mercoledì 2 dicembre 2009

Corriere della Sera 2.12.09
«L’ateismo ci distrugge Nella Chiesa c’è bisogno di coerenza e credibilità»
Il cardinale Ruini: gravi errori anche nell’evangelizzazione La cultura ignora Dio, i fedeli devono essere veri testimoni
di Gian Guido Vecchi

«Vede, la testimonianza della fede dev’essere coerente e credibile. Talvolta coloro che pensano d’essere credenti in realtà si il­ludono, s’ingannano da sé...». Lo studio è affacciato sulle mura vaticane, la Tor­re di San Giovanni e la Cupola di Miche­langelo. Alle sue spalle, posate su una mensola, una foto seppiata dei suoi ge­nitori, il papà medico, la mamma che studiò Lettere, e le immagini di Giovan­ni Paolo II e Benedetto XVI. Libri dapper­tutto. Il cardinale Camillo Ruini è in pie­na attività e ha un lampo negli occhi, «io non ho mai avuto paura di andare in pensione», sorride. Difatti, dal 10 al 12 dicembre, il Comitato per il progetto culturale della Cei, da lui presieduto, riu­nirà a Roma un evento internazionale su Dio. Teologi, filosofi, studiosi, artisti, scienziati. «Sto anche lavorando a un li­bro su Dio. Penso sarà in libreria nel 2011. Non è facile, ho insegnato per 29 anni e il rischio è di fare il professore, cosa che la gente non gradisce».

Eminenza, il tema del convegno è radicale: «Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto». La situazione è così preoccupante?

«È preoccupante sul piano culturale, perché oggi sono molto forti e diffuse, fino ad apparire prevalenti, le tendenze a negare o a ignorare Dio: lo si riduce a un prodotto della nostra mente, del no­stro desiderio o della nostra struttura psichica, oppure si sostiene che per via razionale di Dio non si possa conoscere nulla, che lo si possa conoscere solo at­traverso una scelta di fede puramente soggettiva. Questo è motivo di preoccu­pazione per noi».

Le fedi non hanno forse acquistato un peso sempre maggiore nel mon­do?

«Certamente, è un fatto innegabile. E proprio questo mette a nudo una frattu­ra tra le tendenze prevalenti nella cultu­ra e il sentire della gente: una frattura dannosa per tutti, perché rende la cultu­ra autoreferenziale e alla fine sterile, e perché d’altra parte dà a tanti credenti la sensazione sbagliata e pericolosa che per credere in Dio vadano rifiutati gli sviluppi attuali della storia, ci si debba isolare dalla storia».

La sua analisi richiama ciò che scrisse Benedetto XVI, il 10 marzo, nel­la lettera ai vescovi del mondo: «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini» e questo ha «effetti distruttivi». Qua­li?

«Anzitutto, dare all’umanità la sensa­zione di essere sola nell’universo, ab­bandonata al cieco divenire del cosmo senza una direzione, uno scopo. Tutto ciò pesa sull’anima delle persone, fa sen­tire la nostra vita inutile e priva di sen­so. Ma anche la società e la cultura per­dono il loro riferimento decisivo. Se non c’è Dio, l’uomo è soltanto una parti­cella della natura, manipolabile come tutto il resto. Si perde così il riferimento principe della vita sociale, l’idea che l’uomo, come diceva Kant, è sempre un fine cui tendere e mai un mezzo».

C’è un campo nel quale questa emergenza si mostri con particolare evidenza?

«Potrei dire che questo nodo di fon­do emerge quando gli esseri umani so­no trattati in modo puramente funzio­nale, come semplici strumenti dei quali servirsi, nella bioetica come in campo sociale, politico o economico».

In genere si parla sempre di bioeti­ca...

«C’è manipolazione anche nello sfrut­tamento totale, quando l’uomo viene brutalizzato e trattato come uno stru­mento di cui servirsi senza pensare alla sua dignità. Ma la questione, in realtà, riguarda tutta la nostra esistenza, non solo alcuni ambiti: il problema di Dio non è settoriale, è una questione globa­le dell’uomo in quanto tale».

La Chiesa ha sbagliato in qualcosa?

«Faccio una premessa: secondo la fe­de cattolica, la Chiesa è costituita da due dimensioni inseparabili. La prima è fatta degli uomini e delle donne creden­ti, delle realtà istituzionali che rendono la Chiesa visibile. La seconda si riferisce allo Spirito Santo che la anima. Perciò la Chiesa è una realtà storico-sociale e insieme il corpo mistico di Gesù Cristo. Quando si parla di sbagli, di peccato, è più appropriato riferirsi agli uomini o al­le istituzioni della Chiesa, piuttosto che alla Chiesa come tale che è inseparabile da Cristo, dallo Spirito Santo, da Dio».

In questo senso, ci sono state man­canze nell’evangelizzazione, nell’atteg­giamento verso il mondo, nell’elabora­zione teologica?

«Mancanze anche molto gravi ci so­no state, ci sono adesso e purtroppo ci saranno in futuro, in ciascuno degli am­biti che ha ricordato. Nel complesso, di­rei che tali mancanze hanno a che fare con la testimonianza che i credenti han­no dato al Dio in cui crediamo».

In che modo?

«Quando il comportamento persona­le è tanto divergente da ciò che si do­vrebbe esprimere nella fede, c’è il ri­schio che ci sia un’illusione soggettiva. Una sorta di autoinganno. Devi essere coerente e credibile, nella vita, perché la tua testimonianza non appaia agli al­tri priva di peso, se tu stesso la smenti­sci. Allo stesso modo, del resto, uno può ritenersi non credente ma in realtà essere molto più vicino alla fede di quanto non pensi».

Che cosa può fare la Chiesa? Basta una riflessione colta di élite culturali?

«Non basta certo una riflessione in­tellettuale. La questione di Dio e della testimonianza da dare a Dio riguarda tutta la vita, non solo la cultura o l’intel­ligenza. Il nostro convegno è perciò un contributo molto parziale, ma anche molto utile nel momento storico che vi­viamo ».

Il problema principale non sono forse quelli che non pensano affatto?

«Quelli che non pensano e ignorano del tutto la questione di Dio e ogni gran­de domanda dell’esistenza sono senz’al­tro un grande problema per l’evangeliz­zazione. Mi chiedo peraltro se persone del genere esistano sul serio: davvero uno non si pone mai le grandi questio­ni? L’ateismo e l’agnosticismo diffusi nella nostra cultura sono un problema diverso ma non meno grande. Non pen­siamo sia residuale: la cultura ha un in­flusso sulla vita, prima o poi. Se la cultu­ra ti dice che Dio non c’è e tu vuoi cre­derci, vivi quantomeno una dissociazio­ne in te stesso».

Il Papa, in volo verso Praga, diceva che le «minoranze creative determina­no il futuro» e la Chiesa «deve com­prendersi come minoranza creativa». È il destino dei cristiani in Europa?

«È difficile e rischioso pronunciarsi sul futuro. Dipende dalla libertà di Dio e dalla libertà degli uomini. Ad ogni mo­do i cristiani, ma cristiani che siano dav­vero testimoni di Dio, sono sempre stati minoranza. E sì, possono essere mino­ranza creativa, come ha chiesto spesso Benedetto XVI».

Nel libro «Il caso serio di Dio» lei inizia dalla preghiera. Perché?

«Il mio ultimo piccolo libro è una rac­colta di quattro interventi da me fatti quest’anno e che ho ritenuto più signifi­cativi di altri. Quello sulla preghiera è per me il più importante perché riguar­da l’essenziale: è attraverso la preghiera che viviamo più consapevolmente il no­stro rapporto con Dio».

Nel libro parla di laicità. Grozio, nel Seicento, pose le basi dell’ordina­mento laico dello Stato con un’espres­sione memorabile: il diritto si basa sulla natura e sarebbe valido «etsi Deus non daretur», anche se Dio non ci fosse. Benedetto XVI, come il prede­cessore, propone al contrario che ci si orienti «veluti si Deus daretur», come se Dio ci fosse. Non è una negazione della laicità? Uno Stato dovrebbe legi­ferare «come se Dio ci fosse»?

«La laicità richiede distinzione e au­tonomia reciproca tra lo Stato e la Chie­sa, che non sono in pericolo, a mio pare­re. Ciò che la laicità non richiede è una posizione relativista fatta propria dallo Stato, in forza della quale la legislazione dovrebbe prescindere da ciò che noi sia­mo, da ogni riferimento alla realtà og­gettiva del nostro essere. In questo sen­so, il 'come se Dio ci fosse' non si oppo­ne all’'anche se Dio non ci fosse' di Gro­zio: piuttosto, è un modo di mantenerlo vivo nell’attuale situazione storica».

In che senso?

«Grozio, giustamente, riteneva che nel suo tempo la condivisione dell’ap­proccio culturale portato storicamente dal cristianesimo fosse comune. Da più di un secolo, però, tale presupposto è caduto. Il Novecento, a cominciare dai grandi totalitarismi, è la storia del rifiu­to progressivo di ciò che prima era co­munemente accettato. La situazione si è rovesciata, Benedetto XVI ne prende at­to e cerca di offrire una riposta anche culturale: per questo la sua proposta tro­va il favore di tanti intellettuali laici».

C’è chi magari sarà stupito: da de­cenni, eminenza, il suo nome è rego­larmente accostato al tema del rappor­to tra Chiesa e politica. Ora parla es­senzialmente di Dio.

«Per più di vent’anni, dal 1986 al 2008, ho avuto precise responsabilità nell’ambito della Chiesa italiana e ho cercato di onorarle. Dopo la 'pensione' ho potuto tornare ai temi cui mi dedica­vo prevalentemente prima di diventare vescovo: in particolare, allo studio e alla proposta delle ragioni della fede. È quel­lo che di nuovo cerco ora di fare, con piacere personale e anche un po’ di en­tusiasmo ».

Repubblica 2.12.09
A.A.A. Chiesa vendesi
Se il Vaticano vuole vendere le chiese senza fedeli
di Giancarlo Zizola

Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi. Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi. In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte. «Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano.

Cappelle, ex monasteri e canoniche di campagna. Viaggio tra gli edifici sacri abbandonati che il Vaticano vuol mettere all´asta

Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi. Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi. In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte. «Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano. «Strutture chiuse da tempo, inevase per difetto di partecipazione. Quasi mai hanno un valore artistico o urbano tale da giustificarne il ripristino. Non sono più un punto di riferimento, nemmeno per la comunità civile. Per cui l´alternativa che si pone è fra il loro abbattimento puro e semplice o il riuso civile, che non esclude funzioni spirituali, culturali e sociali».
Il caso di Guardia Piemontese potrebbe fare testo nel dibattito subito esploso dopo le dichiarazioni di Ravasi, specie per le spade roteanti dei guardiani leghisti della conservazione a ogni prezzo dell´antiquariato sacro per scongiurare eventuali aborriti meticciati religiosi con l´Islam. Ignorano forse che il Dio dell´Islam è lo stesso Dio dei cristiani e degli ebrei e dichiarano di preferire un night club ad una moschea in una ipotetica ex chiesa cattolica sconsacrata.
Che sia uno spazio in sfacelo, lo provano gli stucchi caduti dalla volta sul pavimento, i finestroni sbrecciati, le tre dita di polverume sull´altar maggiore. Un tempo erano le anziane del villaggio che si prendevano cura della chiesa, scendendo in processione nei loro costumi occitani a cantare il rosario e a confidare le loro pene alla statua della Vergine Addolorata. «Qui il prete non ci viene, il prete siamo noi» dicevano, riabilitando uno dei tratti laicali della riforma valdese in Calabria. Ma ora che la somma di secolarizzazione ed emigrazione ha dissolto la piccola comunità spontanea di cristiani di quel paese del sud in vista del Tirreno anche per quella chiesa è suonata la campana a morto.
Tuttavia perfino con la loro rovina queste mura potrebbero rivendicare un senso: testimoniare la ferocia con cui le truppe dell´Inquisizione massacrarono nel 1561 i contadini venuti con la loro eresia dalle valli piemontesi. La chiesa fu eretta subito dopo per imporre "l´unica vera fede". L´immenso convento dei domenicani là vicino è anch´esso in decomposizione. La strage fu tale che la Porta del paese si chiama "Porta del Sangue". Questa funzione vivente della memoria potrebbe dunque essere ritenuta sufficiente, secondo gli standard stabiliti dalla Commissione vaticana per la conservazione dei Beni Ecclesiastici, a preservare dallo sterminio la chiesa domenicana dell´Inquisizione in Calabria. Decisione che implicherebbe interventi di recupero, ripensamenti di funzioni museali-didattiche, programmazioni culturali, con costi difficilmente compensati dai flussi turistici in calo o dalle passioni ecumeniche raffreddate. Ma se aveva ragione Padre Davide Maria Turoldo a ricordare che sui frontoni di molte chiese cristiane la parola "Dio" è scritta col sangue e le guerre, quale chiesa non avrebbe valore storico sufficiente a salvarla dalla demolizione o dal mercato? Alcuni temono che a prevalere potrebbe essere l´interesse delle alte sfere ecclesiastiche a destituire un passato violento con un cambio negazionista della destinazione d´uso dei luoghi di culto per rimuovere le stragi, prima ancora di averne fatto mea culpa.
Questa storia di chiese inutili serve troppo da allegoria per la crisi del cattolicesimo istituito, come la cattedrale a cielo aperto di Andrej Tarkovskij in Nostalghia. Di fatto, dichiara formalmente che la Chiesa di Ratzinger rinuncia all´ipotesi di un recupero del terreno perduto, nella prospettiva di un cristianesimo di massa o di una "società cristiana". Calo della pratica religiosa, indebolimento istituzionale, travolgenti fattori di trasformazione dei vissuti collettivi hanno tagliato fuori per sempre alcune postazioni sacre, come vecchie stazioni ferroviarie su binari morti. La secolarizzazione si è abbattuta sul cattolicesimo e sul suo spazio sacro senza la furia distruttiva delle armate di Oliver Cromwell sulle abbazie irlandesi o gli incendi giacobini appiccati alle pievi cattoliche durante la Rivoluzione Francese. Ma la devastazione a dosi omeopatiche, consumistica, è stata non meno micidiale, e l´alleanza tra Chiesa e Mercato, contro cui Pier Paolo Pasolini aveva predicato nel deserto, presenta ora il conto: non solo il catasto delle chiese da vendere o rottamare, ma anzitutto la "chiesa superflua" analizzata da Heinrich Frics. «Ovunque la Chiesa è per i più qualcosa di cui si può fare a meno per la significatività del vissuto quotidiano» ha scritto il teologo tedesco, «L´erosione del legame attacca soprattutto la Chiesa istituzionale, col risultato che la fede diventa volatile e la Chiesa perde di riconoscimento sociale».
S´incontrano tuttavia dei vescovi che rifiutano di rovesciare qualsiasi responsabilità sul capro espiatorio della modernità o del laicismo. Claude Dagens, vescovo di Angouleme, chiama in causa la scarsa attuazione del modello di "Chiesa comunità" proposta dal Concilio Vaticano II e chiede di puntare sul "rifacimento interiore" della Chiesa, su una riorganizzazione istituzionale in cui la Chiesa faccia leva sui piccoli gruppi di preti e laici. Se la Chiesa ha continuato a farsi identificare con gerarchia e clero, era fatale che, venendo meno il clero in modo massiccio, non si trovassero preti sufficienti a gestire tutte le parrocchie. L´abbandono di alcuni campanili era il risultato matematico di un errore strategico. E´ il clericalismo che si morde la coda. Per deficit di partecipazione e di ruolo dei laici, le chiese sono state caricate quasi unicamente sulle spalle dei preti. Venendo meno i preti le chiese devono essere abbandonate al nulla. Il sacramento viene abbandonato e allora, piuttosto che lasciarlo nel deserto di una chiesa vuota, è preferibile trasferirlo ove ci sia il calore di una comunità.
In Francia sono corsi per primi ai ripari, sperimentando le assemblee domenicali senza prete. Il Vaticano si è affrettato a stroncarle rifiutando loro il diritto di consacrare l´eucarestia, di accettare che persone designate dalle comunità potessero assumere delle responsabilità direttive nella comunità.
Questa diaspora di chiese di pietra non è tuttavia così apocalittica o anomala come potrebbe sembrare a prima vista. Per alcuni indica che la Chiesa ammette di non poter più a lungo restare avvinghiata a una forma di vita istituzionale, la parrocchia residenziale, che data dall´era preindustriale, e di dover cercare di inculturarsi in forme istituzionali più flessibili e differenziate, provvisorie, accanto a quelle classiche nel territorio.
Della Pergola assicura che non si tratta che di "un´operazione di buon senso", che non è il caso di drammatizzare dando corpo ai fantasmi del passato. «Questa transizione dell´identità – dice – è una prerogativa specifica dell´identità fluida del cristianesimo in ogni secolo e ha accompagnato continuamente la storia degli edifici di culto, a Palermo ci sono sinagoghe divenute prima chiese cristiane, poi moschee, in Spagna a Cordova questi cambi di identità sono comuni. Il cristianesimo si è installato con l´assimilazione di sinagoghe prima e da templi pagani poi, divenuti chiese cattoliche».
In accordo con l´urbanista, anche l´arcivescovo Loris F. Capovilla che richiama l´invito di Papa Roncalli, quando era nunzio in Turchia, davanti alla scomparsa delle chiese antiche, numerose "come le stelle del cielo" nella terra dei primi Concili Ecumenici: «Non importa nulla. Venerare i luoghi anche se devastati, le memorie monumentali anche se rovine, ma non attaccarci a tutto ciò. Il regno di Gesù non è subordinato a ciò che nella stessa religione vera c´è di materiale, di esterno, di transitorio». «La dismissione di chiese» osserva l´ex segretario di Roncalli – «è una storia che data almeno dal dopoguerra. A Napoli come a Venezia ci sono chiese storiche trasformate in scuole o banche, uno dei licei scientifici di Venezia è il Santa Giustina, che ha sede nella omonima ex chiesa. Si conserva la facciata ma si cambia l´interno e la destinazione». Prima di disfarsi delle chiese spente, Capovilla sarebbe per l´affidamento a Confraternite laicali o a piccole comunità monastiche, come a Bose. In ogni caso egli raccomanda che le dismissioni siano accompagnate da strumenti giuridici che assicurino la destinazione pertinente dell´ex edificio sacro, vietandone utilizzi impropri. Nessuna preclusione all´uso dell´edificio di culto per riunioni di preghiera di altre religioni. Oppure per conferenze, dibattiti, esposizioni, concerti, per la bellezza, perché «si dovrebbe ricordare che ove è bellezza e verità, giustizia e bontà, ivi è Dio».

Repubblica 2.12.09
Il prelato e storico dell´arte sostiene che più che le mura contano i fedeli
"Bisogna fare attenzione che non diventino locali a luci rosse come accade all´Est"
di Orazio La Rocca

ROMA. Monsignor Verdon, sconsacrare e vendere un edificio sacro non è una sconfitta per la Chiesa? «Nessuna sconfitta. È solo realismo storico prevedere, là dove ci sono cambiamenti sociali, che una chiesa possa avere altre funzioni a causa di cambiamenti demografici, emigrazioni, che cambiano i volti di regioni, città, ma anche di piccoli quartieri». L´idea di sconsacrare e vendere vecchie chiese non scandalizza monsignor Timothy Verdon, 63 anni, storico dell´arte nativo del New Jersey (Usa), consultore della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa.
Monsignore, i cristiani non dovrebbero quindi sentirsi troppo legati all´architettura sacra?
«No, le chiese sono importanti. Ma su un piano strettamente teologico il rapporto che i cristiani devono avere con le chiese è del tutto differente, ad esempio, dalla totale sacralità che nell´Antico Testamento circondava il Tempio di Gerusalemme o che oggi, la Mecca è per i musulmani. La vera chiesa per i cristiani non sono le cattedrali o le basiliche come San Pietro, ma è la comunità di credenti in Cristo».
E tutto questo cosa c´entra con le vecchie chiese da vendere?
«C´entra perché i cristiani devono essere consapevoli che una chiesa può essere trasformata. Ma con grande prudenza, perché si tratta sempre di luoghi che hanno segnato la vita di generazioni di credenti con battesimi, matrimoni, funerali».
Anche lei, però, invita alla cautela.
«Certamente. È importante pensare sempre alle future destinazioni. Non fare, ad esempio, come nei paesi dell´Est, dove antichissime chiese vengono sconsacrate per farne palestre o locali a luci rosse. È bene che un edificio sacro sia riutilizzato per il bene del territorio facendone, magari, biblioteche, musei o anche locali per i riti di altre religioni».

martedì 1 dicembre 2009

Repubblica 30.11.09
Dopo il duro "j´accuse" di Ferrari
Perché si spara su Einaudi
di Alberto Asor Rosa

Se lo Struzzo ha esercitato un´egemonia culturale, occorre capirne la ragione Non esorcizzarla
La casa editrice è andata alla ricerca delle tendenze più d´avanguardia

Puntuale come un meccanismo ad orologeria arriva l´attacco alla Einaudi: una volta alla sua pervicace, quasi massonica pretesa di egemonismo; un´altra alla sua forsennata ambizione di governare il Partito (comunista, s´intende); un´altra alla sua cedevole disponibilità a farsene governare; un´altra ancora alle scelte presuntuosamente aristocratiche dei suoi redattori ed autori (gli uni e gli altri, il più delle volte, con un´insopportabile puzza sotto il naso). Questa volta l´attacco è mosso direttamente al suo fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi, appunto, responsabile, più che di aver creato la Casa editrice che ne porta ancora il nome (come sarebbe giusto), di averla disfatta. Strano: l´autore dell´attacco è una persona che conosco come seria e posata, Gian Arturo Ferrari, che per ragioni di età lascerà la carica di direttore della divisione libri della Mondadori ed ha assunto quella di presidente del Centro per il libro e la lettura, giustamente offertagli dal Ministro Bondi. Ma tant´è. Un colpo di vento può capitare a chiunque.
Nel merito si possono fare, sinteticamente, tre ordini di considerazioni. Il primo è: l´«egemonia culturale» è come il coraggio, chi non ce l´ha, non se la può dare. Se fra gli anni ´40 e i ´70 questa egemonia l´ha avuta indiscutibilmente la Einaudi, invece di esorcizzare bisognerebbe capire. Per carità: questo non significa che nel campo dell´editoria culturale in Italia nel medesimo periodo (o quasi) non ci sia stato altro. Basta fare i nomi, per giunta a me cari sia in passato sia oggi (e credo di averlo dimostrato) di Laterza e Feltrinelli, per rendersene conto. Ma è un´altra cosa. Egemonia culturale vuol dire praticare sistematicamente le strade che, insieme con il prodotto librario, percorrono le tendenze di ricerca più vive e più di avanguardia nel proprio paese e nel mondo. Questo ha fatto in Italia la Einaudi: andare alla ricerca delle tendenze culturali più vive e più di avanguardia, ospitarle e a sua volta alimentarle. Evidentemente è questa la colpa non irrilevante che le si rimprovera oggi, dove è dominante la rincorsa all´appiattimento e alla mediocrità.
Secondo: quando si attacca la Einaudi per l´uno o per l´altro dei motivi sopra ricordati, e per altri ancora, io provo sempre l´impressione che, al di là di quella sigla editoriale, s´attacchi il meccanismo culturale che essa ha largamente praticato e che in generale va oggi incontro a difficoltà d´ogni genere. Bisogna invece ribadire questo punto: l´editoria che guarda al grande mercato non può, non potrà mai svolgere le funzioni che svolge l´editoria culturale. Anche in questo caso, certo, le eccezioni non mancano. Una collana come "I Meridiani" è culturalmente ammirevole, ma è un´altra cosa. La ricerca delle nuove strade si è svolta necessariamente altrove: in Einaudi, appunto, e, come dicevo, altrove.
Terzo: la figura del fondatore ed eroe eponimo, Giulio Einaudi. Non mi verrebbe mai in mente di definirlo megalomane: se mai, eccezionale, uno che ha pensato in grande dall´inizio alla fine della sua vita. Se vogliamo esser precisi fino in fondo, anche sul piano storico, dovremmo dire infatti che le due «grandi opere», che per sua scelta caratterizzano il passaggio fra gli anni ´70 e gli ´80, e dunque preludono alla crisi, - e cioè la Storia d´Italia e l´ Enciclopedia, - sono andate incontro a riuscite economiche molto dissimili (ottime la Storia, molto mediocri l´Enciclopedia), senza che di ambedue si possa mettere in dubbio il carattere pionieristico e fondativo (sul quale, per richiamare l´attenzione in concreto sul nesso editore-intellettuali-ricerca, ebbero un ruolo di primaria importanza due studiosi del calibro di Corrado Vivanti e Ruggiero Romano). Osserverò di sfuggita che l´anno medesimo della Grande Crisi usciva il primo volume della Letteratura italiana, cui si possono attribuire molti difetti, ma non quello di non essere andata benissimo sul mercato, anche in tempi molto difficili. Forse a spiegare la Grande Crisi servirebbe di più richiamare la folle corsa al rialzo degli interessi bancari fra i ´70 e gli ´80 che non la megalomania egemonistica del fondatore.
Ma veniamo brevemente al presente. Che bisogno ci sarebbe di attaccare così veementemente la Einaudi del passato se la Einaudi di oggi fosse un cane morto da seppellire, una sorta di scheletro vuoto intorno al quale danzare il rito dell´addio? La mia tesi è che non è così, e questo è forse ciò che spiega la durezza e l´insistenza degli attacchi. Nella mia esperienza la Casa editrice, - voglio esser chiaro: tutta la Casa editrice, dagli Amministratori delegati nominati dalla proprietà, e forse vittime di un rapido processo d´innamoramento, allo staff redazionale ai tecnici, - si è battuta in questi anni per continuare quella tradizione: cioè per restare, - non trovo altro modo per dirlo, - nel solco scavato un tempo da Giulio Einaudi (con il necessario rispetto, ça va sans dire, del nuovo e dell´imprevisto). Ci riesce? Ci riesce sempre? Fino a che punto ci riesce? Questo sarebbe un discorso più serio: ma è quello che si fa continuamente nella Casa editrice, e accanto a lei. Ritorna il sospetto già manifestato: forse è questa la Giulio Einaudi editore che dà fastidio, non quella di trenta-cinquant´anni fa. Se è così, lo sapremo presto.

Repubblica 29.11.09
Il sogno egemonico
Il capo della Mondadori contro Einaudi "Travolto dalla sua megalomania"
Ferrari: l’editore torinese fallì per un progetto culturale insensato
di Michele Smargiassi

Aveva una visione egemonica: doveva dettare la linea al partito Negli anni Ottanta arrivò al delirio di onnipotenza

BOLOGNA - Il «naufragio» della casa editrice Einaudi negli anni Ottanta «non fu causato da ragioni gestionali», ma dalla «determinazione lucida e feroce» di Giulio Einaudi nel «perseguire un progetto grandioso, smisurato, megalomanico e forse insensato», un «progetto egemonico» che venne alla fine travolto dalla «catastrofica resurrezione dell´idea enciclopedica». Il severissimo giudizio è di un altro editore di spicco, Gian Arturo Ferrari, direttore della divisione libri della Mondadori ma anche, da poche settimane, nominato dal ministro Sandro Bondi presidente del Centro per il libro e la lettura, l´agenzia governativa che si occuperà della promozione della cultura scritta in Italia. Anche per questo l´attacco di insolita severità verso il fondatore della storica sigla editoriale (che attualmente fa parte proprio del portafoglio Mondadori) è stato letto da molti presenti come la dichiarazione politico-programmatica del nuovo grand commis culturale, più che come il risorgere di un´annosa polemica da terze pagine.
Si era in casa di un´altra nobile editrice: Il Mulino, che come ogni anno ha tenuto ieri a Bologna la sua annuale Lettura, in questa venticinquesima edizione eccezionalmente a tre voci: quelle del filosofo Remo Bodei, del sociologo e storico francese Marc Lazar e appunto di Ferrari, davanti a un parterre eccellente di docenti, politici e ovviamente di "mulinanti", tra cui l´ex premier Romano Prodi. Argomento della venticinquesima edizione, dedicata allo storico direttore del Mulino Giovanni Evangelisti scomparso un anno fa, lo stato di salute dell´editoria di cultura. Per Ferrari il libro di qualità, circa il 10 per cento del mercato editoriale, non è poi così in crisi come sembra, ma lo è (e a suo giudizio, fortunatamente) solo una certa idea del ruolo dell´editore come «figura hegeliana della cultura». Quella che ebbe in Einaudi, appunto, il suo archetipo, e nella sua avventura editoriale il modello tutto italiano di un rapporto fra libro e panorama politico-culturale dove l´editore «non è tale perché pubblica libri di cultura ma perché fa la cultura», cioè impone alla società intera la sua visione del mondo: «non casa editrice di partito, ma che detta la linea al partito», ovviamente il Pci; e neppure "university press" di tipo anglosassone, ma crogiolo di intellettuali di volta in volta gramsciani, francofortesi o strutturalisti, che indica costantemente all´università la linea culturale a cui «accodarsi».
Un «einaudismo» siffatto si scontrò però con quella che sullo stesso palco Marc Lazar ha appena descritto come il «fallimento dell´intellettuale comunista» e la crisi dell´«impegno» diretto al fianco della politica. Ma anziché tornare nell´alveo naturale dell´editoria di cultura, come faranno le eredi dirette o indirette dell´esperienza einaudiana, l´ambizione del patriarca torinese secondo Ferrari sale negli anni Ottanta ulteriormente di livello: è allora che la sua «vena megalomanica» si trasforma «in conclamato delirio di onnipotenza, nell´utopia di una rifondazione universale e comprensiva del sapere» guidata e concentrata in una sola esperienza editoriale: appunto, la «catastrofe» dell´Enciclopedia.

Repubblica 1.12.09
Vassalli, Vivanti, Davico Bonino rispondono a Ferrari
“Contro Einaudi accuse sbagliate”

TORINO. «Gian Arturo Ferrari è il mio padrone, ovviamente. Ma mi sembra di dovere difendere, a qualunque costo, la vecchia Einaudi. E dico: meno male che è esistita, che c´è stata». Sebastiano Vassalli ribatte in questo modo, più sul serio che sul faceto, alle affermazioni del direttore della divisione libri della Mondadori, e dell´Einaudi, a proposito della «vena megalomanica» di Giulio Einaudi e della sua pretesa volontà, fino agli anni Ottanta, di dare addirittura la linea al Partito comunista. «Non ci fu mai niente di questo genere. Giulio Einaudi forse fu un po´ megalomane. E la casa editrice magari troppo sovradimensionata. Ricordo che solo all´ufficio tecnico lavoravano diciotto o diciannove persone. Tanto che si arrivò al fallimento. Però si può comprendere: in un mondo editoriale come quello, ormai dominato dall´aziendalismo, Giulio rappresentava l´editore di stampo rinascimentale, l´ultimo a incarnare lo spirito del nostro Rinascimento». È quanto aggiunge lo scrittore genovese, che vuole sottolineare, con quella battuta iniziale, come Ferrari sia ancora il «padrone» dei suoi libri, tutti pubblicati dallo Struzzo.
Una casa editrice di cultura, in larga parte di sinistra, è chiaro. Tuttavia non la casa editrice che dà l´impronta ai comunisti. È quanto sostiene anche lo storico Corrado Vivanti, curatore insieme a Ruggiero Romano della monumentale Storia d´Italia einaudiana: «È davvero difficile immaginare un Norberto Bobbio o un Massimo Mila impegnati a dare la linea del Pci nelle riunioni del mercoledì! E poi posso ricordare, a questo proposito, un aneddoto che mi riguarda. Negli anni Settanta si diffuse la voce che io sarei diventato membro del comitato centrale del Pci. Roberto Cerati, oggi presidente onorario dell´Einaudi, lo venne a sapere e mi fece chiamare. Mi domandò se era vero. In questo caso, proseguì, avrei dovuto allora dimettermi dal comitato direttivo dell´Einaudi. Non era così».
Guido Davico Bonino entrò nel 1961, giovanissimo, nella casa editrice di via Biancamano, per sostituire Italo Calvino all´ufficio stampa. Oggi ricorda: «C´erano storici, studiosi e letterati come Franco Venturi, Luciano Gallino, Giorgio Manganelli, Carlo Carena. Non mi pare che fossero comunisti. Venturi, per esempio, che era stato addetto culturale presso l´ambasciata italiana a Mosca, era un acceso anticomunista e di sicuro non nascondeva le sue posizioni nel corso delle riunioni dell´Einaudi. E la stessa cosa, il fatto di non essere legati al Pci, si può dire per Gallino, per un anarcoide e un liberale dello stampo di Manganelli. Oppure per un cattolico praticante come Carena, il curatore della collana dei classici greci e latini, che aveva studiato nel collegio rosminiano di Domodossola».
Ferrari adesso attacca l´Einaudi. Eppure, rammenta Vassalli, «in un certo qual modo, è stato un po´ il continuatore della storia dello Struzzo», che, almeno fino a dicembre, presiederà. Si tratta di una contraddizione palese? Davico Bonino chiama in causa la «cattedrite», quella «sorta di sindrome che induce i professori universitari in via di pensionamento a parlare male dell´Università. Pure lui sta per lasciare e, guarda caso, ha avuto proprio ora un rigurgito di rigore pedagogico o aziendalista». Megalomania di re Giulio? Libri per pochi? Davico Bonino è categorico: «Come ha scritto di recente Carlo Carena, riportando una massima di Thomas Fuller, "la cultura ha guadagnato più di tutto dai libri con cui gli stampatori hanno perso"».

l’Unità 1.12.09
I carcerieri di Dürrentatt
di Beppe Sebaste

Claustrofobia è un concetto che si usa poco in politica, eppure è proprio questo che provocano i regimi chiusi e totalitari, a diversi gradi del loro insediamento. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: chiusura, appunto, omogeneizzazione, ripiegamento sulla propria identità; identità che, a diversi livelli di fascistizzazione, si basa sulla comunanza del suolo oppure del sangue. L’appartenenza religiosa ha pure un ruolo importante in questa marca di identità. In Svizzera, storicamente terra d’asilo e di rifugiati politici e religiosi, dove un referendum populista ha proibito l’edificazione di minareti, nel 1990 il grande Friedrich Dürrenmatt pronunciò un discorso d’indimenticabile e feroce ironia contro la politica claustrofobizzante del suo Paese. Descrisse la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, «per dimostrare la propria libertà». In tale prigione, disse, «gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti». Vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Dürrenmatt: «C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri». Le sue parole valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale «Popolo delle libertà», guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la ma claustrofobia sta superando il livello di guardia.❖

l’Unità 1.12.09
La croce e la Lega
E adesso un babà sulla bandiera
di Jean-Léonard Touadi

Nel nostro paese i politici cambiano idea con grande facilità: tra i casi di trasformismo quello dei dirigenti leghisti occupa i primissimi posti. I figli del Dio Po, votati ad ogni sorta di neopaganesimo, da un po’ di tempo si sono proclamati massimi esponenti dell’integrità cristiana. In linea con questa conversione, proprio ieri Castelli ha lanciato l’idea di piazzare una bella croce al centro della bandiera italiana.
Che dire, una proposta fantasiosa che però rischia di comprimere l’anima federalista della Lega, pertanto, consentirei alle diverse realtà territoriali di affiancare la croce ad altri simboli locali: ad esempio i veneziani potrebbero metterci una gondola, i napoletani un babà, i romani il Colosseo, i siciliani uno scacciapensieri? Immagino che Castelli sarà saltato sulla sedia quando domenica scorsa un rappresentante di quel mondo eversivo, perché solidale verso gli stranieri, ha addirittura affermato che anche Cristo era un migrante! Certamente il Viceministro accuserà questo signore di eresia e tradimento dei principi della Santa Romana Chiesa in salsa leghista. Inviterei Castelli a contattare il suo collega Maroni, affinchè quest’ultimo emani entro il 25 dicembre una circolare diretta ai Prefetti per verificare la cittadinanza di quelli che interpreteranno Gesù nei presepi viventi.
Le idee leghiste in quanto a fedeltà ai principi del cristianesimo sono direttamente proporzionali alla fedeltà di Giuda in occasione dell’Ultima Cena. L’inquietante idea di considerare lo straniero come nemico da respingere è totalmente opposta a quella espressa nel Nuovo Testamento ove Cristo afferma: «ero forestiero e mi avete ospitato». Nell’ultima settimana i leghisti hanno promosso diverse campagne mediatiche dichiaratamente discriminatorie, penso all’iniziativa «Bianco Natale» e all’emendamento sul limite di sei mesi alla cassa integrazione per i migranti, ora Castelli, con la sua proposta, corona questo crescendo di «stronzate» (giudizio analogicamente desumibile dalle parole del nostro Presidente Fini). Invito Castelli a pregare molto, senza dimenticare che il sacrificio di Cristo non ha bandiera e per un vero cristiano vale per tutti gli uomini indipendentemente dal loro credo. Cristo in croce parla a tutta l’umanità, è il segno d’amore di Dio per tutti.
Infine mi rivolgo alla mia parte politica: dobbiamo riprendere in mano la questione immigrazione che finora si sta articolando in un dibattito tutto interno alla maggioranza e che trova da parte nostra risposte incerte e frammentarie. Abbiamo bisogno di elaborare una nostra narrazione sull’immigrazione, con contenuti simbolici da accreditare nell’immaginario collettivo del nostro paese. ❖

l’Unità 1.12.09
Musulmani di seconda generazione: a Torino si discute su come favorirne l’integrazione
La scommessa dei figli Riuscire a essere moderni senza rinunciare alla propria tradizione
Il coraggio di essere diversi: la sfida dei ragazzi 2G
Come favorire l’integrazione dei musulmani di seconda generazione è il tema di un convegno che si tiene oggi e domani a Milano. L’islamista Paolo Branca ci racconta quali sono le sfide dei ragazzi 2G.
di Paolo Branca

La seconda generazione di giovani musulmani, nati in Italia o arrivatici in tenera età, non si trovano nella stessa situazione dei loro genitori da nessun punto di vista. Lingua e cultura d’origine sono per loro essenzialmente quelle del Paese in cui sono nati, cresciuti e andati a scuola. Anche se in casa e coi parenti rimasti nella terra d’origine parla-
no arabo, l’italiano è l’idioma che conoscono meglio, che approfondiscono e sviluppano nel percorso educativo e del quale si fanno interpeti in varie occasioni verso madri troppo confinate nel ruolo domestico e addirittura rispetto ai padri che ancora sbagliano qualche pronuncia o coniugazione. La cultura, essendo codificata assai meno rigidamente della grammatica, è un campo di mediazione molto più ampio e variabile. In fondo, ogni famiglia anche italiana, ha propri riti, abitudini, persino tabù propri che i piccoli imparano ad accogliere come un dato di fatto, poco problematico proprio perché condiviso nel ristretto gruppo casalingo, dove il mutuo affetto incide in modo decisivo sull’accettazione reciproca. La religione, specie nelle sue manifestazioni esterne, visibili agli altri e rico-
noscibili, diventa presto per loro qualcosa su cui decidere: una scelta personale, cosa che nel paese originario della famiglia non sarebbe accaduta in quanto essere musulmani è là la condizione normale della maggioranza, per cui ci si può considerare tali per tradizione e/o abitudine. Non è una differenza da poco.
INDIVIDUO E GRUPPO
Anzi, dato il carattere tradizionalista delle società originarie sono proprio le articolazioni e le gerarchie tra individuo e gruppo a rappresentare il punto di maggior distinzione rispetto a un contesto laico, secolarizzato e moderno. Quest’ultimo, pur essendo nello stesso Occidente qualcosa di relativamente recente, è ormai a tal punto consolidato da aver profondamente trasformato concetti quali «autorità» e «obbedienza» e forse definitivamente archiviato pratiche conformistiche dipendenti da quello che la gente potrebbe pensare nel caso le sue scelte fossero parzialmente o totalmente in dissonanza da quelle altrui. Non tutti e non sempre colgono l’occasione o accettano la sfida. L’opzione di rimanere ancorati a regole e usi del mondo da cui si proviene e al quale si vuol restare fedeli può anche condurre a concepirsi e porsi come alternativi o antagonisti rispetto al contesto. Ma, inevitabilmente, sarà ancora una volta qualcosa da ridecidere e riaffermare ogni volta soprattutto in quanto individui, salvo casi estremi e molto rari di autoconfinamento totale all’interno di gruppi autoreferenziali. Non si può tuttavia negare che, con il pretesto del rispetto della loro diversita culturale e religiosa, alcuni adulti pretendono non solo di continuare a vivere come se fossero nel villaggio natio, ma addirittura di polemizzare su cose che in patria avrebbero accettato senza discutere. Qualche papà si rifiuta di parlare con insegnanti donne, relega la propria moglie a svolgere compiti domestici impedendole di uscire e di imparare la lingua locale che l’aiuterebbe invece ad occuparsi meglio dell’educazione e della salute dei figli. Ciò rischia in qualche caso di favorire nei giovani una sorta di doppia morale, in casa formalmente rispettosa di tradizioni ataviche mai messe in discussione, fuori varie forme di compromesso delle quali quelle assimilazioniste non sono sempre necessariamente migliori di quelle conservatrici: portarsi nella borsa abiti con cui cambiarsi appena fuori dalla portata dello sguardo paterno può preludere a esiti peggiori che un velo autonomamente indossato, per convinzione o per far piacere ai genitori. Anzi, in questo caso, dover affrontare le non poche riserve dei coetanei e dell’ambiente in un’età delicata dove prevale lo spirito del branco e l’acritico uniformarsi all’ultima moda può perfino produrre effetti positivi sulla formazione di un carattere indipendente più di qualsiasi microgonna portata con disinvoltura. Il coraggio di essere diversi, diversi davvero e per questo magari dileggiati, accettare di essere minoranza non è cosa da poco: tingersi i capelli di verde, mettersi un piercing o tatuarsi come un aborigeno è in fondo molto più semplice. Nella maggioranza dei casi, di volta in volta e in base al contesto, una continua mediazione viene operata con successo, benché senza escludere qualche scossone che fa parte del naturale «conflitto» generazionale. Riuscire ad essere ragazze e ragazzi moderni, spigliati e persino alla moda senza rinnegare valori e credenze tradizionali è una sfida quotidiana e silenziosa che molti affrontano e superano nella totale indifferenza della società circostante e soprattutto dei media. Eppure è una notizia di non poco conto, oltre che l’unica vera alternativa ai rari ma drammatici casi che sfociano in tragedia, come accade anche a famiglie «nostrane» quando sono lasciate sole.❖

Repubblica 1.12.09
Se l´Islam fa paura agli ignoranti
Tahar Ben Jelloun

La democrazia diretta, praticata nella Confederazione elvetica, è a volte fonte di aberrazioni. È accaduto domenica: il referendum contro i minareti ha ottenuto più del 57 per cento dei sì.
Che cosa vuol dire? Che si accolgono volentieri i musulmani in territorio svizzero, purché si rendano invisibili, discreti fino a scomparire dal paesaggio. E rinuncino a erigere qualsiasi segno o simbolo che ostenti la loro presenza.
Vuol dire che l´islam continua a far paura. E che questa diffidenza, questa fobia è basata sull´ignoranza. I manifesti diffusi dai fautori della campagna referendaria sono abbastanza eloquenti: raffigurano minareti neri a forma di missili, piantati su una bandiera svizzera accanto a una donna in burqa. Per quanto si sia detto e ripetuto che il burqa - usanza di certe tribù afgane o pachistane - non ha nulla a che vedere con l´islam e non è mai menzionato nei suoi testi, c´è sempre chi continua a confonderlo con una religione.
Quel manifesto è al limite del razzismo: suggerisce idee e minacce che il buon cittadino percepisce come un avvertimento. Quanto al voto, non risolverà nulla, ma al contrario non farà che accentuare i contrasti tra la comunità musulmana, diversa e simile, e gli elvetici.
Sopprimere i minareti vuol dire attaccare un simbolo che è il segno di una presenza, e non ha in sé nulla di aggressivo, né di politico. E in nessun caso incide sui «diritti fondamentali in Svizzera», secondo quanto afferma il partito della destra populista.
Come ha detto alla televisione francese una giovane musulmana: ieri il velo, oggi il burqa, ed ecco anche il minareto! È vero che il disagio esiste: l´islam, anche quello pacifico - peraltro maggioritario - continua a dar fastidio. Meglio allora riprendere i testi e non ascoltare i falsificatori, i provocatori che utilizzano il dogma per istigare all´odio tra i popoli.
Con quest´attacco ai minareti, la Svizzera prende di mira il simbolo di una religione che vorrebbe far scomparire dal proprio contesto. Ma il referendum, lungi dal raggiungere il suo scopo, non fa che esacerbare le passioni, anche al di là dei confini elvetici. In Francia, il Fronte nazionale ha applaudito all´esito del voto e si augura di poter esercitare un giorno questa forma di democrazia diretta e popolare per esprimere il rifiuto dell´islam in Francia.
Dello stesso ordine è il dibattito italiano sul crocifisso nelle scuole: un simbolo che non fa male a nessuno, ma nel momento in cui si vuole caricarlo di altri messaggi tutto si complica e si politicizza. Come nel caso del dibattito francese sull´«identità nazionale», che arriverà anche in Italia. Questa questione dell´identità si pone dal momento in cui si avverte un cambiamento nei colori e nelle componenti del paesaggio umano di un dato Paese. È una questione che riguarda tutta l´Europa, perché dovunque l´immigrazione è una realtà, e i figli degli immigrati sono europei, talora musulmani ma anche animisti o senza religione. Bisogna pure accettarla, questa realtà. Non serve a nulla organizzare votazioni per eliminarla dal paesaggio o correggerla. Evidentemente, la convivenza è qualcosa che si impara. E questo è possibile solo nel rispetto reciproco, che è anche rispetto delle leggi e del diritto.
Infine, un ultimo punto: gli immigrati e i loro figli non se ne andranno. Fanno parte della storia europea. Sono persone che hanno bisogno della propria cultura, del proprio culto, come qualunque cittadino di accertate origini europee.
Traduzione di Elisabetta Horvat

l’Unità 1.12.09
Crescono continuamente le adesioni in rete, per il 5 si pensa a una grande piazza: San Giovanni
I promotori: «Interventi e percorso, decideremo da soli». E per il dopo si punta a un’associazione
No B Day: già 350mila sì «Sarà tutto autogestito»
Conto alla rovescia in vista del 5 dicembre, «la più grande manifestazione autoconvocata degli ultimi anni». Si definiscono i dettagli logistici, dal percorso al palco, e si pensa anche a ciò che bisogna fare dopo.
di Francesco Costa

«Stiamo facendo in venticinque giorni quello che un partito solitamente fa in sei mesi». Lo dice Alessandro Toffu, responsabile dell'organizzazione della manifestazione del 5 dicembre, e a passare qualche minuto con lui non si fa fatica a credergli: «Le mie giornate durano venti ore», dice, e sono un susseguirsi infinito di riunioni, telefonate, email, conference call e appuntamenti.
CONTO ALLA ROVESCIA
Si vanno definendo, infatti, gli ultimi dettagli in vista di sabato prossimo. Nessuno degli organizzatori vuol sentir parlare di ingerenze da parte delle associazioni e dei partiti. «Siamo noi ad avere la regia del No B. Day», dice Toffu, «siamo noi a decidere il percorso del corteo, siamo noi a decidere chi parlera dal palco». Il programma della manifestazione non è stato ancora diffuso ufficialmente, ma è praticamente certo che gli unici a prendere la parola saranno «persone comuni», studenti, ricercatori, operai, impiegati: nessun personaggio politico, nessuna personalità politicamente «ingombrante». Il numero degli aderenti, intanto, cresce di giorno in giorno. I fan della pagina su Facebook sono già 350mila e si attende una partecipazione così alta che gli organizzatori starebbero pensando di rivedere il percorso del corteo e concludere la manifestazione in piazza San Giovanni invece che in piazza del Popolo, così come era stato inizialmente stabilito.
FLASH MOB
Da qui al 5 dicembre, poi, gli organizzatori metteranno in piedi una serie di azioni dimostrative allo scopo di promuovere la manifestazione. Un assaggio è andato in scena ieri pomeriggio nel centro di Roma, quando una ventina di persone si sono radunate in largo Goldoni è hanno cominciato gridare «Chi non salta Berlusconi è». Oggi, intanto, un presidio davanti alla sede Rai di viale Mazzini chiederà ai direttori dei tg di «raccontare agli italiani la storia di quella rete di perfetti sconosciuti capaci di mettere in piedi in meno di due mesi un evento di rilevanza nazionale».
L’ASSOCIAZIONE
Intanto è stata costituita un'associazione, di cui lo stesso Alessandro Toffu è il presidente. «Serve a tutelare le persone che altrimenti avrebbero dovuto farsi carico individualmente della responsabilità nei confronti della questura, ma servirà anche dopo il 5 dicembre». L'intenzione dei promotori è infatti non disperdere questo patrimonio di forze e creare un soggetto che abbia le gambe per camminare anche a manifestazione conclusa. «Passato il No B. Day faremo un'assemblea, ci siederemo attorno a un tavolo e discuteremo del da farsi». La ragione sociale non cambierà: «Chiedere al premier di farsi da parte, e chiedere che con lui si faccia da parte chi calpesta gli interessi delle persone a vantaggio dei propri. Il berlusconismo, insomma». Insomma. ❖

l’Unità 1.12.09
«Niente contro i partiti. E siamo dalla parte di Napolitano»

Diversi giornali hanno scritto che la manifestazione del 5 dicembre è stata organizzata «dalla rete», ma dietro la rete ci sono naturalmente delle persone. Tu chi sei?
«Mi chiamo Alessandro Toffu, ho 31 anni e faccio il tecnico informatico. Vivo a Roma dal 2006. Non ho esperienza politica alle spalle, solo un po’ di volontariato nella croce rossa».
Cosa pensi dei partiti politici? Un’altra cosa che si dice molto è che quella del 5 dicembre è una manifestazione antipolitica...
«Nulla contro i partiti: avere la tessera di un partito è un gesto civico di partecipazione alla vita della società. Certo, non si può dire lo stesso di tutti partiti, vedi i partiti personali che hanno dilagato negli ultimi quindici anni».
Andare in piazza può essere un utile sfogo, ma servirà a indebolire il premier e togliergli consensi? «La nostra manifestazione è una protesta, la protesta delle persone che non ce la fanno più. La politica ha il compito di trasformare questa protesta in proposte concrete per creare un’alternativa».
Chi parlerà dal palco? Qualcuno teme gli ormai classici attacchi al Presidente della Repubblica... «Dal palco parleranno persone comuni, niente vip. E il Presidente Napolitano è il massimo rappresentante della Costituzione, che noi intendiamo difendere».
FRA. CO.

l’Unità 1.12.09
«La gente è esasperata
Intervista a Dario Fo
è un segnale per la sinistra»
Il Premio Nobel: «Berlusconi pensa ai suoi processi anziché a governare l’Italia Non siamo più la patria del Rinascimento: il nostro sputtanamento è totale»
intervista di Federica Fantozzi

Il Pd. «Ha sbagliato a non aderire e dovrà tenere conto della giornata di sabato. Non è tempo di compromessi né di usare l’astuzia»

Dario Fo è uno dei testimonial, insieme a sua moglie Franca Rame, della manifestazione «No B Day» di
sabato 5.
Sarà in piazza sabato?
«Io e Franca ci saremo senz’altro. Faremo questo viaggio Milano-Roma e ritorno in giornata perché, nonostante i tanti impegni, lo crediamo importante».
Quali motivi vi hanno convinto ad aderire? «La ragione è chiara. Viviamo un momento difficile. C’è molta confusione, agitata per creare un clima di rissa».
Si riferisce all’alta tensione sulla giustizia? «Quello è il fatto più rilevante. Ma dietro ci sono problemi di crisi economica, lavoro, licenziamenti, mancanza di prospettive e, direi, di speranza. C’è un governo che si interessa solo di salvare Berlusconi dai processi anziché gestire un Paese».
È normale un Parlamento che da mesi discute, apertamente e quasi esclusivamente, di processi brevi e prescrizioni allargate?
«Lo fa perché al premier piovono addosso processi. Lui si lamenta come se fossero organizzati dai giudici, mentre ha commesso molti atti che li originano. Non è che la magistratura lo abbia incastrato: ci sono 10mila motivi per aprire inchieste a suo carico. E ogni giorno saltano fuori nuove furberie. Del resto, uno
che vive con una trentina di avvocati, molti dei quali parlamentari, non è un collezionista: prevede quello che gli capiterà».
C’è chi obietta che il «No B Day» è una manifestazione contro qualcuno. «È contro un sistema di governare l’Italia. Da questo clima non si vede via d’uscita. Noi viaggiamo spesso all’estero e siamo imbarazzati dalle domande che ci rivolgono nei dibattiti. Siamo stati in Danimarca: appena si nomina Berlusconi si sentono sghignazzi terribili. Si è creata un’idea dell’Italia davvero orrenda».
Il premier le direbbe che è lei facendo queste osservazioni a essere anti-italiano... «C’è poco da fare. La nostra non è più la patria del Rinascimento, dell’Umanesimo, degli straordinari movimenti culturali che hanno determinato la fama dell’Italia. Ora lo sputtanamento è totale».
Secondo lei, se la manifestazione avrà successo, potrà influenzare questa atmosfera politica o rimarrà comunque una protesta fine a se stessa?
«Dipende. Ci sono state manifestazioni che hanno addirittura segnato un periodo storico poiché si è assistito a un risveglio politico e culturale».
Le sembra che in questo momento storico ci siano le condizioni? «Eh, sarebbe un segnale molto importante per la sinistra. Se la manifestazione riuscirà, il Pd dovrà prenderne atto. Se non lo farà e andrà avanti con il suo programma come nulla fosse commetterà un errore politico molto grave».
Se ne deduce che, secondo lei, avrebbe dovuto aderire all’iniziativa? «Sì, già la mancata adesione è stata un errore. Si pensa di risolvere le cose con abilità, astuzia. Ma non è il tempo nè il luogo per compromessi. Il Pd ha la preoccupazione di non spaventare la gente, ma la gente è già spaventata dal clima che sente intorno».
Questa giornata è cresciuta con il passaparola. Significa che gli italiani hanno voglia di esprimersi in piazza?
«Nonostante un sistema dei media controllato da Berlusconi, la gente si è svegliata dallo stordimento. È al limite della sopportazione. Qui alla periferia di Milano occupano le fabbriche: dire che sono disperati è dire niente. E se porti le persone alla disperazione, devi aspettarti reazioni non controllate».
Di che genere?
«Dico che bisogna evitare i moti di rabbia di un popolo. Il governo dice che non c’è la crisi, non c’è la mafia. Ma queste cose c’è chi le prova sulla propria pelle tutti i giorni».
Il colore della manifestazione è il viola. Lei lo indosserà? «No. Per noi del teatro il viola non porta bene: se entri in scena così, gridano. Io odio queste manie, ma proprio per questo non mi interessa portare un colore come riconoscimento».❖

l’Unità 1.12.09
Pubblicati i diari segreti di Claretta Petacci. Emergono particolari inediti sul maschilismo del Duce
MUSSOLINI ERA RAZZISTA
DAL 1921
di Nicola Tranfaglia

L ’Italia, dopo la sua tardiva unificazione nazionale, ha avuto (possiamo dirlo con sicurezza, almeno fino a questo momento) un solo dittatore ed è stato il romagnolo Benito Mussolini. Certo uomini politici dell’età libe-
rale, come Crispi e Giolitti, hanno dominato per alcuni anni l’orizzonte politico nazionale ma non si può parlare di dittatori, nell’uno come nell’altro caso.
L’unico che ha fissato la sua egemonia personale in maniera stabile, per più di vent’anni, abrogando di fatto lo Statuto Albertino e chiudendo parlamento, sindacati e giornali di opposizione, è stato Mussolini.
Di qui il grande mito nato nell’immaginario collettivo degli italiani, le numerose biografie che sono state scritte, nonché l’esaltazione smisurata che anche uomini che venivano dalla sinistra hanno coltivato del capo supremo del regime e del partito unico, fondato per sostenerlo. Ora, a distanza di 70 anni dalla catastrofe del regime fascista nell’aprile 1945, vengono pubblicati presso Rizzoli i Diari 1932-38 (a cura di Mauro Suttora, Mussolini segreto, pp. 522.euro 21) di Claretta Petacci che di Mussolini fu la giovanissima (20 anni nel 1932) e poco segreta amante per tutti gli anni trenta e quaranta fino alla morte per fucilazione con il suo uomo presso Dongo. Sono diari conservati prima nel giardino della villa della contessa Rina Cervis, poi nel 1950 confiscati dai carabinieri e conservati nell’Archivio Centrale dello Stato, con il vincolo del segreto di Stato. Soltanto quest’anno sono stati resi accessibili ai ricercatori fino al fatidico anno 1938. Ma quale è l’aspetto più interessante dei Diari emersi dopo tanto tempo dai nostri archivi? Ce ne sono almeno due che guidano il lettore interessato al passato del nostro paese, ai suoi costumi, alla sua cultura, a personaggi (parlo di Mussolini anzitutto) che hanno contato per molto tempo nella mentalità media degli italiani. Il primo aspetto evidente è la disparità tra l’uomo e la donna che emerge con grande evidenza nelle pagine di Claretta Petacci. I due amanti sono molto gelosi l’uno dell’altra ma c’è una differenza fondamentale: Mussolini fa di continuo “scappatelle” con altre donne (la ex favorita del Duce Romilda Ruspi Mingardi che alloggia addirittura a villa Torlonia dove il suo amante vive con la moglie Rachele e i figli ma anche altre amanti del passato che ogni tanto tornano da lui e lo sollecitano a riprendere il rapporto); Claretta, invece, non ha altre avventure ma viene di continuo sospettata da Benito e minacciata di essere lasciata per sempre.
Emerge con chiarezza il diverso significato dei tradimenti di lui e di quelli, peraltro inesistenti, di lei: Claretta lo rimprovera e si arrabbia per le “scappatelle” ma non pensa mai di lasciarlo. E lo stesso Mussolini si scusa, chiede perdono ma in più occasioni dice che non ha potuto far diversamente. Come se alle donne fosse possibile e richiesto di non lasciarsi andare ad altri amori e lo stesso non dovesse valere per gli uomini.
Mi viene in mente di fronte a queste pagine dei Diari una delle prime sentenze della Corte Costituzionale, appena dopo il suo tardivo insediamento a metà degli anni cinquanta, quando i giudici, dovendo stabilire, su richiesta di un tribunale, se la norma del codice penale che fissava un diverso trattamento per l’adulterio se compiuto dall’uomo rispetto a quello compiuto dalla donna, si arrampicavano sugli specchi per differenziare i due adulteri invocando l’allarme sociale.
L’intento era quello di salvare la norma del codice Rocco e non dichiararla incostituzionale, malgrado il contrasto evidente con l’articolo 3 della Carta sull’eguaglianza dei cittadini di fronte ad ogni differenza. Dovettero passare alcuni anni prima che la Corte riconoscesse quella incostituzionalità.
L’altro elemento che emerge con chiarezza dai Diari riguarda le posizioni politiche e culturali che assume Mussolini nel dialogo quasi quotidiano con la giovane amante. L’aspetto più interessante riguarda l’atteggiamento del dittatore rispetto al razzismo che appare, moderato, nei primi anni nel regime e frutto piuttosto del fanatismo di alcuni personaggi come Preziosi e Interlandi ma diventa nella seconda metà degli anni trenta la dottrina ufficiale sancita da leggi apposite e persino più precoci di quelle naziste nell’autunno 1938. «Ero razzista dal 1921. Non so come possano pensare che imito Hitler, non era ancora nato. Mi fanno ridere. La razza deve essere difesa».(4 agosto 1938). Simili affermazioni contrastano, evidentemente, con quella visione storica di cui Renzo De Felice è stato iniziatore e caposcuola, che dipinge il razzismo fascista come subalterno e di qualità diversa, culturale piuttosto che biologica, rispetto a quello nazionalsocialista costitutivo dell’ideologia tedesca. ❖

l’Unità 1.12.09
Intervista a Michele Emiliano
«Non mi candido e resto sindaco ma a Nichi dico: fatti da parte»
Il primo cittadino di Bari si chiama fuori dalla corsa alla Regione: «Ma con Vendola perdiamo di sicuro e non è che amministrare gli sia riuscito così bene...
La scissione non gli ha giovato: è un governatore senza partito»
di Andrea Carugati

Il consiglio
«Faccia il nome del candidato, e si liberi da un ruolo che gli pesa. La scissione non gli ha giovato: è un governatore senza partito»
Il cambio di stagione
«La Primavera del 2005 è finita, bisogna capirlo e voltare pagina
D’Alema? Se Casini dava l’ok sosteneva Vendola»

Leggere l’intervista di Nichi Vendola all’Unità mi ha spezzato il cuore, ma come si fa a lanciare delle invettive contro di me, a dire che sto cospirando? Io non sono candidato a niente e resterò a fare il sindaco di Bari, ma se candidiamo Nichi alla Regione senza Udc e senza Idv perdiamo 60 a 40». Michele Emiliano, come sempre, è un fiume in piena. E all’« amico Nichi» manda a dire: «Faccia lui il nome del candidato, così sarebbe liberato da un ruolo che, a mio parere, gli pesa, amministrare non è la cosa che gli riesce meglio. Lui è pronto per essere uno dei leader del nuovo centrosinistra nazionale, è un profeta del futuro, non un amministratore. E un po’ lo si è visto...».
Che fa? Si mette a criticare il suo governatore? «Nei due anni in cui è stato invischiato nelle vicende del Prc la giunta si è smarrita. La scissione è stata un errore gravissimo, adesso è un presidente senza partito. Ma se vuole rifondare la sinistra italiana come fa a fare il governatore della Puglia?
Sinistra e libertà non sta funzionando molto... «È vero, ma non è che uno può “compensare” con la Regione perché il progetto non cammina...». Sembra che lei si stia preparando alle primarie contro Vendola... «Macché. Io voglio promuoverlo a leader del centrosinistra nel Mezzogiorno».
Già, ma se Vendola il nome del successore non lo fa? «Scatta l’emergenza, può succedere di tutto. Persino che vengano a bussare alla mia porta...».
Ecco, allora siete in competizione. Ha ragione Vendola a pensare che lei voglia fargli le scarpe... «Entrambi facciamo un mestiere, la nostra non è una missione salvifica. Il nostro lavoro non consente posizioni personali. Nessuno è indispensabile, in nessun ruolo. Io mi sono candidato al congresso del Pd qui in Puglia per spostare il partito al centro e magari fare a meno dell’Udc. Ma ho perso. E poi lo stesso Vendola ha ammesso che la relazione con l’Udc è indispensabile. Ma Casini teme che Nichi non sia compreso dal loro elettorato. Noi abbiamo opposto una resistenza strenua, ma Casini non recede». Dunque deve recedere il presidente in carica?
«C’è un problema di cui dobbiamo farci carico tutti, compreso Nichi.
Eppure lui non ha fatto neanche una riunione per “cucire” una nuova coalizione. E sta chiuso nell’idea salvifica della sua candidatura, mentre noi saremmo quelli che inciuciano per vendersi l’acquedotto. Sta tornando indietro di 10 anni, è un peccato. Aveva fatto un percorso straordinario, fuori dal comunismo, verso una sinistra riformista...Torna indietro perché pensa di fare o meno dell’Udc o è solo una questione personale? Se è solo la conservazione di un micro-sistema di potere io non ci sto. Non sostengo una battaglia personale, e pure perdente». Insomma, le carte le dà l’Udc...
«Non è più il 2005: allora avevamo 5 province del centrosinistra, oggi solo 2, di una governata da un presidente Udc. Se consentiamo a loro e alla Poli Bortone di rinsaldare l’asse col Pdl, non solo perdiamo, ma ne esce distrutto per primo Nichi. E io sarei il sindaco di Bari asserragliato come Allende nella Moneda, circondato ovunque da truppe del centrodestra. Mi dovrei comprare il mitra e l’elmetto... ».
Per uscire dall’accerchiamento pensa di trasferirsi in Regione? «Ma perché mai? Il sindaco di Bari è un ruolo importante tanto quanto il presidente della Regione, quale interesse avrei? Io sto cercando di salvaguardare il centrosinistra in Puglia, e anche la figura politica di Nichi: se lo seguiamo, e perdiamo, cosa ne sarà di lui? Non possiamo farci prendere dalle emozioni, dal passato. Se fosse per me io farei ancora giocare Zoff e Cabrini...».
Ma Vendola non pensa di essere un grande del passato... «È superato dallo snodo dell’alleanza necessaria con l’Udc. Lui era la primavera pugliese, ma quella stagione si è esaurita per volontà degli elettori».
Non potreste tentare di riagganciare almeno l’Idv? «I rapporti tra loro e Nichi si sono deteriorati, gli ha “portato via” l’unico consigliere regionale, non li ha mai messi in giunta...». Lei spesso ha criticato D’Alema e i dalemiani in Puglia. Stavolta sembrate molto in sintonia...
«È vero, sono stato l’unico avversario trasparente di D’Alema in Puglia. Per questo posso garantire che Massimo, se Udc e Idv fossero stati d’accordo, avrebbe già dato l’ok alla ricandidatura di Vendola. Ma per vincere ci vuole un’alleanza nuova, e Vendola oggi non è in grado di interpretarla».
Il governatore non è d’accordo.
«Non condivido il giudizio di Casini, ma devo prenderne atto». Perché non fate le primarie? «Lo escludo categoricamente. Le primarie si fanno dentro una coalizione consolidata, stavolta la dobbiamo costruire...lo dico io che sono considerato quello della società civile...». Non è un ritorno indietro non farle? «No, il nostro dovere è costruire una nuova formula politica, che prefigura una nuova alleanza anche in Calabria, Campania, e magari in Sicilia».
Torniamo a lei: se lascia Bari per candidarsi non teme di far arrabbiare i suoi cittadini? «E infatti considero un’infamità dipingermi come un candidato. Il mio ruolo è costruire l’alleanza. Tutto il mio ragionamento esclude che io sia candidato. Basta che Vendola dica sì, poi il nome del candidato che unisce lo troviamo in 5 minuti».
Ha qualche nome?
«È bene che io non ne faccia. Spetta ai segretari dei partiti e a Vendola indicarlo. Le personalità in Puglia, anche fuori dalla politica, non mancano».❖

l’Unità 1.12.09
Gli intoccabili: sul caso Cucchi il Pertini assolve i tre medici
Decisione frettolosa dell’ospedale Pertini di Roma, dove transitò il detenuto pèoi morto Stefano Cucchi: nessun trasferimento e reintegro dei tre medici indagati per omicidio colposo nell' inchiesta sulla morte di Cucchi.
di Gregorio Pane

L’indagine interna «Nessuna omissione nella cura del detenuto». I tre indagati anche dalla Procura
La famiglia «Siamo sconcertati, le autopsie sono ancora in corso, i consulenti al lavoro e già decidono»

I medici si autoassolvono. L’ospedale Pertini fa quadrato attorno ai tre dottori indagati anche dalla magistratura per supposta negligenza nella cura del detenuto. Per l’indagine interna, «non hanno
commesso alcuna omissione nell’assistenza a Stefano Cucchi. Per questo, alla luce delle risultanze dell’indagine svolta dall’ospedale Sandro Pertini, sono stati reintegrati, nel reparto penitenziario del nosocomio, i tre medici indagati per omicidio colposo nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del geometra romano di 31 anni, arrestato il 15 ottobre scorso dai carabinieri per detenzione di droga e deceduto una settimana dopo nell’ospedale romano. La revoca del trasferimento d’ufficio (decisa il 18 novembre scorso) è stata decisa ieri dal direttore generale dell’Asl Rmb, Flori Degrassi. Il provvedimento riguarda Aldo Fierro, respon-
sabile del reparto penitenziario, ed i medici Stefania Cordi e Rosita Caponnetti. Alla base del loro reintegro si legge nel provvedimento appositamente emesso le risultanze dell’indagine interna effettuata dalla Uoc Risk Management aziendale che nella relazione depositata il 30 novembre 2009 ha concluso: «Il gruppo audit ha individuato nel ca-
rattere improvviso e inatteso del decesso, in rapporto alle condizioni generali del paziente, l’elemento dell’avversità in oggetto delle indagini. L’analisi non ha messo in luce, sul piano organizzativo e procedurale, alcun particolare elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l’evento avverso in questione. Contestualizza e configura pertanto l’oggetto dell’indagine sotto il profilo dell’evento non prevenibile».
Eppure sull’operato (mancato) dei medici in molti avevano espresso dubbi, e perfino il Guardasigilli Alfano li aveva attaccati in Parlamento. E da queste pagine anche Ignazio Marino (senatore Pd) aveva sollevato la questione: «Hanno trattato Cucchi come un tossico e non come un paziente». Per questo, la famiglia di Stefano ha espresso sconcerto per il reintegro dei tre medici. «Siamo sconcertati da questa decisione. Le autopsie sono ancora in corso, i consulenti sono ancora al lavoro... È una decisione che non siamo in grado di comprendere», ha detto l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. «Ne prendiamo atto, ovviamente prosegue Anselmo e andiamo avanti con la nostra attività investigativa. D’altronde non ci aspettavamo niente di più dal Pertini, ne stiamo vedendo di tutti i colori».
Molto perplesso anche il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella. «Lascia stupiti e addolorati ha osservato che la morte di una persona nelle condizioni di Stefano Cucchi possa essere considerata inattesa, come ha stabilito l’indagine amministrativa dell’ospedale Pertini». La decisione del reintegro dei tre medici «stupisce e amareggia» anche il senatore del Pd Francesco Ferrante, mentre l’assessore al Bilancio della Regione Lazio, Luigi Nieri la giudica «affrettata e profondamente sbagliata».❖

l’Unità 1.12.09
Conversando con Sergio Luzzatto Storico all’università di Torino
«Il potere di Berlusconi sta scricchiolando ma la sinistra è impreparata»
di Pietro Spataro

Penso sia un limite ridurre la lotta politica a una persona sola...». Sergio Luzzatto, che insegna Storia moderna all’università di Torino e vive in Francia, ripercorre con noi l’ascesa di Silvio Berlusconi negli anni Novanta. Osserva questa Italia di oggi «divisa in tre» dove la parte più grande sembra non interessarsi allo scontro politico e ai conflitti che segnano la vicenda politica. «Dobbiamo saperlo che è così», spiega. Sulla sinistra italiana e sui suoi errori presenti e passati Luzzatto non ha dubbi: «È ancora prigioniera del passato». Allora, professore, cerchiamo intanto di fare una foto all’Italia di oggi: è d’accordo nel dire che è un paese cinico? «L’Italia non è una sola, io ne vedo tre. Una è quella che lei definisce cinica e che è sicuramente maggioritaria. Poi ce ne sono altre due agli estremi: quella indignata, che si ribella alle imprese della destra, e dalla parte opposta quella arrogante, che ci viene buttata addosso da Berlusconi. Però, attenzione, perché a un’analisi approfondita le cose risultano più complicate. La diagnosi di cinismo corrisponde solo a una parte della prima Italia: dentro quella grande "zona grigia" ci sono anche quelli che mandano avanti il Paese, e che sono poco interessati al continuo pugilato tra indignati e arroganti. Gli opposti militantismi sono ormai inadeguati, sono speculari e autoreferenziali».
Per caso è una critica al cosiddetto antiberlusconismo? «Io credo che sia un limite ridurre la lotta politica a uno. Sia chiaro, apprezzo il contenuto civile della battaglia contro quella che definirei una forma di fascismo: non un "fascismo-regime" ma un "fascismo-movimento", per dirla con Renzo De Felice. Ma è uno solo dei compiti. Fuori c’è un paese che vive problemi diversi. Quando tutto questo finirà quel che conterà sarà il Pil, la busta paga, l’università che non funziona. Cioè i problemi veri».
Senta, per capire dove siamo oggi vediamo come il “fenomeno Berlusconi” si è imposto: che cosa è accaduto negli anni novanta che ha favorito la sua ascesa?
«Ricordiamo la congiuntura politica di quegli anni: la crisi della partitocrazia, la fine dell’arco costituzionale, il crollo del comunismo. Il berlusconismo è stato un fenomeno di lunga durata perché Berlusconi ha avuto un’intuizione: ha capito che la stagione dei partiti di massa si stava chiudendo e ha operato una rottura grazie al suo partito azienda. Ma nel berlusconismo c’era anche un elemento di continuità, il ritorno alla centralità del personaggio carismatico che si era in qualche modo eclissato. Lui incar-
na questo ruolo: è l’unto del signore, interpreta un destino collettivo. Come fece Mussolini, anche Berlusconi si pone come antidoto di una classe dirigente grigia che nascondeva se stessa. Capisce che la politica moderna la fanno i “corpi speciali”». Secondo lei usando il suo carisma Berlusconi ha cambiato gli italiani o li ha semplicemente interpretati?
«Sicuramente Berlusconi ha interpretato un carattere nazionale mai venuto meno, quello del qualunquismo. Però poi c’è stato il forte ruolo del personaggio. Lui ha avuto il talento di fondare un rapporto privilegiato con i famosi "ceti medi", intesi in un senso largo e aggiornato».
Ha avuto anche un grande sostegno: le tv e l’impero mediatico che si è costruito con gli appoggi della politica. Quanto hanno pesato?
«Tantissimo. Sappiamo che le persone scelgono e votano guardando le tv».
Quindi in quegli anni l’ascesa di Berlusconi era proprio irresistibile? «Era irresistibile perché rispondeva a uno spirito del tempo che chiedeva personalità carismatiche, e perché rappresentava gli interessi dei ceti medi che ave-
vano perso la Dc e avevano bisogno di altri referenti. Ma era resistibile sul terreno tecnico-politico. Quella “gioiosa macchina da guerra” si poteva forse fermare, soltanto si fosse approvata una legge sul conflitto di interessi. Non farlo è stato un errore enorme del centrosinistra, che si fa fatica a spiegare all’estero».
Ora però qualcuno dice che questo modello berlusconiano è in crisi e sta tramontando. Lei è d’accordo? «Non lo so, sono uno storico e frequento il passato, non il futuro. Sento però degli scricchiolii. Non tanto nel consenso della base, che non pare scalfito, ma in alto. I poteri forti, o se vuole le elite, vedono oggi che di liberista si è fatto poco e che Berlusconi non soddisfa più le loro domande, quindi cercano soluzioni alternative».
Lei recentemente ha avuto apprezzamenti per il ruolo che sta svolgendo Gianfranco Fini. Conferma? «Sì, lui tenta di incarnare l’anima istituzionale della destra che i pasdaran di Berlusconi osteggiano. Penso che Fini sia una grande risorsa per la politica italiana. L’auspicio è che riesca a smarcarsi e favorisca nuove configurazioni».
Ma perché l’Italia non ha mai avuto una destra normale, come quella francese per fare un esempio? «Perché l’Italia, come la Germania, ha conosciuto il fascismo e quindi, dopo, ha escluso la destra e l’ha consegnata allo schieramento di centro, cioè alla Dc. Ricordiamo che quando Berlusconi decide di entrare in politica lo fa "sdoganando" Fini, dunque l’estrema destra di allora. Ma in Italia la parola "destra" è ancora oggi impronunciabile. I francesi si dicono facilmente “de droite”, da noi nessuno ha il coraggio di dirsi di de-
stra...»
E la sinistra? Negli anni dell’ascesa di Berlusconi poteva imporre un’altra idea dell’Italia e non l’ha fatto o non c’è riuscita. Per quali motivi?
«Perché ha pesato il passato. Sono gli anni dello psicodramma del Pci che cambiava nome... Il Pci aveva mantenuto per troppo tempo una forma mentis sovietica, lo stesso Berlinguer, che aveva passato la vita a smarcarsi dall’Urss, era rimasto comunista fino alla fine. Penso che la sinistra il cambiamento lo ha fatto troppo tardi, quasi fuori tempo. Berlusconi diventava irresistibile anche perché l’avversario era ancora impegnato a fare i conti con il proprio passato». È passato più di un quindicennio. Perché ancora oggi la sinistra non riesce a costruire un’alternativa credibile?
«Perché è sempre prigioniera del suo passato. Il Pd sembra l’ultima vendetta di Togliatti. L’idea che questo paese possa progredire solo se l’anima laica e quella cattolica abitano nella stessa casa è vecchia, vecchissima. Di fatto c’è tutta una parte d’Italia che sta ben più avanti della classe dirigente della sinistra. Il vertice è terrorizzato all’idea di perdere pezzi, concede sempre qualcosa all’avversario per timore di non apparire legittimato. Ma l’obiettivo di un gruppo dirigente dovrebbe consistere nell’essere riconosciuto da una base, non nel puntare a una legittimazione al ribasso per far piacere a chissà chi. Bisogna smetterla di ragionare come negli anni cinquanta, da allora è cambiato tutto: il mondo, la Chiesa, l’Italia. Guardiamo all’esempio spagnolo: dimostra che si può avere un partito di sinistra al governo che interpreta con coraggio le ragioni di una parte».
Insomma par di capire che lei qui in Italia vede solo buio... «Ma no, credo che sui valori si possa creare invece un consenso morale e civile nuovo nel nostro Paese. Su temi come l’immigrazione, la bioetica, i diritti del lavoro, penso che la sinistra più coraggiosa potrebbe incontrarsi con una destra seria come quella di Fini». ❖

Repubblica 1.12.09
Alla sbarra in Germania il boia di Sobibor
Al via il processo a Demjanjuk. I superstiti: "Memoria, non vendetta"
di Andrea Tarquini

La difesa contesta: "Lui è un superstite non un boia E ha soltanto eseguito gli ordini"

MONACO - «Imputato John Demjanjuk, la giustizia tedesca la chiama a rispondere di concorso in omicidio in almeno 27.900 casi». Sono le 10,30 nell´aula 206 del tribunale di Monaco, quando il giudice Ralph Alt apre l´ultimo grande processo a un criminale nazista. Non può dire «imputato, alzatevi», perché a 89 anni mal portati John Demjanjuk è un relitto: è arrivato in aula sulla sedia a rotelle e in pomeriggio in barella, la testa coperta da un berretto da baseball, giacca nera, pullover grigio, le gambe riscaldate da una tela cerata azzurra. Gli occhi semichiusi, ascolta sonnecchiando la traduzione simultanea della giovane interprete al suo fianco. Ma quel vecchietto malato, da giovane volontario ucraino, fu guardiano nei lager nazisti, a Sobibor e a Trawniki.
"Il boia di Sobibor", o "Ivan il terribile", lo chiamavano con terrore i deportati. Dopo la guerra si rifece una vita da meccanico negli Usa, la giustizia israeliana lo scovò e processò, ma poi lo assolse per insufficienza di prove. Adesso è in campo la Germania unita: con l´aiuto del cacciatore di nazisti israeliano Efraim Zuroff, l´erede di Simon Wiesenthal, ha raccolto nuove prove, e ha ottenuto l´estradizione dagli Usa.
Folla, lacrime, commozione e ricordi. Spazzata dal vento che soffia poco sopra lo zero, la piccola folla dei sopravvissuti fa ressa per entrare in aula. C´è chi piange, c´è chi mostra il braccio tatuato dalle SS col numero d´ordinanza cui erano ridotti a subumani da eliminare i deportati nei campi della morte. «Non voglio vendetta contro Demjanjuk, sono qui come testimone per raccontare cos´era la vita a Sobibor», dice Thomas Blatt. Pensa ai genitori e al fratello, che vide passare per il camino, ricorda «quando io, quindicenne, venivo costretto dalle guardie a scegliere tra i vari oggetti personali sequestrati a bimbi e adulti che stavano per essere gasati».
Le emozioni pesano come cupe nuvole basse, sulla Monaco dell´ultimo grande processo a un criminale nazista. Ecco un altro testimone, David van Huiden, olandese. «Il processo non è una vendetta, è un momento necessario della Memoria». Tiene gli occhi asciutti a fatica, narrando del mattino in cui i genitori lo mandarono a passeggio col cane, un insospettabile pastore tedesco, avendo saputo che le SS stavano per arrivare. Lui si salvò così, fatto passare dai vicini per orfano olandese ariano, il resto della famiglia no.
Demjanjuk ascolta insonnolito, non reagisce, annuisce appena con un cenno della mano al giudice che gli declina le sue generalità. Il suo difensore, Ulrich Busch, tenta un contrattacco: chiede di ricusare il giudice per "pregiudizi ideologici", pronuncia un´arringa-comizio che disgusta i sopravvissuti, nega a Berlino il diritto di giudicare Demjanjuk: «Lui è un superstite, non un boia, eseguì ordini ma non li decise».
«Io voglio tenere vivo il ricordo, non desidero vendette verso quel vecchio ma non dimentico che la mia famiglia, a Sobibor, non ebbe la grazie di arrivare alla sua età, non potremo resuscitarli», afferma Robert Cohen, un altro sopravvissuto. L´atto d´accusa della Corte ripercorre, metodico e preciso, quei momenti di sei decenni fa quando il giovane Demjanjuk vendette l´anima al demonio: «Soldato dell´Armata rossa, prigioniero da poche settimane, accettò la proposta delle SS di reclutamento nelle Fremdvolekischen Wachmannschaften, le guardie volontarie non tedesche nei Lager… Appena assegnato di servizio a Sobibor poté capire cos´era un campo di sterminio, e collaborò consapevole… Era armato, avrebbe potuto ribellarsi o fuggire, non lo fece... Puntò la sua arma solo contro chi veniva spinto giù a forza dai treni, spogliato con violenza, condotto verso le camere a gas… Era convinto delle motivazioni razziste del genocidio… Servì il regime nazista anche a Flossenburg, e con l´armata collaborazionista di Vlassov, il generale sovietico traditore…».
Rivivono in playback le pagine più atroci della Storia: è l´ultimo grande processo a un criminale nazista e insieme il processo a un uomo-simbolo di tutti i complici europei della Shoah. Seduto accanto a noi, lo "sceriffo" Zuroff sussurra: «Con quel suo talento a mostrarsi malato, Demjanjuk avrebbe dovuto cercare carriera a Hollywood, non a Sobibor… Ma vederlo processato qui mi mostra un gran bel giorno per la nuova Germania e per il mondo». La sentenza è attesa per maggio.

Repubblica 1.12.09
Kurt Gödel il metematico che scriveva di Dio
Immaginando un paradiso di risposte
di Piergiorgio Odifreddi

Escono due volumi di lettere del grande logico. Che mostrava antipatia per personaggi come Russell, Wittgenstein e Popper E alla madre scriveva di Dio
Diceva che solo Kant aveva avuto un´influenza sul suo pensiero in generale
Conservò abitudini snervanti. Non rispondeva alle lettere. Prometteva saggi senza inviarli
Tentò di descrivere a un pubblico non specialista alcuni risultati del suo geniale lavoro

Per poter godere della musica, basta saper udire. Del cinema, saper vedere. Della letteratura, saper leggere. Della filosofia, saper pensare. Ma per la scienza e la matematica, i sensi e il cervello soggettivi non bastano: ci vuole anche molta conoscenza oggettiva, empirica e teorica. Dunque, nel mercato culturale i divi della musica riempiono i palasport, quelli del cinema le sale cinematografiche, quelli della letteratura le classifiche dei libri, quelli della filosofia le pagine culturali dei giornali, ma quelli della scienza e della matematica non li conosce e non se li fila praticamente nessuno: anzi, in quei campi non ci sono proprio per nulla i divi, se non in casi eccezionali e per i motivi sbagliati.
Per arginare almeno parzialmente questa singolare inversione qualitativa, anche i più grandi scienziati sono scesi talvolta a compromessi, scrivendo opere divulgative: dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo a Il sistema del mondo di Newton, da L´origine delle specie di Darwin a Il significato della relatività di Einstein. Ma non l´ha fatto Kurt Gödel, il più grande logico del Novecento e, insieme ad Aristotele, della storia: le sue Opere, pubblicate in Italia da Bollati Boringhieri in tre volumi nel 1999, 2002 e 2006, non contengono compromessi divulgativi di nessun genere.
Nella sua corrispondenza, però, pubblicata ora in due volumi (Corrispondenza A-G e Corrispondenza H-Z, Bollati Boringhieri, pagg. 419 e 532, euro 200) che completano la decennale impresa editoriale delle Opere, si possono finalmente trovare, oltre ai raffinati e istruttivi scambi con i grandi logici a lui contemporanei (da Jacques Herbrand e Alfred Tarski a Paul Cohen e Abraham Robinson), anche i tentativi che Gödel fece per descrivere a un uditorio meno specialistico i risultati che l´hanno reso famoso tra gli addetti ai lavori.
Ad esempio, quando riassunse nel 1957 a Yossef Balas l´idea della dimostrazione del suo più famoso teorema dicendo che «la dimostrabilità si può definire facilmente, ma la verità non può essere espressa nel linguaggio: quindi, vero è diverso da dimostrabile». O quando spiegò nel 1967 a David Plummer che quel teorema dimostra che «il genere di ragionamento necessario in matematica non può essere reso del tutto meccanico». O quando precisò nel 1962 a Leon Rappaport di «non aver dimostrato che vi sono problemi matematici indecidibili per la mente umana, ma solo che non vi è nessuna macchina (o formalismo cieco) che può decidere tutti i problemi», così come «non segue che non vi sono dimostrazioni di coerenza convincenti per gli usuali formalismi matematici, ma solo che queste dimostrazioni devono utilizzare modi di ragionamento non contenuti in tali formalismi».
Naturalmente, tra la poesia di queste frasi e la prosa di un´esposizione divulgativa ci corre parecchio. Il primo tentativo di spiegare i risultati di incompletezza a un pubblico colto fu La prova di Gödel di Ernest Nagel e James Newman (Bollati Boringhieri, 1974 e 1992), e la corrispondenza del grande logico col primo autore, che pure era uno dei più importanti filosofi della scienza della sua epoca, è paradigmatica della tensione esistente fra gli scienziati professionisti e i divulgatori dilettanti. Da un lato, infatti, Gödel pretende giustamente la correzione dei «molto spiacevoli errori» dell´esposizione e invoca un diritto di veto sulla versione finale, scontrandosi contro la prosopopea di Nagel che «riconosce la sua grandezza ma rifiuta di essere il suo schiavo». Dall´altro lato, e altrettanto giustamente, Gödel rivendica la proprietà intellettuale delle proprie idee, e dunque metà dei diritti.
Come risultato, gli autori rinunciarono alla sua collaborazione e il libro uscì senza i suoi articoli originali e i suoi proposti aggiornamenti, ma con gli errori altrui che egli aveva inutilmente segnalato: un esempio da manuale di come l´analisi marxista dello sfruttamento di chi lavora da parte di chi guadagna si applichi anche al mercato culturale, oltre che a quello industriale. E, a proposito di industria, La prova di Gödel divenne il prototipo di una serie di libri dedicati ai suoi risultati, il cui prodotto più riuscito e fortunato fu Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter (Adelphi, 1984).
Fortunatamente per lui, egli morì prima che il suo nome incominciasse a venir regolarmente nominato invano, ma quand´era ancor vivo si premurò di fare il possibile per arginare l´alluvione che stava montando. Lo testimoniano due corpose parti della corrispondenza, a Jean van Heijenoort e Hao Wang: il primo, ex segretario personale di Trockij negli anni ´30, curò nel 1967 la classica antologia Da Frege a Gödel, e il secondo, filosofo e logico di origine cinese, pubblicò nel 1974 Dalla matematica alla filosofia (Bollati Boringhieri, 1984). In entrambi i casi Gödel fornì precisazioni storiche, filosofiche e tecniche che aiutano a comprendere meglio il suo lavoro e a inquadrarlo nella logica del Novecento.
In particolare, negli ultimi anni della sua vita Wang divenne il suo confidente principale, e dopo la sua morte gli rese un doppio omaggio pubblicando nel 1987 le Riflessioni su Gödel e nel 1996 Un percorso logico: da Gödel alla filosofia, che riportano i resoconti delle loro conversazioni sulla logica e la filosofia della matematica. Purtroppo non sono state registrate, e si sono dunque perse nel vento, le conversazioni che Gödel ebbe invece per molti anni con Einstein a Princeton, ma in una lettera del 1955 a Carl Seelig egli ci fa sapere che esse «riguardavano soprattutto la filosofia, la fisica e la politica», e aggiunge modestamente: «Ho riflettuto spesso sui motivi per i quali Einstein provava piacere a parlare con me, e credo che una delle ragioni si debba ritrovare nel fatto che sovente ero di parere contrario, e non ne facevo mistero».
Nonostante eccezioni come quelle di Einstein e Wang, la corrispondenza di Gödel testimonia che era comunque nel suo carattere tirare la corda dei rapporti personali con abitudini snervanti quali aspettare mesi per rispondere alle lettere, dilazionare la consegna dei manoscritti, assillare gli editori con puntigliose questioni di dettaglio, promettere contributi e non consegnarli... I due casi più eclatanti sono forse le sue mancate partecipazioni all´Intuizionismo di Arend Heyting, di cui doveva essere coautore e che uscì nel 1934 senza nemmeno una sua riga, e a La filosofia di Rudolf Carnap curata da Paul Schilpp (Il Saggiatore, 1974), a cui doveva contribuire un saggio: ne scrisse sei versioni in sei anni, due delle quali pubblicate nel terzo volume delle Opere, ma poiché nessuna lo soddisfece, alla fine non ne mandò nessuna.
In parte quest´ultima vicenda riflette la sua presa di distanza dal famoso Circolo di Vienna, a proposito del quale scrisse nel 1975 a Burke Grandjean: «È vero che il mio interesse per i fondamenti della matematica fu stimolato da esso, ma non c´è niente di positivistico o di empiristico né nelle conseguenze filosofiche dei miei risultati, né nei princìpi euristici che mi ci hanno condotto». E poiché aggiunse che «solo Kant ha avuto qualche influenza sul mio pensiero filosofico in generale», non stupisce che la sua corrispondenza dimostri una certa freddezza, quando non un certo disdegno, per nomi oggi altisonanti quali Russell, Wittgenstein, Carnap e Popper, e contenga invece un lungo scambio con Gotthard Gunther sulla formalizzazione logica della filosofia di Hegel.
Fra tutte le lettere, però, le più singolari sono quelle scritte alla madre sulla religione, a proposito della quale egli dichiarò a Grandjean di «non appartenere ad alcuna congregazione» e di essere «teista ma non panteista, nel solco di Leibniz piuttosto che di Spinoza». Alla madre non offre ovviamente niente di formale e profondo, nello stile del suo libretto La prova matematica dell´esistenza di Dio (Bollati Boringhieri, 2006), ma solo osservazioni generiche sull´ordine razionale del mondo e sulla vita dopo la morte, con la certezza che «l´apprendimento avverrà in larga misura solo nel prossimo mondo, quando ricorderemo le nostre esperienze di questo e solo allora veramente le capiremo». Detto altrimenti, Gödel sperava che il Paradiso potesse rimediare all´incompletezza da lui scoperta e rivelargli finalmente i valori di verità delle proposizioni indecidibili.

Repubblica 1.12.09
Il nuovo libro di Galimberti sulla metamorfosi di un concetto
Come cambia il mito nella nostra società
di Antonio Gnoli

C´è stato un cambiamento: si è passati dal puro agire al semplice fare. Nell´era della tecnica bisogna eseguire il proprio compito ignorando le finalità

Il mito proviene da quell´antichità che amiamo leggere, interpretare, sognare. Per sopravvivere, almeno nella sostanza, e giungere fino a noi, esso ha dovuto ricorrere a una serie di mutazioni. C´è una evidente differenza, come tutti sappiamo, tra il mito di Edipo e poniamo quello di Totti. Il mito antico si disponeva all´interno di un ordine, ne regolava il flusso e le differenze. Ne riassorbiva le trasgressioni. La sua trama era il tessuto stesso di un pensiero sociale che, attraverso la grande narrazione, cercava legittimazione anche nel mutamento. Il mito che la nostra contemporaneità accoglie, esercita un potere di suggestione e di intrattenimento, ma difficilmente trasforma il corso delle cose. Quella riserva di caccia che sono i divi, i calciatori, gli stilisti, i cantanti, quelle fabbriche del desiderio - come la televisione e il cinema - che producono icone e simulacri, agiscono in larga parte sul nostro immaginario. Che non a caso abbiamo chiamato collettivo.
Si tratta di una influenza sovente negativa e deresponsabilizzante quella che il mito esercita sull´individuo e sulla collettività. A spiegarne le ragioni ci pensa Umberto Galimberti con I miti del nostro tempo (Feltrinelli, pagg. 406, Euro 19), un libro che efficacemente disegna una specie di percorso di liberazione dal conformismo: «A differenza delle idee che pensiamo», egli scrive, «i miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fatica a far giungere il suo raggio».
Il mito, dunque, ha in sé qualcosa di oscuro, sfuggente, ambiguo. Seduce per la forza intrinseca che può sprigionare, per il modo fantastico con cui si impone, ma anche per la sua elusività. Per la maniera perentoria e irrisolta con cui si deposita sulle nostre anime, il mito ha qualcosa di paradossale. Impresso nelle nostre coscienze recide la nostra parte razionale per far leva sulle emozioni, i desideri: sulla paura e il piacere, su ciò che non abbiamo e che vorremmo possedere. Michael Jackson - la cui morte ne amplifica la leggenda - diviene indifferentemente oggetto di consumo e di culto, sacro e profano a un tempo.
Galimberti esamina diversi miti, sia individuali che collettivi. Sono esperienze che ci attraversano e ci condizionano, spesso senza che neanche ci si renda conto della loro azione. Quanto pesa sui nostri comportamenti il mito della giovinezza, della felicità, dell´intelligenza, del potere, della moda? E in che misura siamo in grado di sottrarci al canto delle sirene della tecnica, del mercato, della globalizzazione, della crescita, della sicurezza? L´uomo, ci suggerisce Galimberti, non è più preda dei suoi istinti ma delle sue passioni, che sono ormai condizionate da qualcosa o qualcuno che è fuori dal campo delle nostre decisioni. Del resto, come osserva Gunther Anders, filosofo molto apprezzato da Galimberti, un cambiamento radicale si è verificato nella nostra epoca: si è passati dal puro agire al semplice fare. Le nostre azioni erano un tempo dotate di scopo. Poi un bel giorno l´azione divenne un semplice fare: eseguire bene il proprio compito ignorandone le finalità. Si entrò in questo modo nel dominio della tecnica e nella sua illusoria efficacia, direbbe Galimberti, per il quale la domanda fondamentale non è più: che cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi. Insomma: pensavamo di possederla, ma è essa che alla fine ci possiede.

Corriere della Sera 1.12.09
L’importanza del garantismo costituzionale
La democrazia che non va
di Giovanni Sartori

Oramai si dà per scontato, o qua­si, che le demo­crazie vivono nell'immediato e che non provvedono al futuro, ai bisogni e problemi del fu­turo. L'altro giorno Ange­lo Panebianco osservava, per inciso e con la tran­quilla placidità dello stu­dioso che registra un fat­to ovvio, che «la natura del sistema democratico spinge gli uomini politici a occuparsi solo dei pro­blemi del presente. Le grane che ci arriveranno addosso non possono es­sere prese in considera­zione... La politica demo­cratica non si occupa di prevenzione». Panebian­co ha ragione? Per il no­stro Paese sicuramente sì; ma sono oramai parec­chie le democrazie che sempre più diventano cor­to- veggenti e impreviden­ti. Dal che ricavo che sia­mo al cospetto di un pro­blema di estrema gravità.

Io non sono mai stato uno strombazzatore leo­pardiano delle «magnifi­che sorti e progressive» che ci sono state promes­se dai Sessantottini in poi. Ho però sempre stre­nuamente difeso la demo­crazia alla Churchill: che anche la democrazia è un pessimo sistema, «salvo che tutti gli altri sono peg­giori ». In quel detto ho sempre fermamente cre­duto; ma forse oggi va ri­precisato. Intanto va pre­cisato che una cosa è la democrazia liberale co­struita dal costituzionali­smo, e tutt'altra cosa so­no le cosiddette democra­zie populistiche e «diretti­stiche » di finto autogover­no che si liberano dell'im­paccio del garantismo co­stituzionale. In questa chiave io distinguo da tempo tra democrazia co­me demo-protezione (in­tendi: che protegge il de­mos dagli abusi di pote­re) e come demo-potere (che può diventate tutt'al­tra cosa). Poniamo, in dannatissi­ma ipotesi, che Berlusco­ni mi voglia cacciare in prigione. Potrebbe farlo? No, perché io sono protet­to dal principio dell' habe­as corpus (abbi il tuo cor­po) che è quel cardine del costituzionalismo che ci tutela dall'incarcerazione illegale e arbitraria. Met­tiamo, d'altra parte, che io non voglia essere avve­lenato da «polveri sottili» e dal galoppante inquina­mento atmosferico, che io non voglia restare senz’acqua perché l'acque­dotto pugliese ne perde metà per strada, oppure che Pisa sparisca sott'ac­qua. In questi e consimili frangenti la democrazia descritta da Panebianco farebbe meglio delle non-democrazie? E' lecito dubitarne.

Le grandi civiltà idrauli­che del lontano passato raccontate da Karl Wittfo­gel furono create con stra­ordinaria perizia e preveg­genza dal despotismo orientale; tantissime lacri­me e sangue, ma anche straordinari risultati. Il dispotismo illuminato del '700 fu, appunto, «illu­minato ». Mentre oggi an­diamo alla deriva senza nessuna «illuminazio­ne », con occhi che non vogliono vedere e orec­chie imbottite di cerume. Il detto churchilliano tiene ancora? Sì e no. Sì, se lo dividiamo in due; no altrimenti. La mia pri­ma tesi è che la democra­zia protettiva dell' habeas corpus e del potere con­trollato da contropoteri, è e resta il migliore dei re­gimi possibili per la tute­la della libertà dei cittadi­ni. La mia seconda tesi è invece che il demopotere populistico e direttistico alla Chavez, e purtroppo ambito da Berlusconi, di­venta o può diventare uno dei peggiori sistemi di potere possibili.

Corriere della Sera 1.12.09
Morfina ai bimbi contro il dolore una rivoluzione culturale
di Mario Pappagallo

Morfina ai bambini e ai neonati. Una svolta culturale per un’Ita­lia che ha sempre associato a questo far­maco, e ai suoi derivati, paure ancestrali. E ignoranza, sia medica sia popolare.

L’Organizzazione mondiale della Sani­tà ha dei parametri per valutare lo stato di benessere nei vari Paesi: tra questi c’è il numero di dosi di morfina pro-capite per combattere il dolore. C’è la quantità di farmaci oppioidi utilizzati. Nel 2004 il nostro Paese si collocava al livello del Ruanda (dove non ci sono nemmeno i sol­di per comprare i medicinali) nella classi­fica mondiale. Ora si attesta agli ultimi po­sti in Europa, con un numero di dosi in­sufficiente anche ad alleviare il dolore dei malati terminali, per esempio di cancro. Impossibile, quindi, pensare che si usino per mal di schiena, mal di testa, dolori post-operatori, neuropatie... Men che me­no nei bambini e nei neonati.

Non era così nell’Italia agricola delle fa­miglie numerose. Fino a poco prima del­la Seconda guerra mondiale, i ciucciotti di panno imbevuti d’oppio da papavero erano diffusi per far addormentare i bim­bi, per i dolori da dentizione, per le coli­che. Poi l’oppiofobia è diventata costante culturale nel nostro Paese, tra i malati e i medici. Ben venga allora la sperimenta­zione dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova: somministrare morfina ai bambi­ni e ai neonati è un atto medico non d’avanguardia, perché altrove è in uso da tempo, ma culturalmente rivoluzionario.

Due concetti vanno ribaditi: il dolore è malattia da curare, e non un sintomo da osservare e misurare per vedere come evolve il male; morfina e oppioidi sono gli anti-dolorifici per eccellenza. I nostri recettori del dolore rispondono a queste molecole. Giuste dosi, non in grado di «rimbambire», controllano il dolore e so­no ben lontane dalle quantità che servo­no a raggiungere quegli stati di euforia anticamera della tossicodipendenza. Esi­ste un confine netto tra chi è malato di dolore e chi abusa di sostanze.

E bambini e neonati semplicemente non vogliono soffrire, vorrebbero giocare e non restare immobilizzati da un qualco­sa che riescono a esprimere, a volte, solo piangendo fino allo sfinimento. «Spegne­re » il loro dolore è un atto d’amore, oltre che medico.

Corriere della Sera 1.12.09
Genova I medici: superare i pregiudizi sulle cure antidolore
Morfina a bambini e neonati al pronto soccorso del Gaslini
di Erika Dellacasa

GENOVA — «La sommini­strazione di morfina ai bambi­ni, anche neonati, come anti­dolorifico, è una questione di organizzazione e competen­za. Bisogna prevedere e con­trollare le eventuali compli­canze e gli effetti collaterali. Non è una questione astratta di bene e di male. È ora di su­perare certi pregiudizi». Ma­ria Laura Massone, anestesi­sta, coordina il progetto del­l’Ospedale pediatrico Gaslini di Genova che prevede, fra le altre cose, l’utilizzo della mor­fina nel pronto soccorso. Gli oppioidi sono entrati da tem­po nelle sale operatorie e nel­le terapie post-operatorie e oncologiche degli ospedali pediatrici ma l’approccio con­tro il dolore del Gaslini fa un passo in più.

Tutto parte dalla difficoltà di valutare il dolore nel bam­bino, nel neonato in particola­re, quindi sul bilanciamento delle procedure mediche: «Fi­no a vent’anni fa — dice Mas­sone — era diffusa l’opinione che il neonato non percepis­se il dolore. È un’assurdità. Oggi si sa che è falso ma si fa­tica ancora ad accettare alcu­ne conseguenze, come l’uso della morfina per una sorta di tabù. I neonati soffrono. Per noi è difficile capirli ma que­sto non deve diventare un ali­bi per non intervenire».

Il progetto del Gaslini per affrontare il dolore dei picco­lissimi pazienti ha coinvolto nella formazione — che si concluderà quest’anno — buona parte del personale, compreso quello infermieri­stico. Sono state introdotte le schede e i modelli di valuta­zione internazionali del dolo­re ma molto, va da sé, è affida­to all’osservazione, all’atten­zione degli operatori sanitari. «La valutazione del dolore — continua Massone — è il quinto parametro vitale: si di­ce che un paziente è stabiliz­zato quando anche il dolore è sotto controllo. Sedare il dolo­re non è un di più, è parte del­la cura». «È chiaro — spiega Emanuela Picotti, responsabi­le del pronto soccorso — che quando si decide di utilizzare un farmaco come la morfina ci troviamo davanti ad emer­genze gravi, sulle quali lavo­riamo in équipe ed è normal­mente presente un anestesi­sta e rianimatore». Ma, senza arrivare alla morfina, destina­ta a pochi casi, ci sono nuovi approcci — soprattutto spray nasali — che consentono di alleviare rapidamente la soffe­renza del piccolo paziente e che stanno entrando nel­­l’uso: «E questo — dice Picot­ti — fa lavorare meglio anche noi».

Complessa è anche la rea­zione dei genitori all’uso di analgesici come la morfina. «È vero — chiude Picotti —, talvolta abbiamo riscontrato degli irrigidimenti dettati dal­la paura, dalle immagini che evoca la parola morfina. Ma con il confronto e l’informa­zione corretta si arriva sem­pre a un risultato condiviso». E se non si arrivasse? «Non mi è mai capitato. Ma come per altre terapie, se si ritenes­se che la morfina è essenziale per il paziente, abbiamo la possibilità di ricorrere al Tri­bunale dei Minori». In questo caso il giudice avoca la patria potestà e consente ai medici di procedere.

Yahoo Salute
Attraverso la pelle udiamo meglio i suoni
di Stefano Massarelli

Parole e rumori non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. Lo afferma la rivista Nature.

Parole, rumori e musica non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. A sostenerlo è un'ultima incredibile ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Studi condotti in passato hanno dimostrato come l'organo della vista è in grado di "integrare", o anche stravolgere alcuni suoni che giungono alle nostre orecchie. È questo il caso del noto effetto McGurk, un'illusione acustica in cui la percezione uditiva di una sillaba (ba-ba) risulta modificata dal momento che si osserva qualcuno che pronuncia una sillaba differente (ga-ga).

La stessa cosa, secondo Bryan Gick della University of British Columbia, sembra avvenire nel caso di parole che inducono degli stimoli tattili sulla nostra pelle. La pronuncia di sillabe aspirate come "pa" e "ta", spiega Gick, produrrebbe ad esempio un lieve flusso d'aria che verrebbe percepito dalla nostra pelle contribuendo alla corretta interpretazione della parola pronunciata.

Per sostenere questa ipotesi, Bryan Gick e i colleghi hanno sottoposto un campione di 22 volontari all'ascolto di alcune sillabe come "pa", "ta", "ba", "da", unito a un flusso d'aria artificiale emesso a livello dei palmi delle mani o sul collo. Dai risultati è emerso che le sillabe "ba" e "da" tendevano ad essere confuse con "pa" e "ta" quando al suono erano associati dei piccoli flussi d'aria sulle mani e sul collo dei soggetti interessati. Ciò sottolinea come la nostra pelle, allo stesso modo degli occhi, abbia un ruolo importante nel "sostenere" l'udito nella giusta percezione delle parole, sostengono i ricercatori.

Fonte: Gick B et Derrick D. Aero-tactile integration in speech perception. Nature 2009; 462:502-4.

http://www.scribd.com/doc/23434928/Da-Nature-Parole-sulla-pelle

AGI 1.12.09
(AGI) - Roma, 1 dic. - La prima decade del nuovo millennio e un focus sui temi di piu' scottante attualita', come l'immigrazione e l'integrazione tra popoli diversi per storia, cultura, stili di vita, religione, sono i temi al centro dell'ottava edizione di 'Piu' libri piu' liberi', la Fiera nazionale della piccola e media editoria con 409 espositori che si svolgera' al Roma dal 5 all'8 dicembre, organizzata dall'Aie, l'Associazione Italiana Editori. Si inizia sabato con il 'confronto ravvicinato' tra la 'ribelle araba', la poetessa e giornalista libanese, Joumana Haddad e lo psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli: presenteranno i loro ultimi libri, rispettivamente, 'Il ritorno di Lilith' e 'Left 2006', entrambi editi dalla casa editrice 'L'Asino d'oro'. A raccontare la prima decade del millennio, ossia gli "anni zero", saranno un giornalista, uno scrittore-magistrato, un economista, e un filosofo. Inizia Beppe Severgnini sabato 5: avra' il compito di disegnare 'la mappa' per orientarsi tra le tendenze della contemporaneita'. A fare il punto sul ruolo che la paura ha avuto nell'ultima decade, sara', il giorno dopo, lo scrittore-magistrato Giancarlo De Cataldo. Poi tocchera' a Gianni Vattimo da filosofo 'fare' un viaggio fra speranza ed incertezza ed infine l'economista Tito Boeri parlera', martedi' 8, della crisi finanziaria e proporra' la sua ricetta per uscirne. Molti gli ospiti: Andrea Camilleri, sabato ricordera' i 20 anni dalla caduta del muro di Berlino; Massimo Carlotto, con il suo nuovo romanzo 'L'amore del bandito'; quindi Ascanio Celestini, Philippe Forest, Mara Maionchi, Dacia Maraini, Lidia Ravera, Sergio Rubini, Aude Walker. E poi tra le novita' Anna Maria Sciascia, la figlia del celebre romanziere siciliano, che traccera' un ritratto inedito del padre e di Luigi Pirandello il 7. (AGI)