sabato 28 novembre 2009

l’Unità 28.11.09
Il ministro chiede all’Aifa di riscrivere la delibera. «In ospedale fino ad aborto avvenuto»
Forzata la194. LiviaTurco: «Una prevaricazione. La degenza potrebbe durare 7 giorni»
RU486, la trappola di Sacconi: «Si, ma ricovero coatto»
di Jolanda Bufalini

Anna Finocchiaro
Il Governo di fatto vuole arrivare ad una modifica della legge 194
Ignazio Marino
Le decisioni sulle terapie non possono essere prese dai politici

Il ministro del Welfare detta le regole all’Agenzia del farmaco. E chiede di ripensare la delibera di luglio. Ma non può farlo sulla base della legge 194 e quindi esercita la sua pressione politica con una lettera.

Il ministro Sacconi, di cui non sono note le competenze mediche, infatti ha studiato giurisprudenza ed economia del lavoro, ha ieri dettato, con una lettera all’Aifa, l’agenzia del farmaco le modalità d’uso della pillola abortiva, la Ru 486, in Italia: «Tutto deve avvenire in regime di ricovero ordinario». In più: «occorre una specifica sorveglianza da parte del personale sanitario», inoltre: «l’Agenzia del farmaco valuti se sia necessario riconsiderare la delibera adottata al fine di garantire modalità certe di somministrazione del farmaco onde evitare ogni possibile contrasto con la legge n.194 del 1978».
A parte la «specifica sorveglianza», che richiama, per chi dovesse scegliere l’interruzione farmacologica della gravidanza, una terminologia da carcere duro, la novità principale che il ministro vorrebbe vedere introdotta è quella del «ricovero ordinario fino all’accertamento dell’avvenuta espulsione dell’embrione». Una differenza sostanziale da ciò che aveva deliberato il CdA dell’Aifa il 31 luglio scorso, per il quale «deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art. 8 della Legge n.194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza». Differenze sostanziali per ragioni normative e per ragioni tecniche: 1)la legge 194 non stabilisce i tempi del ricovero ma parla esclusivamente di «eventualità» del ricovero. 2)l’aborto farmacologico prevede due momenti, con la somministrazione di due diversi farmaci, con il mifegyne, spiega Gabriella Pacini dell’associazione “Vita di donna”, si interrompe la gravidanza, con la prostaglandina somministrata dopo due giorni si ha l’espulsione dei tessuti embrionali.
BOICOTTAGGIO
Sono cose, secondo l’ex ministro della Sanità Livia Turco «vergognose e di una gravità inaudita». Dettate non dal fine di «tutelare la salute della donna ma di boicottare la Ru486, di coartare la coscienza dei medici, di imporre loro una decisione politica». Perché è chiaro che non c’è struttura sanitaria che possa sopportare il peso di ricoveri che possono
prolungarsi per molti giorni, né ci sarebbero donne disponibili ad accettare la costrizione di essere rinchiuse in una stanza d’ospedale, a letto senza necessità. Almeno, si indigna Livia Turco, che è un fiume in piena di fronte a quella che considera una prevaricazione per la quale non c’è altra definizione che «ricovero coatto» «dovrebbero avere il coraggio di dire che non vogliono la pillola abortiva, che non la vogliono perché il vaticano è contrario. Ma, per favore, non invochino la 194 e la salute delle donne, perché non c’è nemmeno un argomento tecnico a sostegno di quelle posizioni». Invece c’è «una misoginia profonda. Una sfiducia nelle donne». Secondo il sottosegretario Eugenia Roccella se l’aborto è più facile, le donne lo fanno a cuor leggero? «Ma figuriamoci!»
Da ministro Livia Turco ha avviato la procedura di commercializzazione del farmaco in uso da venti anni nella Unione europea ma «non mi sono mai permessa di dire che è preferibile all’intervento chirurgico, perché non è compito del ministro dire quello che va lasciato alla scienza e coscienza dei medici e alla scelta delle donne».
A chiusura della lettera all’Aifa il ministro chiede di valutare se non sia il caso di rivedere la delibera adottata a luglio. Su che base? Per valutarne la compatibilità con la 194. Ma la delibera di luglio cita espressamente la legge del 1978. «E infatti è perfetta», chiosa Livia Turco, la quale si chiede anche perché quella delibera non sia stata pubblicata, come sarebbe già dovuto avvenire, sulla Gazzetta ufficiale.
Argomenta il ministro che secondo la commissione di indagine conoscitiva del Senato «la procedura sin qui seguita dall’Aifa nopn ha previsto la verifica della compatibilità con la legislazione vigente».
Il problema è, però, spiega Donatella Poretti, senatrice radicale-Pd, che il parere della commissione non è vincolante. E infatti il ministro non ha potuto far altro che una lettera. Ma, aggiunge la parlamentare, «una così plateale e spudorata pressione politica verso un organo indipendente non si era mai vista». A rigore, quindi, l’Aifa dice Livia Turco «che sin qui si è comportata con grande correttezza, dovrebbe tenere il punto».
«Non è successo nulla chiosa Donatella Poretta non c’è un evento scientifico nuovo, non c’è una nuova legge, l’Aifa può andare avanti». A meno che il governo non miri a piegarli «sulla base del codice Roccella», oppure alle dimissioni dell’intero CdA dell’agenzia del farmaco.❖

l’Unità 28.11.09
La scelta meno cattiva
di Umberto Veronesi

Molti di noi scienziati ritengono che la vita inizia con l’abbozzo del pensiero infatti il termine si calcola con la morte celebrale.
Lo stesso vale per l’inizio della vita, quindi noi non possiamo sapere quando il pensiero è nell’embrione ma sappiamo quando nascono le prime strutture nervose, intorno al 15 ̊ giorno circa ..quindi fino a quel momento matematicamente non c’è possibilità di vita celebrale. Per molto tempo il pensiero di considerare l’embrione solo dopo 1a quindicesima giornata è stato molto diffuso, è stato accettato anche dalla chiesa una quindicina d’anni fa, poi c’è stato un rivolgimento teologico. Ma non lo discuto.
L’aborto non l’amiamo ma pensiamo che il proibizionismo sia peggio, perché porta le donne a farlo clandestinamente. Quindi l’aborto è un male minore quando c’è una situazione di evidente danno, ormai accettato filosoficamente, come una decisione intelligente di fronte a due scelte difficili. Scegliamo dunque la meno cattiva delle due. La pillola RU486, mifepristone, è una pillola molto semplice che agisce inibendo i recettori per il progesterone. Il progesterone è un ormone che facilita la gravidanza e la gestazione. Se noi blocchiamo nell’utero i recettori del progesterone, il progesterone non può più mandare avanti l’attività procreativa con il suo percorso normale. E quindi interrompe la gravidanza in maniera semplice: con una pillola. Io credo che il buon senso debba vincere. Proibire questa soluzione incruenta, vuol dire non andare incontro ai bisogni della donna di non soffrire inutilmente. La sicurezza è quasi totale, del 98/97%, e tutti i paesi l’hanno già adottata. So che in Francia si facilita questa distribuzione e viene propagandata già nelle scuole, insieme alla pillola del giorno dopo come una soluzione più semplice. ❖

Repubblica 28.11.09
Il Senato polacco approva il divieto di bandiera rossa
La nuova legge equipara simboli nazisti e comunisti
"Non vogliamo nel nostro Paese icone di un sistema che produsse genocidi"
di Andrea Tarquini

BERLINO Se state per recarvi a Varsavia, evitate un certo tipo di kitsch politico nell´abbigliamento: un pullover con falce e martello o stella rossa, o una t-shirt con il volto di Ernesto "Che" Guevara, tra qualche mese saranno illegali e potrebbero costarvi una denuncia e una condanna fino a due anni di prigione. Su iniziativa dell´opposizione di destra nazionalpopulista, il Senato (seconda Camera) ha infatti emendato la legge 256 del Codice penale. Quella che punisce ogni incitamento all´odio razziale o politico. Iscrivendovi il divieto di ogni simbolo di ideologie totalitarie, ed equiparando quindi nel bando più assoluto simboli, bandiere, vessilli comuniste e naziste.
Alla legge emendata, come scrive il Times di Londra nella sua edizione online, mancava solo la firma del capo dello Stato, Lech Kaczynski. E ieri sera lui l´ha promulgata, insieme alla legge sulla castrazione chimica dei pedofili pericolosi. Nessuno del resto si aspettava che il presidente smentisse il suo anticomunismo ultraintransigente. Il quale, insieme al linguaggio più pesante e a tratti insultante e diffamatorio verso ogni avversario politico, compreso il premier liberale Donald Tusk, contro l´idea stessa di Unione europea e contro i diversi d´ogni genere, è stato il cavallo di battaglia suo e di suo fratello gemello Jaroslaw, che fu premier tra il 2005 e il 2007. La legge entrerà in vigore 6 mesi dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.
«Nessun simbolo del comunismo ha diritto di esistere in Polonia, perché questi simboli sono simboli di un sistema che produsse genocidi, e che dovrebbe essere paragonato al nazismo», ha detto Jaroslaw Kaczynski. Il governo liberale di Tusk non ha obiezioni di principio, ma si sente decisamente infastidito e disturbato dalla legge, che può divenire nociva all´immagine della Polonia nella Ue. L´anno scorso, la Corte europea condannò un analogo divieto ungherese dei «simboli delle tirannie» definendo il bando troppo vasto e indiscriminato, e quindi lesivo della libertà d´espressione. I liberali di Tusk mugugnano, la sinistra socialdemocratica dell´ex presidente Kwasniewski dissente, ma invano.
Vent´anni fa, furono proprio le elezioni libere a Varsavia, momento di svolta della rivoluzione democratica polacca, a spingere la Storia verso la caduta del Muro di Berlino. Ma oggi, vent´anni dopo, il comunismo ha un´immagine molto più negativa in Polonia che non ad esempio in Germania. Dove non pochi storici temono che le equiparazioni tra i due totalitarismi, quelli di Hitler e di Stalin, minimizzino l´Olocausto di cui Berlino si sente responsabile. «Il comunismo», ha affermato lo storico polacco Wojciech Roszkowski, «è stato un sistema terribile e assassino, ha falciato milioni di vite, era simile al nazionalsocialismo e non c´è ragione di trattare in modo diverso quei due sistemi e i loro simboli». Recentemente un politico moderno e stimatissimo, come il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, ha suggerito che il Palazzo della Cultura (l´enorme, sgraziato grattacielo staliniano nel centro di Varsavia) venga demolito, per allestire al suo posto un parco.
Resta il grande dubbio, se mettere fuorilegge le falci e martello non sia una limitazione alle libertà che trasformi in vittime i nostalgici della dittatura. Un aspetto diverso della legge è che i neonazisti di tutto il mondo non potranno più procurarsi svastiche, copie di Mein Kampf o altri simboli del Terzo Reich in Polonia. Almeno saranno proibiti anche quelli.

Corriere della Sera 28.11.09
Addii Il pittore è scomparso ieri a Milano. Aveva 89 anni. Nelle sue opere si intrecciano lirismi, ricerca formale e azione sociale
Ernesto Treccani, l’arte come politica
di Raffaele De Grada

Dalla rivista «Corrente» al ciclo sui contadini di Calabria: un poeta dell’immagine

«Con Ernesto Treccani scompare uno tra i più grandi e limpidi poeti dell’immagine del Novecento»: così il sito ufficiale dell’ar­tista ha annunciato la morte di Treccani, scomparso ieri a 89 anni nella sua casa milanese («Serenamente, tra le sue cose» ha detto la figlia Maddalena). Treccani era nato a Milano il 26 ago­sto 1920 ed era figlio di Giovanni Treccani, fondatore dell’Istitu­to dell’Enciclopedia. I funerali si svolgeranno oggi a Milano (al­le 14.45) nella Chiesa di San Bartolomeo in via Moscova.
La morte è una cosa orribile persino quan­do coglie un animale a te caro, figuriamoci quando essa colpisce come una folgore un personaggio a te vicino col quale hai condi­viso per anni gioie e dolori. È il caso della morte di Ernesto Treccani, che era più giovane di me e che aveva vissuto pienamente un periodo della nostra esistenza. Ernesto Treccani è stato un pittore e i suoi primi approcci all’arte della pittura sono stati nella villa di mio padre a Forte dei Marmi. È lì che Ernesto ha cominciato ad amare le fronde erbose sul giardi­no de Grada che mio padre trascurava per andare a cercare paesaggi più costruiti lungo la marina e so­prattutto all’interno. Era il lontano 1939. Treccani, in quegli anni, si ispirava alla natura nella sua pienezza senza trascurare le figure e gli scritti poetici che andava realizzando. Fu uno sposalizio con la pittura aiutato da mia sorella Lidia, che studiava al­l’Accademia di Brera seguendo le le­zioni di Reggiani e Salvadori.
Così cominciò la carriera di Erne­sto, che fu appena toccato dalla poli­tica in quegli anni Quaranta. Non si poteva dire altrettanto per me che, nel 1938, ero stato arrestato e tradot­to a San Vittore per tre mesi. Ma i tempi incalzavano e iniziava a esser­ci in Europa un’aria di guerra. Erne­sto trascinato dalle mie idee si trovò a fondare con me un giornale dal nome «Corrente di vita giovanile». Ciò fu possibile in quanto il senatore Giovanni Treccani degli Alfieri ci aiutava e protegge­va. In quegli anni il senatore Treccani aveva fondato la famosa enciclopedia e aveva dato allo Stato italia­no le miniature di Borso d’Este rilegate in un libro. Erano molti gli artisti che si immedesimavano in «Corrente» e i suoi amici di quegli anni erano Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, con cui tenne uno studio per tanti anni sulle colline piacentine, anche dopo la guerra, a Gropparella.
Direttore del giornale, mentre ancora seguiva gli studi di ingegneria, era il più giovane del gruppo. Espose per la prima volta alla Bottega di «Corrente» nel 1940 con gli amici Birolli, Migneco, Sassu e nel 1943 espose nella stessa galleria con Morlotti e Cassi­nari. La rivista «Corrente» fu soppressa d’autorità dai fascisti (come giornale sovversivo) allo scoppio della guerra.
Come tanti altri amici e compagni di strada di quella stagione, Treccani aderì al Partito comunista e durante la guerra di Liberazione fu attivo nella lot­ta clandestina. Redattore de «Il 45», poi animatore con Aymone, Chigine, Francese e Testori del gruppo «Pittura», nel 1949 la Galleria del Milione presentava la sua prima personale. In quegli anni, poco prima dell’incontro con la realtà del Mezzogiorno e di Me­lissa, iniziò a dipingere per lunghi periodi a Parigi. Nel 1950, durante le prime occupazioni delle terre in Calabria, si recò a Melissa che divenne fonte inesauri­bile del suo lavoro, con i grandi quadri ispirati alla vita e alle lotte contadine e con i ritratti, paesaggi, disegni del ciclo «Da Melissa a Valenza» (1964-1965). A quegli anni risalgono anche grandi esposizioni del­le sue opere un po’ dovunque, dalle Biennali di Vene­zia a Londra e a New York.
In tutto il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, Treccani ha accompagnato la produzio­ne e la presentazione delle sue opere con un’instan­cabile azione di diffusione della cultura e del dibatti­to artistico, insieme all’impegno politico e (in parti­colare) al movimento di lotta per la pace. Dagli anni Sessanta in poi, fino ai primi anni di questo secolo, Treccani, come uomo e come pittore, conosce una lunga stagione felice. È un fiorire di opere e una mol­tiplicazione di iniziative che nascono sempre da un’adesione concreta alle situazioni della vita. E di viaggi che segnano esperienze decisive nel suo per­corso artistico, dalla Cina a Cuba. Così come profon­do è il legame con la sua città, Milano, non solo tema di tanti suoi quadri in cinquanta anni di pittura ma anche sede della «Fondazione Corrente», centro di iniziative mostre, dibattiti, seminari nei diversi cam­pi della cultura e dell’arte da lui fondato ne 1978. E Milano è stata anche sede di importanti rassegne del­la sua opera, a cominciare dalla grande antologica del 1\989 a Palazzo Reale.
Ma dopo tanti anni i ricordi si susseguono e arriva­no a noi in una società che disprezza l’uomo e la na­tura. Ernesto ha il merito di riproporre la natura, è il gentile signore che spira l’aura della vita sugli alberi, i fiori, gli uccelli, il viso dei bimbi che si stagliano in un grande cielo azzurro.

venerdì 27 novembre 2009

Repubblica 27.11.09
Gli orrori dell´arcidiocesi raccontati in un documento di 700 pagine Irlanda, rapporto sui preti pedofili "Omertà su decenni di abusi e stupri"
DUBLINO - La Chiesa cattolica irlandese ha coperto per decenni abusi pedofili e crudeltà compiuti da sacerdoti. È il contenuto di un rapporto di 700 pagine sull´arcidiocesi di Dublino, presentato dal ministro della Giustizia irlandese, Dermot Ahern. Secondo il documento, quattro arcivescovi «ossessionati» dalla segretezza hanno protetto i colpevoli e la loro reputazione ad ogni costo. Il ministro ha garantito che «i colpevoli verranno perseguiti». È la terza inchiesta del genere: nello scorso maggio un altro rapporto shock aveva rivelato abusi, violenze e stupri per decenni nelle scuole e nelle istituzioni per ragazzi "difficili" gestiti da ordini religiosi.

Repubblica 27.11.09
La tentazione dei blogger è chiedere uno spazio più grande per il 5 dicembre. Tante adesioni di artisti
No-B day, già prenotati 400 pullman e il "sogno" di piazza San Giovanni
I blogger si presentano alla stampa e annunciano anche un servizio d´ordine
di Carmelo Lopapa

ROMA - Lasciano la piazza virtuale per riempire quella reale. Via da blog, chat e Facebook. I promotori del "Noberlusconiday" si materializzano in un piccolo cinema alternativo a due passi dalla Suburra romana, volti giovani, età media trent´anni, per presentare dal vivo l´appuntamento del 5 dicembre. Appuntamento nato dalla Rete, comunque basso, ma già dai grandi numeri. Sono 400 i pullman prenotati in tutta Italia e oltre 300 mila le adesioni sul web. Città come Milano, Messina, Catania in cui è ormai difficile reperirne altri, raccontano. E una Piazza del Popolo a Roma che all´improvviso diventa piccola, tanto da far balenare ai ragazzi del comitato l´idea e il sogno (per ora solo quello) di spostare tutto nella più capiente San Giovanni.
I partiti ci sono, ma non si vedono. Nel senso che hanno aderito (alcuni almeno) ma i politici non saliranno sul palco, collaborano all´organizzazione ma si limiteranno a sfilare con le bandiere in corteo. Compatti: Idv, Prc, Pdci, Sinistra e libertà, Verdi. O a «pezzi», come il Pd. Segretario Bersani diffidente. Altri, da Debora Serracchiani a Ignazio Marino, da Vincenzo Vita a Ivan Scalfarotto e tanti altri pronti a sfilare. Anche alla conferenza stampa di ieri giovani militanti del Pd sono intervenuti per dire che loro ci saranno. «Le parole d´ordine del Nobday sono anche le nostre» protestano in tanti anche sui blog. Su Facebook 500 che si dichiarano democrats danno vita al gruppo «Nbd del Pd». Da oggi parte la settimana di «rincorsa al nobday», spiega il portavoce del comitato, Massimo Malerba. «Chiediamo agli italiani di mettere qualcosa di viola. Un drappo al balcone, un maglione, una sciarpa, un bracciale. È il colore dell´autodeterminazione dei popoli e lo sarà dei cittadini che non si riconoscono nel berlusconismo». E «viol-azioni pacifiche segneranno i giorni che precedono la piazza» annuncia Gianfranco Mascia del Bo-Bi, "Boicotta il Biscione". Sul palco, conferma Sara De Santis che cura l´aspetto artistico, nessun politico, a parlare delle emergenze di questi mesi (giustizia, lavoro, informazione, cittadinanza, formazione e ricerca, etica politica) saranno intellettuali, operai, giuristi, studenti, magistrati. «Perché la difesa della Costituzione, del capo dello Stato e della magistratura sarà il motivo di fondo» dicono Gabriella Magnano di Liberacittadinanza e Franz Mannino del "Nobday". Tanti intellettuali e artisti stanno aderendo. Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Lidia Ravera, Furio Colombo, Antonio Tabucchi, Ascanio Celestini, Francesca Fornari, Daniele Silvestri ultimo in ordine di tempo. Il corteo partirà da Piazza della Repubblica per raggiungere Piazza del Popolo. Un servizio d´ordine per scongiurare incidenti. In collegamento, i «Nobday» organizzati dagli italiani davanti alle ambasciate di New York e San Francisco, Londra e Berlino, Madrid, Bruxelles, tra le altre piazze internazionali. Parola d´ordine unica: «Berlusconi dimettiti».

Repubblica 27.11.09
Poligami d’Italia
Sono almeno 15 mila i musulmani che vivono nel nostro Paese con più mogli. Un fenomeno in aumento per l´assenza di controlli
di Maurizio Crosetti

Sono almeno quindicimila i musulmani con due o più mogli e matrimoni provvisori celebrati in moschea. Un fenomeno in aumento permesso dall´assenza di controlli, che consente di aggirare le leggi. In molti degli Stati d´origine la pratica è vietata da tempo
Le voci in contrasto all´interno della comunità marocchina di Porta Palazzo
"Io non commetto nessun crimine, rispetto il Corano. Gli ipocriti siete voi con l´amante"
"Poche di noi si ribellano: perché siamo sole, spesso povere, analfabete, senza parenti"

Naima pensava di essere una moglie, invece è una schiava. Mohammed credeva di essere un sultano, invece è uno schiavista. Kalid era sicuro di essere solo loro figlio, invece deve convivere con un altro pezzo di harem casalingo che comprende pure la seconda moglie di Mohammed, Fatima. Succede a Torino, non a Casablanca, anche se questo pezzo di città dietro il mercato di Porta Palazzo potrebbe essere ovunque, Marocco o Tunisia, Senegal o Egitto. Mohammed, 54 anni, commerciante, per il Corano ha addirittura due mogli in meno del massimo consentito (quattro), per la legge italiana ne ha una sola (Naima, 52 anni, regolarmente sposata in Marocco prima di trasferirsi a Torino), ma in realtà è un poligamo: anche se la seconda moglie, Fatima, 31 anni, l´ha sposata in moschea con un matrimonio Orfi che per lo stato civile non esiste, è solo un rito temporaneo senza vincoli legali sul nostro territorio. Dunque, si tratta di una coppia di fatto: teorica per la legge ma assolutamente reale, una "famiglia allargata" non proprio unica.
Anche se mancano statistiche ufficiali, si calcola che in Italia esistano almeno 15 mila casi di bigamia o poligamia, tutti tra stranieri ma qualcuno anche tra italiani convertiti. Settemila casi sono stati accertati, e sono migliaia le segnalazioni - spesso, drammatiche richieste di aiuto - che giungono alle associazioni che si occupano della tutela delle donne islamiche in Italia, come "Acmid Donna" che sostiene la comunità marocchina: da quando è nata, ha ricevuto più di 4 mila chiamate.
«Perché nessuna di noi accetta di dividere il proprio marito con un´altra», racconta Naima, la prima moglie del sultano di Porta Palazzo. «Quando Mohammed mi chiamò a Torino per raggiungerlo, sei anni fa, non sapevo che lui nel frattempo avesse sposato Fatima».
«Sono arrivata qui con nostro figlio Kalid, e ho dovuto subire la situazione. Altrimenti sarei stata ripudiata, non avrei avuto un soldo né un posto dove andare. Ma con Fatima, più bella e più giovane di me, sono liti continue. E Kalid, che ha quindici anni, ormai non parla più con nessuno, sta crescendo isolato e violento, è sempre triste e non capisce questa nostra assurda famiglia».
Per un musulmano, diventare poligamo è ormai più facile in Italia che al suo paese. In Tunisia, la costituzione ha vietato la poligamia addirittura nel 1957, dal 2003 è scomparsa in Marocco e anche nella Turchia "europea" è stata proibita. Qui, invece, il trucco è facile, e il matrimonio plurimo (proibito dall´articolo 556 del codice penale con una pena fino a cinque anni di carcere) può essere celebrato addirittura in tre modi diversi.
Si può diventare poligami se si è regolarmente sposata la prima moglie nel paese d´origine (nell´Islam, il matrimonio non è un rito religioso ma un contratto civile) e se si sposa la seconda all´estero, nella propria ambasciata, senza denunciare la prima; oppure se ci si fa raggiungere dalla seconda moglie, sposata in patria, con il meccanismo del ricongiungimento famigliare; infine, se il secondo matrimonio si celebra nella moschea italiana dove, volendo, il rito Orfi permette persino le unioni a tempo: un´ora, trent´anni oppure per sempre. Dunque, si può essere poligami anche per sessanta minuti con buona pace di Allah e della legge italiana.
«Io non ho commesso nessun crimine, rispetto il Corano e garantisco lo stesso trattamento e l´identico affetto a entrambe le mie mogli», si difende Mohammed.
«Semmai, gli ipocriti siete voi europei che magari avete l´amante e diventate dei poligami clandestini, mentre per noi è tutto regolare: ci assumiamo un doppio impegno, paghiamo molti soldi e non facciamo torto a nessuno. Io dormo due notti con Naima e due con Fatima, se compro un vestito all´una lo compro anche all´altra. E le mie mogli stanno bene, non devono sopportare la fatica della casa da sole e si dividono i compiti. Qui lavoriamo tutti».
Sarà, ma il sultano di Porta Palazzo sembra raccontare una verità parziale. L´altra faccia della medaglia la rivela Hayam, sessant´anni, una donna senegalese che vive in provincia di Bergamo e che cinque anni fa ha avuto il coraggio di lasciare il marito poligamo. «Non potevo più sopportare la violenza e le umiliazioni. Mio marito diceva che ero diventata vecchia e stanca, e che lui voleva giocare una nuova carta del mazzo, sono le sue precise parole. Così ha sposato un´altra donna al consolato, lei è più giovane e più bella e gli ha dato pure una figlia. Ma con me, lui ne aveva già fatti quattro. Anch´io sono stata giovane, e anche lei invecchierà e capirà l´errore che ha commesso. Però, poche di noi si ribellano: perché siamo sole, spesso povere e analfabete, senza parenti, non sappiamo neanche a chi chiedere aiuto. Non alla legge italiana, perché è come se non esistessimo».
Il vuoto legislativo è un modo per chiudere gli occhi, anche se così soffrono migliaia di donne, bambini e ragazzi. E non è solo un problema nostro. Nelle periferie francesi sono nascosti almeno 100 mila casi di matrimoni poligami, e 60 mila sono stati segnalati in Germania. È una conseguenza, mal gestita, del pluralismo religioso e culturale di cui gli immigrati sono portatori, e l´aumento dei flussi migratori non farà che rendere più vasto il problema. In Italia vivono oltre un milione e duecentomila musulmani, e sono ormai 50 mila gli italiani convertiti all´Islam; si calcola che quasi il 2 per cento di loro sia di fatto poligamo, anche se in totale clandestinità.
Nel segreto di questi nuclei famigliari dai confini incerti, si consumano violenze fisiche e psicologiche. E se il poligamo muore, quasi sempre si scatenano risse per l´eredità e la successione. È il momento in cui la prima moglie "legale" di solito si vendica sulla seconda, cacciandola di casa senza un soldo. E il problema s´ingarbuglia quando una di loro decide di separarsi, anche se accade di rado: di nuovo, il tribunale italiano non può sciogliere legami che per lo Stato non sono mai esistiti. Dunque, chi pagherà gli alimenti?
Proprio la mancanza di qualsiasi tutela in caso di separazione è la prima causa di scoraggiamento per le donne-schiave: per mangiare, e per continuare ad avere un tetto sulla testa, devono sopportare. «Ma almeno finiamola col mito delle donne islamiche che accettano la poligamia perché fa parte della loro cultura: è pura violenza, invece, è una cosa disumana che provoca solo dolore», ripete Hayam. La quale, però, è una donna che ha studiato e ha saputo cavarsela. Molte tra quelle come lei, in Italia non sanno neppure comporre un numero di telefono oppure chiedere aiuto nella nostra lingua, o soltanto domandare dov´è la fermata del tram più vicina.
Per reggere il peso e il piacere di un doppio matrimonio, c´è chi ha scelto una doppia vita però alla luce del sole. Lui è Hassan Moustapha e vive a Brescia, dove ha comprato una villetta bifamiliare che, appunto, divide con le sue due famiglie: la prima moglie al primo piano, la seconda al secondo, in rigoroso ordine. «Così loro non litigano e io non commetto nessuna colpa. Perché per il Corano l´adulterio è uno dei peccati più gravi, mentre mantenere due o più mogli è un grande onore e non è una cosa alla portata di tutti. Bisogna avere generosità, denaro e molto amore. Ho amici italiani che fanno collezione di donne, e nessuna di loro sa dell´esistenza delle altre: questi uomini sono forse migliori di me?».

Repubblica 27.11.09
Quel diritto di famiglia parallelo avallato dagli ultra-tradizionalisti
Ma così il prezzo più alto lo pagano donne e bambini
di Renzo Guolo

Liberi dai vincoli delle legislazioni familiari nazionali e favoriti dalla deterritorializzazione delle comunità della diaspora, migliaia di musulmani in Italia riscoprono la poligamia, istituto islamico in disuso o, addirittura vietato in alcuni dei loro paesi d´origine.
In Tunisia è proibita da oltre mezzo secolo. In Marocco è stata limitata dalla recente riforma del codice di famiglia, la Moudawana, che consente alle donne di chiedere che il contratto di matrimonio la escluda. In Egitto è stata a lungo oggetto di una battaglia culturale che, nonostante le resistenze di Al Azhar e dei gruppi islamisti, ne ha fatto una pratica desueta. In Senegal le donne sono riuscite a imporre l´opzione del marito che, al momento del primo matrimonio, deve dichiarare se scegliere quello poligamico, pieno o parziale, con quattro o meno mogli, o quello monogamico. Opzione modificabile solo in senso restrittivo.
Nella nuova Dar al Islam europea la poligamia trova, invece, uno spazio tanto insperato quanto non normato. Effetto della ricerca di continuità identitaria nelle tradizioni, oltre che della massiccia campagna di reislamizzazione operata dai gruppi neotradizionalisti, che come antidoto alla "contaminazione" con società secolarizzate, predicano il ritorno alla salaf, l´ "antica fede" in campo familiare e nelle relazioni tra uomo e donna.
Anche se ne vanno distinti i diversi tipi di poligamia. Esiste quella per ricongiungimento, prodotto dell´ arrivo in Italia della moglie regolarmente sposata in patria; quella "occulta", praticata da quanti, già sposati nel loro paese d´origine, si risposano negli uffici dell´ambasciata, senza denunciare vincoli precedenti; quella ritenuta religiosamente indiscutibile in quanto istituto coranico e, dunque, indisponibile a qualsiasi intervento del legislatore umano. Solitamente si celebra in moschea e sancisce il legame dei coniugi, mera coppia di fatto per lo Stato, davanti alla comunità. Infine la poligamia temporanea, sancita dal matrimonio Orfi.
Il matrimonio Orfi, o non ufficiale, è di durata temporanea. Viene celebrato davanti a due testimoni o, nei paesi islamici e per chi ne ha la possibilità, davanti a un avvocato. Diffuso nell´islam sciita, dove è noto come Sigheh, il matrimonio provvisorio ha avuto una rivisitazione anche in campo sunnita, che pure lo ha ufficialmente condannato anche se spesso tollerato.
Il matrimonio provvisorio rende lecito "l´amore mercenario"; permette di sfuggire ai codici che puniscono i rapporti sessuali al di fuori delle unioni definitive; più di recente viene usato come riparo a convivenze o rapporti più o meno lunghi, che non possono, per ragioni diverse, diventare matrimoni ufficiali. Si tratti di relazioni tra coppie libere nei costumi, tra poveri che non hanno soldi per sposarsi ufficialmente, o quelle di vedove di guerra che vogliono riscuotere la pensione ma non vivere in solitudine.
Nell´esperienza della hijra, l´emigrazione, in Occidente, la mut´a, termine che indica il matrimonio temporaneo o di piacere, dal quale deriva, significativamente, quello di musta´jara, "donna in affitto", esprime per i più osservanti il tentativo di coniugare liceità islamica e sessualità regolata; per gli "opportunisti" il tentativo di sottrarsi al pregante e ossessivo controllo sociale esercitato dalla comunità senza per questo dover uscire dal suo protettivo "cerchio caldo"; per altri , quello di sfuggire al pesante vincolo dello statuto personale, che ciascuno porta con sé anche nel migrare, o alle restrittive legislazioni in materia dei paesi di residenza. Con tutte le contraddizioni che ne derivano.
Il matrimonio Orfi ,infatti, può essere sciolto dal "marito temporaneo", lasciando la moglie provvisoria senza alcuna protezione. Anche se da quel rapporto a termine sono nati dei figli, il padre non ha obblighi nei loro confronti. Una situazione aggravata in Italia dalla zona grigia in cui si trovano gli stranieri, residenti ma non cittadini.
Le loro pratiche familiari sono ignorate dallo Stato, che non può impedire "matrimoni di fatto" come quelli poligamici, dei quali si limita a regolare a posteriori i rapporti che ne sono sorti quando il caso finisce in tribunale. Una situazione in cui il diritto familiare parallelo, prospera. Con buona pace dei soggetti più deboli, donne e minori innanzitutto.

Corriere della Sera 27.11.09
Fini: «Avrei fatto come Englaro» E accelera sulla cittadinanza
La Lega chiede un vertice. Bindi: dall’ex leader di An buoni segnali
di Lorenzo Fuccaro

ROMA — «Rosy Bindi scri­ve che non si sarebbe compor­tata come la famiglia Englaro, ma che non giudica il suo dramma e non condivide la go­gna cui è stato sottoposto il pa­dre. Io sottoscrivo, con una dif­ferenza: mi sarei comportato come la famiglia di Eluana». Gianfranco Fini coglie l’occa­sione della presentazione di un libro-intervista del presi­dente del Pd per chiarire, anzi per rimarcare, il suo punto di vista sulla questione del fine vita. Non solo: accelera anche sulle nuove norme per la citta­dinanza, argomento entrato ie­ri nel calendario dei lavori di aula della Camera, dopo la ses­sione di bilancio, a fine dicem­bre. Inserimento dovuto a un suo decisivo intervento per avere accolto una sollecitazio­ne del Pd nonostante i dubbi di Pdl e Lega ed è appunto per questo che il Carroccio chiede un vertice di maggioranza. Fi­ni, insomma, continua a di­stinguersi dal centrodestra al punto che questi suoi atteggia­menti generano più di un sem­plice interesse negli esponenti di primo piano del Pd, come la stessa Bindi che rileva con sod­disfazione: «Non me ne voglia Fini quando scrivo che la aspetto al varco: ha suscitato alcune attese e noi ci aspettia­mo che vengano realizzate. E in questo senso è un buon se­gno che sia stata calendarizza­ta la legge sulla cittadinanza».
Del resto non è affatto ca­suale anche il richiamo alla vi­cenda della giovane morta do­po un coma di diciassette an­ni. Anzi. Quella vicenda vide un braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e Giorgio Napolita­no. All’epoca, nel febbraio scorso, Napolitano si oppose alla presentazione, da parte del governo, di un decreto leg­ge con il quale si prevedeva l’obbligo dell’alimentazione e dell’idratazione per soggetti non autosufficienti. Si rischiò, insomma, uno scontro istitu­zionale senza precedenti tra Palazzo Chigi e Quirinale. Eb­bene Fini, dicendosi d’accordo con la scelta di Beppino Engla­ro, prende le distanze dalla li­nea tenuta dal governo e dalla maggioranza. E infatti rileva che «sulla fine della vita la vo­lontà della persona coinvolta e della famiglia è meritevole del rispetto delle istituzioni, c’è una soglia che non deve es­sere varcata a cuor leggero dal­lo Stato». Su questi temi «non ci si può affidare a dogmi né religiosi né laici». Ecco per­ché, nota, è «da condannare non la dialettica ma la tenden­za a erigere barriere ideologi­che che sono assolutamente anacronistiche».
Anche sulle norme per mo­dificare l’attuale legge sulla cit­tadinanza Fini esprime un’opi­nione poco diffusa nel centro­destra. Innanzitutto paventa che, se non si cambia il mecca­nismo di accesso, «c’è il ri­schio che i figli degli immigra­ti nati in Italia o entrati sul no­stro territorio in tenera età vengano non solo consegnati a un limbo ingiusto che la no­stra società non può permet­tersi ma che si rifugino in iden­tità pregresse, in un ghetto di autoesclusione». Il presidente della Camera auspica che «la discussione possa avvenire su un testo della commissione. Se ciò non avverrà si voteran­no in aula le diverse proposte di legge». Certo è che, insiste Fini, sarebbe superficiale con­centrarsi solo sulla questione del numero di anni richiesto per acquisire la cittadinanza. Sarebbe un pessimo compro­messo se si ragionasse come dal droghiere: 'io propongo dieci anni, tu proponi cinque e ci accordiamo su sette'».

Corriere della Sera 27.11.09
Pillola RU486, quando i politici rendono il posto degli scienzati
di Isabella Bossi Fedrigotti

Il Senato ha bloccato la messa in commercio della Ru486, pillola abortiva già in uso in diversi Paesi e da mesi sperimentata in vari ospedali italiani. Un medicinale approvato dagli studiosi del­l’Agenzia italiana del farmaco, che viene fer­mato dalla commissione Igiene e Sanità di Palazzo Madama. Come dire: politica contro scienza. Il motivo dichiarato dei senatori è la necessità di attendere un parere del mini­stero della Salute sulla compatibilità tra la Ru486 e la legge 194. Peccato che la stessa Agenzia del farmaco avesse ammesso l’or­mai famigerata pillola soltanto in ambito ospedaliero e nel pieno rispetto della 194. Il blocco deciso dalla politica sembra perciò più che altro la ricerca di un possibile cavil­lo per ritardare l’introduzione della Ru486 se non per bocciarla definitivamente.
Ma può la politica interferire con la scien­za, decidere cosa è meglio e cosa è peggio per il corpo fisico degli uomini (o, in questo caso, delle donne)? Essendo, almeno per il momento, ancora in vigore la legge che re­gola l’aborto, possono i senatori sostituirsi ai medici? È forse possibile giudicare miglio­re cittadina quella che interrompe una gravi­danza con un intervento rispetto a quella che ricorre a una pillola, la quale, peraltro, la obbliga al ricovero ospedaliero più o me­no per lo stesso tempo richiesto dal metodo tradizionale?
Che l’aborto sia scelta estrema e infelicis­sima, lo sanno quasi tutti, ed è difficile cre­dere che una pillola la renderà meno luttuo­sa. Certo ci saranno delle scervellate che vi ricorreranno come tragicamente inappro­priato mezzo anticoncezionale, però, inuti­le negarlo, le scervellate già ci sono e non hanno aspettato la Ru486 per diventarlo. Ci sono donne, in altre parole, che affrontano un aborto come fosse una appendicite e so­no le stesse che forse scambieranno la pillo­la con una purga. Ma è davvero pensabile che le altre, e cioè la grandissima maggio­ranza delle non incoscienti e non scriteria­te, siano indotte dal nuovo metodo un po’ meno cruento — perché è questa la paura dei politici — ad abortire magari più spesso e a cuore più leggero?

il Riformista 27.11.09
Sacrificare Vendola o la Puglia?
di Peppino Caldarola

Ieri “Gli Altri”, il quotidiano di Piero San- sonetti, ha preso nuovamente le difese di Nichi Vendola e della sua volontà di can- didarsi alla guida della regione Puglia. Lo spunto è venuto dal racconto di uno scontro durissimo, così scrivono i giornali, in Tran- satlantico fra Massimo D’Alema e Franco Giordano. “Gli Altri” ha arricchito la crona- ca con un piccolo elenco di carriere politiche spezzate dall’ex premier che avrebbe come ultima vittima il carissimo Nichi. Le cose non stanno così. Se gli amici di Vendola e il go- vernatore medesimo non partono dalla realtà difficilmente potranno prendere una decisio- ne serena. Nichi ha poche possibilità di vin- cere contro il Pdl perché attorno a lui si for- merebbe una coalizione bonsai. Si può im-
precare quanto si vuole contro il destino cini- co e baro e la cattiveria degli uomini, ma due partiti essenziali per vincere, l’Idv e l’Udc, non vogliono Vendola come candidato che li rappresenti. Guidare una piccola coalizione destinata alla sconfitta potrà servire, forse, per rilanciare il marchio del partito di Ven- dola, ma non corrisponde agli interessi di chi vede la possibilità di insediare un altro espo- nente del centrosinistra alla guida della re- gione. La probabile sfida Vendola-Emiliano nelle primarie non risolve il problema perché, anche se Vendola le vincesse, la sua coalizio- ne resterebbe piccola e perdente. Tanti uomi- ni politici hanno dovuto fare passi indietro talvolta nella vita, possibile che solo Nichi non sia capace di un gesto di generosità?

giovedì 26 novembre 2009

Corriere della Sera 22.11.09
L’Osservatorio. Le intenzioni di voto alle Politiche se si andasse ora alle urne: Udc al 6,9, Rutelli all’1

Centrodestra al 48%, il Pd è sotto il 30
di Renato Mannheimer


Si è parlato insistentemente della possibilità di elezioni anticipate che servano anche a disinnescare la tensione tra le componenti del cen­trodestra, riconfermando, secondo l’auspicio dei fautori di questo scena­rio, la popolarità di Berlusconi. La smentita di quest’ultimo ha sopito le aspettative, ma la prospettiva di nuo­ve consultazioni non è tramontata.
Davvero dal voto potrebbe emerge­re una nuova vittoria del Cavaliere? Nessuno può dirlo, in quanto l’esito dipenderebbe per buona parte dalla campagna elettorale e, in primo luo­go, dalla collocazione di diversi parti­ti e leader, quali Casini, Rutelli e, spe­cialmente, Fini.
Il consenso per que­st’ultimo è in questo momento elevatissi­mo (sfiora il 60%), su­periore a quello di Ber­lusconi (49%) e comprende l’apprez­zamento anche della maggioranza de­gli elettori del centrosinistra. Com’è ovvio, questo genere di plausi non si trasforma necessariamente in voto. Ma, certo, una defezione di Fini co­sterebbe cara al Cavaliere.
Resta il fatto che sulla base dell’at­tuale scenario politico, il successo di Berlusconi appare scontato. Tutti i sondaggi attribuiscono al Pdl una percentuale superiore al 38%, assai più delle ultime Europee e, ciò che è ancora più importante, delle Politi­che del 2008, che videro il partito del Cavaliere raggiungere il 37,4%.
All’incremento di consensi del Pdl corrisponde poi la relativa debolezza del maggiore partito di opposizione. Oggi, il Pd ottiene, secondo i sondag­gi, una quota tra il 27,5 e il 30,2%. È vero che si tratta di un risultato supe­riore a quanto emerso dalle urne in occasione delle europee (quando, an­cora una volta anche a causa delle astensioni, superò di poco il 26%) e che, in particolare nelle ultime setti­mane, il partito di Bersani ha mostra­to di saper incrementare i consensi ottenuti tra gli elettori, malgrado la defezione di Rutelli (che sino ad oggi è costata relativamente poco, tra lo 0,5 e l’1%). Ma è vero anche che il successo dell’ultimo periodo non compensa ancora la forte perdita rile­vabile rispetto alle politiche (superò il 33%). Lo mostra anche la differen­za di voti tra Pdl e Pd che nel 2008 era pari a poco più del 4% e che oggi oscilla attorno al 10%.
È importante anche ricordare l’am­piezza del cosiddetto mercato poten­ziale, costituito da quegli elettori che si dichiarano disponibili a «prendere in considerazione» un partito per il voto. Nell’insieme, il mercato eletto­rale del Pdl è pari al 43%. Quello del Pd è meno ampio e raggiunge il 34%. Di qui, inevitabilmente, minori possi­bilità di espansione.
Ma per giungere ad una definizio­ne compiuta dei possibili futuri asset­ti del Parlamento — che costituisco­no poi ciò che conta per la formazio­ne e il funzionamento del governo — occorre considerare anche l’esito delle altre forze politiche e la distri­buzione territoriale del voto, fonda­mentale, con l’attuale sistema eletto­rale, per la composizione del Senato. Su di essa potrà dirci molto la prossi­ma scadenza delle elezioni regionali.
Queste ultime costituiranno pro­babilmente le «vere» consultazioni anticipate. Esse rappresenteranno in­fatti il test politico sulla base del qua­le si definiranno tutte le strategie — e le alleanze — della restante parte di legislatura. In effetti, molti dei com­portamenti e delle dichiarazioni dei leader politici in questo periodo (compresa l’ipotesi di possibili ele­zioni politiche anticipate) non sono altro che tasselli della campagna elet­torale già in corso in vista del prossi­mo marzo.

Il Fatto Quotidiano 26.11.09
Zero sì in 22 anni: i "panni sporchi" si lavano in casta
di Carlo Tecce

Come volevasi dimostrare. La legge è uguale per qualsiasi cittadino, per i parlamentari un pochino di più. Quel che occorre, oltre i numeri impietosi, per definire prassi il no della Giunta della Camera alla richiesta di misura cautelare per Cosentino. Nessun allibratore, nemmeno il più spericolato, avrebbe quotato l`arresto del sottosegretario del Pdl. La matematica è pura: nel corso della Repubblica, e le scivolate con la giustizia sono frequenti, si contano 65 domande di autorizzazione all`arresto e soltanto 4 sì. Più espliciti: meno del 10%. Più disarmanti: 0 spaccato negli ultimi 22 anni. Dal missino Massimo Abbatangelo IX legislatura - per reati connessi alla detenzione illegale e all`uso di esplosivo e armi. Eppure nel `93, per sedare l`indignazione popolare, l`immunità prevista dall`articolo 68 della Costituzione fu abolita da una riforma che ripuliva le coscienze. Non tutta, in parte: resiste un`immunità parziale sull`insindacabilità delle espressioni fuori e dentro l`aula parlamentare, sulle perquisizioni e l`utilizzo delle intercettazioni e, appunto, l`esecuzione "in vincoli": maniera più elegante - tipica espressione di Pannella - per definire l`arresto. La casta è un`entità indistruttibile, capace di solidarizzare con il peggior nemico per farsi un amico in caso di sventura: e le sventure cadono a casaccio, a destra e sinistra. La breve e intensa XI legislatura racchiude il biennio di Tangentopoli: 28 richieste respinte, nel mucchio c`erano Craxi e il ministro De Lorenzo. Erano i mesi delle monetine al Raphael hotel e della craxiana invocazione: "Basta ipocrisia". E in effetti i colleghi concedevano gli estremi favori, poi avrebbero sgonfiato la bolla protettiva dell`immunità. Nella forma, non nella sostanza. Perché dal `96 i magistrati hanno chiesto l`arresto per 12 onorevoli: Dell`Utri, Previti e Giudice (Forza Italia), Cito (indipendente). E ancora: Sanza, Blasi e Fitto (FI), Luongo (Ds), Giandomenico (Udc). 11 benedetto (e provvidenziale) scranno ha riparato Giorgio Simeoni, uno dei preferiti di Silvio Berlusconi, ospite fisso alle feste di Villa Certosa. Simeoni è imputato per corruzione nel processo contro Anna Iannuzzi. La lady Asl aveva truffato i contribuenti laziali per decine di milioni di euro, da pentita ha confessato di aver stipendiato Simeoni (dai S ai 10 mila euro mensili più una "tredicesima" di 600 mila euro), all`epoca dei fatti assessore alla formazione e coordinatore regionale di Forza Italia. Il no categorico è un`eredità che si tramanda nei Palazzi politici, l`attuale Giunta - presieduta da Pierluigi Castagnetti (Pd) - è al terzo diniego di fila: inizia con Salvatore Margiotta del Pd, prosegue con Antonio Angelucci (Pdl) e finisce con Nicola Cosentino. E quindi sono 4 - incluso Abbatangelo - i parlamentari più sfortunati della Repubblica, gli unici a finire dietro le sbarre. Il primo (1955) fu Francesco Moranino del Pci, da capo partigiano aveva ordinato la fucilazione di sette persone, si ritirò in Cecoslovacchia e tornò per ricevere la grazia del presidente Saragat. Anni Settanta, anni di piombo: Sandro Saccucci doveva scontare una pena per omicidio, scappò in Inghilterra. 1 Radicali cercarono di salvare Toni Negri (`83) dal carcere di Rebibbia condannato per associazione sovversiva - con una candidatura a Montecitorio: pochi mesi di libertà, la fuga a Parigi e il ritorno dopo 14 anni. Ieri, oggi, domani, non cambia: la Giunta dirà no.


l’Unità 26.11.09
Pregiudizi e religione
Le donne e quella sacra violenza
di Enzo Mazzi

N ella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che si è svolta ieri si sono sprecate analisi, denunce, propositi, programmi. Ma la violenza è stata declinata per lo più in termini fisici. Le ferite del corpo sono gravissime ma non sono le sole. Poche le analisi e le denunce e i progetti per eliminare la violenza che si annida negli snodi profondi delle culture, nei modelli consueti di comportamento quotidiani, delle strutture ideologiche rituali simboliche delle religioni compresa quella cristiana e cattolica.
Quasi un tabù è ad esempio la violenza del “sacro” contro le donne. Talvolta viene allo scoperto come quando si accusano le donne che abortiscono di essere assassine e si scomunicano e si torna a chiedere per loro il carcere. Ma più spesso è sottile, pervasiva e strisciante. I roghi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c’era dietro e cioè l’annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura e sulle coscienze.
La donna che ha potere sulla vita è in sé una concorrente pericolosa di ogni sistema di dominio, non soltanto di quello religioso.
Non solo l’Inquisizione cattolica ha acceso i roghi. I rappresentanti della nuova scienza medica contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del limite di tollerabilità biologica delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro, ma anche per strategia politica: volevano mani libere nella loro sperimentazione e puntavano al monopolio della medicina e al controllo sulla sua organizzazione, sulla teoria e sulla pratica, sui profitti e sul prestigio. Il rapporto con la natura di cui erano portatrici le streghe fu annullato dai roghi e non è stato più recuperato. La modernità ha così percorso la sua strada di divaricazione dal naturalismo femminile fino a giungere all’attuale dominio aggressivo e violento dell’individuo verso il resto del mondo, in una guerra di tutti contro tutti regolata e paradossalmente moderata dal ricatto atomico.
È indispensabile una vera e propria riparazione storica in tutte le culture e religioni, in tutti gli ambiti di vita, per i misfatti compiuti contro le coscienze femminili fin dalla più tenera età, contro la loro dignità, i loro saperi, le loro anime e i loro corpi, la loro capacità generativa e creativa, allora e solo allora sarà possibile una vera pacificazione del mondo.
Sono ancora troppo poche le realtà che come le comunità di base mirano a scoprire, sradicare e combattere la violenza contro le donne che si annida negli snodi profondi della società, della cultura e della vita e in particolare nelle strutture del sacro.❖

l’Unità 26.11.09
Una donna su tre vittima di abusi
Il mostro è in casa
Dati sempre più allarmanti: in Italia almeno 6,7 milioni subiscono violenza, quasi sempre da partner o ex partner Poche le denunce. Sabato manifestazione a Roma

L’emergenza. Il dramma: otto su dieci aggredite tra le mura domestiche

Non c’è scampo, una donnasutrefrai16ei 70 anni in Italia è stata almeno una volta vittima di violenza o maltrattamenti dice l’Istat. Ben 6,7 milioni di donne hanno subito nel corso della loro vita violenza fisica o sessuale, metà delle quali da parte di partner o ex partner. Il mostro ha quasi sempre le chiavi di casa: otto donne su 10 sono state aggredite tra le mura domestiche. Un milione di donne hanno subito uno stupro o un tentato stupro. A ottenere con la forza rapporti sessuali è il partner il 70% delle volte e in questo caso lo stupro è reiterato. Il 6,6% delle donne ha subito una violenza sessuale prima dei 16 anni, e più della metà di loro (il 53%) non lo ha mai confidato a nessuno. Gli autori sono degli sconosciuti una volta su quattro, nello stesso numero di casi sono parenti (soprattutto zii e padri) e conoscenti.
È il «bollettino di guerra» reso noto nella giornata mondiale contro la violenza delle donne, il tassello italiano di un puzzle che nel mondo vede almeno 140 milioni di donne vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali, oggetto di tratta, aborti selettivi e di molestie. A ricordare le drammatiche cifre è il Cipsi, il Coordinamento di iniziative popolari di solidarietà internazionale, che raggruppa 45 associazioni. «È un’emergenza mondiale dice Guido Barbera, presidente del Cipsi -. Tanti, troppi sono ancora i crimini a cui le donne sono sottoposte, dall’uso dello stupro come arma di guerra alla violenza domestica, dal traffico del sesso alle mutilazioni genitali femminili». «Fenomeni aggiunge Barbera che condanniamo e per combattere i quali è necessario veicolare ai mezzi di comunicazione di massa, alle istituzioni e alla società civile una diversa concezione della donna, riconoscendone la dignità e il ruolo sempre più importante ed insostituibile che riveste nella società». Ieri è stato anche reso noto un primo bilancio sul reato di stalking, introdotto lo scorso febbraio. In otto mesi, le persone denunciate sono state 4.124 (in media 17 al giorno), 723 le arrestate. In un caso su cinque, la vittima è un uomo. A livello regionale la Lombardia è in testa per denunce (539) ed arresti (129) mentre la regione più virtuosa è la Valle d’Aosta con 10 denunce e nessun arresto. Gli stalkers sono nel 84,68% italiani, nel 15,32% stranieri. Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo, raggiunge circa il 96% delle violenze subite da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%).
Per rompere il silenzio sabato prossimo si terrà a Roma una manifestazione nazionale. ❖

l’Unità 26.11.09
«Dopo secoli, la donna reale per la società ancora non conta»
Intervista a Nicla Vassallo di Federica Fantozzi

La motivazione
«Tutto parte da una violenza conoscitiva: negarle la consapevolezza e il valore di essere che merita dignità e rispetto»

Nicla Vassallo, docente di filosofia teoretica all’Università di Genova, ha inaugurato ieri a palazzo Ducale la mostra fotografica «Non ho mai subito violenze. È vero?», progetto da lei ideato per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Ha senso questo appuntamento? O gli anni passano in dibattiti mentre la violenza non smette? «È utile che esista una giornata contro i molti tipi di violenza che non è solo sessuale nè solo maschile. Il problema è che ci si riduce a grandi dichiarazioni, e sennò se ne parla in modo strumentale. I media hanno dato risalto alla violenza degli extracomunitari. Ma il dato impres-
sionante è che il contesto in cui avviene la maggioranza delle aggressioni è familiare». Spesso l’aguzzino ha le chiavi di casa. È un problema, allora, di sicurezza sociale o una questione culturale?
«Un problema di sicurezza c’è, non lo contesto. Ma chi non ha gli strumenti per difendersi da certa propaganda è messo in condizione di temere lo straniero anziché il valicare lo zerbino di casa».
La violenza non è solo sessuale o maschile. Che faccia può avere? «L’idea che le donne non siano violente per definizione è falsa. Pensiamo alle kapò naziste ieri e a quelle che gestiscono il racket della prostituzione oggi».
Chi gestisce un racket lo fa per motivi economici. È sempre abietto, ma non rientra in una casistica diversa? «È difficile definire i motivi economici. Si rischia di giustificare quasi tutti i tipi di violenza: il marito che stupra la casalinga perché la considera inferiore, o se ha una posizione economica meno buona perché si sente infragilito. Come la motivazione biologica dell’uomo cacciatore rispetto alla donna passiva. Come esseri evoluti avremmo dovuto sviluppare una cultura dove la violenza è sempre fuori luogo».
Le donne sbagliano qualcosa? Subiscono troppo? «C’è una società molto rassegnata che trasferisce alle donne immagini e stereotipi pericolosi. Uguali a quelli di una volta. la bellona seminuda e oca, o la Madonna ligia e madre di famiglia. Dopo secoli, la donna concreta si trova ancora di fronte a questo bivio. Ma ha un margine di scelta limitato».
Perché?
«Non conta se è un individuo che riflette su se stesso, che ha conquistato un buon rapporto con sé e gli altri uomini e donne. Considerarla una persona al di là del sesso di appartenenza interessa poco la società».
I figli: molla per reagire o pretesto per sopportare? «Dipende dalla donna e dal partner. E da come e quanto i figli sono stati desiderati, intesi, amati». Quale violenza è la più nociva? «Tutte. Quelle sessuali lasciano un segno indelebile, di quelle psicologiche siamo meno consapevoli. Tutto parte da una violenza di tipo conoscitivo: negarle consapevolezza di sé come essere che merita dignità. Così non sanno valorizzarsi, credono di dover usare scorciatoie per raggiungere gli obiettivi».
Una donna che usa scorciatoie per acquisire potere e successo è vittima o libera? «C’è molta ignoranza, e c’è anche chi ama molto il potere e lo sceglie. Ma alla fine, il problema è che la società sottovaluta e svalorizza le competenze. Così manca in uomini e donne la cognizione che a certi traguardi si arriva con il sapere, e allora si pensa alle scorciatoie».
La prima cosa che una vittima di violenza deve fare rispetto a se stessa? «Ammetterla, non sminuire il trauma nè giustificare l’autore. Dirsi “beh, non è stato così grave” è umano ma sbagliato».

Radicali Italiani 26.11.09
RU486, Silvio Viale: svolta antiabortista al Senato.
Tempi bui per le donne se il politico fa il dottore. Stop solo se l'AIFA non tiene la schiena dritta

Silvio Viale, membro della Direzione di radicali Italiani, dopo l’approvazione notturna della relazione del Presidente Tomassini da parte della Commissione Igiene e sanità del Senato, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Quella del senato è una svolta antiabortista che allinea l’Italia alle posizioni di Polonia, Malta e Irlanda, dove l’aborto è vietato. Sul piano scientifico si tratta di un documento di mero oscurantismo politico che prefigura tempi bui per le donne italiane con il politico che si sostituisce al medico. E’ il sintomo di come la donna sia sempre più lasciata sola in balia di posizioni antiabortiste che manipolano la scienza per i propri scopi politici. E’ una vergogna per il Senato, ma lo è sopratutto per il collega Tomassini che ha sacrificato all’interesse politico la propria figura professionale prendendo per incontestabili le dichiarazioni di esperti che non fanno aborti e sono contro l’aborto. Sulla RU486 vi è stata una disinformazione sistematica da parte di molti giornali ed una pigrizia di quasi tutti gli altri, con il timore di occuparsene per non alterare equilibri politici a destra come a sinistra. Ancora questa mattina l’Avvenire invocava l’arbitrato, confondendo una legislazione contro l’aborto come quella di Malta e quella italiana in cui la RU486 è stata legalmente usata e continuerà, comunque, ad essere usata. Ancora questa mattina Libero ripeteva che non sarà venduta in Farmacia, quando l a questione non è mai esistita trattandosi di un farmaco ospedaliero. Sono indignato, ma come medico non mi arrendo. Sono indignato anche per il documento del PD laddove cede alla tesi del ricovero come ad una possibile mediazione interna ed esterna non curante delle donne, come pazienti e come donne.
Comunque il pronunciamento politico della Commissione Igiene e Sanità del Senato non ha il potere di modificare le evidenze scientifiche – solo i regimi totalitari ce l’hanno – e non cambia l’impianto legislativo. Solo l’avvio formale di una procedura di arbitrato europeo, che il ministero poteva già fare, può interrompere la procedura dell’AIFA, ma il governo sa che tale procedura, che in Europa ha tempi più brevi e certi di quelli italiani, finirà per esporre al ridicolo chi l’ha promossa. In sostanza la decisione del Senato è solo un ricatto politico all’AIFA e vedremo se l’AIFA saprà davvero mantenere la schiena dritta dopo le tante reazioni offese a chi osava mettere un punto interrogativo. E’ probabile che ora il governo avvii davvero quella pratica di arbitrato suicida a perdere in Europa per mere questioni politiche, poiché il loro vero interesse non è la scienza, non è la giustizia, non è la sanità, non sono le donne e i loro problemi, non sono gli operatori della 194, ma solo gli equilibri politici con la minoranza antiabortista. Preoccupazione che, purtroppo per le donne italiane, accomuna entrambi gli schieramenti, per cui tutti urleranno allo STOP, anche se tecnicamente quello del Senato non è affatto uno STOP.”


Repubblica 26.11.09
Crociata di Natale
di Chiara Saraceno

Sono gli stessi che appendono a forza grandi crocefissi nei luoghi pubblici. Che dicono che il crocefisso è simbolo della identità italiana, da loro per altro sbeffeggiata ogni pié sospinto, salvo quando devono contrapporla ai "brutti, sporchi stranieri", specie se "abbronzati". Che rivendicano il cattolicesimo, per altro da loro identificato con il cristianesimo tout court, come parte integrante del Dna italiano, anche se poi si inventano i riti paganeggianti per il dio Po. Sono loro che vogliono far passare una norma (il processo breve) in cui si codifica che la legge non è uguale per tutti e soprattutto non per gli immigrati, specie i più vulnerabili. E che in nome di tutto questo proclamano la pulizia etnica proprio nei giorni di Natale, per non turbare la tranquillità delle buone, cattoliche, operose, bianche popolazioni autoctone. Succede a Coccaglio, profondo Nord, ma potrebbe succedere anche da altre parti. Probabilmente molti altri sindaci ci stanno pensando e molti cittadini di altri comuni invidiano quelli di Coccaglio, con un sindaco così deciso.
La questione non è, ovviamente, il contrasto alla immigrazione clandestina. Anche se ci si può interrogare sul fatto che molti immigrati regolari sono a rischio di diventare clandestini solo perché perdono il lavoro e con questo il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno. Ed altri rimangono clandestini perché i datori di lavoro li preferiscono così: perché possono pagarli meno e licenziarli quando non serve. La questione è il cortocircuito insensato tra evocazione della religione e del più drammatico simbolo religioso che ci sia da un lato, caccia al diverso e allo straniero, soprattutto se povero, dall´altro. Nel grande sventolare di crocifissi e discorsi sulla identità italiana come identità eminentemente cristiana è passata in questi anni una cultura della intolleranza e della aggressione al diverso che richiama altri foschi periodi della storia in cui il crocefisso e la religione erano branditi come arma da guerra, anche interreligiosa. Il riferimento alla religione cristiana e soprattutto al suo simbolo fondativo, la croce, ha perso del tutto il messaggio di apertura al di là delle appartenenze nazionali, familiari, etniche, di amore per l´altro portato fino al sacrificio di sé. Si rovescia piuttosto in segno di separazione e di pretesa superiorità che giustifica ogni sopraffazione. La giustificazione di questa nuova crociata paesana con il Natale, ovvero con l´evento che nel resoconto evangelico segna l´inizio della vicenda che deve necessariamente portare al sacrificio della croce, aggiunge solo un più di grottesco ad un fenomeno che ha una ben più vasta portata e che deve interrogare tutti, in primis i cattolici e le gerarchie ecclesiastiche. Come spiegarsi che un paese che si dichiara cattolico a stragrande maggioranza e dove l´insegnamento della religione cattolica nelle scuole raggiunge la stragrande maggioranza dei ragazzi è un paese dove non solo l´incultura religiosa è la norma, ma dove l´appartenenza religiosa può essere utilizzata nel discorso pubblico (anche) per motivare i comportamenti più aggressivi, violenti, contrari ad ogni più elementare principio di carità? Come possono i cattolici accettare che il loro simbolo religioso per eccellenza possa essere identificato con una cosa così limitata, contingente, oltre che controversa e non priva di ombre storiche, quale è una singola identità nazionale, e addirittura come arma di esclusione? Come può la gerarchia cattolica, in nome della real politik, accettare come suoi difensori coloro che nelle parole e nei comportamenti sia privati che pubblici negano il contenuto stesso di ciò che proclamano difendere?
So bene che le religioni ? tutte ? sono state storicamente più un elemento di divisione che di unione. E troppo spesso la Chiesa cattolica si è fatta complice di dittature e di oppressioni. Questo ha allontanato molti dalla religione e spesso anche dalla domanda di fede. Ma per chi in quel messaggio religioso continua a credere, la ferita rimane aperta e si ripropone ogni volta in cui in nome della politica la Chiesa accetta compromessi che generano ingiustizia e violenza. Qualche volta ? certo meno di quanto qualcuno avrebbe desiderato ? ha ammesso di avere sbagliato e ha chiesto scusa. Ma si vorrebbe anche che imparasse dai propri errori, e che fosse meno sensibile alla tentazione del potere. Altrimenti si oscilla tra il severo, anche se scontato, messaggio del pontefice sulla inaccettabilità della persistenza della fame nel mondo a fronte di sprechi grandiosi, e la benevola tolleranza nella pratica quotidiana sull´uso della appartenenza religiosa a scopi di esclusione.

Repubblica 26.11.09
Domani un convegno a Roma. Molti studiosi concordano sull´autenticità
Ma quante falsità sul papiro di Artemidoro
di Salvatore Settis

Accertato che si tratta di un´opera del I secolo d.C., la ricerca ora si divide su altre questioni Sulla carta geografica e sul fatto che i disegni siano o no di bottega

Domani presso la Società Geografica Italiana si svolge il convegno «Geografia e Cartografia nel Papiro di Artemidoro», le cui conclusioni sono affidate a cienza e media, tema inesauribile. I giornali devono informare i lettori su temi di ricerca, ma come? "Semplificando", ma fino a che punto? Nel suo piccolo, l´Italia offre un esempio interessante. Luciano Canfora, autore di decine di libri e migliaia di articoli di giornale, si è convinto che il Papiro di Artemidoro (con testi e disegni del I secolo d.C.) sia opera di un falsario ottocentesco, tal Simonidis. Al tema ha dedicato cinque libri (un altro è in arrivo) e sette "puntate" (finora) di un romanzo-fiume sulla propria rivista, per oltre duemila pagine. Da questo mare magnum germogliano decine di articoli sui giornali. Intanto, dopo le mostre a Torino, Berlino e Monaco (300.000 visitatori) e l´edizione critica (LED, 2008), gli studi sul tema si infittiscono, ma lo spazio mediatico è occupato quasi per intero da Canfora (su Repubblica del 22 settembre 2006 ho spiegato perché sui giornali non avrei risposto).
Questo martellamento ha avuto il curioso effetto di creare una doppia verità. Da un lato, le sofisticate ricerche sul Papiro, col loro linguaggio inaccessibile; dall´altro, nei media (solo in Italia) una vulgata che, poiché sui giornali nessuno "risponde", prende baldanza, canta vittoria. Miti ragionieri e affaccendati notai sono chiamati a giudicare su paleografia e archeologia, e sulla base solo di articoli di giornale. Se poi un addetto ai controlli aereoportuali sposa la sua teoria, Canfora ne esulta sull´ospitale Corriere (30 giugno 2009). Insomma, il battage mediatico dovrebbe fare del Papiro un falso a furor di popolo.
Questa vulgata ha tre punti principali. Primo, la sola cosa del Papiro che meriti discutere è se sia falso o autentico. Secondo, la partita è chiusa, le "prove" della falsità sono ormai "definitive" (Libero, 6 novembre). Terzo, si tratta di un duello fra Canfora e me. Nessuna di queste tre affermazioni è vera: saranno "semplificazioni", ma danno di fatto false informazioni. Ripercorriamole in ordine inverso. Non sono il solo responsabile dell´edizione del Papiro; vi hanno anzi lavorato molto più di me tre papirologi, (B. Kramer, C. Gallazzi e A. Soldati), un filologo classico (A. Cassio), un altro archeologo (G. Adornato), laboratori di analisi fisica e chimica.
Nella molta bibliografia sul Papiro, solo R. Janko ha dato ragione a Canfora, ricopiandone gli argomenti senza troppa fantasia. Per tutti gli altri, «nessun serio dubbio è possibile sull´autenticità» (W. Luppe su Gnomon). Secondo P. van Minnen (Bulletin of the American Society of Papyrologists), solo «some Italian "political" reason» può spiegare la posizione di Canfora. C. Lucarini (Londra) ha confutato gli argomenti di Canfora in Philologus, e prepara un´edizione di Artemidoro per la gloriosa Bibliotheca Teubneriana; B. Bravo (Varsavia) e I. Pajón (Madrid) ne hanno scritto nella Zeitschrift für Papyrologie. In questi giorni, tre libri tornano sul tema. Images and Texts on the Artemidorus Papyrus (ed. Steiner) contiene gli atti di un seminario di Oxford: tutti gli autori, tranne Canfora, si pronunciano per l´autenticità: così M. West (che trova l´argomentare di Canfora disingenuous, disonesto), così P. Parsons, D. Obbink, R. Talbert, J. Elsner, G. Nisbet e M. Billerbeck; N. Wilson esprime qualche dubbio paleografico, subito fugato da Parsons. Il secondo libro in uscita, Intorno al Papiro di Artemidoro. Contesto, lingua e stile (ed. LED) contiene molte risposte a Canfora (a firma Gallazzi-Kramer), ma anche contributi di Cassio, Soldati, Parsons e Lucarini, e di altri studiosi illustri come J. Hammerstaedt, S. Colvin, D. Sedley, F. Montanari. Tutti convinti della genuinità del papiro.
Tutto a posto, dunque? Noi, editori del Papiro, abbiamo ragione in tutto e per tutto? No. Molti di questi studi non sono d´accordo con le nostre proposte, anzi le criticano severamente. Per esempio, Nisbet propone di "montare" i frammenti del Papiro in ordine diverso, e G. B. D´Alessio ha trovato in tal senso prove importanti, col risultato che Canfora lo ha iscritto d´ufficio al proprio partito (Corriere, 29 aprile), e D´Alessio ha dovuto smentire (simile disavventura è toccata ad Hammerstaedt). Più d´uno dubita che il Papiro, pur essendo del I secolo d.C., contenga un testo di Artemidoro, o pensa che a lui ne vada attribuita solo una parte. Alcuni ritengono che i disegni di animali non siano un "repertorio di bottega" (come abbiamo proposto), ma un prontuario per un trattato zoologico. Grande disaccordo c´è sulla carta geografica del Papiro: nessuno sa davvero che cosa rappresenti, né come mai è non-finita, né se illustra il testo lì accanto. Con queste e cento altre domande (per non dire delle proposte di correzione del testo o dell´interpretazione), l´edizione del Papiro viene messa in discussione quasi a ogni pagina. Il dibattito scientifico sul Papiro non si svolge intorno alla sua genuinità (come vuole il pensiero unico di Canfora), ma su ben altri temi.
Su Geografia e cartografia nel Papiro di Artemidoro la Società Geografica Italiana ha organizzato un convegno. Discuteranno storici della geografia, linguisti e filologi, esperti dell´Iberia antica (di cui parla il Papiro), specialisti di Strabone e Tolomeo. Studiosi di sette Paesi (Prontera, Talbert, Pontani, Moret, García Bellido, Motta, Valerio, Marcotte, Guerra, Engels, Mittenhuber) si misureranno con le complessità di questo affascinante documento di età classica. Senza trionfalismi, senza "vittorie" in insussistenti "duelli", senza affigger proclami proveremo a capire qualche piccola cosa in più. Sarà solo qualche novità "da specialisti", o varrà la pena di raccontarla a un pubblico più vasto? È ancora presto per dirlo.

Corriere della Sera 26.11.09
Viale Mazzini Il cda nomina l’ex direttore del Tg3 al posto di Ruffini: per lui un incarico ai nuovi canali digitali
Di Bella guiderà Raitre, sinistra spaccata
di Paolo Conti

Vota contro l’ex dl Rizzo Nervo. A favore Garimberti e il veltroniano Van Straten

ROMA — «È un grande onore poter continuare il la­voro di Paolo Ruffini e del gruppo dirigente di Raitre che ho avuto modo di cono­scere e apprezzare nei miei otto anni di direzione al Tg3. Il mio impegno è consolida­re i risultati raggiunti, per qualità e ascolti, garantire e sviluppare l'identità della re­te ». Antonio Di Bella com­menta con poche parole la sua nomina, avvenuta ieri, a nuovo direttore di Raitre al posto di Paolo Ruffini. Il di­rettore generale Mauro Masi ha messo al voto la propo­sta: otto sì (cen­trodestra più il presidente Pao­lo Garimberti, l’Udc Rodolfo de Laurentiis e il Pd Giorgio van Straten) e un no (l’altro Pd Nino Rizzo Nervo). Una profonda, inedita spaccatura nel Partito Democratico: da una parte van Straten (ulti­ma designazione della segre­teria di Walter Veltroni) e dall’altra Rizzo Nervo (ex Margherita). A Ruffini è sta­ta offerta la responsabilità del coordinamento della struttura dei nuovi canali sul digitale terrestre.
Paolo Garimberti parla di scelta «totalmente azienda­le. Che ci si creda o meno, a me questo non interessa. A Ruffini affidiamo in sostan­za il progetto più importan­te degli ultimi anni, quello che disegnerà la Rai del futu­ro. Spero che continui a lavo­rare col solito impegno e che accetti. L'ho detto qualche mese fa a lui e lo ribadisco: non è uno scandalo cambia­re un direttore di rete dopo sette, quasi otto anni di lavo­ro. Penso sinceramente che, nonostante quanto di buono è stato fatto a Raitre in que­sti anni, la rete abbia biso­gno di una nuova iniezione di energia per trovare nuovi stimoli sia intellettuali che operativi».
Invece Rizzo Nervo è duris­simo, parla di rimozione: «Non avrei mai immaginato che la richiesta di epurazio­ne da mesi sollecitata dall' esterno potesse essere accol­ta con un solo voto contra­rio. È come se nel 2002 il Cda avesse approvato, con una maggioranza schiacciante, la cacciata di Enzo Biagi e di Mi­chele Santoro. Un segnale de­vastante per chiunque lavori in questa azienda».
Van Straten è sulla posizio­ne di Garimberti: «Ho ritenu­to che Di Bella corrispondes­se perfettamente alla necessi­tà di tutelare uno dei capisal­di del servizio pubblico, uno dei pochi spazi rimasti per un’informazione non omolo­gata, per trasmissioni intelli­genti e innovative, per l’ap­profondimento e l’inchiesta giornalistica di qualità». Geli­da la reazione di Ruffini: «C'è davvero poco da commenta­re. Ci sono cose che si com­mentano da sole. Per me par­la il lavoro svolto ogni gior­no dalla rete. Un lavoro che è stato ed è sotto gli occhi di tutti e che ha onorato il ruo­lo del servizio pubblico».
Il presidente della commis­sione di Vigilanza, Sergio Za­voli, protesta per «l’estenuan­te, eccezionale lentezza della decisione, l’assenza di moti­vazioni che accreditassero la natura professionale e gestio­nale, del provvedimento. L’incongrua, nuova colloca­zione escogitata per giustifi­care un esito di cui la politica stessa, certo non estranea al­la questione, non credo pos­sa menar vanto». Ma il Pd sulla Rai è lacerato. Lo con­ferma con chiarezza Enzo Carra: «La nomina di Di Bella è comunque una buona noti­zia, saprà far bene per rinno­vare una rete che ha bisogno anche di aria. La direzione di Ruffini è stata un passaggio importante. Ma è stata dan­nosa, anche per lui, e non lo meritava, la cocciuta resisten­za operata da alcuni ambien­ti del Pd, come se le direzio­ni ed i vertici fossero a vita». Una polemica contro l’as­se Rosi Bindi-Paolo Gentilo­ni che hanno difeso fino al­l’ultimo Ruffini? Soddisfatto il Pdl. Antonio Verro, Consi­gliere Rai: «Auguri a Di Bel­la, professionista di lungo corso e di indubbia qualità, e un grazie a Paolo Ruffini per questo lungo mandato durato quasi otto anni». Giorgio Lainati, vicepresi­dente Pdl della Vigilanza Rai: «Il consenso quasi plebi­scitario nel Cda della Rai alla nomina di Di Bella è la più evidente conferma della scel­ta d'alto profilo operata dal vertice aziendale»

Corriere della Sera 26.11.09
L’intervista. La conduttrice di «Report»
Gabanelli: sostituzione sbagliata Basta con le scelte «politiche»
di P. Co.

ROMA — «Ma perché sostituire Ruffini? Rispondere è un dovere, per­che le aziende non sono fatte solo di muri, ma di persone». Parola di Mile­na Gabanelli, anima di «Report».
Cosa pensa di questo avvicenda­mento, Gabanelli?
«Ruffini è arrivato a Raitre nel 2002 ed è riuscito pian piano a coinvolgere tutti dentro ad una strategia di rete. Ha portato tutti fuori dal proprio orto, ci ha fatto partecipi di necessità più ampie, come un cambio di program­mazione non previsto, che magari in quel momento ti penalizza, ma va a vantaggio di tutta la rete. Insomma è riuscito a fare squadra. E questo ri­chiede tempo, lui lo ha avuto e i risul­tati lo hanno premiato. Allora perché sostituirlo? La dirigenza di una buona azienda normalmente investe sul suo patrimonio umano, chiede 'rendimen­to', riconosce il merito e lo premia. Se a decidere la carriera, dentro ad un’azienda pubblica, è solo la politica secondo un criterio basato sulla fedel­tà o sulle 'conoscenze' e non sulla 'co­noscenza', nessuno avrà più voglia di impegnarsi per dare il meglio di sé nell’interesse generale».
Cosa ha apprezzato di più in Pao­lo Ruffini?
«La sua elevata professionalità. La forza di essere intellettualmente libe­ro. Soprattutto sono sicura che adesso avrà la dignità di non sedersi davanti ad una scrivania inutile per passare il 27 del mese a ritirare lo stipendio. Per me è un grande esempio, anche sul piano umano».
Teme un cattivo rapporto col suo successore Antonio Di Bella?
«In 13 anni di vita di 'Report' ho cambiato quattro direttori ed ho avu­to con tutti un rapporto leale e costrut­tivo, e così continuerà ad essere con il nuovo direttore, se deciderà che que­sto programma debba continuare a vi­vere. Diversamente ci saluteremo con una stretta di mano. Senza traumi per nessuno, visto che i miei collaboratori sono freelance e il mio contratto non è mai andato più in là dei 24 mesi. Non ho mai chiesto, nè mi è mai stata offerta una garanzia maggiore. Ho sempre investito nella professionalità come patrimonio da spendere, nel ca­so in cui si chiudesse una porta. Que­sta è la cultura da cui provengo».

Corriere della Sera 26.11.09
Elezioni presidenziali
Romania, intesa socialisti-liberali

Firmato a Bucarest l’accordo tra liberali e socialdemocratici per sostenere il candidato socialdemocratico Mircea Geoana al ballottaggio delle presidenziali romene del prossimo 6 dicembre. Geoana corre contro il presidente in carica Traian Basescu, che chiede un secondo mandato.
Al primo turno domenica scorsa Basescu aveva ottenuto il 32,44%, Geoana il 31,15%.
Terzo il liberale Crin Antonescu con il 20%: ora i suoi voti sono fondamentali.
L’accordo conferma anche il sostegno al sindaco di Sibiu, Klaus Johannis, per l’incarico di premier.

Corriere della Sera 26.11.09
Ritratto di Tintoretto l’artista che sfidò il genio di Tiziano
Nella Venezia del ’500 tra signori e libertini
di Isabella Bossi Fedrigotti

Rinascimento Melania Mazzucco ha dedicato una monumentale biografia al pittore che oscillò tra il rosso della passione e il nero del pessimismo
Pietro Aretino lo lodò e criticò, Jean Paul Sartre ravvisò in una sua opera tardiva «un viso posseduto da vecchio assassino»

Immaginiamo un grande affresco oppure un’immensa tela, per esempio una delle tante, gigantesche e impressionanti del Tintoretto, dove si affolli una miriade di personaggi di tutte le classi sociali, di tutti i mestieri e le professioni con una fi­gura al centro, più importante di tutte, in piena luce. Leggendo la più recente, sterminata opera di Me­lania Mazzucco, è questa l’impres­sione che se ne trae. E volentieri si entra dentro l’affresco, seguendo la scrittrice-conduttrice che, qual gui­da preparatissima, ci racconta, con pazienza e minuzia, le vicende del soggetto in primo piano e quelle di ciascuna delle comparse che lo cir­condano, vicine, lontane o lontanis­sime, ma comunque a lui collegate in modo più o meno stretto. E non si limita — la guida — a spiegare nel dettaglio le persone che via via s’incontrano, ma estende la sua le­zione alla città nella quale vivono tutte quante e che è molto più che sfondo — la Venezia del Cinquecen­to —, alla sua tumultuosa quotidia­nità civile, religiosa, artistica, arti­gianale e commerciale, alla sua sto­ria, alla sua politica.
È appunto Jacomo Tintoretto il protagonista del grande affresco, opera, oggi in uscita in libreria, di Melania Mazzucco che ha inseguito il pittore veneziano per più di dieci anni attraverso archivi e biblioteche, musei e depositi chiusi al pubblico, finendo per scriver­ne la prima importante biografia mai uscita in Italia: Jacomo Tintoretto & i suoi figli (Rizzoli, pp. 1.022, e 42). Da narratrice qual è, la scrittri­ce si è fatta saggista per l’occasione, senza pe­rò, fortunatamente, mai perdere la costante meraviglia e il coinvolgimento personale di chi racconta una storia che l’appassiona. Del re­sto, questo saggio è figlio di un suo romanzo uscito un anno fa, La lunga attesa dell’angelo, libera e suggestiva reinvenzione della figura di Tintoretto: la biografia di oggi esiste, cioè, grazie agli studi e alle ricerche fatte per scrivere quel romanzo e tutto il vastissimo materiale raccolto è stato sufficiente per riempire le ottocento pagine di testo, stampate, tra l’altro, in cor­po abbastanza piccolo, più le due­cento di bibliografia e note.
Suggestivo è anche questo libro, in innumerevoli suoi passi. Per esempio all’inizio, quando l’autrice rievoca come tutto sia cominciato con una sua lontana passeggiata at­traverso il sestiere veneziano di Can­naregio e una visita alla chiesa che sorge nel suo lembo estremo, Santa Maria dell’Orto, dove è custodita la Presentazione di Maria al Tempio straordinaria tela del «più terribile cervello che abbia mai avuto la pit­tura », come Melania Mazzucco defi­nisce il «suo» pittore, dopo averne cercato ed esaminato ogni possibi­le, minuscola traccia. E di quel qua­dro l’autrice fu colpita in particola­re dalla figuretta di Maria, che po­trebbe avere le sembianze di Mariet­ta, l’amatissima figlia naturale di Tintoretto, erede del talento del pa­pà e pittrice a sua volta, scomparsa però prima di potersi fare un no­me. Maria-Marietta ha rappresenta­to, in un certo senso, il capo del filo che, come un detective, l’autrice ha seguito per — letteral­mente — centinaia di chilometri.
Come è suggestivo il racconto del rapporto che Jacomo, «un artista ambizioso e discusso, scorretto e devoto, colto e popolare, eccentri­co e conformista, incalzato da un perenne fu­rore creativo», intrattenne, per esempio, con il mefistofelico libertino e intelligentissimo Pietro l’Aretino, dal quale ebbe lodi ma anche veleni, sia pure camuffati dietro parole alate. Oppure con «Il» pittore veneziano per eccel­lenza, il numero uno, il grande Tiziano Vecel­lio, acclamato e lodato in tutta Europa, amico dei potenti, intimo — quasi — dell’imperato­re Carlo V, che mai volle lasciare spazio al più giovane collega, mai ne riconobbe il genio, guadagnandosi fin da subito il suo precoce odio quando — per invidia secondo la leggen­da — buttò fuori dall’ambita sua bottega il ra­gazzo apprendista Jacomo.
A quell’epoca il giovanissimo pittore ancora non si chiamava Tintoretto, ma al massimo Tintore, soprannome dovuto al mestiere del padre, Battista Robusti, eccellente maestro di tintoria di origine bresciana: attività che per­mette all’autrice un appassionante escursus su un’arte veneziana per eccellenza, le cui re­gole erano fissate da norme precise e severissi­me, senza le quali la città avrebbe rischiato di perdere un redditizio mercato internazionale nel quale primeggiava. Era il rosso il colore principe nella Venezia del Cinquecento, degli arredi e delle vesti, nella vita come nei quadri, e serviva un insetto asiatico per ottenere il mi­gliore e più duraturo; l’introduzione, consenti­ta a un certo punto anche per legge, di uno meno raro, proveniente dalle nuove Indie spa­gnole — cioè l’America — segnò per la Sere­nissima l’inizio del declino del lucroso com­mercio. Non a caso, contemporaneamente, co­minciò a dilagare, a Venezia come in tutta Eu­ropa, la plumbea moda spagnola del nero tota­le, della quale a volte si ha l’impressione che duri ancora.
Nero plumbeo che investì anche Tintoretto nella sua tarda età, come lo vediamo nell’ Auto­ritratto conservato al Louvre e riprodotto qui, completamente in nero contro sfondo nero, assieme a numerose altre sue opere, alcune delle quali mai esposte in alcun museo. E il quadro conferma quel che spesso si è sostenu­to, che Jacomo da vecchio non andò perdendo nulla della sua arte, ma che la sua mano, anzi, si raffinò e la sua vista di pittore si fece anche più acuta. Ci mostra un uomo stanco, rabbio­so, dalle occhiaie profonde, dallo sguardo scu­ro, fissato nel vuoto, un uomo che ha combat­tuto innumerevoli battaglie, senza aver colto vere vittorie, come annota l’autrice. Forse la più impressionante e inquietante tra tutte le sue opere, ossessionò molti, pittori e scrittori, tra i quali Sartre, che a Tintoretto dedicò vari saggi, e che nell’ Autoritratto ravvisò «un viso posseduto di vecchio assassino».
La vasta raccolta di note, l’ancora più ampia bibliografia dove figurano non pochi docu­menti inediti scoperti dall’autrice, nonché l’elenco dei nomi, faranno probabilmente la gioia degli specialisti. Al lettore «normale» ba­sterà il resto: aggirarsi, cioè, nel grande affre­sco, alla scoperta del potente personaggio cen­trale e degli innumerevoli minori che lo cir­condano, familiari, parenti, amici, colleghi, ar­tigiani, poliziotti, prostitute, committenti, gran signori, musicisti, alchimisti, preti, lette­rati, avvocati e diplomatici. A volte temerà for­se di perdersi nel labirinto di persone e avveni­menti, ma la mano della guida è sicura.

mercoledì 25 novembre 2009

l’Unità 25.11.09
Oggi giornata contro la violenza sulle donne
ROMA In Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, nella sua vita è stata vittima della violenza di un uomo. Secondo i dati delùl’Istat, sono 6 milioni e 743mila le donne che hanno subito nel corso della propria vita violenza fisica e sessuale. Sono alcuni dati che diùmostrano la diffusione della vioùlenza contro le donne: oggi si celeùbra la Giornata mondiale contro questa emergenza e sabato a Roùma ci sarà una manifestazione naùzionale proprio per dire «no» alla violenza sulle donne: il corteo parùtirà da piazza della Repubblica per arrivare a piazza San Giovanùni. Ecco altri dati: tre milioni di donne hanno subito aggressioni durante una relazione o dopo averùla troncata, quasi mezzo milione nei 12 mesi precedenti all’interviùsta.❖

l’Unità 25.11.09
Le donne e i mille volti della violenza
La giornata mondiale dell’ONU
di Fabio Roia
D al dicembre 1999 l’Assemblea Generale delùl’Onu ha fissato nella data del 25 novembre la Giornata internazionale contro la violenùza contro le donne. Si tratta di capire se ce-
lebriamo per convenzione una ricorrenza o se capiaùmo veramente il dramma di una violenza diffusa e multiforme che si manifesta dall’aggressione alla sfeùra genitale con pratiche di mutilazione alla insidia psiùcologica di sopraffazione molto meno tribale e da orùdinamento evoluto. Vi sono purtroppo molteplici indiùci sociali che portano a ritenere come non sia ancora perfettamente compiuto il processo di reale presa di coscienza del forte disvalore del gesto violento nei confronti della donna. Pensiamo al fenomeno della “velinizzazione” dove il profilo estetico sembra dover prevalere su tutto per consentire un’affermazione delùla persona in certi settori professionali. Come se fosùse, la bellezza venduta, un prezzo da pagare al succesùso. Una violenza sottile. Pensiamo ancora alla difficolùtà che incontra il diritto costituzionale alle pari opporùtunità ad affermarsi nella quotidianità del lavoro, delùla istituzione, della genitorialità per la presenza di un pregiudizio e di condizioni sociali che impongono anùcora la definizione di donna come soggetto debole. L’aggettivazione è ancora una violenza sottile.
Permane poi, nella cultura maschile, un pensiero di poter disporre comunque della donna. Nella sfera affettiva, sessuale, economica emerge la distorsione del rapporto padronale che tende sempre alla soprafùfazione e alla riaffermazione dell’abuso di una situaùzione di dominio. È la dinamica di chi diventa maltratùtante, persecutore, sessualmente violento che si traùsforma nella patologia del comportamento tipica delùla vicenda penale dove la donna parte lesa tende a subire una seconda vittimizzazione. Vittimazione ulùteriore che deriva dalla superficialità processuale delùl’approccio alla sua storia e dallo scarso riconoscimenùto, nella sede propria della riaffermazione del suoi diritto alla dignità, alla sofferenza personale. La rispoùsta interistituzionale – di accoglienza, di protezione, di giustizia ùalla violenza sulla donna è ancora imperùfetta. Peraltro nel disegno di legge in materia di estinùzione del processo (il cosiddetto “processo breve”), fra i reati esclusi dalla disciplina che porta alla morte della vicenda processuale se la stessa non si consuma in due anni non è ricompreso il delitto di maltrattaùmenti in famiglia (art. 572 codice penale), quindi proùprio quella fattispecie tipica che si applica nei numeroùsi casi di violenza domestica (fisica e psicologica) conùsumata in danno delle donne. L’evidente conseguenùza sarà quella di applicare ogni tattica processuale diùlatoria – a cominciare dal legittimo rifiuto dell’imputaùto di scegliere riti alternativi ùche porti l’imputazione di violenza all’eutanasia giudiziaria. Donne da buttaùre per legge. ❖

Repubblica 25.11.09
La Commissione sanità pronta a bloccare l´immissione in commercio
Ru486, oggi il Senato decide stop dal Pdl, ma è scontro
di Mario Reggio

ROMA ùLa storia infinita della pillola abortiva Ru486 continua. La commissione senatoriale d´inchiesta voterà oggi il documento finale presentato dalla maggioranza: non c´è stata alcuna verifica della compatibilità della terapia farmacologica con la legge 194 e l´Agenzia italiana del farmaco non l´ha prevista. Il presidente della commissione, Antonio Tomassini, annuncia che verrà chiesto un parere al ministero della Salute e quindi il blocco della procedura per il via libera della Ru486.
Cosa potrà succedere adesso? L´obiettivo del centrodestra è chiaro: bloccare la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera dell´Aifa, prevista a giorni, e pronta da due mesi. Ergo azzerare i mesi di lavoro dell´Agenzia italiana del farmaco e ricominciare tutto da zero. Che sia una decisione politica lo conferma la vicepresidente dei senatori Pdl Laura Bianconi: «Certamente, se la politica non si occupa di tutelare la vita e la salute di cosa altro si dovrebbe occupare?».
Polemico il commento del senatore Pd Lionello Cosentino, componente della Commissione sanità del Senato. «La relazione del presidente Tomassini è una cattiva notizia per le donne italiane. Vogliono imporre all´Aifa di fermarsi con due motivazioni fasulle ùafferma Cosentino ùil rischio per le donne a causa di un farmaco che è in uso nel mondo già da 20 anni ed è stato approvato da tutti gli organismi tecnico scientifici a partire dall´Europa agli Stati Uniti». E prosegue: «La seconda motivazione è la coerenza con la legge 194. Si pretende un parere dal ministero "competente" che non è previsto dalla legge, né dovuto ùconclude Cosentino ùe da quando il governo diventa giudice di una legge? La relazione Tomassini è una barzelletta, purtroppo non fa ridere».
Sulla relazione annunciata dal presidente Antonio Tomassini la maggioranza sembra compatta. È stata definita «un atto responsabile» dal senatore D´Ambrosio Lettieri e dal collega di partito Domenico Gramazio. Ancora incerto il Pd, il cui gruppo in commissione stamattina si riunirà per definire una linea. La capogruppo Dorina Bianchi ha riconosciuto che «bisognerà capire quanto la legge 194 sia compatibile con la pillola e chi lo debba stabilire», aggiungendo tuttavia che nella relazione conclusiva «ci sono delle incongruenze che vogliamo discutere».


Corriere della sera 25.11.09
La storia I discendenti dei 300 mila «moriscos» oggi vivono nel Maghreb
La Spagna e i mori cacciati: risarcirli dopo 400 anni?
La proposta socialista: compensare gli eredi arabi
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Si allunga la memoria storica spagnola. Più indietro, molto più indietro della guerra fratricida della seconda metà degli anni 30, che tuttora il paese fatica a metabolizzare. Altri ri­cordi, assai più antichi, rimordono alcu­ne coscienze: come la cacciata dal Re­gno di Castiglia dei moriscos , 300 mila musulmani convertiti, più con le cattive che con le buone, e infine espulsi da Filippo III nel 1609. Esattamente quattro secoli fa. Acqua passata, che però macina ancora nella mente di scrittori, come Ildefonso Falcones, autore di un migliaio di pagine al riguardo, il best seller intitolato «La Mano di Fatima»; e di politici, come il deputato socialista di Granada, José Antonio Pérez Tapias, au­tore di una proposta in grado di suscita­re un probabile vespaio al Congresso.

La sua mozione, presentata dal grup­po parlamentare del Psoe, sollecita il governo a trovare una forma di com­pensazione per i discendenti, ovunque essi siano, di quelle popolazioni ripu­diate quattrocento anni fa: «Non erano immigrati, erano spagnoli per davve­ro, da 800 anni», ricordava Falcones, che narrando le tribolazioni di uno di loro, il giovane Fernando, intendeva in­terpretare il dolore di tutti. Ma i loro pronipoti, in maggioranza, ormai vivo­no altrove: in Algeria, in Marocco, in Tunisia, in Libia, in Mauritania, in Ma­li. Ritrovarli sarebbe comunque abba­stanza arduo: «Occorre fare il possibile per rafforzare i vincoli economici, so­ciali e culturali con la gente del Ma­ghreb e dei paesi subsahariani», ritie­ne José Antonio Pérez Tapias. Una sor­ta di risarcimento collettivo, a pioggia, quattrocento anni dopo.

Non è mai troppo tardi per fare am­menda, sostiene il deputato di Grana­da, rivolgendosi al governo del suo stes­so colore: «È necessario un riconosci­mento istituzionale dell'ingiustizia che fu commessa a suo tempo, con l'espul­sione in massa dei moriscos». E sottoli­nea «ingiustizia storica», come una col­pa non casuale o involontaria: «Fu com­messa per intolleranza religiosa, per quella politica di assimilazione plasma­ta sull'alternativa tra conversione ed esi­lio, per il risentimento della popolazio­ne cristiana e per la pretesa di configura­re un regno integrato nel cristianesimo, senza minoranze che potessero met­tere in dubbio questa coesione».

L'occasione è offerta da un'altra ri­correnza: il millennio del Regno di Granada. Sarebbe imperdonabile tra­scurare questo capitolo: «Uno dei più terribili esili della storia di Spa­gna » insiste Pérez Tapias. Secondo il quale questo è, per i socialisti, il momento migliore per «recuperare la memoria storica di una popola­zione vittima di una convivenza negata». Pur non rischiando di op­porre nuovamente i due fronti ne­mici della guerra civile, anche queste memorie dividono l'opinione pubblica. Non tutti condannano Filippo III per aver firmato il decreto di espulsio­ne, non tutti pensano che la Spagna di oggi sia in debito con i «fratellastri» di allora. Non tutti condividono l'opinione di Falcones sull'esistenza di un altro fa­natismo religioso, quello cristiano. E nei forum dei giornali on line spagnoli sono più le critiche del plauso alla mozione presentata al Congresso: «L'ingiustizia storica fu nel 711 — scrive un lettore nel sito di Abc.es , dove in poche ore si sono accumulati 460 commenti —, quando ci invasero devastando vite e terre». Oppu­re: «E perché non fare causa all'Italia per i danni che i legionari romani inflissero alla nostra penisola?».

Pérez Tapias, 54 anni, è docente di fi­losofia all'Università di Granada, è stato eletto deputato alle ultime legislative, nel 2008, ed è autore di libri e articoli piuttosto conflittuali con il conservatori­smo della gerarchia ecclesiastica spa­gnola. Quindi, abituato alle polemiche.

Corriere della Sera 25.11.09
Tutti i razzisti si somigliano
Dal Sudafrica all’Italia di oggi, la paura del diverso genera intolleranza
di Gian Antonio Stella

«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: coma­schi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, in­glesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriati­co, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xinga­ni: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, re­stituendo la visita compiuta secoli prima da Mar­co Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infi­ne i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche mo­do alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.

Tutti. A partire da quelli che per i ve­neziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contra­rio, come dicono le parole stesse «Im­pero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, 

non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».

È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani so­stengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mon­do abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Del­fi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’om­belico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qual­che modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distri­buire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghe­zio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipen­dente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invi­vibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».

Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe se­guire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri terri­tori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradi­zioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi 'co­struttori di libertà' perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei coloniali­sti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da mi­gliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamen­to nella Pianura Padana dei roma­ni che quelli come Borghezio riten­gono ancora oggi degli intrusi colo­nizzatori, al punto che Umberto Bos­si vorrebbe che il «mondo celtico ri­cordasse con un cippo, a Capo Tala­mone » la battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una que­stione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli stadi con­tro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del de­mone antisemita, le spedizioni squadristiche con­tro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le avanzate in tutta Euro­pa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa parana­zista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da seco­li e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clo­chard bruciati per «ripulire» le città e gli inni im­mondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insie­me nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo «Anda­te tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei & co!», come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi eco­nomica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli ex­tracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente caval­cano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fat­ta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravi­gliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubbli­china privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato caccia­to oltre un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne di vive­re nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, nien­te più ascensori vietati ai neri e così via. (...) «Il genocidio dei boeri»: tito­lano oggi molti siti olandesi de­nunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande crimi­nali di colore gonfie di odio raz­ziale che da Durban a Johanne­sburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quoti­diano «Reformatorisch Dag­blad », di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafrica­no, quello che mostra come la bestia razzista possa presentar­si sotto mille forme, è qui. I boe­ri, protagonisti di tante brutali­tà contro le popolazioni indige­ne e oggi vittime di troppe ven­dette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpe­trato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africa­ni nati da un miscuglio di olan­desi, francesi, tedeschi... (...) È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di po­grom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittu­ra, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenri­ck e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemiti­smo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così co­m’è impossibile capire il razzismo se non si ricor­da che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...