lunedì 23 novembre 2009

Corriere della Sera 23.11.09
Obbligo di felicità e solitudine: il dramma delle neomamme
di Silvia Vegetti Finzi


Diventare mamma è stato sem­pre considerato un evento natu­rale e istintivo e si sottolinea il fatto che «quando nasce un bambino nasce una ma­dre ». Il tragico e per fortuna eccezionale fatto accaduto nel Padovano, dove una donna da poco madre di una neonata ha ucciso il primogenito di tre anni, ci ricor­da che le cose non sono così semplici e che, come tutte le relazioni umane, anche quella primaria va preparata e protetta.
Il parto è un evento critico che non si esaurisce con la nascita del neonato ma si protrae per tutto il primo anno, quando il bambino passa dal grembo alle braccia della madre, dal dentro al fuori. Rispetto alla intimità della gravidanza, il parto può essere vissuto come un distacco, una per­dita che suscita un sentimento di lutto. Co­me tale viene aggravato dalla solitudine in cui si trovano molte puerpere da quando la famiglia estesa ha lasciato il posto a quella nucleare. In quei frangenti accado­no momenti transitori di malinconia ma ci si deve preoccupare quando si profila uno stato protratto di depressione. Un di­sagio che colpisce circa il 12 % delle neo­madri e che non deve essere sottovalutato perché le conseguenze, come nel caso di Padova, possono in certi casi essere così gravi da richiedere un vasto programma di prevenzione e informazione.
Spesso la mamma in difficoltà tace per­ché si vergogna di sentirsi depressa pro­prio nel momento in cui tutti si attendo­no da lei il massimo di felicità. Ma il fatto che non chieda aiuto non significa che va­da tutto bene. Chi le sta accanto dovrebbe essere preparato a cogliere i segnali di ma­lessere che invia: insonnia, stanchezza cro­nica, inappetenza, crisi di pianto, ansia e mutismo sono i sintomi più comuni di un disturbo dalle mille sfaccettature. In altri Paesi, come la Francia, una ostetrica com­pie regolari visite domiciliari in modo da offrire aiuto a mamme e bambini spesso isolati. Nella maggior parte delle depres­sioni, dove non c’è un contesto psichiatri­co, le donne in crisi devono comunque es­sere non sostituite ma sostenute perché ri­prendano fiducia nella capacità di essere madri. 



Corriere della Sera 23.11.09
Il procuratore Critico anche sul processo breve: cifre paradossali
Spataro in tv attacca Alfano La maggioranza: eversivo
«Giustizia con logica aziendale». E il Pdl insorge
di Alessandra Arachi

Sandro Bondi: «Non c’è un solo Paese al mondo in cui un magistrato può dire quello che ha detto Spataro»
Antonio Di Pietro «Prendersela con magistrati integerrimi è come avere un tumore e prendersela con il medico»

ROMA — Non esita Arman­do Spataro. Il ddl Alfano sulla ri­forma della giustizia? «È inutile e sembra ispirato ad una logica aziendale, lì dove indica lo sgan­ciamento dei pm dalla polizia giudiziaria». È pacato il procura­tore aggiunto di Milano capo del pool antiterrorismo. Ma molto molto diretto.
Ieri pomeriggio il procurato­re aggiunto di Milano Spataro era seduto sulla poltrona di Lu­cia Annunziata nel programma In mezz’ora di Raitre ed è par­lando del processo per il seque­stro dell’ex-imam Abu Omar e del non doversi procedere per il capo del Sismi Niccolò Pollari che ha detto: «Dei servizi ho ri­spetto per le tante vittime, per la professionalità di tanti loro componenti. Vi sono stati mo­menti in cui hanno dato molto, in altri meno». Ma ben presto sono state le domande sulla ri­forma della giustizia a prendere il sopravvento.
Il processo breve? Spataro non ha dubbi: «Il ministro della Giustizia Alfano non si è accor­to di essersi infilato in un para­dosso: ha detto che soltanto l’1% dei processi subirà uno stop. E allora? La sua frase è evi­dentemente un pericoloso boo­merang. Se ha ragione lui vuol dire che il 99% dei processi fun­ziona egregiamente e il 99% dei cittadini non si lamenta. Dun­que: qual è l’urgenza di fare una legge che, di fatto, non serve?». Accomodato al tavolo con Lucia Annunziata, Spataro ce ne ha avute anche per il ministro del­l’Interno Roberto Maroni: «Sul terrorismo internazionale guai a generare allarmi esagerati, Al Qaeda non esiste più come orga­n izzazione, ormai è un brand...». È deciso Spataro: «In Italia chi gode di più garanzie processuali non sono i terroristi o i mafiosi ma i colletti bian­chi ». E ancora: «È più sicuro Pa­lazzo Grazioli o Palazzo Chigi per il premier? Non lo so, non conosco le due sedi».
Non appena si sono spente le luci negli studi Rai, fuori si so­no accese le polemiche. Il Pdl è partito in massa. Sandro Bondi, ministro della Cultura: «Non c’è un solo Paese al mondo, neppu­re quelli più lontani dalla demo­crazia, in cui un magistrato può dire pubblicamente quello che ha detto Spataro...». Segue a ruo­ta Fabrizio Cicchitto, capogrup­po del Pdl alla Camera: «Tutti i conti tornano: è in pieno svolgi­mento il circo mediatico-giudi­ziario. Basta vedere: dopo In­groia ad Annozero adesso Spata­ro a In mezz’ora ». E anche Da­niele Capezzone, portavoce Pdl: «Con la collaborazione della An­nunziata si è svolta su RaiTre una sorta di Tribuna politica.».
Da Palazzo Madama ci pensa la senatrice Cinzia Bonfrisco a a lanciare la prima bordata: «Quello di Spataro è un vero e proprio tentativo di golpe», an­che se poi è Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, a tirare la bordata più pesante. Dice infatti : «Spataro e In­groia? Siamo evidentemente di fronte ad un’azione eversiva contro la lega­lità democrati­ca del Paese dove gli Abu Omar e gli Spatuzza di­ventano i cam­p ioni. Che due giudici co­me loro indos­sino la toga per i propri di­segni politici è motivo di in­quietudine ».
Immediata la replica di Antonio Di Pietro, ex-pm oggi leader dell’Italia dei Valori: «Prendersela con magistrati in­tegerrimi co­me Spataro ed Ingroia, che per tutta la vita hanno combattuto terrorismo e criminalità orga­nizzata, è come prendersela con il medico quando si è affet­ti da tumore». 


Corriere della Sera 23.11.09
Londra Il caso dell’uomo che scambiò la compagna a letto per un ladro
Il killer sonnambulo assolto «L’amnistia dell’inconscio»
Ha strangolato la moglie. I medici: andava punito
di Mario Pappagallo 


MILANO — Si muovono co­me se fossero svegli, ma in real­tà dormono. Sonnambuli. Pos­sono anche guidare l’auto, ma meglio non svegliarli. L’aggres­sività è una delle reazioni lega­te alla paura della sorpresa. Non sanno quel che fanno e nemmeno ricordano nulla do­po, al mattino quando si sve­gliano. Caso mai stanchi, ma si­curi di aver profondamente dor­mito. A volte, il sonnambuli­smo è un alibi: storie di infedel­tà giustificate con un disturbo che ha sempre attirato la fanta­sia di scrittori, registi, musici­sti. «La sonnambula» di Vincen­zo Bellini (1831) ne è un esem­pio. E creato miti e leggende.
Non solo. Il sonnambulismo è anche al centro di eventi giu­diziari. L’ultimo è da romanzo giallo: uxoricida sonnambulo assolto per malattia. Un uomo, con alle spalle una lunga storia di sonnambulismo, ha ucciso la moglie, strangolandola, men­tre dormivano assieme nel loro camper. In Galles. Brian Tho­mas, 59 anni, ha detto di aver avuto un incubo e di aver credu­to, nel sonno, che dei ladri fos­sero entrati nel camper, mentre si trovava in vacanza con la mo­glie, Christine, 57 anni. I giudi­ci all’inizio avevano stabilito che era insano di mente e ne avevano chiesto il ricovero in un ospedale psichiatrico. Ma successivamente hanno accerta­to che Thomas soffriva di di­sturbi del sonno e che la sua mente non esercitava alcun con­trollo sul corpo quando ha strangolato la moglie: assolto. «Assurdo e grave — commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano —. Avrei concesso tutte le atte­nuanti, ma mai l’impunità. Il sonnambulismo negli adulti è sempre collegato a psicopatolo­gie note. Sono in cura e posso­no essere controllati». E l’incon­scio? L’inconscio che agisce prendendo il sopravvento sul conscio? «Certo. I miei pazienti sonnambuli registrano anche quello che dicono nel loro stato di parasonnia motoria — confi­da Mencacci —. A volte verità scomode. 'Ho detto questo? Non è possibile... però a pensar­ci bene è vero', è il commento più comune quando si riascolta­no ». Eppoi c’è il libero arbitrio. «Nonostante i progressi nel campo delle neuroscienze e le continue sorprese, nessuna fi­nora può intaccare il libero arbi­trio di un individuo», commen­ta ancora Mencacci. Insomma, il sonnambulismo non può con­cedere impunità. Anche per­ché, in questo modo, uno come mister Thomas sarebbe autoriz­zato a commettere qualsiasi rea­to senza conseguenze. Stia at­tenta un’eventuale nuova mo­glie.
La cronaca. Mister Thomas dormiva con la moglie in un camper. Erano in vacanza. Di­sturbati da un gruppo di ragaz­zi, si sono poi riaddormentati. Ma l’uomo ha avuto un incubo e ha strangolato la moglie. Si è risvegliato, ore dopo, con accan­to la compagna morta. Dram­matica la telefonata alla polizia: «Credo di aver ucciso mia mo­glie... Oh mio Dio, lottavo con quei ragazzi, ma era Christine. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?», ha ripetuto più volte. Piangeva e tremava. Dovevano festeggia­re i 40 anni di matrimonio. «Si tratta di un caso quasi unico in Gran Bretagna e se ne contano circa 50 in tutto il mondo», ha commentato il capo della Procu­ra londinese, Iwan Jenkins.
Forse Christine ha svegliato il marito e lui ha reagito in mo­do aggressivo... «Possibile — dice Mencacci —, ma non suffi­ciente ad assolverlo. Io la penso così». Un mito da sfatare è quel­lo che svegliare un sonnambu­lo potrebbe causargli un infar­to, danni al cervello o qual­cos’altro di grave. Non è un mi­to, invece, che sia pericoloso per chi lo sveglia. «In letteratu­ra sono stati registrati casi di uomini che nel sonno hanno uc­ciso o tentato di uccidere la pro­pria moglie», spiega Giuseppe Plazzi, neurologo dell’universi­tà di Bologna, autore di una re­view sul sonnambulismo pub­blicata da Neurological Scien­ces .
Che cosa ha scritto Plazzi? Che il 30% dei bambini fra i 5 e i 12 anni vive almeno un’espe­rienza di sonnambulismo, che in circa il 3% è persistente. E che, invece, si manifesta occa­sionalmente nel 2-3% degli adulti.
Nei bambini, crescendo pas­sa. Negli adulti è collegabile a psicopatologie. C’è una familia­rità. Chi ne soffre può anche avere episodi una volta a setti­mana. Durata: 15-20 minuti. Lo stress può esserne causa, come pure la privazione di sonno, l’al­col e la droga.
I sonnambuli sono in grado, mentre dormono, di guidare la macchina, rispondere a doman­de, ascoltare a tutto volume la radio, abbuffarsi di cibo, fare sesso... uccidere la moglie. Sen­za poi ricordare nulla.



Corriere della Sera 23.11.09
Risvegli aggressivi 
I neurologi: «Attenti a non svegliarli. Confusi e impauriti, possono essere molto aggressivi»

Brian Thomas assieme alla moglie. L’uomo è stato processato per averla strangolata, ma è stato assolto per il particolare tipo di sonnambulismo di cui soffre
Il sonnambulismo colpisce soprattutto nell’infanzia e accompagna in modo persistente le notti del 3% dei bambini fra i sei e i sette anni.

Si manifesta occasionalmente anche nel 2-3% degli adulti.

Sopraggiunge nella prima parte del sonno, quando si entra nel sonno profondo non-Rem, causato da un risveglio incompleto. In questa fase il corpo può compiere movimenti, le attività cerebrali sono al livello più basso e lo stato di coscienza è minimo

Le cause
Può essere determinato da fattori che provocano risvegli, per esempio le apnee notturne, o che aumentano la durata del sonno profondo, come febbre, abuso di alcol, mancanza di riposo, farmaci ipnotici. C’è anche una familiarità. Un episodio di sonnambulismo può durare da 15 a 20 minuti
La terapia
Nei bambini si risolve di solito spontaneamente con l’adolescenza, negli altri casi si può tenere bene sotto controllo con un sonno regolare, sane abitudini di vita e terapie mirate a risolvere le cause che determinano il disturbo. Un sonnambulo non necessariamente cammina per casa: può semplicemente avere un sonniloquio, cioè sedersi sul letto ed emettere qualche suono o parola. Buona regola è non svegliare un sonnambulo: il repentino ritorno a una condizione di coscienza potrebbe causare reazioni aggressive L’opera
«La sonnambula» è un’opera semiseria in due atti messa in musica da Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani. È considerata con «I puritani» e «Norma» uno dei tre capolavori del compositore catanese, che la compose in soli due mesi, mentre si trovava a Moltrasio, nella villa dei Conti Lucini Passalacqua, vicino all’abitazione di Giuditta Turina, una giovane con cui intratteneva una relazione. L’opera debuttò al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo del 1831: la trama del contrastato amore tra Amina ed Elvino culmina nella celebre aria «Ah, non credea mirarti», che la protagonista canta in stato di sonnambulismo (nella foto Nathalie Dessay in scena al Teatro alla Scala di Milano)

Corriere della Sera 23.11.09
Il discorso pronunciato dal Führer nel suo quartier generale quattro mesi prima di morire Hitler: non conosco la parola resa
«Lottiamo per esistere, se perdiamo l’Europa sarà bolscevica»


Giunto all’ultimo colpo di coda, Adolf Hitler si dice certo della vittoria. Il discorso di cui ripor­tiamo la parte iniziale risale al 28 dicembre 1944. Il Führer lo tiene nel suo quartier generale in As­sia, detto «nido d’aquila» (da non confondersi con l’altro «nido d’aquila» nelle Alpi bavaresi). Il testo è tratto dal secondo volume, in libreria da domani, della raccolta «I verbali di Hitler» (Li­breria Editrice Goriziana, pp. 563, € 35), versio­ne italiana, tradotta da Flavia Paoli, dell’opera in cui lo storico Helmut Heiber ha riordinato i resti dei resoconti stenografici delle riunioni tra il Führer e i vertici militari, in gran parte distrutti al termine della guerra. Il primo volume, di cui il «Corriere» ha pubblicato un estratto il 2 settem­bre, comprende gli anni 1942-43, il secondo il pe­riodo 1944-45. Questo discorso viene pronuncia­to al culmine dell’offensiva delle Ardenne, tenta­tivo disperato del Terzo Reich di rovesciare le sorti della guerra a Ovest. Hitler confida nella consapevolezza dei tedeschi che la sconfitta por­terebbe al loro annientamento e alla bolscevizza­zione dell’Europa. Gli angloamericani, afferma, non possono fermare il comunismo, come dimo­strano le difficoltà dei britannici con i partigiani greci e non si battono per la loro esistenza. Quin­di la determinazione superiore dei tedeschi può ancora piegarli. ( A. Car.)

Miei signori! Vi ho invitati qui prima di un’azione dalla cui riuscita dipen­deranno ulteriori colpi in Occiden­te. Intanto vorrei mettere in luce brevemente il giusto significato di quest’unica azione. Vorrei metterla in relazione con la gran­de situazione nella quale ci troviamo e con i pro­blemi che ci sono posti e che, sia che li risolvia­mo felicemente o infelicemente, certamente tro­veranno una soluzione: in un caso a nostro favo­re, nell’altro con il nostro annientamento.
In questa guerra, come già nella guerra mon­diale, non si tratta di decidere se alla Germania verrà accordata una forma di esistenza benevola in caso di vittoria dei nostri avversari, ma si trat­ta di decidere se la Germania vuole continuare a esistere o se verrà annientata. In questa guerra non viene deciso un problema di organizzazione statale, come forse avveniva nelle guerre del XVII o del XVIII secolo, ma alla fine viene decisa l’esi­stenza dell’essenza del nostro popolo; non l’esi­stenza del Reich Tedesco, ma l’esistenza dell’es­senza del popolo tedesco. Una vittoria dei nostri nemici porta necessariamente alla bolscevizza­zione dell’Europa. Che cosa la bolscevizzazione significhi per la Germania deve essere chiaro e sarà chiaro a tutti. Non si tratta di una questione di cambiamento di Stato. Cambiamenti di Stato sono avvenuti innumerevoli volte nella vita dei popoli; vanno e vengono. Qui si tratta dell’esi­stenza della sostanza in sé. Le sostanze o vengo­no mantenute o eliminate. Il mantenimento è il nostro obiettivo. L’eliminazione potrebbe an­nientare per sempre una razza.
Battaglie come le attuali portano in sé il carat­tere di conflitti ideologici e spesso durano molto a lungo. Anche per questo esse non sono parago­nabili alle battaglie del periodo fridericiano. Allo­ra si trattava di una nuova grande potenza tede­sca che si faceva strada e questa grande potenza, vorrei dire, doveva ottenere combattendo lo sta­tus di grande potenza europea. Oggi però per la Germania non si tratta di dimostrare il suo valo­re come grande potenza europea, invece il Reich tedesco sta conducendo una guerra ideologica per esistere o non esistere. La vittoria stabilizze­rà definitivamente questa grande potenza, che già esiste per numeri e valore, e la sconfitta di­struggerà e smembrerà il popolo tedesco. Solo qualche settimana fa avete sentito le dichiarazio­ni di Churchill, ha detto che tutta la Prussia orien­tale, parti della Pomerania e della Slesia superio­re — forse tutta la Slesia — verranno date ai po­lacchi; i 7 o 10 o 11 milioni di tedeschi dovranno essere cacciati. Spera comunque di poterne eli­minare altri 6 o 7 milioni con gli attacchi aerei, così lo sfratto non creerà grandi difficoltà. Que­sta oggi è la dichiarazione razionale di un poten­te uomo di Stato in un’assemblea pubblica. Pri­ma una cosa così sarebbe stata definita una men­zogna propagandistica. Qui si dice qualcosa che non corrisponde nemmeno lontanamente a quel­lo che accadrebbe in realtà perché, se la Germa­nia crollasse, l’Inghilterra non è assolutamente in grado di opporre una reale resistenza al bol­scevismo. Questa è una teoria debole. In queste ore, nelle quali il signor Churchill con una peno­sa figuraccia si ritira da Atene e non è in grado di affrontare il bolscevismo nemmeno in un ambi­to così ristretto, in questo momento quell’uomo vuole risvegliare l’impressione di essere capace di contenere su qualche confine europeo l’avan­zata del bolscevismo. È una fantasia ridicola. L’America non può farlo e non può farlo l’Inghil­terra. L’unico Stato, il cui destino alla fine è mes­so in gioco da questa guerra, è la Germania che o si salva o, se dovesse perdere questa guerra, an­drà a fondo.
Vorrei aggiungere subito: da quanto dico non traete la conclusione che io pensi anche solo lon­tanamente alla possibilità di perdere la guerra. Nella mia vita non ho mai conosciuto il concetto di capitolazione e io sono uno di quegli uomini che si sono fatti strada dal nulla. Per me quindi la situazione nella quale ci troviamo oggi non è nulla di nuovo. Una volta la situazione per me era molto peggiore. Lo dico solo perché com­prendiate perché perseguo il mio obiettivo con tanto fanatismo e perché nulla può piegarmi.
Per confutare al meglio l’obiezione che in que­ste cose si dovrebbe pensare con razionalità mili­tare basta un breve sguardo alla grande storia mondiale. La riflessione razionalmente militare ad esempio dopo la battaglia di Canne avrebbe assolutamente convinto tutti che Roma era per­duta. Abbandonata da tutti gli amici, tradita da tutti gli alleati, con il nemico alle porte dopo la perdita dell’ultima armata ancora in grado di combattere, ciò nonostante la fermezza del Se­nato — non del popolo romano in sé, ma la fer­mezza del Senato, del comando — allora ha sal­vato Roma. Nella nostra storia tedesca abbiamo un esempio simile. È la Guerra dei sette anni, nella quale già il terzo anno in innumerevoli or­gani di carattere militare e politico prevaleva la convinzione che la guerra non si sarebbe mai po­tuta vincere. Doveva essere perduta anche in ba­se alle normali valutazioni; perché 3,7 milioni di prussiani affrontavano circa 52 milioni di euro­pei. Ciò nonostante questa guerra è stata vinta. Quindi in conflitti come questo l’atteggiamento mentale è realmente uno dei fattori decisivi. Es­so permette di trovare sempre nuove vie d’usci­ta e di mettere in movimento nuove possibilità. Soprattutto è decisivo sapere che anche il nemi­co è costituito da esseri umani che hanno carne e sangue, che hanno nervi e che non devono combattere per la loro esistenza. Cioè: questo ne­mico non sa, come noi, che si tratta di esistere o non esistere. Se anche gli inglesi perdessero la guerra, per loro non è così decisivo di fronte a quello che hanno già perduto con la guerra in sé. L’America non perderà lo Stato e non perde­rà l’essenza del popolo. Ma la Germania combat­te per esistere o non esistere. Tutti potete valuta­re che il popolo tedesco lo ha capito. Basta che guardiate i giovani tedeschi di oggi e li confron­tiate con i giovani della guerra mondiale. Nel 1918 il popolo tedesco si è arreso senza necessi­tà. Oggi resiste e resisterà imperturbabile.
Com’è la situazione dal punto di vista milita­re? Chi segue i grandi conflitti della storia mon­diale trova spesso situazioni di carattere simile, forse situazioni molto più gravi. Perché non si deve dimenticare che stiamo ancora difendendo un territorio più grande di quanto fosse allora la Germania e disponiamo di una forza armata che anche oggi, presa in sé, è la più forte sulla terra. In questo sta la dimostrazione della forza del po­polo tedesco, ma anche dei soldati tedeschi che in fondo sono un’emanazione della forza popola­re.

domenica 22 novembre 2009

Repubblica 22.11.09
Il Papa: "La fede non toglie nulla al genio"
Inno alla bellezza davanti a quasi 300 artisti. Bellocchio: assente per coerenza
Monsignor Ravasi: ecco un momento per rilanciare l’amicizia tra l’arte e la Chiesa
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «Cari artisti, non abbiate paura di dialogare con i credenti, con chi, come voi, è alla ricerca della bellezza. La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre». Mano tesa e cuore aperto di papa Ratzinger al mondo dell´arte, ieri, nella michelangiolesca Cappella Sistina. Davanti a 266 artisti provenienti da tutto il mondo, Benedetto XVI è praticamente tornato a spalancare le porte della Chiesa a tutte le discipline artistiche con l´intento di ricucire quella sorta di "strappo" che negli ultimi anni era stato all´origine della lontananza tra arte contemporanea e gerarchie cattoliche. Duplice il motivo dell´incontro, celebrare il decennale della Lettera agli artisti scritta il 4 aprile 1999 da Giovanni Paolo II e il 45esimo anniversario del primo storico incontro tra un papa, Paolo VI, e il mondo dell´arte, del 7 maggio 1964. Due pontefici, Wojtyla e Montini, autori di altrettanti «significativi gesti» concepiti per «rilanciare l´amicizia tra l´arte e la Chiesa che tanti frutti aveva generato nei secoli passati», come spiega in apertura l´arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura.
Ad ascoltare Ratzinger alcuni tra i più bei nomi delle più disparate discipline artistiche dall´Italia e dall´estero. Ma con una defezione, anche polemica. Il regista Marco Bellocchio è rimasto al Torino Film Festival. «Per coerenza - spiega - Ci deve essere corrispondenza tra quello che si fa e ciò in cui si crede. Se credo che l´aborto non sia assassinio e che il crocifisso incomba nelle scuole ad applaudire il Papa non ci vado». All´ombra delle bibliche figure della Sistina c´erano invece artisti come Jannis Kounellis, Arnaldo Pomodoro, Bill Viola, grandi architetti (Mario Botta, Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Santiago Calatrava, Zaha Hadid), scrittori, tra i quali Affinati, Bevilacqua, Camon, La Capria, Tamaro. Ma anche una nutritissima pattuglia di cantanti e musicisti (tra gli altri Baglioni, Bocelli, Cocciante, Ranieri, Morricone, Venditti, Vecchioni, i Pooh) e di registi, tra cui Pupi Avati, Mario Monicelli, i fratelli Paolo ed Emilio Taviani, Giuseppe Tornatore e Nanni Moretti. Tra gli attori, Piera Degli Esposti, Raul Bova, Lino Banfi, Franco Nero e tanti altri. Sergio Castellitto è l´unico a prendere la parola prima del Papa per leggere stralci della Lettera agli artisti di Wojtyla, nella quale il pontefice polacco indicò nella ricerca della bellezza «il punto di incontro» tra arte e Chiesa. Un concetto rilanciato con forza da Benedetto XVI, ma con un´aggiunta teologica che, in un certo senso, spiazza qualche ospite presente, sostenendo che «la ricerca del bello e dell´arte porta anche alla riscoperta del Trascendente e, in ultima analisi, di Dio». Da qui il deciso invito a «tutti voi, cari artisti, a non avere paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza». «Cari artisti - ribadisce Ratzinger - voi siete custodi della bellezza, voi, grazie al vostro talento, avete la possibilità di parlare al cuore dell´umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, siate perciò grati dei doni ricevuti e fatevi comunicatori di bellezza attraverso la bellezza. La Chiesa è con voi». La mano tesa del Papa viene accolta da un lungo applauso finale e da espressioni di consenso da parte di quasi tutti i presenti. Qualcuno, come Susanna Tamaro si augura «che non sia solo una manifestazione di facciata». Altri si rallegrano per l´attenzione mostrata da Ratzinger all´arte «senza dimenticare la musica e la canzone popolare», ricorda Massimo Ranieri, al quale fa eco il collega architetto Claudio Baglioni, che parla di una «iniziativa importante e necessaria».

Corriere della Sera 22.11.09
Vaticano Nella Cappella Sistina, 45 anni dopo Paolo VI
Benedetto e gli artisti: la fede nutre il genio
Storico incontro. Bellocchio: io ho detto no
di G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — La bellezza salverà il mondo, dice­va Dostoevskij, ed è per questo che agli artisti, «custodi della bellezza nel mondo», Benedet­to XVI fa arrivare il suo invito «all’amicizia, al dialogo, alla col­laborazione » e ripete le parole che Paolo VI scandì loro duran­te il primo incontro di 45 anni fa, come ieri nella Cappella Sisti­na: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha biso­gno della vostra collaborazio­ne ». Per converso, il Papa chie­de agli artisti di «non aver pau­ra » di confrontarsi con «la sor­gente prima della bellezza», Dio: «La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre».
Pittori e scultori, architetti, scrittori e poeti, cantanti e mu­sicisti, registi e attori di cinema e teatro, e ancora danza e foto­grafia. Più di 260 artisti da tutto il mondo, soprattutto italiani ed europei, hanno risposto ieri all’invito del Papa. Ma questa settimana, in Vaticano, i telefo­ni hanno squillato «giorno e notte» perché «tanti chiedeva­no di partecipare, specie nomi inattesi», spiega l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, artefice del­l’incontro. Alcuni, come Dario Fo, non hanno ricevuto inviti, anche se il Nobel non se la pren­de: «Mi sarei sorpreso del con­trario, io sono quello da caccia­re, così c’è stata armonia. Se sa­rei andato? Dipende dalle condi­zioni... ». Il regista Marco Belloc­chio, invece, era stato invitato: «Avevo detto sì, ma poi per coe­renza non sono andato».
Eppure, in un momento se­gnato «da fenomeni negativi a livello sociale ed economico» ma soprattutto dall’«affievolir­si della speranza» nel mondo, da «rassegnazione, aggressivi­tà, disperazione» crescenti, il Papa assegna agli artisti un ruo­lo decisivo per restituire «entu­siasmo e fiducia». Dietro di lui, il Giudizio Universale di Miche­langelo («apoteosi del rapporto tra arte e religione», alza lo sguardo incantato il regista Pe­ter Greenaway) mostra insie­me «la tensione verso la felici­tà » e il «pericolo della caduta», un «grido profetico contro il male e l’ingiustizia». La bellez­za dà una «scossa», può far sof­frire ma tende al trascendente. Il Papa cita Hermann Hesse: «Arte significa: dentro ogni co­sa mostrare Dio».
E gli artisti ascoltano attenti, applaudono a lungo, anche se nella Sistina si sente pochino: «Discorso sottile, ma ne avrò sentito la metà: ora vedo a leg­gerlo », spiega lo scultore Arnal­do Pomodoro. Massimo Ranie­ri si augura «un nuovo mecena­tismo ». Paolo e Vittorio Taviani commentano: «Speriamo che le parole del Papa siano apprezza­te da chi sta al potere nel mon­do, e soprattutto in Italia». Giu­seppe Tornatore annuisce: «Il discorso è una carezza alla cul­tura in un periodo che riceve so­lo schiaffi». Giacomo è arrivato senza Aldo e Giovanni («non li hanno invitati, scriva che è col­pa mia») ma preparato: «Cono­sco bene le riflessioni di Wojty­la ». Lo scrittore iraniano Kader Abdolah ha una sciarpa verde «per dare voce al mio popolo che chiede libertà», il regista israeliano Samuel Maoz consi­dera: «Mi pare che il Papa abbia detto un grande no all’odio e al­la guerra e un grande sì all’amo­re e all’arte». Non c’è stato tem­po per parlare, cosa avrebbero chiesto al Papa? Il poeta Davide Rondoni ride: «Gli avrei detto: non mollarci!».

Corriere della Sera 22.11.09
Fuori programma
Monsignor Ravasi dice sì al film di Moretti sul pontefice che va in analisi
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — Sarà la suggestione, il fatto di sapere che sta preparando un film sulla storia d’un Papa de­presso che si rivolge a uno psicanalista — titolo di lavorazio­ne: Habemus Papam — ma quando Nanni Moretti entra nel­la Sistina, si siede in una fila di mezzo e fissa sugli affreschi e sul pontefice lo sguardo serio, intento e un po’ nevrotico del suo vecchio alter ego Michele Apicella, dà quasi l’impres­sione d’essere arrivato lì per un sopralluogo. Che abbia pre­so molto sul serio il suo compito, con buon pace di chi già s’aspetta una commedia «irriverente» o una banale provoca­zione, lo dimostra del resto il giudizio benevolo e la rivela­zione di monsignor Gianfranco Ravasi: «Negli ultimi tempi ci siamo sentiti e visti, Nanni Moretti mi ha fatto leggere la sceneggiatura: un’idea interessante, che non si sofferma sul tema del 'potere' ma cerca una visione psicologica...».
Quando gli artisti, alla fine, sfilano davanti a Ravasi per ricevere la medaglia commemorativa, è il regista romano, sorridente, a parlare più a lungo con l’arcivescovo. Poi s’al­lontana, alza la mano davanti ai giornalisti come a dire «non parlo» e sparisce dalla circolazione. Certo è interessan­te che lui, così riservato sul suo lavoro, desiderasse far cono­scere il contenuto del prossimo film al «ministro» vaticano per la cultura. Ma non c’era chi già s’aspettava uno «scanda­lo » o qualcosa del genere? «Qualcuno magari lo vedrà come una provocazione, vedremo come sarà il film, ma dalla sce­neggiatura non mi pare il caso», sorride monsignor Ravasi. «Il testo vuole analizzare la figura di un Papa come persona. È la storia di un uomo che si sente incapace d’es­sere all’altezza della mis­sione che gli è stata data.
E non c’è polemica, mala­nimo verso il presunto 'potere', la sua crisi na­sce anzi dallo splendore, dalla grandezza del com­pito che gli hanno affida­to. Tant’è vero che alla fi­ne il Papa chiede di prega­re per lui».
Viene in mente La messa è finita , le parole di don Giulio davanti alla madre che s’è uccisa: «Ero felice quando uscivo con te, mi sentivo al sicuro da piccolo perché sapevo che c’eri tu. È bello essere bambini, non avere responsabilità, nessuno che ti chiede niente». Soprattutto viene in mente il proposito di «rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mon­do dell’arte» appena detto da Benedetto XVI. «Adesso si trat­ta di continuare, la prossima meta sarà la Biennale di Vene­zia 2011: la Santa Sede, per la prima volta, sarà presente con un proprio padiglione», conferma monsignor Ravasi. E spie­ga: «Vorrei rivolgermi a sette-otto artisti di altissimo livello e di tutto il mondo, a cominciare dall’Africa. E dare loro co­me spunto i primi undici capitoli della Genesi, non tanto per rappresentarli ma perché lì si trovano già tutti i temi fondamentali: la creazione, il male, la coppia, l’amore, la vio­lenza familiare e sociale, le decreazione e la rovina — quin­di l’ecologia, il diluvio! —, l’oppressione imperialistica di Babele e così via. Così avranno un testo di riferimento, non dei simboli che possono diventare una cosa new age...».
L’importante è proseguire il dialogo e allargare gli oriz­zonti. «Avevano chiesto di partecipare anche i rappresentan­ti della moda», allarga le braccia l’arcivescovo. «Si potrà fare un passo verso di loro, magari facendo in modo di strappa­re l’orizzonte della moda dalla pura provocazione, l’autorefe­renzialità, l’esercizio stilistico fine a se stesso, verso una ve­ra rappresentazione artistica: anche i vestiti lo possono esse­re, pensi all’arte liturgica...».

Repubblica 22.11.09
L’incontro con Zaha Hadid, Archistar

Oggi è fondamentale saper leggere la città nella sua nuova, complessa identità e intervenire con un´invenzione che tenga conto di stratificazioni storiche e culturali
È tra le poche donne entrate nel gotha dell´architettura. Nata a Bagdad, si divide tra Londra, dove vive, e il resto del mondo, che continua ad accogliere con favore i suoi progetti L´ultimo realizzato è il MAXXI di Roma, paragonato dal "New York Times" a un´opera di Bernini. Ma per lei corrisponde solo a quelle che sono le sue idee. "Lo spazio - dice - deve essere un luogo in cui le persone si sentano bene. Questo è il vero lusso"

ROMA. È l´architetto donna più famoso al mondo, vincitrice del Pritzker Prize nel 2004, l´equivalente del Nobel per l´architettura, ma lei non ne fa una questione personale. «Il merito non è mio, è dello studio. Davvero. La formula vincente è il team. E il lavoro duro». Elegante e rigorosa nella camicia di Yamamoto blu scuro dal taglio asimmetrico come la sua architettura, occhi castani e determinati, resi ancor più decisi dall´eyeliner, Zaha Hadid, è a Roma per l´apertura del suo progetto più ambizioso, il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. Il New York Times l´ha già paragonato per la sua portata innovativa all´architettura del Bernini.
E, in effetti, il MAXXI è un potente simbolo del contemporaneo, che lancia piani inclinati e apre gigantesche vetrate sulla città, creando un magico cortocircuito fra architettura e paesaggio. In questo Zaha Hadid è maestra. Lei, che ha il talento di scandire gli edifici in linee fluide e campi magnetici, e di collegarli idealmente all´urbanistica e alla natura, dalle stratificazioni storiche alla morfologia geologica.
In questo brillante pomeriggio d´autunno è seduta a un tavolo di fortuna installato al piano terreno fra ponti aerei, pareti curve e soffitti altissimi. Intorno tutto si muove, centinaia di persone lavorano all´inaugurazione, mentre lei che è a Roma con il suo socio Patrick Schumacher, diversi progettisti dello studio, i fotografi, l´intero staff di comunicazione, e la pierre londinese Erika Bolton, osserva immobile, come una sfinge, che tutto proceda per il verso giusto e intanto si racconta.
«Sono venuta per la prima volta nel 1998, qui c´erano ancora le caserme, ho visto il posto, e l´ho rivisto. Nei i primi tre anni ho continuato a venire almeno una volta al mese. E anche quando ero altrove pensavo al progetto, l´avevo sempre in mente. Succede così quando cerco un´idea. Faccio disegni su disegni, a mano. Contemporaneamente anche lo studio sviluppa il pensiero con altri disegni, dipinti, modelli, fino a che, a un certo punto, il concetto si staglia nitido. Da quel momento parte un lavoro intensissimo al computer per renderlo perfetto, dall´architettura, ai dettagli più piccoli».
Nata a Bagdad nel 1950, laureata a Beirut in matematica, e poi a Londra all´Architectural Association School (Aa), la scuola dell´avanguardia dove studia con Rem Koolhaas, Zaha Hadid parla di cultura mediorientale. «Ho lasciato Bagdad a sedici anni, è una città che amo. Sono le mie radici, la mia cultura d´origine. È trent´anni che non ci torno. Non ho più famiglia lì. Ma prima o poi ci andrò, è fra i miei desideri. Ho il ricordo di uno stile di vita e di una cultura eccellenti». Ma Hadid non è il tipo da perdersi in nostalgie, e passa subito al periodo londinese.
«Nel 1972 arrivo a Londra da Beirut. Avevo già molti amici perché da alcuni anni vi passavo le estati. Londra negli anni Settanta era il fulcro della sperimentazione e del pensiero, lì succedeva tutto. Era il posto giusto per me. Anche se, devo dire, allora non c´erano molti stranieri, soprattutto se varcavi il confine della metropoli. Se eri straniera, eri considerata con un pizzico d´esotismo, ma al tempo stesso con un´esperienza diversa da spendere».
E quest´esperienza Hadid la spende subito nella stessa Aa. «Mi sono laureata un giorno e il giorno dopo ho iniziato a insegnare. È un mestiere che mi piace perché posso sperimentare e condividere. Tu sei quello che pone i problemi da risolvere. Ed è curioso vedere come risponde una classe di venticinque persone. Hai venticinque risposte». È lo stesso periodo in cui, dopo un breve passaggio all´Oma, Office for Metropolitan Architecture, di Rem Koolhaas e Elia Zenghelis, fonda il suo studio: è il 1979.
Oggi nello studio Zaha Hadid Architects, un´ex scuola del Diciannovesimo secolo a Clerkenwell, in centro a Londra, lavorano duecentocinquanta architetti di ogni nazionalità. Lei vive a dieci minuti a piedi. E, nei rari momenti in cui non lavora, nuota. «L´acqua è il mio elemento, mi rilassa». Il suo studio è un laboratorio sperimentale dove lei, che ha messo in crisi il concetto di spazio come entità assoluta, scardinato la prospettiva unica in favore della molteplicità dei punti di vista, cerca la soluzione per un´architettura contemporanea in cui vivere bene.
«Lo spazio architettonico deve essere un luogo in cui le persone si sentano bene, come quando si trovano in un paesaggio naturale. È questo il vero lusso, indipendentemente dal costo: uno spazio che trasmetta emozioni, che sviluppi visioni». E la sua è un´architettura di visioni, a iniziare dai primi progetti come la piccola stazione dei pompieri nella sede della fabbrica Vitra a Weil am Rhein in Germania, al confine con la Svizzera. «Nella Fire Station, ho avuto la possibilità di sperimentare liberamente, e di realizzare visioni che avevo disegnato sulla carta. Qui ho tradotto in tre dimensioni la compresenza di piani e linee che si intersecano. Ho ritagliato aperture asimmetriche che fanno entrare nell´architettura squarci e visioni del paesaggio con un taglio, a volte, addirittura inaudito».
Zaha Hadid parla rapidamente in inglese, focalizza un tema, e poi parte in una serie di declinazioni seguendo un pensiero netto ma che si dirama in varie direzioni, a volte si ferma un attimo a riflettere, osserva un dettaglio dell´architettura del MAXXI, che qui dal piano terra si apre su una piazza che fa parte dell´edificio, e riprende il discorso.
«Per la Fire Station avevo fatto veramente molti disegni, e persino dipinti. No, non mi considero una pittrice, ma a un certo punto, negli anni Ottanta e Novanta, non c´era disegno tecnico, o un altro mezzo che mi desse la stessa possibilità della pittura di realizzare le visioni che avevo in mente». L´architetto ama l´arte. Il punto di non ritorno per la sua architettura è il Suprematismo, e in particolare Malevic, che ama moltissimo. È a lui che deve l´intuizione di liberarsi dalla forza di gravità. In senso metaforico ovviamente. «Il Suprematismo è l´inizio della sperimentazione fuori dalle linee tracciate. È la possibilità di un dipinto nero su nero, della frammentazione, della levità, di suggestioni visionarie mai immaginate prima. E che prima di me hanno influenzato l´architettura modernista da Mies van der Rohe in poi».
Hadid tocca così tanti argomenti che è affascinante seguirla, cita un termine, un nome, e si aprono una serie di link, riferimenti, storie e geografie. Quando parla di Suprematismo non si può non pensare al suo memorabile allestimento al MoMA di New York per la mostra The Great Utopia sull´Avanguardia russa. «L´affollamento e la densità del nostro allestimento fecero scalpore. Potevi guardare la mostra da diversi punti di vista, scegliere un sentiero personale, andare avanti e tornare indietro, non mi è mai venuto in mente di indicare un percorso. D´altra parte le opere dei suprematisti non erano state pensate per essere isolate in un cubo bianco ma per stare all´interno di un "cosmo"».
Il concetto di museo di Zaha Hadid è l´opposto del white cube minimalista. Persino quando sceglie una mostra predilige installazioni e luoghi particolari, come una delle ultime che ha visitato di recente, quella con i dipinti blu di Damien Hirst nella ex dimora ottocentesca di Sir Wallace a Bloomsbury. «Trovo interessante la scelta di Hirst di questo posto, e anche di imparare a dipingere». Pare sia la mostra più criticata della stagione internazionale ma, si sa, Hadid non segue strade battute e, in genere, vede lontano. Di musei ne ha visti a tutte le latitudini terrestri, fra i suoi favoriti il Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York per il suo dinamismo.
I preparativi al MAXXI continuano, fotografi e operatori riprendono fino ai dettagli questi spazi inondati di luce, Sasha Waltz e la sua compagnia studiano la coreografia che interpreteranno nel MAXXI ancora vuoto. Qualcuno dello staff si avvicina a Zaha Hadid. «It´s over?», domanda lei. La lista di appuntamenti è fitta, sono solo le tre del pomeriggio, questa sera ci sarà un´altra apertura e dopodomani l´architetto riprenderà l´aereo. «Viaggio moltissimo, non ho un giorno uguale all´altro. Penso e non smetto mai di pensare. Anche quando dormo», dice, mentre osserva soddisfatta la sua opera finita.
«Cos´è fondamentale oggi nell´architettura? Saper leggere la città nella sua nuova, complessa, identità, e intervenire con un´idea globale, potente, con masterplan che sappiano affrontare sovrapposizioni e stratificazioni storiche e culturali». Ora sta lavorando al masterplan di un´ampia zona di Singapore: il progetto copre un´estensione di 194 ettari, ma il concetto di un´architettura per vivere bene Zaha Hadid lo declina in diversi ordini di grandezza, dall´urbanistica al design. La collezione Z-Scape progettata per Sawaya & Moroni, riprende in oggetti, tavoli, sedute, la stessa forma dinamica dei suoli che si sollevano, e si trasformano in superfici frammentate della sua architettura.

Corriere della Sera 22.11.09
Scienza Le nuove scoperte della fisica in un saggio del premio Nobel Frank Wilczek
Solida energia e materia impalpabile: a confronto con i paradossi dell’essere
di Edoardo Boncinelli

Dagli ambientalisti ai salutisti, dai co­struttori di auto agli psicologi, dai pubblicitari ai teologi, oggi tutti par­lano di energia, uno dei termini più usati e con maggior disinvoltura dei nostri gior­ni. La parola però un significato autentico ce l’ha, e questo appartiene alle scienze: alla fisica, alla chimica, alla biochimica. E ogni tanto è bene an­che usare le parole con il loro proprio significato, anche se può essere necessario andare a mettere il naso per esempio nella fisica di oggi. E ne ha fatta di strada la fisica dei fondamenti in questi ultimi anni! Anche troppa, in un crescendo entu­siasmante che riempie di riverenza e che ci incu­te anche un po’ di timore. La caccia ai componen­ti ultimi della materia e lo studio delle loro pro­prietà ha cambiato completamente il volto della fisica e ha portato alla ribalta problemi ai quali prima non si pensava neppure. Come quello del­l’origine della massa, della massa cioè delle parti­celle che noi conosciamo meglio, e delle quali sia­mo fatti, come i protoni e i neutroni.
Ebbene, queste particelle che sono alla base della consistenza di tutto ciò che ci circonda, dal­le stelle alle cascate, dai meteoriti ai dinosauri, sono costituite di subparticelle, i famosi quark, che di massa non ne posseggono affatto! Come si spiega questo paradosso, questo enigma cen­trale nascosto nelle pieghe della materia? Per ad­dentrarsi in selve del genere occorre una guida sicura, un fisico dotato di grande visione e di ec­cezionale capacità comunicativa. E non ci potreb­be essere guida migliore del premio Nobel Frank Wilczek, autore di un bellissimo La leggerezza dell’essere (Einaudi). Il titolo riecheggia chiara­mente quello del romanzo di Milan Kundera L’in­sostenibile leggerezza dell’essere e traduce un in­traducibile originale The Lightness of Being , che gioca sul doppio significato dell’inglese light, che vuol dire allo stesso tempo leggero e luce. La leggerezza della materia quindi, ma anche la na­tura fondamentalmente luminosa, cioè energeti­ca, della stessa.
Da cento anni sappiamo che l’energia può es­sere convertita nella massa e viceversa, ma forse non avremmo mai immaginato che la materia— la sedia su cui sediamo, il pavimento che ci so­stiene, la gamba del tavolo che abbiamo appena urtato — non è nella sua essenza che energia «rappresa», anche se a livello puramente specula­tivo affermazioni del genere sono state fatte più volte. Tanto le parole non costano niente… Un secolo fa la scoperta della interconvertibili­tà dell’energia e della materia ha cambiato la sto­ria della fisica e non solo. Oggi questa conoscen­za offre le basi per la comprensione della natura di tutte le particelle, o quasi, che compongono il nostro mondo quotidiano. L’origine della massa, la sua ingannevole consistenza e la sua lightness sono proprio, accanto a tante altre cose interes­santi, il tema centrale di questo simpaticissimo e godibilissimo libro di Wilczek che Einaudi ha pensato bene di tradurre a tambur battente.

FRANK WILCZEK La leggerezza dell’essere EINAUDI PP. 280, € 28

Corriere della Sera 22.11.09
Memoria Giovanni De Luna ripercorre l’esperienza dell’estrema sinistra dal 1969 al 1979
La generazione destinata alla sconfitta dei rivoluzionari intrappolati nel passato
di Antonio Carioti

Non furono soltanto di piombo, gli anni Settanta. E il Sessantotto non fu semplicemente l’anticamera del terrorismo. Difficile dare torto a Giovanni De Luna, quando contesta l’immagi­ne rozza su cui spesso viene appiattito il perio­do 1969-79, cui è dedicato il suo saggio Le ra­gioni di un decennio (Feltrinelli). Si tratta inve­ce di una matassa assai arruffata, della quale non è agevole afferrare il bandolo.
Centrale è nel libro l’esperienza dell’estre­ma sinistra e in particolare di Lotta Continua, gruppo di cui lo stesso autore è stato militante a Torino. Non a caso il testo parte dal ricordo dei giovani del movimento che persero la vita negli scontri di piazza. Omicidi spesso finiti nell’oblio, per i quali la giustizia è quasi del tut­to mancata. E l’impunità dei colpevoli è anche il filo conduttore del capitolo sulle stragi e sul­le gravi responsabilità di settori dello Stato.
Tuttavia De Luna non cerca alibi per gli erro­ri della sua generazione: soprattutto evidenzia la sfasatura tra un’ondata innovatrice che inve­stì linguaggi, mentalità e gerarchie, fino a mu­tare radicalmente molti aspetti del costume, e il rinchiudersi dei suoi protagonisti nella gab­bia di antiquate ideologie rivoluzionarie. In questo modo i contestatori «si consegnarono interamente al passato, restandone schiaccia­ti ». Anche per quanto riguarda il delitto Cala­bresi, De Luna contesta gli esiti del processo, ma ammette che in quella fase Lotta Continua «sembrò inclinare pericolosamente verso una concezione offensiva della violenza».
Con i partiti della sinistra storica l’autore è ancor più severo. Forse troppo, se si considera il contesto internazionale. Per esempio la poli­tica di Enrico Berlinguer, con tutti i suoi gravi limiti, non si comprende senza tener conto che l’avvicinamento del Pci al governo urtava gli equilibri di Yalta. Allo stesso modo non si può liquidare l’opera di Bettino Craxi senza in­serirla nell’evoluzione del socialismo europeo, che ha seguito in larga misura indirizzi analo­ghi, con la differenza che il Psi non era egemo­ne a sinistra e doveva farsi largo di prepotenza tra i giganti democristiano e comunista.
Più in generale, sui mutamenti vissuti dal­­l’Italia dagli anni Ottanta in poi De Luna si esprime in termini assai negativi. Li legge co­me la riapparizione della «ferina voracità» già esplosa al tempo del boom economico, ulte­riormente abbrutita dal dilagare di un gretto egoismo con marcati tratti xenofobi. C’è molto di vero in questo sgradevole ritratto. Ma il Pae­se non sarebbe rimasto a galla, se il diffuso de­siderio di arricchirsi avesse prodotto solo un concentrato di sconcezze e non anche esempi notevoli di laboriosità, intraprendenza, gusto del rischio. Dipingere l’individualismo dei ceti emergenti come pura rapacità, in fondo, non è molto diverso dal rappresentare il Sessantotto quale mero incubatore di violenza.

GIOVANNI DE LUNA Le ragioni di un decennio FELTRINELLI PP. 256, € 17

Liberazione 22.11.09
Storici, giuristi, filosofi, sociologi contro il nuovo razzismo di massa

«E' ora quindi che parliate tutti voi che amate la libertà tutti voi che amate il diritto alla felicità tutti voi che amate dormire immersi nel vostro privato sogno, è ora che parliate o maggioranza muta! Prima che arrivino per voi». Primo Levi 

Siamo persone - storici, giuristi, antropologi, sociologi, filosofi, operatori culturali - che da tempo si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni - le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri pogrom - e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.
La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell'Europa, essa è stata, tra Otto e Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall'incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità, nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la gravità di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell'immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell'informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio le fondamenta stesse della convivenza civile, come già accadde nel secolo scorso - e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità che quell'atroce passato tornasse.

Primi firmatari: Marco Aime, Rita Bernardini, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello, Angelo D'Orsi, Giuseppe, Faso, Mercedes Frias, Gianluca Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario, Patrizio Gonnella, Gianfranco Laccone, Maria Immacolata Macioti, Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Giuseppe Mosconi, Grazia Naletto, Michele Nani, Paolo Nori, Salvatore Palidda, Marco Perduca, Walter Peruzzi, Pier Paolo Poggio, Carlo Postiglione, Enrico Pugliese, Annamaria Rivera, Rossella Ropa, Emilio Santoro, Luciano Scagliotti, Katia Scannavini, Renate Siebert, Gianfranco Spadaccia, Elena Spinelli, Carlo Tagliacozzo, Diacono Todeschini, Nicola Tranfaglia, Fulvio Vassallo Paleologo, Barbara Valmorin, Danilo Zolo

sabato 21 novembre 2009

l’Unità 20.5.09
Razzismo. La politica che ammala i giovani
di Flore Murard-Yovanovitch

Sporco Negro, lo insultarono. Mohamed P. era bengalese. Domenica 1 Novembre, nel parco l’Arcobaleno di Acilia, il cui nome avrebbe dovuto suggerire la tolleranza multicolore, fu pestato fino a causargli un trauma cranico. Ma la notizia è finita nelle «brevi»: cronaca di violenza «non ordinaria», ma anonima. Braccato, come Navtej Singh Sindu, l’indiano arso vivo a Nettuno nel febbraio scorso da un gruppo di ragazzi che non superavano i 20 anni. Radi peli sul mento, ma già l’odio del diverso nel cuore. E poi, tanta vigliaccheria per pestare in venti, come animali, quattro indifesi. Accanendosi su uno di loro fino a lasciarlo quasi morto. Al grido di «’sti negri li dovemo fa’ spari’!».
Siccome i bambini non nascono «razzisti», ma sani, chi può avergli inculcato la paura e l’annullamento del diverso da sé? Resi così disinformati da non sapere che l’immigrazione è una realtà del loro Paese? Chi li ha resi così anaffettivi e violenti, da prendere a bersaglio un uomo che si riposa su una panchina dopo il duro lavoro «regolare» di pulire il culo ai nostri vecchietti? Chi sta modificando questi giovani di oggi nei mostri di domani?
Le menti (e le parole) malate della politica. Come la ministra Carfagna che strumentalizza l’omicidio della giovane Sanaa per puntare il dito contro le «sacche di immigrazione che non avrebbero ancora accettato i nostri valori» (leggere: cristiani contro musulmani, allorché si trattava di un assassinio e basta e semmai di malattia mentale che, come sottolineava Paolo Izzo su Agenzia Radicale, è «multietnica»). O come Fini, che pure in una lodevole battaglia per la cittadinanza, tra le righe di un discorso al Dossier Immigrazione di Caritas-Migrantes, accennava che tra «assimilazione» alla francese e modello multietnico all’inglese, una terza via di integrazione era da inventare intorno ai famosi «valori italiani»: cittadinanza solo dopo un ciclo di studi nella brava scuola italiana... Post-riforma Gelmini: ora di religione, crocifisso nelle aule, carenza di educazione civica alla multietnicità... Come funziona ce lo dice una ricerca di Cnr e dell’Irpps, che ha preso come campione 3.200 studenti di scuole medie e superiori, ponendo loro domande su famiglia, immigrati e rapporti tra i sessi. Da essa, i ragazzi risultano «sessisti, violenti e disinformati», col permanere di stereotipi sulle identità di genere e la sessualità, fino alla legittimazione della «forzatura» delle donne al rapporto; o ancora l’incapacità, pressoché totale, di valutare il fenomeno migratorio.
A confermare che l’attacco al diverso ha una risonanza nell’atavico odio per la donna. E a suggerire che forse la lotta al razzismo potrebbe ricominciare dal lavorare verso un rapporto uomo-donna veramente equilibrato.

Repubblica 21.11.09
Annuncio a sorpresa: "L´Udc non mi vuole? Mi batta alle primarie". L´Idv: noi non lo sosterremo. E Fitto: buone chance per un accordo con Casini
Puglia, Vendola si ricandida e spiazza i democratici
di Lello Parise

Scendo in campo per conto del Pdl, popolo della legalità, e per il Pdp, popolo della precarietà
Togliere uno come me potrà facilitare la costruzione di centrali nucleari

BARI - Nichi Vendola, governatore della Puglia nonché leader di Sinistra e libertà, anticipa tutti - compreso il centrosinistra - e annuncia che scenderà in pista nel 2010 per riconquistare la presidenza della Regione. Lo strappo del "rivoluzionario gentile" mette nei guai il Pd, che si limita a «prendere atto» di quello che è un vero e proprio colpo di teatro.
I democratici che, a partire da Massimo D´Alema, avevano immaginato di costruire in vista delle regionali un´alleanza per il Sud allargata a Udc e Idv, confessano di essere «agitati» e «confusi»: «Che cosa faremo non lo sa nessuno, neanche a Roma». Sembra che il segretario del Pd Pierluigi Bersani voglia convocare i dirigenti pugliesi martedì per decidere il da farsi. Seguire Vendola significa rinunciare una volta per tutte a siglare un´intesa con i centristi di Pierferdinando Casini, al quale non piace la nomination del governatore uscente. Vendola non piace neanche all´Italia dei valori. I "dipietristi", sempre ieri, hanno fatto sapere di volere correre da soli con in testa il coordinatore regionale: il deputato Pierfelice Zazzera. Mentre il ministro Fitto assicura che «con l´Udc ci possono essere buon chances per un accordo».
Vendola, intanto, spiega: «Potevo fare come Mercede Bresso, che pure è del Pd, e che dal primo giorno ha detto "io sono candidata" e "l´Udc è un partito infiltrato". Io non ho fatto così, io ho cominciato un anno fa il dibattito in Italia sulla necessità di un compromesso nuovo con il centro a fronte dei pericoli rappresentati da questa destra». E a Casini. «Non gli piace il mio viso? Allora accetti le primarie per scegliere il concorrente del centrosinistra. Lo stesso discorso vale per l´Idv. L´unico modo è quello di battermi alle primarie. Come nel 2005, quando non sono stato portato dalla cicogna delle segreterie dei partiti». Ne ha per tutti. «La verità è che siamo stati la spina nel fianco della politica nazionale. Abbiamo combattuto, per esempio, contro il ministro Zaia, un padano svagato e incosciente, che non capisce i disagi del mondo agricolo». Con Fitto è sferzante: «Esprime solidarietà al centrosinistra che vive il presidente Vendola come un ingombro? Io sono alternativo a lui e a quello che rappresenta: una stratificazione di interessi. E´ il motivo per cui le sue dichiarazioni sono per me un viatico a tornare in campo. Sono un raggio di pulizia, io. E da oggi sono tutti obbligati a giocare a carte scoperte».

Repubblica 21.11.09
Sì alla federazione con il Pdci
Rifondazione e il nuovo rivale "Di Pietro ci porta via la sinistra"

ROMA - «Attenzione, Antonio Di Pietro ci porta via la sinistra». Claudio Grassi, numero due di Rifondazione comunista, lancia l´allarme ai futuri alleati della Federazione con Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro e solidarietà sul ruolo dell´Italia dei Valori. Vedere Di Pietro pochi giorni fa con il megafono in mano a guidare la protesta dei lavoratori dell´Eutelia ha dato evidenza al profilo "operaista" del leader dell´Idv. «Un suo spostamento a sinistra è positivo - dice Grassi - ma il rischio è che nasca un partito populista che copre tutto quello che sta a sinistra».

Repubblica 19.11.09
José Saramago: al rimo posto la bontà, la virtù più disprezzata
di franco Marcoaldi

MADRID José Saramago, premio Nobel per la letteratura, mi accoglie nel piccolo appartamento situato nel centro di Madrid, dove risiede ogni volta che viene in Spagna. In questo frangente, per accompagnare l' uscita del nuovo romanzo Caino, che in Portogallo ha già suscitato «le reazioni furibonde delle gerarchie ecclesiastiche. Quando va bene, mi accusano di adottare una interpretazione letterale e non simbolica dell' Antico Testamento. E' una musica che ho già sentito altre volte». E così quest' uomo segaligno e gentile, dalle convinzioni radicali, anche se espresse sempre con un tono di voce pacato, si trova ancora una volta al centro di accese polemiche. Come era già accaduto con l' uscita de Il Quaderno (prefazione di Umberto Eco, Bollati Boringhieri), raccolta degli interventi pubblicati sul blog nel periodo settembre 2008- marzo 2009; un libro che ha determinato la rottura con Einaudi e che da svariate settimane, con sorpresa dello stesso autore, veleggia nelle prime posizioni delle classifiche dei best-seller nostrani. Consumato il caffè, mentre esce delicatamente di scena l' adorata moglie Pilar, lo scrittore portoghese, golf color salmone su camicia salmone, comincia a proporre le diverse parole del suo "lessico necessario". «Inizierei dalla più urgente e essenziale di tutte: "no"». Curioso, anche George Steiner ha deciso di cominciare con "no"; la parola più selvaggia del vocabolario, secondo Emily Dickinson. E un altro Nobel per la letteratura, Octavio Paz, parlò in suo saggio della necessità di riscoprire il valore profondo di questa parola. «Non sapevo di Paz e la cosa mi onora. Quanto a Steiner, spero di offrire delle motivazioni che arricchiscano il suo punto di vista. Quando penso alla parola "no", non la intendo nell' accezione più comune e immediata, ovvero come pura negazione. Al contrario, ne rivendico tutto il valore propositivo e costruttivo. Le faccio un esempio: ogni rivoluzione rappresenta un "no" che si impone o cerca di imporsi al "sì": allo status quo, agli interessi costituiti, al conformismo, al dominioo addirittura alla dittatura. Ora, so bene che nel corso degli accadimenti storici arriva poi, inevitabilmente, il momento in cui il "no" iniziale si converte di nuovo in un "sì". Sì all' ostentazione del potere, alla corruzione, alla confusione degli ideali iniziali che avevano determinato quella rivoluzione. Eppure, malgrado queste costanti e ripetute impasse, continuo a rivendicare tutto il valore dinamico e propulsivo della parola "no"». In effetti, la sua proposta in parte si sovrappone a quella di Steiner, in parte se ne allontana. Presumo che la seconda parola chiarirà ulteriormente gli sviluppi del suo itinerario. «Il secondo termine che propongo è "rispetto", con qualche necessario distinguo. Non vorrei cadere nel moralismo, riferendomia un generico rispetto universale. Io penso a persone e situazioni specifiche, che meritano rispetto. Mentre lo vedono via via infrangersi nello specchio rotto di una società che non sembra più riconoscere l' eminente dignità dell' essere umano. E' molto semplice: senza rispetto non esiste dignità, e senza dignità il rispetto va a farsi benedire». Ma perché non ci si dovrebbe riferire a un rispetto universale? Se io scelgo a chi devo rispetto e a chi no, allora altrettanto potrà fare il mio eventuale interlocutore. E a quel punto vienea cessare l' idea di un rispetto valido per tutti, indistintamente. «Ricorderà San Francesco d' Assisi, il quale portava rispetto per tutto l' universo. Compreso il lupo, definito un fratello. Ma il lupo gli rispose: d' accordo, se vuoi chiamami fratello. Ma non chiedere a me di chiamare sorella la pecora». E nella sua visione del mondo, il ruolo del lupo sarebbe rivestito, tra gli altri, proprio dalla Chiesa cattolica. O sbaglio? «No no, è proprio così. Per garantire il rispetto reciproco occorre una precondizione fondamentale. Se io le faccio uno sgarbo, le chiedo scusa. Ma non mi sembra che questo sia stato e sia il comportamento abituale della Chiesa. Nel centro di Roma, a Campo dei Fiori, c' è la statua di Giordano Bruno, che la Chiesa mise al rogo e al quale non ha mai chiesto scusa. Ora, non capisco perché dovrei portare rispetto verso una istituzione che nel corso dei secoli ha accumulato orrori su orrori, dei quali si è scusata in grave ritardoe solo in parte. Mi creda: il male può vivere nel seno stesso della Chiesa. Ha dormito a lungo nel baldacchino della camera dei papi. Non solo la Chiesa dovrebbe chiedere perdono alle tante vittime che ha causato nel corso della sua storia, ma dovrebbe chiedere perdono anche al proprio Dio per quello che ha fatto». Una condanna senza appello, la sua. D' altronde, perfettamente in linea con chi si definisce ateo e comunista. «Se è per questo, come ho ricordato nell' ultimo libro, fu un teologo come Hans Küng a scrivere, molti anni fa, che le religioni non sono mai riuscite ad avvicinare gli esseri umani gli uni agli altri. Ne discende che ciascuno è libero di seguire la religione che più gli piace. Ma anche che dovremmo abbandonare un' eccessiva deferenza nel trattare Dio come problema, come fattore di dissidio». Beh, a questo punto sono tanto più curioso di sapere qual è la terza parola. «"Bontà". Non però una bontà contemplativa, in fondo abbastanza egoista. E neppure una bontà caritatevole. Forse ricorderà quei versi di Antonio Machado che suonano: "Di ciò che gli uomini chiamano/ virtù, giustiziae bontà/ una metà è invidia e l' altra, non è carità". Per questo penso a quella che si potrebbe definire "bontà attiva", virtù tanto più difficile perché si manifesta in un periodo storico in cui è palesemente disprezzata, annichilita dal cinismo imperante». Di sicuro, non è una parola à la page. «In effetti non è facile oggi invitare la gente ad essere buona. Ma per quel che mi riguarda, la bontà viene addirittura prima dell' intelligenza, o meglio è la forma più alta dell' intelligenza. E' una bontà che si manifesta nella pratica quotidiana; che non è animata da nessun pensiero salvifico sull' intera umanità; che si accontenta di far "lavorare" il proprio minuscolo granello di sabbia. Nel tentativo di recuperare una relazione umana che sia effettivamente tale». Ho qui il suo Quaderno, dove lei scrive: «Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c' è bontà né giustizia». «Aggiungerei una piccola postilla. Sono sufficientemente vecchio e sufficientemente scettico per rendermi conto che la "bontà attiva", come io la chiamo, ha ben poche possibilità di trasformarsi in un orizzonte sociale condiviso. Può però diventare la molla individuale del singolo, il miglior contravveleno di cui può dotarsi quell' "animale malato" che è l' uomo».

venerdì 20 novembre 2009

l’Unità 19.11.09
Franceschini presenta il suo libro Scintille fra Scalfari e Bertinotti

Eugenio Scalfari ha votato Dario Franceschini alle primarie, mentre il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha votato scheda bianca. Lo ha raccontato lo stesso Scalfari durante la presentazione del libro di Dario Franceschini «In dieci parole», edito da Bompiani. «Io pur non essendo iscritto al Pd - ha riferito - ho partecipato alle primarie, e anche il direttore di Repubblica, pur non essendo iscritto, ha votato. Abbiamo parlato e ci siamo detti reciprocamente 'tu che ne dici?». Io gli ho detto: 'io sono solo il fondatore del giornale, tu sei il direttore di un giornale che vuole essere il rappresentante di una sinistra larga, vedi tu'; e lui ha votato scheda bianca. Io invece ho votato Franceschini. Ma la vocazione maggioritaria l'ho capita meno».

«Franceschini e Bersani - ha proseguito - sono due persone per bene, intelligenti ed esperte di politica, quindi non ho messo il lutto al braccio per la vittoria di Bersani. Anzi Bersani su questo mi convince di più». Il fondatore di Repubblica ha però messo in guardia Bersani, ricordandogli la teoria della persistenza degli aggregati, formulata da Gaetano Mosca: »chi guida una parrocchia non la vuole chiudere, e tanto è più piccola la parrocchia, tanto è più grande è la persistenza. I Verdi vogliono la parrocchietta? Facciamogliela fare. Ma dobbiamo cambiare la legge elettorale».

Alla presentazione era presente anche l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, che ha provocato un po' lo stesso Scalfari. «Nel libro c'è la mancanza di un discorso sulla sinistra. Una omissione che non mi convince. Franceschini, forse, omette perchè pensa che non sia più necessaria la sinistra. Per me, anche guardando lo stato del mondo e dell'Europa rende necessaria la presenza di una sinistra dell'eguaglianza», ha detto l'ex presidente della Camera. Apriti cielo: Scalfari, al momento del giro di interventi che lo riguarda, si è alzato in piedi. Ed ha attaccato: «Il problema della sinistra è solo un problema lessicale. Sono parole, bisogna vedere cosa ci sta sotto. Mi viene in mente Nanni Moretti che incalza D'Alema a dire qualcosa di sinistra chiedendosi però anche cosa sia qualcosa di sinistra».

Il fondatore di Repubblica, rivolto a Bertinotti, ha incalzato: «Voi avete sempre votato il governo Prodi, questo è vero. Ma lo avete anche segato. Avete sottoposto il governo a una doccia scozzese per settimane, andando alle manifestazioni e contestandolo. Avete dimostrato che la politica non la capite. Non sapete cos'è». 

Scalfari ha fatto anche nomi e cognomi: «Voi avete avuto uno come Ingrao, al quale io ho anche baciato le guance in lacrime ai funerali di Berlinguer, perchè è stato lui che mi ha consolato. Ingrao non ne ha azzeccata una, nessuna. Quando devo capire qualcosa se devo scrivere di politica leggo Ingrao, e poi scrivo il contrario». Il giornalista è andato anche a pescare nella memoria: «Nel '65, in Emilia, ho moderato il primo confronto tra Ingrao e La Malfa. Ne ha scritto anche 'le Mondè. Si discuteva di modello. Nel '65. E oggi, nel 2009, ancora si vuole discutere di modello». Il dibattito, poi, ha preso una piega diversa ed è scivolato più sul Pd e i suoi problemi. Ma, a tornare sui temi del duello Bertinotti-Scalfari, è stato Dario Franceschini.

Parlando del tema delle alleanze, il capogruppo del Pd alla Camera ha dato il colpo di grazia: «Sinistra è un termine glorioso in cui tanti ci siamo riconosciuti, ma anche questo è superato non nei valori, ma nell'identità. Tant'è che le stesse forze di sinistra quasi ovunque oggi si riconoscono nel termine progressisti. Bisogna andare oltre la sinistra, perchè non si può affrontare situazioni nuove con categorie di un secolo che è finito».
19 novembre 2009

giovedì 19 novembre 2009

l’Unità 19.11.09
Giochi di governo sulla pelle dei malati
di Maria Farina Coscioni

Si qualifica da sola l’affermazione del vice-ministro alla Salute Fazio che ha liquidato il mio sciopero della fame iniziato l’8 novembre scorso a fianco dei malati di Sclerosi laterale amiotrofica come un problema di perdita di qualche chilo, una dieta insomma. Dal ministro della Salute Sacconi, invece, un silenzio eloquente che significa indifferenza, fastidio. Il 6 novembre alcuni malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica, appunto), Salvatore Usala, Giorgio Pinna, Mauro Serra, Claudio Sabelli, hanno intrapreso uno sciopero della fame. Come già Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, hanno deciso di lottare in prima persona, con gli strumenti della nonviolenza. «Viviamo senza alcuna assistenza», hanno scritto in una lettera aperta. Stiamo parlando di pazienti e di famiglie in situazioni spesso disperate, senza aiuti economici adeguati o assistenza. È sconcertante che il ministro della Salute e il suo vice-ministro, che tanto tempo trovano per ergersi a difesa degli embrioni crioconservati in azoto liquido, non trovino il tempo perché si completi l’iter che riguarda i cosiddetti “Lea”, cioé i Livelli essenziali di assistenza, e con questi si aggiorni finalmente il Nomenclatore degli ausili e delle protesi, fermo al 1999.
Ricordo gli obiettivi dell’iniziativa: 1. rendere noto l’effettivo utilizzo dei finanziamenti stanziati nel 2007 e nel 2008 per i «comunicatori», cioé macchine di nuova generazione che consentono a soggetti con compromissione della voce di comunicare; 2. rendere operativa l’approvazione della nuova versione dell’assistenza protesica del nuovo Nomenclatore in modo che sia garantita la fornitura adeguata ad ogni persona con disabilità; 3. adottare le linee guida cui le Regioni si conformano nell’assicurare un’assistenza domiciliare adeguata per i soggetti malati di sclerosi laterale amiotrofica.
Giovedì scorso ho appreso che il ministero della Salute, rispondendo a una mia precisa interrogazione, ha detto il falso: ha infatti assicurato che la questione dei nuovi Lea era approdata in sede di Conferenza Stato-Regioni e attendeva che fossero espletati gli adempimenti che a quella Conferenza spettano. Non era vero. Il vice ministro Fazio in Consulta ha infatti dichiarato: «Siamo molto vicini, all’invio dei Lea alla Conferenza Stato-Regioni». Il contrario di quanto scritto nella risposta del 20 ottobre. Il ministero, insomma, ammette di non aver fatto nulla, e promette di investire la Conferenza Stato e Regioni venerdì 13 o martedì 17. Venerdì e martedì sono passati. Si continua a giocare con la pelle dei malati.
In questa nostra lotta si sono uniti circa 400 cittadini; li ringrazio, e tra questi anche i colleghi parlamentari Maurizio Turco e il direttore di Notizie Radicali Valter Vecellio. È il modo, dandoci forza, di darsi forza. ❖

l’Unità 19.11.09
Obama avverte Israele: con le colonie salta la pace
Dalla Cina il presidente americano critica le scelte di Netanyahu sugli insediamenti
L’ira palestinese dopo il sì a nuove costruzioni a Gerusalemme Est: è il nostro futuro Stato
di Umberto De Giovannangeli

Novecento nuove abitazioni a Gerusalemme. Israele difende il piano. Barack Obama non nasconde la profonda irritazione. Nuovi insediamenti inaspriscono i palestinesi «in un modo che può finire pericolosamente».

La rabbia di Obama esplode a Pechino. A irritare il presidente Usagiunto oggi in Corea del Sud, ultima tappa del suo tour asiaticonon il Gigante cinese, ma l’Alleato israeliano. Un alleato sempre più scomodo per la Casa Bianca. La decisione israeliana sugli insediamenti inasprisce i palestinesi «in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente», avverte Obama in una intervista alla Fox News. «La situazione in Medio Oriente è molto difficile e io ho detto ripetutamente e lo ribadisco che la sicurezza di Israele è un interesse nazionale vitale degli Stati Uniti'», dice l’inquilino della Casa Bianca aggiungendo però che «la costruzione di nuovi insediamenti non contribuisce alla sicurezza di Israele, mentre rende difficile la convivenza con i vicini. Penso che inasprisca i palestinesi in un modo che potrebbe andare a finire molto pericolosamente».
BIBI NON RECEDE
Un messaggio chiaro, quello che Obama indirizza al premier israeliano, Benjamin «Bibi» Netanyahu. Un messaggio che non sembra scalfire la determinazione del governo di Gerusalemme nel proseguire la sua politica di insediamenti. Alla voce del presidente Usa si aggiunge quella del segretario generale delle Nazioni Unite. In un comunicato diffuso dal suo ufficio di New York, Ban Ki-moon «deplora la decisione del governo di Israele di estendere la colonia di Gilo, costruita su un territorio palestinese occupato da Israele nella guerra del 1967». «'Il segretario generale – prosegue la nota ribadisce la sua posizione secondo la quale le colonie sono illegali e richiama Israele a rispettare i suoi impegni, nei termini della Road map, a cessare ogni attività di colonizzazione, compresa quella corrispondente alla crescita naturale». Ma le critiche della comunità internazionale non smuovono Netanyahu. Israele ha difeso la sua decisione di dare il via libera alla costruzione di 900 nuove quartiere ebraico di Gilo, a Gerusalemme Est. «Congelare le costruzioni a Gilo è come congelare le costruzioni in un qualsiasi quartiere di Gerusalemme e di Israele», dichiara il ministro dell'Interno israeliano, Elie Yishai, rispondendo ai critici. «Non si tratta di un nuovo insediamento e non capiamo le reazioni, in particolare quelle americane. Si tratta di un piano per costruire 900 nuove unità abitative all’interno del territorio d’Israele, perché Gerusalemme è parte del territorio d’Israele. Non c’è quindi nessun nuovo insediamento», gli fa eco Avni Panzer, portavoce del governo, già ambasciatore israeliano a Roma e Parigi. Anche Tzipi Livni, ex ministra degli Esteri e leader di Kadima, principale forza di opposizione alla Knesset, ha difeso le nuove costruzioni, sottolineando come ci sia un «consenso israeliano» su Gilo, che deve essere compreso «in tutti i colloqui sulle frontiere permanenti e nel quadro di un futuro accordo di pace». Netanyahu, rimarca una autorevole fonte governativa israeliana, «è disposto "a mostrare la più grande moderazione possibile per quanto riguarda le costruzioni nei Territori, ed è stato elogiato per questa sua disponibilità. Ma ciò riguarda la Cisgiordania. Gilo è a Gerusalemme, e questa è la capitale». E Gerusalemme, capitale «eterna e indivisibile» dello Stato ebraico, per Benjamin Netanayhu non è materia negoziabile.
RAMALLAH IN FERMENTO
Immediata la risposta palestinese. «Nessuno riconosce a Israele il diritto di Israele di estendere le costruzioni a Gerusalemme Est», afferma il capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Saeb Erekat alla radio militare israeliana. «Le terre su cui edificate quei quartieri aggiunge fanno parte del nostro futuro Stato. Questo deve cessare: Israele deve scegliere la pace o le colonie. E noi logicamente speriamo che opti per la prima soluzione». Ma Erekat non si fa illusioni: i dirigenti dell' Anp non si attendono nel prossimo futuro alcuno sviluppo diplomatico positivo. ❖

l’Unità 19.11.09
Insieme alla bellezza dell’umanità scienza e cultura costruiranno la pace
Science for Peace è un movimento nato per creare soluzioni scientifiche e concrete
La psichiatra araba spiega qui perché ha aderito al progetto promosso da Veronesi
di Rita El Khayat, psichiatra www.ritaelkhayat.org

Il ruolo delle donne. Donano e portano la vita e rifiuteranno sempre la violenza

Science for Peace è nato su iniziativa di Umberto Veronesi con l’obiettivo di cercare soluzioni concrete per il raggiungimento della pace. Insieme a molti scienziati ha aderito anche la psichiatra Rita El Khayat.
Ho aderito a Science for Peace perché, in quanto donna di scienza, credo che sia essenziale che oggi la scienza trasformi il mondo. E in quanto scienziata araba, rivendico la possibilità, anche per gli arabi, di esprimersi in ambito scientifico.
Ogni scienziato può contribuire a diffondere la pace. Io sono prima di tutto psichiatra e psicanalista e aiuto i giovani a essere più tranquilli: il mio lavoro consiste nel lottare contro la sofferenza, l’ansia, il disordine interiore. Dunque riporto, per quanto è possibile, la pace nelle persone che curo. Ma la pace è un lavoro per tutti, da svolgere in ogni momento e per tutta la vita, ed è un lavoro che oggi, fortunatamente, interessa a un numero sempre maggiore di persone.
SALUTE, EDUCAZIONE, DIGNITÀ
Il rapporto tra scienza e pace è semplice e complesso insieme. La scienza ci ha dato i mezzi per migliorare la salute e l’istruzione. Eppure, in un’umanità che ha tutto per vivere bene, avvengono ancora tanti massacri, perché i mezzi scientifici sono stati utilizzati anche per produrre armi devastanti. La scienza, se male utilizzata, può portare alle stragi, alla violenza. Eppure, nella sua concezione originaria, la scienza rappresenta un bene; anche grazie a Science for peace vogliamo fare del nostro meglio affinché questa idea originaria si diffonda ovunque e perché gli scienziati di tutto il mondo si uniscano per condividerla.
Credo che le donne avranno un ruolo importante in tutto questo. Le donne donano la vita, portano la vita; sono loro che riproducono la specie, per questo non possono amare la morte. Sono certa che la parte femminile dell’umanità rifiuterà sempre ogni forma di violenza. E questo è un motivo in più per cui occorrono più donne di scienza; per adesso sono ancora troppo poche in rapporto agli uomini. Quando ci saranno molte donne scienziate che si impegneranno per creare la pace attraverso la scienza, penso che davvero qualcosa migliorerà.
Un ruolo centrale per la costruzione della pace può essere svolto anche dai mezzi di informazione: la conoscenza scientifica dovrebbe avere maggior visibilità nei media di ogni tipo. La scienza è un determinante dell’evoluzione dei popoli di tutto il mondo: bisogna che la diffondiamo, e quando si arriverà a condivi-
derla avremo ottenuto la pace. Oggi la crisi delle ideologie e dei sistemi economici può rappresentare un’opportunità. È vero che il crollo del capitalismo ha distrutto la speranza di molte persone. E in queste condizioni di crisi economica, di ingiustizia tra i popoli, d’incapacità di nutrire tutti, di prendersi cura di tutti, in questa specie di zona d’ombra in cui si muove l’umanità al giorno d’oggi, nonostante il suo progresso scientifico, risulta evidente che i sistemi umani che abbiamo creato non sono affatto perfetti. Eppure la possibilità di ripresa sta nelle «persone non importanti», i Nip, come li chiamo io con un acronimo che ho creato nel 2008. L’umanità è formata per il 99,9% di Nip e io credo in loro, perché sono queste persone, sconosciute e anonime, che rappresentano la bellezza dell’umanità. Sono loro che si svegliano alle 4 del mattino per fare il pane, che stanno tutta la notte in ospedale a prendersi cura dei malati, che si occupano dei bambini, che tengono pulite le case, gli aeroporti, ecc. Il mio messaggio finale è una rivendicazione d’amore e di condivisione per i Nip. Bisogna, in questo periodo, che impariamo a condividere. Non avrà più valore avere delle Rolls Royce in garage o far indossare alle donne chili di diamanti. Bisogna portare la scienza a tutti gli esseri umani e garantire loro le condizioni per una vita in salute, per l’educazione e la dignità. Tre condizioni da rispettare per ottenere la pace.❖

Repubblica 19.11.09
Così la tristezza ci rende migliori
Queste emozioni negative ma benefiche non vanno confuse con la depressione
di Enrico Franceschini

Un po´ di malinconia aiuta a ricordare gli eventi con più precisione e affina le capacità di giudizio dell´uomo Per alcuni psicologi australiani l´umore affranto è un elemento determinante nella storia dell´evoluzione

Londra. "Tristezza, per favore vai via", recita la nota canzone. Ma se invece un po´ di malinconia fosse desiderabile, almeno di tanto in tanto, per l´animo umano? È quello che affermano nuove ricerche nel campo della psicologia, da cui risulta che la tristezza sarebbe stata un elemento determinante nell´evoluzione umana: ovvero che una dose di avvilimento fa bene ed è anzi necessaria per esaminare il mondo con realismo. A partire dagli studi pioneristici in materia condotti negli anni 70 dal professor Paul Elkman, gli psicologi hanno identificato sei fondamentali tipi di emozione umana: felicità, sorpresa, paura, rabbia, disgusto e tristezza. Due sono positivi, quattro negativi. «Ebbene, se queste emozioni negative sono sopravvissute al test del processo evolutivo, forse significa che hanno offerto all´uomo qualche vantaggio», afferma Joe Fargas, docente di psicologia alla University del New South Wales in Australia.
Una serie di esperimenti condotti da Fargas hanno rivelato che gli individui, quando sono in uno stato di tristezza, ricordano meglio gli eventi, hanno una maggiore capacità di persuasione e una migliore capacità di giudizio. Un umore negativo, per esempio, diminuisce il pregiudizio razziale: è meno probabile che una persona si affidi agli stereotipi nel reagire di fronte a un gruppo o a una minoranza etnica differenti dalla propria. Le sue conclusioni rappresentano un passo avanti in una materia a lungo esplorata dalla scienza. «A partire dal libro di Charles Darwin, "The expression of emotions in man and animals" (L´espressione delle emozioni nell´uomo e negli animali), molti studiosi sostengono che tutte le emozioni riflettono dei benefici nell´adattamento dell´uomo durante l´evoluzione della nostra specie», osserva Jennifer Lerner, direttrice del Laboratory for Decision Science dell´università di Harvard. Da tempo siamo consapevoli che le dita dei piedi ci aiutano a mantenere l´equilibrio e i capelli ci tengono calda la testa: per questo l´evoluzione, nel corso di milioni di anni, ce li ha dati. Ma quale vantaggio può averci dato la tristezza? Come è possibile che un sentimento che ci fa sentire così male abbia migliorato le possibilità dei nostri antenati di passare i loro geni a future generazioni, sopravvivere? «I benefici di certe emozioni sono abbastanza facili da comprendere», risponde Fargas al Financial Times. «Generalmente, la paura è il segnale di stare lontani da qualcosa, un campanello d´allarme che può salvarti la pelle quando ti trovi di fronte a un animale feroce. In modo simile, il disgusto ti trattiene dall´addentare, per quanta fame uno possa avere, una porzione di maleodorante di cibo andato a male».
E la tristezza? Immaginiamo che un uomo entri a contatto con un nuovo gruppo sociale ma non si senta accettato. Il fatto lo indispettisce, lo mette di cattivo umore, lo rattrista. «Ciò lo spinge a prestare più attenzione ai meccanismi del gruppo, a guardare da fuori, ascoltare, cercare di adattarsi alle nuove norme sociali per essere accettato. In pratica è lo stesso tipo di segnale inviato dalla paura o dal disgusto, ma probabilmente in modo più attutito». Beninteso, premettono Fargas e altri studiosi: la tristezza non va confusa con la depressione, malattia seria e grave, da cui stare alla larga. E va da sé che nessuno vuole essere triste. Ma dobbiamo chiederci, in una società come la nostra in cui tutti cercano la felicità piena ad ogni costo, se davvero vorremmo eliminare completamente dalla nostra esistenza un po´ di "normale tristezza", come la definisce lo psicologo australiano. La vecchia canzone ha ragione: tristezza, per favore vai via; ma prometti di tornare a trovarci, ogni tanto.

Repubblica 19.11.09
Anna Frank
Quell'ultimo bacio e poi l'orrore della tragedia finale
di Pietro Citati

Torna in una edizione ridotta il celebre "Diario" e la spensierata voce della ragazza olandese che annotava passioni e amori. Prima che fosse inghiottita nell´orrore di un lager
Ricevette in dono il quaderno per i suoi tredici anni. E lo tenne nascosto come un tesoro
Commentava vanitosamente le sue fotografie Le fossette sulle guance e sul mento
Non sapeva se era innamorata di Peter o se desiderava solo un´amicizia
Nell´agosto del ´44 la polizia nazista l´arrestò con la famiglia. Morì a Bergen-Belsen

Circa sessant´anni fa, quando apparvero I Diari di Anne Frank (Einaudi 1954, con una bella prefazione di Natalia Ginzburg), risvegliarono un´emozione profondissima: sembrò che il massacro degli ebrei trovasse per la prima volta una voce - la lieve, spiritosa, spensierata voce di una ragazza olandese. Ci furono edizioni successive, nelle quali fu ripristinato il complesso testo originale: la monumentale edizione critica a cura di David Barnouw, Harry Pape e Gerrold van der Stroom, tradotta in Italia nel 2002, sempre da Einaudi (euro 67). Ed ora Frediano Sessi ne cura una forma ridotta (traduzione di Laura Pignatti, con una intelligente introduzione di Eraldo Affinati, Einaudi, pagg. XXVIII-360, euro 12,50), che riporterà i Diari originali a contatto con un pubblico vastissimo. Di solito, una testimonianza biografica - diario, o lettere, o vita - patisce il peso degli anni: la polvere e l´alone della storia. Ma i Diari di Anne Frank hanno attraversato questi sessant´anni, senza che noi ce ne accorgessimo: conservano l´immediatezza, la naturalezza, la grazia del cuore, che ci colpì allora; come se proprio in questo momento una ragazza di 13 anni stia attraversando le strade di Amsterdam, colla stella gialla sul braccio, per raggiungere lietamente la scuola ebraica.
Anne Frank ricevette in dono il diario - ricoperto da una stoffa scozzese - il 12 giugno 1942, il giorno del suo tredicesimo compleanno. Gli diede un nome, Kitty; e lo teneva nascosto, come se contenesse il tesoro della sua vita, insieme alla grande penna stilografica d´oro, che le aveva regalato la nonna. Kitty era un´amica, alla quale Anne voleva confidare tutti i suoi segreti, e le lettere non inviate alle sue amiche reali. Non era un semplice quaderno. Qualcosa di più: una vera e propria persona, un organismo vivente, con un corpo, un´anima, un cuore, nel quale si rispecchiava profondamente il suo cuore. Stava lì, di fronte a lei, e la consolava, la mitigava, dava consigli, alludeva, la educava. Possedeva una saggezza misteriosa che veniva da molto lontano; e a lei non spettava che ascoltare e obbedire a quelle parole. Sapeva che vi avrebbe scritto sempre - finché, forse, un giorno remoto, anche lei sarebbe diventata una scrittrice saggia come il suo diario.
Tutti conosciamo le sue fotografie. Lei le commentava vanitosamente: le piacevano le fossette sulle guance e quelle sul mento, mentre deplorava la bocca troppo grande - quella bocca ridente, che a noi pare l´incarnazione della sua inebriata felicità. Era civettuola: le piaceva che tutta la classe fosse innamorata di lei; ma avrebbe voluto ricevere anche dichiarazioni d´amore scritte nella più bella calligrafia. Apparteneva ad una famiglia ricca e privilegiata, e se ne rendeva conto. Disprezzava le ragazze povere che venivano dalle periferie. Era dura, crudele. Giudicava spietatamente i compagni: «J., vanitosa, spiona, odiosa, piena d´aria, falsa ed ipocrita»; R., «è un ragazzo falso, bugiardo, sventato e noioso». Nel diario parla delle sue gatte, del padre, che leggeva Dickens, della madre, di una pianta di rose, di una camicetta azzurra, del gioco di Monopoli, di un vasetto di crema, di una torta di fragole, di una moltitudine di regali che le giungevano da tutte le parti. Appena si guardava attorno, con i suoi occhi limpidi e lucidissimi, tutto si agitava, brillava, scintillava, entrava in quel movimento ininterrotto, che era il cuore della sua esistenza.
Nel luglio 1942, il padre di Anne, Otto Frank, decise di chiudersi insieme ad alcuni amici in un Alloggio segreto, a Prinsengracht 263. Vi rimasero più di due anni. In quel periodo l´ottica di Anne cambiò completamente. Non più le strade, la scuola, gli alberi, le amicizie, i giochi. Ma l´esperienza della più estrema concentrazione: ora Anne possedeva una specie di microscopio, con cui fissava i particolari più minuziosi della vita segregata, come un topo avrebbe scrutato un piccolo gruppo di topi in una soffitta o in una cantina. Tutto diventò minimo e romanzesco, come in una prigione del Seicento. Con questo crudele occhio d´adolescente, Anne guardava la vita dei genitori e degli amici; e tutto quello che una volta le sembrava normale, ora appariva meschino, miserabile, infimo: un orrore, che eccitava il suo disprezzo. Solo ogni quarto d´ora, il rintocco di una campana vicina dava un ritmo quieto al suo tempo interiore. Ma Anne era troppo vivace per lasciarsi opprimere. Mentre gli altri erano prigionieri e vittime del loro carcere, lei guardava, notava, si affacciava segretamente alla finestra, vedeva gli alberi, le nuvole, il cielo e si sentiva una creatura libera in una Natura liberissima e vasta. Nessuno avrebbe potuto rinchiuderla.
La persecuzione antiebraica le era sembrata, fino ad allora, una specie di gioco insensato e ridicolo. «Gli ebrei devono consegnare le biciclette; gli ebrei non devono prendere il tram: gli ebrei non devono salire su nessuna automobile, nemmeno privata; gli ebrei possono fare la spesa dalle tre alle cinque; gli ebrei possono andare solo da parrucchieri ebrei; gli ebrei non devono uscire per la strada dalle otto di sera alle sei di mattina; gli ebrei non possono trattenersi nei teatri, nei cinema e nei luoghi di svago; gli ebrei non possono andare in piscina, né nei campi di tennis, hockey o altri sport; gli ebrei non possono vogare; gli ebrei non possono praticare nessun genere di sport in pubblico?» Ma lassù, racchiusa nell´Alloggio segreto, la verità sui massacri cominciò lentamente a trapelare. Anne rimase sconvolta: «Non si salva nessuno, vecchi, bambini, neonati, donne incinte, malati, tutti, tutte camminano insieme verso la morte». Pensava che tutto sarebbe finito, che la loro isoletta protetta sarebbe stata trascinata via, che per loro non ci sarebbe stato nessun mondo normale, nessun futuro, nessuna salvezza. Presto cominciò a maturare in lei una limpida coscienza ebraica, e credette nella missione simbolica del suo popolo. «Chi ci ha costretti a servire così? È stato Dio a farci così e a risollevarci. Se sopporteremo questo dolore e alla fine resteremo ancora ebrei, allora gli ebrei da comandati che erano, saranno d´esempio». Sognava la redenzione; e, ciò che è più grandioso, la redenzione del mondo attraverso gli ebrei.
* * *
Mentre gli anni passavano, Anne cresceva, e sentiva che qualcosa si muoveva e si trasformava nel suo corpo: qualcosa che non capiva completamente. Entrava nell´adolescenza: ora gioiva della trasformazione che avvertiva in sé stessa, ora rimpiangeva dolorosamente l´ilare, frenetica infanzia, che la stava abbandonando. In apparenza, continuava la sua vita di sempre. Giocava con la gatta: cercava di conservare nel rifugio le abitudini della famiglia: ascoltava le notizie della radio inglese: rappresentava festosamente il teatro della vita segreta: leggeva i suoi libri di mitologia classica; attaccava al muro le fotografie delle sue dive; disegnava le tavole genealogiche delle famiglie reali. Ma qualcosa cambiò. Odiò, odiò violentemente, con un rancore che non si placava mai, le miserie, i litigi, le meschinità degli adulti, che vivevano, parlavano, mangiavano accanto a lei. Non perdonava niente. «Gli adulti sono soltanto invidiosi perché noi siamo giovani». «Quegli stupidi adulti, che comincino un po´ a imparare loro, prima di criticare tanto i figli». Il suo furore la portò a una specie di nichilismo.
Spesso odiava la madre. «Voglio molto più bene a papà». E l´odio per la madre cresceva: diventava meticoloso e feroce. Non ne sopportava il carattere né le prediche: diceva che aveva idee esattamente opposte alle sue; avrebbe voluto darle uno schiaffo, tanto era intensa la sua antipatia. La madre era fredda, gelida; Anne non tollerava il modo sarcastico con cui trattava i suoi affetti più cari. Poi, la riprendeva un´ondata di affetto infantile; e di nuovo questo calore scompariva, e accusava duramente la madre di non essere una vera madre, ma un´amica astiosa e irritata. Era gelosa della sorella maggiore, Margot, che trovava ingiustamente preferita e accarezzata. Per il padre, che chiamava affettuosamente Pim, aveva una tenerezza dolorosa e materna. Infine, spazzava dall´orizzonte tutta la famiglia. Nemmeno il padre la capiva, e usava con lei le parole che si usano con una bambina dall´infanzia capricciosa e difficile. Nessuno la comprendeva. Nella confusione e nel litigio dell´alloggio segreto, minacciata dalla deportazione e dalla morte, lei si sentiva «terribilmente sola, esclusa, trascurata». Le fossette delle guance si impietrivano, gli occhi si incupivano o balenavano luci fosche.
Sognava molto, e i sogni la consolavano e le aprivano il cuore gualcito e intirizzito. Nell´Alloggio segreto viveva un ragazzo, Peter, di due anni più grande di lei, per il quale non sentiva attrazione. Ma, una notte, Peter le apparve in sogno: lei guardava a lungo quei begli occhi marrone vellutato. Peter le diceva: «Se l´avessi saputo, sarei venuto molto prima», e accostava la propria guancia paffuta alla sua guancia magra. Aveva un sentimento di infinita dolcezza e freschezza. «Tutto era così bello, così bello». Quella notte, come in un racconto di Nerval, si innamorò in sogno. L´amore continuò, sempre più intenso, durante le ore del giorno. Malgrado il pudore, cominciò ad andare a trovare Peter al piano di sopra, dove il ragazzo dormiva. Parlavano di tutto, anche di cose intimissime. Peter era timido e un po´ goffo, e le sue parole erano incerte. Anne non capiva se avesse simpatia, o affetto o amore per lei. Ora Peter non la vedeva: il suo sguardo le passava sopra i capelli, e si perdeva sulle pareti della stanza. Ora, invece, le lanciava un´occhiata così calda e tenera, che anche lei si sentiva calda e tenera in cuore; ed era a lungo felice ripensando allo sguardo che aveva indugiato sui suoi occhi e sulle sue fossette.
A volte, era confusa. Non sapeva se era veramente innamorata di Peter, o se desiderava soltanto un´amicizia adolescente. Ma non poteva negare di essere innamorata: dalla mattina presto alla sera tardi non faceva che pensare a lui; si addormentava con la sua immagine davanti agli occhi, e si risvegliava mentre lui la stava ancora guardando. E, nel giorno, era difficile immaginare che non fossero veri i discorsi e i gesti del sogno. «Oh Peter, scriveva sul diario - di´ finalmente qualcosa, non lasciarmi più sospesa tra la speranza e la sconfitta. Dammi un bacio, o mandami via dalla stanza... Tutti pensano che io sia sfacciata, sicura di me e spiritosa, mentre non desidero altro che essere Anne per una sola persona. Per una persona sola vorrei essere sensibile». Un giorno, finalmente, lei gli diede il primo bacio: tra i capelli, sulla guancia sinistra, sull´orecchio. E il secondo. Anne gli buttò le braccia al collo: gli diede un bacio sulla guancia sinistra, e voleva spostarsi sulla destra, quando la sua bocca incontrò quella di Peter, ed entrambi premettero le labbra le une sulle altre.
Fu l´ultimo bacio. Proprio quando Anne sembrava avere aperto il suo cuore, si rinchiuse in sé stessa: si sentì superiore a Peter: lo disprezzava perché non aveva un obbiettivo davanti agli occhi, perché si sentiva insignificante, e non aveva mai conosciuto la sensazione di rendere felice qualcuno. «Non ha fede», scriveva. In quel momento, la sua anima si stravolse. Abbandonò tutto: il padre, la madre, Peter, gli abitanti dell´Alloggio segreto. Si sentì completamente sola, senza voce, senza parola, senza adolescenza e giovinezza. Capì che poteva fare a meno di tutto, perfino del padre, e concentrarsi nelle profondità conosciute e sconosciute del suo io. Guardò fuori dalla finestra, verso gli alberi primaverili, e sentì che il suo io sconosciuto era lì nel sole, sotto le nuvole, nel verde che rinasceva, nella Natura, o in una Natura-Dio, che riusciva a intravedere.
Notizie sempre più terribili giungevano dalla Germania: carri-bestiame, deportazioni, prigionie, mostruosi campi di concentramento, mitragliatrici, gas. Non c´era che Male e Male e Male, come non si era mai visto. «Vedo come il mondo pian piano viene trasformato sempre più in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina e ucciderà anche noi». Proprio lei - una ragazza quindicenne che aveva appena intravisto sé stessa - ebbe la forza di scrivere che la sua vita era «migliorata, molto migliorata». Dio non l´aveva lasciata sola. Esaltava il cielo, gli alberi, le nuvole, la Natura, e ribadiva che Dio si rispecchiava in tutte le cose. Cos´era la morte, la sua morte, la morte dei suoi fratelli, un popolo spazzato via? «Tutto era come doveva essere e Dio voleva vedere gli uomini felici nella Natura semplice ma bella». Tutto si sarebbe volto al bene; e nel mondo sarebbero tornati la calma e la pace. Sono parole sconvolgenti: parole, sembra, che possono dire soltanto i santi. Con le sue civetterie e i suoi scherzi irrispettosi, Anne Frank a tutto somigliava meno che a una santa. Eppure proprio lei, come una santa, esaltò il trionfo finale del bene.
Il 4 agosto 1944, la polizia nazista arrestò tutti gli abitanti dell´Alloggio segreto. I Diari di Anne Frank rimasero a terra, confusi tra un mucchio di vecchi libri e riviste. Nell´autunno, qualcuno la vide, con gli "occhi radiosi" insieme a Peter. Nel marzo 1945 morì di fame e di tifo - certo non più radiosa - nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Non sembra che, secondo la sua profezia, il Bene sia ritornato vittorioso sulla terra.

Corriere della Sera 19.11.09
I pirati calvinisti sul libero oceano senza papa né re
Un filosofo li definisce «primi protestanti»
di Giulio Giorello

Lo studioso francese Olivier Abel vede nell’epopea della filibusta l’avvio di una religiosità individualistica e antiautoritaria

Le motivazioni. «Restavano soli al cospetto di Dio, senza mai aver garanzia del domani» L’evoluzione Seguendo l’antica saggezza dei predatori, diventarono artisti del mare e spregiudicati politici

I diavoli «a guisa di leoni ruggenti vanno in giro cercando chi poter divorare» afferma la Prima lettera di Pietro (5,8). Non diver­samente fanno i pirati, a detta di un indub­bio esperto come il capitano Charles Johnson, autore della Storia generale delle ruberie e degli assassinii perpetrati dai più celebri pirati (1724: per alcuni si tratterebbe niente di meno di Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe.

Ma tale identificazione è stata rimessa in discus­sione). Apparentemente non ci sarebbe cosa più diversa da quell’Inferno sull’acqua del Para­diso che nell’alto dei cieli attenderebbe coloro che sono stati predestinati dal Signo­re alla salvezza eterna. E se invece «la grande epopea della filibusta non fosse altro che la schiuma del movimento da cui è nata la Rifor­ma »? La provocazione viene da Oli­vier Abel, professore di Etica alla li­bera facoltà di Teologia protestante di Parigi e allievo di Paul Ricoeur, che ha realizzato per France 2 un do­cumentario intitolato appunto Pira­tes et protestants , con il regista Clau­de Vajda.

Sul libero oceano non c’è né re né papa: si resta soli al cospetto di Dio, «costretti a vivere alla giornata, sen­za mai aver garanzia del domani». Si sperimenta così sulla propria pelle l’imperscrutabile potenza della Gra­zia e al tempo stesso ci si affida alle proprie capacità mondane. È questo il cuore della novità protestante! Nel­la Francia del Cinquecento, lacerata dai conflitti di religione, Gaspard de Coligny, capo del partito ugonotto, doveva convincere il sovrano a incen­tivare la «guerra di corsa» nell’Atlan­tico per rompere il monopolio delle rotte del Nuovo Mondo che i cattolici portoghe­si e spagnoli avevano avocato a sé, proprio men­tre i pii partecipanti ai sinodi riformati si chie­devano se un pirata potesse mai venire accetta­to in una qualsiasi «onesta congregazione cri­stiana ». Coligny finì «macellato» nella Notte di San Bartolomeo (24 agosto 1572); ma la repres­sione «papista» non avrebbe fermato le audaci scorrerie delle «genti di mare» di Normandia, Bretagna e Guascogna. La libera città ugonotta de La Rochelle costituiva il nucleo di questa «pi­rateria religiosa» fino alla caduta (1628) per vo­lere di Richelieu. Ai francesi si erano intanto af­fiancati i «corsari della regina» Elisabetta d’In­ghilterra e i «pezzenti del mare» dei Paesi Bassi in rivolta contro gli Asburgo. Tutti «luterani», a detta dei sudditi della Spagna o dell’Impero; ma si trattava per lo più di calvinisti, convinti che la spada dovesse venir messa al servi­zio della libertà religiosa e spesso, come il Francis Drake che sconfisse (1588) l’Invincibile armata di Filippo II al largo delle coste dell’Inghilterra, insofferenti delle limitazioni impo­ste dalle autorità in nome delle quali pretendevano di combattere.

Sospesi «tra il diavolo e il profon­do mare azzurro», tentati dal guada­gno (filibustiere è termine di origine olandese che indica la licenza di fare bottino), disobbedienti agli ordini per seguire «la voce della coscien­za », questi singolari guerrieri risco­privano — sostiene Abel — «l’antica saggezza dei predatori», diventando artisti della navigazione, esploratori geografici, spregiudicati politici. Di­menticate il Johnny Depp dei Pirati dei Caraibi e pensate a tipi che pren­dono sul serio Giovanni Calvino, il ri­formatore di Ginevra, che rende leci­to a ogni individuo perseguire il pro­prio interesse, purché rispettoso dell’equità e del bene comune. Anche quando verrà meno la «finzione legale» del corsaro dotato di «paten­te » per rapinare le navi nemiche, i «fratelli del­la costa» faranno del loro leggendario tesoro un fondo per provvedere ai bisogni dei membri più deboli della loro consorteria: una sorta di cassa di mutuo soccorso ante litteram . Il pirata «protestante» prefigura insieme l’imprenditore capitalista e il moderno Stato sociale, anche quando protestante… non lo è più.

«Voi derubate il povero con la copertura del­la legge, mentre noi saccheggiamo il ricco con la sola protezione del nostro coraggio» diceva sprezzantemente a un ufficiale britannico suo prigioniero Samuel Bellamy, ovvero Sam Black (per la sua abitudine di portare i neri capelli sciolti), che doveva inabissarsi con la propria na­ve al largo del Massachusetts il 27 aprile del 1717. Ormai i pirati lottano contro tutte le ban­diere e hanno come stendardo il Jolly Roger: un drappo prima scarlatto (il termine deriva forse da jolie rouge, ovvero «il bel colore rosso») poi nero, ma l’essenziale è che in varia guisa porti teschio e ossa incrociate.

Questa «insegna di paura» ha una specifica funzione: quella di segnalare ai mercantili, che stanno per essere depredati, che è meglio per loro la resa immediata, data l’inevitabile distru­zione in caso contrario: un esito feroce che, in tempi di migliorati rapporti tra le nazioni, i guardiacoste legali che proteggevano le «acque territoriali» non avrebbero potuto permettersi. I pirati avevano fama di infierire crudelmente su quelli che opponevano resistenza, ma — al contrario di certi stereotipi — si facevano scru­polo di mantenere le loro promesse a quanti si erano messi nelle loro mani. Non c’è solo la sag­gezza dei predatori, ma anche quella delle pre­de, sicché «teschio e tibie» da annuncio di mor­te poteva rivelarsi, alla fine, strumento per ri­sparmiare le vite sia degli attaccanti sia degli attaccati. Pietà cristiana anche tra i pirati? Non è un caso che il dvd di Abel e Vajda facesse que­st’anno bella mostra nelle videoteche ginevrine a cinque secoli esatti dalla nascita di Calvino il quale, quando lo riteneva necessario, sapeva procedere con esemplare spietatezza.

Ma se di virtù si trattava, pur tra le «cana­glie », era una virtù indotta dalla percezione qua­si istintiva dei propri interessi e dall’uso attento del principio di conservazione delle risorse (co­me nota lo storico dell’economia Peter Leeson nel recentissimo The Invisible Hook , Princeton University Press). Questa capacità economica spiega perché i pirati fossero insieme aggressivi e «pacifici», sanguinari e misericordiosi, avidi e generosi, inflessibili sul mare e inclini, a terra, ai piaceri della carne, pervasi dai pregiudizi co­muni alla loro epoca e capaci di autentica tolle­ranza (anche per quanto riguarda il sesso e il colore della pelle: non mancano filibustieri neri o indiani; e ci sono persino «le sorelle della co­sta »!). Adam Smith ha teorizzato la mano invisi­bile che fa dei meccanismi di mercato la base della convivenza civile; in onore di Captain Hook, il terribile nemico di Peter Pan, potrem­mo dire: il suo uncino ha permesso che, sulla tolda della nave pirata, si sperimentassero mo­di di associazione e persino garanzie democrati­che impensabili nelle ben più cupe marine de­gli Stati che davano la caccia a questa «ex prote­stante » schiuma del mare.