lunedì 30 novembre 2009

adn.es 29.11.09
Bellocchio: la falta de reconocimiento y las críticas son el precio de mi arte
Alicia G.Arribas
qui segnalato da Roberto Martina
http://www.adn.es/cultura/20091129/NWS-0581-reconocimiento-criticas-precio-falta-arte.html

Repubblica 30.11.09
La Svizzera dice no ai minareti
La Lega esulta: ora la croce nel tricolore
di Franco Zanotelli

LUGANO - Uno schiaffo ai musulmani finora mai visto, in Europa. Lo hanno dato ieri gli elettori svizzeri, votando contro la costruzione di nuovi minareti. Secondo il 57% dei cittadini, bastano e avanzano i quattro attualmente esistenti a Ginevra, Zurigo, Winterthur e Wangen bei Olten.
A scagliarsi contro i minareti, ritenuti "un simbolo di potere politico-religioso", erano stati diversi esponenti della destra e dell´estrema destra elvetica che, dopo aver lanciato una petizione popolare, raccogliendo oltre 113 mila firme (nonostante l´opposizione del Governo e della maggioranza del Parlamento), hanno portato i cittadini alle urne e ottenuto un successo assolutamente imprevisto. I sondaggi indicavano infatti una facile vittoria dei no alla proibizione dei minareti.
In realtà è stata sottovalutata la presa degli slogan branditi dai promotori. Come la citazione di un discorso tenuto nel ?97 dal premier turco Erdogan, il quale dichiarò che «le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette». Slogan che però, curiosamente, a Zurigo, Winterthur e Ginevra, dove sorgono tre dei quattro minareti svizzeri, non hanno trovato orecchie: lì, infatti, l´iniziativa è stata respinta.
Come scriveva di recente lo Spiegel, «ne è passato di tempo da quando, negli anni ?60 e ?70, i sindaci di Zurigo e di Ginevra salutavano come simboli di apertura l´inaugurazione di una moschea nelle loro città». Oggi il clima è cambiato. Lo testimoniano episodi come la recente intervista televisiva di un cittadino di Wangen bei Olten, dove nel gennaio scorso è stato inaugurato l´ultimo minareto svizzero, che non ha esitato a definire l´edificio «un primo passo verso la sharia».
Ieri la ministra di Giustizia, Eveline Widmer Schlumpf, ha riconosciuto che sono state sottovalutate le «paure diffuse nella popolazione nei confronti di correnti islamiche fondamentaliste, che potrebbero rifiutare le nostre tradizioni statali e non riconoscere il nostro ordinamento giuridico». La Widmer Schlumpf ha quindi, tentato di rassicurare gli oltre 350 mila musulmani residenti in Svizzera, affermando che il voto di ieri non va inteso come «un rifiuto della comunità dei musulmani, della loro religione e della loro cultura». Ma il presidente del Coordinamento delle organizzazioni islamiche in Svizzera, Farhad Afsahar, dichiara che «quello che più ci fa male non è il rifiuto del minareto ma, piuttosto, il segnale che arriva dalle urne». «Amo la Svizzera e questo risultato getta un´ombra di vergogna su un Paese che amo», ha detto dal canto suo Hafid Ouardiri, ex-portavoce della moschea di Ginevra. Non è un caso se, in ottobre, Ouardiri arrivò a denunciare per discriminazione razziale uno dei promotori dell´iniziativa anti-minareti, il parlamentare dell´Unione Democratica di Centro Oscar Freysinger, che durante un congresso del suo partito, azzardo` un paragone tra islam e nazismo.
Mentre Freysinger e gli altri fautori dell´iniziativa festeggiano, perplessità arrivano anche dalla Conferenza episcopale elvetica, tramite il suo segretario generale, monsignor Gmur: «Quelli che sostenevano il referendum dicono che la religione deve essere una cosa privata, che ognuno può pregare dove vuole ma non in luoghi pubblici. Nello stesso tempo si dicono cristiani. Ma per un cristiano il culto non può essere solo un fatto privato». Inoltre, rincarano i vescovi, l´esito del voto «aumenta i problemi della coabitazione tra religioni e culture».
In Italia, invece, la Lega Nord esulta. E per bocca del viceministro Castelli, che parla di «un messaggio di civiltà», propone di «mettere la croce nel Tricolore».

Repubblica 30.11.09
Canfora sul Papiro: è un falso
Tutti quei silenzi su Atemidoro
di Luciano Canfora

Viene taciuta anche la dimostrazione degli specialisti mai confutata del falso fotografico

Dal Simonidis! Questa è la più divertente uscita che ci si potesse aspettare, parlando dello pseudo-Artemidoro. Anche se chi si esprime così (su Repubblica del 26 novembre) dichiara di non essere un papirologo (ed effettivamente ciò è vero), resta il fatto che persone del calibro di Droysen, Burckhardt e Wilamowitz - per fare solo qualche nome - hanno parlato del greco falsario Simonidis come di uno dei maggiori "pericoli" in giro per l´Europa dell´Ottocento, e che Simonidis godette dell´appoggio di un critico forse non da poco come Sainte-Beuve. Peraltro, nei lavori che Settis troppo generosamente definisce miei "romanzi", abbiamo in questi anni documentato il grande rilievo, l´infaticabile lavoro e la duratura sopravvivenza dei «capolavori» su papiro disseminati da Simonidis come falsario. Ben prima di noi la sua figura era stata richiamata in un altro volume dal suggestivo incipit «Attenzione, i falsari sono tutt´ora all´opera»: nel volume posto in circolazione dalla Biblioteca Nazionale di Vienna in occasione del Congresso di Papirologia del 2001.
Le vicende di cui Simonidis fu a lungo protagonista anche dopo la simulata "morte" sono invero molto istruttive. E anche calzanti per il caso Artemidoro: autore al quale Simonidis dedicò molte cure, come sarà ben presto chiaro. Ricorderemo solo una vicenda: lo smascheramento del falso Palefato, paradossografo greco. Anche in questo caso Simonidis prese come base un testo già noto (la prefazione, tanto per cambiare, ed un estratto dalle pagine finali). Anche in questo caso il testo fatto giungere ad uno studioso italiano, bravo ma ingenuo, fu subito preso per buono. Girolamo Vitelli sollevò dubbi. Notò che due congetture moderne si ritrovavano nel papiro. E disse: «Sospetto una fabbricazione di Simonidis». Ciononostante, persino Giorgio Pasquali negò che i dubbi di Vitelli fossero fondati, e volle dirlo in un paio di pagine della Storia della tradizione (1934, invariata nel 1952). Invece Vitelli aveva perfettamente ragione. Sarebbe bastato cercare in un libro di Simonidis (Quattro trattati teologici, Londra 1863) per trovarvi pubblicata una lettera del celebre bibliofilo e collezionista Phillipps, uno dei principali acquirenti dei capolavori di Simonidis, in cui Phillipps rammemora a Simonidis di avergli offerto, tra l´altro, Palefato! Qualcosa di molto simile sarà tra breve documentato a proposito del cosiddetto «papiro di Artemidoro».
Anzi dello pseudo-Artemidoro. Usiamo ormai serenamente questa espressione, confortati proprio da quanto scrive Settis: parti del breve testo - egli ammette - è lecito pensare che non abbiano a che fare con Artemidoro! Egli ricorderà del resto che, in risposta al suo un po´ affrettato saggio pubblicato su la Repubblica il 16 settembre 2006, osservammo, e lo abbiamo replicato molte volte in molte sedi, che il principale problema è che «quel testo non è Artemidoro», bensì un prodotto più tardo, e che però il falsario entra in scena di necessità se ci ostina a dire che supporto, inchiostro e scrittura risalgono al I secolo. Insomma: benvenuto tra i dubbiosi.
Tanto più perciò appare curiosa la sua trovata retorica di accumulare, tra varie imprecisioni, una lista di nomi intesa a dimostrare che il papiro è buono, anche se magari non è più, almeno in parte, Artemidoro. Ma non è male ricordare che il teorema di Pitagora o le diagnosi mediche, matematiche etc. non si decidono a maggioranza e nemmeno invocando l´apporto dei notai e dei ragionieri, a torto malvisti dal Settis.
Curioso è anche che in tale lista appaiono singolari scivolamenti. Per esempio Margarethe Billerbeck, che ha scritto e riscritto il suo pensiero, viene "spostata di campo". Nigel Wilson, una vera autorità nel campo della paleografia e filologia greca, viene declassato a promotore di «qualche dubbio», sebbene abbia parlato chiaramente e autorevolmente di falsario, lasciando aperta la questione se sia Simonidis o altri. Il papirologo di Ann Arbor Richard Janko, che ha portato un contributo originale e del tutto autonomo alla dimostrazione che l´autore è Simonidis, viene declassato a ripetitore delle mie tesi. E si potrebbe continuare. Né par corretto "arruolare" il papirologo Van Minnen tra i fedeli visto che, sempre che si abbia la pazienza e il buon gusto di leggerlo, egli solleva sullo pseudo-Artemidoro pesanti dubbi.
Ma sorprende una serie di silenzi, nell´altalenante intervento del Settis. Viene taciuta la dimostrazione inoppugnabile e mai confutata, addotta da specialisti nel campo del falso fotografico, che la foto esibita in extremis e ben stranamente assente dal Catalogo Tre vite - il famigerato Konvolut, ex «maschera», ex «riempitivo di oggetto sconosciuto» etc. - è un fotomontaggio! Sappiamo quanto sia stato imbarazzante apprendere ciò. Ma la vera domanda è: perché si è sentito il bisogno di «ridursi a tale» per dirla con Leopardi? E perché piroettare intorno a dati fattuali quali la presenza di grafite (cioè di un prodotto post-medievale) nell´inchiostro del papiro? O dimenticare la imbarazzante presenza ad litteram dei primi righi della Geografia di Carl Ritter (1835) nei primi righi dello pseudo-Artemidoro? Insomma non rispondere a quesiti e contestazioni basilari e invece continuare a parlar d´altro non è buon metodo.

“Inciuci”? L’intervistato nell’intervista che segue, Enrico Letta, del Pd, è nipote di Gianni Letta, sottosegretario e vero uomo di fiducia di Silvio Berlusconi...
Corriere della Sera 30.11.09
Il vicesegretario dei democratici: ha ragione Napolitano, un esecutivo resta finché ha la maggioranza. La strada maestra è lo scontro elettorale
«Il Pd eviterà scorciatoie per far cadere il governo»
Letta: non da statista ma legittimo difendersi «dal» processo
intervista di Paola Di Caro

Riforme bipartisan possibili
Condivido il grido di allarme di Sergio Romano e la sua idea che sulle riforme mai le forze politiche sono state così vicine a un’intesa
Sul «Corriere» di ieri Sergio Romano ha ricordato la necessità di una «tregua» politica per fare le riforme. Romano ha anche sottolineato che «il divario tra maggioranza e opposizione si è considerevolmen­te ridotto» su progetti come la riforma dell’esecutivo

ROMA — «Non è credibile la pressio­ne in atto su di noi in queste ore da parte della maggioranza, visto che non hanno nemmeno il sì del numero due del loro partito su una linea condivisa». E dun­que, a oggi, norme ad personam per fare scudo al premier, tanto più se sotto for­ma di un processo breve che «come ha detto Bersani ieri, oltre a essere anti costituzionale avrebbe come unico effetto quello di sfasciare il sistema giudiziario», non possono es­sere sostenute dal Pd.

Ma una volta posti i palet­ti invalicabili che non si pos­sono oltrepassare, Enrico Let­ta, vicesegretario del Pd, fa un’apertura concreta e im­portante al centrodestra sul­le riforme, capitolo giustizia compreso. E aspetta risposte già per dopodomani, quan­do al Senato si discuterà di ri­forme mettendo per la prima volta nella legislatura le carte in tavola. Perché, assi­cura Letta a nome del Pd, non si cerche­ranno più, «come pure è avvenuto» in passato, «scorciatoie» per far cadere il governo e liberarsi di un Berlusconi che non è «l’ingombro» che impedisce al centrosinistra di essere maggioranza del Paese. E perché —, e sono parole signifi­cative visto che arrivano dopo un collo­quio al Quirinale tra Bersani, lo stesso Letta e Napolitano — il Pd non porrà di fatto obiezioni al ricorso al legittimo im­pedimento: «Come ha detto Bersani, con­sideriamo legittimo che, come ogni im­putato, Berlusconi si difenda nel proces­so e dal processo. Certo, legittimo non vuol dire né opportuno, né adeguato al comportamento di uno statista...». Né utilizzerà come arma letale eventuali av­visi al Cavaliere: «Il capo dello Stato ha ricordato che un governo, finché ha i nu­meri e la fiducia della sua maggioranza, governa. Noi ci atteniamo a questo».

Lei condivide quindi l’appello di Ser­gio Romano al «senso di realtà» delle forze politiche per arrivare a riforme che cambino il Paese?

«Il grido di allarme di Romano è con­divisibile, così come la sua osservazione finale: mai forze politiche pur così divise sono state tanto vicine a un’intesa sul merito delle riforme. La sua è un’altra delle voci che, dopo il messaggio del ca­po dello Stato, cerca di sollecitare le parti a riprendere il confronto in Parlamen­to » .

Per confrontarsi però bisogna esse­re in due: cosa offrite a un centrode­stra che si sente assediato e sotto scac­co dei magistrati?

«Alla base del programma dei prossi­mi quattro anni di segreteria, Bersani ha posto un punto chiaro: no alle scorciato­ie, sì a un’opposizione che sia capace di battere Berlusconi seguendo la strada maestra del confronto elettorale. Non sempre si è ragionato in questi termini. Non lo ha fatto Berlusconi, che quando era all’opposizione ha sempre cercato la spallata, anche ricorrendo alla compra­vendita dei parlamentari. Ma troppe vol­te anche il centrosinistra ha cercato scor­ciatoie, anche per via giudiziaria, pensan­do che il solo diaframma tra noi e il go­verno del Paese fosse Berlusconi».

Non è così?

«Proprio no, non basta l’uscita di sce­na di Berlusconi per riportare il Pd al go­verno. Bisogna invece sciogliere i nodi del centrosinistra, superare le nostre con­traddizioni, seminare e poi vincere cultu­ralmente, ancor prima che elettoralmen­te, prendendo atto che la nostra sconfit­ta è stata soprattutto culturale».

Significa che non avete intenzione, come sospetta Cicchitto, di portare il Pdl al tavolo per poi «spennarli come polli » ?

«Qualunque atto noi compiamo, non è per far saltare tavoli o disseminare trap­pole: non servono campi minati, serve far crescere il Pd».

E mercoledì in Parlamento aprirete anche sulla giustizia?

«È anch’essa materia da riformare: sa­rebbe assurdo dire che le istituzioni van­no male mentre la giustizia va bene. Non è così, a partire dalla scarsità di risorse per l’efficienza della macchina giudizia­ria » .

Ma siete o no disponibili a discutere anche di uno scudo per il premier, che sia il Lodo Alfano, il processo breve o altro?

«Partiamo da una domanda: perché siamo in questa condizione? La colpa è nostra, o di chi lo scorso luglio in fretta e furia ha voluto che si approvasse un Lo­do Alfano pasticciato perché l’avvocato Ghedini, massimo esempio di conflitto di interessi, diceva che si doveva chiude­re in un mese, in due settimane, in una... Se continuano così, ancora una volta sfa­sceranno ulteriormente la giustizia e fini­ranno di nuovo in un cul de sac che non porta a niente. E non avranno il nostro consenso, perché non si può immagina­re che noi subiamo il ricatto dell’'o mi date l’immunità subito, o mando avanti il processo breve e salti in aria la giusti­zia'... » .

E Berlusconi dovrebbe starci?

«Quello che Berlusconi dovrebbe fare è cambiare strada, visto che quella im­boccata non lo porta da nessuna parte. Proponendo in Parlamento una riforma nell’interesse dei cittadini e non del pro­prio, si cambia un clima, si possono por­re le condizioni perché l’appello del pre­sidente della Repubblica trovi una con­cretizzazione molto profonda. Berlusco­ni farebbe bene a cogliere questa oppor­tunità » .

E se intanto arrivasse una condan­na?

«Sono 16 anni che si parla di condan­ne, e non sono mai arrivate... Comun­que, l’opposizione si attiene a quanto detto chiaramente dal capo dello Stato: un governo va avanti finché ha i numeri e la fiducia della sua maggioranza. Af­fronteremo con saggezza, giustizia e sen­so delle istituzioni quello che accadrà. Perché abbiamo imparato la lezione: non si sconfigge Berlusconi con le scor­ciatoie » .

Corriere della Sera 30.11.09
Il sit-in del 5 dicembre
«No-B day», crescono le adesioni nel Pd
ROMA — (m. gu.) Settecento pullman da tutta l’Italia e due treni speciali da Milano e Torino. Mancano cinque giorni alla «rivoluzione viola», la protesta nata su Facebook per «mandare a casa» il premier. Oggi pomeriggio a Roma, in largo Goldoni, i ragazzi del «No Berlusconi Day» daranno vita alla «Viol@zione N.1» per accendere i riflettori sul corteo del 5 dicembre. Sulla rete il «NBD» ha raggiunto quota 338 mila fan e i blogger che hanno lanciato la manifestazione sognano di traslocare da piazza del Popolo a San Giovanni. Sul palco non salirà Beppe Grillo. «Per noi è un politico, quindi non parlerà», spiega Giuseppe Grisorio, a nome del comitato promotore. Il Pd ha scelto di non aderire. Ma Bersani ha progressivamente ammorbidito la posizione del partito, lasciando liberi militanti e dirigenti. Il vicepresidente Scalfarotto ha aderito con slancio, così come Marino e Serracchiani. Ci saranno Verini, Melandri e Picierno. E i veltroniani sperano che, impegni permettendo, anche Veltroni decida di farsi vedere.

Corriere della Sera 30.11.09
Razzismi Nel saggio «Negri froci giudei & Co.» Gian Antonio Stella denuncia l’eterna tentazione di sentirsi migliori e perseguitare chi non è «dei nostri»
I barbari della porta accanto
Perché odiamo i diversi, gli stranieri, persino i vicini: la follia di chi esclude
di Claudio Magris

Un male diffuso. Almeno in qualche momento di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno inferiore agli altri

Se tutti fossero come il signor Franz Liebhard, Gian Antonio Stella non avrebbe potuto scrivere il suo libro Ne­gri froci giudei & Co . L’eterna guerra contro l’altro , ma il mondo sarebbe più vivibi­le. Nel 1917, il signor Liebhard si chiamava anco­ra col suo vero nome — posto che ne esista per ognuno di noi uno «vero» — ossia Reiter Ró­bert e scriveva, in ungherese, ardue poesie spe­rimentali su riviste d’avanguardia. Alcuni anni dopo scriveva, firmandosi Robert Reiter — os­sia alla tedesca e non più secondo l’uso magia­ro di anteporre il cognome — liriche in tede­sco, un po’ meno ardite. Dall’inizio degli anni Quaranta, ha cominciato a scrivere — assumen­do il nome di un amico minatore morto in un incidente, Franz Liebhard — tradizionali poe­sie, sempre in tedesco e in rima, che parlano di boschi, fiori e cieli stellati ed è divenuto un poe­ta della minoranza tedesca del Banato, in Ro­mania (dalla quale proviene Hertha Müller, pre­mio Nobel di quest’anno), oggi pressoché scomparsa. Come dice lui stesso, ha imparato «a pensare e a sentire in più popoli».

Chissà come Franz Liebhard, Reiter Róbert e Robert Reiter si sopportavano a vicenda, se vi­vevano bene insieme o se si guardavano in ca­gnesco, come facevano, in quelle terre multiet­niche e multiculturali, ungheresi, tedeschi, ro­meni, serbi e così via, vicini di casa pronti a scannarsi alla prima occasione e convinti, ognu­no, di essere l’unica nazionalità legittima di quei Paesi e in ogni caso la migliore. Ogni grup­po, ricorda Stella nel suo libro — che è un po­tente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni ge­nere — si ritiene superiore a tutti gli altri, che disprezza e respinge.

I barbari, egli ricorda, sono dappertutto e la loro presenza illecita comincia dovunque da­vanti alla porta di casa; per i vecchi di Rialto gli unici veneziani autentici sono loro, che si consi­derano il centro del mondo, mentre già oltre il Ponte de la Libertà che porta in terraferma ci sono «gli altri» e sarebbe meglio che non ci fos­sero. D’altronde pure la Cina si è sempre consi­derata il centro del mondo e non solo i nazisti o i bianchi in genere, ma pure i neri loro vitti­me hanno elaborato teorie e miti di superiorità razziale e culturale; tutto ciò ha portato a vio­lenze inenarrabili sotto ogni cielo e in ogni tem­po, inflitte certo generalmente dai più forti, ma anche dai più deboli quando ne hanno avuta la possibilità. Persecutori e perseguitati sono talo­ra le stesse persone, in momenti diversi e in rapporto a persone diverse; quasi all’inizio del libro Stella pone, con uno di quei caustici colpi d'ala di cui è maestro, la persecuzione feroce subita, da parte degli inglesi, dai boeri, peraltro conosciuti quali feroci segregazionisti e perse­cutori dei neri.

Ogni popolo, ogni cultura, ogni angolo di rio­ne, ogni chiesa si macchiano di queste turpitu­dini, in cui dalla comica stupidità all’efferata crudeltà il passo è talora breve; il diverso, deri­so o anche massacrato, dimostra Stella, non è solo lo straniero ma può esse­re l’abitante della stessa pro­vincia, che parla il medesimo dialetto ma con qualche sfu­matura differente. Stella e Riz­zo hanno scritto un celebre li­bro sulla casta dei politici; ogni gruppo si costituisce co­me una casta, chiusa alle altre.

In un acutissimo saggio José Angel Gonzalez Sainz ha ana­lizzato i meccanismi e i dispo­sitivi con cui si creano nella te­sta delle persone i sentimenti e i modi di perce­pire gli altri, gli estranei.

Lo stupidario del razzismo non basta; rischia di rendere il suo lettore compiaciuto della pro­pria apertura di mente e della propria civiltà ri­spetto alle litanie dell’odio, della paura e della povertà di spirito e di non preoccuparsene trop­po. Resta la domanda, posta dal titolo di un li­bro di Cernyševskij che era caro a Lenin: Che fa­re?

Anzitutto, per fare realmente i conti con que­sto dramma, occorre sapere che nessuno è im­mune da pregiudizi verso l’altro, anche se non lo sa. I razzisti dicono che i neri puzzano e i libe­rali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzza­no. È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di sé, anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari per un attimo, rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momen­to di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente de­gli altri. È questo il peccato mortale che ci insi­dia e tranne qualche rarissimo santo — ma for­se anche lui — ognuno è un peccatore.

Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni razzismo, pro­prio perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi han­no mai detto che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere — di lavorare, divertirsi, volersi bene, litigare, par­lare — creavano un mondo in cui era impensa­bile essere razzisti o portarsi gli spaghetti al ces­so. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono sicuro che, se fossi ripetutamente deruba­to da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi lascerei andare stupidamente a un’indistinta ira verso tutto il suo gruppo. So­lo se mi rendo conto di correre anch’io il ri­schio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo realmente; altrimenti ca­drei anch’io nella loro presunzione di incarna­re la civiltà contro i barbari e ciò vale ovviamente per tutti.

Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti ma­trimoni naufragano e non so­lo quelli fra bianchi e neri. Es­sa esige non solo il nostro ri­spetto dell’altro, del diverso ar­rivato fra noi (chi sono poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti. Se un mio vicino provenisse da una cultura in cui si passa la notte a far baccano, io avrei qualche proble­ma e dovremmo fare entrambi uno sforzo, io di sopportare un po’ di più il chiasso e lui di farne un po’ meno. Ma soprattutto non si può ignorare la possibilità di conflitti reali tra siste­mi di valori inconciliabili, fra i quali è inevitabi­le scegliere con decisione: rispetto a me, al mio sistema di valori, un nazista fautore della Sho­ah è indubbiamente un «diverso», ma in que­sto caso la sua diversità è inaccettabile e devo assumermi la dolorosa responsabilità di com­batterla.

La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé ancora un valore, né la mia né quella dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha — o non ha — nei confron­ti della dignità di tutti gli uomini. Non c'è da vergognarsi ma neppure da inorgoglirsi di esse­re «diversi» (da chi?). Chi è stato ingiustamen­te perseguitato tende inoltre a considerarsi tale anche quando non lo è più, sentendosi gratifi­cato da tale qualifica. Ma in tal modo, osserva Glissant — grande scrittore nero discendente di schiavi — si rimpicciolisce e perde signorili­tà nei rapporti col mondo.

L’uguaglianza, è stato spesso osservato, può essere pericolosa e totalitaria, può implicare il livellamento di tutte le civiltà, cultura e tradizio­ni costrette a uniformarsi a un unico modello, quello della società più forte; nel nostro caso, al modello occidentale. Ma proprio perché con­danniamo le infamie commesse dall’Occidente — le guerre e le persecuzioni religiose, la tratta degli schiavi, il colonialismo, la Shoah perpetra­ta da una delle più grandi nazioni d'Europa — non possiamo abdicare a quei principi univer­sali in base ai quali condanniamo quelle infa­mie. Ad esempio, nessuna cultura altra o diver­sa può farci deflettere dal principio della pari dignità di ogni essere umano a prescindere dal­la sua identità etnica, culturale, sessuale o reli­giosa. Le minoranze, specie quelle nazionali, hanno bisogno di leggi che le tutelino ma sen­za ledere il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini. È sconcertante, ad esempio, che nel Québec, ha ricordato Charles Taylor, la legge 101 sulla scuola vieti sostanzialmente ai franco­foni e agli immigrati di iscrivere i loro figli a scuole di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni.

Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve cercare di evitare il crearsi di situazioni di conflitto che esasperino i pregiudizi, i risentimenti, le paure e le conse­guenti violenze. Domani, ad esempio, il nume­ro di immigrati — ossia di nostri concittadini del mondo giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile — potrebbe divenire così grande da rendere materialmente impossibile l'accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele pregiudizio; se tutti i dannati della terra arrivas­sero in Italia, non sarebbe fisicamente possibi­le accoglierli tutti e sarebbe una tragedia.

Sul nostro futuro — sul futuro dell’umanità — incombe la minaccia di questa tragedia. Nes­suno, credo, è così geniale da sapere come stor­narla. Nel frattempo, un modo di arginare l’eter­na guerra contro l’altro sarebbe quella di consi­derare come «altri» tutti, compresi noi stessi. Potremmo prendere esempio da un’anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio libro, nonna Anka. Questa donna, figlia di quel­la terra multiculturale straziata dall’odio di tutti contro tutti, parlava male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considera­va più sua, la serba. Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di essere anche lei una diversa, un’altra e di meritare alcu­ne di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché siamo tutti dei lazzaroni e in questo riconosci­mento della comune miseria ci può essere più concreta fraternità che nei bei discorsi politica­mente corretti in cui tutti, i diversi e i non diver­si, vengono elogiati come brave persone.

domenica 29 novembre 2009

Terra 29.11.09
Donne
Quale Barbie meriti?
di Joumana Haddad*

Una Barbie col burka?! E viene dall’Italia, quest’invenzione prodigiosa? E perché non creano, già che ci sono, la Barbie oppressa dal padre, umiliata dal fratello e picchiata dal marito? Perché non creano, alla Mattel che si batte oggi con Sotheby’s per Save the children, la Barbie sposata, suo malgrado, a 13 anni a Gaza; o quella che non ha il diritto di guidare una macchina a Riyad; o quella che non ha il permesso di andare a scuola a Kabul, perché le donne “non hanno bisogno di leggere e scrivere”? (ci sono 76 milioni di donne analfabete nel mondo arabo-musulmano). Perché non creano quella che è concepita e tollerata solo per diventare un accessorio: cucinare, obbedire, tacere e concepire, quando è il suo turno, figli preferibilmente maschi? Perché non creano quella lapidata per adulterio (dal marito sposato con altre 3 donne), e quella imprigionata perché ha osato indossare un jean? Sono sicura che queste ultime avrebbero un grandissimo successo. Ci dicono, per rassicurarci, che lo scopo era di rappresentare “le diverse tipologie e culture femminili”. Così hanno messo la nuova Barbie col burka accanto a quella col kimono, quella col tailleur e quella col Sari indiano: le sue “sorelle”. Così facendo hanno banalizzato la carica umiliante del burka e l’hanno trasformato in una scelta di abbigliamento “etnico”, invece della rappresentazione concreta del concetto di donna-oggetto, priva di libertà, di dignità e di diritti umani minimi. Nella mia modesta conoscenza, la donna giapponese e la donna indiana non stanno vivendo le atrocità che vive la donna col burka. Né le accetterebbero, forse. La Barbie ha già fatto tanti danni, promuovendo l’immagine della donna bambola formosa, che passa il suo tempo a preoccuparsi dell’abbigliamento e degli orecchini da abbinarci; e a sognare il muscoloso Ken.
Quella Barbie ha senz’altro qualcosa a che vedere con le caricature di donna che vediamo oggi sulla televisione italiana. E altrove.
Sarà una provocazione ma mi sembra uno dei simboli di questa cultura femminile perdente, basata sull’autodisprezzo, l’auto-indulgenza e la mancanza di ambizione. Con la burka-Barbie la distruzione dell’immagine femminile è completa: dalla donna oggetto da vetrina, alla donna oggetto di sottomissione, il passo è compiuto. Grazie Mattel. Sono sicura che i guadagni commerciali ne valevano la pena. Le ragazze dei paesi del Golfo non aspettavano altro. Anzi no: i loro padri non aspettavano altro.
Questa bambola è un attacco scandaloso e nauseabondo contro la donna. Non ci sono altre parole per descriverlo. E lo sta dicendo una donna araba non femminista. Brava la designer Eliana Lorena: ora l’immagine della donna araba in Italia, e in Occidente, è completamente rovinata.
In quanto a noi, donne arabe che lottiamo per cambiare questi cliché, andremo... a giocare con la Barbie velata che ci meritiamo. Spero solo che nella confezione della Barbie col burka sia compreso un bavaglio. Perché quella donna non tarderà a gridare. E quello che dirà, a molti, non piacerà.
*scrittrice, giornalista e poetessa


Repubblica 29.11.09

Il genio dell´arte che cambiò l´immagine di san Giovanni
di Claudio Strinati

Un volto androgino, un sorriso enigmatico, uno sguardo che è una promessa d´infinito: l´annuncio di Gesù è tutto in quel dito che sbuca dall´ombra e indica la luce e il cielo
Il maestro lo portò con sé in Francia e lo conservò fino alla morte: come la Gioconda il dipinto era legato a Firenze di cui il Santo è il protettore
Il Battista era stato fino ad allora un profeta allucinato come quello di Verrocchio o il martire decollato di Donatello: con l´opera del Louvre prende forma il mistero

Leonardo da Vinci soggiornava in Francia nel palazzo di Cloux (oggi Clos-Lucé) presso il palazzo reale di Amboise come primo pittore, ingegnere e architetto di Francesco I di Francia, che l´amava moltissimo: il re - ce lo racconta Benvenuto Cellini, anch´egli un protetto del monarca - non lasciava passare giorno senza vederlo, per il fascino della conservazione di quell´uomo che sapeva tutto, combinava poco, ma nelle sue stanze conservava preziosi tesori della sua arte. Quando, il 10 ottobre del 1517, ricevette la visita del cardinale d´Aragona, il prelato vide tre quadri descritti dal suo segretario: "uno di certa donna fiorentina facta di naturale ( è forse la Gioconda del Louvre), l´ altro di San Johanne baptista giovane ( il quadro, pure del Louvre ora esposto a Milano ) et uno de la Madonna e del figliolo che stan posti in grembo di Sancta Anna ( altro quadro del Louvre)".
Dunque Leonardo teneva nello studio in Francia quadri concettualmente collegati con Firenze. La Gioconda, infatti, risulterebbe commissionata da Giuliano de´ Medici, la Vergine, Sant´Anna e il Bambino è elaborato a Firenze, il San Giovanni è fiorentino in sè essendo il Battista il protettore della città.
Il San Giovanni, nei secoli, ha avuto prima una certa sfortuna critica per diventare poi un mito supremo dell´immaginario leonardesco. Alcuni esperti si sono addirittura chiesti se il San Giovanni fosse da considerare opera certissima del maestro o opera di collaborazione con gli allievi. Ma con il tempo la qualità sovrana del dipinto ha convinto dell´assoluta autografia e certe caratteristiche hanno proiettato l´opera verso la fama universale come l´evidente androginia del personaggio, il sorriso misterioso, il dito alzato a indicare il cielo, l´ombra morbida dello "sfumato" leonardesco che plasma la figura facendola emergere da una fitta oscurità.
Mauro Di Vito , nel catalogo della mostra di Milano, spiega: "Il dipinto ha le dimensioni di uno specchio e riflette convesso come uno specchio. Per Leonardo lo specchio è il maestro del pittore". Si chiarisce l´impostazione data da Leonardo a questa figura contenente in sé una ancestrale contraddizione. Il Battista è una sorta di ultimo profeta che introduce nel mondo il redentore dell´umanità. Ha chiara cognizione del destino e vede la verità. Dovrà essere tacitato con la morte.
E´ l´immagine dell´enigma. Emerge dall´ombra, simbolo di mistero impenetrabile. Non manifesta un pensiero forte e terribile ma una interrogazione verso chi guarda. Sembra porre la domanda eterna di fronte all´opera d´arte: cosa significa veramente, cosa vuole dire? La figura di San Giovanni, è bene rammentarlo, accompagnò Leonardo fin da bambino, quando il suo maestro Verrocchio dipingeva con gli allievi un Battesimo di Cristo, oggi agli Uffizi. Leonardo vi fece una testa di angelo bellissima e Verrocchio un Battista magro e allucinato e fu quella la prima immagine del San Giovanni che Leonardo conobbe.
Ma prima e durante la vita di Leonardo la figura di San Giovanni appare ripetutamente nell´arte fiorentina e non solo. Donatello, anni prima, aveva scolpito la testa decollata del Battista nella formella del Duomo di Siena rimarcando il senso d´orrore della scena. Poi Leonardo stesso aveva reinventato l´immagine del Battista bambino benedetto dal Redentore appena nato nella Vergine delle Rocce dipinta a Milano in due redazioni ( oggi rispettivamente alla National Gallery di Londra e al Louvre). Anzi la tipologia del San Giovannino fanciullo che gioca con il Redentore ebbe poi immensa fortuna nei quadri fiorentini di Raffaello Sanzio. Piacque anche il San Giovanni giovane vestito solo di una pelle d´animale come lo aveva rappresentato Domenico Veneziano in pieno Quattrocento accentuandone quasi la natura ferina. Masaccio, ai primi del secolo, lo aveva raffigurato in uno sportello del Trittico della Neve a Roma ( oggi a Londra) accanto a San Girolamo, quale uomo crudo e fiero che indica la croce in preda a amara sofferenza, mentre poco dopo il senese Sassetta lo aveva inserito nell´altra pala detta della Madonna della Neve, oggi al Pitti, quale fiero sapiente, avvolto nel mantello antico e recante in mano il cartiglio della scritta "ecce agnus dei", per riporlo poi nella pala del San Francesco glorioso ( già a San Sepolcro e ora in proprietà di Berenson) ruvidamente vestito nel gesto dell´ammonizione e della preveggenza.
Ma il Battista di Leonardo è diverso da tutti: è un giovane che esprime entrambe le Nature, maschile e femminile, che annuncia l´ultraterreno e si rivolge a ciascuno di noi. Ma Leonardo non lo rappresenta nel momento canonico in cui parla alle turbe e spiega l´arrivo imminente del Redentore. Il suo Battista tace e sorride sotto una montagna di capelli che sembrano onde del mare. Eppure il Battista di Leonardo, che ora torna a trovarci in Italia, "parla" ma in modo inatteso. Va detto, allora, come in questo quadro siano contenuti proprio i due grandi temi che hanno interessato l´intera parabola del maestro di Vinci: l´annuncio e la parola. La segreta aspirazione di Leonardo fu e rimase sempre la rappresentazione impossibile del suono nella pittura. Così fece nella sua giovanile Annunciazione oggi agli Uffizi dove la voce dell´angelo fluisce come un soffio dalla bocca socchiusa, così fece nell´Ultima Cena di Milano dove è proprio la "rappresentazione" della voce di Cristo a generare la composizione. Ma il Battista di Leonardo annuncia e non parla, dato che la parola è metaforicamente contenuta nella mano destra che sale verso l´alto come un raggio di luce poggiato sulla tenebra da cui la figura sembra uscire. Lo sguardo pare voler cancellare paure e angosce per immergersi in quella dimensione dell´infinito inteso come "solennissima quiete" di cui secoli dopo, con identico sentimento, ha parlato Giacomo Leopardi in una poesia veramente leonardesca.

Corriere della Sera 29.11.09
L’ex capo dell’antimafia Vigna coordinò l’inchiesta sugli attentati
«Sulla mafia smentite doverose anche se i nomi ci sono non lo si dice»
intervista di Dino Martirano

ROMA — Se c’è di mezzo un reato di mafia «l’indagato non può sapere di essere indagato per tutelare la segretezza delle indagini...». E’ la logica del «doppio binario», ricorda l’ex procuratore nazionale antima­fia Piero Luigi Vigna — nel ’93, l’anno degli attentati mafiosi di Roma, Firenze, e Milano era capo della Procura fiorentina — che coordinò anche l’inchie­sta sui «mandanti occulti» (poi archiviata nel ’98) criptati all’epoca con i nomi «AutoreU­no » (Silvio Berlusconi) e «Au­toreDue » (Marcello Dell’Utri). Allora, Vigna ebbe due collo­qui investigativi con il futuro collaboratore Gaspare Spatuz­za: «Era turbato, non ci disse nulla di rilevante. Tuttavia, ora, non sono stupito della ria­pertura di un’inchiesta così de­licata. E’ già successo».
Quando si arriva criptare i nomi degli indagati si segue una procedura tecnicamen­te corretta?
«Guardi, io ho dei dubbi an­che se l’ho fatto. Noi, d’accor­do con il povero Chelazzi, fa­cemmo un provvedimento a parte nel quale scrivevamo che 'AutoreUno' era tizio e 'AutoreDue' era caio. E lo met­temmo in cassaforte. Tante pre­cauzioni perché eravamo nel pe­riodo in cui il presidente scen­deva per la prima volta in politi­ca e a quell’epoca i riferimenti su di lui erano molto sfumati, per sentito dire. Ecco, sembrò opportuno che le questioni di ri­servatezza prevalessero sulla pubblicità. Anche perché pub­blicità non c’è in questo tipo di indagini sulla mafia».
Il presunto indagato, dun­que, è inutile che chieda qual è la sua posizione.
«Quando chiede se è inda­gato deve ricevere una rispo­sta in ogni caso negativa se si tratta di reati di mafia. E’ stabi­lito dal Codice di procedura penale. E’ l’applicazione del cosiddetto 'doppio binario'. Se io, per esempio, sono inda­gato per truffa e faccio un’istanza alla Procura per sa­pere se sono indagato, mi de­vono rispondere dicendomi come stanno le cose. Per i rea­ti di mafia, invece, la legge pre­vede che la risposta sia co­munque negativa per mante­nere la riservatezza sulle inda­gini. Vale anche per la proro­ga delle indagini che non vie­ne notificata all’indagato».
Questo vuol dire che il pro­curatore di Firenze non pote­va che dire: «Berlusconi e Del­l’Utri non sono indagati».
«E vorrei vedere. Deve dire questo, certo».
Quando a Firenze fu archi­viata la posizione di «Auto­reUno » e «AutoreDue», la procedura fu la stessa?
«Non fu inviato alcun avvi­so di garanzia. L’indagine fu archiviata al termine del perio­do previsto per le indagini per­ché non erano emersi elemen­ti che suffragassero certe ipo­tesi. Addirittura quell’archivia­zione venne fuori solo perché la Procura di Caltanissetta, ar­chiviando anche lei, disse che Firenze già aveva preso que­sta decisione».
Si è stupito quando i pm Ni­colosi e Crini, gli stessi della richiesta di archiviazione, hanno ottenuto la riapertura delle indagini?
«A prescindere da questo caso, penso che ci siano pro­cessi così complessi per i qua­li non bisogna mai escludere la sopravvenienza di nuovi ele­menti. Salvo poi valutarne l’at­tendibilità. All’epoca per que­sto processo particolarmente avviluppato noi chiedemmo alla commissione Antimafia di rispondere alle istanze del­la famiglie delle vittime: 'Noi siamo arrivati fin qui, il Parla­mento vuole fare una commis­sione d’inchiesta?' Non ci ri­sposero mai».
Le rivelazioni di Spatuzza sono datate 2009. In qualche modo se ne poteva intuire fa la portata 10 anni fa?
«Noi, nel 1999 o nel 2000, fa­cemmo due colloqui investiga­tivi con Spatuzza quando io ero alla Procura nazionale. Il primo lo feci io e lui non disse nulla di rilevante, anche se ap­pariva assai tormentato. Così, dopo diversi mesi volli tornare con Gabriele Chelazzi e anche allora Spatuzza non ci disse nulla di particolare sebbene emergesse chiaramente il suo tormento».
Un tormento spirituale?
«Lo vedemmo tormentato. Accettava i nostri stimoli a col­laborare: tutto era verbalizza­to, gli atti furono inviati alle Procure interessate».
Spatuzza ora ricorda parti­colari che, se veri, non sono proprio irrilevanti. Come se lo spiega, dottor Vigna?
«A volte succede, è succes­so anche in altri casi. Io mi aspetto sempre che emerga qualcosa di nuovo in questo ti­po di inchieste. Dopodiché è ovvio che la novità va riscon­trata, verificata».

Corriere della Sera 29.11.09
Roma Attese in 150 mila, ma piazza San Giovanni era semideserta
Corteo anti-violenza senza onda rosa «Mancano le liceali»
Gli slogan: basta con i soprusi degli uomini
di Fabrizio Caccia

ROMA — Loro alla fine han­no detto: «Eravamo cinquanta­mila ». Ma più per darsi corag­gio. Non era mica vero: piazza San Giovanni, ieri pomeriggio, appariva semideserta. La stessa Silvana Fantino della Casa del­le Donne, trincea storica del femminismo romano, termina­to il corteo non ha nascosto la delusione: «Coi tempi che cor­rono, tempi violenti e bui, non si capisce perché tante donne siano rimaste a casa. Specie le ragazze, le liceali. Non sono ve­nute, questa è la verità. Eppure era una manifestazione nazio­nale, Serena Dandini aveva pu­re mandato gli spot alla radio... Due anni fa, sempre a Roma, eravamo 150 mila: non so che è successo, forse non c’è più l’educazione ad andare in piaz­za, ora tutto passa sul web... ». Giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne: manifestazione apartitica, nata appunto su internet (www.tor­niamoinpiazza. it). Doveva esse­re un’onda rosa (dal colore dei maglioni e delle gonne scelte per l’occasione) tracimante da piazza della Repubblica fino a San Giovanni: femministe, le­sbiche, collettivi, donne della Cgil, Amnesty International, fi­nanco gli uomini dell’associa­zione «Maschileplurale» a dare sostegno. In tutto, però, secon­do la polizia, hanno sfilato ap­pena 1.500 persone, malgrado in Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, nella sua vita ab­bia subìto violenza da parte di un uomo e tre milioni di donne siano state oggetto di aggres­sioni durante una relazione o dopo averla troncata.
Caterina, Paola, Leila, una deci­na in tutto, anche loro hanno vo­luto aderire. Trans in piazza per Brenda, proprio nel giorno del suo 32˚ compleanno. Purtroppo, però, non c’è niente da festeggia­re perché Brenda dal 20 novem­bre è all’obitorio. Morte sospetta, capitolo oscuro del caso-Marraz­zo. Alla fine Leila Dayanis, presi­dente dell’associazione Libellula, come Silvana Fantino pronuncia parole amare: «Mi aspettavo dav­vero più trans a sfilare, in questi giorni dopo la morte di Brenda ho visto tanti parlare in televisio­ne, ma dove sono adesso China, Natalì, perché non sono qui insie­me a noi?». Otto donne su 10 mal­menate, ustionate o minacciate con armi in casa propria. A otte­nere con la forza rapporti sessua­li, il 70 per cento delle volte, è il partner. Cartelli al cielo: «Basta!», «No al femminicidio», «L’unica si­curezza: lo stupratore sul para­brezza », slogan anche contro le li­mitazioni alla pillola Ru486 («Ru-voluzione, sul nostro corpo decidiamo noi»). Quando il cor­teo arriva a destinazione, a San Giovanni, un gruppo nota due modelle in lingerie e autoreggen­ti davanti alle vetrine della Coin. Proprio all'ingresso del grande magazzino le due ragazze invita­no i clienti ad acquistare prodotti di biancheria intima. Così scatta la contestazione: «Siamo dee, sia­mo regine, poverine le veline!!!», le femministe mostrano un cartel­lo alle due fanciulle seminude. E poi un altro: «Attente mamme, il modello delle Barbie fa male alle bambine». Alle modelle non re­sta che riparare nel negozio.

Corriere della Sera 29.11.09
Lo scienziato raccontato da Piergiorgio Odifreddi
L’impossibile impresa di Galileo: scienza e fede sotto il segno della libertà
di Giulio Giorello

Il cielo è un libro in cui da millenni gli esseri umani leggono i segreti della natura (come ci ricorda Piergiorgio Odifreddi nella sua ultima fatica) ma non poche delle sue pagine risultano piuttosto ambigue. La vi­cenda di Galileo, come la ricostruisce il nostro «matematico impertinente», è la storia di una doppia impresa: rendere sempre più plausibile il copernicanesimo eliminando non poche obie­zioni, e fornire una «dimostrazione» della sua «verità».
Col primo bersaglio Galileo ha davvero vinto. A partire dal 1609, grazie al suo «tubo ottico» o «cannocchiale», aveva mostrato con successo che la Luna era... un’altra Terra; nel 1610, con la scoperta di quattro «lune» di Giove aveva vanifi­cato l’obiezione che, nello schema copernicano, la Terra fosse l’unico pianeta dotato di un satelli­te; nel 1611 aveva riscontrato le fasi di Venere, una conseguenza del sistema copernicano che nessuno era stato prima in grado di osservare (ma solo per la «debolezza» dell’occhio umano). Tutti punti di forza della nuova cosmologia, che declassava la Terra da centro dell’Universo a pia­neta minore del Sistema solare (uno dei tanti «mondi» che popolavano «lo spazio immenso», almeno se aveva avuto ragione «l’eretico ostina­to e impenitente» Giordano Bruno).
Ma come aveva obiettato a Galileo il «colle­ga » Keplero, anche lui copernicano convinto, queste non erano ancora prove definitive per la correttezza della nuova concezione del cosmo. Ma le evidenze della rivoluzione della Terra (Bra­dley, 1728) e della sua rotazione (Foucault, 1851) dovevano cominciare ad affiorare più di un seco­lo dopo! A suo tempo il cardinal Bellarmino ave­va ingiunto all’audace astronomo di fornire ga­ranzie dei moti terrestri, prima di turbare le co­scienze dei credenti, abituati dalla lettura della Bibbia a una Terra immobile. Galileo aveva pen­sato di rispondere col «flusso e riflusso del ma­re »: come l’acqua di un catino posto in una bar­ca, «che se ne viene con mediocre velocità per la Laguna», all’inizio del moto «resta indietro» e alla fine «si alza», così per la combinazione della rotazione e della rivoluzione terrestre si abbassa­no e si alzano le acque contenute nel «catino» del Mediterraneo.
Ma questo argomento delle maree non regge, come constatava lo stesso Maffeo Barberini, ov­vero papa Urbano VIII, un tipo non digiuno di scienza. Odifreddi insiste sulle «lacrime di coc­codrillo » versate oggi dalla Chiesa cattolica a proposito della condanna del 1633. Per lui, la mo­rale della storia resta quella della battuta di Oscar Wilde: chi dice la verità, prima o poi vie­ne... scoperto. A nostro avviso, però, non è tanto questione di scienza e fede o di assolutezza della «verità» scientifica, quanto di diritto (politico) all’errore anche da parte di grandissimi scienzia­ti. Togliete la possibilità di commettere sbagli (e magari di spacciarli per cogenti dimostrazioni) e non avrete più libertà di ricerca. 

PIERGIORGIO ODIFREDDI , Hai vinto, Galileo! MONDADORI PP. 134, € 17,50

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Neurologia Scoperta di uno studio con tecniche d’imaging su 26 criminali
Quanto pesa l’onestà? 200 grammi (di cervello)
E l’«intelligenza morale» funziona meglio nelle donne
di Cesare Peccarisi

Un rischio da scongiurare: che le anomalie cerebrali possano diventare un marchio di infamia
Aree coinvolte In chi commette reati gravi sarebbero meno sviluppate le aree cerebrali del controllo degli impulsi

Cesare Lombroso, il medi­co torinese fondatore della moderna criminologia, elabo­rò nell'800 il concetto di 'paz­zia epilettica' che, secondo i suoi studi, costituiva il deno­minatore comune della perso­nalità criminale. Le sue teo­rie, poi sconfessate dai pro­gressi della medicina, hanno ricevuto il colpo di grazia al­l’ultimo congresso Società ita­liana di neurologia, appena concluso a Padova. Qui è in­fatti arrivata la definitiva pro­va anatomica degli errori di Lombroso: la sua unica intui­zione corretta è stata l'aver as­sociato la tendenza criminale a un substrato cerebrale, che però con l'epilessia non ha nulla a che vedere.
Uno studio, presentato da Giovanni Frisoni del Fatebe­nefratelli di Brescia, ha valuta­to, insieme a neurologi italia­ni, finlandesi e americani, 26 detenuti con gravi problemi di giustizia: in quelli con trat­ti antisociali di tipo psicopati­co (personalità rintracciabile nel 20% circa di chi è in carce­re e caratterizzata da scarsa empatia interpersonale, amo­ralità con ridotto senso di col­pa e di rimorso, impulsività e incapacità di regolare il pro­prio comportamento secondo gli standard sociali) la riso­nanza magnetica tridimensio­nale ad alta risoluzione ha evi­denziato insolite caratteristi­che strutturali della corteccia cerebrale, assenti invece nei 25 soggetti normali di control­lo.
Risultano interessate le aree coinvolte nel controllo degli impulsi (polo temporale destro, paraippocampo, cin­golo e corteccia orbito-fronta­le) che, meno sviluppate del 15 per cento, privano queste persone di quasi due etti di materia grigia.
«In questi soggetti sarebbe­ro ipoattive sia le strutture che elaborano le emozioni — dice Frisoni, dal 2008 nel co­mitato per le tecniche di neu­roimaging delle Società di neurologia italiana ed euro­pea — sia quelle delle cortec­ce frontali che garantiscono l'inibizione dei comportamen­ti istintivi».
La scoperta espone al ri­schio che queste anomalie possano diventare un mar­chio di infamia. Ma può acca­dere anche il contrario, vista la recentissima prima perizia nella storia della medicina fo­rense che — come anche que­sto giornale ha riferito —, con dati di neuroimaging fun­zionale e genetica molecolare, ha indotto la Corte d'Assise di Trieste a ridurre la pena a un omicida. «Quella perizia — ri­corda Giuseppe Sartori, do­cente di neuroscienze cogniti­ve all’Università di Padova (che ne è autore con Piero Pie­trini dell'Università di Pisa) non ha giustificato determini­sticamente il comportamento deviante, ma ha detto che si può avere un cervello 'senza sicura', ovvero con predispo­sizione genetica, e col 'colpo in canna', ovvero con altera­zioni cerebrali conseguenti. Se però non arriva un dito a premere il grilletto (particola­ri eventi della vita) la psicopa­tologia non si manifesta».
E non c'è nemmeno biso­gno di prendere casi estremi per rendersi conto di quanto sia diverso il modo di reagire di ognuno di noi. Un altro stu­dio su 50 uomini e 50 donne pubblicato sulla rivista Cogni­tive Processing da Alberto Priori, direttore del Centro per la Neurostimolazione del­la Fondazione Policlinico-Uni­versità di Milano, suggerisce estrema cautela, perché an­che nelle normali persone 'a piede libero' la moralità è un concetto assai variabile già so­lo fra i due sessi: è un po’ co­me se il cervello degli uomini fosse predisposto a comporta­menti morali meno etici. Ba­sterebbero le lievi differenze 'normali' fra cervello maschi­le e femminile (in media 150 grammi di materia grigia in più nella testa degli uomini) a indurre giudizi etici assai dif­ferenti, con risposte diverse di fronte a dilemmi morali ap­positamente studiati.
Risposte che possono cam­biare addirittura nella stessa persona. Lo studio è infatti an­dato anche oltre, dimostran­do quanto basti poco a muta­re i nostri comportamenti eti­ci. Dopo la stimolazione tran­scranica dell'area frontale in­feriore, una procedura non in­vasiva basata sull’invio di mi­croimpulsi elettrici dall'ester­no del cranio, i giudizi morali subiscono infatti un radicale cambiamento e, ancora una volta, in maniera diversa fra maschi e femmine. Per quan­to si tratti di dati preliminari, presentati al Congresso di Neuroscienze svoltosi il mese scorso a Milano, ciò indiche­rebbe che, senza chiamare in causa variazioni genetiche pa­tologiche, anche in chi non è un tipo da galera l'organizza­zione anatomo-funzionale del 'cervello morale' è diver­sa fra i due sessi, un risultato che rispecchia la diversa fre­quenza di criminali fra donne e uomini: ecco insomma, per­ché ci sono sempre stati più Clyde e meno Bonnie.

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Davvero l’uomo è più cattivo?

Per evidenziare le differenze fra 'cervello morale' maschile e femminile, Priori ha usato il test con cui il ricercatore americano Jeffrey Green della Virginia University ha scoperto che il giudizio morale attiva il sistema affettivo, mentre il sistema cognitivo è legato soprattutto a conflitti interpersonali: una decisione che può ledere il prossimo a nostro vantaggio avvia forti conflitti emotivi soprattutto nei maschi, che tendono a scelte utilitaristiche.
Ecco due delle domande che più hanno evidenziato le differenze fra i due sessi.
Provate anche voi.
IL VACCINO Un'epidemia virale si è diffusa uccidendo milioni di persone. Hai creato 2 sostanze nel tuo laboratorio. Sai che una è un vaccino, l'altra è mortale, ma non sai qual è delle due. Ci sono con te 2 persone, il solo modo per identificare il vaccino è di iniettare in ogni persona una delle 2 sostanze. Uccideresti una di queste persone per identificare il vaccino che salverà milioni di persone?
LA SCIALUPPA Sei su una nave da crociera, scoppia un incendio e la nave deve essere abbandonata. Le scialuppe di salvataggio stanno trasportando molte più persone di quelle che potrebbero. La scialuppa su cui ti trovi è pericolosamente a filo dell'acqua; le onde sono alte; se non si fa nulla affonderà e tutte le persone a bordo moriranno. Tuttavia, c'è una persona ferita che non sopravviverà in ogni caso. Se la getti fuori bordo, la scialuppa rimarrà a galla. Getteresti questa persona fuori bordo per salvare le vite degli altri passeggeri?

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Sessualità Una ricerca e un libro sui legami scientificamente provati tra vino rosso e eros femminile
Un solo brindisi fa bene all’amore
L’effetto non è disinibente, ma assomiglia a quello degli estrogeni
di Roberta Villa

Perché il rapporto tra Bacco e Venere funzioni, la parola d'ordine è: moderazione. La conferma scientifica del miti­co legame tra il vino e la ses­sualità vale, infatti, solo per un uso contenuto e regolare di vino rosso. Niente baccana­li, quindi.
«L'associazione ha radici lontane, nel sanscrito 'vena', amare, da cui deriva, oltre che Venere, anche la parola 'vi­no' » ricorda Nicola Mondai­ni, urologo e andrologo del­l’ospedale Santa Maria Annun­ziata di Ponte a Niccheri (nel Chianti fiorentino), tra gli au­tori del libro «Vino ed eros», in uscita in questi giorni (Giunti Demetra edizioni) —. Ma aspetti culturali a parte, og­gi ci sono sull’argomento pre­cisi dati scientifici». Dati che andrologi, ginecologi e altri specialisti analizzano anche nel volume citato e che, a pro­posito dei rischi legati all'abu­so di alcol, parlano chiaro: non sono in discussione.
«A noi interessava piutto­sto l'effetto sulla vita sessuale di una quantità di vino rosso come quella contemplata nel­la dieta mediterranea, che per le donne non supera un bic­chiere, un bicchiere e mezzo al giorno. E proprio l’effetto sulla sessualità delle donne, perché il nostro è uno dei po­chi centri che si occupa delle difficoltà femminili, molto meno note di quelle maschili» precisa Mondaini, che ha coor­dinato una ricerca su un mi­gliaio di donne (della zona del Chianti fiorentino), di età compresa tra i 18 e i 50 anni. «Tutte sono state valutate con l'unico strumento considera­to affidabile dal punto di vista scientifico in questo campo — spiega il medico —. Si trat­ta di un questionario, il Fema­le Sexual Function Index, co­stituito da 19 domande che esplorano sei diversi aspetti della vita sessuale femminile: dall'interesse, al desiderio ve­ro e proprio; dalla lubrificazio­ne degli organi genitali, al rag­giungimento dell'orgasmo; dal grado di soddisfazione ot­tenuto, all’eventuale dolore durante il rapporto». Hanno ri­sposto in maniera completa 800 partecipanti, di cui si so­no raccolti anche i dati relativi a peso, altezza e abitudini ali­mentari, con particolare riferi­mento al consumo di alcolici.
Si sono così distinti tre gruppi: le astemie; le donne che bevono regolarmente non più di un bicchiere, un bicchie­re e mezzo di vino rosso ai pa­sti; quelle che ne consumano molto di più, o che fanno uso di altre bevande alcoliche, o ancora che bevono solo in de­terminate occasioni, per esem­pio durante i fine settimana.
I risultati, pubblicati sul Journal of Sexual Medicine, hanno evidenziato che al con­sumo moderato, ma costante, ha corrisposto un punteggio complessivo maggiore nel questionario (soprattutto in relazione al desiderio e alla lu­brificazione delle mucose).
«Il nostro studio, di tipo epi­demiologico, non entra nel merito dei meccanismi d'azio­ne — puntualizza l'esperto —. Tuttavia, suggerisce che l'effet­to del vino non dipenda tanto dall'azione disinibente dell'al­col, quanto da quella di tipo estrogeno di alcuni polifenoli, contenuti a centinaia nel vino rosso. Ecco perché quando i li­velli ormonali scendono (co­me accade in menopausa), un bicchiere di vino al giorno mi­gliora il trofismo dei tessuti». Un beneficio, che, secondo un recente studio condotto in Au­stralia, può riguardare anche gli uomini.

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Il questionario
Il Female Sexual Function Index indaga su sei aspetti della sessualità
Ecco i risultati della ricerca su vino e vita sessuale della donna.

Bevitrici moderate, sesso felice Chi beve 1 bicchiere al giorno di vino rosso, ha riportato il miglior punteggio (27,3) nella scala (0-36) del Female Sexual Function Index.
Bevitrici 'irregolari', sesso quanto basta Chi beve maggiori o minori quantità di vino rosso, o beve birra e liquori, o beve (anche molto) occasionalmente ha avuto un punteggio intermedio (25,9).
Astemie, sesso così così Chi non tocca alcol, ha totalizzato il minor punteggio (24,4). Ma attenzione: non vuol dire che debba iniziare a bere

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Per lei nuova pillola del desiderio
di r. v.

Il sesso non dipende solo dagli ormoni e, soprattutto nelle donne, spesso parte dalla testa. Forse anche per questo i ricercatori a caccia di un rimedio farmacologico contro la caduta del desiderio hanno spostato la loro attenzione dal sistema endocrino ai centri nervosi che regolano la voglia di fare l'amore.
La molecola ora in sperimentazione, la flibanserina, è stata definita 'Viagra femminile', ma non interviene in realtà né sui meccanismi del rapporto come il sildenafil (il Viagra, appunto), né interferisce con i delicati equilibri ormonali come fa il cerotto al testosterone.
E mentre il cerotto può essere utilizzato solo da donne alle quali l'asportazione chirurgica di utero e ovaie ha sottratto le fonti di produzione dell'ormone maschile, e può avere effetti collaterali anche pesanti, la sostanza sperimentata finora su oltre 2000 donne non ancora in menopausa sembra essere più sicura anche nelle più giovani.

Corriere della Sera Salute 29.11.09
Maternità Indagine di confronto sui comportamenti delle mamme di diverse etnie che vivono nel nostro Paese
Le italiane allattano alla «cinese»
Come le orientali, interrompono presto. Più tradizionali le musulmane
di Maurizio Tucci

La lingua e le famiglie rendono problematico il rapporto del pediatra con le mamme straniere

Tra le mamme che vivono in Italia, quelle che provengo­no dal centro e Sud Africa e quelle musulmane allattano più a lungo (secondo le pre­scrizioni del Corano si dovreb­be allattare per due anni n.d.r.). Le donne orientali, quelle dell’Est Europa e le ita­liane d’origine sono, invece, quelle che interrompono pri­ma l’allattamento. E’ quanto ri­sulta da un’indagine, presenta­ta al Congresso nazionale del­la Sip, Società italiana di pedia­tria e realizzata, per conto del­la Sip, dall’Istituto di ricerca ISPO di Milano, sul confronto tra abitudini, atteggiamenti e pratiche relative all’allatta­mento al seno delle mamme straniere che vivono in Italia e delle mamme italiane.
Dall’indagine, effettuata su un campione nazionale di 700 pediatri, è risultato che la mag­gior parte delle mamme stra­niere in cura dai pediatri pro­viene dai Paesi dell’Est euro­peo (39%) e dai Paesi arabi e magrebini (38%). Seguono, a distanza, le mamme orientali (12%), quelle sudamericane (4%) e quelle dell’Africa cen­trale e del Sud (4%). Un rap­porto che non coincide con l’effettiva consistenza delle co­munità straniere presenti in Italia.
Diversi i dati relativi alla du­rata dell’allattamento ma di­versi anche quelli su abitudini e atteggiamenti ad esso colle­gati. Le italiane sono di gran lunga quelle che chiedono più frequentemente aiuto al pedia­tra di base per problemi e diffi­coltà legati all’allattamento, mentre tutte le donne stranie­re sembrano decisamente po­co propense a farlo. E sono le orientali e le italiane le mam­me indicate dalla maggioran­za dei pediatri (rispettivamen­te dal 36% e dal 25%) come quelle che più interrompono l’allattamento senza chiedere consiglio al pediatra e scelgo­no da sole (rispettivamente 31% e 33%) il latte formulato da dare al loro bambino. Le mamme italiane sono anche le più propense a considerare di pari qualità i latti formulati venduti nei supermercati, ri­spetto a quelli venduti delle farmacia.
La ripresa del lavoro come causa di interruzione dell’allat­tamento al seno riguarda, se­condo i pediatri, prevalente­mente le mamme italiane (an­che se in una precedente inda­gine le italiane non indicava­no il lavoro come causa princi­pale dell’interruzione) e quel­le orientali, mentre sono le musulmane quelle per le quali la ripresa lavorativa incide me­no, anche perché sono molte quelle che non lavorano.
Ma quali sono le cause che rendono maggiormente pro­blematico il rapporto tra i pe­diatri e le mamme straniere? Secondo l’83% degli intervista­ti sono gli impegni lavorativi delle donne, specie per quan­to riguarda le orientali e le mamme dell’Est europeo. Le difficoltà relazionali invece ri­guardano, soprattutto, quelle musulmane e del Nord Africa: la lingua è considerata un ostacolo dal 73% dei pediatri, mentre per il 65% a creare pro­blemi (specie per le donne mu­sulmane) è la composizione del nucleo familiare. «Ruolo fondamentale, nel sostegno al­le mamme straniere per la pro­mozione dell’allattamento al seno, — afferma Mauro Zaffa­roni, coordinatore del Gruppo di studio della SIP sul bambi­no immigrato — è quello gio­cato del mediatore culturale, che oltre a fare da traduttore, è in grado di rassicurare la mamma straniera perché vie­ne percepito come una perso­na vicina alle sue tradizioni culturali e, quindi, in grado di comprenderla».
Da un confronto generale dei dati dell’indagine — nono­stante la distanza culturale — si registrano dunque dei com­portamenti abbastanza simili tra le mamme italiane e quelle orientali, ma che, per certi aspetti derivano, come affer­ma Carla Navone, Segretario Nazionale della SIP e coordina­trice dell’indagine, da situazio­ni drasticamente differenti. «La maggiore autonomia rela­tivamente allo svezzamento e alla scelta del latte sostitutivo — spiega la Navone — per le orientali deriva essenzialmen­te dalla scarsa frequentazione col pediatra, mentre per le mamme italiane nasce para­dossalmente dal loro maggior livello di informazione, che le rende più sicure nel prendere una decisione autonoma».

sabato 28 novembre 2009

l’Unità 28.11.09
Il ministro chiede all’Aifa di riscrivere la delibera. «In ospedale fino ad aborto avvenuto»
Forzata la194. LiviaTurco: «Una prevaricazione. La degenza potrebbe durare 7 giorni»
RU486, la trappola di Sacconi: «Si, ma ricovero coatto»
di Jolanda Bufalini

Anna Finocchiaro
Il Governo di fatto vuole arrivare ad una modifica della legge 194
Ignazio Marino
Le decisioni sulle terapie non possono essere prese dai politici

Il ministro del Welfare detta le regole all’Agenzia del farmaco. E chiede di ripensare la delibera di luglio. Ma non può farlo sulla base della legge 194 e quindi esercita la sua pressione politica con una lettera.

Il ministro Sacconi, di cui non sono note le competenze mediche, infatti ha studiato giurisprudenza ed economia del lavoro, ha ieri dettato, con una lettera all’Aifa, l’agenzia del farmaco le modalità d’uso della pillola abortiva, la Ru 486, in Italia: «Tutto deve avvenire in regime di ricovero ordinario». In più: «occorre una specifica sorveglianza da parte del personale sanitario», inoltre: «l’Agenzia del farmaco valuti se sia necessario riconsiderare la delibera adottata al fine di garantire modalità certe di somministrazione del farmaco onde evitare ogni possibile contrasto con la legge n.194 del 1978».
A parte la «specifica sorveglianza», che richiama, per chi dovesse scegliere l’interruzione farmacologica della gravidanza, una terminologia da carcere duro, la novità principale che il ministro vorrebbe vedere introdotta è quella del «ricovero ordinario fino all’accertamento dell’avvenuta espulsione dell’embrione». Una differenza sostanziale da ciò che aveva deliberato il CdA dell’Aifa il 31 luglio scorso, per il quale «deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art. 8 della Legge n.194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza». Differenze sostanziali per ragioni normative e per ragioni tecniche: 1)la legge 194 non stabilisce i tempi del ricovero ma parla esclusivamente di «eventualità» del ricovero. 2)l’aborto farmacologico prevede due momenti, con la somministrazione di due diversi farmaci, con il mifegyne, spiega Gabriella Pacini dell’associazione “Vita di donna”, si interrompe la gravidanza, con la prostaglandina somministrata dopo due giorni si ha l’espulsione dei tessuti embrionali.
BOICOTTAGGIO
Sono cose, secondo l’ex ministro della Sanità Livia Turco «vergognose e di una gravità inaudita». Dettate non dal fine di «tutelare la salute della donna ma di boicottare la Ru486, di coartare la coscienza dei medici, di imporre loro una decisione politica». Perché è chiaro che non c’è struttura sanitaria che possa sopportare il peso di ricoveri che possono
prolungarsi per molti giorni, né ci sarebbero donne disponibili ad accettare la costrizione di essere rinchiuse in una stanza d’ospedale, a letto senza necessità. Almeno, si indigna Livia Turco, che è un fiume in piena di fronte a quella che considera una prevaricazione per la quale non c’è altra definizione che «ricovero coatto» «dovrebbero avere il coraggio di dire che non vogliono la pillola abortiva, che non la vogliono perché il vaticano è contrario. Ma, per favore, non invochino la 194 e la salute delle donne, perché non c’è nemmeno un argomento tecnico a sostegno di quelle posizioni». Invece c’è «una misoginia profonda. Una sfiducia nelle donne». Secondo il sottosegretario Eugenia Roccella se l’aborto è più facile, le donne lo fanno a cuor leggero? «Ma figuriamoci!»
Da ministro Livia Turco ha avviato la procedura di commercializzazione del farmaco in uso da venti anni nella Unione europea ma «non mi sono mai permessa di dire che è preferibile all’intervento chirurgico, perché non è compito del ministro dire quello che va lasciato alla scienza e coscienza dei medici e alla scelta delle donne».
A chiusura della lettera all’Aifa il ministro chiede di valutare se non sia il caso di rivedere la delibera adottata a luglio. Su che base? Per valutarne la compatibilità con la 194. Ma la delibera di luglio cita espressamente la legge del 1978. «E infatti è perfetta», chiosa Livia Turco, la quale si chiede anche perché quella delibera non sia stata pubblicata, come sarebbe già dovuto avvenire, sulla Gazzetta ufficiale.
Argomenta il ministro che secondo la commissione di indagine conoscitiva del Senato «la procedura sin qui seguita dall’Aifa nopn ha previsto la verifica della compatibilità con la legislazione vigente».
Il problema è, però, spiega Donatella Poretti, senatrice radicale-Pd, che il parere della commissione non è vincolante. E infatti il ministro non ha potuto far altro che una lettera. Ma, aggiunge la parlamentare, «una così plateale e spudorata pressione politica verso un organo indipendente non si era mai vista». A rigore, quindi, l’Aifa dice Livia Turco «che sin qui si è comportata con grande correttezza, dovrebbe tenere il punto».
«Non è successo nulla chiosa Donatella Poretta non c’è un evento scientifico nuovo, non c’è una nuova legge, l’Aifa può andare avanti». A meno che il governo non miri a piegarli «sulla base del codice Roccella», oppure alle dimissioni dell’intero CdA dell’agenzia del farmaco.❖

l’Unità 28.11.09
La scelta meno cattiva
di Umberto Veronesi

Molti di noi scienziati ritengono che la vita inizia con l’abbozzo del pensiero infatti il termine si calcola con la morte celebrale.
Lo stesso vale per l’inizio della vita, quindi noi non possiamo sapere quando il pensiero è nell’embrione ma sappiamo quando nascono le prime strutture nervose, intorno al 15 ̊ giorno circa ..quindi fino a quel momento matematicamente non c’è possibilità di vita celebrale. Per molto tempo il pensiero di considerare l’embrione solo dopo 1a quindicesima giornata è stato molto diffuso, è stato accettato anche dalla chiesa una quindicina d’anni fa, poi c’è stato un rivolgimento teologico. Ma non lo discuto.
L’aborto non l’amiamo ma pensiamo che il proibizionismo sia peggio, perché porta le donne a farlo clandestinamente. Quindi l’aborto è un male minore quando c’è una situazione di evidente danno, ormai accettato filosoficamente, come una decisione intelligente di fronte a due scelte difficili. Scegliamo dunque la meno cattiva delle due. La pillola RU486, mifepristone, è una pillola molto semplice che agisce inibendo i recettori per il progesterone. Il progesterone è un ormone che facilita la gravidanza e la gestazione. Se noi blocchiamo nell’utero i recettori del progesterone, il progesterone non può più mandare avanti l’attività procreativa con il suo percorso normale. E quindi interrompe la gravidanza in maniera semplice: con una pillola. Io credo che il buon senso debba vincere. Proibire questa soluzione incruenta, vuol dire non andare incontro ai bisogni della donna di non soffrire inutilmente. La sicurezza è quasi totale, del 98/97%, e tutti i paesi l’hanno già adottata. So che in Francia si facilita questa distribuzione e viene propagandata già nelle scuole, insieme alla pillola del giorno dopo come una soluzione più semplice. ❖

Repubblica 28.11.09
Il Senato polacco approva il divieto di bandiera rossa
La nuova legge equipara simboli nazisti e comunisti
"Non vogliamo nel nostro Paese icone di un sistema che produsse genocidi"
di Andrea Tarquini

BERLINO Se state per recarvi a Varsavia, evitate un certo tipo di kitsch politico nell´abbigliamento: un pullover con falce e martello o stella rossa, o una t-shirt con il volto di Ernesto "Che" Guevara, tra qualche mese saranno illegali e potrebbero costarvi una denuncia e una condanna fino a due anni di prigione. Su iniziativa dell´opposizione di destra nazionalpopulista, il Senato (seconda Camera) ha infatti emendato la legge 256 del Codice penale. Quella che punisce ogni incitamento all´odio razziale o politico. Iscrivendovi il divieto di ogni simbolo di ideologie totalitarie, ed equiparando quindi nel bando più assoluto simboli, bandiere, vessilli comuniste e naziste.
Alla legge emendata, come scrive il Times di Londra nella sua edizione online, mancava solo la firma del capo dello Stato, Lech Kaczynski. E ieri sera lui l´ha promulgata, insieme alla legge sulla castrazione chimica dei pedofili pericolosi. Nessuno del resto si aspettava che il presidente smentisse il suo anticomunismo ultraintransigente. Il quale, insieme al linguaggio più pesante e a tratti insultante e diffamatorio verso ogni avversario politico, compreso il premier liberale Donald Tusk, contro l´idea stessa di Unione europea e contro i diversi d´ogni genere, è stato il cavallo di battaglia suo e di suo fratello gemello Jaroslaw, che fu premier tra il 2005 e il 2007. La legge entrerà in vigore 6 mesi dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.
«Nessun simbolo del comunismo ha diritto di esistere in Polonia, perché questi simboli sono simboli di un sistema che produsse genocidi, e che dovrebbe essere paragonato al nazismo», ha detto Jaroslaw Kaczynski. Il governo liberale di Tusk non ha obiezioni di principio, ma si sente decisamente infastidito e disturbato dalla legge, che può divenire nociva all´immagine della Polonia nella Ue. L´anno scorso, la Corte europea condannò un analogo divieto ungherese dei «simboli delle tirannie» definendo il bando troppo vasto e indiscriminato, e quindi lesivo della libertà d´espressione. I liberali di Tusk mugugnano, la sinistra socialdemocratica dell´ex presidente Kwasniewski dissente, ma invano.
Vent´anni fa, furono proprio le elezioni libere a Varsavia, momento di svolta della rivoluzione democratica polacca, a spingere la Storia verso la caduta del Muro di Berlino. Ma oggi, vent´anni dopo, il comunismo ha un´immagine molto più negativa in Polonia che non ad esempio in Germania. Dove non pochi storici temono che le equiparazioni tra i due totalitarismi, quelli di Hitler e di Stalin, minimizzino l´Olocausto di cui Berlino si sente responsabile. «Il comunismo», ha affermato lo storico polacco Wojciech Roszkowski, «è stato un sistema terribile e assassino, ha falciato milioni di vite, era simile al nazionalsocialismo e non c´è ragione di trattare in modo diverso quei due sistemi e i loro simboli». Recentemente un politico moderno e stimatissimo, come il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, ha suggerito che il Palazzo della Cultura (l´enorme, sgraziato grattacielo staliniano nel centro di Varsavia) venga demolito, per allestire al suo posto un parco.
Resta il grande dubbio, se mettere fuorilegge le falci e martello non sia una limitazione alle libertà che trasformi in vittime i nostalgici della dittatura. Un aspetto diverso della legge è che i neonazisti di tutto il mondo non potranno più procurarsi svastiche, copie di Mein Kampf o altri simboli del Terzo Reich in Polonia. Almeno saranno proibiti anche quelli.

Corriere della Sera 28.11.09
Addii Il pittore è scomparso ieri a Milano. Aveva 89 anni. Nelle sue opere si intrecciano lirismi, ricerca formale e azione sociale
Ernesto Treccani, l’arte come politica
di Raffaele De Grada

Dalla rivista «Corrente» al ciclo sui contadini di Calabria: un poeta dell’immagine

«Con Ernesto Treccani scompare uno tra i più grandi e limpidi poeti dell’immagine del Novecento»: così il sito ufficiale dell’ar­tista ha annunciato la morte di Treccani, scomparso ieri a 89 anni nella sua casa milanese («Serenamente, tra le sue cose» ha detto la figlia Maddalena). Treccani era nato a Milano il 26 ago­sto 1920 ed era figlio di Giovanni Treccani, fondatore dell’Istitu­to dell’Enciclopedia. I funerali si svolgeranno oggi a Milano (al­le 14.45) nella Chiesa di San Bartolomeo in via Moscova.
La morte è una cosa orribile persino quan­do coglie un animale a te caro, figuriamoci quando essa colpisce come una folgore un personaggio a te vicino col quale hai condi­viso per anni gioie e dolori. È il caso della morte di Ernesto Treccani, che era più giovane di me e che aveva vissuto pienamente un periodo della nostra esistenza. Ernesto Treccani è stato un pittore e i suoi primi approcci all’arte della pittura sono stati nella villa di mio padre a Forte dei Marmi. È lì che Ernesto ha cominciato ad amare le fronde erbose sul giardi­no de Grada che mio padre trascurava per andare a cercare paesaggi più costruiti lungo la marina e so­prattutto all’interno. Era il lontano 1939. Treccani, in quegli anni, si ispirava alla natura nella sua pienezza senza trascurare le figure e gli scritti poetici che andava realizzando. Fu uno sposalizio con la pittura aiutato da mia sorella Lidia, che studiava al­l’Accademia di Brera seguendo le le­zioni di Reggiani e Salvadori.
Così cominciò la carriera di Erne­sto, che fu appena toccato dalla poli­tica in quegli anni Quaranta. Non si poteva dire altrettanto per me che, nel 1938, ero stato arrestato e tradot­to a San Vittore per tre mesi. Ma i tempi incalzavano e iniziava a esser­ci in Europa un’aria di guerra. Erne­sto trascinato dalle mie idee si trovò a fondare con me un giornale dal nome «Corrente di vita giovanile». Ciò fu possibile in quanto il senatore Giovanni Treccani degli Alfieri ci aiutava e protegge­va. In quegli anni il senatore Treccani aveva fondato la famosa enciclopedia e aveva dato allo Stato italia­no le miniature di Borso d’Este rilegate in un libro. Erano molti gli artisti che si immedesimavano in «Corrente» e i suoi amici di quegli anni erano Ennio Morlotti e Bruno Cassinari, con cui tenne uno studio per tanti anni sulle colline piacentine, anche dopo la guerra, a Gropparella.
Direttore del giornale, mentre ancora seguiva gli studi di ingegneria, era il più giovane del gruppo. Espose per la prima volta alla Bottega di «Corrente» nel 1940 con gli amici Birolli, Migneco, Sassu e nel 1943 espose nella stessa galleria con Morlotti e Cassi­nari. La rivista «Corrente» fu soppressa d’autorità dai fascisti (come giornale sovversivo) allo scoppio della guerra.
Come tanti altri amici e compagni di strada di quella stagione, Treccani aderì al Partito comunista e durante la guerra di Liberazione fu attivo nella lot­ta clandestina. Redattore de «Il 45», poi animatore con Aymone, Chigine, Francese e Testori del gruppo «Pittura», nel 1949 la Galleria del Milione presentava la sua prima personale. In quegli anni, poco prima dell’incontro con la realtà del Mezzogiorno e di Me­lissa, iniziò a dipingere per lunghi periodi a Parigi. Nel 1950, durante le prime occupazioni delle terre in Calabria, si recò a Melissa che divenne fonte inesauri­bile del suo lavoro, con i grandi quadri ispirati alla vita e alle lotte contadine e con i ritratti, paesaggi, disegni del ciclo «Da Melissa a Valenza» (1964-1965). A quegli anni risalgono anche grandi esposizioni del­le sue opere un po’ dovunque, dalle Biennali di Vene­zia a Londra e a New York.
In tutto il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, Treccani ha accompagnato la produzio­ne e la presentazione delle sue opere con un’instan­cabile azione di diffusione della cultura e del dibatti­to artistico, insieme all’impegno politico e (in parti­colare) al movimento di lotta per la pace. Dagli anni Sessanta in poi, fino ai primi anni di questo secolo, Treccani, come uomo e come pittore, conosce una lunga stagione felice. È un fiorire di opere e una mol­tiplicazione di iniziative che nascono sempre da un’adesione concreta alle situazioni della vita. E di viaggi che segnano esperienze decisive nel suo per­corso artistico, dalla Cina a Cuba. Così come profon­do è il legame con la sua città, Milano, non solo tema di tanti suoi quadri in cinquanta anni di pittura ma anche sede della «Fondazione Corrente», centro di iniziative mostre, dibattiti, seminari nei diversi cam­pi della cultura e dell’arte da lui fondato ne 1978. E Milano è stata anche sede di importanti rassegne del­la sua opera, a cominciare dalla grande antologica del 1\989 a Palazzo Reale.
Ma dopo tanti anni i ricordi si susseguono e arriva­no a noi in una società che disprezza l’uomo e la na­tura. Ernesto ha il merito di riproporre la natura, è il gentile signore che spira l’aura della vita sugli alberi, i fiori, gli uccelli, il viso dei bimbi che si stagliano in un grande cielo azzurro.

venerdì 27 novembre 2009

Repubblica 27.11.09
Gli orrori dell´arcidiocesi raccontati in un documento di 700 pagine Irlanda, rapporto sui preti pedofili "Omertà su decenni di abusi e stupri"
DUBLINO - La Chiesa cattolica irlandese ha coperto per decenni abusi pedofili e crudeltà compiuti da sacerdoti. È il contenuto di un rapporto di 700 pagine sull´arcidiocesi di Dublino, presentato dal ministro della Giustizia irlandese, Dermot Ahern. Secondo il documento, quattro arcivescovi «ossessionati» dalla segretezza hanno protetto i colpevoli e la loro reputazione ad ogni costo. Il ministro ha garantito che «i colpevoli verranno perseguiti». È la terza inchiesta del genere: nello scorso maggio un altro rapporto shock aveva rivelato abusi, violenze e stupri per decenni nelle scuole e nelle istituzioni per ragazzi "difficili" gestiti da ordini religiosi.

Repubblica 27.11.09
La tentazione dei blogger è chiedere uno spazio più grande per il 5 dicembre. Tante adesioni di artisti
No-B day, già prenotati 400 pullman e il "sogno" di piazza San Giovanni
I blogger si presentano alla stampa e annunciano anche un servizio d´ordine
di Carmelo Lopapa

ROMA - Lasciano la piazza virtuale per riempire quella reale. Via da blog, chat e Facebook. I promotori del "Noberlusconiday" si materializzano in un piccolo cinema alternativo a due passi dalla Suburra romana, volti giovani, età media trent´anni, per presentare dal vivo l´appuntamento del 5 dicembre. Appuntamento nato dalla Rete, comunque basso, ma già dai grandi numeri. Sono 400 i pullman prenotati in tutta Italia e oltre 300 mila le adesioni sul web. Città come Milano, Messina, Catania in cui è ormai difficile reperirne altri, raccontano. E una Piazza del Popolo a Roma che all´improvviso diventa piccola, tanto da far balenare ai ragazzi del comitato l´idea e il sogno (per ora solo quello) di spostare tutto nella più capiente San Giovanni.
I partiti ci sono, ma non si vedono. Nel senso che hanno aderito (alcuni almeno) ma i politici non saliranno sul palco, collaborano all´organizzazione ma si limiteranno a sfilare con le bandiere in corteo. Compatti: Idv, Prc, Pdci, Sinistra e libertà, Verdi. O a «pezzi», come il Pd. Segretario Bersani diffidente. Altri, da Debora Serracchiani a Ignazio Marino, da Vincenzo Vita a Ivan Scalfarotto e tanti altri pronti a sfilare. Anche alla conferenza stampa di ieri giovani militanti del Pd sono intervenuti per dire che loro ci saranno. «Le parole d´ordine del Nobday sono anche le nostre» protestano in tanti anche sui blog. Su Facebook 500 che si dichiarano democrats danno vita al gruppo «Nbd del Pd». Da oggi parte la settimana di «rincorsa al nobday», spiega il portavoce del comitato, Massimo Malerba. «Chiediamo agli italiani di mettere qualcosa di viola. Un drappo al balcone, un maglione, una sciarpa, un bracciale. È il colore dell´autodeterminazione dei popoli e lo sarà dei cittadini che non si riconoscono nel berlusconismo». E «viol-azioni pacifiche segneranno i giorni che precedono la piazza» annuncia Gianfranco Mascia del Bo-Bi, "Boicotta il Biscione". Sul palco, conferma Sara De Santis che cura l´aspetto artistico, nessun politico, a parlare delle emergenze di questi mesi (giustizia, lavoro, informazione, cittadinanza, formazione e ricerca, etica politica) saranno intellettuali, operai, giuristi, studenti, magistrati. «Perché la difesa della Costituzione, del capo dello Stato e della magistratura sarà il motivo di fondo» dicono Gabriella Magnano di Liberacittadinanza e Franz Mannino del "Nobday". Tanti intellettuali e artisti stanno aderendo. Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Lidia Ravera, Furio Colombo, Antonio Tabucchi, Ascanio Celestini, Francesca Fornari, Daniele Silvestri ultimo in ordine di tempo. Il corteo partirà da Piazza della Repubblica per raggiungere Piazza del Popolo. Un servizio d´ordine per scongiurare incidenti. In collegamento, i «Nobday» organizzati dagli italiani davanti alle ambasciate di New York e San Francisco, Londra e Berlino, Madrid, Bruxelles, tra le altre piazze internazionali. Parola d´ordine unica: «Berlusconi dimettiti».

Repubblica 27.11.09
Poligami d’Italia
Sono almeno 15 mila i musulmani che vivono nel nostro Paese con più mogli. Un fenomeno in aumento per l´assenza di controlli
di Maurizio Crosetti

Sono almeno quindicimila i musulmani con due o più mogli e matrimoni provvisori celebrati in moschea. Un fenomeno in aumento permesso dall´assenza di controlli, che consente di aggirare le leggi. In molti degli Stati d´origine la pratica è vietata da tempo
Le voci in contrasto all´interno della comunità marocchina di Porta Palazzo
"Io non commetto nessun crimine, rispetto il Corano. Gli ipocriti siete voi con l´amante"
"Poche di noi si ribellano: perché siamo sole, spesso povere, analfabete, senza parenti"

Naima pensava di essere una moglie, invece è una schiava. Mohammed credeva di essere un sultano, invece è uno schiavista. Kalid era sicuro di essere solo loro figlio, invece deve convivere con un altro pezzo di harem casalingo che comprende pure la seconda moglie di Mohammed, Fatima. Succede a Torino, non a Casablanca, anche se questo pezzo di città dietro il mercato di Porta Palazzo potrebbe essere ovunque, Marocco o Tunisia, Senegal o Egitto. Mohammed, 54 anni, commerciante, per il Corano ha addirittura due mogli in meno del massimo consentito (quattro), per la legge italiana ne ha una sola (Naima, 52 anni, regolarmente sposata in Marocco prima di trasferirsi a Torino), ma in realtà è un poligamo: anche se la seconda moglie, Fatima, 31 anni, l´ha sposata in moschea con un matrimonio Orfi che per lo stato civile non esiste, è solo un rito temporaneo senza vincoli legali sul nostro territorio. Dunque, si tratta di una coppia di fatto: teorica per la legge ma assolutamente reale, una "famiglia allargata" non proprio unica.
Anche se mancano statistiche ufficiali, si calcola che in Italia esistano almeno 15 mila casi di bigamia o poligamia, tutti tra stranieri ma qualcuno anche tra italiani convertiti. Settemila casi sono stati accertati, e sono migliaia le segnalazioni - spesso, drammatiche richieste di aiuto - che giungono alle associazioni che si occupano della tutela delle donne islamiche in Italia, come "Acmid Donna" che sostiene la comunità marocchina: da quando è nata, ha ricevuto più di 4 mila chiamate.
«Perché nessuna di noi accetta di dividere il proprio marito con un´altra», racconta Naima, la prima moglie del sultano di Porta Palazzo. «Quando Mohammed mi chiamò a Torino per raggiungerlo, sei anni fa, non sapevo che lui nel frattempo avesse sposato Fatima».
«Sono arrivata qui con nostro figlio Kalid, e ho dovuto subire la situazione. Altrimenti sarei stata ripudiata, non avrei avuto un soldo né un posto dove andare. Ma con Fatima, più bella e più giovane di me, sono liti continue. E Kalid, che ha quindici anni, ormai non parla più con nessuno, sta crescendo isolato e violento, è sempre triste e non capisce questa nostra assurda famiglia».
Per un musulmano, diventare poligamo è ormai più facile in Italia che al suo paese. In Tunisia, la costituzione ha vietato la poligamia addirittura nel 1957, dal 2003 è scomparsa in Marocco e anche nella Turchia "europea" è stata proibita. Qui, invece, il trucco è facile, e il matrimonio plurimo (proibito dall´articolo 556 del codice penale con una pena fino a cinque anni di carcere) può essere celebrato addirittura in tre modi diversi.
Si può diventare poligami se si è regolarmente sposata la prima moglie nel paese d´origine (nell´Islam, il matrimonio non è un rito religioso ma un contratto civile) e se si sposa la seconda all´estero, nella propria ambasciata, senza denunciare la prima; oppure se ci si fa raggiungere dalla seconda moglie, sposata in patria, con il meccanismo del ricongiungimento famigliare; infine, se il secondo matrimonio si celebra nella moschea italiana dove, volendo, il rito Orfi permette persino le unioni a tempo: un´ora, trent´anni oppure per sempre. Dunque, si può essere poligami anche per sessanta minuti con buona pace di Allah e della legge italiana.
«Io non ho commesso nessun crimine, rispetto il Corano e garantisco lo stesso trattamento e l´identico affetto a entrambe le mie mogli», si difende Mohammed.
«Semmai, gli ipocriti siete voi europei che magari avete l´amante e diventate dei poligami clandestini, mentre per noi è tutto regolare: ci assumiamo un doppio impegno, paghiamo molti soldi e non facciamo torto a nessuno. Io dormo due notti con Naima e due con Fatima, se compro un vestito all´una lo compro anche all´altra. E le mie mogli stanno bene, non devono sopportare la fatica della casa da sole e si dividono i compiti. Qui lavoriamo tutti».
Sarà, ma il sultano di Porta Palazzo sembra raccontare una verità parziale. L´altra faccia della medaglia la rivela Hayam, sessant´anni, una donna senegalese che vive in provincia di Bergamo e che cinque anni fa ha avuto il coraggio di lasciare il marito poligamo. «Non potevo più sopportare la violenza e le umiliazioni. Mio marito diceva che ero diventata vecchia e stanca, e che lui voleva giocare una nuova carta del mazzo, sono le sue precise parole. Così ha sposato un´altra donna al consolato, lei è più giovane e più bella e gli ha dato pure una figlia. Ma con me, lui ne aveva già fatti quattro. Anch´io sono stata giovane, e anche lei invecchierà e capirà l´errore che ha commesso. Però, poche di noi si ribellano: perché siamo sole, spesso povere e analfabete, senza parenti, non sappiamo neanche a chi chiedere aiuto. Non alla legge italiana, perché è come se non esistessimo».
Il vuoto legislativo è un modo per chiudere gli occhi, anche se così soffrono migliaia di donne, bambini e ragazzi. E non è solo un problema nostro. Nelle periferie francesi sono nascosti almeno 100 mila casi di matrimoni poligami, e 60 mila sono stati segnalati in Germania. È una conseguenza, mal gestita, del pluralismo religioso e culturale di cui gli immigrati sono portatori, e l´aumento dei flussi migratori non farà che rendere più vasto il problema. In Italia vivono oltre un milione e duecentomila musulmani, e sono ormai 50 mila gli italiani convertiti all´Islam; si calcola che quasi il 2 per cento di loro sia di fatto poligamo, anche se in totale clandestinità.
Nel segreto di questi nuclei famigliari dai confini incerti, si consumano violenze fisiche e psicologiche. E se il poligamo muore, quasi sempre si scatenano risse per l´eredità e la successione. È il momento in cui la prima moglie "legale" di solito si vendica sulla seconda, cacciandola di casa senza un soldo. E il problema s´ingarbuglia quando una di loro decide di separarsi, anche se accade di rado: di nuovo, il tribunale italiano non può sciogliere legami che per lo Stato non sono mai esistiti. Dunque, chi pagherà gli alimenti?
Proprio la mancanza di qualsiasi tutela in caso di separazione è la prima causa di scoraggiamento per le donne-schiave: per mangiare, e per continuare ad avere un tetto sulla testa, devono sopportare. «Ma almeno finiamola col mito delle donne islamiche che accettano la poligamia perché fa parte della loro cultura: è pura violenza, invece, è una cosa disumana che provoca solo dolore», ripete Hayam. La quale, però, è una donna che ha studiato e ha saputo cavarsela. Molte tra quelle come lei, in Italia non sanno neppure comporre un numero di telefono oppure chiedere aiuto nella nostra lingua, o soltanto domandare dov´è la fermata del tram più vicina.
Per reggere il peso e il piacere di un doppio matrimonio, c´è chi ha scelto una doppia vita però alla luce del sole. Lui è Hassan Moustapha e vive a Brescia, dove ha comprato una villetta bifamiliare che, appunto, divide con le sue due famiglie: la prima moglie al primo piano, la seconda al secondo, in rigoroso ordine. «Così loro non litigano e io non commetto nessuna colpa. Perché per il Corano l´adulterio è uno dei peccati più gravi, mentre mantenere due o più mogli è un grande onore e non è una cosa alla portata di tutti. Bisogna avere generosità, denaro e molto amore. Ho amici italiani che fanno collezione di donne, e nessuna di loro sa dell´esistenza delle altre: questi uomini sono forse migliori di me?».

Repubblica 27.11.09
Quel diritto di famiglia parallelo avallato dagli ultra-tradizionalisti
Ma così il prezzo più alto lo pagano donne e bambini
di Renzo Guolo

Liberi dai vincoli delle legislazioni familiari nazionali e favoriti dalla deterritorializzazione delle comunità della diaspora, migliaia di musulmani in Italia riscoprono la poligamia, istituto islamico in disuso o, addirittura vietato in alcuni dei loro paesi d´origine.
In Tunisia è proibita da oltre mezzo secolo. In Marocco è stata limitata dalla recente riforma del codice di famiglia, la Moudawana, che consente alle donne di chiedere che il contratto di matrimonio la escluda. In Egitto è stata a lungo oggetto di una battaglia culturale che, nonostante le resistenze di Al Azhar e dei gruppi islamisti, ne ha fatto una pratica desueta. In Senegal le donne sono riuscite a imporre l´opzione del marito che, al momento del primo matrimonio, deve dichiarare se scegliere quello poligamico, pieno o parziale, con quattro o meno mogli, o quello monogamico. Opzione modificabile solo in senso restrittivo.
Nella nuova Dar al Islam europea la poligamia trova, invece, uno spazio tanto insperato quanto non normato. Effetto della ricerca di continuità identitaria nelle tradizioni, oltre che della massiccia campagna di reislamizzazione operata dai gruppi neotradizionalisti, che come antidoto alla "contaminazione" con società secolarizzate, predicano il ritorno alla salaf, l´ "antica fede" in campo familiare e nelle relazioni tra uomo e donna.
Anche se ne vanno distinti i diversi tipi di poligamia. Esiste quella per ricongiungimento, prodotto dell´ arrivo in Italia della moglie regolarmente sposata in patria; quella "occulta", praticata da quanti, già sposati nel loro paese d´origine, si risposano negli uffici dell´ambasciata, senza denunciare vincoli precedenti; quella ritenuta religiosamente indiscutibile in quanto istituto coranico e, dunque, indisponibile a qualsiasi intervento del legislatore umano. Solitamente si celebra in moschea e sancisce il legame dei coniugi, mera coppia di fatto per lo Stato, davanti alla comunità. Infine la poligamia temporanea, sancita dal matrimonio Orfi.
Il matrimonio Orfi, o non ufficiale, è di durata temporanea. Viene celebrato davanti a due testimoni o, nei paesi islamici e per chi ne ha la possibilità, davanti a un avvocato. Diffuso nell´islam sciita, dove è noto come Sigheh, il matrimonio provvisorio ha avuto una rivisitazione anche in campo sunnita, che pure lo ha ufficialmente condannato anche se spesso tollerato.
Il matrimonio provvisorio rende lecito "l´amore mercenario"; permette di sfuggire ai codici che puniscono i rapporti sessuali al di fuori delle unioni definitive; più di recente viene usato come riparo a convivenze o rapporti più o meno lunghi, che non possono, per ragioni diverse, diventare matrimoni ufficiali. Si tratti di relazioni tra coppie libere nei costumi, tra poveri che non hanno soldi per sposarsi ufficialmente, o quelle di vedove di guerra che vogliono riscuotere la pensione ma non vivere in solitudine.
Nell´esperienza della hijra, l´emigrazione, in Occidente, la mut´a, termine che indica il matrimonio temporaneo o di piacere, dal quale deriva, significativamente, quello di musta´jara, "donna in affitto", esprime per i più osservanti il tentativo di coniugare liceità islamica e sessualità regolata; per gli "opportunisti" il tentativo di sottrarsi al pregante e ossessivo controllo sociale esercitato dalla comunità senza per questo dover uscire dal suo protettivo "cerchio caldo"; per altri , quello di sfuggire al pesante vincolo dello statuto personale, che ciascuno porta con sé anche nel migrare, o alle restrittive legislazioni in materia dei paesi di residenza. Con tutte le contraddizioni che ne derivano.
Il matrimonio Orfi ,infatti, può essere sciolto dal "marito temporaneo", lasciando la moglie provvisoria senza alcuna protezione. Anche se da quel rapporto a termine sono nati dei figli, il padre non ha obblighi nei loro confronti. Una situazione aggravata in Italia dalla zona grigia in cui si trovano gli stranieri, residenti ma non cittadini.
Le loro pratiche familiari sono ignorate dallo Stato, che non può impedire "matrimoni di fatto" come quelli poligamici, dei quali si limita a regolare a posteriori i rapporti che ne sono sorti quando il caso finisce in tribunale. Una situazione in cui il diritto familiare parallelo, prospera. Con buona pace dei soggetti più deboli, donne e minori innanzitutto.

Corriere della Sera 27.11.09
Fini: «Avrei fatto come Englaro» E accelera sulla cittadinanza
La Lega chiede un vertice. Bindi: dall’ex leader di An buoni segnali
di Lorenzo Fuccaro

ROMA — «Rosy Bindi scri­ve che non si sarebbe compor­tata come la famiglia Englaro, ma che non giudica il suo dramma e non condivide la go­gna cui è stato sottoposto il pa­dre. Io sottoscrivo, con una dif­ferenza: mi sarei comportato come la famiglia di Eluana». Gianfranco Fini coglie l’occa­sione della presentazione di un libro-intervista del presi­dente del Pd per chiarire, anzi per rimarcare, il suo punto di vista sulla questione del fine vita. Non solo: accelera anche sulle nuove norme per la citta­dinanza, argomento entrato ie­ri nel calendario dei lavori di aula della Camera, dopo la ses­sione di bilancio, a fine dicem­bre. Inserimento dovuto a un suo decisivo intervento per avere accolto una sollecitazio­ne del Pd nonostante i dubbi di Pdl e Lega ed è appunto per questo che il Carroccio chiede un vertice di maggioranza. Fi­ni, insomma, continua a di­stinguersi dal centrodestra al punto che questi suoi atteggia­menti generano più di un sem­plice interesse negli esponenti di primo piano del Pd, come la stessa Bindi che rileva con sod­disfazione: «Non me ne voglia Fini quando scrivo che la aspetto al varco: ha suscitato alcune attese e noi ci aspettia­mo che vengano realizzate. E in questo senso è un buon se­gno che sia stata calendarizza­ta la legge sulla cittadinanza».
Del resto non è affatto ca­suale anche il richiamo alla vi­cenda della giovane morta do­po un coma di diciassette an­ni. Anzi. Quella vicenda vide un braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e Giorgio Napolita­no. All’epoca, nel febbraio scorso, Napolitano si oppose alla presentazione, da parte del governo, di un decreto leg­ge con il quale si prevedeva l’obbligo dell’alimentazione e dell’idratazione per soggetti non autosufficienti. Si rischiò, insomma, uno scontro istitu­zionale senza precedenti tra Palazzo Chigi e Quirinale. Eb­bene Fini, dicendosi d’accordo con la scelta di Beppino Engla­ro, prende le distanze dalla li­nea tenuta dal governo e dalla maggioranza. E infatti rileva che «sulla fine della vita la vo­lontà della persona coinvolta e della famiglia è meritevole del rispetto delle istituzioni, c’è una soglia che non deve es­sere varcata a cuor leggero dal­lo Stato». Su questi temi «non ci si può affidare a dogmi né religiosi né laici». Ecco per­ché, nota, è «da condannare non la dialettica ma la tenden­za a erigere barriere ideologi­che che sono assolutamente anacronistiche».
Anche sulle norme per mo­dificare l’attuale legge sulla cit­tadinanza Fini esprime un’opi­nione poco diffusa nel centro­destra. Innanzitutto paventa che, se non si cambia il mecca­nismo di accesso, «c’è il ri­schio che i figli degli immigra­ti nati in Italia o entrati sul no­stro territorio in tenera età vengano non solo consegnati a un limbo ingiusto che la no­stra società non può permet­tersi ma che si rifugino in iden­tità pregresse, in un ghetto di autoesclusione». Il presidente della Camera auspica che «la discussione possa avvenire su un testo della commissione. Se ciò non avverrà si voteran­no in aula le diverse proposte di legge». Certo è che, insiste Fini, sarebbe superficiale con­centrarsi solo sulla questione del numero di anni richiesto per acquisire la cittadinanza. Sarebbe un pessimo compro­messo se si ragionasse come dal droghiere: 'io propongo dieci anni, tu proponi cinque e ci accordiamo su sette'».

Corriere della Sera 27.11.09
Pillola RU486, quando i politici rendono il posto degli scienzati
di Isabella Bossi Fedrigotti

Il Senato ha bloccato la messa in commercio della Ru486, pillola abortiva già in uso in diversi Paesi e da mesi sperimentata in vari ospedali italiani. Un medicinale approvato dagli studiosi del­l’Agenzia italiana del farmaco, che viene fer­mato dalla commissione Igiene e Sanità di Palazzo Madama. Come dire: politica contro scienza. Il motivo dichiarato dei senatori è la necessità di attendere un parere del mini­stero della Salute sulla compatibilità tra la Ru486 e la legge 194. Peccato che la stessa Agenzia del farmaco avesse ammesso l’or­mai famigerata pillola soltanto in ambito ospedaliero e nel pieno rispetto della 194. Il blocco deciso dalla politica sembra perciò più che altro la ricerca di un possibile cavil­lo per ritardare l’introduzione della Ru486 se non per bocciarla definitivamente.
Ma può la politica interferire con la scien­za, decidere cosa è meglio e cosa è peggio per il corpo fisico degli uomini (o, in questo caso, delle donne)? Essendo, almeno per il momento, ancora in vigore la legge che re­gola l’aborto, possono i senatori sostituirsi ai medici? È forse possibile giudicare miglio­re cittadina quella che interrompe una gravi­danza con un intervento rispetto a quella che ricorre a una pillola, la quale, peraltro, la obbliga al ricovero ospedaliero più o me­no per lo stesso tempo richiesto dal metodo tradizionale?
Che l’aborto sia scelta estrema e infelicis­sima, lo sanno quasi tutti, ed è difficile cre­dere che una pillola la renderà meno luttuo­sa. Certo ci saranno delle scervellate che vi ricorreranno come tragicamente inappro­priato mezzo anticoncezionale, però, inuti­le negarlo, le scervellate già ci sono e non hanno aspettato la Ru486 per diventarlo. Ci sono donne, in altre parole, che affrontano un aborto come fosse una appendicite e so­no le stesse che forse scambieranno la pillo­la con una purga. Ma è davvero pensabile che le altre, e cioè la grandissima maggio­ranza delle non incoscienti e non scriteria­te, siano indotte dal nuovo metodo un po’ meno cruento — perché è questa la paura dei politici — ad abortire magari più spesso e a cuore più leggero?

il Riformista 27.11.09
Sacrificare Vendola o la Puglia?
di Peppino Caldarola

Ieri “Gli Altri”, il quotidiano di Piero San- sonetti, ha preso nuovamente le difese di Nichi Vendola e della sua volontà di can- didarsi alla guida della regione Puglia. Lo spunto è venuto dal racconto di uno scontro durissimo, così scrivono i giornali, in Tran- satlantico fra Massimo D’Alema e Franco Giordano. “Gli Altri” ha arricchito la crona- ca con un piccolo elenco di carriere politiche spezzate dall’ex premier che avrebbe come ultima vittima il carissimo Nichi. Le cose non stanno così. Se gli amici di Vendola e il go- vernatore medesimo non partono dalla realtà difficilmente potranno prendere una decisio- ne serena. Nichi ha poche possibilità di vin- cere contro il Pdl perché attorno a lui si for- merebbe una coalizione bonsai. Si può im-
precare quanto si vuole contro il destino cini- co e baro e la cattiveria degli uomini, ma due partiti essenziali per vincere, l’Idv e l’Udc, non vogliono Vendola come candidato che li rappresenti. Guidare una piccola coalizione destinata alla sconfitta potrà servire, forse, per rilanciare il marchio del partito di Ven- dola, ma non corrisponde agli interessi di chi vede la possibilità di insediare un altro espo- nente del centrosinistra alla guida della re- gione. La probabile sfida Vendola-Emiliano nelle primarie non risolve il problema perché, anche se Vendola le vincesse, la sua coalizio- ne resterebbe piccola e perdente. Tanti uomi- ni politici hanno dovuto fare passi indietro talvolta nella vita, possibile che solo Nichi non sia capace di un gesto di generosità?