mercoledì 25 novembre 2009

l’Unità 25.11.09
Oggi giornata contro la violenza sulle donne
ROMA In Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, nella sua vita è stata vittima della violenza di un uomo. Secondo i dati delùl’Istat, sono 6 milioni e 743mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita violenza fisica e sessuale. Sono alcuni dati che diùmostrano la diffusione della vioùlenza contro le donne: oggi si celeùbra la Giornata mondiale contro questa emergenza e sabato a Roùma ci sarà una manifestazione naùzionale proprio per dire «no» alla violenza sulle donne: il corteo parùtirà da piazza della Repubblica per arrivare a piazza San Giovanùni. Ecco altri dati: tre milioni di donne hanno subito aggressioni durante una relazione o dopo averùla troncata, quasi mezzo milione nei 12 mesi precedenti all’interviùsta.❖

l’Unità 25.11.09
Le donne e i mille volti della violenza
La giornata mondiale dell’ONU
di Fabio Roia
D al dicembre 1999 l’Assemblea Generale delùl’Onu ha fissato nella data del 25 novembre la Giornata internazionale contro la violenùza contro le donne. Si tratta di capire se ce-
lebriamo per convenzione una ricorrenza o se capiaùmo veramente il dramma di una violenza diffusa e multiforme che si manifesta dall’aggressione alla sfeùra genitale con pratiche di mutilazione alla insidia psiùcologica di sopraffazione molto meno tribale e da orùdinamento evoluto. Vi sono purtroppo molteplici indiùci sociali che portano a ritenere come non sia ancora perfettamente compiuto il processo di reale presa di coscienza del forte disvalore del gesto violento nei confronti della donna. Pensiamo al fenomeno della “velinizzazione” dove il profilo estetico sembra dover prevalere su tutto per consentire un’affermazione delùla persona in certi settori professionali. Come se fosùse, la bellezza venduta, un prezzo da pagare al succesùso. Una violenza sottile. Pensiamo ancora alla difficolùtà che incontra il diritto costituzionale alle pari opporùtunità ad affermarsi nella quotidianità del lavoro, delùla istituzione, della genitorialità per la presenza di un pregiudizio e di condizioni sociali che impongono anùcora la definizione di donna come soggetto debole. L’aggettivazione è ancora una violenza sottile.
Permane poi, nella cultura maschile, un pensiero di poter disporre comunque della donna. Nella sfera affettiva, sessuale, economica emerge la distorsione del rapporto padronale che tende sempre alla soprafùfazione e alla riaffermazione dell’abuso di una situaùzione di dominio. È la dinamica di chi diventa maltratùtante, persecutore, sessualmente violento che si traùsforma nella patologia del comportamento tipica delùla vicenda penale dove la donna parte lesa tende a subire una seconda vittimizzazione. Vittimazione ulùteriore che deriva dalla superficialità processuale delùl’approccio alla sua storia e dallo scarso riconoscimenùto, nella sede propria della riaffermazione del suoi diritto alla dignità, alla sofferenza personale. La rispoùsta interistituzionale – di accoglienza, di protezione, di giustizia ùalla violenza sulla donna è ancora imperùfetta. Peraltro nel disegno di legge in materia di estinùzione del processo (il cosiddetto “processo breve”), fra i reati esclusi dalla disciplina che porta alla morte della vicenda processuale se la stessa non si consuma in due anni non è ricompreso il delitto di maltrattaùmenti in famiglia (art. 572 codice penale), quindi proùprio quella fattispecie tipica che si applica nei numeroùsi casi di violenza domestica (fisica e psicologica) conùsumata in danno delle donne. L’evidente conseguenùza sarà quella di applicare ogni tattica processuale diùlatoria – a cominciare dal legittimo rifiuto dell’imputaùto di scegliere riti alternativi ùche porti l’imputazione di violenza all’eutanasia giudiziaria. Donne da buttaùre per legge. ❖

Repubblica 25.11.09
La Commissione sanità pronta a bloccare l´immissione in commercio
Ru486, oggi il Senato decide stop dal Pdl, ma è scontro
di Mario Reggio

ROMA ùLa storia infinita della pillola abortiva Ru486 continua. La commissione senatoriale d´inchiesta voterà oggi il documento finale presentato dalla maggioranza: non c´è stata alcuna verifica della compatibilità della terapia farmacologica con la legge 194 e l´Agenzia italiana del farmaco non l´ha prevista. Il presidente della commissione, Antonio Tomassini, annuncia che verrà chiesto un parere al ministero della Salute e quindi il blocco della procedura per il via libera della Ru486.
Cosa potrà succedere adesso? L´obiettivo del centrodestra è chiaro: bloccare la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera dell´Aifa, prevista a giorni, e pronta da due mesi. Ergo azzerare i mesi di lavoro dell´Agenzia italiana del farmaco e ricominciare tutto da zero. Che sia una decisione politica lo conferma la vicepresidente dei senatori Pdl Laura Bianconi: «Certamente, se la politica non si occupa di tutelare la vita e la salute di cosa altro si dovrebbe occupare?».
Polemico il commento del senatore Pd Lionello Cosentino, componente della Commissione sanità del Senato. «La relazione del presidente Tomassini è una cattiva notizia per le donne italiane. Vogliono imporre all´Aifa di fermarsi con due motivazioni fasulle ùafferma Cosentino ùil rischio per le donne a causa di un farmaco che è in uso nel mondo già da 20 anni ed è stato approvato da tutti gli organismi tecnico scientifici a partire dall´Europa agli Stati Uniti». E prosegue: «La seconda motivazione è la coerenza con la legge 194. Si pretende un parere dal ministero "competente" che non è previsto dalla legge, né dovuto ùconclude Cosentino ùe da quando il governo diventa giudice di una legge? La relazione Tomassini è una barzelletta, purtroppo non fa ridere».
Sulla relazione annunciata dal presidente Antonio Tomassini la maggioranza sembra compatta. È stata definita «un atto responsabile» dal senatore D´Ambrosio Lettieri e dal collega di partito Domenico Gramazio. Ancora incerto il Pd, il cui gruppo in commissione stamattina si riunirà per definire una linea. La capogruppo Dorina Bianchi ha riconosciuto che «bisognerà capire quanto la legge 194 sia compatibile con la pillola e chi lo debba stabilire», aggiungendo tuttavia che nella relazione conclusiva «ci sono delle incongruenze che vogliamo discutere».


Corriere della sera 25.11.09
La storia I discendenti dei 300 mila «moriscos» oggi vivono nel Maghreb
La Spagna e i mori cacciati: risarcirli dopo 400 anni?
La proposta socialista: compensare gli eredi arabi
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Si allunga la memoria storica spagnola. Più indietro, molto più indietro della guerra fratricida della seconda metà degli anni 30, che tuttora il paese fatica a metabolizzare. Altri ri­cordi, assai più antichi, rimordono alcu­ne coscienze: come la cacciata dal Re­gno di Castiglia dei moriscos , 300 mila musulmani convertiti, più con le cattive che con le buone, e infine espulsi da Filippo III nel 1609. Esattamente quattro secoli fa. Acqua passata, che però macina ancora nella mente di scrittori, come Ildefonso Falcones, autore di un migliaio di pagine al riguardo, il best seller intitolato «La Mano di Fatima»; e di politici, come il deputato socialista di Granada, José Antonio Pérez Tapias, au­tore di una proposta in grado di suscita­re un probabile vespaio al Congresso.

La sua mozione, presentata dal grup­po parlamentare del Psoe, sollecita il governo a trovare una forma di com­pensazione per i discendenti, ovunque essi siano, di quelle popolazioni ripu­diate quattrocento anni fa: «Non erano immigrati, erano spagnoli per davve­ro, da 800 anni», ricordava Falcones, che narrando le tribolazioni di uno di loro, il giovane Fernando, intendeva in­terpretare il dolore di tutti. Ma i loro pronipoti, in maggioranza, ormai vivo­no altrove: in Algeria, in Marocco, in Tunisia, in Libia, in Mauritania, in Ma­li. Ritrovarli sarebbe comunque abba­stanza arduo: «Occorre fare il possibile per rafforzare i vincoli economici, so­ciali e culturali con la gente del Ma­ghreb e dei paesi subsahariani», ritie­ne José Antonio Pérez Tapias. Una sor­ta di risarcimento collettivo, a pioggia, quattrocento anni dopo.

Non è mai troppo tardi per fare am­menda, sostiene il deputato di Grana­da, rivolgendosi al governo del suo stes­so colore: «È necessario un riconosci­mento istituzionale dell'ingiustizia che fu commessa a suo tempo, con l'espul­sione in massa dei moriscos». E sottoli­nea «ingiustizia storica», come una col­pa non casuale o involontaria: «Fu com­messa per intolleranza religiosa, per quella politica di assimilazione plasma­ta sull'alternativa tra conversione ed esi­lio, per il risentimento della popolazio­ne cristiana e per la pretesa di configura­re un regno integrato nel cristianesimo, senza minoranze che potessero met­tere in dubbio questa coesione».

L'occasione è offerta da un'altra ri­correnza: il millennio del Regno di Granada. Sarebbe imperdonabile tra­scurare questo capitolo: «Uno dei più terribili esili della storia di Spa­gna » insiste Pérez Tapias. Secondo il quale questo è, per i socialisti, il momento migliore per «recuperare la memoria storica di una popola­zione vittima di una convivenza negata». Pur non rischiando di op­porre nuovamente i due fronti ne­mici della guerra civile, anche queste memorie dividono l'opinione pubblica. Non tutti condannano Filippo III per aver firmato il decreto di espulsio­ne, non tutti pensano che la Spagna di oggi sia in debito con i «fratellastri» di allora. Non tutti condividono l'opinione di Falcones sull'esistenza di un altro fa­natismo religioso, quello cristiano. E nei forum dei giornali on line spagnoli sono più le critiche del plauso alla mozione presentata al Congresso: «L'ingiustizia storica fu nel 711 — scrive un lettore nel sito di Abc.es , dove in poche ore si sono accumulati 460 commenti —, quando ci invasero devastando vite e terre». Oppu­re: «E perché non fare causa all'Italia per i danni che i legionari romani inflissero alla nostra penisola?».

Pérez Tapias, 54 anni, è docente di fi­losofia all'Università di Granada, è stato eletto deputato alle ultime legislative, nel 2008, ed è autore di libri e articoli piuttosto conflittuali con il conservatori­smo della gerarchia ecclesiastica spa­gnola. Quindi, abituato alle polemiche.

Corriere della Sera 25.11.09
Tutti i razzisti si somigliano
Dal Sudafrica all’Italia di oggi, la paura del diverso genera intolleranza
di Gian Antonio Stella

«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: coma­schi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, in­glesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriati­co, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xinga­ni: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, re­stituendo la visita compiuta secoli prima da Mar­co Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infi­ne i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche mo­do alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.

Tutti. A partire da quelli che per i ve­neziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contra­rio, come dicono le parole stesse «Im­pero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, 

non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».

È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani so­stengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mon­do abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Del­fi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’om­belico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qual­che modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distri­buire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghe­zio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipen­dente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invi­vibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».

Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe se­guire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri terri­tori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradi­zioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi 'co­struttori di libertà' perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei coloniali­sti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da mi­gliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamen­to nella Pianura Padana dei roma­ni che quelli come Borghezio riten­gono ancora oggi degli intrusi colo­nizzatori, al punto che Umberto Bos­si vorrebbe che il «mondo celtico ri­cordasse con un cippo, a Capo Tala­mone » la battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una que­stione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli stadi con­tro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del de­mone antisemita, le spedizioni squadristiche con­tro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le avanzate in tutta Euro­pa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa parana­zista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da seco­li e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clo­chard bruciati per «ripulire» le città e gli inni im­mondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insie­me nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo «Anda­te tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei & co!», come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi eco­nomica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli ex­tracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente caval­cano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fat­ta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravi­gliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubbli­china privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato caccia­to oltre un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne di vive­re nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, nien­te più ascensori vietati ai neri e così via. (...) «Il genocidio dei boeri»: tito­lano oggi molti siti olandesi de­nunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande crimi­nali di colore gonfie di odio raz­ziale che da Durban a Johanne­sburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quoti­diano «Reformatorisch Dag­blad », di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafrica­no, quello che mostra come la bestia razzista possa presentar­si sotto mille forme, è qui. I boe­ri, protagonisti di tante brutali­tà contro le popolazioni indige­ne e oggi vittime di troppe ven­dette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpe­trato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africa­ni nati da un miscuglio di olan­desi, francesi, tedeschi... (...) È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di po­grom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittu­ra, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenri­ck e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemiti­smo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così co­m’è impossibile capire il razzismo se non si ricor­da che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...

martedì 24 novembre 2009

Repubblica 24.11.09
Esce un Meridiano dedicato ai suoi scritti curato da Marco Revelli
Bobbio, Il pessimismo di un illuminista
di Adriano Prosperi

Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui il filosofo torinese accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e cultura

Uno spettro si aggira per l´Italia: non il comunismo, regredito ufficialmente a mostro spaventa-bambini da cartoon giapponese. Quello che sembra destinato a levarsi al suo posto si chiama Illuminismo. E´ uno spettro che appare nei sogni di certi uomini di Chiesa, gli unici peraltro a evocarlo per nome, con aggettivi come «bieco», «torvo» e così via, con l´orrore e la determinazione dell´esorcista che affronta il demonio. Roba vecchia, degna degli sberleffi di Gavroche. Ma proprio nel contesto italiano dei nostri anni dominato da rivalse clerico-fasciste si affaccia oggi un illuminista italiano: Norberto Bobbio. Un´ampia selezione di scritti suoi curata con passione e intelligenza da Marco Revelli compone uno splendido Meridiano Mondadori grazie al quale possiamo rileggere una proposta pacata e intransigente di moralità civile e di impegno culturale e capire in che cosa possa riconoscersi un illuminista.
Il caso che governa le cose umane porta in libreria questo imponente volume insieme all´intervista data da Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Due voci diversissime, confrontabili solo per via di quelle opposizioni dilemmatiche care a Bobbio. Due testimonianze, tuttavia, di quello che fu e non è più il ruolo civile dell´intellettuale in un paese dove oggi non ci si vergogna a rispolverare la parola di Scelba - «culturame». Fermiamoci a Bobbio: il suo è un illuminismo di metodo e di desiderio. «Vorremmo essere illuministi» scrisse nel 1955. Si professò illuminista ma anche pessimista: non alla maniera di Sebastiano Timpanaro e del suo indimenticabile Leopardi, e tuttavia pur sempre alla scuola di Hobbes, di Machiavelli, di Marx. Quel pessimismo, su se stesso e sul paese dove si trovò a operare, non fu mai dismesso: ma proprio per questo si sentì spinto a non abbandonare mai la fede nella ragione.
«Uomo di ragione e non di fede», si definì nelle ultime volontà. Quella ragione era fatta di fede nell´Italia civile. La «sua Italia» - il titolo da lui scelto per un libro concepito come ultimo - l´aveva imparata alla scuola di maestri e di compagni qui rievocati e raccontati nella prima sezione del volume. Su tutti spicca Piero Gobetti. Il nome di quell´«esile biondo miope ragazzino», come lo descrisse Augusto Monti, ricorre in questi scritti con una frequenza più alta di quella di Machiavelli, appena minore di quelli di Kant, Hegel e Marx. L´Italia dove si formò era il paese che cancellava le vite e spegneva i pensieri degli oppositori e degli uomini liberi: ma le scintille accese da maestri come Gobetti e da amici come Leone Ginzburg bastarono a Bobbio per illuminargli il percorso in una ricerca intellettuale calata nel vivo dell´azione: «L´ora dell´azione» si intitolò il primo suo articolo, stampato nel settembre 1944 in un giornale clandestino del Fronte degli intellettuali nella Torino occupata. Seguirono quelli sul quotidiano del Partito che si chiamò appunto di Azione, un quotidiano intitolato: Giustizia e libertà. Il binomio inquietò il filosofo della libertà, Benedetto Croce che parlò di «ircocervo», preoccupato che la volontà giacobina di giustizia sociale soffocasse la libertà.
Ma che rapporto ci può essere tra libertà e uguaglianza? Ecco uno dei temi della casistica morale della politica di allora. Aiutano a ricomporre questa casistica i saggi della seconda sezione, intitolata ai «dilemmi etici» posti da questioni come intellettuali e politica, pace e guerra, libertà e uguaglianza. Marco Revelli richiama giustamente l´attenzione sullo stile del pensiero di Bobbio: un pensiero «dicotomico, duale, aporetico», un procedere per dilemmi. Le coppie oppositive si ritrovano nella terza sezione su «le forme della politica» e sono quelle di un dialogo dei massimi sistemi del ‘900: democrazia e dittatura, socialismo e comunismo, destra e sinistra. Il congedo lo danno le pagine di meditazione sulla morte e sul non essere del De senectute, un altissimo breviario morale scritto al termine del secolo come ricapitolazione di una vita e riflessione sui cambiamenti del mondo.
«Uomo di studio, non apolitico ma neppure troppo politicizzato»: così Bobbio si definì nell´autobiografia intellettuale che apre il volume. La distanza dai tumulti verbali e dall´uso strumentale della pagina scritta fu per lui una costante: la si riconosce nell´ironia lieve con cui rispose agli attacchi giornalistici dell´avanzante regime berlusconiano contro le «cariatidi velenose» dei senatori a vita. Ma la sua vigilanza sulla questione dei diritti di libertà fu pronta e severa. Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui Bobbio accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e alla sua sterminata cultura. Un filo che parte da un capo: aveva imparato dal grande maestro di studio e di integrità morale che ebbe per professore, Francesco Ruffini, che «tutte le libertà civili sono solidali» e che una volta ammessa la prima, la libertà religiosa, «non possono non essere ammesse tutte le altre». E´ una lezione la cui lungimiranza possiamo oggi verificare nell´esperienza dell´attacco congiunto che un ritorno di fiamma clericale e una oscena dittatura televisiva conducono ai fondamenti costituzionali della Repubblica. Oggi da lì si è obbligati a ripartire. Ma non da zero, non dal livello del suolo: è dal sottosuolo che a Bobbio stesso - scrivendone sul Ponte nel gennaio 1994 - parve «uscito l´incantatore plebeo, cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi mestatori in nome, udite! Della liberaldemocrazia». Si poteva scendere più in basso? Secondo Bobbio, no. Liberi noi di pensare che, almeno qui, lui si sia sbagliato.

Repubblica 24.11.09
Distributori di preservativi a "prezzo politico" per gli studenti Francia, condom in facoltà "Venti centesimi contro l´Aids"
di g. mart.

PARIGI - Venti centesimi, molto meno di un caffè o di una sigaretta. Un prezzo irrisorio per difendersi dall´Aids e dalle numerose malattie veneree che stanno riprendendo piede in molti paesi occidentali: sarà questa la tariffa dei preservativi distribuiti in tutte le università francesi. "Sortez couverts", uscite coperti, è il nome di un´operazione che da anni cerca di incitare i giovani ad utilizzare i profilattici. Il 96% dei licei francesi è già equipaggiato con i distributori automatici, a partire dall´anno prossimo il condom a prezzi stracciati arriverà nella facoltà, nelle case dello studente, nelle mense. Gli studenti universitari, secondo le statistiche, sono meno prudenti dei loro fratelli minori. I liceali affrontano le prime esperienze sessuali con maggiore cautela mentre nei campus l´amore diventa un fatto banale e il preservativo è sempre meno utilizzato al momento di un rapporto con un nuovo partner. Per questo il ministro della Ricerca, Valérie Pecresse, ha voluto rilanciare la lotta all´Aids firmando una convenzione con i rettori delle università. Per incitare i giovani a proteggersi, i profilattici saranno venduti a venti centesimi l´uno, un prezzo che scenderà ancora per le confezioni da sei o dodici pezzi, distribuite a uno o due euro. Manco a dirlo, i preservativi a basso costo saranno prodotti in Cina, ma secondo i promotori dell´iniziativa «sono di qualità comparabile agli altri».
(g. mart.)

Corriere della Sera 24.11.09
La Commissione Sanità «Stop sulla pillola abortiva»
La richiesta al termine dell’indagine: acquisire il parere del ministero
di Margherita De Bac

Le ragioni «Non è accertata la verifica della compatibilità con la legge sull’aborto» La mossa
La Commissione del Senato vuole bloccare l’entrata ufficiale della Ru 486 nel nostro Paese

ROMA — «Stop alla pillola abortiva». Lo chiede la Com missione Sanità del Senato nella bozza conclusiva dell’in dagine che verrà esaminata oggi. Un mese di audizioni con personaggi di varia estra zione (bioetici, farmacologi, ginecologi, ministri) per arri vare a una rosa di proposte, molto esplicite e non sorpren denti.
Nel documento si sottoli nea innanzitutto che «la pro cedura di immissione in com­mercio di Mifegyne (il nome del farmaco) non ha previsto la verifica della compatibilità con la legge (la 194 sull’abor to) ». Quindi i senatori sugge riscono di sospenderla «per acquisire il parere del ministe ro » in modo da consentire, nel caso venga ritenuto neces sario «di riavviare la procedu ra dall’inizio».
È l’ultimo tentativo di ritar dare l’entrata ufficiale in Italia della Ru 486. Iniziativa in zona Cesarini. Tra pochi gior ni — a dicembre — verrà pubblicata in Gazzetta ufficia le la delibera con cui l’Aifa (agenzia italiana del farma co) ha autorizzato la pillola che già in molti Paesi europei viene offerta alle donne in al ternativa all’aborto chirurgi co. L’industria francese Exel gyne, che la produce, ha già inviato all’organismo diretto da Guido Rasi il foglietto illu strativo tradotto in italiano, con le modifiche dei termini entro i quali dovrà essere uti lizzata (49 giorni di gravidan­za anziché 63). L’azienda non si occuperà direttamente del la distribuzione. Il parere del la Commissione presieduta da Antonio Tomassini insiste sulla necessità che «la proce dura abortiva nelle sue diver se fasi venga effettuata in re­gime di ricovero ordinario», dunque in ospedale, fino a quando l’interruzione della gravidanza non sia stata com pletata. Infine si suggerisce di «verificare l’esistenza di studi di superiorità del meto do farmacologico o studi di non inferiorità».
Questa è una novità, un nuovo appiglio per scongiura re l’arrivo di un farmaco che viene visto come la polvere negli occhi dal centrodestra. Si richiama l’articolo 15 della legge 194 nel quale si preve de la possibilità di ricorrere a tecniche «più moderne, ri spettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose». In pratica si do manda di valutare se davvero la via farmacologica può esse re considerata innovativa ri spetto all’unica disponibile. Tomassini spera ora che il do cumento trovi «compattezza nella maggioranza. Nel fare la relazione ho tenuto conto so lo di quanto è emerso duran te le audizioni». Secondo Do natella Poretti, Pd, «l’obietti vo era e resta quello di ostaco lare il lavoro dell’Aifa. La Commissione ha dedicato 16 sedute su 24 a questo tema». La Ru 486 è stata autorizzata il 30 luglio, il 19 settembre Ra si è stato incaricato di predi sporre la pubblicazione della delibera. A settembre l’apertu ra dell’indagine, su proposta di Maurizio Gasparri (Pdl). Tra gli esperti ascoltati, il re sponsabile dell’ufficio legale dell’agenzia europea del far maco, l’Emea, il quale ha spie gato come l’approvazione di medicinali che seguono l’iter del mutuo riconoscimento debba essere compatibile con le leggi del singolo Paese. «L’Aifa avrebbe dovuto chie­dere un parere preventivo al ministero e ad affermarlo è stato un tecnico assolutamen te imparziale», fa notare il sot tosegretario al Welfare, Euge nia Roccella.

Il Fatto Quotidiano 24.11.09
Fine vita: riprende la discussione, dai Radicali 2400 emendamenti

La Commissione Affari sociali della Camera riprenderà a parlare di testamento biologico probabilmente la prima settimana di dicembre. Il numero degli emendamenti presentati dalle forze politiche su questo tema che ha diviso il Senato e il paese negli ultimi giorni della giovane Englaro è molto alto. Solo dal Pd ne sono arrivati 120 mentre quelli dei Pdl sono circa una trentina. I radicali, poi, ne hanno presentati 2400. Sia la maggioranza sia l`opposizione hanno presentato proposte di modifica sul contestato articolo della legge Calabrò che riguarda l`imposizione della nutrizione ai malati privi di coscienza. Così com`è uscita dal Senato, infatti, la legge rischia di essere in contrasto con l`articolo 32 che vieta l`imposizione di un trattamento sanitario contro la volontà dei paziente, e dunque è necessario trovare una mediazione politica che assicuri l`assistenza e la nutrizione per i malati senza incorrere nell`accanimento terapeutico. La legge potrebbe arrivare in aula prima di Natale, ma per l`approvazione definitiva si dovrà aspettare almeno la fine di gennaio.

Corriere della Sera 24.11.09
Il caso Interventi anche su pensioni e divorzio
Coppie di fatto, proposta dei finiani: entrino nella Carta
di Alessandra Arachi

ROMA — È scritto già nel titolo del comunicato che an nuncia la conferenza stampa di oggi: diritti delle coppie, la nuova frontiera. E Maria Ida Germontani lo spiega, con semplicità: «La società è cam biata, dobbiamo prenderne atto».
Per questo lei, senatrice pdl di area finiana, stamatti na a Palazzo Madama presen terà ben tre proposte di legge (firmate con Salvo Fleres e Bruno Alicata) per ridisegna re la disciplina dei diritti nel le coppie, anche di fatto. Una addirittura per modificare la Costituzione. Un’altra per la pensione. L’ultima per snelli re le procedure del divorzio: la pratica potrà essere omolo gata anche dal notaio, oltre che negli intasatissimi tribu nali.
Non ci sono preclusioni per le coppie omosessuali nel disegno di legge che prevede l’estensione della quota libe ra della pensione al conviven te. Nell’articolo 2 del provve dimento si legge, infatti, che la condizione per beneficiare della pensione è di avere una convivenza di almeno cinque anni. Di più: non è menziona ta nell’articolo 3 che prevede le esclusioni dal beneficio.
Nel provvedimento si dice che il beneficio non potrà es sere esteso se tra i conviventi c’è una differenza di età che supera i vent’anni; o se i con viventi siano già titolari di al tre pensioni; oppure se non siano residenti in Italia da al meno cinque anni; ma anche se il reddito supera di tre vol te il valore della pensione erogata.
La modifica richiesta per la Costituzione è netta e chiara: si modifica l’articolo 29 della Carta. Si conferma che «la Re pubblica riconosce e tutela i diritti della famiglia come so cietà naturale fondata sul ma trimonio », e si specifica che il matrimonio è quello «tra uo mo e donna», poi si aggiunge che la Repubblica «garantisce i diritti individuali scaturenti dai rapporti di coppia come stabiliti dalla legge».
Spiega la senatrice Ger montani: «È necessario ag giornare la Costituzione di fronte agli evidenti cambia menti della società, per i qua li non è più possibile chiude re gli occhi. Sono oltre 300 mi la le coppie conviventi non coniugate oggi in Italia con tro circa 15 milioni di sposa te. Ma il numero è destinato ad aumentare di anno in an no ».
L’ultima proposta di legge riguarda il divorzio. E preve de una modifica del Codice ci vile, lì dove all’articolo 158, primo comma, prevede che «la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice». Spiega Maria Ida Germontani: «Noi voglia mo che sia resa possibile an che davanti ad un notaio. Ben inteso non intendiamo intac care i tempi tecnici del divor zio, ma snellire le lungaggini delle attese burocratiche».

Il Foglio 24.11.09
L’analisi e i consigli di Pannella per Fini

"A me dispiace che Gianfranco Fini si sia fatto troppo coinvolgere nella quotidianità politica". Non è una bacchettata astiosa, quella di Marco Pannella, ma le parole del leader radicale -nel corso della conversazione settimanale con Massimo Bordin ai microfoni di Radio Radicale - sono comunque inaspettate, anche se arrivano al termine di una giornata nella quale sui siti web d`informazione ha campeggiato lo "stronzo" che il presidente della Camera aveva rivolto a "chiunque dà del diverso allo straniero". La distanza dal Pannella che a marzo leggeva negli interventi di Fini "il solo evento politico, radicali a parte, di questi tempi italiani" è evidente, anche se non siderale. Tutto si spiega, basta stare dietro alla serie di riferimenti storici, concentrati in pochi scambi con il direttore di Radio Radicale. Il 1982, innanzitutto. E` l`anno in cui Pannella si azzarda a partecipare al congresso del Msi di Giorgio Almirante. Passano pochi mesi e il giovane Fini, allora segretario del Fronte della gioventù, ricambia la cortesia intervenendo a nome del partito al Congresso dei Partito radicale. E' l`arco costituzionale" che, nei fatti, s`incrina. Fino a rompersi, quando nel `95, sempre Pannella - questa volta a Fiuggi per il congresso di Alleanza nazionale - si felicita per il fatto dì potersi rivolgere ad "amiche e amici", e non più a "signore e signori". E ora forse non va bene (ai radicali) "La svolta" finiana? "Non c`è dubbio vi sia sym-pathos con Fini - ha detto Pannella - perché lui sta crescendo, articolando i valori in obiettivi, come vuole il metodo laico". Ma più che l`accordo sui singoli temi, nei mesi passati Pannella apprezzava il "senso dello stato" dimostrato "nelle sue funzioni istituzionali". "Ora mi dispiace si sia fatto troppo coinvolgere dalla quotidianità. Così rischia di trovarsi coevo di Casini, Rutelli, Bersani, etc. Non c`è fretta invece, glielo avrei detto sicuramente e volentieri di persona".

Corriere della Sera 24.11.09
La lettura dei diari di Claretta Petacci 
Il duce antisemita di antica data. Il suo razzismo nasce molto prima delle leggi del ’38
di Giorgio Fabre

È stato intelligente, ma anche coraggioso, da parte del «Corriere» e di Antonio Carioti, scegliere, come anticipazione dei diari di Claretta Petacci cu­rati da Mauro Suttora ( Musso­lini segreto , Rizzoli), i brani sull’antisemitismo e sul razzi­smo mussoliniano. Coraggio­so perché questo tema sem­bra diventato un tabù, malgra­do le decine di documenti in proposito che sono stati pub­blicati negli ultimi anni. È una strana reazione. Non basta a giustificarla il fatto che Renzo De Felice, di cui molti degli storici che coltivano questo ta­bù sono stati allievi, abbia ne­gato che il Duce sia stato ap­punto razzista e antisemita molto prima delle leggi razzia­li. C’è qualcosa d’altro, in que­ste reazioni. Forse, malgrado tutto, Mussolini viene conside­rato un autentico e profondo padre della patria e un autenti­co e rappresentativo italiano molto più di quanto comune­mente venga detto. È stato co­sì che, anche di fronte ai diari di Claretta, si è visto qualcuno che dubitava, cioè negava veri­tà al «contenuto» di quanto scritto dalla Petacci.
Intanto, bisogna ribadire che non c’è il minimo dubbio che quei diari siano autenticis­simi: arrivarono dal Nord subi­to dopo la guerra insieme a va­ri pacchi di documenti fasci­sti; e da allora sono rimasti chiusi sotto chiave all’Archivio centrale dello Stato. Dopo di che, basta analizzare quei testi e confrontarli con la documen­tazione che conosciamo. E si vede così come anche il «con­tenuto » sia perfettamente in li­nea con la realtà dei fatti.
Due esempi. Il primo è una frase che è già stata contesta­ta, e che Claretta scrisse il 4 agosto 1938. Quel giorno Mus­solini le disse: «Io ero razzista dal ’21». Bene, il giorno dopo Mussolini di persona redasse l’«Informazione diplomatica» n. 18, pubblicata il 6 sui giorna­li, dove venne affermato pub­blicamente, per esteso, che il regime era razzista. In quel­l’ «Informazione diplomatica» il «razzismo italiano» venne fatto risalire al 1919 e poi vi si dice (Mussolini scrisse) che lui stesso aveva fatto la prima affermazione razzista «nel novembre 1921 — ripetiamo 1921». Mussolini aveva dunque detto a Claretta ciò che avrebbe ribadito il giorno dopo per iscritto.
Seconda questione oggetto di contestazione: la faccenda dell’Accademia d’Italia trattata in una pagina del 2 settembre 1938, i giorni dell’elaborazio­ne delle prime leggi contro gli ebrei. «Nel 1929, all’inaugura­zione dell’Accademia dichia­rai che mai e poi mai si sareb­be fatto un accademico ebreo».
Che nel discorso a stampa e forse anche in quello davvero pronunciato il 28 ottobre 1929 non risulti che Mussolini ab­bia detto qualcosa contro gli ebrei, è ovvio: il Duce fino al 1938 non espose agli italiani il proprio antisemitismo. Ritene­va che non gli convenisse e si­curamente non voleva scatena­re l’antisemitismo. Peraltro la testimonianza della Petacci non dice che il Duce fece quel­l’osservazione nel corso del di­scorso. Mussolini potrebbe aver detto qualcosa sugli ebrei in qualsiasi momento della ce­rimonia e anche in privato.
Quel che è certo, ed è prova­to da molto tempo dagli studi di Annalisa Capristo, è che un prestigioso ebreo ormai prati­camente eletto nell’Accade­mia, Federigo Enriques, era stato eliminato dalla lista de­gli eletti (e non era antifasci­sta) e quasi di certo da Musso­lini, tra il 15 e il 18 marzo 1929, sette mesi prima dell’inaugura­zione; in secondo luogo, di «nota pregiudiziale» contro gli ebrei nelle elezioni all’Acca­demia parla con sicurezza una lettera del 23 novembre 1929 di un intellettuale ebreo, Gui­do Fubini, a un altro prestigio­so intellettuale ebreo non elet­to, Tullio Levi Civita. Il 1929 inoltre è costellato di episodi, provati, di antisemitismo di Mussolini: come la minaccio­sa richiesta ai prefetti di sape­re se un certo direttore di filia­le della Banca d’Italia era ebreo. Infine, del 1931 è la can­cellazione da parte del Duce di un prestigioso premio dell’Ac­cademia, ormai assegnato, a Giuseppe Levi, proprio e sen­za dubbio perché «israelita» (testuale) e antifascista.



Corriere della Sera 24.11.09
Se il carcere di oggi ricorda il Seicento
di Paolo Di Stefano

Si dice che per conoscere un Paese basta andare a guar dare le sue galere. Se così fosse, dovremmo ricavarne che l’Italia è da secoli sempre la stessa. Il poeta russo Osip Mandel’štam, che subì la prigionia staliniana, nel suo Discorso su Dante scrisse che «nel subcoscien te degli italiani il carcere svolgeva un ruolo preminente, veniva succhiato col latte. Il Quattrocento imprigionava gli uomini con tale disinvoltura da rendere le carceri accessibili al pubbli co quanto le chiese o i nostri musei». È cambiato qualcosa in cinquecento anni? Poco, se è vero — come osservava Adriano Sofri di recente — che in Italia 30 mila persone all’anno entra no in carcere per uscirne nel giro di tre giorni. La frase di Man del’štam viene ricordata da Andrea Battistini in un saggio con tenuto nel volume Carceri vere e d’invenzione dal tardo Cin quecento al Novecento (a cura di Giuseppe Traina e Nunzio Za go, Bonanno Editore). Battistini si concentra sulla vita carcera ria nel Seicento, ripercorrendo i memoriali in versi e in prosa di scrittori e filosofi finiti in cella durante la Controriforma. È vero che gli scrittori reclusi, in genere, lavorano di metafora e che tra le sbarre Campanella, già tentato dal suicidio, elaborò la sua grande utopia. Ma qualche secolo prima Jacopone, rin chiuso per ordine di Bonifacio VIII in un sotterraneo vescovile, raccontò, in una celebre lauda, di essere costretto a scontare la scomunica al freddo, legato in ceppi e in catene, nutrito di pa ne raffermo e rancida brodaglia che ogni due o tre giorni gli veni va calata dall’alto.
Jacopone ne uscì vivo, ma di maltrattamenti in carcere si pote va morire allora esattamente co me si può morire oggi. Saranno cambiate le forme della tortura, non la sostanza. Il poeta napole tano Giambattista Marino, incar cerato più volte in un’età in cui mancavano i fondamentali diritti umani, riuscì a gettare in far sa la sua pena e si descrisse «fatto rauco, smilzo, lungo e sec co » in una prigione simile a «un infernetto piccolino, come quel fornellino da cocer pasticci». Il siciliano Paolo Maura rac conta che il suo tugurio era abitato da topi che «parianu cavad di burgugnuni», da «scravagghi», da «piducchi» e da cimici che «facianu battagghiuni». La detenzione, secondo lui, era una ragnatela che pigliava solo mosche e non mosconi.
Il bohémien lombardo Fabio Varese passò trenta giorni in cella, dove subì i peggiori tormenti fisici e i flagelli più perver si dai suoi aguzzini, tra cui trenta volte «el foeug ai pé». Sadi smo da «universo concentrazionario», ha scritto Vincenzo Consolo a proposito delle pene inflitte a un altro poeta dialetta le, il siciliano Antonio Veneziano, al tempo di Filippo II. In un capitolo autobiografico, Cervantes fa incontrare Don Chisciot te, in una locanda, con un detenuto che rievoca la sua via cru cis: ogni giorno c’era qualcuno «da impiccare, un altro da im palare, un altro a cui mozzare le orecchie, e ciò per futili moti vi ». In carcere la storia si è fermata. Le immagini che in questi giorni ritraggono il cadavere di Stefano Cucchi potrebbero sta re benissimo nelle memorie di un secolo, come il Seicento, tra i più repressivi e violenti della nostra storia moderna.

lunedì 23 novembre 2009

Corriere della Sera 23.11.09
Obbligo di felicità e solitudine: il dramma delle neomamme
di Silvia Vegetti Finzi


Diventare mamma è stato sem­pre considerato un evento natu­rale e istintivo e si sottolinea il fatto che «quando nasce un bambino nasce una ma­dre ». Il tragico e per fortuna eccezionale fatto accaduto nel Padovano, dove una donna da poco madre di una neonata ha ucciso il primogenito di tre anni, ci ricor­da che le cose non sono così semplici e che, come tutte le relazioni umane, anche quella primaria va preparata e protetta.
Il parto è un evento critico che non si esaurisce con la nascita del neonato ma si protrae per tutto il primo anno, quando il bambino passa dal grembo alle braccia della madre, dal dentro al fuori. Rispetto alla intimità della gravidanza, il parto può essere vissuto come un distacco, una per­dita che suscita un sentimento di lutto. Co­me tale viene aggravato dalla solitudine in cui si trovano molte puerpere da quando la famiglia estesa ha lasciato il posto a quella nucleare. In quei frangenti accado­no momenti transitori di malinconia ma ci si deve preoccupare quando si profila uno stato protratto di depressione. Un di­sagio che colpisce circa il 12 % delle neo­madri e che non deve essere sottovalutato perché le conseguenze, come nel caso di Padova, possono in certi casi essere così gravi da richiedere un vasto programma di prevenzione e informazione.
Spesso la mamma in difficoltà tace per­ché si vergogna di sentirsi depressa pro­prio nel momento in cui tutti si attendo­no da lei il massimo di felicità. Ma il fatto che non chieda aiuto non significa che va­da tutto bene. Chi le sta accanto dovrebbe essere preparato a cogliere i segnali di ma­lessere che invia: insonnia, stanchezza cro­nica, inappetenza, crisi di pianto, ansia e mutismo sono i sintomi più comuni di un disturbo dalle mille sfaccettature. In altri Paesi, come la Francia, una ostetrica com­pie regolari visite domiciliari in modo da offrire aiuto a mamme e bambini spesso isolati. Nella maggior parte delle depres­sioni, dove non c’è un contesto psichiatri­co, le donne in crisi devono comunque es­sere non sostituite ma sostenute perché ri­prendano fiducia nella capacità di essere madri. 



Corriere della Sera 23.11.09
Il procuratore Critico anche sul processo breve: cifre paradossali
Spataro in tv attacca Alfano La maggioranza: eversivo
«Giustizia con logica aziendale». E il Pdl insorge
di Alessandra Arachi

Sandro Bondi: «Non c’è un solo Paese al mondo in cui un magistrato può dire quello che ha detto Spataro»
Antonio Di Pietro «Prendersela con magistrati integerrimi è come avere un tumore e prendersela con il medico»

ROMA — Non esita Arman­do Spataro. Il ddl Alfano sulla ri­forma della giustizia? «È inutile e sembra ispirato ad una logica aziendale, lì dove indica lo sgan­ciamento dei pm dalla polizia giudiziaria». È pacato il procura­tore aggiunto di Milano capo del pool antiterrorismo. Ma molto molto diretto.
Ieri pomeriggio il procurato­re aggiunto di Milano Spataro era seduto sulla poltrona di Lu­cia Annunziata nel programma In mezz’ora di Raitre ed è par­lando del processo per il seque­stro dell’ex-imam Abu Omar e del non doversi procedere per il capo del Sismi Niccolò Pollari che ha detto: «Dei servizi ho ri­spetto per le tante vittime, per la professionalità di tanti loro componenti. Vi sono stati mo­menti in cui hanno dato molto, in altri meno». Ma ben presto sono state le domande sulla ri­forma della giustizia a prendere il sopravvento.
Il processo breve? Spataro non ha dubbi: «Il ministro della Giustizia Alfano non si è accor­to di essersi infilato in un para­dosso: ha detto che soltanto l’1% dei processi subirà uno stop. E allora? La sua frase è evi­dentemente un pericoloso boo­merang. Se ha ragione lui vuol dire che il 99% dei processi fun­ziona egregiamente e il 99% dei cittadini non si lamenta. Dun­que: qual è l’urgenza di fare una legge che, di fatto, non serve?». Accomodato al tavolo con Lucia Annunziata, Spataro ce ne ha avute anche per il ministro del­l’Interno Roberto Maroni: «Sul terrorismo internazionale guai a generare allarmi esagerati, Al Qaeda non esiste più come orga­n izzazione, ormai è un brand...». È deciso Spataro: «In Italia chi gode di più garanzie processuali non sono i terroristi o i mafiosi ma i colletti bian­chi ». E ancora: «È più sicuro Pa­lazzo Grazioli o Palazzo Chigi per il premier? Non lo so, non conosco le due sedi».
Non appena si sono spente le luci negli studi Rai, fuori si so­no accese le polemiche. Il Pdl è partito in massa. Sandro Bondi, ministro della Cultura: «Non c’è un solo Paese al mondo, neppu­re quelli più lontani dalla demo­crazia, in cui un magistrato può dire pubblicamente quello che ha detto Spataro...». Segue a ruo­ta Fabrizio Cicchitto, capogrup­po del Pdl alla Camera: «Tutti i conti tornano: è in pieno svolgi­mento il circo mediatico-giudi­ziario. Basta vedere: dopo In­groia ad Annozero adesso Spata­ro a In mezz’ora ». E anche Da­niele Capezzone, portavoce Pdl: «Con la collaborazione della An­nunziata si è svolta su RaiTre una sorta di Tribuna politica.».
Da Palazzo Madama ci pensa la senatrice Cinzia Bonfrisco a a lanciare la prima bordata: «Quello di Spataro è un vero e proprio tentativo di golpe», an­che se poi è Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, a tirare la bordata più pesante. Dice infatti : «Spataro e In­groia? Siamo evidentemente di fronte ad un’azione eversiva contro la lega­lità democrati­ca del Paese dove gli Abu Omar e gli Spatuzza di­ventano i cam­p ioni. Che due giudici co­me loro indos­sino la toga per i propri di­segni politici è motivo di in­quietudine ».
Immediata la replica di Antonio Di Pietro, ex-pm oggi leader dell’Italia dei Valori: «Prendersela con magistrati in­tegerrimi co­me Spataro ed Ingroia, che per tutta la vita hanno combattuto terrorismo e criminalità orga­nizzata, è come prendersela con il medico quando si è affet­ti da tumore». 


Corriere della Sera 23.11.09
Londra Il caso dell’uomo che scambiò la compagna a letto per un ladro
Il killer sonnambulo assolto «L’amnistia dell’inconscio»
Ha strangolato la moglie. I medici: andava punito
di Mario Pappagallo 


MILANO — Si muovono co­me se fossero svegli, ma in real­tà dormono. Sonnambuli. Pos­sono anche guidare l’auto, ma meglio non svegliarli. L’aggres­sività è una delle reazioni lega­te alla paura della sorpresa. Non sanno quel che fanno e nemmeno ricordano nulla do­po, al mattino quando si sve­gliano. Caso mai stanchi, ma si­curi di aver profondamente dor­mito. A volte, il sonnambuli­smo è un alibi: storie di infedel­tà giustificate con un disturbo che ha sempre attirato la fanta­sia di scrittori, registi, musici­sti. «La sonnambula» di Vincen­zo Bellini (1831) ne è un esem­pio. E creato miti e leggende.
Non solo. Il sonnambulismo è anche al centro di eventi giu­diziari. L’ultimo è da romanzo giallo: uxoricida sonnambulo assolto per malattia. Un uomo, con alle spalle una lunga storia di sonnambulismo, ha ucciso la moglie, strangolandola, men­tre dormivano assieme nel loro camper. In Galles. Brian Tho­mas, 59 anni, ha detto di aver avuto un incubo e di aver credu­to, nel sonno, che dei ladri fos­sero entrati nel camper, mentre si trovava in vacanza con la mo­glie, Christine, 57 anni. I giudi­ci all’inizio avevano stabilito che era insano di mente e ne avevano chiesto il ricovero in un ospedale psichiatrico. Ma successivamente hanno accerta­to che Thomas soffriva di di­sturbi del sonno e che la sua mente non esercitava alcun con­trollo sul corpo quando ha strangolato la moglie: assolto. «Assurdo e grave — commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano —. Avrei concesso tutte le atte­nuanti, ma mai l’impunità. Il sonnambulismo negli adulti è sempre collegato a psicopatolo­gie note. Sono in cura e posso­no essere controllati». E l’incon­scio? L’inconscio che agisce prendendo il sopravvento sul conscio? «Certo. I miei pazienti sonnambuli registrano anche quello che dicono nel loro stato di parasonnia motoria — confi­da Mencacci —. A volte verità scomode. 'Ho detto questo? Non è possibile... però a pensar­ci bene è vero', è il commento più comune quando si riascolta­no ». Eppoi c’è il libero arbitrio. «Nonostante i progressi nel campo delle neuroscienze e le continue sorprese, nessuna fi­nora può intaccare il libero arbi­trio di un individuo», commen­ta ancora Mencacci. Insomma, il sonnambulismo non può con­cedere impunità. Anche per­ché, in questo modo, uno come mister Thomas sarebbe autoriz­zato a commettere qualsiasi rea­to senza conseguenze. Stia at­tenta un’eventuale nuova mo­glie.
La cronaca. Mister Thomas dormiva con la moglie in un camper. Erano in vacanza. Di­sturbati da un gruppo di ragaz­zi, si sono poi riaddormentati. Ma l’uomo ha avuto un incubo e ha strangolato la moglie. Si è risvegliato, ore dopo, con accan­to la compagna morta. Dram­matica la telefonata alla polizia: «Credo di aver ucciso mia mo­glie... Oh mio Dio, lottavo con quei ragazzi, ma era Christine. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?», ha ripetuto più volte. Piangeva e tremava. Dovevano festeggia­re i 40 anni di matrimonio. «Si tratta di un caso quasi unico in Gran Bretagna e se ne contano circa 50 in tutto il mondo», ha commentato il capo della Procu­ra londinese, Iwan Jenkins.
Forse Christine ha svegliato il marito e lui ha reagito in mo­do aggressivo... «Possibile — dice Mencacci —, ma non suffi­ciente ad assolverlo. Io la penso così». Un mito da sfatare è quel­lo che svegliare un sonnambu­lo potrebbe causargli un infar­to, danni al cervello o qual­cos’altro di grave. Non è un mi­to, invece, che sia pericoloso per chi lo sveglia. «In letteratu­ra sono stati registrati casi di uomini che nel sonno hanno uc­ciso o tentato di uccidere la pro­pria moglie», spiega Giuseppe Plazzi, neurologo dell’universi­tà di Bologna, autore di una re­view sul sonnambulismo pub­blicata da Neurological Scien­ces .
Che cosa ha scritto Plazzi? Che il 30% dei bambini fra i 5 e i 12 anni vive almeno un’espe­rienza di sonnambulismo, che in circa il 3% è persistente. E che, invece, si manifesta occa­sionalmente nel 2-3% degli adulti.
Nei bambini, crescendo pas­sa. Negli adulti è collegabile a psicopatologie. C’è una familia­rità. Chi ne soffre può anche avere episodi una volta a setti­mana. Durata: 15-20 minuti. Lo stress può esserne causa, come pure la privazione di sonno, l’al­col e la droga.
I sonnambuli sono in grado, mentre dormono, di guidare la macchina, rispondere a doman­de, ascoltare a tutto volume la radio, abbuffarsi di cibo, fare sesso... uccidere la moglie. Sen­za poi ricordare nulla.



Corriere della Sera 23.11.09
Risvegli aggressivi 
I neurologi: «Attenti a non svegliarli. Confusi e impauriti, possono essere molto aggressivi»

Brian Thomas assieme alla moglie. L’uomo è stato processato per averla strangolata, ma è stato assolto per il particolare tipo di sonnambulismo di cui soffre
Il sonnambulismo colpisce soprattutto nell’infanzia e accompagna in modo persistente le notti del 3% dei bambini fra i sei e i sette anni.

Si manifesta occasionalmente anche nel 2-3% degli adulti.

Sopraggiunge nella prima parte del sonno, quando si entra nel sonno profondo non-Rem, causato da un risveglio incompleto. In questa fase il corpo può compiere movimenti, le attività cerebrali sono al livello più basso e lo stato di coscienza è minimo

Le cause
Può essere determinato da fattori che provocano risvegli, per esempio le apnee notturne, o che aumentano la durata del sonno profondo, come febbre, abuso di alcol, mancanza di riposo, farmaci ipnotici. C’è anche una familiarità. Un episodio di sonnambulismo può durare da 15 a 20 minuti
La terapia
Nei bambini si risolve di solito spontaneamente con l’adolescenza, negli altri casi si può tenere bene sotto controllo con un sonno regolare, sane abitudini di vita e terapie mirate a risolvere le cause che determinano il disturbo. Un sonnambulo non necessariamente cammina per casa: può semplicemente avere un sonniloquio, cioè sedersi sul letto ed emettere qualche suono o parola. Buona regola è non svegliare un sonnambulo: il repentino ritorno a una condizione di coscienza potrebbe causare reazioni aggressive L’opera
«La sonnambula» è un’opera semiseria in due atti messa in musica da Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani. È considerata con «I puritani» e «Norma» uno dei tre capolavori del compositore catanese, che la compose in soli due mesi, mentre si trovava a Moltrasio, nella villa dei Conti Lucini Passalacqua, vicino all’abitazione di Giuditta Turina, una giovane con cui intratteneva una relazione. L’opera debuttò al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo del 1831: la trama del contrastato amore tra Amina ed Elvino culmina nella celebre aria «Ah, non credea mirarti», che la protagonista canta in stato di sonnambulismo (nella foto Nathalie Dessay in scena al Teatro alla Scala di Milano)

Corriere della Sera 23.11.09
Il discorso pronunciato dal Führer nel suo quartier generale quattro mesi prima di morire Hitler: non conosco la parola resa
«Lottiamo per esistere, se perdiamo l’Europa sarà bolscevica»


Giunto all’ultimo colpo di coda, Adolf Hitler si dice certo della vittoria. Il discorso di cui ripor­tiamo la parte iniziale risale al 28 dicembre 1944. Il Führer lo tiene nel suo quartier generale in As­sia, detto «nido d’aquila» (da non confondersi con l’altro «nido d’aquila» nelle Alpi bavaresi). Il testo è tratto dal secondo volume, in libreria da domani, della raccolta «I verbali di Hitler» (Li­breria Editrice Goriziana, pp. 563, € 35), versio­ne italiana, tradotta da Flavia Paoli, dell’opera in cui lo storico Helmut Heiber ha riordinato i resti dei resoconti stenografici delle riunioni tra il Führer e i vertici militari, in gran parte distrutti al termine della guerra. Il primo volume, di cui il «Corriere» ha pubblicato un estratto il 2 settem­bre, comprende gli anni 1942-43, il secondo il pe­riodo 1944-45. Questo discorso viene pronuncia­to al culmine dell’offensiva delle Ardenne, tenta­tivo disperato del Terzo Reich di rovesciare le sorti della guerra a Ovest. Hitler confida nella consapevolezza dei tedeschi che la sconfitta por­terebbe al loro annientamento e alla bolscevizza­zione dell’Europa. Gli angloamericani, afferma, non possono fermare il comunismo, come dimo­strano le difficoltà dei britannici con i partigiani greci e non si battono per la loro esistenza. Quin­di la determinazione superiore dei tedeschi può ancora piegarli. ( A. Car.)

Miei signori! Vi ho invitati qui prima di un’azione dalla cui riuscita dipen­deranno ulteriori colpi in Occiden­te. Intanto vorrei mettere in luce brevemente il giusto significato di quest’unica azione. Vorrei metterla in relazione con la gran­de situazione nella quale ci troviamo e con i pro­blemi che ci sono posti e che, sia che li risolvia­mo felicemente o infelicemente, certamente tro­veranno una soluzione: in un caso a nostro favo­re, nell’altro con il nostro annientamento.
In questa guerra, come già nella guerra mon­diale, non si tratta di decidere se alla Germania verrà accordata una forma di esistenza benevola in caso di vittoria dei nostri avversari, ma si trat­ta di decidere se la Germania vuole continuare a esistere o se verrà annientata. In questa guerra non viene deciso un problema di organizzazione statale, come forse avveniva nelle guerre del XVII o del XVIII secolo, ma alla fine viene decisa l’esi­stenza dell’essenza del nostro popolo; non l’esi­stenza del Reich Tedesco, ma l’esistenza dell’es­senza del popolo tedesco. Una vittoria dei nostri nemici porta necessariamente alla bolscevizza­zione dell’Europa. Che cosa la bolscevizzazione significhi per la Germania deve essere chiaro e sarà chiaro a tutti. Non si tratta di una questione di cambiamento di Stato. Cambiamenti di Stato sono avvenuti innumerevoli volte nella vita dei popoli; vanno e vengono. Qui si tratta dell’esi­stenza della sostanza in sé. Le sostanze o vengo­no mantenute o eliminate. Il mantenimento è il nostro obiettivo. L’eliminazione potrebbe an­nientare per sempre una razza.
Battaglie come le attuali portano in sé il carat­tere di conflitti ideologici e spesso durano molto a lungo. Anche per questo esse non sono parago­nabili alle battaglie del periodo fridericiano. Allo­ra si trattava di una nuova grande potenza tede­sca che si faceva strada e questa grande potenza, vorrei dire, doveva ottenere combattendo lo sta­tus di grande potenza europea. Oggi però per la Germania non si tratta di dimostrare il suo valo­re come grande potenza europea, invece il Reich tedesco sta conducendo una guerra ideologica per esistere o non esistere. La vittoria stabilizze­rà definitivamente questa grande potenza, che già esiste per numeri e valore, e la sconfitta di­struggerà e smembrerà il popolo tedesco. Solo qualche settimana fa avete sentito le dichiarazio­ni di Churchill, ha detto che tutta la Prussia orien­tale, parti della Pomerania e della Slesia superio­re — forse tutta la Slesia — verranno date ai po­lacchi; i 7 o 10 o 11 milioni di tedeschi dovranno essere cacciati. Spera comunque di poterne eli­minare altri 6 o 7 milioni con gli attacchi aerei, così lo sfratto non creerà grandi difficoltà. Que­sta oggi è la dichiarazione razionale di un poten­te uomo di Stato in un’assemblea pubblica. Pri­ma una cosa così sarebbe stata definita una men­zogna propagandistica. Qui si dice qualcosa che non corrisponde nemmeno lontanamente a quel­lo che accadrebbe in realtà perché, se la Germa­nia crollasse, l’Inghilterra non è assolutamente in grado di opporre una reale resistenza al bol­scevismo. Questa è una teoria debole. In queste ore, nelle quali il signor Churchill con una peno­sa figuraccia si ritira da Atene e non è in grado di affrontare il bolscevismo nemmeno in un ambi­to così ristretto, in questo momento quell’uomo vuole risvegliare l’impressione di essere capace di contenere su qualche confine europeo l’avan­zata del bolscevismo. È una fantasia ridicola. L’America non può farlo e non può farlo l’Inghil­terra. L’unico Stato, il cui destino alla fine è mes­so in gioco da questa guerra, è la Germania che o si salva o, se dovesse perdere questa guerra, an­drà a fondo.
Vorrei aggiungere subito: da quanto dico non traete la conclusione che io pensi anche solo lon­tanamente alla possibilità di perdere la guerra. Nella mia vita non ho mai conosciuto il concetto di capitolazione e io sono uno di quegli uomini che si sono fatti strada dal nulla. Per me quindi la situazione nella quale ci troviamo oggi non è nulla di nuovo. Una volta la situazione per me era molto peggiore. Lo dico solo perché com­prendiate perché perseguo il mio obiettivo con tanto fanatismo e perché nulla può piegarmi.
Per confutare al meglio l’obiezione che in que­ste cose si dovrebbe pensare con razionalità mili­tare basta un breve sguardo alla grande storia mondiale. La riflessione razionalmente militare ad esempio dopo la battaglia di Canne avrebbe assolutamente convinto tutti che Roma era per­duta. Abbandonata da tutti gli amici, tradita da tutti gli alleati, con il nemico alle porte dopo la perdita dell’ultima armata ancora in grado di combattere, ciò nonostante la fermezza del Se­nato — non del popolo romano in sé, ma la fer­mezza del Senato, del comando — allora ha sal­vato Roma. Nella nostra storia tedesca abbiamo un esempio simile. È la Guerra dei sette anni, nella quale già il terzo anno in innumerevoli or­gani di carattere militare e politico prevaleva la convinzione che la guerra non si sarebbe mai po­tuta vincere. Doveva essere perduta anche in ba­se alle normali valutazioni; perché 3,7 milioni di prussiani affrontavano circa 52 milioni di euro­pei. Ciò nonostante questa guerra è stata vinta. Quindi in conflitti come questo l’atteggiamento mentale è realmente uno dei fattori decisivi. Es­so permette di trovare sempre nuove vie d’usci­ta e di mettere in movimento nuove possibilità. Soprattutto è decisivo sapere che anche il nemi­co è costituito da esseri umani che hanno carne e sangue, che hanno nervi e che non devono combattere per la loro esistenza. Cioè: questo ne­mico non sa, come noi, che si tratta di esistere o non esistere. Se anche gli inglesi perdessero la guerra, per loro non è così decisivo di fronte a quello che hanno già perduto con la guerra in sé. L’America non perderà lo Stato e non perde­rà l’essenza del popolo. Ma la Germania combat­te per esistere o non esistere. Tutti potete valuta­re che il popolo tedesco lo ha capito. Basta che guardiate i giovani tedeschi di oggi e li confron­tiate con i giovani della guerra mondiale. Nel 1918 il popolo tedesco si è arreso senza necessi­tà. Oggi resiste e resisterà imperturbabile.
Com’è la situazione dal punto di vista milita­re? Chi segue i grandi conflitti della storia mon­diale trova spesso situazioni di carattere simile, forse situazioni molto più gravi. Perché non si deve dimenticare che stiamo ancora difendendo un territorio più grande di quanto fosse allora la Germania e disponiamo di una forza armata che anche oggi, presa in sé, è la più forte sulla terra. In questo sta la dimostrazione della forza del po­polo tedesco, ma anche dei soldati tedeschi che in fondo sono un’emanazione della forza popola­re.

domenica 22 novembre 2009

Repubblica 22.11.09
Il Papa: "La fede non toglie nulla al genio"
Inno alla bellezza davanti a quasi 300 artisti. Bellocchio: assente per coerenza
Monsignor Ravasi: ecco un momento per rilanciare l’amicizia tra l’arte e la Chiesa
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «Cari artisti, non abbiate paura di dialogare con i credenti, con chi, come voi, è alla ricerca della bellezza. La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre». Mano tesa e cuore aperto di papa Ratzinger al mondo dell´arte, ieri, nella michelangiolesca Cappella Sistina. Davanti a 266 artisti provenienti da tutto il mondo, Benedetto XVI è praticamente tornato a spalancare le porte della Chiesa a tutte le discipline artistiche con l´intento di ricucire quella sorta di "strappo" che negli ultimi anni era stato all´origine della lontananza tra arte contemporanea e gerarchie cattoliche. Duplice il motivo dell´incontro, celebrare il decennale della Lettera agli artisti scritta il 4 aprile 1999 da Giovanni Paolo II e il 45esimo anniversario del primo storico incontro tra un papa, Paolo VI, e il mondo dell´arte, del 7 maggio 1964. Due pontefici, Wojtyla e Montini, autori di altrettanti «significativi gesti» concepiti per «rilanciare l´amicizia tra l´arte e la Chiesa che tanti frutti aveva generato nei secoli passati», come spiega in apertura l´arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura.
Ad ascoltare Ratzinger alcuni tra i più bei nomi delle più disparate discipline artistiche dall´Italia e dall´estero. Ma con una defezione, anche polemica. Il regista Marco Bellocchio è rimasto al Torino Film Festival. «Per coerenza - spiega - Ci deve essere corrispondenza tra quello che si fa e ciò in cui si crede. Se credo che l´aborto non sia assassinio e che il crocifisso incomba nelle scuole ad applaudire il Papa non ci vado». All´ombra delle bibliche figure della Sistina c´erano invece artisti come Jannis Kounellis, Arnaldo Pomodoro, Bill Viola, grandi architetti (Mario Botta, Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Santiago Calatrava, Zaha Hadid), scrittori, tra i quali Affinati, Bevilacqua, Camon, La Capria, Tamaro. Ma anche una nutritissima pattuglia di cantanti e musicisti (tra gli altri Baglioni, Bocelli, Cocciante, Ranieri, Morricone, Venditti, Vecchioni, i Pooh) e di registi, tra cui Pupi Avati, Mario Monicelli, i fratelli Paolo ed Emilio Taviani, Giuseppe Tornatore e Nanni Moretti. Tra gli attori, Piera Degli Esposti, Raul Bova, Lino Banfi, Franco Nero e tanti altri. Sergio Castellitto è l´unico a prendere la parola prima del Papa per leggere stralci della Lettera agli artisti di Wojtyla, nella quale il pontefice polacco indicò nella ricerca della bellezza «il punto di incontro» tra arte e Chiesa. Un concetto rilanciato con forza da Benedetto XVI, ma con un´aggiunta teologica che, in un certo senso, spiazza qualche ospite presente, sostenendo che «la ricerca del bello e dell´arte porta anche alla riscoperta del Trascendente e, in ultima analisi, di Dio». Da qui il deciso invito a «tutti voi, cari artisti, a non avere paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza». «Cari artisti - ribadisce Ratzinger - voi siete custodi della bellezza, voi, grazie al vostro talento, avete la possibilità di parlare al cuore dell´umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, siate perciò grati dei doni ricevuti e fatevi comunicatori di bellezza attraverso la bellezza. La Chiesa è con voi». La mano tesa del Papa viene accolta da un lungo applauso finale e da espressioni di consenso da parte di quasi tutti i presenti. Qualcuno, come Susanna Tamaro si augura «che non sia solo una manifestazione di facciata». Altri si rallegrano per l´attenzione mostrata da Ratzinger all´arte «senza dimenticare la musica e la canzone popolare», ricorda Massimo Ranieri, al quale fa eco il collega architetto Claudio Baglioni, che parla di una «iniziativa importante e necessaria».

Corriere della Sera 22.11.09
Vaticano Nella Cappella Sistina, 45 anni dopo Paolo VI
Benedetto e gli artisti: la fede nutre il genio
Storico incontro. Bellocchio: io ho detto no
di G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — La bellezza salverà il mondo, dice­va Dostoevskij, ed è per questo che agli artisti, «custodi della bellezza nel mondo», Benedet­to XVI fa arrivare il suo invito «all’amicizia, al dialogo, alla col­laborazione » e ripete le parole che Paolo VI scandì loro duran­te il primo incontro di 45 anni fa, come ieri nella Cappella Sisti­na: «Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha biso­gno della vostra collaborazio­ne ». Per converso, il Papa chie­de agli artisti di «non aver pau­ra » di confrontarsi con «la sor­gente prima della bellezza», Dio: «La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre».
Pittori e scultori, architetti, scrittori e poeti, cantanti e mu­sicisti, registi e attori di cinema e teatro, e ancora danza e foto­grafia. Più di 260 artisti da tutto il mondo, soprattutto italiani ed europei, hanno risposto ieri all’invito del Papa. Ma questa settimana, in Vaticano, i telefo­ni hanno squillato «giorno e notte» perché «tanti chiedeva­no di partecipare, specie nomi inattesi», spiega l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, artefice del­l’incontro. Alcuni, come Dario Fo, non hanno ricevuto inviti, anche se il Nobel non se la pren­de: «Mi sarei sorpreso del con­trario, io sono quello da caccia­re, così c’è stata armonia. Se sa­rei andato? Dipende dalle condi­zioni... ». Il regista Marco Belloc­chio, invece, era stato invitato: «Avevo detto sì, ma poi per coe­renza non sono andato».
Eppure, in un momento se­gnato «da fenomeni negativi a livello sociale ed economico» ma soprattutto dall’«affievolir­si della speranza» nel mondo, da «rassegnazione, aggressivi­tà, disperazione» crescenti, il Papa assegna agli artisti un ruo­lo decisivo per restituire «entu­siasmo e fiducia». Dietro di lui, il Giudizio Universale di Miche­langelo («apoteosi del rapporto tra arte e religione», alza lo sguardo incantato il regista Pe­ter Greenaway) mostra insie­me «la tensione verso la felici­tà » e il «pericolo della caduta», un «grido profetico contro il male e l’ingiustizia». La bellez­za dà una «scossa», può far sof­frire ma tende al trascendente. Il Papa cita Hermann Hesse: «Arte significa: dentro ogni co­sa mostrare Dio».
E gli artisti ascoltano attenti, applaudono a lungo, anche se nella Sistina si sente pochino: «Discorso sottile, ma ne avrò sentito la metà: ora vedo a leg­gerlo », spiega lo scultore Arnal­do Pomodoro. Massimo Ranie­ri si augura «un nuovo mecena­tismo ». Paolo e Vittorio Taviani commentano: «Speriamo che le parole del Papa siano apprezza­te da chi sta al potere nel mon­do, e soprattutto in Italia». Giu­seppe Tornatore annuisce: «Il discorso è una carezza alla cul­tura in un periodo che riceve so­lo schiaffi». Giacomo è arrivato senza Aldo e Giovanni («non li hanno invitati, scriva che è col­pa mia») ma preparato: «Cono­sco bene le riflessioni di Wojty­la ». Lo scrittore iraniano Kader Abdolah ha una sciarpa verde «per dare voce al mio popolo che chiede libertà», il regista israeliano Samuel Maoz consi­dera: «Mi pare che il Papa abbia detto un grande no all’odio e al­la guerra e un grande sì all’amo­re e all’arte». Non c’è stato tem­po per parlare, cosa avrebbero chiesto al Papa? Il poeta Davide Rondoni ride: «Gli avrei detto: non mollarci!».

Corriere della Sera 22.11.09
Fuori programma
Monsignor Ravasi dice sì al film di Moretti sul pontefice che va in analisi
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — Sarà la suggestione, il fatto di sapere che sta preparando un film sulla storia d’un Papa de­presso che si rivolge a uno psicanalista — titolo di lavorazio­ne: Habemus Papam — ma quando Nanni Moretti entra nel­la Sistina, si siede in una fila di mezzo e fissa sugli affreschi e sul pontefice lo sguardo serio, intento e un po’ nevrotico del suo vecchio alter ego Michele Apicella, dà quasi l’impres­sione d’essere arrivato lì per un sopralluogo. Che abbia pre­so molto sul serio il suo compito, con buon pace di chi già s’aspetta una commedia «irriverente» o una banale provoca­zione, lo dimostra del resto il giudizio benevolo e la rivela­zione di monsignor Gianfranco Ravasi: «Negli ultimi tempi ci siamo sentiti e visti, Nanni Moretti mi ha fatto leggere la sceneggiatura: un’idea interessante, che non si sofferma sul tema del 'potere' ma cerca una visione psicologica...».
Quando gli artisti, alla fine, sfilano davanti a Ravasi per ricevere la medaglia commemorativa, è il regista romano, sorridente, a parlare più a lungo con l’arcivescovo. Poi s’al­lontana, alza la mano davanti ai giornalisti come a dire «non parlo» e sparisce dalla circolazione. Certo è interessan­te che lui, così riservato sul suo lavoro, desiderasse far cono­scere il contenuto del prossimo film al «ministro» vaticano per la cultura. Ma non c’era chi già s’aspettava uno «scanda­lo » o qualcosa del genere? «Qualcuno magari lo vedrà come una provocazione, vedremo come sarà il film, ma dalla sce­neggiatura non mi pare il caso», sorride monsignor Ravasi. «Il testo vuole analizzare la figura di un Papa come persona. È la storia di un uomo che si sente incapace d’es­sere all’altezza della mis­sione che gli è stata data.
E non c’è polemica, mala­nimo verso il presunto 'potere', la sua crisi na­sce anzi dallo splendore, dalla grandezza del com­pito che gli hanno affida­to. Tant’è vero che alla fi­ne il Papa chiede di prega­re per lui».
Viene in mente La messa è finita , le parole di don Giulio davanti alla madre che s’è uccisa: «Ero felice quando uscivo con te, mi sentivo al sicuro da piccolo perché sapevo che c’eri tu. È bello essere bambini, non avere responsabilità, nessuno che ti chiede niente». Soprattutto viene in mente il proposito di «rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mon­do dell’arte» appena detto da Benedetto XVI. «Adesso si trat­ta di continuare, la prossima meta sarà la Biennale di Vene­zia 2011: la Santa Sede, per la prima volta, sarà presente con un proprio padiglione», conferma monsignor Ravasi. E spie­ga: «Vorrei rivolgermi a sette-otto artisti di altissimo livello e di tutto il mondo, a cominciare dall’Africa. E dare loro co­me spunto i primi undici capitoli della Genesi, non tanto per rappresentarli ma perché lì si trovano già tutti i temi fondamentali: la creazione, il male, la coppia, l’amore, la vio­lenza familiare e sociale, le decreazione e la rovina — quin­di l’ecologia, il diluvio! —, l’oppressione imperialistica di Babele e così via. Così avranno un testo di riferimento, non dei simboli che possono diventare una cosa new age...».
L’importante è proseguire il dialogo e allargare gli oriz­zonti. «Avevano chiesto di partecipare anche i rappresentan­ti della moda», allarga le braccia l’arcivescovo. «Si potrà fare un passo verso di loro, magari facendo in modo di strappa­re l’orizzonte della moda dalla pura provocazione, l’autorefe­renzialità, l’esercizio stilistico fine a se stesso, verso una ve­ra rappresentazione artistica: anche i vestiti lo possono esse­re, pensi all’arte liturgica...».

Repubblica 22.11.09
L’incontro con Zaha Hadid, Archistar

Oggi è fondamentale saper leggere la città nella sua nuova, complessa identità e intervenire con un´invenzione che tenga conto di stratificazioni storiche e culturali
È tra le poche donne entrate nel gotha dell´architettura. Nata a Bagdad, si divide tra Londra, dove vive, e il resto del mondo, che continua ad accogliere con favore i suoi progetti L´ultimo realizzato è il MAXXI di Roma, paragonato dal "New York Times" a un´opera di Bernini. Ma per lei corrisponde solo a quelle che sono le sue idee. "Lo spazio - dice - deve essere un luogo in cui le persone si sentano bene. Questo è il vero lusso"

ROMA. È l´architetto donna più famoso al mondo, vincitrice del Pritzker Prize nel 2004, l´equivalente del Nobel per l´architettura, ma lei non ne fa una questione personale. «Il merito non è mio, è dello studio. Davvero. La formula vincente è il team. E il lavoro duro». Elegante e rigorosa nella camicia di Yamamoto blu scuro dal taglio asimmetrico come la sua architettura, occhi castani e determinati, resi ancor più decisi dall´eyeliner, Zaha Hadid, è a Roma per l´apertura del suo progetto più ambizioso, il MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. Il New York Times l´ha già paragonato per la sua portata innovativa all´architettura del Bernini.
E, in effetti, il MAXXI è un potente simbolo del contemporaneo, che lancia piani inclinati e apre gigantesche vetrate sulla città, creando un magico cortocircuito fra architettura e paesaggio. In questo Zaha Hadid è maestra. Lei, che ha il talento di scandire gli edifici in linee fluide e campi magnetici, e di collegarli idealmente all´urbanistica e alla natura, dalle stratificazioni storiche alla morfologia geologica.
In questo brillante pomeriggio d´autunno è seduta a un tavolo di fortuna installato al piano terreno fra ponti aerei, pareti curve e soffitti altissimi. Intorno tutto si muove, centinaia di persone lavorano all´inaugurazione, mentre lei che è a Roma con il suo socio Patrick Schumacher, diversi progettisti dello studio, i fotografi, l´intero staff di comunicazione, e la pierre londinese Erika Bolton, osserva immobile, come una sfinge, che tutto proceda per il verso giusto e intanto si racconta.
«Sono venuta per la prima volta nel 1998, qui c´erano ancora le caserme, ho visto il posto, e l´ho rivisto. Nei i primi tre anni ho continuato a venire almeno una volta al mese. E anche quando ero altrove pensavo al progetto, l´avevo sempre in mente. Succede così quando cerco un´idea. Faccio disegni su disegni, a mano. Contemporaneamente anche lo studio sviluppa il pensiero con altri disegni, dipinti, modelli, fino a che, a un certo punto, il concetto si staglia nitido. Da quel momento parte un lavoro intensissimo al computer per renderlo perfetto, dall´architettura, ai dettagli più piccoli».
Nata a Bagdad nel 1950, laureata a Beirut in matematica, e poi a Londra all´Architectural Association School (Aa), la scuola dell´avanguardia dove studia con Rem Koolhaas, Zaha Hadid parla di cultura mediorientale. «Ho lasciato Bagdad a sedici anni, è una città che amo. Sono le mie radici, la mia cultura d´origine. È trent´anni che non ci torno. Non ho più famiglia lì. Ma prima o poi ci andrò, è fra i miei desideri. Ho il ricordo di uno stile di vita e di una cultura eccellenti». Ma Hadid non è il tipo da perdersi in nostalgie, e passa subito al periodo londinese.
«Nel 1972 arrivo a Londra da Beirut. Avevo già molti amici perché da alcuni anni vi passavo le estati. Londra negli anni Settanta era il fulcro della sperimentazione e del pensiero, lì succedeva tutto. Era il posto giusto per me. Anche se, devo dire, allora non c´erano molti stranieri, soprattutto se varcavi il confine della metropoli. Se eri straniera, eri considerata con un pizzico d´esotismo, ma al tempo stesso con un´esperienza diversa da spendere».
E quest´esperienza Hadid la spende subito nella stessa Aa. «Mi sono laureata un giorno e il giorno dopo ho iniziato a insegnare. È un mestiere che mi piace perché posso sperimentare e condividere. Tu sei quello che pone i problemi da risolvere. Ed è curioso vedere come risponde una classe di venticinque persone. Hai venticinque risposte». È lo stesso periodo in cui, dopo un breve passaggio all´Oma, Office for Metropolitan Architecture, di Rem Koolhaas e Elia Zenghelis, fonda il suo studio: è il 1979.
Oggi nello studio Zaha Hadid Architects, un´ex scuola del Diciannovesimo secolo a Clerkenwell, in centro a Londra, lavorano duecentocinquanta architetti di ogni nazionalità. Lei vive a dieci minuti a piedi. E, nei rari momenti in cui non lavora, nuota. «L´acqua è il mio elemento, mi rilassa». Il suo studio è un laboratorio sperimentale dove lei, che ha messo in crisi il concetto di spazio come entità assoluta, scardinato la prospettiva unica in favore della molteplicità dei punti di vista, cerca la soluzione per un´architettura contemporanea in cui vivere bene.
«Lo spazio architettonico deve essere un luogo in cui le persone si sentano bene, come quando si trovano in un paesaggio naturale. È questo il vero lusso, indipendentemente dal costo: uno spazio che trasmetta emozioni, che sviluppi visioni». E la sua è un´architettura di visioni, a iniziare dai primi progetti come la piccola stazione dei pompieri nella sede della fabbrica Vitra a Weil am Rhein in Germania, al confine con la Svizzera. «Nella Fire Station, ho avuto la possibilità di sperimentare liberamente, e di realizzare visioni che avevo disegnato sulla carta. Qui ho tradotto in tre dimensioni la compresenza di piani e linee che si intersecano. Ho ritagliato aperture asimmetriche che fanno entrare nell´architettura squarci e visioni del paesaggio con un taglio, a volte, addirittura inaudito».
Zaha Hadid parla rapidamente in inglese, focalizza un tema, e poi parte in una serie di declinazioni seguendo un pensiero netto ma che si dirama in varie direzioni, a volte si ferma un attimo a riflettere, osserva un dettaglio dell´architettura del MAXXI, che qui dal piano terra si apre su una piazza che fa parte dell´edificio, e riprende il discorso.
«Per la Fire Station avevo fatto veramente molti disegni, e persino dipinti. No, non mi considero una pittrice, ma a un certo punto, negli anni Ottanta e Novanta, non c´era disegno tecnico, o un altro mezzo che mi desse la stessa possibilità della pittura di realizzare le visioni che avevo in mente». L´architetto ama l´arte. Il punto di non ritorno per la sua architettura è il Suprematismo, e in particolare Malevic, che ama moltissimo. È a lui che deve l´intuizione di liberarsi dalla forza di gravità. In senso metaforico ovviamente. «Il Suprematismo è l´inizio della sperimentazione fuori dalle linee tracciate. È la possibilità di un dipinto nero su nero, della frammentazione, della levità, di suggestioni visionarie mai immaginate prima. E che prima di me hanno influenzato l´architettura modernista da Mies van der Rohe in poi».
Hadid tocca così tanti argomenti che è affascinante seguirla, cita un termine, un nome, e si aprono una serie di link, riferimenti, storie e geografie. Quando parla di Suprematismo non si può non pensare al suo memorabile allestimento al MoMA di New York per la mostra The Great Utopia sull´Avanguardia russa. «L´affollamento e la densità del nostro allestimento fecero scalpore. Potevi guardare la mostra da diversi punti di vista, scegliere un sentiero personale, andare avanti e tornare indietro, non mi è mai venuto in mente di indicare un percorso. D´altra parte le opere dei suprematisti non erano state pensate per essere isolate in un cubo bianco ma per stare all´interno di un "cosmo"».
Il concetto di museo di Zaha Hadid è l´opposto del white cube minimalista. Persino quando sceglie una mostra predilige installazioni e luoghi particolari, come una delle ultime che ha visitato di recente, quella con i dipinti blu di Damien Hirst nella ex dimora ottocentesca di Sir Wallace a Bloomsbury. «Trovo interessante la scelta di Hirst di questo posto, e anche di imparare a dipingere». Pare sia la mostra più criticata della stagione internazionale ma, si sa, Hadid non segue strade battute e, in genere, vede lontano. Di musei ne ha visti a tutte le latitudini terrestri, fra i suoi favoriti il Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York per il suo dinamismo.
I preparativi al MAXXI continuano, fotografi e operatori riprendono fino ai dettagli questi spazi inondati di luce, Sasha Waltz e la sua compagnia studiano la coreografia che interpreteranno nel MAXXI ancora vuoto. Qualcuno dello staff si avvicina a Zaha Hadid. «It´s over?», domanda lei. La lista di appuntamenti è fitta, sono solo le tre del pomeriggio, questa sera ci sarà un´altra apertura e dopodomani l´architetto riprenderà l´aereo. «Viaggio moltissimo, non ho un giorno uguale all´altro. Penso e non smetto mai di pensare. Anche quando dormo», dice, mentre osserva soddisfatta la sua opera finita.
«Cos´è fondamentale oggi nell´architettura? Saper leggere la città nella sua nuova, complessa, identità, e intervenire con un´idea globale, potente, con masterplan che sappiano affrontare sovrapposizioni e stratificazioni storiche e culturali». Ora sta lavorando al masterplan di un´ampia zona di Singapore: il progetto copre un´estensione di 194 ettari, ma il concetto di un´architettura per vivere bene Zaha Hadid lo declina in diversi ordini di grandezza, dall´urbanistica al design. La collezione Z-Scape progettata per Sawaya & Moroni, riprende in oggetti, tavoli, sedute, la stessa forma dinamica dei suoli che si sollevano, e si trasformano in superfici frammentate della sua architettura.

Corriere della Sera 22.11.09
Scienza Le nuove scoperte della fisica in un saggio del premio Nobel Frank Wilczek
Solida energia e materia impalpabile: a confronto con i paradossi dell’essere
di Edoardo Boncinelli

Dagli ambientalisti ai salutisti, dai co­struttori di auto agli psicologi, dai pubblicitari ai teologi, oggi tutti par­lano di energia, uno dei termini più usati e con maggior disinvoltura dei nostri gior­ni. La parola però un significato autentico ce l’ha, e questo appartiene alle scienze: alla fisica, alla chimica, alla biochimica. E ogni tanto è bene an­che usare le parole con il loro proprio significato, anche se può essere necessario andare a mettere il naso per esempio nella fisica di oggi. E ne ha fatta di strada la fisica dei fondamenti in questi ultimi anni! Anche troppa, in un crescendo entu­siasmante che riempie di riverenza e che ci incu­te anche un po’ di timore. La caccia ai componen­ti ultimi della materia e lo studio delle loro pro­prietà ha cambiato completamente il volto della fisica e ha portato alla ribalta problemi ai quali prima non si pensava neppure. Come quello del­l’origine della massa, della massa cioè delle parti­celle che noi conosciamo meglio, e delle quali sia­mo fatti, come i protoni e i neutroni.
Ebbene, queste particelle che sono alla base della consistenza di tutto ciò che ci circonda, dal­le stelle alle cascate, dai meteoriti ai dinosauri, sono costituite di subparticelle, i famosi quark, che di massa non ne posseggono affatto! Come si spiega questo paradosso, questo enigma cen­trale nascosto nelle pieghe della materia? Per ad­dentrarsi in selve del genere occorre una guida sicura, un fisico dotato di grande visione e di ec­cezionale capacità comunicativa. E non ci potreb­be essere guida migliore del premio Nobel Frank Wilczek, autore di un bellissimo La leggerezza dell’essere (Einaudi). Il titolo riecheggia chiara­mente quello del romanzo di Milan Kundera L’in­sostenibile leggerezza dell’essere e traduce un in­traducibile originale The Lightness of Being , che gioca sul doppio significato dell’inglese light, che vuol dire allo stesso tempo leggero e luce. La leggerezza della materia quindi, ma anche la na­tura fondamentalmente luminosa, cioè energeti­ca, della stessa.
Da cento anni sappiamo che l’energia può es­sere convertita nella massa e viceversa, ma forse non avremmo mai immaginato che la materia— la sedia su cui sediamo, il pavimento che ci so­stiene, la gamba del tavolo che abbiamo appena urtato — non è nella sua essenza che energia «rappresa», anche se a livello puramente specula­tivo affermazioni del genere sono state fatte più volte. Tanto le parole non costano niente… Un secolo fa la scoperta della interconvertibili­tà dell’energia e della materia ha cambiato la sto­ria della fisica e non solo. Oggi questa conoscen­za offre le basi per la comprensione della natura di tutte le particelle, o quasi, che compongono il nostro mondo quotidiano. L’origine della massa, la sua ingannevole consistenza e la sua lightness sono proprio, accanto a tante altre cose interes­santi, il tema centrale di questo simpaticissimo e godibilissimo libro di Wilczek che Einaudi ha pensato bene di tradurre a tambur battente.

FRANK WILCZEK La leggerezza dell’essere EINAUDI PP. 280, € 28

Corriere della Sera 22.11.09
Memoria Giovanni De Luna ripercorre l’esperienza dell’estrema sinistra dal 1969 al 1979
La generazione destinata alla sconfitta dei rivoluzionari intrappolati nel passato
di Antonio Carioti

Non furono soltanto di piombo, gli anni Settanta. E il Sessantotto non fu semplicemente l’anticamera del terrorismo. Difficile dare torto a Giovanni De Luna, quando contesta l’immagi­ne rozza su cui spesso viene appiattito il perio­do 1969-79, cui è dedicato il suo saggio Le ra­gioni di un decennio (Feltrinelli). Si tratta inve­ce di una matassa assai arruffata, della quale non è agevole afferrare il bandolo.
Centrale è nel libro l’esperienza dell’estre­ma sinistra e in particolare di Lotta Continua, gruppo di cui lo stesso autore è stato militante a Torino. Non a caso il testo parte dal ricordo dei giovani del movimento che persero la vita negli scontri di piazza. Omicidi spesso finiti nell’oblio, per i quali la giustizia è quasi del tut­to mancata. E l’impunità dei colpevoli è anche il filo conduttore del capitolo sulle stragi e sul­le gravi responsabilità di settori dello Stato.
Tuttavia De Luna non cerca alibi per gli erro­ri della sua generazione: soprattutto evidenzia la sfasatura tra un’ondata innovatrice che inve­stì linguaggi, mentalità e gerarchie, fino a mu­tare radicalmente molti aspetti del costume, e il rinchiudersi dei suoi protagonisti nella gab­bia di antiquate ideologie rivoluzionarie. In questo modo i contestatori «si consegnarono interamente al passato, restandone schiaccia­ti ». Anche per quanto riguarda il delitto Cala­bresi, De Luna contesta gli esiti del processo, ma ammette che in quella fase Lotta Continua «sembrò inclinare pericolosamente verso una concezione offensiva della violenza».
Con i partiti della sinistra storica l’autore è ancor più severo. Forse troppo, se si considera il contesto internazionale. Per esempio la poli­tica di Enrico Berlinguer, con tutti i suoi gravi limiti, non si comprende senza tener conto che l’avvicinamento del Pci al governo urtava gli equilibri di Yalta. Allo stesso modo non si può liquidare l’opera di Bettino Craxi senza in­serirla nell’evoluzione del socialismo europeo, che ha seguito in larga misura indirizzi analo­ghi, con la differenza che il Psi non era egemo­ne a sinistra e doveva farsi largo di prepotenza tra i giganti democristiano e comunista.
Più in generale, sui mutamenti vissuti dal­­l’Italia dagli anni Ottanta in poi De Luna si esprime in termini assai negativi. Li legge co­me la riapparizione della «ferina voracità» già esplosa al tempo del boom economico, ulte­riormente abbrutita dal dilagare di un gretto egoismo con marcati tratti xenofobi. C’è molto di vero in questo sgradevole ritratto. Ma il Pae­se non sarebbe rimasto a galla, se il diffuso de­siderio di arricchirsi avesse prodotto solo un concentrato di sconcezze e non anche esempi notevoli di laboriosità, intraprendenza, gusto del rischio. Dipingere l’individualismo dei ceti emergenti come pura rapacità, in fondo, non è molto diverso dal rappresentare il Sessantotto quale mero incubatore di violenza.

GIOVANNI DE LUNA Le ragioni di un decennio FELTRINELLI PP. 256, € 17

Liberazione 22.11.09
Storici, giuristi, filosofi, sociologi contro il nuovo razzismo di massa

«E' ora quindi che parliate tutti voi che amate la libertà tutti voi che amate il diritto alla felicità tutti voi che amate dormire immersi nel vostro privato sogno, è ora che parliate o maggioranza muta! Prima che arrivino per voi». Primo Levi 

Siamo persone - storici, giuristi, antropologi, sociologi, filosofi, operatori culturali - che da tempo si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni - le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri pogrom - e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.
La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell'Europa, essa è stata, tra Otto e Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall'incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità, nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la gravità di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell'immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell'informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio le fondamenta stesse della convivenza civile, come già accadde nel secolo scorso - e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità che quell'atroce passato tornasse.

Primi firmatari: Marco Aime, Rita Bernardini, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello, Angelo D'Orsi, Giuseppe, Faso, Mercedes Frias, Gianluca Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario, Patrizio Gonnella, Gianfranco Laccone, Maria Immacolata Macioti, Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Giuseppe Mosconi, Grazia Naletto, Michele Nani, Paolo Nori, Salvatore Palidda, Marco Perduca, Walter Peruzzi, Pier Paolo Poggio, Carlo Postiglione, Enrico Pugliese, Annamaria Rivera, Rossella Ropa, Emilio Santoro, Luciano Scagliotti, Katia Scannavini, Renate Siebert, Gianfranco Spadaccia, Elena Spinelli, Carlo Tagliacozzo, Diacono Todeschini, Nicola Tranfaglia, Fulvio Vassallo Paleologo, Barbara Valmorin, Danilo Zolo