giovedì 26 novembre 2009

Corriere della Sera 22.11.09
L’Osservatorio. Le intenzioni di voto alle Politiche se si andasse ora alle urne: Udc al 6,9, Rutelli all’1

Centrodestra al 48%, il Pd è sotto il 30
di Renato Mannheimer


Si è parlato insistentemente della possibilità di elezioni anticipate che servano anche a disinnescare la tensione tra le componenti del cen­trodestra, riconfermando, secondo l’auspicio dei fautori di questo scena­rio, la popolarità di Berlusconi. La smentita di quest’ultimo ha sopito le aspettative, ma la prospettiva di nuo­ve consultazioni non è tramontata.
Davvero dal voto potrebbe emerge­re una nuova vittoria del Cavaliere? Nessuno può dirlo, in quanto l’esito dipenderebbe per buona parte dalla campagna elettorale e, in primo luo­go, dalla collocazione di diversi parti­ti e leader, quali Casini, Rutelli e, spe­cialmente, Fini.
Il consenso per que­st’ultimo è in questo momento elevatissi­mo (sfiora il 60%), su­periore a quello di Ber­lusconi (49%) e comprende l’apprez­zamento anche della maggioranza de­gli elettori del centrosinistra. Com’è ovvio, questo genere di plausi non si trasforma necessariamente in voto. Ma, certo, una defezione di Fini co­sterebbe cara al Cavaliere.
Resta il fatto che sulla base dell’at­tuale scenario politico, il successo di Berlusconi appare scontato. Tutti i sondaggi attribuiscono al Pdl una percentuale superiore al 38%, assai più delle ultime Europee e, ciò che è ancora più importante, delle Politi­che del 2008, che videro il partito del Cavaliere raggiungere il 37,4%.
All’incremento di consensi del Pdl corrisponde poi la relativa debolezza del maggiore partito di opposizione. Oggi, il Pd ottiene, secondo i sondag­gi, una quota tra il 27,5 e il 30,2%. È vero che si tratta di un risultato supe­riore a quanto emerso dalle urne in occasione delle europee (quando, an­cora una volta anche a causa delle astensioni, superò di poco il 26%) e che, in particolare nelle ultime setti­mane, il partito di Bersani ha mostra­to di saper incrementare i consensi ottenuti tra gli elettori, malgrado la defezione di Rutelli (che sino ad oggi è costata relativamente poco, tra lo 0,5 e l’1%). Ma è vero anche che il successo dell’ultimo periodo non compensa ancora la forte perdita rile­vabile rispetto alle politiche (superò il 33%). Lo mostra anche la differen­za di voti tra Pdl e Pd che nel 2008 era pari a poco più del 4% e che oggi oscilla attorno al 10%.
È importante anche ricordare l’am­piezza del cosiddetto mercato poten­ziale, costituito da quegli elettori che si dichiarano disponibili a «prendere in considerazione» un partito per il voto. Nell’insieme, il mercato eletto­rale del Pdl è pari al 43%. Quello del Pd è meno ampio e raggiunge il 34%. Di qui, inevitabilmente, minori possi­bilità di espansione.
Ma per giungere ad una definizio­ne compiuta dei possibili futuri asset­ti del Parlamento — che costituisco­no poi ciò che conta per la formazio­ne e il funzionamento del governo — occorre considerare anche l’esito delle altre forze politiche e la distri­buzione territoriale del voto, fonda­mentale, con l’attuale sistema eletto­rale, per la composizione del Senato. Su di essa potrà dirci molto la prossi­ma scadenza delle elezioni regionali.
Queste ultime costituiranno pro­babilmente le «vere» consultazioni anticipate. Esse rappresenteranno in­fatti il test politico sulla base del qua­le si definiranno tutte le strategie — e le alleanze — della restante parte di legislatura. In effetti, molti dei com­portamenti e delle dichiarazioni dei leader politici in questo periodo (compresa l’ipotesi di possibili ele­zioni politiche anticipate) non sono altro che tasselli della campagna elet­torale già in corso in vista del prossi­mo marzo.

Il Fatto Quotidiano 26.11.09
Zero sì in 22 anni: i "panni sporchi" si lavano in casta
di Carlo Tecce

Come volevasi dimostrare. La legge è uguale per qualsiasi cittadino, per i parlamentari un pochino di più. Quel che occorre, oltre i numeri impietosi, per definire prassi il no della Giunta della Camera alla richiesta di misura cautelare per Cosentino. Nessun allibratore, nemmeno il più spericolato, avrebbe quotato l`arresto del sottosegretario del Pdl. La matematica è pura: nel corso della Repubblica, e le scivolate con la giustizia sono frequenti, si contano 65 domande di autorizzazione all`arresto e soltanto 4 sì. Più espliciti: meno del 10%. Più disarmanti: 0 spaccato negli ultimi 22 anni. Dal missino Massimo Abbatangelo IX legislatura - per reati connessi alla detenzione illegale e all`uso di esplosivo e armi. Eppure nel `93, per sedare l`indignazione popolare, l`immunità prevista dall`articolo 68 della Costituzione fu abolita da una riforma che ripuliva le coscienze. Non tutta, in parte: resiste un`immunità parziale sull`insindacabilità delle espressioni fuori e dentro l`aula parlamentare, sulle perquisizioni e l`utilizzo delle intercettazioni e, appunto, l`esecuzione "in vincoli": maniera più elegante - tipica espressione di Pannella - per definire l`arresto. La casta è un`entità indistruttibile, capace di solidarizzare con il peggior nemico per farsi un amico in caso di sventura: e le sventure cadono a casaccio, a destra e sinistra. La breve e intensa XI legislatura racchiude il biennio di Tangentopoli: 28 richieste respinte, nel mucchio c`erano Craxi e il ministro De Lorenzo. Erano i mesi delle monetine al Raphael hotel e della craxiana invocazione: "Basta ipocrisia". E in effetti i colleghi concedevano gli estremi favori, poi avrebbero sgonfiato la bolla protettiva dell`immunità. Nella forma, non nella sostanza. Perché dal `96 i magistrati hanno chiesto l`arresto per 12 onorevoli: Dell`Utri, Previti e Giudice (Forza Italia), Cito (indipendente). E ancora: Sanza, Blasi e Fitto (FI), Luongo (Ds), Giandomenico (Udc). 11 benedetto (e provvidenziale) scranno ha riparato Giorgio Simeoni, uno dei preferiti di Silvio Berlusconi, ospite fisso alle feste di Villa Certosa. Simeoni è imputato per corruzione nel processo contro Anna Iannuzzi. La lady Asl aveva truffato i contribuenti laziali per decine di milioni di euro, da pentita ha confessato di aver stipendiato Simeoni (dai S ai 10 mila euro mensili più una "tredicesima" di 600 mila euro), all`epoca dei fatti assessore alla formazione e coordinatore regionale di Forza Italia. Il no categorico è un`eredità che si tramanda nei Palazzi politici, l`attuale Giunta - presieduta da Pierluigi Castagnetti (Pd) - è al terzo diniego di fila: inizia con Salvatore Margiotta del Pd, prosegue con Antonio Angelucci (Pdl) e finisce con Nicola Cosentino. E quindi sono 4 - incluso Abbatangelo - i parlamentari più sfortunati della Repubblica, gli unici a finire dietro le sbarre. Il primo (1955) fu Francesco Moranino del Pci, da capo partigiano aveva ordinato la fucilazione di sette persone, si ritirò in Cecoslovacchia e tornò per ricevere la grazia del presidente Saragat. Anni Settanta, anni di piombo: Sandro Saccucci doveva scontare una pena per omicidio, scappò in Inghilterra. 1 Radicali cercarono di salvare Toni Negri (`83) dal carcere di Rebibbia condannato per associazione sovversiva - con una candidatura a Montecitorio: pochi mesi di libertà, la fuga a Parigi e il ritorno dopo 14 anni. Ieri, oggi, domani, non cambia: la Giunta dirà no.


l’Unità 26.11.09
Pregiudizi e religione
Le donne e quella sacra violenza
di Enzo Mazzi

N ella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che si è svolta ieri si sono sprecate analisi, denunce, propositi, programmi. Ma la violenza è stata declinata per lo più in termini fisici. Le ferite del corpo sono gravissime ma non sono le sole. Poche le analisi e le denunce e i progetti per eliminare la violenza che si annida negli snodi profondi delle culture, nei modelli consueti di comportamento quotidiani, delle strutture ideologiche rituali simboliche delle religioni compresa quella cristiana e cattolica.
Quasi un tabù è ad esempio la violenza del “sacro” contro le donne. Talvolta viene allo scoperto come quando si accusano le donne che abortiscono di essere assassine e si scomunicano e si torna a chiedere per loro il carcere. Ma più spesso è sottile, pervasiva e strisciante. I roghi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c’era dietro e cioè l’annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura e sulle coscienze.
La donna che ha potere sulla vita è in sé una concorrente pericolosa di ogni sistema di dominio, non soltanto di quello religioso.
Non solo l’Inquisizione cattolica ha acceso i roghi. I rappresentanti della nuova scienza medica contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del limite di tollerabilità biologica delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro, ma anche per strategia politica: volevano mani libere nella loro sperimentazione e puntavano al monopolio della medicina e al controllo sulla sua organizzazione, sulla teoria e sulla pratica, sui profitti e sul prestigio. Il rapporto con la natura di cui erano portatrici le streghe fu annullato dai roghi e non è stato più recuperato. La modernità ha così percorso la sua strada di divaricazione dal naturalismo femminile fino a giungere all’attuale dominio aggressivo e violento dell’individuo verso il resto del mondo, in una guerra di tutti contro tutti regolata e paradossalmente moderata dal ricatto atomico.
È indispensabile una vera e propria riparazione storica in tutte le culture e religioni, in tutti gli ambiti di vita, per i misfatti compiuti contro le coscienze femminili fin dalla più tenera età, contro la loro dignità, i loro saperi, le loro anime e i loro corpi, la loro capacità generativa e creativa, allora e solo allora sarà possibile una vera pacificazione del mondo.
Sono ancora troppo poche le realtà che come le comunità di base mirano a scoprire, sradicare e combattere la violenza contro le donne che si annida negli snodi profondi della società, della cultura e della vita e in particolare nelle strutture del sacro.❖

l’Unità 26.11.09
Una donna su tre vittima di abusi
Il mostro è in casa
Dati sempre più allarmanti: in Italia almeno 6,7 milioni subiscono violenza, quasi sempre da partner o ex partner Poche le denunce. Sabato manifestazione a Roma

L’emergenza. Il dramma: otto su dieci aggredite tra le mura domestiche

Non c’è scampo, una donnasutrefrai16ei 70 anni in Italia è stata almeno una volta vittima di violenza o maltrattamenti dice l’Istat. Ben 6,7 milioni di donne hanno subito nel corso della loro vita violenza fisica o sessuale, metà delle quali da parte di partner o ex partner. Il mostro ha quasi sempre le chiavi di casa: otto donne su 10 sono state aggredite tra le mura domestiche. Un milione di donne hanno subito uno stupro o un tentato stupro. A ottenere con la forza rapporti sessuali è il partner il 70% delle volte e in questo caso lo stupro è reiterato. Il 6,6% delle donne ha subito una violenza sessuale prima dei 16 anni, e più della metà di loro (il 53%) non lo ha mai confidato a nessuno. Gli autori sono degli sconosciuti una volta su quattro, nello stesso numero di casi sono parenti (soprattutto zii e padri) e conoscenti.
È il «bollettino di guerra» reso noto nella giornata mondiale contro la violenza delle donne, il tassello italiano di un puzzle che nel mondo vede almeno 140 milioni di donne vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali, oggetto di tratta, aborti selettivi e di molestie. A ricordare le drammatiche cifre è il Cipsi, il Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale, che raggruppa 45 associazioni. «È un’emergenza mondiale dice Guido Barbera, presidente del Cipsi -. Tanti, troppi sono ancora i crimini a cui le donne sono sottoposte, dall’uso dello stupro come arma di guerra alla violenza domestica, dal traffico del sesso alle mutilazioni genitali femminili». «Fenomeni aggiunge Barbera che condanniamo e per combattere i quali è necessario veicolare ai mezzi di comunicazione di massa, alle istituzioni e alla società civile una diversa concezione della donna, riconoscendone la dignità e il ruolo sempre più importante ed insostituibile che riveste nella società». Ieri è stato anche reso noto un primo bilancio sul reato di stalking, introdotto lo scorso febbraio. In otto mesi, le persone denunciate sono state 4.124 (in media 17 al giorno), 723 le arrestate. In un caso su cinque, la vittima è un uomo. A livello regionale la Lombardia è in testa per denunce (539) ed arresti (129) mentre la regione più virtuosa è la Valle d’Aosta con 10 denunce e nessun arresto. Gli stalkers sono nel 84,68% italiani, nel 15,32% stranieri. Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo, raggiunge circa il 96% delle violenze subite da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%).
Per rompere il silenzio sabato prossimo si terrà a Roma una manifestazione nazionale. ❖

l’Unità 26.11.09
«Dopo secoli, la donna reale per la società ancora non conta»
Intervista a Nicla Vassallo di Federica Fantozzi

La motivazione
«Tutto parte da una violenza conoscitiva: negarle la consapevolezza e il valore di essere che merita dignità e rispetto»

Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’Università di Genova, ha inaugurato ieri a palazzo Ducale la mostra fotografica «Non ho mai subito violenze. È vero?», progetto da lei ideato per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ha senso questo appuntamento? O gli anni passano in dibattiti mentre la violenza non smette? «È utile che esista una giornata contro i molti tipi di violenza che non è solo sessuale nè solo maschile. Il problema è che ci si riduce a grandi dichiarazioni, e sennò se ne parla in modo strumentale. I media hanno dato risalto alla violenza degli extracomunitari. Ma il dato impres-
sionante è che il contesto in cui avviene la maggioranza delle aggressioni è familiare». Spesso l’aguzzino ha le chiavi di casa. È un problema, allora, di sicurezza sociale o una questione culturale?
«Un problema di sicurezza c’è, non lo contesto. Ma chi non ha gli strumenti per difendersi da certa propaganda è messo in condizione di temere lo straniero anziché il valicare lo zerbino di casa».
La violenza non è solo sessuale o maschile. Che faccia può avere? «L’idea che le donne non siano violente per definizione è falsa. Pensiamo alle kapò naziste ieri e a quelle che gestiscono il racket della prostituzione oggi».
Chi gestisce un racket lo fa per motivi economici. È sempre abietto, ma non rientra in una casistica diversa? «È difficile definire i motivi economici. Si rischia di giustificare quasi tutti i tipi di violenza: il marito che stupra la casalinga perché la considera inferiore, o se ha una posizione economica meno buona perché si sente infragilito. Come la motivazione biologica dell’uomo cacciatore rispetto alla donna passiva. Come esseri evoluti avremmo dovuto sviluppare una cultura dove la violenza è sempre fuori luogo».
Le donne sbagliano qualcosa? Subiscono troppo? «C’è una società molto rassegnata che trasferisce alle donne immagini e stereotipi pericolosi. Uguali a quelli di una volta. la bellona seminuda e oca, o la Madonna ligia e madre di famiglia. Dopo secoli, la donna concreta si trova ancora di fronte a questo bivio. Ma ha un margine di scelta limitato».
Perché?
«Non conta se è un individuo che riflette su se stesso, che ha conquistato un buon rapporto con sé e gli altri uomini e donne. Considerarla una persona al di là del sesso di appartenenza interessa poco la società».
I figli: molla per reagire o pretesto per sopportare? «Dipende dalla donna e dal partner. E da come e quanto i figli sono stati desiderati, intesi, amati». Quale violenza è la più nociva? «Tutte. Quelle sessuali lasciano un segno indelebile, di quelle psicologiche siamo meno consapevoli. Tutto parte da una violenza di tipo conoscitivo: negarle consapevolezza di sé come essere che merita dignità. Così non sanno valorizzarsi, credono di dover usare scorciatoie per raggiungere gli obiettivi».
Una donna che usa scorciatoie per acquisire potere e successo è vittima o libera? «C’è molta ignoranza, e c’è anche chi ama molto il potere e lo sceglie. Ma alla fine, il problema è che la società sottovaluta e svalorizza le competenze. Così manca in uomini e donne la cognizione che a certi traguardi si arriva con il sapere, e allora si pensa alle scorciatoie».
La prima cosa che una vittima di violenza deve fare rispetto a se stessa? «Ammetterla, non sminuire il trauma nè giustificare l’autore. Dirsi “beh, non è stato così grave” è umano ma sbagliato».

Radicali Italiani 26.11.09
RU486, Silvio Viale: svolta antiabortista al Senato.
Tempi bui per le donne se il politico fa il dottore. Stop solo se l'AIFA non tiene la schiena dritta

Silvio Viale, membro della Direzione di radicali Italiani, dopo l’approvazione notturna della relazione del Presidente Tomassini da parte della Commissione Igiene e sanità del Senato, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Quella del senato è una svolta antiabortista che allinea l’Italia alle posizioni di Polonia, Malta e Irlanda, dove l’aborto è vietato. Sul piano scientifico si tratta di un documento di mero oscurantismo politico che prefigura tempi bui per le donne italiane con il politico che si sostituisce al medico. E’ il sintomo di come la donna sia sempre più lasciata sola in balia di posizioni antiabortiste che manipolano la scienza per i propri scopi politici. E’ una vergogna per il Senato, ma lo è sopratutto per il collega Tomassini che ha sacrificato all’interesse politico la propria figura professionale prendendo per incontestabili le dichiarazioni di esperti che non fanno aborti e sono contro l’aborto. Sulla RU486 vi è stata una disinformazione sistematica da parte di molti giornali ed una pigrizia di quasi tutti gli altri, con il timore di occuparsene per non alterare equilibri politici a destra come a sinistra. Ancora questa mattina l’Avvenire invocava l’arbitrato, confondendo una legislazione contro l’aborto come quella di Malta e quella italiana in cui la RU486 è stata legalmente usata e continuerà, comunque, ad essere usata. Ancora questa mattina Libero ripeteva che non sarà venduta in Farmacia, quando l a questione non è mai esistita trattandosi di un farmaco ospedaliero. Sono indignato, ma come medico non mi arrendo. Sono indignato anche per il documento del PD laddove cede alla tesi del ricovero come ad una possibile mediazione interna ed esterna non curante delle donne, come pazienti e come donne.
Comunque il pronunciamento politico della Commissione Igiene e Sanità del Senato non ha il potere di modificare le evidenze scientifiche – solo i regimi totalitari ce l’hanno – e non cambia l’impianto legislativo. Solo l’avvio formale di una procedura di arbitrato europeo, che il ministero poteva già fare, può interrompere la procedura dell’AIFA, ma il governo sa che tale procedura, che in Europa ha tempi più brevi e certi di quelli italiani, finirà per esporre al ridicolo chi l’ha promossa. In sostanza la decisione del Senato è solo un ricatto politico all’AIFA e vedremo se l’AIFA saprà davvero mantenere la schiena dritta dopo le tante reazioni offese a chi osava mettere un punto interrogativo. E’ probabile che ora il governo avvii davvero quella pratica di arbitrato suicida a perdere in Europa per mere questioni politiche, poiché il loro vero interesse non è la scienza, non è la giustizia, non è la sanità, non sono le donne e i loro problemi, non sono gli operatori della 194, ma solo gli equilibri politici con la minoranza antiabortista. Preoccupazione che, purtroppo per le donne italiane, accomuna entrambi gli schieramenti, per cui tutti urleranno allo STOP, anche se tecnicamente quello del Senato non è affatto uno STOP.”


Repubblica 26.11.09
Crociata di Natale
di Chiara Saraceno

Sono gli stessi che appendono a forza grandi crocefissi nei luoghi pubblici. Che dicono che il crocefisso è simbolo della identità italiana, da loro per altro sbeffeggiata ogni pié sospinto, salvo quando devono contrapporla ai "brutti, sporchi stranieri", specie se "abbronzati". Che rivendicano il cattolicesimo, per altro da loro identificato con il cristianesimo tout court, come parte integrante del Dna italiano, anche se poi si inventano i riti paganeggianti per il dio Po. Sono loro che vogliono far passare una norma (il processo breve) in cui si codifica che la legge non è uguale per tutti e soprattutto non per gli immigrati, specie i più vulnerabili. E che in nome di tutto questo proclamano la pulizia etnica proprio nei giorni di Natale, per non turbare la tranquillità delle buone, cattoliche, operose, bianche popolazioni autoctone. Succede a Coccaglio, profondo Nord, ma potrebbe succedere anche da altre parti. Probabilmente molti altri sindaci ci stanno pensando e molti cittadini di altri comuni invidiano quelli di Coccaglio, con un sindaco così deciso.
La questione non è, ovviamente, il contrasto alla immigrazione clandestina. Anche se ci si può interrogare sul fatto che molti immigrati regolari sono a rischio di diventare clandestini solo perché perdono il lavoro e con questo il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno. Ed altri rimangono clandestini perché i datori di lavoro li preferiscono così: perché possono pagarli meno e licenziarli quando non serve. La questione è il cortocircuito insensato tra evocazione della religione e del più drammatico simbolo religioso che ci sia da un lato, caccia al diverso e allo straniero, soprattutto se povero, dall´altro. Nel grande sventolare di crocifissi e discorsi sulla identità italiana come identità eminentemente cristiana è passata in questi anni una cultura della intolleranza e della aggressione al diverso che richiama altri foschi periodi della storia in cui il crocefisso e la religione erano branditi come arma da guerra, anche interreligiosa. Il riferimento alla religione cristiana e soprattutto al suo simbolo fondativo, la croce, ha perso del tutto il messaggio di apertura al di là delle appartenenze nazionali, familiari, etniche, di amore per l´altro portato fino al sacrificio di sé. Si rovescia piuttosto in segno di separazione e di pretesa superiorità che giustifica ogni sopraffazione. La giustificazione di questa nuova crociata paesana con il Natale, ovvero con l´evento che nel resoconto evangelico segna l´inizio della vicenda che deve necessariamente portare al sacrificio della croce, aggiunge solo un più di grottesco ad un fenomeno che ha una ben più vasta portata e che deve interrogare tutti, in primis i cattolici e le gerarchie ecclesiastiche. Come spiegarsi che un paese che si dichiara cattolico a stragrande maggioranza e dove l´insegnamento della religione cattolica nelle scuole raggiunge la stragrande maggioranza dei ragazzi è un paese dove non solo l´incultura religiosa è la norma, ma dove l´appartenenza religiosa può essere utilizzata nel discorso pubblico (anche) per motivare i comportamenti più aggressivi, violenti, contrari ad ogni più elementare principio di carità? Come possono i cattolici accettare che il loro simbolo religioso per eccellenza possa essere identificato con una cosa così limitata, contingente, oltre che controversa e non priva di ombre storiche, quale è una singola identità nazionale, e addirittura come arma di esclusione? Come può la gerarchia cattolica, in nome della real politik, accettare come suoi difensori coloro che nelle parole e nei comportamenti sia privati che pubblici negano il contenuto stesso di ciò che proclamano difendere?
So bene che le religioni ? tutte ? sono state storicamente più un elemento di divisione che di unione. E troppo spesso la Chiesa cattolica si è fatta complice di dittature e di oppressioni. Questo ha allontanato molti dalla religione e spesso anche dalla domanda di fede. Ma per chi in quel messaggio religioso continua a credere, la ferita rimane aperta e si ripropone ogni volta in cui in nome della politica la Chiesa accetta compromessi che generano ingiustizia e violenza. Qualche volta ? certo meno di quanto qualcuno avrebbe desiderato ? ha ammesso di avere sbagliato e ha chiesto scusa. Ma si vorrebbe anche che imparasse dai propri errori, e che fosse meno sensibile alla tentazione del potere. Altrimenti si oscilla tra il severo, anche se scontato, messaggio del pontefice sulla inaccettabilità della persistenza della fame nel mondo a fronte di sprechi grandiosi, e la benevola tolleranza nella pratica quotidiana sull´uso della appartenenza religiosa a scopi di esclusione.

Repubblica 26.11.09
Domani un convegno a Roma. Molti studiosi concordano sull´autenticità
Ma quante falsità sul papiro di Artemidoro
di Salvatore Settis

Accertato che si tratta di un´opera del I secolo d.C., la ricerca ora si divide su altre questioni Sulla carta geografica e sul fatto che i disegni siano o no di bottega

Domani presso la Società Geografica Italiana si svolge il convegno «Geografia e Cartografia nel Papiro di Artemidoro», le cui conclusioni sono affidate a cienza e media, tema inesauribile. I giornali devono informare i lettori su temi di ricerca, ma come? "Semplificando", ma fino a che punto? Nel suo piccolo, l´Italia offre un esempio interessante. Luciano Canfora, autore di decine di libri e migliaia di articoli di giornale, si è convinto che il Papiro di Artemidoro (con testi e disegni del I secolo d.C.) sia opera di un falsario ottocentesco, tal Simonidis. Al tema ha dedicato cinque libri (un altro è in arrivo) e sette "puntate" (finora) di un romanzo-fiume sulla propria rivista, per oltre duemila pagine. Da questo mare magnum germogliano decine di articoli sui giornali. Intanto, dopo le mostre a Torino, Berlino e Monaco (300.000 visitatori) e l´edizione critica (LED, 2008), gli studi sul tema si infittiscono, ma lo spazio mediatico è occupato quasi per intero da Canfora (su Repubblica del 22 settembre 2006 ho spiegato perché sui giornali non avrei risposto).
Questo martellamento ha avuto il curioso effetto di creare una doppia verità. Da un lato, le sofisticate ricerche sul Papiro, col loro linguaggio inaccessibile; dall´altro, nei media (solo in Italia) una vulgata che, poiché sui giornali nessuno "risponde", prende baldanza, canta vittoria. Miti ragionieri e affaccendati notai sono chiamati a giudicare su paleografia e archeologia, e sulla base solo di articoli di giornale. Se poi un addetto ai controlli aereoportuali sposa la sua teoria, Canfora ne esulta sull´ospitale Corriere (30 giugno 2009). Insomma, il battage mediatico dovrebbe fare del Papiro un falso a furor di popolo.
Questa vulgata ha tre punti principali. Primo, la sola cosa del Papiro che meriti discutere è se sia falso o autentico. Secondo, la partita è chiusa, le "prove" della falsità sono ormai "definitive" (Libero, 6 novembre). Terzo, si tratta di un duello fra Canfora e me. Nessuna di queste tre affermazioni è vera: saranno "semplificazioni", ma danno di fatto false informazioni. Ripercorriamole in ordine inverso. Non sono il solo responsabile dell´edizione del Papiro; vi hanno anzi lavorato molto più di me tre papirologi, (B. Kramer, C. Gallazzi e A. Soldati), un filologo classico (A. Cassio), un altro archeologo (G. Adornato), laboratori di analisi fisica e chimica.
Nella molta bibliografia sul Papiro, solo R. Janko ha dato ragione a Canfora, ricopiandone gli argomenti senza troppa fantasia. Per tutti gli altri, «nessun serio dubbio è possibile sull´autenticità» (W. Luppe su Gnomon). Secondo P. van Minnen (Bulletin of the American Society of Papyrologists), solo «some Italian "political" reason» può spiegare la posizione di Canfora. C. Lucarini (Londra) ha confutato gli argomenti di Canfora in Philologus, e prepara un´edizione di Artemidoro per la gloriosa Bibliotheca Teubneriana; B. Bravo (Varsavia) e I. Pajón (Madrid) ne hanno scritto nella Zeitschrift für Papyrologie. In questi giorni, tre libri tornano sul tema. Images and Texts on the Artemidorus Papyrus (ed. Steiner) contiene gli atti di un seminario di Oxford: tutti gli autori, tranne Canfora, si pronunciano per l´autenticità: così M. West (che trova l´argomentare di Canfora disingenuous, disonesto), così P. Parsons, D. Obbink, R. Talbert, J. Elsner, G. Nisbet e M. Billerbeck; N. Wilson esprime qualche dubbio paleografico, subito fugato da Parsons. Il secondo libro in uscita, Intorno al Papiro di Artemidoro. Contesto, lingua e stile (ed. LED) contiene molte risposte a Canfora (a firma Gallazzi-Kramer), ma anche contributi di Cassio, Soldati, Parsons e Lucarini, e di altri studiosi illustri come J. Hammerstaedt, S. Colvin, D. Sedley, F. Montanari. Tutti convinti della genuinità del papiro.
Tutto a posto, dunque? Noi, editori del Papiro, abbiamo ragione in tutto e per tutto? No. Molti di questi studi non sono d´accordo con le nostre proposte, anzi le criticano severamente. Per esempio, Nisbet propone di "montare" i frammenti del Papiro in ordine diverso, e G. B. D´Alessio ha trovato in tal senso prove importanti, col risultato che Canfora lo ha iscritto d´ufficio al proprio partito (Corriere, 29 aprile), e D´Alessio ha dovuto smentire (simile disavventura è toccata ad Hammerstaedt). Più d´uno dubita che il Papiro, pur essendo del I secolo d.C., contenga un testo di Artemidoro, o pensa che a lui ne vada attribuita solo una parte. Alcuni ritengono che i disegni di animali non siano un "repertorio di bottega" (come abbiamo proposto), ma un prontuario per un trattato zoologico. Grande disaccordo c´è sulla carta geografica del Papiro: nessuno sa davvero che cosa rappresenti, né come mai è non-finita, né se illustra il testo lì accanto. Con queste e cento altre domande (per non dire delle proposte di correzione del testo o dell´interpretazione), l´edizione del Papiro viene messa in discussione quasi a ogni pagina. Il dibattito scientifico sul Papiro non si svolge intorno alla sua genuinità (come vuole il pensiero unico di Canfora), ma su ben altri temi.
Su Geografia e cartografia nel Papiro di Artemidoro la Società Geografica Italiana ha organizzato un convegno. Discuteranno storici della geografia, linguisti e filologi, esperti dell´Iberia antica (di cui parla il Papiro), specialisti di Strabone e Tolomeo. Studiosi di sette Paesi (Prontera, Talbert, Pontani, Moret, García Bellido, Motta, Valerio, Marcotte, Guerra, Engels, Mittenhuber) si misureranno con le complessità di questo affascinante documento di età classica. Senza trionfalismi, senza "vittorie" in insussistenti "duelli", senza affigger proclami proveremo a capire qualche piccola cosa in più. Sarà solo qualche novità "da specialisti", o varrà la pena di raccontarla a un pubblico più vasto? È ancora presto per dirlo.

Corriere della Sera 26.11.09
Viale Mazzini Il cda nomina l’ex direttore del Tg3 al posto di Ruffini: per lui un incarico ai nuovi canali digitali
Di Bella guiderà Raitre, sinistra spaccata
di Paolo Conti

Vota contro l’ex dl Rizzo Nervo. A favore Garimberti e il veltroniano Van Straten

ROMA — «È un grande onore poter continuare il la­voro di Paolo Ruffini e del gruppo dirigente di Raitre che ho avuto modo di cono­scere e apprezzare nei miei otto anni di direzione al Tg3. Il mio impegno è consolida­re i risultati raggiunti, per qualità e ascolti, garantire e sviluppare l'identità della re­te ». Antonio Di Bella com­menta con poche parole la sua nomina, avvenuta ieri, a nuovo direttore di Raitre al posto di Paolo Ruffini. Il di­rettore generale Mauro Masi ha messo al voto la propo­sta: otto sì (cen­trodestra più il presidente Pao­lo Garimberti, l’Udc Rodolfo de Laurentiis e il Pd Giorgio van Straten) e un no (l’altro Pd Nino Rizzo Nervo). Una profonda, inedita spaccatura nel Partito Democratico: da una parte van Straten (ulti­ma designazione della segre­teria di Walter Veltroni) e dall’altra Rizzo Nervo (ex Margherita). A Ruffini è sta­ta offerta la responsabilità del coordinamento della struttura dei nuovi canali sul digitale terrestre.
Paolo Garimberti parla di scelta «totalmente azienda­le. Che ci si creda o meno, a me questo non interessa. A Ruffini affidiamo in sostan­za il progetto più importan­te degli ultimi anni, quello che disegnerà la Rai del futu­ro. Spero che continui a lavo­rare col solito impegno e che accetti. L'ho detto qualche mese fa a lui e lo ribadisco: non è uno scandalo cambia­re un direttore di rete dopo sette, quasi otto anni di lavo­ro. Penso sinceramente che, nonostante quanto di buono è stato fatto a Raitre in que­sti anni, la rete abbia biso­gno di una nuova iniezione di energia per trovare nuovi stimoli sia intellettuali che operativi».
Invece Rizzo Nervo è duris­simo, parla di rimozione: «Non avrei mai immaginato che la richiesta di epurazio­ne da mesi sollecitata dall' esterno potesse essere accol­ta con un solo voto contra­rio. È come se nel 2002 il Cda avesse approvato, con una maggioranza schiacciante, la cacciata di Enzo Biagi e di Mi­chele Santoro. Un segnale de­vastante per chiunque lavori in questa azienda».
Van Straten è sulla posizio­ne di Garimberti: «Ho ritenu­to che Di Bella corrispondes­se perfettamente alla necessi­tà di tutelare uno dei capisal­di del servizio pubblico, uno dei pochi spazi rimasti per un’informazione non omolo­gata, per trasmissioni intelli­genti e innovative, per l’ap­profondimento e l’inchiesta giornalistica di qualità». Geli­da la reazione di Ruffini: «C'è davvero poco da commenta­re. Ci sono cose che si com­mentano da sole. Per me par­la il lavoro svolto ogni gior­no dalla rete. Un lavoro che è stato ed è sotto gli occhi di tutti e che ha onorato il ruo­lo del servizio pubblico».
Il presidente della commis­sione di Vigilanza, Sergio Za­voli, protesta per «l’estenuan­te, eccezionale lentezza della decisione, l’assenza di moti­vazioni che accreditassero la natura professionale e gestio­nale, del provvedimento. L’incongrua, nuova colloca­zione escogitata per giustifi­care un esito di cui la politica stessa, certo non estranea al­la questione, non credo pos­sa menar vanto». Ma il Pd sulla Rai è lacerato. Lo con­ferma con chiarezza Enzo Carra: «La nomina di Di Bella è comunque una buona noti­zia, saprà far bene per rinno­vare una rete che ha bisogno anche di aria. La direzione di Ruffini è stata un passaggio importante. Ma è stata dan­nosa, anche per lui, e non lo meritava, la cocciuta resisten­za operata da alcuni ambien­ti del Pd, come se le direzio­ni ed i vertici fossero a vita». Una polemica contro l’as­se Rosi Bindi-Paolo Gentilo­ni che hanno difeso fino al­l’ultimo Ruffini? Soddisfatto il Pdl. Antonio Verro, Consi­gliere Rai: «Auguri a Di Bel­la, professionista di lungo corso e di indubbia qualità, e un grazie a Paolo Ruffini per questo lungo mandato durato quasi otto anni». Giorgio Lainati, vicepresi­dente Pdl della Vigilanza Rai: «Il consenso quasi plebi­scitario nel Cda della Rai alla nomina di Di Bella è la più evidente conferma della scel­ta d'alto profilo operata dal vertice aziendale»

Corriere della Sera 26.11.09
L’intervista. La conduttrice di «Report»
Gabanelli: sostituzione sbagliata Basta con le scelte «politiche»
di P. Co.

ROMA — «Ma perché sostituire Ruffini? Rispondere è un dovere, per­che le aziende non sono fatte solo di muri, ma di persone». Parola di Mile­na Gabanelli, anima di «Report».
Cosa pensa di questo avvicenda­mento, Gabanelli?
«Ruffini è arrivato a Raitre nel 2002 ed è riuscito pian piano a coinvolgere tutti dentro ad una strategia di rete. Ha portato tutti fuori dal proprio orto, ci ha fatto partecipi di necessità più ampie, come un cambio di program­mazione non previsto, che magari in quel momento ti penalizza, ma va a vantaggio di tutta la rete. Insomma è riuscito a fare squadra. E questo ri­chiede tempo, lui lo ha avuto e i risul­tati lo hanno premiato. Allora perché sostituirlo? La dirigenza di una buona azienda normalmente investe sul suo patrimonio umano, chiede 'rendimen­to', riconosce il merito e lo premia. Se a decidere la carriera, dentro ad un’azienda pubblica, è solo la politica secondo un criterio basato sulla fedel­tà o sulle 'conoscenze' e non sulla 'co­noscenza', nessuno avrà più voglia di impegnarsi per dare il meglio di sé nell’interesse generale».
Cosa ha apprezzato di più in Pao­lo Ruffini?
«La sua elevata professionalità. La forza di essere intellettualmente libe­ro. Soprattutto sono sicura che adesso avrà la dignità di non sedersi davanti ad una scrivania inutile per passare il 27 del mese a ritirare lo stipendio. Per me è un grande esempio, anche sul piano umano».
Teme un cattivo rapporto col suo successore Antonio Di Bella?
«In 13 anni di vita di 'Report' ho cambiato quattro direttori ed ho avu­to con tutti un rapporto leale e costrut­tivo, e così continuerà ad essere con il nuovo direttore, se deciderà che que­sto programma debba continuare a vi­vere. Diversamente ci saluteremo con una stretta di mano. Senza traumi per nessuno, visto che i miei collaboratori sono freelance e il mio contratto non è mai andato più in là dei 24 mesi. Non ho mai chiesto, nè mi è mai stata offerta una garanzia maggiore. Ho sempre investito nella professionalità come patrimonio da spendere, nel ca­so in cui si chiudesse una porta. Que­sta è la cultura da cui provengo».

Corriere della Sera 26.11.09
Elezioni presidenziali
Romania, intesa socialisti-liberali

Firmato a Bucarest l’accordo tra liberali e socialdemocratici per sostenere il candidato socialdemocratico Mircea Geoana al ballottaggio delle presidenziali romene del prossimo 6 dicembre. Geoana corre contro il presidente in carica Traian Basescu, che chiede un secondo mandato.
Al primo turno domenica scorsa Basescu aveva ottenuto il 32,44%, Geoana il 31,15%.
Terzo il liberale Crin Antonescu con il 20%: ora i suoi voti sono fondamentali.
L’accordo conferma anche il sostegno al sindaco di Sibiu, Klaus Johannis, per l’incarico di premier.

Corriere della Sera 26.11.09
Ritratto di Tintoretto l’artista che sfidò il genio di Tiziano
Nella Venezia del ’500 tra signori e libertini
di Isabella Bossi Fedrigotti

Rinascimento Melania Mazzucco ha dedicato una monumentale biografia al pittore che oscillò tra il rosso della passione e il nero del pessimismo
Pietro Aretino lo lodò e criticò, Jean Paul Sartre ravvisò in una sua opera tardiva «un viso posseduto da vecchio assassino»

Immaginiamo un grande affresco oppure un’immensa tela, per esempio una delle tante, gigantesche e impressionanti del Tintoretto, dove si affolli una miriade di personaggi di tutte le classi sociali, di tutti i mestieri e le professioni con una fi­gura al centro, più importante di tutte, in piena luce. Leggendo la più recente, sterminata opera di Me­lania Mazzucco, è questa l’impres­sione che se ne trae. E volentieri si entra dentro l’affresco, seguendo la scrittrice-conduttrice che, qual gui­da preparatissima, ci racconta, con pazienza e minuzia, le vicende del soggetto in primo piano e quelle di ciascuna delle comparse che lo cir­condano, vicine, lontane o lontanis­sime, ma comunque a lui collegate in modo più o meno stretto. E non si limita — la guida — a spiegare nel dettaglio le persone che via via s’incontrano, ma estende la sua le­zione alla città nella quale vivono tutte quante e che è molto più che sfondo — la Venezia del Cinquecen­to —, alla sua tumultuosa quotidia­nità civile, religiosa, artistica, arti­gianale e commerciale, alla sua sto­ria, alla sua politica.
È appunto Jacomo Tintoretto il protagonista del grande affresco, opera, oggi in uscita in libreria, di Melania Mazzucco che ha inseguito il pittore veneziano per più di dieci anni attraverso archivi e biblioteche, musei e depositi chiusi al pubblico, finendo per scriver­ne la prima importante biografia mai uscita in Italia: Jacomo Tintoretto & i suoi figli (Rizzoli, pp. 1.022, e 42). Da narratrice qual è, la scrittri­ce si è fatta saggista per l’occasione, senza pe­rò, fortunatamente, mai perdere la costante meraviglia e il coinvolgimento personale di chi racconta una storia che l’appassiona. Del re­sto, questo saggio è figlio di un suo romanzo uscito un anno fa, La lunga attesa dell’angelo, libera e suggestiva reinvenzione della figura di Tintoretto: la biografia di oggi esiste, cioè, grazie agli studi e alle ricerche fatte per scrivere quel romanzo e tutto il vastissimo materiale raccolto è stato sufficiente per riempire le ottocento pagine di testo, stampate, tra l’altro, in cor­po abbastanza piccolo, più le due­cento di bibliografia e note.
Suggestivo è anche questo libro, in innumerevoli suoi passi. Per esempio all’inizio, quando l’autrice rievoca come tutto sia cominciato con una sua lontana passeggiata at­traverso il sestiere veneziano di Can­naregio e una visita alla chiesa che sorge nel suo lembo estremo, Santa Maria dell’Orto, dove è custodita la Presentazione di Maria al Tempio straordinaria tela del «più terribile cervello che abbia mai avuto la pit­tura », come Melania Mazzucco defi­nisce il «suo» pittore, dopo averne cercato ed esaminato ogni possibi­le, minuscola traccia. E di quel qua­dro l’autrice fu colpita in particola­re dalla figuretta di Maria, che po­trebbe avere le sembianze di Mariet­ta, l’amatissima figlia naturale di Tintoretto, erede del talento del pa­pà e pittrice a sua volta, scomparsa però prima di potersi fare un no­me. Maria-Marietta ha rappresenta­to, in un certo senso, il capo del filo che, come un detective, l’autrice ha seguito per — letteral­mente — centinaia di chilometri.
Come è suggestivo il racconto del rapporto che Jacomo, «un artista ambizioso e discusso, scorretto e devoto, colto e popolare, eccentri­co e conformista, incalzato da un perenne fu­rore creativo», intrattenne, per esempio, con il mefistofelico libertino e intelligentissimo Pietro l’Aretino, dal quale ebbe lodi ma anche veleni, sia pure camuffati dietro parole alate. Oppure con «Il» pittore veneziano per eccel­lenza, il numero uno, il grande Tiziano Vecel­lio, acclamato e lodato in tutta Europa, amico dei potenti, intimo — quasi — dell’imperato­re Carlo V, che mai volle lasciare spazio al più giovane collega, mai ne riconobbe il genio, guadagnandosi fin da subito il suo precoce odio quando — per invidia secondo la leggen­da — buttò fuori dall’ambita sua bottega il ra­gazzo apprendista Jacomo.
A quell’epoca il giovanissimo pittore ancora non si chiamava Tintoretto, ma al massimo Tintore, soprannome dovuto al mestiere del padre, Battista Robusti, eccellente maestro di tintoria di origine bresciana: attività che per­mette all’autrice un appassionante escursus su un’arte veneziana per eccellenza, le cui re­gole erano fissate da norme precise e severissi­me, senza le quali la città avrebbe rischiato di perdere un redditizio mercato internazionale nel quale primeggiava. Era il rosso il colore principe nella Venezia del Cinquecento, degli arredi e delle vesti, nella vita come nei quadri, e serviva un insetto asiatico per ottenere il mi­gliore e più duraturo; l’introduzione, consenti­ta a un certo punto anche per legge, di uno meno raro, proveniente dalle nuove Indie spa­gnole — cioè l’America — segnò per la Sere­nissima l’inizio del declino del lucroso com­mercio. Non a caso, contemporaneamente, co­minciò a dilagare, a Venezia come in tutta Eu­ropa, la plumbea moda spagnola del nero tota­le, della quale a volte si ha l’impressione che duri ancora.
Nero plumbeo che investì anche Tintoretto nella sua tarda età, come lo vediamo nell’ Auto­ritratto conservato al Louvre e riprodotto qui, completamente in nero contro sfondo nero, assieme a numerose altre sue opere, alcune delle quali mai esposte in alcun museo. E il quadro conferma quel che spesso si è sostenu­to, che Jacomo da vecchio non andò perdendo nulla della sua arte, ma che la sua mano, anzi, si raffinò e la sua vista di pittore si fece anche più acuta. Ci mostra un uomo stanco, rabbio­so, dalle occhiaie profonde, dallo sguardo scu­ro, fissato nel vuoto, un uomo che ha combat­tuto innumerevoli battaglie, senza aver colto vere vittorie, come annota l’autrice. Forse la più impressionante e inquietante tra tutte le sue opere, ossessionò molti, pittori e scrittori, tra i quali Sartre, che a Tintoretto dedicò vari saggi, e che nell’ Autoritratto ravvisò «un viso posseduto di vecchio assassino».
La vasta raccolta di note, l’ancora più ampia bibliografia dove figurano non pochi docu­menti inediti scoperti dall’autrice, nonché l’elenco dei nomi, faranno probabilmente la gioia degli specialisti. Al lettore «normale» ba­sterà il resto: aggirarsi, cioè, nel grande affre­sco, alla scoperta del potente personaggio cen­trale e degli innumerevoli minori che lo cir­condano, familiari, parenti, amici, colleghi, ar­tigiani, poliziotti, prostitute, committenti, gran signori, musicisti, alchimisti, preti, lette­rati, avvocati e diplomatici. A volte temerà for­se di perdersi nel labirinto di persone e avveni­menti, ma la mano della guida è sicura.

mercoledì 25 novembre 2009

l’Unità 25.11.09
Oggi giornata contro la violenza sulle donne
ROMA In Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, nella sua vita è stata vittima della violenza di un uomo. Secondo i dati delùl’Istat, sono 6 milioni e 743mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita violenza fisica e sessuale. Sono alcuni dati che diùmostrano la diffusione della vioùlenza contro le donne: oggi si celeùbra la Giornata mondiale contro questa emergenza e sabato a Roùma ci sarà una manifestazione naùzionale proprio per dire «no» alla violenza sulle donne: il corteo parùtirà da piazza della Repubblica per arrivare a piazza San Giovanùni. Ecco altri dati: tre milioni di donne hanno subito aggressioni durante una relazione o dopo averùla troncata, quasi mezzo milione nei 12 mesi precedenti all’interviùsta.❖

l’Unità 25.11.09
Le donne e i mille volti della violenza
La giornata mondiale dell’ONU
di Fabio Roia
D al dicembre 1999 l’Assemblea Generale delùl’Onu ha fissato nella data del 25 novembre la Giornata internazionale contro la violenùza contro le donne. Si tratta di capire se ce-
lebriamo per convenzione una ricorrenza o se capiaùmo veramente il dramma di una violenza diffusa e multiforme che si manifesta dall’aggressione alla sfeùra genitale con pratiche di mutilazione alla insidia psiùcologica di sopraffazione molto meno tribale e da orùdinamento evoluto. Vi sono purtroppo molteplici indiùci sociali che portano a ritenere come non sia ancora perfettamente compiuto il processo di reale presa di coscienza del forte disvalore del gesto violento nei confronti della donna. Pensiamo al fenomeno della “velinizzazione” dove il profilo estetico sembra dover prevalere su tutto per consentire un’affermazione delùla persona in certi settori professionali. Come se fosùse, la bellezza venduta, un prezzo da pagare al succesùso. Una violenza sottile. Pensiamo ancora alla difficolùtà che incontra il diritto costituzionale alle pari opporùtunità ad affermarsi nella quotidianità del lavoro, delùla istituzione, della genitorialità per la presenza di un pregiudizio e di condizioni sociali che impongono anùcora la definizione di donna come soggetto debole. L’aggettivazione è ancora una violenza sottile.
Permane poi, nella cultura maschile, un pensiero di poter disporre comunque della donna. Nella sfera affettiva, sessuale, economica emerge la distorsione del rapporto padronale che tende sempre alla soprafùfazione e alla riaffermazione dell’abuso di una situaùzione di dominio. È la dinamica di chi diventa maltratùtante, persecutore, sessualmente violento che si traùsforma nella patologia del comportamento tipica delùla vicenda penale dove la donna parte lesa tende a subire una seconda vittimizzazione. Vittimazione ulùteriore che deriva dalla superficialità processuale delùl’approccio alla sua storia e dallo scarso riconoscimenùto, nella sede propria della riaffermazione del suoi diritto alla dignità, alla sofferenza personale. La rispoùsta interistituzionale – di accoglienza, di protezione, di giustizia ùalla violenza sulla donna è ancora imperùfetta. Peraltro nel disegno di legge in materia di estinùzione del processo (il cosiddetto “processo breve”), fra i reati esclusi dalla disciplina che porta alla morte della vicenda processuale se la stessa non si consuma in due anni non è ricompreso il delitto di maltrattaùmenti in famiglia (art. 572 codice penale), quindi proùprio quella fattispecie tipica che si applica nei numeroùsi casi di violenza domestica (fisica e psicologica) conùsumata in danno delle donne. L’evidente conseguenùza sarà quella di applicare ogni tattica processuale diùlatoria – a cominciare dal legittimo rifiuto dell’imputaùto di scegliere riti alternativi ùche porti l’imputazione di violenza all’eutanasia giudiziaria. Donne da buttaùre per legge. ❖

Repubblica 25.11.09
La Commissione sanità pronta a bloccare l´immissione in commercio
Ru486, oggi il Senato decide stop dal Pdl, ma è scontro
di Mario Reggio

ROMA ùLa storia infinita della pillola abortiva Ru486 continua. La commissione senatoriale d´inchiesta voterà oggi il documento finale presentato dalla maggioranza: non c´è stata alcuna verifica della compatibilità della terapia farmacologica con la legge 194 e l´Agenzia italiana del farmaco non l´ha prevista. Il presidente della commissione, Antonio Tomassini, annuncia che verrà chiesto un parere al ministero della Salute e quindi il blocco della procedura per il via libera della Ru486.
Cosa potrà succedere adesso? L´obiettivo del centrodestra è chiaro: bloccare la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera dell´Aifa, prevista a giorni, e pronta da due mesi. Ergo azzerare i mesi di lavoro dell´Agenzia italiana del farmaco e ricominciare tutto da zero. Che sia una decisione politica lo conferma la vicepresidente dei senatori Pdl Laura Bianconi: «Certamente, se la politica non si occupa di tutelare la vita e la salute di cosa altro si dovrebbe occupare?».
Polemico il commento del senatore Pd Lionello Cosentino, componente della Commissione sanità del Senato. «La relazione del presidente Tomassini è una cattiva notizia per le donne italiane. Vogliono imporre all´Aifa di fermarsi con due motivazioni fasulle ùafferma Cosentino ùil rischio per le donne a causa di un farmaco che è in uso nel mondo già da 20 anni ed è stato approvato da tutti gli organismi tecnico scientifici a partire dall´Europa agli Stati Uniti». E prosegue: «La seconda motivazione è la coerenza con la legge 194. Si pretende un parere dal ministero "competente" che non è previsto dalla legge, né dovuto ùconclude Cosentino ùe da quando il governo diventa giudice di una legge? La relazione Tomassini è una barzelletta, purtroppo non fa ridere».
Sulla relazione annunciata dal presidente Antonio Tomassini la maggioranza sembra compatta. È stata definita «un atto responsabile» dal senatore D´Ambrosio Lettieri e dal collega di partito Domenico Gramazio. Ancora incerto il Pd, il cui gruppo in commissione stamattina si riunirà per definire una linea. La capogruppo Dorina Bianchi ha riconosciuto che «bisognerà capire quanto la legge 194 sia compatibile con la pillola e chi lo debba stabilire», aggiungendo tuttavia che nella relazione conclusiva «ci sono delle incongruenze che vogliamo discutere».


Corriere della sera 25.11.09
La storia I discendenti dei 300 mila «moriscos» oggi vivono nel Maghreb
La Spagna e i mori cacciati: risarcirli dopo 400 anni?
La proposta socialista: compensare gli eredi arabi
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Si allunga la memoria storica spagnola. Più indietro, molto più indietro della guerra fratricida della seconda metà degli anni 30, che tuttora il paese fatica a metabolizzare. Altri ri­cordi, assai più antichi, rimordono alcu­ne coscienze: come la cacciata dal Re­gno di Castiglia dei moriscos , 300 mila musulmani convertiti, più con le cattive che con le buone, e infine espulsi da Filippo III nel 1609. Esattamente quattro secoli fa. Acqua passata, che però macina ancora nella mente di scrittori, come Ildefonso Falcones, autore di un migliaio di pagine al riguardo, il best seller intitolato «La Mano di Fatima»; e di politici, come il deputato socialista di Granada, José Antonio Pérez Tapias, au­tore di una proposta in grado di suscita­re un probabile vespaio al Congresso.

La sua mozione, presentata dal grup­po parlamentare del Psoe, sollecita il governo a trovare una forma di com­pensazione per i discendenti, ovunque essi siano, di quelle popolazioni ripu­diate quattrocento anni fa: «Non erano immigrati, erano spagnoli per davve­ro, da 800 anni», ricordava Falcones, che narrando le tribolazioni di uno di loro, il giovane Fernando, intendeva in­terpretare il dolore di tutti. Ma i loro pronipoti, in maggioranza, ormai vivo­no altrove: in Algeria, in Marocco, in Tunisia, in Libia, in Mauritania, in Ma­li. Ritrovarli sarebbe comunque abba­stanza arduo: «Occorre fare il possibile per rafforzare i vincoli economici, so­ciali e culturali con la gente del Ma­ghreb e dei paesi subsahariani», ritie­ne José Antonio Pérez Tapias. Una sor­ta di risarcimento collettivo, a pioggia, quattrocento anni dopo.

Non è mai troppo tardi per fare am­menda, sostiene il deputato di Grana­da, rivolgendosi al governo del suo stes­so colore: «È necessario un riconosci­mento istituzionale dell'ingiustizia che fu commessa a suo tempo, con l'espul­sione in massa dei moriscos». E sottoli­nea «ingiustizia storica», come una col­pa non casuale o involontaria: «Fu com­messa per intolleranza religiosa, per quella politica di assimilazione plasma­ta sull'alternativa tra conversione ed esi­lio, per il risentimento della popolazio­ne cristiana e per la pretesa di configura­re un regno integrato nel cristianesimo, senza minoranze che potessero met­tere in dubbio questa coesione».

L'occasione è offerta da un'altra ri­correnza: il millennio del Regno di Granada. Sarebbe imperdonabile tra­scurare questo capitolo: «Uno dei più terribili esili della storia di Spa­gna » insiste Pérez Tapias. Secondo il quale questo è, per i socialisti, il momento migliore per «recuperare la memoria storica di una popola­zione vittima di una convivenza negata». Pur non rischiando di op­porre nuovamente i due fronti ne­mici della guerra civile, anche queste memorie dividono l'opinione pubblica. Non tutti condannano Filippo III per aver firmato il decreto di espulsio­ne, non tutti pensano che la Spagna di oggi sia in debito con i «fratellastri» di allora. Non tutti condividono l'opinione di Falcones sull'esistenza di un altro fa­natismo religioso, quello cristiano. E nei forum dei giornali on line spagnoli sono più le critiche del plauso alla mozione presentata al Congresso: «L'ingiustizia storica fu nel 711 — scrive un lettore nel sito di Abc.es , dove in poche ore si sono accumulati 460 commenti —, quando ci invasero devastando vite e terre». Oppu­re: «E perché non fare causa all'Italia per i danni che i legionari romani inflissero alla nostra penisola?».

Pérez Tapias, 54 anni, è docente di fi­losofia all'Università di Granada, è stato eletto deputato alle ultime legislative, nel 2008, ed è autore di libri e articoli piuttosto conflittuali con il conservatori­smo della gerarchia ecclesiastica spa­gnola. Quindi, abituato alle polemiche.

Corriere della Sera 25.11.09
Tutti i razzisti si somigliano
Dal Sudafrica all’Italia di oggi, la paura del diverso genera intolleranza
di Gian Antonio Stella

«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: coma­schi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, in­glesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriati­co, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xinga­ni: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, re­stituendo la visita compiuta secoli prima da Mar­co Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infi­ne i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche mo­do alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.

Tutti. A partire da quelli che per i ve­neziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contra­rio, come dicono le parole stesse «Im­pero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, 

non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».

È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani so­stengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mon­do abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Del­fi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’om­belico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qual­che modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distri­buire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghe­zio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipen­dente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invi­vibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».

Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe se­guire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri terri­tori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradi­zioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi 'co­struttori di libertà' perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei coloniali­sti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da mi­gliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamen­to nella Pianura Padana dei roma­ni che quelli come Borghezio riten­gono ancora oggi degli intrusi colo­nizzatori, al punto che Umberto Bos­si vorrebbe che il «mondo celtico ri­cordasse con un cippo, a Capo Tala­mone » la battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una que­stione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli stadi con­tro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del de­mone antisemita, le spedizioni squadristiche con­tro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le avanzate in tutta Euro­pa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa parana­zista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da seco­li e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clo­chard bruciati per «ripulire» le città e gli inni im­mondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insie­me nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo «Anda­te tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei & co!», come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi eco­nomica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli ex­tracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente caval­cano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fat­ta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravi­gliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubbli­china privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato caccia­to oltre un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne di vive­re nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, nien­te più ascensori vietati ai neri e così via. (...) «Il genocidio dei boeri»: tito­lano oggi molti siti olandesi de­nunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande crimi­nali di colore gonfie di odio raz­ziale che da Durban a Johanne­sburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quoti­diano «Reformatorisch Dag­blad », di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafrica­no, quello che mostra come la bestia razzista possa presentar­si sotto mille forme, è qui. I boe­ri, protagonisti di tante brutali­tà contro le popolazioni indige­ne e oggi vittime di troppe ven­dette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpe­trato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africa­ni nati da un miscuglio di olan­desi, francesi, tedeschi... (...) È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di po­grom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittu­ra, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenri­ck e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemiti­smo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così co­m’è impossibile capire il razzismo se non si ricor­da che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...

martedì 24 novembre 2009

Repubblica 24.11.09
Esce un Meridiano dedicato ai suoi scritti curato da Marco Revelli
Bobbio, Il pessimismo di un illuminista
di Adriano Prosperi

Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui il filosofo torinese accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e cultura

Uno spettro si aggira per l´Italia: non il comunismo, regredito ufficialmente a mostro spaventa-bambini da cartoon giapponese. Quello che sembra destinato a levarsi al suo posto si chiama Illuminismo. E´ uno spettro che appare nei sogni di certi uomini di Chiesa, gli unici peraltro a evocarlo per nome, con aggettivi come «bieco», «torvo» e così via, con l´orrore e la determinazione dell´esorcista che affronta il demonio. Roba vecchia, degna degli sberleffi di Gavroche. Ma proprio nel contesto italiano dei nostri anni dominato da rivalse clerico-fasciste si affaccia oggi un illuminista italiano: Norberto Bobbio. Un´ampia selezione di scritti suoi curata con passione e intelligenza da Marco Revelli compone uno splendido Meridiano Mondadori grazie al quale possiamo rileggere una proposta pacata e intransigente di moralità civile e di impegno culturale e capire in che cosa possa riconoscersi un illuminista.
Il caso che governa le cose umane porta in libreria questo imponente volume insieme all´intervista data da Alberto Asor Rosa a Simonetta Fiori. Due voci diversissime, confrontabili solo per via di quelle opposizioni dilemmatiche care a Bobbio. Due testimonianze, tuttavia, di quello che fu e non è più il ruolo civile dell´intellettuale in un paese dove oggi non ci si vergogna a rispolverare la parola di Scelba - «culturame». Fermiamoci a Bobbio: il suo è un illuminismo di metodo e di desiderio. «Vorremmo essere illuministi» scrisse nel 1955. Si professò illuminista ma anche pessimista: non alla maniera di Sebastiano Timpanaro e del suo indimenticabile Leopardi, e tuttavia pur sempre alla scuola di Hobbes, di Machiavelli, di Marx. Quel pessimismo, su se stesso e sul paese dove si trovò a operare, non fu mai dismesso: ma proprio per questo si sentì spinto a non abbandonare mai la fede nella ragione.
«Uomo di ragione e non di fede», si definì nelle ultime volontà. Quella ragione era fatta di fede nell´Italia civile. La «sua Italia» - il titolo da lui scelto per un libro concepito come ultimo - l´aveva imparata alla scuola di maestri e di compagni qui rievocati e raccontati nella prima sezione del volume. Su tutti spicca Piero Gobetti. Il nome di quell´«esile biondo miope ragazzino», come lo descrisse Augusto Monti, ricorre in questi scritti con una frequenza più alta di quella di Machiavelli, appena minore di quelli di Kant, Hegel e Marx. L´Italia dove si formò era il paese che cancellava le vite e spegneva i pensieri degli oppositori e degli uomini liberi: ma le scintille accese da maestri come Gobetti e da amici come Leone Ginzburg bastarono a Bobbio per illuminargli il percorso in una ricerca intellettuale calata nel vivo dell´azione: «L´ora dell´azione» si intitolò il primo suo articolo, stampato nel settembre 1944 in un giornale clandestino del Fronte degli intellettuali nella Torino occupata. Seguirono quelli sul quotidiano del Partito che si chiamò appunto di Azione, un quotidiano intitolato: Giustizia e libertà. Il binomio inquietò il filosofo della libertà, Benedetto Croce che parlò di «ircocervo», preoccupato che la volontà giacobina di giustizia sociale soffocasse la libertà.
Ma che rapporto ci può essere tra libertà e uguaglianza? Ecco uno dei temi della casistica morale della politica di allora. Aiutano a ricomporre questa casistica i saggi della seconda sezione, intitolata ai «dilemmi etici» posti da questioni come intellettuali e politica, pace e guerra, libertà e uguaglianza. Marco Revelli richiama giustamente l´attenzione sullo stile del pensiero di Bobbio: un pensiero «dicotomico, duale, aporetico», un procedere per dilemmi. Le coppie oppositive si ritrovano nella terza sezione su «le forme della politica» e sono quelle di un dialogo dei massimi sistemi del ‘900: democrazia e dittatura, socialismo e comunismo, destra e sinistra. Il congedo lo danno le pagine di meditazione sulla morte e sul non essere del De senectute, un altissimo breviario morale scritto al termine del secolo come ricapitolazione di una vita e riflessione sui cambiamenti del mondo.
«Uomo di studio, non apolitico ma neppure troppo politicizzato»: così Bobbio si definì nell´autobiografia intellettuale che apre il volume. La distanza dai tumulti verbali e dall´uso strumentale della pagina scritta fu per lui una costante: la si riconosce nell´ironia lieve con cui rispose agli attacchi giornalistici dell´avanzante regime berlusconiano contro le «cariatidi velenose» dei senatori a vita. Ma la sua vigilanza sulla questione dei diritti di libertà fu pronta e severa. Il legame tra giustizia e libertà è il filo rosso delle riflessioni e degli interventi con cui Bobbio accolse via via le sfide che la realtà pose alla sua intelligenza e alla sua sterminata cultura. Un filo che parte da un capo: aveva imparato dal grande maestro di studio e di integrità morale che ebbe per professore, Francesco Ruffini, che «tutte le libertà civili sono solidali» e che una volta ammessa la prima, la libertà religiosa, «non possono non essere ammesse tutte le altre». E´ una lezione la cui lungimiranza possiamo oggi verificare nell´esperienza dell´attacco congiunto che un ritorno di fiamma clericale e una oscena dittatura televisiva conducono ai fondamenti costituzionali della Repubblica. Oggi da lì si è obbligati a ripartire. Ma non da zero, non dal livello del suolo: è dal sottosuolo che a Bobbio stesso - scrivendone sul Ponte nel gennaio 1994 - parve «uscito l´incantatore plebeo, cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi mestatori in nome, udite! Della liberaldemocrazia». Si poteva scendere più in basso? Secondo Bobbio, no. Liberi noi di pensare che, almeno qui, lui si sia sbagliato.

Repubblica 24.11.09
Distributori di preservativi a "prezzo politico" per gli studenti Francia, condom in facoltà "Venti centesimi contro l´Aids"
di g. mart.

PARIGI - Venti centesimi, molto meno di un caffè o di una sigaretta. Un prezzo irrisorio per difendersi dall´Aids e dalle numerose malattie veneree che stanno riprendendo piede in molti paesi occidentali: sarà questa la tariffa dei preservativi distribuiti in tutte le università francesi. "Sortez couverts", uscite coperti, è il nome di un´operazione che da anni cerca di incitare i giovani ad utilizzare i profilattici. Il 96% dei licei francesi è già equipaggiato con i distributori automatici, a partire dall´anno prossimo il condom a prezzi stracciati arriverà nella facoltà, nelle case dello studente, nelle mense. Gli studenti universitari, secondo le statistiche, sono meno prudenti dei loro fratelli minori. I liceali affrontano le prime esperienze sessuali con maggiore cautela mentre nei campus l´amore diventa un fatto banale e il preservativo è sempre meno utilizzato al momento di un rapporto con un nuovo partner. Per questo il ministro della Ricerca, Valérie Pecresse, ha voluto rilanciare la lotta all´Aids firmando una convenzione con i rettori delle università. Per incitare i giovani a proteggersi, i profilattici saranno venduti a venti centesimi l´uno, un prezzo che scenderà ancora per le confezioni da sei o dodici pezzi, distribuite a uno o due euro. Manco a dirlo, i preservativi a basso costo saranno prodotti in Cina, ma secondo i promotori dell´iniziativa «sono di qualità comparabile agli altri».
(g. mart.)

Corriere della Sera 24.11.09
La Commissione Sanità «Stop sulla pillola abortiva»
La richiesta al termine dell’indagine: acquisire il parere del ministero
di Margherita De Bac

Le ragioni «Non è accertata la verifica della compatibilità con la legge sull’aborto» La mossa
La Commissione del Senato vuole bloccare l’entrata ufficiale della Ru 486 nel nostro Paese

ROMA — «Stop alla pillola abortiva». Lo chiede la Com missione Sanità del Senato nella bozza conclusiva dell’in dagine che verrà esaminata oggi. Un mese di audizioni con personaggi di varia estra zione (bioetici, farmacologi, ginecologi, ministri) per arri vare a una rosa di proposte, molto esplicite e non sorpren denti.
Nel documento si sottoli nea innanzitutto che «la pro cedura di immissione in com­mercio di Mifegyne (il nome del farmaco) non ha previsto la verifica della compatibilità con la legge (la 194 sull’abor to) ». Quindi i senatori sugge riscono di sospenderla «per acquisire il parere del ministe ro » in modo da consentire, nel caso venga ritenuto neces sario «di riavviare la procedu ra dall’inizio».
È l’ultimo tentativo di ritar dare l’entrata ufficiale in Italia della Ru 486. Iniziativa in zona Cesarini. Tra pochi gior ni — a dicembre — verrà pubblicata in Gazzetta ufficia le la delibera con cui l’Aifa (agenzia italiana del farma co) ha autorizzato la pillola che già in molti Paesi europei viene offerta alle donne in al ternativa all’aborto chirurgi co. L’industria francese Exel gyne, che la produce, ha già inviato all’organismo diretto da Guido Rasi il foglietto illu strativo tradotto in italiano, con le modifiche dei termini entro i quali dovrà essere uti lizzata (49 giorni di gravidan­za anziché 63). L’azienda non si occuperà direttamente del la distribuzione. Il parere del la Commissione presieduta da Antonio Tomassini insiste sulla necessità che «la proce dura abortiva nelle sue diver se fasi venga effettuata in re­gime di ricovero ordinario», dunque in ospedale, fino a quando l’interruzione della gravidanza non sia stata com pletata. Infine si suggerisce di «verificare l’esistenza di studi di superiorità del meto do farmacologico o studi di non inferiorità».
Questa è una novità, un nuovo appiglio per scongiura re l’arrivo di un farmaco che viene visto come la polvere negli occhi dal centrodestra. Si richiama l’articolo 15 della legge 194 nel quale si preve de la possibilità di ricorrere a tecniche «più moderne, ri spettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose». In pratica si do manda di valutare se davvero la via farmacologica può esse re considerata innovativa ri spetto all’unica disponibile. Tomassini spera ora che il do cumento trovi «compattezza nella maggioranza. Nel fare la relazione ho tenuto conto so lo di quanto è emerso duran te le audizioni». Secondo Do natella Poretti, Pd, «l’obietti vo era e resta quello di ostaco lare il lavoro dell’Aifa. La Commissione ha dedicato 16 sedute su 24 a questo tema». La Ru 486 è stata autorizzata il 30 luglio, il 19 settembre Ra si è stato incaricato di predi sporre la pubblicazione della delibera. A settembre l’apertu ra dell’indagine, su proposta di Maurizio Gasparri (Pdl). Tra gli esperti ascoltati, il re sponsabile dell’ufficio legale dell’agenzia europea del far maco, l’Emea, il quale ha spie gato come l’approvazione di medicinali che seguono l’iter del mutuo riconoscimento debba essere compatibile con le leggi del singolo Paese. «L’Aifa avrebbe dovuto chie­dere un parere preventivo al ministero e ad affermarlo è stato un tecnico assolutamen te imparziale», fa notare il sot tosegretario al Welfare, Euge nia Roccella.

Il Fatto Quotidiano 24.11.09
Fine vita: riprende la discussione, dai Radicali 2400 emendamenti

La Commissione Affari sociali della Camera riprenderà a parlare di testamento biologico probabilmente la prima settimana di dicembre. Il numero degli emendamenti presentati dalle forze politiche su questo tema che ha diviso il Senato e il paese negli ultimi giorni della giovane Englaro è molto alto. Solo dal Pd ne sono arrivati 120 mentre quelli dei Pdl sono circa una trentina. I radicali, poi, ne hanno presentati 2400. Sia la maggioranza sia l`opposizione hanno presentato proposte di modifica sul contestato articolo della legge Calabrò che riguarda l`imposizione della nutrizione ai malati privi di coscienza. Così com`è uscita dal Senato, infatti, la legge rischia di essere in contrasto con l`articolo 32 che vieta l`imposizione di un trattamento sanitario contro la volontà dei paziente, e dunque è necessario trovare una mediazione politica che assicuri l`assistenza e la nutrizione per i malati senza incorrere nell`accanimento terapeutico. La legge potrebbe arrivare in aula prima di Natale, ma per l`approvazione definitiva si dovrà aspettare almeno la fine di gennaio.

Corriere della Sera 24.11.09
Il caso Interventi anche su pensioni e divorzio
Coppie di fatto, proposta dei finiani: entrino nella Carta
di Alessandra Arachi

ROMA — È scritto già nel titolo del comunicato che an nuncia la conferenza stampa di oggi: diritti delle coppie, la nuova frontiera. E Maria Ida Germontani lo spiega, con semplicità: «La società è cam biata, dobbiamo prenderne atto».
Per questo lei, senatrice pdl di area finiana, stamatti na a Palazzo Madama presen terà ben tre proposte di legge (firmate con Salvo Fleres e Bruno Alicata) per ridisegna re la disciplina dei diritti nel le coppie, anche di fatto. Una addirittura per modificare la Costituzione. Un’altra per la pensione. L’ultima per snelli re le procedure del divorzio: la pratica potrà essere omolo gata anche dal notaio, oltre che negli intasatissimi tribu nali.
Non ci sono preclusioni per le coppie omosessuali nel disegno di legge che prevede l’estensione della quota libe ra della pensione al conviven te. Nell’articolo 2 del provve dimento si legge, infatti, che la condizione per beneficiare della pensione è di avere una convivenza di almeno cinque anni. Di più: non è menziona ta nell’articolo 3 che prevede le esclusioni dal beneficio.
Nel provvedimento si dice che il beneficio non potrà es sere esteso se tra i conviventi c’è una differenza di età che supera i vent’anni; o se i con viventi siano già titolari di al tre pensioni; oppure se non siano residenti in Italia da al meno cinque anni; ma anche se il reddito supera di tre vol te il valore della pensione erogata.
La modifica richiesta per la Costituzione è netta e chiara: si modifica l’articolo 29 della Carta. Si conferma che «la Re pubblica riconosce e tutela i diritti della famiglia come so cietà naturale fondata sul ma trimonio », e si specifica che il matrimonio è quello «tra uo mo e donna», poi si aggiunge che la Repubblica «garantisce i diritti individuali scaturenti dai rapporti di coppia come stabiliti dalla legge».
Spiega la senatrice Ger montani: «È necessario ag giornare la Costituzione di fronte agli evidenti cambia menti della società, per i qua li non è più possibile chiude re gli occhi. Sono oltre 300 mi la le coppie conviventi non coniugate oggi in Italia con tro circa 15 milioni di sposa te. Ma il numero è destinato ad aumentare di anno in an no ».
L’ultima proposta di legge riguarda il divorzio. E preve de una modifica del Codice ci vile, lì dove all’articolo 158, primo comma, prevede che «la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice». Spiega Maria Ida Germontani: «Noi voglia mo che sia resa possibile an che davanti ad un notaio. Ben inteso non intendiamo intac care i tempi tecnici del divor zio, ma snellire le lungaggini delle attese burocratiche».

Il Foglio 24.11.09
L’analisi e i consigli di Pannella per Fini

"A me dispiace che Gianfranco Fini si sia fatto troppo coinvolgere nella quotidianità politica". Non è una bacchettata astiosa, quella di Marco Pannella, ma le parole del leader radicale -nel corso della conversazione settimanale con Massimo Bordin ai microfoni di Radio Radicale - sono comunque inaspettate, anche se arrivano al termine di una giornata nella quale sui siti web d`informazione ha campeggiato lo "stronzo" che il presidente della Camera aveva rivolto a "chiunque dà del diverso allo straniero". La distanza dal Pannella che a marzo leggeva negli interventi di Fini "il solo evento politico, radicali a parte, di questi tempi italiani" è evidente, anche se non siderale. Tutto si spiega, basta stare dietro alla serie di riferimenti storici, concentrati in pochi scambi con il direttore di Radio Radicale. Il 1982, innanzitutto. E` l`anno in cui Pannella si azzarda a partecipare al congresso del Msi di Giorgio Almirante. Passano pochi mesi e il giovane Fini, allora segretario del Fronte della gioventù, ricambia la cortesia intervenendo a nome del partito al Congresso dei Partito radicale. E' l`arco costituzionale" che, nei fatti, s`incrina. Fino a rompersi, quando nel `95, sempre Pannella - questa volta a Fiuggi per il congresso di Alleanza nazionale - si felicita per il fatto dì potersi rivolgere ad "amiche e amici", e non più a "signore e signori". E ora forse non va bene (ai radicali) "La svolta" finiana? "Non c`è dubbio vi sia sym-pathos con Fini - ha detto Pannella - perché lui sta crescendo, articolando i valori in obiettivi, come vuole il metodo laico". Ma più che l`accordo sui singoli temi, nei mesi passati Pannella apprezzava il "senso dello stato" dimostrato "nelle sue funzioni istituzionali". "Ora mi dispiace si sia fatto troppo coinvolgere dalla quotidianità. Così rischia di trovarsi coevo di Casini, Rutelli, Bersani, etc. Non c`è fretta invece, glielo avrei detto sicuramente e volentieri di persona".

Corriere della Sera 24.11.09
La lettura dei diari di Claretta Petacci 
Il duce antisemita di antica data. Il suo razzismo nasce molto prima delle leggi del ’38
di Giorgio Fabre

È stato intelligente, ma anche coraggioso, da parte del «Corriere» e di Antonio Carioti, scegliere, come anticipazione dei diari di Claretta Petacci cu­rati da Mauro Suttora ( Musso­lini segreto , Rizzoli), i brani sull’antisemitismo e sul razzi­smo mussoliniano. Coraggio­so perché questo tema sem­bra diventato un tabù, malgra­do le decine di documenti in proposito che sono stati pub­blicati negli ultimi anni. È una strana reazione. Non basta a giustificarla il fatto che Renzo De Felice, di cui molti degli storici che coltivano questo ta­bù sono stati allievi, abbia ne­gato che il Duce sia stato ap­punto razzista e antisemita molto prima delle leggi razzia­li. C’è qualcosa d’altro, in que­ste reazioni. Forse, malgrado tutto, Mussolini viene conside­rato un autentico e profondo padre della patria e un autenti­co e rappresentativo italiano molto più di quanto comune­mente venga detto. È stato co­sì che, anche di fronte ai diari di Claretta, si è visto qualcuno che dubitava, cioè negava veri­tà al «contenuto» di quanto scritto dalla Petacci.
Intanto, bisogna ribadire che non c’è il minimo dubbio che quei diari siano autenticis­simi: arrivarono dal Nord subi­to dopo la guerra insieme a va­ri pacchi di documenti fasci­sti; e da allora sono rimasti chiusi sotto chiave all’Archivio centrale dello Stato. Dopo di che, basta analizzare quei testi e confrontarli con la documen­tazione che conosciamo. E si vede così come anche il «con­tenuto » sia perfettamente in li­nea con la realtà dei fatti.
Due esempi. Il primo è una frase che è già stata contesta­ta, e che Claretta scrisse il 4 agosto 1938. Quel giorno Mus­solini le disse: «Io ero razzista dal ’21». Bene, il giorno dopo Mussolini di persona redasse l’«Informazione diplomatica» n. 18, pubblicata il 6 sui giorna­li, dove venne affermato pub­blicamente, per esteso, che il regime era razzista. In quel­l’ «Informazione diplomatica» il «razzismo italiano» venne fatto risalire al 1919 e poi vi si dice (Mussolini scrisse) che lui stesso aveva fatto la prima affermazione razzista «nel novembre 1921 — ripetiamo 1921». Mussolini aveva dunque detto a Claretta ciò che avrebbe ribadito il giorno dopo per iscritto.
Seconda questione oggetto di contestazione: la faccenda dell’Accademia d’Italia trattata in una pagina del 2 settembre 1938, i giorni dell’elaborazio­ne delle prime leggi contro gli ebrei. «Nel 1929, all’inaugura­zione dell’Accademia dichia­rai che mai e poi mai si sareb­be fatto un accademico ebreo».
Che nel discorso a stampa e forse anche in quello davvero pronunciato il 28 ottobre 1929 non risulti che Mussolini ab­bia detto qualcosa contro gli ebrei, è ovvio: il Duce fino al 1938 non espose agli italiani il proprio antisemitismo. Ritene­va che non gli convenisse e si­curamente non voleva scatena­re l’antisemitismo. Peraltro la testimonianza della Petacci non dice che il Duce fece quel­l’osservazione nel corso del di­scorso. Mussolini potrebbe aver detto qualcosa sugli ebrei in qualsiasi momento della ce­rimonia e anche in privato.
Quel che è certo, ed è prova­to da molto tempo dagli studi di Annalisa Capristo, è che un prestigioso ebreo ormai prati­camente eletto nell’Accade­mia, Federigo Enriques, era stato eliminato dalla lista de­gli eletti (e non era antifasci­sta) e quasi di certo da Musso­lini, tra il 15 e il 18 marzo 1929, sette mesi prima dell’inaugura­zione; in secondo luogo, di «nota pregiudiziale» contro gli ebrei nelle elezioni all’Acca­demia parla con sicurezza una lettera del 23 novembre 1929 di un intellettuale ebreo, Gui­do Fubini, a un altro prestigio­so intellettuale ebreo non elet­to, Tullio Levi Civita. Il 1929 inoltre è costellato di episodi, provati, di antisemitismo di Mussolini: come la minaccio­sa richiesta ai prefetti di sape­re se un certo direttore di filia­le della Banca d’Italia era ebreo. Infine, del 1931 è la can­cellazione da parte del Duce di un prestigioso premio dell’Ac­cademia, ormai assegnato, a Giuseppe Levi, proprio e sen­za dubbio perché «israelita» (testuale) e antifascista.



Corriere della Sera 24.11.09
Se il carcere di oggi ricorda il Seicento
di Paolo Di Stefano

Si dice che per conoscere un Paese basta andare a guar dare le sue galere. Se così fosse, dovremmo ricavarne che l’Italia è da secoli sempre la stessa. Il poeta russo Osip Mandel’štam, che subì la prigionia staliniana, nel suo Discorso su Dante scrisse che «nel subcoscien te degli italiani il carcere svolgeva un ruolo preminente, veniva succhiato col latte. Il Quattrocento imprigionava gli uomini con tale disinvoltura da rendere le carceri accessibili al pubbli co quanto le chiese o i nostri musei». È cambiato qualcosa in cinquecento anni? Poco, se è vero — come osservava Adriano Sofri di recente — che in Italia 30 mila persone all’anno entra no in carcere per uscirne nel giro di tre giorni. La frase di Man del’štam viene ricordata da Andrea Battistini in un saggio con tenuto nel volume Carceri vere e d’invenzione dal tardo Cin quecento al Novecento (a cura di Giuseppe Traina e Nunzio Za go, Bonanno Editore). Battistini si concentra sulla vita carcera ria nel Seicento, ripercorrendo i memoriali in versi e in prosa di scrittori e filosofi finiti in cella durante la Controriforma. È vero che gli scrittori reclusi, in genere, lavorano di metafora e che tra le sbarre Campanella, già tentato dal suicidio, elaborò la sua grande utopia. Ma qualche secolo prima Jacopone, rin chiuso per ordine di Bonifacio VIII in un sotterraneo vescovile, raccontò, in una celebre lauda, di essere costretto a scontare la scomunica al freddo, legato in ceppi e in catene, nutrito di pa ne raffermo e rancida brodaglia che ogni due o tre giorni gli veni va calata dall’alto.
Jacopone ne uscì vivo, ma di maltrattamenti in carcere si pote va morire allora esattamente co me si può morire oggi. Saranno cambiate le forme della tortura, non la sostanza. Il poeta napole tano Giambattista Marino, incar cerato più volte in un’età in cui mancavano i fondamentali diritti umani, riuscì a gettare in far sa la sua pena e si descrisse «fatto rauco, smilzo, lungo e sec co » in una prigione simile a «un infernetto piccolino, come quel fornellino da cocer pasticci». Il siciliano Paolo Maura rac conta che il suo tugurio era abitato da topi che «parianu cavad di burgugnuni», da «scravagghi», da «piducchi» e da cimici che «facianu battagghiuni». La detenzione, secondo lui, era una ragnatela che pigliava solo mosche e non mosconi.
Il bohémien lombardo Fabio Varese passò trenta giorni in cella, dove subì i peggiori tormenti fisici e i flagelli più perver si dai suoi aguzzini, tra cui trenta volte «el foeug ai pé». Sadi smo da «universo concentrazionario», ha scritto Vincenzo Consolo a proposito delle pene inflitte a un altro poeta dialetta le, il siciliano Antonio Veneziano, al tempo di Filippo II. In un capitolo autobiografico, Cervantes fa incontrare Don Chisciot te, in una locanda, con un detenuto che rievoca la sua via cru cis: ogni giorno c’era qualcuno «da impiccare, un altro da im palare, un altro a cui mozzare le orecchie, e ciò per futili moti vi ». In carcere la storia si è fermata. Le immagini che in questi giorni ritraggono il cadavere di Stefano Cucchi potrebbero sta re benissimo nelle memorie di un secolo, come il Seicento, tra i più repressivi e violenti della nostra storia moderna.

lunedì 23 novembre 2009

Corriere della Sera 23.11.09
Obbligo di felicità e solitudine: il dramma delle neomamme
di Silvia Vegetti Finzi


Diventare mamma è stato sem­pre considerato un evento natu­rale e istintivo e si sottolinea il fatto che «quando nasce un bambino nasce una ma­dre ». Il tragico e per fortuna eccezionale fatto accaduto nel Padovano, dove una donna da poco madre di una neonata ha ucciso il primogenito di tre anni, ci ricor­da che le cose non sono così semplici e che, come tutte le relazioni umane, anche quella primaria va preparata e protetta.
Il parto è un evento critico che non si esaurisce con la nascita del neonato ma si protrae per tutto il primo anno, quando il bambino passa dal grembo alle braccia della madre, dal dentro al fuori. Rispetto alla intimità della gravidanza, il parto può essere vissuto come un distacco, una per­dita che suscita un sentimento di lutto. Co­me tale viene aggravato dalla solitudine in cui si trovano molte puerpere da quando la famiglia estesa ha lasciato il posto a quella nucleare. In quei frangenti accado­no momenti transitori di malinconia ma ci si deve preoccupare quando si profila uno stato protratto di depressione. Un di­sagio che colpisce circa il 12 % delle neo­madri e che non deve essere sottovalutato perché le conseguenze, come nel caso di Padova, possono in certi casi essere così gravi da richiedere un vasto programma di prevenzione e informazione.
Spesso la mamma in difficoltà tace per­ché si vergogna di sentirsi depressa pro­prio nel momento in cui tutti si attendo­no da lei il massimo di felicità. Ma il fatto che non chieda aiuto non significa che va­da tutto bene. Chi le sta accanto dovrebbe essere preparato a cogliere i segnali di ma­lessere che invia: insonnia, stanchezza cro­nica, inappetenza, crisi di pianto, ansia e mutismo sono i sintomi più comuni di un disturbo dalle mille sfaccettature. In altri Paesi, come la Francia, una ostetrica com­pie regolari visite domiciliari in modo da offrire aiuto a mamme e bambini spesso isolati. Nella maggior parte delle depres­sioni, dove non c’è un contesto psichiatri­co, le donne in crisi devono comunque es­sere non sostituite ma sostenute perché ri­prendano fiducia nella capacità di essere madri. 



Corriere della Sera 23.11.09
Il procuratore Critico anche sul processo breve: cifre paradossali
Spataro in tv attacca Alfano La maggioranza: eversivo
«Giustizia con logica aziendale». E il Pdl insorge
di Alessandra Arachi

Sandro Bondi: «Non c’è un solo Paese al mondo in cui un magistrato può dire quello che ha detto Spataro»
Antonio Di Pietro «Prendersela con magistrati integerrimi è come avere un tumore e prendersela con il medico»

ROMA — Non esita Arman­do Spataro. Il ddl Alfano sulla ri­forma della giustizia? «È inutile e sembra ispirato ad una logica aziendale, lì dove indica lo sgan­ciamento dei pm dalla polizia giudiziaria». È pacato il procura­tore aggiunto di Milano capo del pool antiterrorismo. Ma molto molto diretto.
Ieri pomeriggio il procurato­re aggiunto di Milano Spataro era seduto sulla poltrona di Lu­cia Annunziata nel programma In mezz’ora di Raitre ed è par­lando del processo per il seque­stro dell’ex-imam Abu Omar e del non doversi procedere per il capo del Sismi Niccolò Pollari che ha detto: «Dei servizi ho ri­spetto per le tante vittime, per la professionalità di tanti loro componenti. Vi sono stati mo­menti in cui hanno dato molto, in altri meno». Ma ben presto sono state le domande sulla ri­forma della giustizia a prendere il sopravvento.
Il processo breve? Spataro non ha dubbi: «Il ministro della Giustizia Alfano non si è accor­to di essersi infilato in un para­dosso: ha detto che soltanto l’1% dei processi subirà uno stop. E allora? La sua frase è evi­dentemente un pericoloso boo­merang. Se ha ragione lui vuol dire che il 99% dei processi fun­ziona egregiamente e il 99% dei cittadini non si lamenta. Dun­que: qual è l’urgenza di fare una legge che, di fatto, non serve?». Accomodato al tavolo con Lucia Annunziata, Spataro ce ne ha avute anche per il ministro del­l’Interno Roberto Maroni: «Sul terrorismo internazionale guai a generare allarmi esagerati, Al Qaeda non esiste più come orga­n izzazione, ormai è un brand...». È deciso Spataro: «In Italia chi gode di più garanzie processuali non sono i terroristi o i mafiosi ma i colletti bian­chi ». E ancora: «È più sicuro Pa­lazzo Grazioli o Palazzo Chigi per il premier? Non lo so, non conosco le due sedi».
Non appena si sono spente le luci negli studi Rai, fuori si so­no accese le polemiche. Il Pdl è partito in massa. Sandro Bondi, ministro della Cultura: «Non c’è un solo Paese al mondo, neppu­re quelli più lontani dalla demo­crazia, in cui un magistrato può dire pubblicamente quello che ha detto Spataro...». Segue a ruo­ta Fabrizio Cicchitto, capogrup­po del Pdl alla Camera: «Tutti i conti tornano: è in pieno svolgi­mento il circo mediatico-giudi­ziario. Basta vedere: dopo In­groia ad Annozero adesso Spata­ro a In mezz’ora ». E anche Da­niele Capezzone, portavoce Pdl: «Con la collaborazione della An­nunziata si è svolta su RaiTre una sorta di Tribuna politica.».
Da Palazzo Madama ci pensa la senatrice Cinzia Bonfrisco a a lanciare la prima bordata: «Quello di Spataro è un vero e proprio tentativo di golpe», an­che se poi è Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, a tirare la bordata più pesante. Dice infatti : «Spataro e In­groia? Siamo evidentemente di fronte ad un’azione eversiva contro la lega­lità democrati­ca del Paese dove gli Abu Omar e gli Spatuzza di­ventano i cam­p ioni. Che due giudici co­me loro indos­sino la toga per i propri di­segni politici è motivo di in­quietudine ».
Immediata la replica di Antonio Di Pietro, ex-pm oggi leader dell’Italia dei Valori: «Prendersela con magistrati in­tegerrimi co­me Spataro ed Ingroia, che per tutta la vita hanno combattuto terrorismo e criminalità orga­nizzata, è come prendersela con il medico quando si è affet­ti da tumore». 


Corriere della Sera 23.11.09
Londra Il caso dell’uomo che scambiò la compagna a letto per un ladro
Il killer sonnambulo assolto «L’amnistia dell’inconscio»
Ha strangolato la moglie. I medici: andava punito
di Mario Pappagallo 


MILANO — Si muovono co­me se fossero svegli, ma in real­tà dormono. Sonnambuli. Pos­sono anche guidare l’auto, ma meglio non svegliarli. L’aggres­sività è una delle reazioni lega­te alla paura della sorpresa. Non sanno quel che fanno e nemmeno ricordano nulla do­po, al mattino quando si sve­gliano. Caso mai stanchi, ma si­curi di aver profondamente dor­mito. A volte, il sonnambuli­smo è un alibi: storie di infedel­tà giustificate con un disturbo che ha sempre attirato la fanta­sia di scrittori, registi, musici­sti. «La sonnambula» di Vincen­zo Bellini (1831) ne è un esem­pio. E creato miti e leggende.
Non solo. Il sonnambulismo è anche al centro di eventi giu­diziari. L’ultimo è da romanzo giallo: uxoricida sonnambulo assolto per malattia. Un uomo, con alle spalle una lunga storia di sonnambulismo, ha ucciso la moglie, strangolandola, men­tre dormivano assieme nel loro camper. In Galles. Brian Tho­mas, 59 anni, ha detto di aver avuto un incubo e di aver credu­to, nel sonno, che dei ladri fos­sero entrati nel camper, mentre si trovava in vacanza con la mo­glie, Christine, 57 anni. I giudi­ci all’inizio avevano stabilito che era insano di mente e ne avevano chiesto il ricovero in un ospedale psichiatrico. Ma successivamente hanno accerta­to che Thomas soffriva di di­sturbi del sonno e che la sua mente non esercitava alcun con­trollo sul corpo quando ha strangolato la moglie: assolto. «Assurdo e grave — commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano —. Avrei concesso tutte le atte­nuanti, ma mai l’impunità. Il sonnambulismo negli adulti è sempre collegato a psicopatolo­gie note. Sono in cura e posso­no essere controllati». E l’incon­scio? L’inconscio che agisce prendendo il sopravvento sul conscio? «Certo. I miei pazienti sonnambuli registrano anche quello che dicono nel loro stato di parasonnia motoria — confi­da Mencacci —. A volte verità scomode. 'Ho detto questo? Non è possibile... però a pensar­ci bene è vero', è il commento più comune quando si riascolta­no ». Eppoi c’è il libero arbitrio. «Nonostante i progressi nel campo delle neuroscienze e le continue sorprese, nessuna fi­nora può intaccare il libero arbi­trio di un individuo», commen­ta ancora Mencacci. Insomma, il sonnambulismo non può con­cedere impunità. Anche per­ché, in questo modo, uno come mister Thomas sarebbe autoriz­zato a commettere qualsiasi rea­to senza conseguenze. Stia at­tenta un’eventuale nuova mo­glie.
La cronaca. Mister Thomas dormiva con la moglie in un camper. Erano in vacanza. Di­sturbati da un gruppo di ragaz­zi, si sono poi riaddormentati. Ma l’uomo ha avuto un incubo e ha strangolato la moglie. Si è risvegliato, ore dopo, con accan­to la compagna morta. Dram­matica la telefonata alla polizia: «Credo di aver ucciso mia mo­glie... Oh mio Dio, lottavo con quei ragazzi, ma era Christine. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?», ha ripetuto più volte. Piangeva e tremava. Dovevano festeggia­re i 40 anni di matrimonio. «Si tratta di un caso quasi unico in Gran Bretagna e se ne contano circa 50 in tutto il mondo», ha commentato il capo della Procu­ra londinese, Iwan Jenkins.
Forse Christine ha svegliato il marito e lui ha reagito in mo­do aggressivo... «Possibile — dice Mencacci —, ma non suffi­ciente ad assolverlo. Io la penso così». Un mito da sfatare è quel­lo che svegliare un sonnambu­lo potrebbe causargli un infar­to, danni al cervello o qual­cos’altro di grave. Non è un mi­to, invece, che sia pericoloso per chi lo sveglia. «In letteratu­ra sono stati registrati casi di uomini che nel sonno hanno uc­ciso o tentato di uccidere la pro­pria moglie», spiega Giuseppe Plazzi, neurologo dell’universi­tà di Bologna, autore di una re­view sul sonnambulismo pub­blicata da Neurological Scien­ces .
Che cosa ha scritto Plazzi? Che il 30% dei bambini fra i 5 e i 12 anni vive almeno un’espe­rienza di sonnambulismo, che in circa il 3% è persistente. E che, invece, si manifesta occa­sionalmente nel 2-3% degli adulti.
Nei bambini, crescendo pas­sa. Negli adulti è collegabile a psicopatologie. C’è una familia­rità. Chi ne soffre può anche avere episodi una volta a setti­mana. Durata: 15-20 minuti. Lo stress può esserne causa, come pure la privazione di sonno, l’al­col e la droga.
I sonnambuli sono in grado, mentre dormono, di guidare la macchina, rispondere a doman­de, ascoltare a tutto volume la radio, abbuffarsi di cibo, fare sesso... uccidere la moglie. Sen­za poi ricordare nulla.



Corriere della Sera 23.11.09
Risvegli aggressivi 
I neurologi: «Attenti a non svegliarli. Confusi e impauriti, possono essere molto aggressivi»

Brian Thomas assieme alla moglie. L’uomo è stato processato per averla strangolata, ma è stato assolto per il particolare tipo di sonnambulismo di cui soffre
Il sonnambulismo colpisce soprattutto nell’infanzia e accompagna in modo persistente le notti del 3% dei bambini fra i sei e i sette anni.

Si manifesta occasionalmente anche nel 2-3% degli adulti.

Sopraggiunge nella prima parte del sonno, quando si entra nel sonno profondo non-Rem, causato da un risveglio incompleto. In questa fase il corpo può compiere movimenti, le attività cerebrali sono al livello più basso e lo stato di coscienza è minimo

Le cause
Può essere determinato da fattori che provocano risvegli, per esempio le apnee notturne, o che aumentano la durata del sonno profondo, come febbre, abuso di alcol, mancanza di riposo, farmaci ipnotici. C’è anche una familiarità. Un episodio di sonnambulismo può durare da 15 a 20 minuti
La terapia
Nei bambini si risolve di solito spontaneamente con l’adolescenza, negli altri casi si può tenere bene sotto controllo con un sonno regolare, sane abitudini di vita e terapie mirate a risolvere le cause che determinano il disturbo. Un sonnambulo non necessariamente cammina per casa: può semplicemente avere un sonniloquio, cioè sedersi sul letto ed emettere qualche suono o parola. Buona regola è non svegliare un sonnambulo: il repentino ritorno a una condizione di coscienza potrebbe causare reazioni aggressive L’opera
«La sonnambula» è un’opera semiseria in due atti messa in musica da Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani. È considerata con «I puritani» e «Norma» uno dei tre capolavori del compositore catanese, che la compose in soli due mesi, mentre si trovava a Moltrasio, nella villa dei Conti Lucini Passalacqua, vicino all’abitazione di Giuditta Turina, una giovane con cui intratteneva una relazione. L’opera debuttò al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo del 1831: la trama del contrastato amore tra Amina ed Elvino culmina nella celebre aria «Ah, non credea mirarti», che la protagonista canta in stato di sonnambulismo (nella foto Nathalie Dessay in scena al Teatro alla Scala di Milano)

Corriere della Sera 23.11.09
Il discorso pronunciato dal Führer nel suo quartier generale quattro mesi prima di morire Hitler: non conosco la parola resa
«Lottiamo per esistere, se perdiamo l’Europa sarà bolscevica»


Giunto all’ultimo colpo di coda, Adolf Hitler si dice certo della vittoria. Il discorso di cui ripor­tiamo la parte iniziale risale al 28 dicembre 1944. Il Führer lo tiene nel suo quartier generale in As­sia, detto «nido d’aquila» (da non confondersi con l’altro «nido d’aquila» nelle Alpi bavaresi). Il testo è tratto dal secondo volume, in libreria da domani, della raccolta «I verbali di Hitler» (Li­breria Editrice Goriziana, pp. 563, € 35), versio­ne italiana, tradotta da Flavia Paoli, dell’opera in cui lo storico Helmut Heiber ha riordinato i resti dei resoconti stenografici delle riunioni tra il Führer e i vertici militari, in gran parte distrutti al termine della guerra. Il primo volume, di cui il «Corriere» ha pubblicato un estratto il 2 settem­bre, comprende gli anni 1942-43, il secondo il pe­riodo 1944-45. Questo discorso viene pronuncia­to al culmine dell’offensiva delle Ardenne, tenta­tivo disperato del Terzo Reich di rovesciare le sorti della guerra a Ovest. Hitler confida nella consapevolezza dei tedeschi che la sconfitta por­terebbe al loro annientamento e alla bolscevizza­zione dell’Europa. Gli angloamericani, afferma, non possono fermare il comunismo, come dimo­strano le difficoltà dei britannici con i partigiani greci e non si battono per la loro esistenza. Quin­di la determinazione superiore dei tedeschi può ancora piegarli. ( A. Car.)

Miei signori! Vi ho invitati qui prima di un’azione dalla cui riuscita dipen­deranno ulteriori colpi in Occiden­te. Intanto vorrei mettere in luce brevemente il giusto significato di quest’unica azione. Vorrei metterla in relazione con la gran­de situazione nella quale ci troviamo e con i pro­blemi che ci sono posti e che, sia che li risolvia­mo felicemente o infelicemente, certamente tro­veranno una soluzione: in un caso a nostro favo­re, nell’altro con il nostro annientamento.
In questa guerra, come già nella guerra mon­diale, non si tratta di decidere se alla Germania verrà accordata una forma di esistenza benevola in caso di vittoria dei nostri avversari, ma si trat­ta di decidere se la Germania vuole continuare a esistere o se verrà annientata. In questa guerra non viene deciso un problema di organizzazione statale, come forse avveniva nelle guerre del XVII o del XVIII secolo, ma alla fine viene decisa l’esi­stenza dell’essenza del nostro popolo; non l’esi­stenza del Reich Tedesco, ma l’esistenza dell’es­senza del popolo tedesco. Una vittoria dei nostri nemici porta necessariamente alla bolscevizza­zione dell’Europa. Che cosa la bolscevizzazione significhi per la Germania deve essere chiaro e sarà chiaro a tutti. Non si tratta di una questione di cambiamento di Stato. Cambiamenti di Stato sono avvenuti innumerevoli volte nella vita dei popoli; vanno e vengono. Qui si tratta dell’esi­stenza della sostanza in sé. Le sostanze o vengo­no mantenute o eliminate. Il mantenimento è il nostro obiettivo. L’eliminazione potrebbe an­nientare per sempre una razza.
Battaglie come le attuali portano in sé il carat­tere di conflitti ideologici e spesso durano molto a lungo. Anche per questo esse non sono parago­nabili alle battaglie del periodo fridericiano. Allo­ra si trattava di una nuova grande potenza tede­sca che si faceva strada e questa grande potenza, vorrei dire, doveva ottenere combattendo lo sta­tus di grande potenza europea. Oggi però per la Germania non si tratta di dimostrare il suo valo­re come grande potenza europea, invece il Reich tedesco sta conducendo una guerra ideologica per esistere o non esistere. La vittoria stabilizze­rà definitivamente questa grande potenza, che già esiste per numeri e valore, e la sconfitta di­struggerà e smembrerà il popolo tedesco. Solo qualche settimana fa avete sentito le dichiarazio­ni di Churchill, ha detto che tutta la Prussia orien­tale, parti della Pomerania e della Slesia superio­re — forse tutta la Slesia — verranno date ai po­lacchi; i 7 o 10 o 11 milioni di tedeschi dovranno essere cacciati. Spera comunque di poterne eli­minare altri 6 o 7 milioni con gli attacchi aerei, così lo sfratto non creerà grandi difficoltà. Que­sta oggi è la dichiarazione razionale di un poten­te uomo di Stato in un’assemblea pubblica. Pri­ma una cosa così sarebbe stata definita una men­zogna propagandistica. Qui si dice qualcosa che non corrisponde nemmeno lontanamente a quel­lo che accadrebbe in realtà perché, se la Germa­nia crollasse, l’Inghilterra non è assolutamente in grado di opporre una reale resistenza al bol­scevismo. Questa è una teoria debole. In queste ore, nelle quali il signor Churchill con una peno­sa figuraccia si ritira da Atene e non è in grado di affrontare il bolscevismo nemmeno in un ambi­to così ristretto, in questo momento quell’uomo vuole risvegliare l’impressione di essere capace di contenere su qualche confine europeo l’avan­zata del bolscevismo. È una fantasia ridicola. L’America non può farlo e non può farlo l’Inghil­terra. L’unico Stato, il cui destino alla fine è mes­so in gioco da questa guerra, è la Germania che o si salva o, se dovesse perdere questa guerra, an­drà a fondo.
Vorrei aggiungere subito: da quanto dico non traete la conclusione che io pensi anche solo lon­tanamente alla possibilità di perdere la guerra. Nella mia vita non ho mai conosciuto il concetto di capitolazione e io sono uno di quegli uomini che si sono fatti strada dal nulla. Per me quindi la situazione nella quale ci troviamo oggi non è nulla di nuovo. Una volta la situazione per me era molto peggiore. Lo dico solo perché com­prendiate perché perseguo il mio obiettivo con tanto fanatismo e perché nulla può piegarmi.
Per confutare al meglio l’obiezione che in que­ste cose si dovrebbe pensare con razionalità mili­tare basta un breve sguardo alla grande storia mondiale. La riflessione razionalmente militare ad esempio dopo la battaglia di Canne avrebbe assolutamente convinto tutti che Roma era per­duta. Abbandonata da tutti gli amici, tradita da tutti gli alleati, con il nemico alle porte dopo la perdita dell’ultima armata ancora in grado di combattere, ciò nonostante la fermezza del Se­nato — non del popolo romano in sé, ma la fer­mezza del Senato, del comando — allora ha sal­vato Roma. Nella nostra storia tedesca abbiamo un esempio simile. È la Guerra dei sette anni, nella quale già il terzo anno in innumerevoli or­gani di carattere militare e politico prevaleva la convinzione che la guerra non si sarebbe mai po­tuta vincere. Doveva essere perduta anche in ba­se alle normali valutazioni; perché 3,7 milioni di prussiani affrontavano circa 52 milioni di euro­pei. Ciò nonostante questa guerra è stata vinta. Quindi in conflitti come questo l’atteggiamento mentale è realmente uno dei fattori decisivi. Es­so permette di trovare sempre nuove vie d’usci­ta e di mettere in movimento nuove possibilità. Soprattutto è decisivo sapere che anche il nemi­co è costituito da esseri umani che hanno carne e sangue, che hanno nervi e che non devono combattere per la loro esistenza. Cioè: questo ne­mico non sa, come noi, che si tratta di esistere o non esistere. Se anche gli inglesi perdessero la guerra, per loro non è così decisivo di fronte a quello che hanno già perduto con la guerra in sé. L’America non perderà lo Stato e non perde­rà l’essenza del popolo. Ma la Germania combat­te per esistere o non esistere. Tutti potete valuta­re che il popolo tedesco lo ha capito. Basta che guardiate i giovani tedeschi di oggi e li confron­tiate con i giovani della guerra mondiale. Nel 1918 il popolo tedesco si è arreso senza necessi­tà. Oggi resiste e resisterà imperturbabile.
Com’è la situazione dal punto di vista milita­re? Chi segue i grandi conflitti della storia mon­diale trova spesso situazioni di carattere simile, forse situazioni molto più gravi. Perché non si deve dimenticare che stiamo ancora difendendo un territorio più grande di quanto fosse allora la Germania e disponiamo di una forza armata che anche oggi, presa in sé, è la più forte sulla terra. In questo sta la dimostrazione della forza del po­polo tedesco, ma anche dei soldati tedeschi che in fondo sono un’emanazione della forza popola­re.