprendeva. Nella confusione e nel litigio dell´alloggio segreto, minacciata dalla deportazione e dalla morte, lei si sentiva «terribilmente sola, esclusa, trascurata». Le fossette delle guance si impietrivano, gli occhi si incupivano o balenavano luci fosche.
Sognava molto, e i sogni la consolavano e le aprivano il cuore gualcito e intirizzito. Nell´Alloggio segreto viveva un ragazzo, Peter, di due anni più grande di lei, per il quale non sentiva attrazione. Ma, una notte, Peter le apparve in sogno: lei guardava a lungo quei begli occhi marrone vellutato. Peter le diceva: «Se l´avessi saputo, sarei venuto molto prima», e accostava la propria guancia paffuta alla sua guancia magra. Aveva un sentimento di infinita dolcezza e freschezza. «Tutto era così bello, così bello». Quella notte, come in un racconto di Nerval, si innamorò in sogno. L´amore continuò, sempre più intenso, durante le ore del giorno. Malgrado il pudore, cominciò ad andare a trovare Peter al piano di sopra, dove il ragazzo dormiva. Parlavano di tutto, anche di cose intimissime. Peter era timido e un po´ goffo, e le sue parole erano incerte. Anne non capiva se avesse simpatia, o affetto o amore per lei. Ora Peter non la vedeva: il suo sguardo le passava sopra i capelli, e si perdeva sulle pareti della stanza. Ora, invece, le lanciava un´occhiata così calda e tenera, che anche lei si sentiva calda e tenera in cuore; ed era a lungo felice ripensando allo sguardo che aveva indugiato sui suoi occhi e sulle sue fossette.
A volte, era confusa. Non sapeva se era veramente innamorata di Peter, o se desiderava soltanto un´amicizia adolescente. Ma non poteva negare di essere innamorata: dalla mattina presto alla sera tardi non faceva che pensare a lui; si addormentava con la sua immagine davanti agli occhi, e si risvegliava mentre lui la stava ancora guardando. E, nel giorno, era difficile immaginare che non fossero veri i discorsi e i gesti del sogno. «Oh Peter, scriveva sul diario - di´ finalmente qualcosa, non lasciarmi più sospesa tra la speranza e la sconfitta. Dammi un bacio, o mandami via dalla stanza... Tutti pensano che io sia sfacciata, sicura di me e spiritosa, mentre non desidero altro che essere Anne per una sola persona. Per una persona sola vorrei essere sensibile». Un giorno, finalmente, lei gli diede il primo bacio: tra i capelli, sulla guancia sinistra, sull´orecchio. E il secondo. Anne gli buttò le braccia al collo: gli diede un bacio sulla guancia sinistra, e voleva spostarsi sulla destra, quando la sua bocca incontrò quella di Peter, ed entrambi premettero le labbra le une sulle altre.
Fu l´ultimo bacio. Proprio quando Anne sembrava avere aperto il suo cuore, si rinchiuse in sé stessa: si sentì superiore a Peter: lo disprezzava perché non aveva un obbiettivo davanti agli occhi, perché si sentiva insignificante, e non aveva mai conosciuto la sensazione di rendere felice qualcuno. «Non ha fede», scriveva. In quel momento, la sua anima si stravolse. Abbandonò tutto: il padre, la madre, Peter, gli abitanti dell´Alloggio segreto. Si sentì completamente sola, senza voce, senza parola, senza adolescenza e giovinezza. Capì che poteva fare a meno di tutto, perfino del padre, e concentrarsi nelle profondità conosciute e sconosciute del suo io. Guardò fuori dalla finestra, verso gli alberi primaverili, e sentì che il suo io sconosciuto era lì nel sole, sotto le nuvole, nel verde che rinasceva, nella Natura, o in una Natura-Dio, che riusciva a intravedere.
Notizie sempre più terribili giungevano dalla Germania: carri-bestiame, deportazioni, prigionie, mostruosi campi di concentramento, mitragliatrici, gas. Non c´era che Male e Male e Male, come non si era mai visto. «Vedo come il mondo pian piano viene trasformato sempre più in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina e ucciderà anche noi». Proprio lei - una ragazza quindicenne che aveva appena intravisto sé stessa - ebbe la forza di scrivere che la sua vita era «migliorata, molto migliorata». Dio non l´aveva lasciata sola. Esaltava il cielo, gli alberi, le nuvole, la Natura, e ribadiva che Dio si rispecchiava in tutte le cose. Cos´era la morte, la sua morte, la morte dei suoi fratelli, un popolo spazzato via? «Tutto era come doveva essere e Dio voleva vedere gli uomini felici nella Natura semplice ma bella». Tutto si sarebbe volto al bene; e nel mondo sarebbero tornati la calma e la pace. Sono parole sconvolgenti: parole, sembra, che possono dire soltanto i santi. Con le sue civetterie e i suoi scherzi irrispettosi, Anne Frank a tutto somigliava meno che a una santa. Eppure proprio lei, come una santa, esaltò il trionfo finale del bene.
Il 4 agosto 1944, la polizia nazista arrestò tutti gli abitanti dell´Alloggio segreto. I Diari di Anne Frank rimasero a terra, confusi tra un mucchio di vecchi libri e riviste. Nell´autunno, qualcuno la vide, con gli "occhi radiosi" insieme a Peter. Nel marzo 1945 morì di fame e di tifo - certo non più radiosa - nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Non sembra che, secondo la sua profezia, il Bene sia ritornato vittorioso sulla terra.
Corriere della Sera 19.11.09
I pirati calvinisti sul libero oceano senza papa né re
Un filosofo li definisce «primi protestanti»
di Giulio Giorello
Lo studioso francese Olivier Abel vede nell’epopea della filibusta l’avvio di una religiosità individualistica e antiautoritaria
Le motivazioni. «Restavano soli al cospetto di Dio, senza mai aver garanzia del domani» L’evoluzione Seguendo l’antica saggezza dei predatori, diventarono artisti del mare e spregiudicati politici
I diavoli «a guisa di leoni ruggenti vanno in giro cercando chi poter divorare» afferma la Prima lettera di Pietro (5,8). Non diversamente fanno i pirati, a detta di un indubbio esperto come il capitano Charles Johnson, autore della Storia generale delle ruberie e degli assassinii perpetrati dai più celebri pirati (1724: per alcuni si tratterebbe niente di meno di Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe.
Ma tale identificazione è stata rimessa in discussione). Apparentemente non ci sarebbe cosa più diversa da quell’Inferno sull’acqua del Paradiso che nell’alto dei cieli attenderebbe coloro che sono stati predestinati dal Signore alla salvezza eterna. E se invece «la grande epopea della filibusta non fosse altro che la schiuma del movimento da cui è nata la Riforma »? La provocazione viene da Olivier Abel, professore di Etica alla libera facoltà di Teologia protestante di Parigi e allievo di Paul Ricoeur, che ha realizzato per France 2 un documentario intitolato appunto Pirates et protestants , con il regista Claude Vajda.
Sul libero oceano non c’è né re né papa: si resta soli al cospetto di Dio, «costretti a vivere alla giornata, senza mai aver garanzia del domani». Si sperimenta così sulla propria pelle l’imperscrutabile potenza della Grazia e al tempo stesso ci si affida alle proprie capacità mondane. È questo il cuore della novità protestante! Nella Francia del Cinquecento, lacerata dai conflitti di religione, Gaspard de Coligny, capo del partito ugonotto, doveva convincere il sovrano a incentivare la «guerra di corsa» nell’Atlantico per rompere il monopolio delle rotte del Nuovo Mondo che i cattolici portoghesi e spagnoli avevano avocato a sé, proprio mentre i pii partecipanti ai sinodi riformati si chiedevano se un pirata potesse mai venire accettato in una qualsiasi «onesta congregazione cristiana ». Coligny finì «macellato» nella Notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572); ma la repressione «papista» non avrebbe fermato le audaci scorrerie delle «genti di mare» di Normandia, Bretagna e Guascogna. La libera città ugonotta de La Rochelle costituiva il nucleo di questa «pirateria religiosa» fino alla caduta (1628) per volere di Richelieu. Ai francesi si erano intanto affiancati i «corsari della regina» Elisabetta d’Inghilterra e i «pezzenti del mare» dei Paesi Bassi in rivolta contro gli Asburgo. Tutti «luterani», a detta dei sudditi della Spagna o dell’Impero; ma si trattava per lo più di calvinisti, convinti che la spada dovesse venir messa al servizio della libertà religiosa e spesso, come il Francis Drake che sconfisse (1588) l’Invincibile armata di Filippo II al largo delle coste dell’Inghilterra, insofferenti delle limitazioni imposte dalle autorità in nome delle quali pretendevano di combattere.
Sospesi «tra il diavolo e il profondo mare azzurro», tentati dal guadagno (filibustiere è termine di origine olandese che indica la licenza di fare bottino), disobbedienti agli ordini per seguire «la voce della coscienza », questi singolari guerrieri riscoprivano — sostiene Abel — «l’antica saggezza dei predatori», diventando artisti della navigazione, esploratori geografici, spregiudicati politici. Dimenticate il Johnny Depp dei Pirati dei Caraibi e pensate a tipi che prendono sul serio Giovanni Calvino, il riformatore di Ginevra, che rende lecito a ogni individuo perseguire il proprio interesse, purché rispettoso dell’equità e del bene comune. Anche quando verrà meno la «finzione legale» del corsaro dotato di «patente » per rapinare le navi nemiche, i «fratelli della costa» faranno del loro leggendario tesoro un fondo per provvedere ai bisogni dei membri più deboli della loro consorteria: una sorta di cassa di mutuo soccorso ante litteram . Il pirata «protestante» prefigura insieme l’imprenditore capitalista e il moderno Stato sociale, anche quando protestante… non lo è più.
«Voi derubate il povero con la copertura della legge, mentre noi saccheggiamo il ricco con la sola protezione del nostro coraggio» diceva sprezzantemente a un ufficiale britannico suo prigioniero Samuel Bellamy, ovvero Sam Black (per la sua abitudine di portare i neri capelli sciolti), che doveva inabissarsi con la propria nave al largo del Massachusetts il 27 aprile del 1717. Ormai i pirati lottano contro tutte le bandiere e hanno come stendardo il Jolly Roger: un drappo prima scarlatto (il termine deriva forse da jolie rouge, ovvero «il bel colore rosso») poi nero, ma l’essenziale è che in varia guisa porti teschio e ossa incrociate.
Questa «insegna di paura» ha una specifica funzione: quella di segnalare ai mercantili, che stanno per essere depredati, che è meglio per loro la resa immediata, data l’inevitabile distruzione in caso contrario: un esito feroce che, in tempi di migliorati rapporti tra le nazioni, i guardiacoste legali che proteggevano le «acque territoriali» non avrebbero potuto permettersi. I pirati avevano fama di infierire crudelmente su quelli che opponevano resistenza, ma — al contrario di certi stereotipi — si facevano scrupolo di mantenere le loro promesse a quanti si erano messi nelle loro mani. Non c’è solo la saggezza dei predatori, ma anche quella delle prede, sicché «teschio e tibie» da annuncio di morte poteva rivelarsi, alla fine, strumento per risparmiare le vite sia degli attaccanti sia degli attaccati. Pietà cristiana anche tra i pirati? Non è un caso che il dvd di Abel e Vajda facesse quest’anno bella mostra nelle videoteche ginevrine a cinque secoli esatti dalla nascita di Calvino il quale, quando lo riteneva necessario, sapeva procedere con esemplare spietatezza.
Ma se di virtù si trattava, pur tra le «canaglie », era una virtù indotta dalla percezione quasi istintiva dei propri interessi e dall’uso attento del principio di conservazione delle risorse (come nota lo storico dell’economia Peter Leeson nel recentissimo The Invisible Hook , Princeton University Press). Questa capacità economica spiega perché i pirati fossero insieme aggressivi e «pacifici», sanguinari e misericordiosi, avidi e generosi, inflessibili sul mare e inclini, a terra, ai piaceri della carne, pervasi dai pregiudizi comuni alla loro epoca e capaci di autentica tolleranza (anche per quanto riguarda il sesso e il colore della pelle: non mancano filibustieri neri o indiani; e ci sono persino «le sorelle della costa »!). Adam Smith ha teorizzato la mano invisibile che fa dei meccanismi di mercato la base della convivenza civile; in onore di Captain Hook, il terribile nemico di Peter Pan, potremmo dire: il suo uncino ha permesso che, sulla tolda della nave pirata, si sperimentassero modi di associazione e persino garanzie democratiche impensabili nelle ben più cupe marine degli Stati che davano la caccia a questa «ex protestante » schiuma del mare.