sabato 21 novembre 2009

l’Unità 20.5.09
Razzismo. La politica che ammala i giovani
di Flore Murard-Yovanovitch

Sporco Negro, lo insultarono. Mohamed P. era bengalese. Domenica 1 Novembre, nel parco l’Arcobaleno di Acilia, il cui nome avrebbe dovuto suggerire la tolleranza multicolore, fu pestato fino a causargli un trauma cranico. Ma la notizia è finita nelle «brevi»: cronaca di violenza «non ordinaria», ma anonima. Braccato, come Navtej Singh Sindu, l’indiano arso vivo a Nettuno nel febbraio scorso da un gruppo di ragazzi che non superavano i 20 anni. Radi peli sul mento, ma già l’odio del diverso nel cuore. E poi, tanta vigliaccheria per pestare in venti, come animali, quattro indifesi. Accanendosi su uno di loro fino a lasciarlo quasi morto. Al grido di «’sti negri li dovemo fa’ spari’!».
Siccome i bambini non nascono «razzisti», ma sani, chi può avergli inculcato la paura e l’annullamento del diverso da sé? Resi così disinformati da non sapere che l’immigrazione è una realtà del loro Paese? Chi li ha resi così anaffettivi e violenti, da prendere a bersaglio un uomo che si riposa su una panchina dopo il duro lavoro «regolare» di pulire il culo ai nostri vecchietti? Chi sta modificando questi giovani di oggi nei mostri di domani?
Le menti (e le parole) malate della politica. Come la ministra Carfagna che strumentalizza l’omicidio della giovane Sanaa per puntare il dito contro le «sacche di immigrazione che non avrebbero ancora accettato i nostri valori» (leggere: cristiani contro musulmani, allorché si trattava di un assassinio e basta e semmai di malattia mentale che, come sottolineava Paolo Izzo su Agenzia Radicale, è «multietnica»). O come Fini, che pure in una lodevole battaglia per la cittadinanza, tra le righe di un discorso al Dossier Immigrazione di Caritas-Migrantes, accennava che tra «assimilazione» alla francese e modello multietnico all’inglese, una terza via di integrazione era da inventare intorno ai famosi «valori italiani»: cittadinanza solo dopo un ciclo di studi nella brava scuola italiana... Post-riforma Gelmini: ora di religione, crocifisso nelle aule, carenza di educazione civica alla multietnicità... Come funziona ce lo dice una ricerca di Cnr e dell’Irpps, che ha preso come campione 3.200 studenti di scuole medie e superiori, ponendo loro domande su famiglia, immigrati e rapporti tra i sessi. Da essa, i ragazzi risultano «sessisti, violenti e disinformati», col permanere di stereotipi sulle identità di genere e la sessualità, fino alla legittimazione della «forzatura» delle donne al rapporto; o ancora l’incapacità, pressoché totale, di valutare il fenomeno migratorio.
A confermare che l’attacco al diverso ha una risonanza nell’atavico odio per la donna. E a suggerire che forse la lotta al razzismo potrebbe ricominciare dal lavorare verso un rapporto uomo-donna veramente equilibrato.

Repubblica 21.11.09
Annuncio a sorpresa: "L´Udc non mi vuole? Mi batta alle primarie". L´Idv: noi non lo sosterremo. E Fitto: buone chance per un accordo con Casini
Puglia, Vendola si ricandida e spiazza i democratici
di Lello Parise

Scendo in campo per conto del Pdl, popolo della legalità, e per il Pdp, popolo della precarietà
Togliere uno come me potrà facilitare la costruzione di centrali nucleari

BARI - Nichi Vendola, governatore della Puglia nonché leader di Sinistra e libertà, anticipa tutti - compreso il centrosinistra - e annuncia che scenderà in pista nel 2010 per riconquistare la presidenza della Regione. Lo strappo del "rivoluzionario gentile" mette nei guai il Pd, che si limita a «prendere atto» di quello che è un vero e proprio colpo di teatro.
I democratici che, a partire da Massimo D´Alema, avevano immaginato di costruire in vista delle regionali un´alleanza per il Sud allargata a Udc e Idv, confessano di essere «agitati» e «confusi»: «Che cosa faremo non lo sa nessuno, neanche a Roma». Sembra che il segretario del Pd Pierluigi Bersani voglia convocare i dirigenti pugliesi martedì per decidere il da farsi. Seguire Vendola significa rinunciare una volta per tutte a siglare un´intesa con i centristi di Pierferdinando Casini, al quale non piace la nomination del governatore uscente. Vendola non piace neanche all´Italia dei valori. I "dipietristi", sempre ieri, hanno fatto sapere di volere correre da soli con in testa il coordinatore regionale: il deputato Pierfelice Zazzera. Mentre il ministro Fitto assicura che «con l´Udc ci possono essere buon chances per un accordo».
Vendola, intanto, spiega: «Potevo fare come Mercede Bresso, che pure è del Pd, e che dal primo giorno ha detto "io sono candidata" e "l´Udc è un partito infiltrato". Io non ho fatto così, io ho cominciato un anno fa il dibattito in Italia sulla necessità di un compromesso nuovo con il centro a fronte dei pericoli rappresentati da questa destra». E a Casini. «Non gli piace il mio viso? Allora accetti le primarie per scegliere il concorrente del centrosinistra. Lo stesso discorso vale per l´Idv. L´unico modo è quello di battermi alle primarie. Come nel 2005, quando non sono stato portato dalla cicogna delle segreterie dei partiti». Ne ha per tutti. «La verità è che siamo stati la spina nel fianco della politica nazionale. Abbiamo combattuto, per esempio, contro il ministro Zaia, un padano svagato e incosciente, che non capisce i disagi del mondo agricolo». Con Fitto è sferzante: «Esprime solidarietà al centrosinistra che vive il presidente Vendola come un ingombro? Io sono alternativo a lui e a quello che rappresenta: una stratificazione di interessi. E´ il motivo per cui le sue dichiarazioni sono per me un viatico a tornare in campo. Sono un raggio di pulizia, io. E da oggi sono tutti obbligati a giocare a carte scoperte».

Repubblica 21.11.09
Sì alla federazione con il Pdci
Rifondazione e il nuovo rivale "Di Pietro ci porta via la sinistra"

ROMA - «Attenzione, Antonio Di Pietro ci porta via la sinistra». Claudio Grassi, numero due di Rifondazione comunista, lancia l´allarme ai futuri alleati della Federazione con Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro e solidarietà sul ruolo dell´Italia dei Valori. Vedere Di Pietro pochi giorni fa con il megafono in mano a guidare la protesta dei lavoratori dell´Eutelia ha dato evidenza al profilo "operaista" del leader dell´Idv. «Un suo spostamento a sinistra è positivo - dice Grassi - ma il rischio è che nasca un partito populista che copre tutto quello che sta a sinistra».

Repubblica 19.11.09
José Saramago: al rimo posto la bontà, la virtù più disprezzata
di franco Marcoaldi

MADRID José Saramago, premio Nobel per la letteratura, mi accoglie nel piccolo appartamento situato nel centro di Madrid, dove risiede ogni volta che viene in Spagna. In questo frangente, per accompagnare l' uscita del nuovo romanzo Caino, che in Portogallo ha già suscitato «le reazioni furibonde delle gerarchie ecclesiastiche. Quando va bene, mi accusano di adottare una interpretazione letterale e non simbolica dell' Antico Testamento. E' una musica che ho già sentito altre volte». E così quest' uomo segaligno e gentile, dalle convinzioni radicali, anche se espresse sempre con un tono di voce pacato, si trova ancora una volta al centro di accese polemiche. Come era già accaduto con l' uscita de Il Quaderno (prefazione di Umberto Eco, Bollati Boringhieri), raccolta degli interventi pubblicati sul blog nel periodo settembre 2008- marzo 2009; un libro che ha determinato la rottura con Einaudi e che da svariate settimane, con sorpresa dello stesso autore, veleggia nelle prime posizioni delle classifiche dei best-seller nostrani. Consumato il caffè, mentre esce delicatamente di scena l' adorata moglie Pilar, lo scrittore portoghese, golf color salmone su camicia salmone, comincia a proporre le diverse parole del suo "lessico necessario". «Inizierei dalla più urgente e essenziale di tutte: "no"». Curioso, anche George Steiner ha deciso di cominciare con "no"; la parola più selvaggia del vocabolario, secondo Emily Dickinson. E un altro Nobel per la letteratura, Octavio Paz, parlò in suo saggio della necessità di riscoprire il valore profondo di questa parola. «Non sapevo di Paz e la cosa mi onora. Quanto a Steiner, spero di offrire delle motivazioni che arricchiscano il suo punto di vista. Quando penso alla parola "no", non la intendo nell' accezione più comune e immediata, ovvero come pura negazione. Al contrario, ne rivendico tutto il valore propositivo e costruttivo. Le faccio un esempio: ogni rivoluzione rappresenta un "no" che si impone o cerca di imporsi al "sì": allo status quo, agli interessi costituiti, al conformismo, al dominioo addirittura alla dittatura. Ora, so bene che nel corso degli accadimenti storici arriva poi, inevitabilmente, il momento in cui il "no" iniziale si converte di nuovo in un "sì". Sì all' ostentazione del potere, alla corruzione, alla confusione degli ideali iniziali che avevano determinato quella rivoluzione. Eppure, malgrado queste costanti e ripetute impasse, continuo a rivendicare tutto il valore dinamico e propulsivo della parola "no"». In effetti, la sua proposta in parte si sovrappone a quella di Steiner, in parte se ne allontana. Presumo che la seconda parola chiarirà ulteriormente gli sviluppi del suo itinerario. «Il secondo termine che propongo è "rispetto", con qualche necessario distinguo. Non vorrei cadere nel moralismo, riferendomia un generico rispetto universale. Io penso a persone e situazioni specifiche, che meritano rispetto. Mentre lo vedono via via infrangersi nello specchio rotto di una società che non sembra più riconoscere l' eminente dignità dell' essere umano. E' molto semplice: senza rispetto non esiste dignità, e senza dignità il rispetto va a farsi benedire». Ma perché non ci si dovrebbe riferire a un rispetto universale? Se io scelgo a chi devo rispetto e a chi no, allora altrettanto potrà fare il mio eventuale interlocutore. E a quel punto vienea cessare l' idea di un rispetto valido per tutti, indistintamente. «Ricorderà San Francesco d' Assisi, il quale portava rispetto per tutto l' universo. Compreso il lupo, definito un fratello. Ma il lupo gli rispose: d' accordo, se vuoi chiamami fratello. Ma non chiedere a me di chiamare sorella la pecora». E nella sua visione del mondo, il ruolo del lupo sarebbe rivestito, tra gli altri, proprio dalla Chiesa cattolica. O sbaglio? «No no, è proprio così. Per garantire il rispetto reciproco occorre una precondizione fondamentale. Se io le faccio uno sgarbo, le chiedo scusa. Ma non mi sembra che questo sia stato e sia il comportamento abituale della Chiesa. Nel centro di Roma, a Campo dei Fiori, c' è la statua di Giordano Bruno, che la Chiesa mise al rogo e al quale non ha mai chiesto scusa. Ora, non capisco perché dovrei portare rispetto verso una istituzione che nel corso dei secoli ha accumulato orrori su orrori, dei quali si è scusata in grave ritardoe solo in parte. Mi creda: il male può vivere nel seno stesso della Chiesa. Ha dormito a lungo nel baldacchino della camera dei papi. Non solo la Chiesa dovrebbe chiedere perdono alle tante vittime che ha causato nel corso della sua storia, ma dovrebbe chiedere perdono anche al proprio Dio per quello che ha fatto». Una condanna senza appello, la sua. D' altronde, perfettamente in linea con chi si definisce ateo e comunista. «Se è per questo, come ho ricordato nell' ultimo libro, fu un teologo come Hans Küng a scrivere, molti anni fa, che le religioni non sono mai riuscite ad avvicinare gli esseri umani gli uni agli altri. Ne discende che ciascuno è libero di seguire la religione che più gli piace. Ma anche che dovremmo abbandonare un' eccessiva deferenza nel trattare Dio come problema, come fattore di dissidio». Beh, a questo punto sono tanto più curioso di sapere qual è la terza parola. «"Bontà". Non però una bontà contemplativa, in fondo abbastanza egoista. E neppure una bontà caritatevole. Forse ricorderà quei versi di Antonio Machado che suonano: "Di ciò che gli uomini chiamano/ virtù, giustiziae bontà/ una metà è invidia e l' altra, non è carità". Per questo penso a quella che si potrebbe definire "bontà attiva", virtù tanto più difficile perché si manifesta in un periodo storico in cui è palesemente disprezzata, annichilita dal cinismo imperante». Di sicuro, non è una parola à la page. «In effetti non è facile oggi invitare la gente ad essere buona. Ma per quel che mi riguarda, la bontà viene addirittura prima dell' intelligenza, o meglio è la forma più alta dell' intelligenza. E' una bontà che si manifesta nella pratica quotidiana; che non è animata da nessun pensiero salvifico sull' intera umanità; che si accontenta di far "lavorare" il proprio minuscolo granello di sabbia. Nel tentativo di recuperare una relazione umana che sia effettivamente tale». Ho qui il suo Quaderno, dove lei scrive: «Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c' è bontà né giustizia». «Aggiungerei una piccola postilla. Sono sufficientemente vecchio e sufficientemente scettico per rendermi conto che la "bontà attiva", come io la chiamo, ha ben poche possibilità di trasformarsi in un orizzonte sociale condiviso. Può però diventare la molla individuale del singolo, il miglior contravveleno di cui può dotarsi quell' "animale malato" che è l' uomo».

venerdì 20 novembre 2009

l’Unità 19.11.09
Franceschini presenta il suo libro Scintille fra Scalfari e Bertinotti

Eugenio Scalfari ha votato Dario Franceschini alle primarie, mentre il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha votato scheda bianca. Lo ha raccontato lo stesso Scalfari durante la presentazione del libro di Dario Franceschini «In dieci parole», edito da Bompiani. «Io pur non essendo iscritto al Pd - ha riferito - ho partecipato alle primarie, e anche il direttore di Repubblica, pur non essendo iscritto, ha votato. Abbiamo parlato e ci siamo detti reciprocamente 'tu che ne dici?». Io gli ho detto: 'io sono solo il fondatore del giornale, tu sei il direttore di un giornale che vuole essere il rappresentante di una sinistra larga, vedi tu'; e lui ha votato scheda bianca. Io invece ho votato Franceschini. Ma la vocazione maggioritaria l'ho capita meno».

«Franceschini e Bersani - ha proseguito - sono due persone per bene, intelligenti ed esperte di politica, quindi non ho messo il lutto al braccio per la vittoria di Bersani. Anzi Bersani su questo mi convince di più». Il fondatore di Repubblica ha però messo in guardia Bersani, ricordandogli la teoria della persistenza degli aggregati, formulata da Gaetano Mosca: »chi guida una parrocchia non la vuole chiudere, e tanto è più piccola la parrocchia, tanto è più grande è la persistenza. I Verdi vogliono la parrocchietta? Facciamogliela fare. Ma dobbiamo cambiare la legge elettorale».

Alla presentazione era presente anche l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, che ha provocato un po' lo stesso Scalfari. «Nel libro c'è la mancanza di un discorso sulla sinistra. Una omissione che non mi convince. Franceschini, forse, omette perchè pensa che non sia più necessaria la sinistra. Per me, anche guardando lo stato del mondo e dell'Europa rende necessaria la presenza di una sinistra dell'eguaglianza», ha detto l'ex presidente della Camera. Apriti cielo: Scalfari, al momento del giro di interventi che lo riguarda, si è alzato in piedi. Ed ha attaccato: «Il problema della sinistra è solo un problema lessicale. Sono parole, bisogna vedere cosa ci sta sotto. Mi viene in mente Nanni Moretti che incalza D'Alema a dire qualcosa di sinistra chiedendosi però anche cosa sia qualcosa di sinistra».

Il fondatore di Repubblica, rivolto a Bertinotti, ha incalzato: «Voi avete sempre votato il governo Prodi, questo è vero. Ma lo avete anche segato. Avete sottoposto il governo a una doccia scozzese per settimane, andando alle manifestazioni e contestandolo. Avete dimostrato che la politica non la capite. Non sapete cos'è». 

Scalfari ha fatto anche nomi e cognomi: «Voi avete avuto uno come Ingrao, al quale io ho anche baciato le guance in lacrime ai funerali di Berlinguer, perchè è stato lui che mi ha consolato. Ingrao non ne ha azzeccata una, nessuna. Quando devo capire qualcosa se devo scrivere di politica leggo Ingrao, e poi scrivo il contrario». Il giornalista è andato anche a pescare nella memoria: «Nel '65, in Emilia, ho moderato il primo confronto tra Ingrao e La Malfa. Ne ha scritto anche 'le Mondè. Si discuteva di modello. Nel '65. E oggi, nel 2009, ancora si vuole discutere di modello». Il dibattito, poi, ha preso una piega diversa ed è scivolato più sul Pd e i suoi problemi. Ma, a tornare sui temi del duello Bertinotti-Scalfari, è stato Dario Franceschini.

Parlando del tema delle alleanze, il capogruppo del Pd alla Camera ha dato il colpo di grazia: «Sinistra è un termine glorioso in cui tanti ci siamo riconosciuti, ma anche questo è superato non nei valori, ma nell'identità. Tant'è che le stesse forze di sinistra quasi ovunque oggi si riconoscono nel termine progressisti. Bisogna andare oltre la sinistra, perchè non si può affrontare situazioni nuove con categorie di un secolo che è finito».
19 novembre 2009

giovedì 19 novembre 2009

l’Unità 19.11.09
Giochi di governo sulla pelle dei malati
di Maria Farina Coscioni

Si qualifica da sola l’affermazione del vice-ministro alla Salute Fazio che ha liquidato il mio sciopero della fame iniziato l’8 novembre scorso a fianco dei malati di Sclerosi laterale amiotrofica come un problema di perdita di qualche chilo, una dieta insomma. Dal ministro della Salute Sacconi, invece, un silenzio eloquente che significa indifferenza, fastidio. Il 6 novembre alcuni malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica, appunto), Salvatore Usala, Giorgio Pinna, Mauro Serra, Claudio Sabelli, hanno intrapreso uno sciopero della fame. Come già Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, hanno deciso di lottare in prima persona, con gli strumenti della nonviolenza. «Viviamo senza alcuna assistenza», hanno scritto in una lettera aperta. Stiamo parlando di pazienti e di famiglie in situazioni spesso disperate, senza aiuti economici adeguati o assistenza. È sconcertante che il ministro della Salute e il suo vice-ministro, che tanto tempo trovano per ergersi a difesa degli embrioni crioconservati in azoto liquido, non trovino il tempo perché si completi l’iter che riguarda i cosiddetti “Lea”, cioé i Livelli essenziali di assistenza, e con questi si aggiorni finalmente il Nomenclatore degli ausili e delle protesi, fermo al 1999.
Ricordo gli obiettivi dell’iniziativa: 1. rendere noto l’effettivo utilizzo dei finanziamenti stanziati nel 2007 e nel 2008 per i «comunicatori», cioé macchine di nuova generazione che consentono a soggetti con compromissione della voce di comunicare; 2. rendere operativa l’approvazione della nuova versione dell’assistenza protesica del nuovo Nomenclatore in modo che sia garantita la fornitura adeguata ad ogni persona con disabilità; 3. adottare le linee guida cui le Regioni si conformano nell’assicurare un’assistenza domiciliare adeguata per i soggetti malati di sclerosi laterale amiotrofica.
Giovedì scorso ho appreso che il ministero della Salute, rispondendo a una mia precisa interrogazione, ha detto il falso: ha infatti assicurato che la questione dei nuovi Lea era approdata in sede di Conferenza Stato-Regioni e attendeva che fossero espletati gli adempimenti che a quella Conferenza spettano. Non era vero. Il vice ministro Fazio in Consulta ha infatti dichiarato: «Siamo molto vicini, all’invio dei Lea alla Conferenza Stato-Regioni». Il contrario di quanto scritto nella risposta del 20 ottobre. Il ministero, insomma, ammette di non aver fatto nulla, e promette di investire la Conferenza Stato e Regioni venerdì 13 o martedì 17. Venerdì e martedì sono passati. Si continua a giocare con la pelle dei malati.
In questa nostra lotta si sono uniti circa 400 cittadini; li ringrazio, e tra questi anche i colleghi parlamentari Maurizio Turco e il direttore di Notizie Radicali Valter Vecellio. È il modo, dandoci forza, di darsi forza. ❖

l’Unità 19.11.09
Obama avverte Israele: con le colonie salta la pace
Dalla Cina il presidente americano critica le scelte di Netanyahu sugli insediamenti
L’ira palestinese dopo il sì a nuove costruzioni a Gerusalemme Est: è il nostro futuro Stato
di Umberto De Giovannangeli

Novecento nuove abitazioni a Gerusalemme. Israele difende il piano. Barack Obama non nasconde la profonda irritazione. Nuovi insediamenti inaspriscono i palestinesi «in un modo che può finire pericolosamente».

La rabbia di Obama esplode a Pechino. A irritare il presidente Usagiunto oggi in Corea del Sud, ultima tappa del suo tour asiaticonon il Gigante cinese, ma l’Alleato israeliano. Un alleato sempre più scomodo per la Casa Bianca. La decisione israeliana sugli insediamenti inasprisce i palestinesi «in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente», avverte Obama in una intervista alla Fox News. «La situazione in Medio Oriente è molto difficile e io ho detto ripetutamente e lo ribadisco che la sicurezza di Israele è un interesse nazionale vitale degli Stati Uniti'», dice l’inquilino della Casa Bianca aggiungendo però che «la costruzione di nuovi insediamenti non contribuisce alla sicurezza di Israele, mentre rende difficile la convivenza con i vicini. Penso che inasprisca i palestinesi in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente».
BIBI NON RECEDE
Un messaggio chiaro, quello che Obama indirizza al premier israeliano, Benjamin «Bibi» Netanyahu. Un messaggio che non sembra scalfire la determinazione del governo di Gerusalemme nel proseguire la sua politica di insediamenti. Alla voce del presidente Usa si aggiunge quella del segretario generale delle Nazioni Unite. In un comunicato diffuso dal suo ufficio di New York, Ban Ki-moon «deplora la decisione del governo di Israele di estendere la colonia di Gilo, costruita su un territorio palestinese occupato da Israele nella guerra del 1967». «'Il segretario generale – prosegue la nota ribadisce la sua posizione secondo la quale le colonie sono illegali e richiama Israele a rispettare i suoi impegni, nei termini della Road map, a cessare ogni attività di colonizzazione, compresa quella corrispondente alla crescita naturale». Ma le critiche della comunità internazionale non smuovono Netanyahu. Israele ha difeso la sua decisione di dare il via libera alla costruzione di 900 nuove quartiere ebraico di Gilo, a Gerusalemme Est. «Congelare le costruzioni a Gilo è come congelare le costruzioni in un qualsiasi quartiere di Gerusalemme e di Israele», dichiara il ministro dell'Interno israeliano, Elie Yishai, rispondendo ai critici. «Non si tratta di un nuovo insediamento e non capiamo le reazioni, in particolare quelle americane. Si tratta di un piano per costruire 900 nuove unità abitative all’interno del territorio d’Israele, perché Gerusalemme è parte del territorio d’Israele. Non c’è quindi nessun nuovo insediamento», gli fa eco Avni Panzer, portavoce del governo, già ambasciatore israeliano a Roma e Parigi. Anche Tzipi Livni, ex ministra degli Esteri e leader di Kadima, principale forza di opposizione alla Knesset, ha difeso le nuove costruzioni, sottolineando come ci sia un «consenso israeliano» su Gilo, che deve essere compreso «in tutti i colloqui sulle frontiere permanenti e nel quadro di un futuro accordo di pace». Netanyahu, rimarca una autorevole fonte governativa israeliana, «è disposto "a mostrare la più grande moderazione possibile per quanto riguarda le costruzioni nei Territori, ed è stato elogiato per questa sua disponibilità. Ma ciò riguarda la Cisgiordania. Gilo è a Gerusalemme, e questa è la capitale». E Gerusalemme, capitale «eterna e indivisibile» dello Stato ebraico, per Benjamin Netanayhu non è materia negoziabile.
RAMALLAH IN FERMENTO
Immediata la risposta palestinese. «Nessuno riconosce a Israele il diritto di Israele di estendere le costruzioni a Gerusalemme Est», afferma il capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Saeb Erekat alla radio militare israeliana. «Le terre su cui edificate quei quartieri aggiunge fanno parte del nostro futuro Stato. Questo deve cessare: Israele deve scegliere la pace o le colonie. E noi logicamente speriamo che opti per la prima soluzione». Ma Erekat non si fa illusioni: i dirigenti dell' Anp non si attendono nel prossimo futuro alcuno sviluppo diplomatico positivo. ❖

l’Unità 19.11.09
Insieme alla bellezza dell’umanità scienza e cultura costruiranno la pace
Science for Peace è un movimento nato per creare soluzioni scientifiche e concrete
La psichiatra araba spiega qui perché ha aderito al progetto promosso da Veronesi
di Rita El Khayat, psichiatra www.ritaelkhayat.org

Il ruolo delle donne. Donano e portano la vita e rifiuteranno sempre la violenza

Science for Peace è nato su iniziativa di Umberto Veronesi con l’obiettivo di cercare soluzioni concrete per il raggiungimento della pace. Insieme a molti scienziati ha aderito anche la psichiatra Rita El Khayat.
Ho aderito a Science for Peace perché, in quanto donna di scienza, credo che sia essenziale che oggi la scienza trasformi il mondo. E in quanto scienziata araba, rivendico la possibilità, anche per gli arabi, di esprimersi in ambito scientifico.
Ogni scienziato può contribuire a diffondere la pace. Io sono prima di tutto psichiatra e psicanalista e aiuto i giovani a essere più tranquilli: il mio lavoro consiste nel lottare contro la sofferenza, l’ansia, il disordine interiore. Dunque riporto, per quanto è possibile, la pace nelle persone che curo. Ma la pace è un lavoro per tutti, da svolgere in ogni momento e per tutta la vita, ed è un lavoro che oggi, fortunatamente, interessa a un numero sempre maggiore di persone.
SALUTE, EDUCAZIONE, DIGNITÀ
Il rapporto tra scienza e pace è semplice e complesso insieme. La scienza ci ha dato i mezzi per migliorare la salute e l’istruzione. Eppure, in un’umanità che ha tutto per vivere bene, avvengono ancora tanti massacri, perché i mezzi scientifici sono stati utilizzati anche per produrre armi devastanti. La scienza, se male utilizzata, può portare alle stragi, alla violenza. Eppure, nella sua concezione originaria, la scienza rappresenta un bene; anche grazie a Science for peace vogliamo fare del nostro meglio affinché questa idea originaria si diffonda ovunque e perché gli scienziati di tutto il mondo si uniscano per condividerla.
Credo che le donne avranno un ruolo importante in tutto questo. Le donne donano la vita, portano la vita; sono loro che riproducono la specie, per questo non possono amare la morte. Sono certa che la parte femminile dell’umanità rifiuterà sempre ogni forma di violenza. E questo è un motivo in più per cui occorrono più donne di scienza; per adesso sono ancora troppo poche in rapporto agli uomini. Quando ci saranno molte donne scienziate che si impegneranno per creare la pace attraverso la scienza, penso che davvero qualcosa migliorerà.
Un ruolo centrale per la costruzione della pace può essere svolto anche dai mezzi di informazione: la conoscenza scientifica dovrebbe avere maggior visibilità nei media di ogni tipo. La scienza è un determinante dell’evoluzione dei popoli di tutto il mondo: bisogna che la diffondiamo, e quando si arriverà a condivi-
derla avremo ottenuto la pace. Oggi la crisi delle ideologie e dei sistemi economici può rappresentare un’opportunità. È vero che il crollo del capitalismo ha distrutto la speranza di molte persone. E in queste condizioni di crisi economica, di ingiustizia tra i popoli, d’incapacità di nutrire tutti, di prendersi cura di tutti, in questa specie di zona d’ombra in cui si muove l’umanità al giorno d’oggi, nonostante il suo progresso scientifico, risulta evidente che i sistemi umani che abbiamo creato non sono affatto perfetti. Eppure la possibilità di ripresa sta nelle «persone non importanti», i Nip, come li chiamo io con un acronimo che ho creato nel 2008. L’umanità è formata per il 99,9% di Nip e io credo in loro, perché sono queste persone, sconosciute e anonime, che rappresentano la bellezza dell’umanità. Sono loro che si svegliano alle 4 del mattino per fare il pane, che stanno tutta la notte in ospedale a prendersi cura dei malati, che si occupano dei bambini, che tengono pulite le case, gli aeroporti, ecc. Il mio messaggio finale è una rivendicazione d’amore e di condivisione per i Nip. Bisogna, in questo periodo, che impariamo a condividere. Non avrà più valore avere delle Rolls Royce in garage o far indossare alle donne chili di diamanti. Bisogna portare la scienza a tutti gli esseri umani e garantire loro le condizioni per una vita in salute, per l’educazione e la dignità. Tre condizioni da rispettare per ottenere la pace.❖

Repubblica 19.11.09
Così la tristezza ci rende migliori
Queste emozioni negative ma benefiche non vanno confuse con la depressione
di Enrico Franceschini

Un po´ di malinconia aiuta a ricordare gli eventi con più precisione e affina le capacità di giudizio dell´uomo Per alcuni psicologi australiani l´umore affranto è un elemento determinante nella storia dell´evoluzione

Londra. "Tristezza, per favore vai via", recita la nota canzone. Ma se invece un po´ di malinconia fosse desiderabile, almeno di tanto in tanto, per l´animo umano? È quello che affermano nuove ricerche nel campo della psicologia, da cui risulta che la tristezza sarebbe stata un elemento determinante nell´evoluzione umana: ovvero che una dose di avvilimento fa bene ed è anzi necessaria per esaminare il mondo con realismo. A partire dagli studi pioneristici in materia condotti negli anni 70 dal professor Paul Elkman, gli psicologi hanno identificato sei fondamentali tipi di emozione umana: felicità, sorpresa, paura, rabbia, disgusto e tristezza. Due sono positivi, quattro negativi. «Ebbene, se queste emozioni negative sono sopravvissute al test del processo evolutivo, forse significa che hanno offerto all´uomo qualche vantaggio», afferma Joe Fargas, docente di psicologia alla University del New South Wales in Australia.
Una serie di esperimenti condotti da Fargas hanno rivelato che gli individui, quando sono in uno stato di tristezza, ricordano meglio gli eventi, hanno una maggiore capacità di persuasione e una migliore capacità di giudizio. Un umore negativo, per esempio, diminuisce il pregiudizio razziale: è meno probabile che una persona si affidi agli stereotipi nel reagire di fronte a un gruppo o a una minoranza etnica differenti dalla propria. Le sue conclusioni rappresentano un passo avanti in una materia a lungo esplorata dalla scienza. «A partire dal libro di Charles Darwin, "The expression of emotions in man and animals" (L´espressione delle emozioni nell´uomo e negli animali), molti studiosi sostengono che tutte le emozioni riflettono dei benefici nell´adattamento dell´uomo durante l´evoluzione della nostra specie», osserva Jennifer Lerner, direttrice del Laboratory for Decision Science dell´università di Harvard. Da tempo siamo consapevoli che le dita dei piedi ci aiutano a mantenere l´equilibrio e i capelli ci tengono calda la testa: per questo l´evoluzione, nel corso di milioni di anni, ce li ha dati. Ma quale vantaggio può averci dato la tristezza? Come è possibile che un sentimento che ci fa sentire così male abbia migliorato le possibilità dei nostri antenati di passare i loro geni a future generazioni, sopravvivere? «I benefici di certe emozioni sono abbastanza facili da comprendere», risponde Fargas al Financial Times. «Generalmente, la paura è il segnale di stare lontani da qualcosa, un campanello d´allarme che può salvarti la pelle quando ti trovi di fronte a un animale feroce. In modo simile, il disgusto ti trattiene dall´addentare, per quanta fame uno possa avere, una porzione di maleodorante di cibo andato a male».
E la tristezza? Immaginiamo che un uomo entri a contatto con un nuovo gruppo sociale ma non si senta accettato. Il fatto lo indispettisce, lo mette di cattivo umore, lo rattrista. «Ciò lo spinge a prestare più attenzione ai meccanismi del gruppo, a guardare da fuori, ascoltare, cercare di adattarsi alle nuove norme sociali per essere accettato. In pratica è lo stesso tipo di segnale inviato dalla paura o dal disgusto, ma probabilmente in modo più attutito». Beninteso, premettono Fargas e altri studiosi: la tristezza non va confusa con la depressione, malattia seria e grave, da cui stare alla larga. E va da sé che nessuno vuole essere triste. Ma dobbiamo chiederci, in una società come la nostra in cui tutti cercano la felicità piena ad ogni costo, se davvero vorremmo eliminare completamente dalla nostra esistenza un po´ di "normale tristezza", come la definisce lo psicologo australiano. La vecchia canzone ha ragione: tristezza, per favore vai via; ma prometti di tornare a trovarci, ogni tanto.

Repubblica 19.11.09
Anna Frank
Quell'ultimo bacio e poi l'orrore della tragedia finale
di Pietro Citati

Torna in una edizione ridotta il celebre "Diario" e la spensierata voce della ragazza olandese che annotava passioni e amori. Prima che fosse inghiottita nell´orrore di un lager
Ricevette in dono il quaderno per i suoi tredici anni. E lo tenne nascosto come un tesoro
Commentava vanitosamente le sue fotografie Le fossette sulle guance e sul mento
Non sapeva se era innamorata di Peter o se desiderava solo un´amicizia
Nell´agosto del ´44 la polizia nazista l´arrestò con la famiglia. Morì a Bergen-Belsen

Circa sessant´anni fa, quando apparvero I Diari di Anne Frank (Einaudi 1954, con una bella prefazione di Natalia Ginzburg), risvegliarono un´emozione profondissima: sembrò che il massacro degli ebrei trovasse per la prima volta una voce - la lieve, spiritosa, spensierata voce di una ragazza olandese. Ci furono edizioni successive, nelle quali fu ripristinato il complesso testo originale: la monumentale edizione critica a cura di David Barnouw, Harry Pape e Gerrold van der Stroom, tradotta in Italia nel 2002, sempre da Einaudi (euro 67). Ed ora Frediano Sessi ne cura una forma ridotta (traduzione di Laura Pignatti, con una intelligente introduzione di Eraldo Affinati, Einaudi, pagg. XXVIII-360, euro 12,50), che riporterà i Diari originali a contatto con un pubblico vastissimo. Di solito, una testimonianza biografica - diario, o lettere, o vita - patisce il peso degli anni: la polvere e l´alone della storia. Ma i Diari di Anne Frank hanno attraversato questi sessant´anni, senza che noi ce ne accorgessimo: conservano l´immediatezza, la naturalezza, la grazia del cuore, che ci colpì allora; come se proprio in questo momento una ragazza di 13 anni stia attraversando le strade di Amsterdam, colla stella gialla sul braccio, per raggiungere lietamente la scuola ebraica.
Anne Frank ricevette in dono il diario - ricoperto da una stoffa scozzese - il 12 giugno 1942, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Gli diede un nome, Kitty; e lo teneva nascosto, come se contenesse il tesoro della sua vita, insieme alla grande penna stilografica d´oro, che le aveva regalato la nonna. Kitty era un´amica, alla quale Anne voleva confidare tutti i suoi segreti, e le lettere non inviate alle sue amiche reali. Non era un semplice quaderno. Qualcosa di più: una vera e propria persona, un organismo vivente, con un corpo, un´anima, un cuore, nel quale si rispecchiava profondamente il suo cuore. Stava lì, di fronte a lei, e la consolava, la mitigava, dava consigli, alludeva, la educava. Possedeva una saggezza misteriosa che veniva da molto lontano; e a lei non spettava che ascoltare e obbedire a quelle parole. Sapeva che vi avrebbe scritto sempre - finché, forse, un giorno remoto, anche lei sarebbe diventata una scrittrice saggia come il suo diario.
Tutti conosciamo le sue fotografie. Lei le commentava vanitosamente: le piacevano le fossette sulle guance e quelle sul mento, mentre deplorava la bocca troppo grande - quella bocca ridente, che a noi pare l´incarnazione della sua inebriata felicità. Era civettuola: le piaceva che tutta la classe fosse innamorata di lei; ma avrebbe voluto ricevere anche dichiarazioni d´amore scritte nella più bella calligrafia. Apparteneva ad una famiglia ricca e privilegiata, e se ne rendeva conto. Disprezzava le ragazze povere che venivano dalle periferie. Era dura, crudele. Giudicava spietatamente i compagni: «J., vanitosa, spiona, odiosa, piena d´aria, falsa ed ipocrita»; R., «è un ragazzo falso, bugiardo, sventato e noioso». Nel diario parla delle sue gatte, del padre, che leggeva Dickens, della madre, di una pianta di rose, di una camicetta azzurra, del gioco di Monopoli, di un vasetto di crema, di una torta di fragole, di una moltitudine di regali che le giungevano da tutte le parti. Appena si guardava attorno, con i suoi occhi limpidi e lucidissimi, tutto si agitava, brillava, scintillava, entrava in quel movimento ininterrotto, che era il cuore della sua esistenza.
Nel luglio 1942, il padre di Anne, Otto Frank, decise di chiudersi insieme ad alcuni amici in un Alloggio segreto, a Prinsengracht 263. Vi rimasero più di due anni. In quel periodo l´ottica di Anne cambiò completamente. Non più le strade, la scuola, gli alberi, le amicizie, i giochi. Ma l´esperienza della più estrema concentrazione: ora Anne possedeva una specie di microscopio, con cui fissava i particolari più minuziosi della vita segregata, come un topo avrebbe scrutato un piccolo gruppo di topi in una soffitta o in una cantina. Tutto diventò minimo e romanzesco, come in una prigione del Seicento. Con questo crudele occhio d´adolescente, Anne guardava la vita dei genitori e degli amici; e tutto quello che una volta le sembrava normale, ora appariva meschino, miserabile, infimo: un orrore, che eccitava il suo disprezzo. Solo ogni quarto d´ora, il rintocco di una campana vicina dava un ritmo quieto al suo tempo interiore. Ma Anne era troppo vivace per lasciarsi opprimere. Mentre gli altri erano prigionieri e vittime del loro carcere, lei guardava, notava, si affacciava segretamente alla finestra, vedeva gli alberi, le nuvole, il cielo e si sentiva una creatura libera in una Natura liberissima e vasta. Nessuno avrebbe potuto rinchiuderla.
La persecuzione antiebraica le era sembrata, fino ad allora, una specie di gioco insensato e ridicolo. «Gli ebrei devono consegnare le biciclette; gli ebrei non devono prendere il tram: gli ebrei non devono salire su nessuna automobile, nemmeno privata; gli ebrei possono fare la spesa dalle tre alle cinque; gli ebrei possono andare solo da parrucchieri ebrei; gli ebrei non devono uscire per la strada dalle otto di sera alle sei di mattina; gli ebrei non possono trattenersi nei teatri, nei cinema e nei luoghi di svago; gli ebrei non possono andare in piscina, né nei campi di tennis, hockey o altri sport; gli ebrei non possono vogare; gli ebrei non possono praticare nessun genere di sport in pubblico?» Ma lassù, racchiusa nell´Alloggio segreto, la verità sui massacri cominciò lentamente a trapelare. Anne rimase sconvolta: «Non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutte camminano insieme verso la morte». Pensava che tutto sarebbe finito, che la loro isoletta protetta sarebbe stata trascinata via, che per loro non ci sarebbe stato nessun mondo normale, nessun futuro, nessuna salvezza. Presto cominciò a maturare in lei una limpida coscienza ebraica, e credette nella missione simbolica del suo popolo. «Chi ci ha costretti a servire così? È stato Dio a farci così e a risollevarci. Se sopporteremo questo dolore e alla fine resteremo ancora ebrei, allora gli ebrei da comandati che erano, saranno d´esempio». Sognava la redenzione; e, ciò che è più grandioso, la redenzione del mondo attraverso gli ebrei.
* * *
Mentre gli anni passavano, Anne cresceva, e sentiva che qualcosa si muoveva e si trasformava nel suo corpo: qualcosa che non capiva completamente. Entrava nell´adolescenza: ora gioiva della trasformazione che avvertiva in sé stessa, ora rimpiangeva dolorosamente l´ilare, frenetica infanzia, che la stava abbandonando. In apparenza, continuava la sua vita di sempre. Giocava con la gatta: cercava di conservare nel rifugio le abitudini della famiglia: ascoltava le notizie della radio inglese: rappresentava festosamente il teatro della vita segreta: leggeva i suoi libri di mitologia classica; attaccava al muro le fotografie delle sue dive; disegnava le tavole genealogiche delle famiglie reali. Ma qualcosa cambiò. Odiò, odiò violentemente, con un rancore che non si placava mai, le miserie, i litigi, le meschinità degli adulti, che vivevano, parlavano, mangiavano accanto a lei. Non perdonava niente. «Gli adulti sono soltanto invidiosi perché noi siamo giovani». «Quegli stupidi adulti, che comincino un po´ a imparare loro, prima di criticare tanto i figli». Il suo furore la portò a una specie di nichilismo.
Spesso odiava la madre. «Voglio molto più bene a papà». E l´odio per la madre cresceva: diventava meticoloso e feroce. Non ne sopportava il carattere né le prediche: diceva che aveva idee esattamente opposte alle sue; avrebbe voluto darle uno schiaffo, tanto era intensa la sua antipatia. La madre era fredda, gelida; Anne non tollerava il modo sarcastico con cui trattava i suoi affetti più cari. Poi, la riprendeva un´ondata di affetto infantile; e di nuovo questo calore scompariva, e accusava duramente la madre di non essere una vera madre, ma un´amica astiosa e irritata. Era gelosa della sorella maggiore, Margot, che trovava ingiustamente preferita e accarezzata. Per il padre, che chiamava affettuosamente Pim, aveva una tenerezza dolorosa e materna. Infine, spazzava dall´orizzonte tutta la famiglia. Nemmeno il padre la capiva, e usava con lei le parole che si usano con una bambina dall´infanzia capricciosa e difficile. Nessuno la comprendeva. Nella confusione e nel litigio dell´alloggio segreto, minacciata dalla deportazione e dalla morte, lei si sentiva «terribilmente sola, esclusa, trascurata». Le fossette delle guance si impietrivano, gli occhi si incupivano o balenavano luci fosche.
Sognava molto, e i sogni la consolavano e le aprivano il cuore gualcito e intirizzito. Nell´Alloggio segreto viveva un ragazzo, Peter, di due anni più grande di lei, per il quale non sentiva attrazione. Ma, una notte, Peter le apparve in sogno: lei guardava a lungo quei begli occhi marrone vellutato. Peter le diceva: «Se l´avessi saputo, sarei venuto molto prima», e accostava la propria guancia paffuta alla sua guancia magra. Aveva un sentimento di infinita dolcezza e freschezza. «Tutto era così bello, così bello». Quella notte, come in un racconto di Nerval, si innamorò in sogno. L´amore continuò, sempre più intenso, durante le ore del giorno. Malgrado il pudore, cominciò ad andare a trovare Peter al piano di sopra, dove il ragazzo dormiva. Parlavano di tutto, anche di cose intimissime. Peter era timido e un po´ goffo, e le sue parole erano incerte. Anne non capiva se avesse simpatia, o affetto o amore per lei. Ora Peter non la vedeva: il suo sguardo le passava sopra i capelli, e si perdeva sulle pareti della stanza. Ora, invece, le lanciava un´occhiata così calda e tenera, che anche lei si sentiva calda e tenera in cuore; ed era a lungo felice ripensando allo sguardo che aveva indugiato sui suoi occhi e sulle sue fossette.
A volte, era confusa. Non sapeva se era veramente innamorata di Peter, o se desiderava soltanto un´amicizia adolescente. Ma non poteva negare di essere innamorata: dalla mattina presto alla sera tardi non faceva che pensare a lui; si addormentava con la sua immagine davanti agli occhi, e si risvegliava mentre lui la stava ancora guardando. E, nel giorno, era difficile immaginare che non fossero veri i discorsi e i gesti del sogno. «Oh Peter, scriveva sul diario - di´ finalmente qualcosa, non lasciarmi più sospesa tra la speranza e la sconfitta. Dammi un bacio, o mandami via dalla stanza... Tutti pensano che io sia sfacciata, sicura di me e spiritosa, mentre non desidero altro che essere Anne per una sola persona. Per una persona sola vorrei essere sensibile». Un giorno, finalmente, lei gli diede il primo bacio: tra i capelli, sulla guancia sinistra, sull´orecchio. E il secondo. Anne gli buttò le braccia al collo: gli diede un bacio sulla guancia sinistra, e voleva spostarsi sulla destra, quando la sua bocca incontrò quella di Peter, ed entrambi premettero le labbra le une sulle altre.
Fu l´ultimo bacio. Proprio quando Anne sembrava avere aperto il suo cuore, si rinchiuse in sé stessa: si sentì superiore a Peter: lo disprezzava perché non aveva un obbiettivo davanti agli occhi, perché si sentiva insignificante, e non aveva mai conosciuto la sensazione di rendere felice qualcuno. «Non ha fede», scriveva. In quel momento, la sua anima si stravolse. Abbandonò tutto: il padre, la madre, Peter, gli abitanti dell´Alloggio segreto. Si sentì completamente sola, senza voce, senza parola, senza adolescenza e giovinezza. Capì che poteva fare a meno di tutto, perfino del padre, e concentrarsi nelle profondità conosciute e sconosciute del suo io. Guardò fuori dalla finestra, verso gli alberi primaverili, e sentì che il suo io sconosciuto era lì nel sole, sotto le nuvole, nel verde che rinasceva, nella Natura, o in una Natura-Dio, che riusciva a intravedere.
Notizie sempre più terribili giungevano dalla Germania: carri-bestiame, deportazioni, prigionie, mostruosi campi di concentramento, mitragliatrici, gas. Non c´era che Male e Male e Male, come non si era mai visto. «Vedo come il mondo pian piano viene trasformato sempre più in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina e ucciderà anche noi». Proprio lei - una ragazza quindicenne che aveva appena intravisto sé stessa - ebbe la forza di scrivere che la sua vita era «migliorata, molto migliorata». Dio non l´aveva lasciata sola. Esaltava il cielo, gli alberi, le nuvole, la Natura, e ribadiva che Dio si rispecchiava in tutte le cose. Cos´era la morte, la sua morte, la morte dei suoi fratelli, un popolo spazzato via? «Tutto era come doveva essere e Dio voleva vedere gli uomini felici nella Natura semplice ma bella». Tutto si sarebbe volto al bene; e nel mondo sarebbero tornati la calma e la pace. Sono parole sconvolgenti: parole, sembra, che possono dire soltanto i santi. Con le sue civetterie e i suoi scherzi irrispettosi, Anne Frank a tutto somigliava meno che a una santa. Eppure proprio lei, come una santa, esaltò il trionfo finale del bene.
Il 4 agosto 1944, la polizia nazista arrestò tutti gli abitanti dell´Alloggio segreto. I Diari di Anne Frank rimasero a terra, confusi tra un mucchio di vecchi libri e riviste. Nell´autunno, qualcuno la vide, con gli "occhi radiosi" insieme a Peter. Nel marzo 1945 morì di fame e di tifo - certo non più radiosa - nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Non sembra che, secondo la sua profezia, il Bene sia ritornato vittorioso sulla terra.

Corriere della Sera 19.11.09
I pirati calvinisti sul libero oceano senza papa né re
Un filosofo li definisce «primi protestanti»
di Giulio Giorello

Lo studioso francese Olivier Abel vede nell’epopea della filibusta l’avvio di una religiosità individualistica e antiautoritaria

Le motivazioni. «Restavano soli al cospetto di Dio, senza mai aver garanzia del domani» L’evoluzione Seguendo l’antica saggezza dei predatori, diventarono artisti del mare e spregiudicati politici

I diavoli «a guisa di leoni ruggenti vanno in giro cercando chi poter divorare» afferma la Prima lettera di Pietro (5,8). Non diver­samente fanno i pirati, a detta di un indub­bio esperto come il capitano Charles Johnson, autore della Storia generale delle ruberie e degli assassinii perpetrati dai più celebri pirati (1724: per alcuni si tratterebbe niente di meno di Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe.

Ma tale identificazione è stata rimessa in discus­sione). Apparentemente non ci sarebbe cosa più diversa da quell’Inferno sull’acqua del Para­diso che nell’alto dei cieli attenderebbe coloro che sono stati predestinati dal Signo­re alla salvezza eterna. E se invece «la grande epopea della filibusta non fosse altro che la schiuma del movimento da cui è nata la Rifor­ma »? La provocazione viene da Oli­vier Abel, professore di Etica alla li­bera facoltà di Teologia protestante di Parigi e allievo di Paul Ricoeur, che ha realizzato per France 2 un do­cumentario intitolato appunto Pira­tes et protestants , con il regista Clau­de Vajda.

Sul libero oceano non c’è né re né papa: si resta soli al cospetto di Dio, «costretti a vivere alla giornata, sen­za mai aver garanzia del domani». Si sperimenta così sulla propria pelle l’imperscrutabile potenza della Gra­zia e al tempo stesso ci si affida alle proprie capacità mondane. È questo il cuore della novità protestante! Nel­la Francia del Cinquecento, lacerata dai conflitti di religione, Gaspard de Coligny, capo del partito ugonotto, doveva convincere il sovrano a incen­tivare la «guerra di corsa» nell’Atlan­tico per rompere il monopolio delle rotte del Nuovo Mondo che i cattolici portoghe­si e spagnoli avevano avocato a sé, proprio men­tre i pii partecipanti ai sinodi riformati si chie­devano se un pirata potesse mai venire accetta­to in una qualsiasi «onesta congregazione cri­stiana ». Coligny finì «macellato» nella Notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572); ma la repres­sione «papista» non avrebbe fermato le audaci scorrerie delle «genti di mare» di Normandia, Bretagna e Guascogna. La libera città ugonotta de La Rochelle costituiva il nucleo di questa «pi­rateria religiosa» fino alla caduta (1628) per vo­lere di Richelieu. Ai francesi si erano intanto af­fiancati i «corsari della regina» Elisabetta d’In­ghilterra e i «pezzenti del mare» dei Paesi Bassi in rivolta contro gli Asburgo. Tutti «luterani», a detta dei sudditi della Spagna o dell’Impero; ma si trattava per lo più di calvinisti, convinti che la spada dovesse venir messa al servi­zio della libertà religiosa e spesso, come il Francis Drake che sconfisse (1588) l’Invincibile armata di Filippo II al largo delle coste dell’Inghilterra, insofferenti delle limitazioni impo­ste dalle autorità in nome delle quali pretendevano di combattere.

Sospesi «tra il diavolo e il profon­do mare azzurro», tentati dal guada­gno (filibustiere è termine di origine olandese che indica la licenza di fare bottino), disobbedienti agli ordini per seguire «la voce della coscien­za », questi singolari guerrieri risco­privano — sostiene Abel — «l’antica saggezza dei predatori», diventando artisti della navigazione, esploratori geografici, spregiudicati politici. Di­menticate il Johnny Depp dei Pirati dei Caraibi e pensate a tipi che pren­dono sul serio Giovanni Calvino, il ri­formatore di Ginevra, che rende leci­to a ogni individuo perseguire il pro­prio interesse, purché rispettoso dell’equità e del bene comune. Anche quando verrà meno la «finzione legale» del corsaro dotato di «paten­te » per rapinare le navi nemiche, i «fratelli del­la costa» faranno del loro leggendario tesoro un fondo per provvedere ai bisogni dei membri più deboli della loro consorteria: una sorta di cassa di mutuo soccorso ante litteram . Il pirata «protestante» prefigura insieme l’imprenditore capitalista e il moderno Stato sociale, anche quando protestante… non lo è più.

«Voi derubate il povero con la copertura del­la legge, mentre noi saccheggiamo il ricco con la sola protezione del nostro coraggio» diceva sprezzantemente a un ufficiale britannico suo prigioniero Samuel Bellamy, ovvero Sam Black (per la sua abitudine di portare i neri capelli sciolti), che doveva inabissarsi con la propria na­ve al largo del Massachusetts il 27 aprile del 1717. Ormai i pirati lottano contro tutte le ban­diere e hanno come stendardo il Jolly Roger: un drappo prima scarlatto (il termine deriva forse da jolie rouge, ovvero «il bel colore rosso») poi nero, ma l’essenziale è che in varia guisa porti teschio e ossa incrociate.

Questa «insegna di paura» ha una specifica funzione: quella di segnalare ai mercantili, che stanno per essere depredati, che è meglio per loro la resa immediata, data l’inevitabile distru­zione in caso contrario: un esito feroce che, in tempi di migliorati rapporti tra le nazioni, i guardiacoste legali che proteggevano le «acque territoriali» non avrebbero potuto permettersi. I pirati avevano fama di infierire crudelmente su quelli che opponevano resistenza, ma — al contrario di certi stereotipi — si facevano scru­polo di mantenere le loro promesse a quanti si erano messi nelle loro mani. Non c’è solo la sag­gezza dei predatori, ma anche quella delle pre­de, sicché «teschio e tibie» da annuncio di mor­te poteva rivelarsi, alla fine, strumento per ri­sparmiare le vite sia degli attaccanti sia degli attaccati. Pietà cristiana anche tra i pirati? Non è un caso che il dvd di Abel e Vajda facesse que­st’anno bella mostra nelle videoteche ginevrine a cinque secoli esatti dalla nascita di Calvino il quale, quando lo riteneva necessario, sapeva procedere con esemplare spietatezza.

Ma se di virtù si trattava, pur tra le «cana­glie », era una virtù indotta dalla percezione qua­si istintiva dei propri interessi e dall’uso attento del principio di conservazione delle risorse (co­me nota lo storico dell’economia Peter Leeson nel recentissimo The Invisible Hook , Princeton University Press). Questa capacità economica spiega perché i pirati fossero insieme aggressivi e «pacifici», sanguinari e misericordiosi, avidi e generosi, inflessibili sul mare e inclini, a terra, ai piaceri della carne, pervasi dai pregiudizi co­muni alla loro epoca e capaci di autentica tolle­ranza (anche per quanto riguarda il sesso e il colore della pelle: non mancano filibustieri neri o indiani; e ci sono persino «le sorelle della co­sta »!). Adam Smith ha teorizzato la mano invisi­bile che fa dei meccanismi di mercato la base della convivenza civile; in onore di Captain Hook, il terribile nemico di Peter Pan, potrem­mo dire: il suo uncino ha permesso che, sulla tolda della nave pirata, si sperimentassero mo­di di associazione e persino garanzie democrati­che impensabili nelle ben più cupe marine de­gli Stati che davano la caccia a questa «ex prote­stante » schiuma del mare.

mercoledì 18 novembre 2009

Repubblica 18.11.09
DAI NOBEL AI GIOVANI, ECCO LA SCIENZA PER LA PACE
DI UMBERTO VERONESI

Con 15 miliardi di euro si possono fare tante cose. Il nostro Parlamento nel 2009 ha scelto di investirli tutti in armi. Non è strano, ben inteso, perché questa è la media degli stanziamenti annuali del nostro Paese per carri armati, portaerei, missili e aerei supersonici, che non usiamo e non useremo mai.
È però sorprendente, se pensiamo che rifare l´intero sistema ospedaliero in Italia, per dare ai malati una cura dignitosa e moderna, costerebbe non più di quattro miliardi di euro. Ed è addirittura sconcertante se poi consideriamo che nella ricerca contro il cancro, malattia che uccide ogni anno 250mila italiani e ne colpisce altri 150mila, investiamo 200 milioni di euro, e sappiamo che con 5 miliardi alla ricerca, potremmo avvicinarci moltissimo alla soluzione definitiva di quella che è la vera epidemia moderna. Per il 2010 le prospettive non appaiono tanto migliori, visto che la finanziaria prevederebbe di ridurre ulteriormente gli stanziamenti in ricerca scientifica, scendendo al di sotto di quell´uno per cento , che già ci relegava in coda alla classifiche dei paesi avanzati, ma per lo meno ci teneva al di qua della linea di confine con i Paesi cosiddetti emergenti, non ancora civilizzati. Non si tratta di rivendicare un trasferimento, che appare banale: prendiamo alle armi e diamo alla ricerca, ai malati e ai poveri. Il problema che sta a monte di queste scelte è profondo, e riguarda non questa o quella legislatura, ma la cultura della scienza e la cultura della pace.
Per questo venerdì daremo il via al movimento "Science for Peace", con la prima Conferenza Mondiale di Milano. Hanno aderito al movimento 20 premi Nobel e decine di donne e uomini di scienza e di cultura che si riconoscono in due obiettivi: creare una cultura di non violenza e di soluzione pacifica dei conflitti, e trovare strumenti più adatti per ridurre la spesa degli armamenti, a favore delle emergenze sociali, ospedali, povertà, ricerca scientifica. La novità del movimento è che gli scienziati si mobilitano per un obiettivo, la pace, che è sempre stato legato alla cultura umanistica e vessillo degli ex-figli dei fiori, delle associazioni per i diritti umani, della musica rock. Perché ora si muove la scienza e che ha da dire di nuovo?
Fra le risposte possibili voglio riportare quella di Moni Ovadia, caro amico e fra i primi ad aderire entusiasticamente al movimento: «Il prestigio degli scienziati nel mondo è molto alto. È chiaro che non basta, ma ‘Science for Peace´ può essere un forum e un´occasione per lanciare processi che poi perdurino e può anche, con l´autorevolezza di grandi premi Nobel, portare al tavolo i grandi della terra. Perché i Nobel per la fisica, o per la chimica o per la medicina sono quelli che poi attivano tutti i processi di trasformazione scientifica del mondo». In realtà gli scienziati non piacciono molto ai potenti , perché sono degli innovatori e delle menti libere, raramente manipolabili. Tuttavia il fatto che sia difficile farsi ascoltare non basta a giustificare il silenzio, e dunque io penso che gli scienziati non possano, ma debbano mobilitarsi per la pace, perché oggi è un bisogno primario della gente e il fine della scienza è risolvere le necessità più importanti, rendendo accessibile al maggior numero di persone il più alto livello possibile di benessere.
Come? Primo, creando conoscenza e diffondendo il sapere. Diceva Einstein: «Spezzare l´atomo è stato un gioco da ragazzi, sarei stato più orgoglioso di me se avessi spezzato un pregiudizio». Conoscenza e coscienza sono il miglior antidoto sia contro i pregiudizi, che sbarrano la strada al libero pensiero e la libera opinione, sia contro le paure e le ossessioni, che ci rendono fragili e ricattabili.
Secondo, impegnandosi a creare le condizioni per la pace: migliorare l´uso delle risorse, l´acqua, il cibo, la salute. La scienza l´ha già fatto, in particolare negli ultimi 50 anni, che hanno testimoniato un´esplosione scientifica e tecnologica senza precedenti. Ma ora le conquiste devono essere comprese nella metà del mondo che si è ritrovata strumenti e conoscenze che non è pronta ad applicare, e condivise con l´altra metà che è ancora alle prese con la sopravvivenza. "Science for Peace" può creare dei ponti, attivando iniziative di collaborazione scientifica fra Paesi, che aiutino la gente nel quotidiano e soprattutto i giovani, che più di tutti hanno bisogno di pace per costruirsi un futuro.
Terzo, diventando un interlocutore riconoscibile per i governi. Riprendendo il suggerimento di Moni Ovadia, bisogna che gli scienziati siano pronti a mettere in campo il loro ruolo sociale, e a giocarlo per la causa della pace. Al di là delle sue paure, la politica ha bisogno della scienza e qualche Grande della terra, il presidente Obama in testa, inizia a prenderne atto. Ne ha bisogno anche per la pace, perché questo è il desiderio più profondo di tutte le popolazioni. La guerra è impopolare, perché è uno strumento irrazionale, obsoleto e doloroso per risolvere i conflitti, e oggi abbiamo strumenti e idee nuove per evitarla, se si agisce per tempo. Per far questo abbiamo una enorme risorsa nelle nostre mani: i giovani. Le nuove generazioni sono molto migliori delle nostre, hanno una gran voglia di fare e una straordinaria facilità di comunicare. Internet ha dato ai nostri ragazzi una cultura senza confini e il Paese globale, dal punto di vista dei giovani, già esiste. Senza frontiere e senza barriere ideologiche, i giovani sono il nostro più potente strumento di pace.

martedì 17 novembre 2009

Repubblica 17.11.09
La rivolta degli studenti secchioni
Germania, cinquanta università occupate per avere atenei migliori
di Andrea Tarquini

BERLINO - Aule magne e facoltà occupate in almeno cinquanta atenei, striscioni dietro le cattedre, cortei in strada. Quarantun anni dopo il Sessantotto e vent´anni dopo la caduta del Muro, un vento di rivolta giovanile torna a soffiare sulla Germania unita.
Da Berlino a Monaco, da Stoccarda ad Amburgo, i giovani universitari sono in agitazione. Ma questa volta non li muove nessuna ideologia, nessun sogno, nessuna illusione. Anzi, come all´inizio del Sessantotto ma senza ricette di exit strategy, è la perdita delle illusioni a spingerli a pensare che ribellarsi è giusto. Protestano contro le carenze del sistema educativo, hanno paura di trovarsi in mano una laurea che non vale nulla, si sentono condannati a studi di serie B. I maligni la chiamerebbero la rivolta dei secchioni, ma sono secchioni simpatici che sembrano avere ragione: credono nella meritocrazia, vogliono solo studiare meglio. E scuotono in silenzio certezze e complessi di superiorità della prima potenza europea.
Rettori e autorità politiche, dice l´associazione studentedesca Fzs lanciando soprattutto online volantini e dazebao, sono lontani dalla realtà: ci vuole più personale docente, infrastrutture migliori, seminari non sovraffollati. Il problema non è solo tedesco, dicono i loro leader che vogliono restare anonimi e sconosciuti, in un appello lanciato pochi giorni fa.
Appello non solo all´opinione pubblica, ma anche ai loro compagni di studio francesi e degli altri Paesi europei. Chiedono loro un segnale di solidarietà, quasi suggeriscono loro di scendere a loro volta in lotta: se università e istruzione superiore non daranno un futuro ai giovani europei, il Vecchio continente sarà condannato, non basteranno nemmeno il super-euro e la forza economica della Ue prima area mondiale per prodotto interno lordo, a salvarlo dal declino.
La situazione è scomoda e imbarazzante, per gli atenei come per l´establishment. A livello locale, dei singoli Stati (il potere federale in Germania quasi non ha competenze sulla pubblica istruzione), in alcuni casi la reazione è stata dura: sgombero dell´ateneo occupato a Tubinga, resa dei giovani alla polizia a Duisburg-Essen e a Bielefeld. Ma alla Freie Universitaet di Berlino, ad Amburgo e a Monaco l´occupazione continua. Il governo di coalizione tra i cristiano-conservatori della cancelliera Angela Merkel e i liberali del giovane Guido Westerwelle è incerto. E ha anche poche possibilità di reagire in modo efficace, per quanta comprensione possa avere verso i giovani: la pubblica istruzione, nel federalismo tedesco, è appunto competenza più dei sedici Stati che non del potere federale. E tra crisi internazionale e borsa stretta imposta dal Patto di stabilità, i margini sono esigui per tutti.

Repubblica 17.11.09
L´inchiesta A parrocchie e luoghi di culto 29 milioni dei 44 destinati dai contribuenti all´erario L´8 per mille dello Stato? Va alla Chiesa
di Carmelo Lopapa

Pontificia Università Gregoriana in Roma, 459 mila euro. Fondo librario della Compagnia di Gesù, 500 mila euro. Diocesi di Cassano allo Ionio, 1 milione 146 mila euro. Confraternita di Santa Maria della Purità, Gallipoli, 369 mila euro. L´elenco è lungo 17 pagine e porta in calce la firma del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Non si tratta di uno dei tanti decreti, ma quello che ripartisce per il 2009 i 43 milioni 969 mila 406 euro che gli italiani hanno destinato allo Stato in quota 8 per mille dell´Irpef.
Basta sfogliarlo per scoprire che confraternite, monasteri, congregazioni e parrocchie assorbono la quota prevalente di quanto i contribuenti avevano devoluto a finalità umanitarie o per scopi di assistenza e sussidi al volontariato. E invece? Succede che i 10 milioni 586 mila euro assegnati al capitolo "Beni culturali" sono finalizzati in realtà a restauri e interventi in favore di 26 immobili ecclesiastici. Opere che avrebbero tutte le carte in regola per usufruire della quota dell´8 per mille destinata alla Chiesa cattolica, col suo apposito fondo «edilizia di culto». Come se non bastasse, la medesima destinazione (chiese e parrocchie) hanno anche gli altri 19 milioni destinati alle aree terremotate del centro Italia (14 per l´Abruzzo).
«L´atto del governo n. 121» è stato predisposto ai primi di settembre da un presidente Berlusconi reduce dall´incidente diplomatico del 28 agosto con la Segreteria di Stato Vaticano. Sullo sfondo, la (mancata) Perdonanza dopo il caso Giornale-Boffo. Il documento, poi trasmesso alla Camera il 23 settembre, conferma intanto che i soldi vanno allo Stato ma entrano di diritto nella piena discrezionalità del capo del governo, per quanto attiene al loro utilizzo. È un atto «sottoposto a parere parlamentare» delle sole commissioni Bilancio. Quella della Camera lo ha già espresso, «positivo», il 27 ottobre, quella del Senato lo farà nei prossimi giorni. Eppure, anche la maggioranza di centrodestra della commissione Bilancio di Montecitorio ha lamentato le finalità distorte e ha condizionato il parere finale a una serie di modifiche, contestando carenze e incongruenze del decreto. Tra le più sorprendenti, quella che riguarda la "Fame nel mondo", «alla quale nel decreto vengono attribuite risorse finanziarie alquanto modeste, a fronte di richieste di finanziamento di importo limitato che avrebbero potuto essere integralmente accolte». Insomma: governo ingeneroso verso i bisognosi. In effetti, ultima pagina, al capitolo "Fame nel mondo", sono solo dieci le onlus e associazioni finanziate per 814 mila euro, pari al 2 per cento del totale.
Tutto il resto? A chi sono andate le quote parte dell´Irpef che gli italiani hanno devoluto allo Stato? La parte del leone quest´anno la fanno gli «interventi per il sisma in Abruzzo». Sono 32 e assorbono 14 milioni 692 mila euro. Ma il condizionale è d´obbligo. A parte la preponderanza anche qui di parrocchie e monasteri (la quasi totalità) tra l´Aquila, Pescara e Teramo, tuttavia altro non quadra. E a rivelarlo è proprio la commissione parlamentare presieduta dal leghista Giancarlo Giorgetti: «Le richieste di finanziamento relative all´Abruzzo risultano presentate in data antecedente al sisma dell´aprile 2009 ed appare quindi opportuna una puntuale verifica e un coordinamento con gli interventi previsti dopo il sisma». L´ammonimento è chiaro: quei beni finanziati in Abruzzo non sarebbero stati danneggiati dal terremoto del 6 aprile, non quanto altri almeno. Perché dunque si dirotta lì un quinto dell´intera quota dell´8x1000? Il sisma del dicembre 2008 in Emilia garantisce a 9 tra parrocchie e monasteri del Parmense altri 4 milioni, mentre 11 milioni sono parcellizzati per i danni delle restanti calamità in tutta Italia.
Ma ecco il punto. Oltre 10 milioni finiscono ad appannaggio dei Beni culturali. Ventisei tra consolidamenti e restauri, quasi tutti per diocesi, chiese, parrocchie, monasteri. Solo per restare alle cifre più consistenti, ecco il milione 314 mila euro per la cattedrale dell´Assunta di Gravina di Puglia, il milione 167 mila euro per il restauro degli affreschi della chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli, oppure i 987 mila euro per il restauro di Santa Maria ad Nives di Casaluce (Caserta), i 579 mila euro per San Lorenzo Martire in Molini di Triora o i 413 mila euro per la «valorizzazione della chiesa San Giovanni in Avezzano». E poi, la Pontificia Università Gregoriana e la Compagnia di Gesù. Anche su questo capitolo le bacchettate del Parlamento: la priorità dovevano essere «progetti presentati da enti territoriali», non ecclesiastici. Ci sarebbe anche il capitolo «Assistenza ai rifugiati», al quale però, per il 2009, il decreto firmato dal premier Berlusconi destina 2,6 milioni, poco più del 5 per cento del totale. E quasi tutto (2,3 milioni) va al solo Consiglio italiano per i rifugiati. Concentrazione «non opportuna», censura infine la commissione Bilancio: «Altri progetti non finanziati risultavano meritevoli di attenzione».

Repubblica 17.11.09
Anoressia e bulimia
L´ultima richiesta d´aiuto di chi non riesce a vivere
di Giuseppe Del Bello

"In genere i malati sono giovani che hanno dentro l´immagine della morte - dice il professor Ignazio Senatore - Negarsi al cibo è un modo forte per segnalarlo"
L´esempio delle top model non c´entra, quello che viene definito disturbo del comportamento alimentare è spesso un patchwork di psicopatologie: disturbi dell´immagine corporea, pulsioni narcisistiche della personalità, spunti depressivi e tratti ossessivi

È giovane e carina. Ha zigomi alti e sporgenti. Ma è magrissima, le si contano le ossa. Perché lei è anche anoressica. Ha chiuso con il cibo. Un rifiuto netto. Per la scienza medica soffre di un "disturbo" del comportamento alimentare, formula beffarda che circoscrive la malattia a semplice problema, neanche troppo drammatico. E invece, bulimia e anoressia, spesso considerate più sintomi che patologie, sono condizioni devianti. Particolarmente gravi. Entrambe le forme, l´anoressia bulimica (alimentazione insufficiente seguita da vomito) e l´anoressia "restrittiva" in cui l´assunzione del cibo è limitata o del tutto assente, riconoscono un comune meccanismo, psicogeno e dagli effetti devastanti.
«Alla più insidiosa, la bulimica, si associano spesso l´abuso di lassativi, diuretici e un´attività fisica estrema protratta fino a cinque o più ore al giorno. Situazione che può sfociare in irrecuperabili squilibri metabolici, con il rischio di morte improvvisa», spiega Franco Contaldo, ordinario di Medicina interna e Nutrizione clinica alla Federico II di Napoli: «L´anoressia restrittiva, invece, è relativamente meno pericolosa perché l´organismo sa adattarsi ad una marcata denutrizione».
Ma la suggestione mediatica che fa di magrezza e bellezza un´inscindibile monade non c´entra più nella genesi della malattia? Per molti esperti, nei casi gravi, nulla o quasi. Anoressia e bulimia sarebbero una malattia psichiatrica e basta. Secondo Ignazio Senatore della Clinica psichiatrica dell´ateneo federiciano, una modella come Twiggy, l´icona delle mannequin anni Settanta, andrebbe assolta. E allora perché, a un certo punto della sua esistenza, una ragazza rifiuta di alimentarsi fino ad uccidersi, in maniera più o meno consapevole? «In genere sono giovani che hanno dentro l´immagine della morte», risponde lo specialista, «e il loro negarsi al cibo è il modo "forte" per avvertire di non essere più in grado, pur volendo, di continuare a vivere. Insomma, un grido d´allarme disperato».
Psicopatologia variegata anche la bulimia che spesso può rimandare ad abusi o a gravi traumi subiti durante l´infanzia e all´esigenza di esternarli attraverso il vomito. «Anoressia e bulimia», aggiunge Senatore, «sono come un patchwork di psicopatologie: disturbi dell´immagine corporea, pulsioni narcisistiche della personalità, spunti depressivi e chiari tratti ossessivi». Eppure, quei modelli che deformano la realtà dell´immagine (maschile e femminile) ci sono ancora, sostiene Contaldo: «Da loro scaturisce quella zona grigia rappresentata dai disturbi minori che, in presenza di altri fattori (esistenziali, familiari o di stress), può precipitare verso quadri più gravi». Ma nella spirale dell´anoressia si possono sviluppare meccanismi neuropsichiatrici e neurologici che autodeterminano il rifiuto del cibo. «È il caso della riduzione delle secrezioni gastriche come la "ipo-acloridria" (mancata secrezione di acido cloridrico, ndr) che contribuisce a ridurre l´alimentazione. La conseguenza è che in simili situazioni il sintomo-anoressia finisce per sfuggire all´autocontrollo».
Ancor peggio va con la "sindrome da ri-alimentazione" che si può instaurare quando un soggetto anoressico inizia a rialimentarsi senza gradualità e senza idonea assistenza medica: le capacità di utilizzare i nutrienti sono molto ridotte dopo un prolungato periodo di digiuno. «È la sindrome che colpì molti prigionieri dei campi di concentramento», conclude il docente, «quando arrivarono gli alleati: dopo anni di inedia nei lager, il loro organismo gravemente denutrito non era preparato a un´improvvisa assunzione di cibo, e in tanti ci rimisero la pelle, che tragica beffa».
Oggi, nello studio Elite di via Tortona 35 a Milano, sette top model fotografate da Desdemona Varon, saranno protagoniste della campagna contro i disturbi alimentari "Insieme si può fare".

Repubblica 17.11.09
Epidemia nascosta, le cause affondano nella prima infanzia
di Claudio Eliseo e Luigi Schepisi

l workshop dei professori Massimo Ammaniti, Adele De Pascale e Camillo Loriedo si parla di interventi multidisciplinari, autostima, ruolo dell´attaccamento madri-figli

L´interesse che i disturbi del comportamento alimentare (Dca) continuano a suscitare è giustificato dall´aumento della loro diffusione. Dal punto di vista clinico, i Dca costituiscono la patologia di interesse psichiatrico che presenta più punti d´intersezione con altri campi della medicina. Per questo motivo, gli interventi terapeutici efficaci (in particolare psichiatria e psicoterapia con migliori prospettive di successo) sono frutto della collaborazione fra diverse branche specialistiche.
Al workshop organizzato recentemente dall´Istituto italiano di psicoterapia relazionale, Camillo Loriedo (Psichiatria, università La Sapienza) ha messo in luce quanto, tra le patologie dell´alimentazione, la bulimia nervosa ("epidemia invisibile") si stia rivelando come la più insidiosa. A differenza dell´anoressia e del binge-eating disorder, che producono danni visibili e sovente evidenti difficoltà sociali e lavorative, nella bulimia la gravità della patologia tende a sfuggire all´osservazione, dietro il mascheramento di un´apprezzabile forma estetica. Si tratta invece di una patologia grave, con l´inesorabile tendenza a costruire relazioni disfunzionali, e che assai spesso è associata all´alexitimia, cioè una gravissima difficoltà nel comunicare le emozioni.
Adele De Pascale (Psicologia clinica, La Sapienza) ha descritto un percorso evolutivo delle relazioni familiari: se il genitore ha difficoltà nel riconoscere i bisogni del bambino, questi a sua volta può non riuscire a sviluppare una definita immagine di sé e, di conseguenza, un grado accettabile di autostima, primo passo di un percorso terapeutico.
Massimo Ammaniti (Psicopatologia generale e dell´età evolutiva, La Sapienza), segnalando che i Dca nella prima infanzia oltre che frequenti si accompagnano a difficoltà di crescita e sono un fattore predittivo di disturbi nell´adolescenza, ha mostrato come la sincronizzazione del comportamento fra la madre ed il bambino, durante l´allattamento e nella prima infanzia, costituisce la base per costruire un´interazione che prende l´aspetto di una sorta di "danza", soffermandosi sul contatto visivo madre-figlio (lo "sguardo") e la reciproca capacità di imparare a riconoscere le emozioni. Il tipo di attaccamento che si sviluppa influenzerà, in misura considerevole, l´opinione che il bambino avrà di sé nel rapporto con gli altri.
* Istituto italiano di psicoterapia relazionale

Repubblica 17.11.09
La guerra identitaria del crocifisso
di Stefano Rodotà

È difficile entrare in tempi nuovi quando si è portatori di identità forti, individuali e di gruppo, quando è intensa la consapevolezza della tradizione alla quale si appartiene. Il nostro è proprio uno di quei passaggi d´epoca in cui le identità sfidate tendono a reagire chiudendosi in se stesse, divenendo più aggressive: locale contro globale, tradizione contro cambiamento, radici contro trasformazione, unicità contro diversità. Ma è appunto a queste contrapposizioni che bisogna sfuggire. Ancor oggi il mondo è percorso da conflitti identitari, da sanguinose rivendicazioni di radici, dall´illusione che più alte sono le mura maggiore è la protezione. Più paura che lungimiranza: questa rischia d´essere la guida verso un futuro che già è tra noi.
L´aspra discussione sull´esposizione del crocifisso muove da una falsa premessa: la sentenza della Corte europea dei diritti dell´uomo avrebbe negato i valori cristiani, cancellato una tradizione. E, per rafforzare questa tesi, si usano parole fuori luogo, ma pure molta eloquenza e si ricorre ad argomenti tratti anche dalla riflessione di personalità non cattoliche. Ecco, allora, comparire l´inevitabile riferimento a Benedetto Croce e al suo "perché non possiamo non dirci cristiani". A qualsiasi testo, però, bisogna guardare liberi dalla tentazione di usarlo frettolosamente, o di strumentalizzarlo. Croce, lo ha detto Gennaro Sasso in un saggio illuminante, riflette sul nesso tra rivoluzione cristiana e filosofia moderna, sì che la sua è appunto una interpretazione tormentata e fortemente caratterizzata come riflessione filosofica. Questo esempio mostra come una riflessione culturale rigorosa non porta necessariamente con sé pure una conseguenza "normativa", dunque la necessità di tradurla in un dato vincolante. Anzi, più si va a fondo negli aspetti culturali di un problema, più se ne colgono le sfaccettature e l´irriducibilità a un solo punto di vista: e la regola giuridica deve rispettare questa diversità.
La sentenza dei giudici di Strasburgo è consapevole della forza di quel simbolo. Se lo avesse banalizzato, avrebbe concluso che poteva rimanere al suo posto. Ma esso continua a sprigionare un senso profondo, una identificazione con una specifica fede che, nel momento in cui si passa dalla riflessione culturale alla valutazione istituzionale, impongono che si tenga conto di altre sensibilità, di altri punti di vista. Di questo mostrano d´essere consapevoli molti critici, che argomentano la necessità di lasciare il crocifisso nelle scuole dal suo essere ormai "un volto universale dell´umanità". Che è tesi sostenibile, ma non decisiva e che talvolta dà all´argomentazione un sapore di paradosso: il crocifisso viene allontanato dalle sue "radici cristiane" proprio nel momento in cui di queste si rivendica il pubblico riconoscimento.
Ma in questa discussione molte sono le lingue tagliate. Poco o nulla si è detto del bel documento delle Comunità cristiane di base, dove si chiede "meno Croce e più Vangelo". Sembra scomparsa la memoria di don Lorenzo Milani che toglie il crocifisso dalla scuola di Barbiana. Non si ricorda che, discutendo nel 1995 della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulla rimozione del crocifisso, Vittorio Messori diceva: «Non mi scandalizzerei affatto se anche in Italia si decidesse di togliere il crocifisso dalle aule pubbliche. Sono cristiano e papista, ma il Cristianesimo non è l´Islam: non impone la fede, la propone». Il teologo Sergio Quinzio giungeva alla conclusione radicale che «il crocifisso non è più un simbolo di umanità per tutti». E si potrebbe continuare.
Ricordo tutto questo non per spirito polemico, ma per mostrare quanto sarebbe necessaria una attenzione più larga per lo stesso mondo cattolico, percorso da dinamiche irriducibili all´ufficialità vaticana che monopolizza l´attenzione della politica e dell´informazione, mentre in quel mondo si consuma uno "scisma" (è il titolo del libro dedicato da Riccardo Chiaberge ai "cattolici senza Papa"). Posizioni minoritarie, come si sottolinea citando i sondaggi che vogliono gli italiani favorevoli all´84% al crocifisso nelle aule e ricordando che il 91% degli studenti segue l´ora di religione? Ma nella materia dei diritti non vale il principio di maggioranza. Lo ha sottolineato molte volte la Corte costituzionale, scrivendo che «l´abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona».
Nella dimensione istituzionale, dunque, quella in cui si muovono le corti internazionali e quelle costituzionali, le opinioni e le culture non possono operare "in presa diretta", con la forza del numero o d´una tradizione, ma debbono sempre essere filtrate in primo luogo attraverso la considerazione dei diritti di tutti e di ciascuno. E debbono essere misurate con riferimento ai principi costituzionali. In questo caso "il principio supremo della laicità", come lo ha definito nel 1989 la Corte costituzionale.
Così non si torna a forme anacronistiche di separazione, che negano la scuola come luogo in cui possano essere manifestate le convinzioni religiose. Una cosa, tuttavia, è riconoscere agli studenti la libertà di entrare in questo spazio pubblico con i propri simboli – il velo o la kippah, la croce o il turbante del sikh – e di vedersi offerta la possibilità di una conoscenza critica della storia delle religioni. In questo modo si creano le condizioni per la libera costruzione della personalità attraverso la conoscenza e il riconoscimento dell´altro. Altro sarebbe attribuire una primazia a una fede tra le altre o interpretare il pluralismo come compresenza ufficiale di tutti i possibili simboli religiosi, che trasformerebbe la scuola in un supermercato sulle cui scansie vengono esposte le diverse "identità".
È proprio in questa difficile prospettiva pluralista che va collocata la discussione sul crocifisso, che deve essere allontanata dalla tentazione di trasformarla in una difesa a oltranza di una "ben rotonda identità". I tempi mutati esigono la paziente costruzione di un quadro istituzionale "inclusivo", che si fondi sulla pari libertà e dignità di chi crede e di chi non crede, di chi professa l´una o l´altra fede.
Leggiamo la sentenza della Corte di Strasburgo con questo spirito, senza trarne spunto per guerre di religione o pretesto per attaccare l´Unione europea, alle cui istituzioni essa non appartiene. E senza rivendicare in ogni momento il richiamo alle radici cristiane, opportunamente escluso dal Trattato di Lisbona per la forzatura culturale (si potevano ignorare le altre tradizioni che hanno fatto l´Europa?), per il rischio politico ( una porta chiusa in faccia a un paese islamico come la Turchia?), per le distorsioni applicative (sarebbe stato necessario leggere l´intera Carta dei diritti fondamentali con il filtro delle radici cristiane?).
In altro modo oggi l´Europa deve guardare alla sua storia e alle sue radici. Essa vive una crisi dalla quale non può uscire rinserrandosi tra alte mura. Viviamo una nuova "crisi della coscienza europea", come quella che la colse tra ´600 e ´700 ed alla quale dedicò un gran libro Paul Hazard, mettendo in evidenza il passaggio "dalla stabilità al movimento", la fine di antichi equilibri, e definendo l´Europa come "un pensiero che mai si accontenta". Questo spirito aperto dovrebbe guidarci, anche come italiani, nel nuovo tempo che per l´Unione europea si apre con l´entrata in vigore il 1o dicembre del Trattato di Lisbona.

Corriere della Sera 17.11.09
Il caso Il Mussolini ritratto dalla Petacci divide gli storici. Lepre: materiale utile. I dubbi di Sabbatucci
Benito e Claretta: bugie private, pubblici segreti
di Dino Messina

Per la pubblicazione dei testi del 1945 bisognerà aspettare il 2015, perché la legge stabilisce il limite di settant’anni

Amatore instancabile e all’improvvi­so diventato fedelissimo, antisemi­ta della prima ora, avversario di Pio XI, buonista con il «sentimentalone» Hitler. Il primo assaggio dei diari di Claretta Pe­tacci dal 1932 al 1938, Mussolini segreto, a cura di Mauro Suttora, in uscita doma­ni da Rizzoli e anticipato ieri dal «Corrie­re », ci consegna un ritratto del Duce, tra il pubblico e il privato, che darà nuovo lavoro agli storici. Intanto è già comincia­ta la discussione sull’autenticità, sulla quale non vi dovrebbero essere molti dubbi, poi sull’attendibilità delle annota­zioni, che, osserva un biografo del ditta­tore, Aurelio Lepre, autore di Mussolini l’italiano (Mondadori), «andranno verifi­cate e messe a confronto per esempio con quelle dei diari di Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano. Allo stesso modo il con­fronto andrà fatto con le affermazioni contenute nel libro L’orecchio del Duce (Mursia), in cui Ugo Guspini riportava le intercettazioni di conversazioni tele­foniche tra il dittatore e la sua amante, non sempre ritenute veritiere».
Questo lavoro incrociato sulle fonti diventerà sempre più complicato a ma­no a mano che si arriverà al tragico epi­logo del 28 aprile 1945, la fucilazione de­gli amanti a Giulino di Mezzegra.
Ferdinando Petacci, figlio del fratello di Claretta, Marcello, nell’introduzione al volume ipotizza per la zia un ruolo di spia degli inglesi. Così si spiegherebbe la precisione di certe annotazioni e l’attenzione maniacale per i fatti politici. Una spia che avrebbe subito confessato il suo ruolo all’amante, il quale a sua volta l’avrebbe utilizzata tramite Winston Churchill, anche per la questione del famoso carteggio. La fantomatica corrispondenza tra il premier britannico e il dittatore italiano sarebbe servita a quest’ultimo come merce di scambio nella trattativa per una pace separata. Ma di questa vicenda ci sarà tempo per discutere, giacché, visto il contenuto privato di molte pagine dei diari, custoditi all’Archi­vio di Stato, devono passare settant’anni per la pubblicazione.
Gli storici concordano sul fatto che questi documenti sono più importanti per la ricostruzione della personalità pri­vata che per il profilo pubblico del ditta­tore. La pensa così Giovanni Sabbatucci, che precisa: «Non ho motivo di dubitare dell’autenticità dei diari, ciò che può far dubitare è il contenuto del resoconto del­la Petacci, che non so fino a quanto atten­dibile, dato che non sappiamo il grado di veridicità delle confidenze di Mussolini alla sua amante». Sicuramente Mussoli­ni mentiva quando giurava alla sua giova­ne amante fedeltà assoluta, dicendo di aver fatto il deserto intorno a sé. E Claret­ta prontamente ironizzava: un deserto con qualche cammello!
Il duce mentiva anche quando faceva risalire il suo antisemitismo al 1921? Ri­spondere a questa domanda significa ri­solvere una delle annose discussioni sto­riografiche intorno a Mussolini: quanto cioè il suo razzismo e la sua avversione per gli ebrei dipendessero dalla recente alleanza con la Germania nazista. «An­che su questo aspetto — osserva Lepre — c’è modo di stabilire se Mussolini mentiva, ma quel che conta è il contribu­to che i diari della Petacci portano al pro­filo psicologico del dittatore, tanto più che la testimonianza viene da una perso­na così vicina». Scettico sull’attendibilità dei diari della Petacci è un suo biografo, Roberto Gervaso, autore nel 1981 di Cla­retta, la donna che morì per Mussolini (Rizzoli): «Secondo me — ha dichiarato Gervaso all’Adnkronos — su temi come le leggi razziali, Pio XI e Hitler i diari di Claretta non possono essere considerati una fonte di prima mano per conoscere il pensiero di Benito. Mussolini era inna­morato pazzamente, aveva perso la testa dietro a una ragazza conosciuta quando lei aveva 20 anni e lui 49. Nel loro rappor­to questa era l’unica cosa che contava». Dà ragione a Gervaso il professor Sabba­tucci quando afferma che Mussolini si comportava come il più classico degli ita­liani: un amante che «riempiva di balle» l’amata. Ma le bugie di Mussolini non rendono certo meno interessante questo ritratto del dittatore visto anche dalla ca­mera da letto.

Liberazione 15.11.09
Sinistra e Libertà muore, rilanciamo dall'Umbria l'unità della sinistra
di Stefano Vinti*

Dopo l'uscita dei Verdi di Bonelli e adesso lo sganciamento del Psi di Nencini, che propone una nuova alleanza tra Pd, Socialisti e Radicali, appare del tutto evidente l'evidente collasso, anche organizzativo, del progetto politico di Sinistra e Libertà.
Dal quotidiano il manifesto di ieri: “Sinistra e Libertà, di fatto, non c'è più. O se sopravvive a se stessa sarà radicalmente un'altra cosa. Riccardo Nencini ha ufficializzato ieri l'addio dei socialisti al congresso dei Radicali a Chianciano. Il segretario del Psi rompe con gli alleati rosso-verdi delle europee e propone per le regionali di marzo un "triciclo" di socialisti, Pd e radicali che prelude a un nuovo centrosinistra in grado di proporsi come alternativa di governo al centrodestra. Un addio talmente rissoso che perfino il sito web di Sinistra e Libertà viene oscurato e al suo posto una mano pietosa ha scritto. Portale in manutenzione”.
Prosegue così il manifesto : “nei ranghi della nuova sinistra per ora restano, di fatto, solo gli sconfitti dai vari congressi (ex Ds, ex Prc, ex Pdci, ex ambientalisti) più alcuni indipendenti candidati alle europee. Il travaglio però potrebbe non essere finito”.
Questi sono i fatti e l'analisi di un quotidiano che, fino ad oggi, ha sostenuto il percorso accidentato e poco fortunato del progetto di Sinistra e Libertà.
Se questi sono i fatti e le prospettive mi sento in dovere, in tutta onestà, di rivolgere ancora a tante compagne e tanti compagni, con i quali ho condiviso lunga parte della mia militanza politica, un appello unitario.
Tutti sappiamo che ora è impossibile ricomporre in un solo partito quello che si è rotto, ma se è vero, come io credo, che sono infinitamente di più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono, è necessario attivare un percorso di unità di tutte le forze di sinistra e di sinistra di alternativa su una piattaforma politico-programmatica comune.
Lo rende necessario la collocazione moderata del Pd, la sua impossibilità di essere alternativo al neoliberismo moderato, che lo pone cieco di fronte alla "questione democratica" che ha come fulcro il sovversivismo berlusconiano, e ancora di più incapace di affrontare una enorme "questione sociale" accentuata dalla crisi economica, che nel paese produce un milione di disoccupati, un calo della produzione industriale del 20 per cento, la chiusura di centinaia di migliaia di imprese, la privatizzazione dei servizi pubblici primari (come l'acqua), lo smantellamento della scuola della Repubblica, il continuo e pesante taglio di risorse dell'università, piegata agli interessi dell'impresa, lo scudo fiscale per i capitali della criminalità organizzata, ecc.
Ma allo stesso tempo in Umbria la cassa integrazione passa da 100mila ore del 2008 a un milione e 200mila ore del 2009, produce seimila disoccupati e 18mila nuovi cassa integrati.
Anche nella nostra regione è più che a rischio la tenuta della coesione sociale con effetti politici allarmanti, data l'inerzia colpevole del Partito democratico umbro.
E' evidente che nel Paese e in Umbria manca una sinistra che agisca in modo efficace e coerente in difesa del lavoro e dell'apparato produttivo, che prospetti una uscita "da sinistra" dalla crisi. Occorre, innanzitutto, accumulare le forze esistenti, ancora notevoli, e non dividerle e frastagliarle in tanti piccoli, rissosi e inconcludenti progetti, che ci rendono tutti più deboli e poco credibili, soprattutto agli occhi della nostra gente. Per questo mi permetto di insistere e di appellarmi al vostro senso di responsabilità per riannodare i fili del confronto politico e dell'unità di azione.
A partire dall'Umbria, con le nostre specificità, è possibile ricostruire una nuova soggettività di sinistra, dove nessuno sia costretto ad abiurare la propria identità e i percorsi culturali avviati.
La costituenda Federazione della sinistra di alternativa è un processo aperto a tutte le soggettività, organizzate e non, alle forze politiche e associazioni, a singole individualità, non per fare un nuovo impraticabile partito unico, ma per stare assieme tra diversi, per costituire un polo politico autonomo dal Pd, non minoritario ma in grado di incidere sui processi reali. Ripartiamo dalle cose da fare: un piano regionale del lavoro; l'istituzione del reddito sociale; la difesa e la qualificazione della sanità e dell'istruzione pubblica; una nuova politica dei beni comuni ad iniziare dalla ripubblicizzazione del ciclo delle acque; la valorizzazione del regionalismo dentro uno schema di "Italia mediana"; la lotta alla precarietà del lavoro; una "green economy" per l'Umbria. Sono le questioni che poniamo per una azione comune nella società e nelle istituzioni.
Sono questioni che condividiamo, perchè non affrontarle unitariamente?
Propongo un confronto ai compagni umbri di Sinistra democratica, di Unire la sinistra, del Movimento per la sinistra, all'associazionismo, ai comitati, a tutte le donne e gli uomini di sinistra, ma anche ai compagni di Sinistra Critica, sulle questioni concrete, vedrete saremo molto più utili di quanto lo siamo ora divisi.

*segretario regionale Umbria

Liberazione 15.11.09
La storia del fratello del più importante triumviro del Comitato di salute pubblica nell'ultimo libro di Sergio Luzzatto
Augustin Robespierre, un terrore dal volto umano?
di Luca Canali

E' vero che l'elegante libriccino di Sergio Luzzatto Bonbon Robespierre , (Einaudi 2009, pp. 121, euro 10,00), intitolandosi appunto col soprannome ironico-benevolo di Augustin Robespierre, fratello di Maximilien, il più importante triumviro del Comitato di salute pubblica, si propone di farne una obiettiva e problematica biografia; ma ci si sarebbe aspettato che questa fosse più ampiamente inquadrata nelle precedenti vicende che della Rivoluzione e poi del Terrore erano state motivazioni e persino giustificazioni.
In tal modo queste centoventi pagine, disinvoltamente scritte - avvalendosi a volte di un lessico più letterario e giornalistico che saggistico ("la vita agra", "una manciata di ore", "fu messo all'angolo", "donna fra le più gettonate della capitale", etc.) rischiano di offrire al lettore non esperto di questo vertiginoso susseguirsi di tragedie epocali, un quadro soltanto esecrabile, quello immediatamente precedente al colpo di stato termidoriano (27 luglio 1794) e all'esecuzione dei due Robespierre e di un gruppo di loro irriducibili sostenitori: sanguinosa conclusione di un processo rivoluzionario reso inevitabile, oltre che dallo scontento della borghesia, dalla miseria di masse di contadini e operai spinti alla disperazione dalla politica di un re, di una regina e di una corte di inetti e di egoisti, oltre che di un'ottusa e arrogante aristocrazia irresponsabilmente ostile ad ogni limitazione dei propri sfacciati privilegi e persino alle moderate riforme del Necker, ben presto sollevato dal suo incarico.
Al termine della sua breve esperienza terrorista, in Augustin - soprattutto nella prima fase delle reiterate missioni da lui compiute espletando i compiti di controllo su tutto il territorio della Nazione sconvolta da violente contrapposizioni politiche e amministrative (la rivolta federalista contro il centralismo rivoluzionario parigino) - s'era verificato un cambiamento certo maturato durante quelle sue prime esperienze di giacobino, fratello dell'uomo più influente e carismatico del nuovo regime rivoluzionario. Mutamento reso ancora più stupefacente, in quanto avvenuto in un giovane uomo in precedenza ritenuto da molti incapace, e persino "imbecille". Ciò che egli dimostrò infine è esattamente il contrario di tali giudizi negativi: la volontà, a volte realizzata in provvedimenti "indulgenti" (aprire le carceri e le chiese, fermare gli "energumeni in berretto frigio" seguaci dell'estremista Hebert, fermare la mano del boia) e di attuare una sorta di "Terrore dal volto umano".
Certo il libro è dedicato ad Augustin Robespierre, ma forse l'A. avrebbe dovuto collocare la vicenda di quest'uomo contraddittorio su uno sfondo sociale e politico meno partigiano in funzione antiterroristica: ogni rivoluzione infatti si conclude da sempre con una fase "terroristica", cui succede sempre un "regime" equilibrato e, a volte, reazionario: un esempio di importanza millenaria è la rivoluzione romana di Cesare, cui succede la blanda restaurazione di Augusto. L'A. si concentra invece sulla fase terrorista, quasi ignorandone le cause più gravi: il bellicismo della Gironda, l'alleanza delle maggiori potenze europee contro la Francia repubblicana, le sanguinose sollevazioni vandeane e bretoni causate e dirette dal clero, l'aggravarsi della crisi economica interna, il passaggio del capo della Gironda dalla parte degli aggressori stranieri.
Pur essendo priva di tale sfondo, la vicenda di Robespierre le petit è tuttavia narrata con efficacia, seguendo la strana contrapposizione dei suoi stati d'animo e della collocazione politica, evoluta progressivamente verso uno strano "Terrore gentile" e persino verso una risoluta pratica dell'"indulgenza", per esempio opponendosi alla pratica violenta della scristianizzazione imposta dai sanculotti Hebert e dal prete spretato Lebon; atteggiamento politico vicino al suo temperamento poco incline alla violenza e non estraneo ai piaceri del "buon vivere", che ebbe il risultato di conciliare alla causa giacobina una fervida simpatia delle popolazioni provinciali. Tutto ciò senza infrangere il rapporto di piena lealtà fra i due fratelli, il grande Maximilien e il "piccolo e mite" Augustin.
Ad un certo punto l'A. si chiede come fosse stata possibile una così profonda diversità fra i due fratelli. E crede di poterla motivare con una semplice "differenza di carattere": «Da sempre, fin dai tempi della sua infanzia infelice di primogenito senza genitori, Maximilien era stato un uomo austero, disciplinato, severo con se stesso prima ancora che con gli altri. Augustin invece, era stato sempre un bon vivant : non privo di doti, ma incline alla dissipazione piuttosto che all'applicazione, ai piaceri piuttosto che ai doveri». Questa differenza di carattere era certa, ma forse, poiché i caratteri si formano e cambiano sulla base della esperienza, il continuo movimento in missioni importanti compiute da Augustin, e il suo constatare che la sua indulgenza procurava più successi umani e politici che non la spietata durezza, potrebbe far sospettare una sua segreta ambizione: ottenere appunto risultati politici maggiori dei suoi colleghi, e persino del suo temutissimo fratello. Forse Augustin, esortando Maximilien a ispirare la sua febbrile ma buia e solitaria attività a maggiore comprensione degli "altri", e soprattutto della gente semplice delle province, da fratello e militante in sottordine si sentiva così un gradino più in alto di lui. Del resto il testo stampato in quarta di copertina del volumetto, giustamente conclude: «A forza di guardare in faccia il terrore (Augustin) comprese che fermando la metastasi della violenza si potevano preservare le conquiste rivoluzionarie. Soltanto terminando la Rivoluzione si poteva salvarla.» Ma questo mutamento di rotta non poteva riguardare l'intero schieramento giacobino, e del resto era troppo tardi perché ciò accadesse, mentre già un "terrore bianco" reazionario, quello della jeunesse dorée e dei muscardins , dava la caccia spietata agli ultimi gruppi di giacobini.

l'Unità lettere 16.11.09
La distribuzione dei film
di Ferdinando Maida

Sono un lettore dell' Unità da moltis- simi anni e non ne perdo un nume- ro. Il 12 novembre ho letto l' articolo sul film di Amenabar AGORA` e pur essendo uno tra i firmatari della pe- tizione per la sua distribuzione in Italia, mi rendo conto che le forze in campo sono davvero impari. Quin- di pur sperando in un giusto e rapi- do cambiamento a favore della di- stribuzione di questo film anche nel nostro paese mi chiedo: ma noi comuni cittadini siamo liberi di po- ter vedere le pellicole che più ci inte- ressano? E perché gli editori a noi più vicini non si impegnano per far si che queste pellicole (ce ne sono tante) abbiano sempre e comun- que un canale di distribuzione "ga- rantito"? Non è forse anche questo un modo per trasmettere cultura e opporsi a certi "regimi" che impon- gono quello che si può o non si può vedere?