giovedì 3 dicembre 2009

l’Unità 3.12.09
Intervista ad Andrea Camilleri
«Con lo spirito sarò in piazza
L’unico spazio che ci è rimasto»
Lo scrittore siciliano è stato tra i primi ad aderire al No B Day. Sul duello tra il premier e Fini dice: «Se con i fuori onda ascoltiamo parole di buon senso, allora ben vengano i fuori onda»
di Saverio Lodato

Andrea Camilleri è tra i firmatari dell’appello per il No B. Day. Poiché, anche in passato, non si è mai sottratto all’incombenza di far sentire la sua “voce politica”, o di far vibrare la “corda civile”, per dirla con Sciascia, scrittore che ama, torniamo a rivolgergli qualche domanda ora che i nodi al pettine berlusconiano sembrano essersi fatti ancora più stretti. Camilleri, il 5 dicembre, ancora una volta in piazza per dire no al governo Berlusconi. Lei ci sarà? Non ci sarà? O sarà presente in spirito, come mi disse in una delle ultime manifestazioni di questo tipo?
«No, dice bene, ci sarò in spirito».
Non avverte il rischio che, manifestando manifestando, passino gli anni e i guasti nel nostro Paese divengano sempre più incalcolabili e, quando sarà, di difficile soluzione?
«Lei pensa che sia più facile risolvere il problema non manifestando? Oggi mi pare che l’unico spazio che sia concesso ai cittadini è la piazza».
Come valuta questo nuovo Pd, guidato da Pier Luigi Bersani, il quale è con-
vinto che l’uomo politico più bravo non sarà quello che strilla di più contro Berlusconi, ma quello che lo farà cadere?
«Se riesce a trovare un modo di far cadere Berlusconi in Parlamento sarò il primo a congratularmi con lui».
Rispetto alle settimane di papi, Noemi e Patrizia, Berlusconi le appare più debole o più fortificato nella sua azione di governo?
«Io credo che sia uscito da tutta questa vicenda piuttosto indebolito. Non tale, tuttavia, da poter minare sensibilmente il consenso che tuttora lo sostiene».
Si scrive “governo Berlusconi” ma si legge: “Berlusconi”; visto e considerato che ministri, sottosegretari, onorevoli e senatori Pdl sembrano altrettanti usignoli canterini. Come ne usciranno gli italiani?
«Per avere osato dire che i membri del governo Berlusconi erano suoi “replicanti” mi attirai le invettive anche della cosiddetta sinistra. Gli italiani ne usciranno, come si usa dire dalle mie parti, cornuti e mazziati».
C’è uno solo, nella gabbia governativa, che canta di testa sua: Gianfranco Fini. Dire che, politicamente parlando, cercano di impallinarlo è poco. Ora è persino esploso lo scandalo del fuori onda. Ma Fini dice cose tanto strampalate?
«Fini sta cercando in tutti i modi di proporre in Italia una destra autenticamente democratica e proprio per questo è oggetto di una fortissima polemica interna al Pdl. Se i fuori onda sono diventati l’unico modo per ascoltare parole di buon senso su quanto di drammatico sta accadendo in Italia, ben vengano persino i fuori onda. Io, a Fini, non posso che fare i miei auguri. E mi creda: era da tanto che non facevo gli auguri ad un esponente della destra».
Ha sentito che Berlusconi si è messo in testa di sconfiggere la mafia? «Sì, ho sentito che il suo governo ha preso provvedimenti contro la mafia più degli altri governi. È la stessa esatta frase che Giulio Andreotti disse in televisione, e che io ascoltai, quando venne processato per l’appoggio dato alla mafia. Si mettano d’accordo loro due».
Ha sentito che Marcello Dell’Utri definisce Vittorio Mangano un eroe? Ricorda quando Andreotti definì Sindona “il salvatore della lira?” Alte scuole di memoria patria, non c’è che dire. «Ricordo bene. Preferisco altri eroi. Comunque ritengo che occorra poco senso del pudore per definire “eroe” un uomo condannato all’ergastolo per omicidio mafioso». Si può sconfiggere la mafia mettendo al bando la magistratura? «Naturalmente no, come non si sconfigge la mafia facendo enormi tagli alle forze dell’ordine e infiltrando in parlamento persone che in un modo o nell’altro con la mafia hanno trafficato».❖

l’Unità 3.12.09
Dimissioni di Fini? Il Cavaliere non può permettersele

Quanto sia improvvisata la strategia dei berluscones nell’assalto di Fini lo dimostra il fatto che tra gli strumenti di pressione per metterlo politicamente in mora non esitano a contemplarne uno del tutto impraticabile dal punto di vista normativo, oltre che politicamente controproducente: la richiesta di dimissioni dallo scranno più alto di Montecitorio.
Il presidente della Camera, spiegano gli uffici giuridici del Parlamento, non può essere dimissionato, non è espressione di alcuna maggioranza, e una volta proclamato è il presidente di tutta l’assemblea, garante di tutti i deputati. Quindi non sussiste alcun vincolo di fiducia nei confronti dei partiti che l’hanno indicato o eletto. Ma le dimissioni sono soprattutto una soluzione impraticabile dal punto di vista politico: produrrebbe il più classico degli effetti boomerang. Se, infatti, Fini si dimettesse, potrebbe essere rieletto con i voti dell’intera opposizione, più quelli del Mpa che al piano nobile di Montecitorio ha sempre trovato ascolto alle istanze sudiste, diversamente da quanto è successo con Schifani, considerato l’avversario politico numero uno della giunta siciliana guidata da Raffaele Lombardo. le dimissioni, in definitiva, si tradurrebbero in un autogol clamoroso per il Cavaliere.
Ma vediamo i numeri. Se si sommassero ai voti di opposizione ed Mpa anche solo una trentina dei quasi settanta deputati che firmarono lo scorso 16 settembre il documento a sostegno di Fini dopo gli attacchi di Vittorio Feltri, l’attuale presi-
dente della Camera verrebbe rieletto con la maggioranza assoluta. Per i suoi avversari non solo sarebbe un’enorme dimostrazione di debolezza, ma quel voto delineerebbe anche una possibile maggioranza alternativa a quella del governo Berlusconi. Insomma, il Cavaliere non può permettersi di fare a meno di Fini, e non può cacciarlo dal Pdl, perché si metterebbe in minoranza da solo e avvierebbe in quel momento la successione a se stesso. Per questo ieri le colombe si sono messe al lavoro. Il solito Gianni Letta, presente a Montecitorio alla cerimonia in ricordo di Nilde Iotti. Ma anche personaggi più inclini allo scontro come il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Anche secondo lui nel Pdl c’è ancora la possibilità di mettere da parte errori e incomprensioni. ❖

l’Unità 3.12.09
Destra e grandi manovre
Crocifissi? Attenti non è solo propaganda
di Giuseppe Civati

Frattini non sa bene che cosa dire (gli capita spesso). Del resto, lui che ne sa? Fa solo il ministro degli Esteri. Nel frattempo, La Russa si schiera in Difesa (della bandiera). Qualcuno ricorda che si dovrebbe modificare un articolo della Costituzione (che così recita: «La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni»). Sulla rete si passa dalla provocazione («potremmo mettere il crocifisso sul tricolore», propone qualcuno) alla minimizzazione («sono solo sparate propagandistiche», per distrarci dai problemi più importanti). Visitando la Regione straniera, vi posso assicurare che non si tratta solo di sparate propagandistiche. Quando si assiste a proposte di questo tipo, si tratta precisamente di due cose: prima di tutto, di un ballon d'essai, quel palloncino che segnala la direzione del vento, «per sondare le reazioni» . Ma c'è qualcosa di più. Con l'introduzione nel dibattito pubblico di proposte come questa (o come le centinaia di ordinanze degli ultimi mesi, la chiusura di kebab o di phone center, l'opposizione ai centri di preghiera, le ronde e le taglie, le provocazioni tipo apartheid a cui ogni giorno siamo sottoposti), si cerca di accreditare qualcosa di più pericoloso. Si fanno diventare normali (di più, quotidiane) cose che non lo sono o non dovrebbero esserlo. E si introducono, molto spesso per via istituzionale, elementi di discriminazione e di razzismo. Nemmeno più striscianti, ma presentati con i crismi della fascia tricolore (appunto) dei sindaci e con l'intestazione della Repubblica dei ministri e dei parlamentari. Tutto si può proporre, tutto si può cambiare, tutto è discutibile. Poi non si fa nulla di quello che si afferma, ma intanto lo si dice, lo si fa girare, lo si veicola tra la popolazione. E si sposta un po' più in là il confine. Si pianta una bandiera, verrebbe da dire, con metafora appropriata (Engels diceva che il programma è «una bandiera piantata nella testa della gente»: qui piantano anche i gazebo...). Allora il ballon d'essai non serve solo a «segnalare la direzione del vento»: serve a provocarlo, il vento. E in questo caso, collocare un simbolo religioso sulla bandiera, come ho scritto, non significa nient'altro che assumere ciò che si vuole contrastare, creando, tra l'altro, tensioni inaudite e radicalizzando il dibattito (estremismo chiama estremismo). Così come vietare i luoghi di culto agli altri, in ragione di una malintesa reciprocità, non fa nient'altro che opporre i culti tra loro, coinvolgendo persone che magari di culti non ne hanno alcuno. Le radici dell'Europa dovrebbero essere quelle della tolleranza, dal momento che l'Europa, nel progetto di ascendenza erasmiana a cui è il caso che tutti continuino a richiamarsi, nasceva proprio per superare i conflitti religiosi, politici e etnici. Perché oltre all'Erasmus, a questa Europa serve ancora un po' di Erasmo. Che era cristiano, così non si spaventa nessuno.❖

l’Unità 3.12.09
Pulsioni e razionalità
di Laura Pennacchi

Questione sociale e questione democratica sono oggi più intrecciate che mai. La crisi economica globale riversa il suo potenziale distruttivo sugli Stati e sul tessuto coesivo democratico. Le classi dirigenti spesso non trovano di meglio – si pensi alle leggi ad personam di Berlusconi e al suo incredibile conflitto di interessi – che scaricare le loro tensioni irrisolte sulle istituzioni democratiche, impoverendole e svilendole. Precipitano, dunque, a stressare la democrazia molti fenomeni: la difficile governabilità delle società pluraliste, il fanatismo e l’intolleranza, la videocrazia e la formazione di imperi mediatici, la manipolazione dei linguaggi e l’assuefazione ad essa, la politica spettacolo, l’impatto di tutto ciò sulla capacità di autonomo discernimento degli individui, le difficoltà dei partiti politici a svolgere le funzioni di mediazione e di sintesi storicamente ad essi proprie, la diffusione di interessi corporativi in contrasto con l’interesse generale e la complessità della stessa definizione di un’idea di interesse generale, la persistenza di oligarchie economiche e politiche e perfino di plutocrazie, l’aumento delle diseguaglianze e delle ingiustizie. Questi fenomeni sottostanno a una crescente tendenza all’abbandono dell’argomentazione razionale che, a sua volta, produce un accentuato ricorso a distorsioni incontrollate (con forte carica emotiva) del linguaggio e a un abuso delle parole, il che contraddice quella «cura delle parole» che dovrebbe essere un tratto costitutivo della democrazia. Se tutto ciò rende più complesso e faticoso il processo di formazione delle opinioni e delle decisioni collettive, diventa ancora più vitale che tutti i cittadini siano messi nelle condizioni di esercitarvi davvero la loro influenza. La democrazia, regime politico primariamente caratterizzato da governi aperti a tutti, conferma a maggior ragione oggi di aver bisogno di una propria pedagogia. Occorre combattere l’apatia, rifuggire dalla sollecitazione del conformismo, del gregarismo e della mediocrità, astenersi dalla adulazione del popolo esaltandone i vizi come se fossero pregi, segni di strumentalizzazione e disprezzo «da parte di chi parla del popolo e pensa che sia plebe». La democrazia, infatti, è non meno minacciata dal populismo, il quale porta sempre con sé demagogia, resa al linguaggio emotivo a discapito dell’argomentazione razionale, esaltazione della territorialità e dell’etnicismo, irresponsabilità nel far promesse, disprezzo delle regole. La democrazia, invece, ha bisogno di riproporsi come struttura «educativa e autoeducativa». È per tutte queste ragioni che la Fondazione Basso ha dato vita alla scuola «Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica», che a gennaio 2010 riprende per il quarto anno consecutivo la propria attività (per informazioni e iscrizioni wwwfondazionebasso.it)❖

l’Unità 3.12.09
L’agenzia per il farmaco: «Spetta al governo emanare direttive»
Il ministro: «Senza ricovero ospedaliero non è compatibile con la 194»
Ru486, nuovo Ok dell’Aifa. Ma Sacconi tenta lo stop
L’Agenzia per il farmaco conferma la delibera sulla pillola abortiva. «Così è incompatibile con la legge 194», replica il ministro per il Welfare Sacconi. Il Pd: «Il governo sappia rispettare l’autonomia dell’Aifa».
di Maria Zegarelli

Spetta al Governo decidere le misure applicative della delibera dell’Agenzia italiana del Farmaco sulla pillola abortiva Ru486 perché l’Aifa, in quanto organo tecnico scientifico «ha competenze limitate al regime di fornitura-modalità di dispensazione del farmaco». Dunque, il Cda dell’Aifa, che ieri si è riunito, ha di fatto ribadito la legittimità della propria delibera emessa lo scorso 30 luglio e ha rimesso nelle mani del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, «l’emanazione dei provvedimenti applicativi e specificativi» della stessa, «atti a garantire il pieno rispetto della 194/78 nonché l’osservanza sul territorio delle modalità di somministrazione del farmaco».
ISTERIE DI GOVERNO
Quella delibera, inoltre, aggiunge l’Aifa, «è pienamente coerente con l’esigenza di garantire che il percorso abortivo avvenga in ambito ospedaliero». Sacconi ci sta: «Ribadisco che se non si riscontrerà la effettiva, diffusa, pratica del ricovero ospedaliero ordinario per le persone sottoposte ad aborto farmacologico, si evidenzierà una manifesta incompatibilità con la legge 194, di cui dovrebbero prendere atto Parlamento e Commissione europea per le decisioni conseguenti». La sottosegretaria Eugenia Roccella affonda la lama: «Ponzio Pilato in confronto all’Aifa era un decisionista». Compatta l’opposizione parlamentare Pd, Idv, Radicali e quella extraparlamentare, Pdci, Rc, Sl, nel difendere la decisione dell’Agenzia. «È una riprova della serietà del percorso che l’agenzia stessa ha svolto finora per l’adozione di questo farmaco. La delibera è sempre stata rispettosa della legge 194 ed è per questo che oggi l’Aifa ha ritenuto di confermarlo. Credo perciò che il ministro Sacconi possa stare tranquillo», commenta Anna Finocchiaro, capogruppo Pd a Palazzo Madama. Idem Vittoria Franco. «Quanto tempo chiede Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale dovranno attendere i ginecologi del Servizio sanitario nazionale prima che il Governo li autorizzi a poter utilizzare la Ru486?».
Il Pd adesso chiede l’atto finale: la pubblicazione della delibera Aifa in Gazzetta ufficiale.
Finisce così anche l’ultimo tentativo della maggioranza di ritardare l’ingresso in Italia dell’utilizzo della pillola già ampiamente sperimentato in moltissimi altri paesi. Ci aveva ostinatamente provato il presidente della Commissione Sanità in Senato, Tomassini, attraverso l’indagine conoscitiva sulla Ru486. «Una lezione di rispetto delle leggi e delle procedure», la decisione dell’Aifa, secondo Donatella Poretti, dei Radicali. «Ora ci aspettiamo, insieme alle donne, che il governo sciolga gli indugi e che solleciti le Regioni a rendere disponibili nei presidi sanitari la RU486, garantendo la piena tutela della salute delle donne, come prevede la legge 194», commenta l’Aied, Associazione Italiana per l’Educazione Demografica. ❖

Corriere della Sera 3.12.09
L’Aifa non inserisce il ricovero, ira di Sacconi
No ai limiti del governo sulla pillola abortiva
di Margherita De Bac

Scontro tra l’Agenzia che autorizza la commercializzazione dei farmaci (Aifa) e Maurizio Sacconi sulla pillola abortiva Ru486. L’Aifa ribadisce che la delibera del 30 luglio assicura che il percorso abortivo venga compiuto in ospedale, il ministro del Welfare replica che sul punto manca chiarezza.

Pillola abortiva, l’Aifa va avanti Sacconi: «Così è incompatibile»
Delibera confermata: «Non tocca a noi decidere sul ricovero»

ROMA — Sorpresa. L’Aifa, massima autorità per i farma­ci, va avanti. Il suo Consiglio di amministrazione non ha re­cepito il parere dove il gover­no raccomandava che nella delibera sul via libera alla pil­lola abortiva fosse indicato l’obbligo di ricovero ordina­rio in ospedale.

Decisione inattesa. «Non me lo aspettavo — commen­ta amaro il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella —. Questo conferma però l’asso­luta indipendenza dei tecnici dalla politica». Il ministro Maurizio Sacconi sembra con­trariato: «Se non verrà riscon­trata l’effettiva pratica del ri­covero ospedaliero si eviden­zierà una manifesta incompa­tibilità con la legge 194 di cui dovrebbero prendere atto Par­lamento e Commissione euro­pea, con iniziative conseguen­ti ». Monsignor Fisichella, pre­sidente della Pontificia Acca­demia per la Vita, stigmatiz­za: «Abortire non è una pas­seggiata. È un dramma. La donna non può essere lascia­ta sola, bisogna garantire la sua sicurezza. Ogni atto di ri­chiamo a queste responsabili­tà è fondamentale». Ma la Ru486 corre verso il traguar­do. Manca solo la pubblicazio­ne in Gazzetta Ufficiale dell’at­to di autorizzazione.

Il Cda presieduto dal gine­cologo Sergio Pecorelli si è riunito ieri per valutare il pa­rere del Governo, inviato ai tecnici venerdì scorso dopo la conclusione dell’indagine conoscitiva della Commissio­ne Sanità del Senato. In prati­ca, in base agli approfondi­menti svolti dai senatori, era emerso che prima di autoriz­zare la vendita di Mifegyne, nome commerciale della pil­lola utilizzata da diversi anni in Europa, l’Aifa avrebbe do­vuto verificarne la compatibi­lità con la legge 194 sull’inter­ruzione volontaria di gravi­danza con una richiesta al mi­nistero. Il ministro Sacconi aveva allora inviato all’Agen­zia un documento sottoline­ando la necessità di prevede­re che il farmaco fosse som­ministrato in regime di rico­vero ordinario (e non in day hospital ) fino alla completa e accertata espulsione del feto. Solo così infatti, secondo il governo, esisterebbero condi­zioni di sicurezza per la don­na.

Il consiglio di amministra­zione dell’Aifa ha deciso di confermare la delibera di au­torizzazione, ormai prossima alla stampa in Gazzetta Uffi­ciale. Contrario il consigliere Romano Colozzi, assessore al Bilancio della Lombardia.

Nella delibera si afferma con chiarezza che la Ru 486 deve essere utilizzata sotto stretto controllo sanitario, nel rispetto della legge 194. Ritenendo dunque di aver agi­to in modo tecnicamente cor­retto — lasciando libere le Re­gioni di stabilire i percorsi ospedalieri — l’Aifa non è tor­nata indietro e ha rimesso «al ministro e alle autorità com­petenti l’emanazione dei provvedimenti applicativi o specificativi, per garantire il pieno rispetto della 194» e per l’osservanza sul territorio delle modalità di sommini­strazione.

In altre parole, il consiglio di amministrazione resta del­la convinzione di essere «in sintonia con quanto racco­mandato dal ministro». La Roccella non gradisce: «Peg­gio di Ponzio Pilato. In con­fronto a loro era un decisioni­sta. Bisogna tutelare la salute delle donne in modo omoge­neo su tutto il territorio nazio­nale, fornendo un’assistenza adeguata». Il sottosegretario al Welfare insiste sui proble­mi di farmacovigilanza: «Se non c’è chiarezza sul ricovero come mante­nere la vigilanza sani­taria sui tempi di espulsione e gli even­ti avversi?». Livia Turco, Pd, elogia l’Aifa: «Comporta­mento ineccepibile.

Mi auguro che il mi­nistro non tenti ulte­riori forzature e rispet­ti i corretti rapporti con le Regioni». Per Anna Fi­nocchiaro, presidente dei Pd in Senato l’Aifa ha mostra­to «una riprova di serietà. Sac­coni stia tranquillo».

l’Unità 3.12.09
Testamento biologico
La Chiesa cristiana dei Valdesi organizza la raccolta a Milano

di Laura Matteucci

Un registro aperto a tutti per il testamento biologico. Ce ne sono già parecchi, soprattutto nel centro-nord, organizzati negli ultimi mesi da decine di Comuni: Genova, Pisa, Firenze, alcuni municipi di Roma, Bologna, Cagliari solo per dirne alcuni. Ma questa volta è diverso: questa volta a prendere l’iniziativa, per la prima volta in Italia, è una chiesa cristiana. Alle polemiche sul fine vita, mentre sta per riaprirsi la discussione parlamentare su una legge che dovrebbe regolamentarlo, risponde la chiesa Valdese di Milano con «un’iniziativa laica e cristiana», cui potrebbero fare presto seguito le altre chiese Valdesi d’Italia. Promotore e sostenitore, «pur da non credente», Beppino Englaro, papà di Eluana, i cui 17 anni di stato vegetativo sono terminati a febbraio con l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali. «Spero che l’iniziativa sia di stimolo alle autorità pubbliche, perchè la futura legge sul testamento biologico sia davvero costituzionale». Il riferimento è all’articolo 32 della Costituzione, per il quale «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Le proposte in Parlamento sono due, una della maggioranza e l’altra dell’opposizione (proposta Marino): il punto sostanziale di divergenza riguarda alimentazione e idratazione artificiali, che il centrodestra vorrebbe obbligatori. L’iniziativa valdese, come quella delle tante amministrazioni comunali, oltre all’evidente valore simbolico e di pressione culturale-politica, ha anche una valenza giuridica che, nel caso, potrà venire rivendicata. Spiega la pastora Maria Bonafede: «Crediamo in un Dio che ci insegna che la vita degli uomini è un fatto di relazione, non di mera sopravvivenza biologica». Da qui la proposta, rivolta a tutti, valdesi e non. Le direttive (anche solo parziali) verranno raccolte, firmate in presenza di testimoni e conservate negli uffici della Chiesa (per saperne di più www.milanovaldese.it).

l’Unità 3.12.09
Colloquio con John Ging
«I bambini senza speranza nella prigione di Gaza»
Il direttore dell’agenzia Onu per la Striscia: «Sono 750mila, vivono in un territorio al collasso Il rischio è che per loro l’unica chance sia Hamas»
di Umberto De Giovannangeli

La crisi
L’80% dei palestinesi
dipende dagli aiuti
umanitari dell’Onu
Oltre il 90% dell’acqua è
fuori dagli standard sanitari
Le cifre
Nell’ultimo anno
la povertà è triplicata
le cure sanitarie
sono un miraggio
Crescono gli estremisti

Da Bruxelles lancia un accorato, e documentato, grido d’allarme: «La vita a Gaza è insostenibile. Non abbiamo più tempo, bisogna intervenire». Se c’è una persona al mondo che oggi può raccontare cosa significhi vivere a Gaza, questa persona è John Ging, irlandese, direttore dell’Unrwa, l’agenzia per gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di Ging è di sensibilizzare i leader europei verso una situazione disperante. «Ai miei interlocutori – afferma il responsabile dell’Unrwa nel suo colloquio con l’Unità – ripeto che la Striscia di Gaza si trova in una situazione di assoluta emergenza». Non c’è nulla di ideologico nella denuncia di Ging.
A parlare sono i dati di cui è portatore: «Le condizioni di vita della popolazione (un milione e 400mila persone, in maggioranza sotto i 18 anni, ndr) sono divenute insostenibili, con l’80% delle persone che dipende dagli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. L’economia non esiste più. Il settore privato è stato disintegrato dall’assedio (il blocco israeliano, ndr) e dalla guerra, mentre fino a due anni e mezzo fa 120mila persone avevano un lavoro nel privato. Le infrastrutture, dall'acqua ai servizi igienico-sanitari, sono al collasso, e le acque reflue, trattate e non, vengono scaricate nel Mediterraneo». Quanto all' acqua potabile, «'secondo l'Oms aggiunge Ging oltre il 90% dell'acqua di Gaza non risponde agli standard minimi sanitari e il 60% della popolazione ha un accesso irregolare. Nell’ultimo anno la povertà nella Striscia è triplicata”. Quei dati, pur così significativi, da soli non danno ancora una visione complessiva delle condizioni di vita della gente di Gaza. Non si tratta, annota Ging, solo di un «collasso politico» ma anche di «assenza di umanità» che deve essere combattuta e rimossa. Il che significa porre fine all’assedio della Striscia «perché – ribadisce il responsabile dell’Unrwa – è tempo di vedere un cambiamento delle politiche in tutti coloro che hanno determinato una simile povertà e questa indicibile vergogna».
Il quadro offerto da John Ging conferma quanto personalità di prestigio mondiale, come l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter e i premi Nobel per la Pace Desmond Tutu e Mairead Corrigan Maguire, avevano denunciati in interviste rilasciate a l’Unità: Gaza è una enorme prigione a cielo aperto, isolata dal mondo, dove è sempre più problematico sopravvivere e impossibile fuggire. La condizione materiale è drammatica ma. Rimarca Ging, «il problema più grave è la devastazione psicologica di cui soffre la popolazione nel suo complesso e, presi individualmente, i 750mila bambini che vivono in quella prigione che è la Striscia di Gaza». I bambini. Questa è la loro quotidianità: «Stiamo perdendo i bambini di Gaza – denuncia Ging I bambini stanno crescendo in questo ambiente. I loro genitori stanno facendo di tutto per non educarli alla violenza, vorrebbero fare di loro dei dottori, degli insegnanti, degli avvocati. Ma la realtà offre altro. La vita di tutti i minorenni a Gaza è piena di limiti, come quella dei loro genitori. Gli adolescenti sono ribelli ovunque, dunque proviamo a immaginare che considerazione abbiano gli adolescenti di Gaza delle loro famiglie. Le trovano patetiche, incapaci di provvedere alle loro necessità minime, ai desideri. E poi ci sono gli estremisti di Hamas, che dicono, che ripetono a questi ragazzi: la nostra è la strada da seguire. I bambini di Gaza, soprattutto quelli fino a 8-9 anni di età, non sono mai usciti da qui. Non sanno nulla di Israele, degli israeliani hanno visto solo il soldato, la bomba, il carro armato. Stiamo creando questa piccola pentola a pressione, un piccolo mondo disperato e violento, sempre più carico di frustrazione». ̆
Prigione, una immagine che nelle considerazioni di Ging, come in quelle di Jimmy Carter, Desmond Tutu, Maread Maguire, non ha nulla di metaforico: «Quando parliamo di servizi e di condizioni di vita a Gaza, possiamo dire che quelle nelle prigioni del mondo sono migliori che a Gaza», rileva il responsabile Onu, sottolineando come i detenuti in Europa ricevano più cure sanitarie di quelle che ricevono gli abitanti di Gaza. Questa deriva si consuma nel silenzio e nell’inazione della comunità internazionale. Un silenzio che il responsabile dell’Unrwa prova a spezzare. «La distruzione in corso della società civile a Gaza – avverte Ging – non ci lascia margini di tempo, bisogna intervenire».
Un intervento sul campo che risulta sempre più proibitivo per la stessa Agenzia Onu. Non ci sono possibilità di ricostruzione «nemmeno per l'Unrwa – spiega Ging che ha presentato al governo israeliano un conto da 11 milioni di dollari di danni alle sue strutture e attende ancora una risposta». L’Unrwa celebra quest’anno i suoi 60 anni di esistenza, una anniversario amaro per John Ging: «Celebriamo 60 anni di sconfitte. di mancanza di soluzione politica. Questo deve servire a una riflessione sul ruolo della nostra agenzia», poiché «la sfida alla quale dobbiamo far fronte diventa ogni anno più pesante».❖

Repubblica 3.12.09
I miei figli all'estero con il cuore italiano
di Umberto Veronesi

Ciò che non è emerso nel dibattito dopo la bella lettera a questo giornale di Pier Luigi Celli è che questo Paese si è trasformato. Il confine, sia geografico sia culturale, per le nuove generazioni non è una barriera, una linea oltre la quale c´è il diverso. La loro realtà è il villaggio globale.
In poche ore e con costi abbordabili si spostano da uno Stato all´altro, o da un continente all´altro; tramite Internet comunicano in tempo reale con il mondo, scambiando parole e immagini. Che senso può avere per loro il concetto del «restare in patria»?
E dove, varcata la fatidica frontiera, troverebbero un Nuovo Mondo? Io penso che sia bene che i ragazzi vadano all´estero, almeno per un periodo della loro vita – e che gli stranieri vengano da noi – e credo sarebbe antistorico rinchiudersi in forme di neonazionalismo. Certo, la tentazione dell´emigrazione delle intelligenze è forte, c´è una verità importante nell´invito amaro di Celli - "Figlio mio, lascia questo paese" - , e bisogna prendere atto delle sue motivazioni. È innegabile che viviamo un momento di confusione e di instabilità politica, e di incertezza circa i valori etici ereditati dall´Illuminismo. Io per primo ho espresso molte volte, da anni, anche dalle pagine di questo giornale, la mia amarezza, spesso la mia indignazione, nel denunciare la mancanza di una visione del futuro, di una valorizzazione della creatività, e della capacità dell´innovazione, di una cultura della scienza, in sostanza, e di una strategia della ricerca scientifica in grado di rilanciare l´Italia.
Ma l´amarezza non è una ragione sufficiente per incoraggiare l´abbandono dell´Italia come entità culturale. Sarebbe una emigrazione capovolta che ci svuoterebbe: un secolo fa era l´emigrazione di chi non aveva mezzi, oggi sarebbe di chi ne ha di più. Conosco il problema da vicino: ho sette figli di cui uno è a Chicago, un altro a Berlino e un terzo è in partenza per New York. Con ognuno ho discusso a lungo il dove e il come del loro futuro, ma non ho mai incoraggiato nessuno ad andarsene, né a restare. Devo dire, però, che chi è rimasto qui non è stato penalizzato nella propria carriera professionale. È legittimo andare alla ricerca del luogo in cui meglio esprimere le proprie potenzialità, ma è doveroso considerare anche la situazione generale del Paese dove si va ad esprimerle.
Andare all´estero, ma dove? L´oriente e i Paesi emergenti non sono un´alternativa realistica. Il mito degli Stati Uniti appartiene, appunto, al secolo scorso. Oggi negli Usa la scuola è sicuramente più evoluta e moderna; ma l´assistenza sanitaria è pessima, la criminalità è altissima e la sicurezza individuale e famigliare nelle grandi città è un valore quasi da dimenticare. Non si può ignorare che l´Italia ha invece il livello di omicidi fra più bassi del mondo, un sistema sanitario nazionale fra i migliori a livello internazionale, un tasso di mortalità neonatale bassissimo e un livello di povertà e analfabetismo accettabile. Certamente in Europa ci sono paesi che appaiono più avanzati dal punto di vista civile, come l´Olanda; oppure che attraggono per una cultura più critica e libera da schemi, come la Gran Bretagna. Eppure nessuno di questi appare davvero come ideale.
La verità è che oggi gli stessi problemi si pongono in tutte le regioni del mondo. Il conformismo è imperante, la mediocrità è la regola e l´arte del compromesso, che scade spesso nella meschinità, non è un male solo italiano. È vero che in una cultura tendenzialmente conservatrice (con sconfinamenti nell´oscurantismo) come la nostra, il talento e il merito, di natura «rivoluzionari» fanno più fatica ad emergere. Questa cultura, per quanto tradizionalista, ha però dei lati positivi. Primo, la libertà di pensiero è tuttora inviolata. Ci sono a volte attacchi indiretti all´espressione di pensiero, ma nella sostanza il diritto fondamentale della nostra Costituzione è stato fino ad ora rispettato. Secondo, l´intolleranza, che è madre dei conflitti sociali e della violenza, è un fenomeno marginale. Terzo, la solidarietà e il senso di giustizia sociale esiste ed è fattore di coesione per molti giovani. I ragazzi italiani impegnati nelle grandi missioni umanitarie in tutto il mondo sono numerosissimi. C´è un «fondo collettivo» di forti valori nei giovani di oggi che possiamo sviluppare anche qui. Anzi dobbiamo.

Repubblica 3.12.09
Le due destre
di Massimo Giannini

Non sappiamo quale linea sceglierà il presidente del Consiglio tra il buonsenso o usare la clava
Ha detto bene Napolitano: solo la maggioranza può uccidere la maggioranza. é quello che sta accadendo

C´erano due modi per disinnescare la bomba atomica del fuorionda in cui Gianfranco Fini dà del monarca a Silvio Berlusconi, e marca la distanza irriducibile tra la sua idea di destra e quella del Cavaliere. Il primo modo era usare il buonsenso: prendere atto di quella distanza, che non è certo nuova ma risale addirittura al congresso fondativo del Pdl, e colmarla con la valorizzazione delle differenze, necessarie e vitali in un partito che si vuole pluralista e di massa.
Il secondo modo era usare la clava: cogliere l´occasione di un incidente sia pure sgradevole, ma di per sé non così destabilizzante, per bastonare e regolare una volta per tutte i conti con quello che evidentemente non si considera più un alleato, ma un avversario.
Non più il co-fondatore del Popolo delle libertà, ma l´eversore del partito unico del centrodestra.
Non sappiamo ancora quale linea ufficiale abbia scelto e sceglierà il presidente del Consiglio. Al di là della solita «ira» che lascia trapelare attraverso la sua corte, il premier non si è ancora espresso sul piano formale, per dire la sua sulle esternazioni sfuggite al presidente della Camera a L´Aquila. Ma due segnali lasciano pensare che il Cavaliere propenda per un drammatico e traumatico «redde rationem».
Intanto, le parole meditate di Claudio Scajola, che afferma chiaramente che Fini è ormai lontano dallo spirito identitario e dalla constituency politica del Pdl. E poi il titolo del Tg1 di ieri sera che, amplificando quello dei giornali di famiglia usciti ieri mattina («Fini chiarisca o si dimetta») parla testualmente di «ultimatum» al presidente della Camera. È vero che due indizi non fanno una prova. Ma è altrettanto vero che questi segnali contano e pesano. Scajola è un ministro di rilievo, oltre che dirigente di spicco dell´ex Forza Italia: non appartiene alla claque dei Cicchitto e dei Capezzone, dei Gasparri e dei Quagliarello, «reagenti» di professione incaricati della dichiarazione quotidiana da infilare nei pastoni televisivi. E il Tg1 di Minzolini, come dimostra precedenti inequivoci (dalle omissioni sulle escort alle suggestioni sull´immunità parlamentare) si può considerare a tutti gli effetti «l´organo ufficiale» del partito del presidente, che non incede nella grottesca agiografia del Tg4 di Emilio Fede, ma interpreta l´ortodossia ideologica e anticipa la linea politica del Pdl di rito arcoriano.
Dunque, il combinato disposto di questi fattori lascia pensare che per Fini sia cominciata, o stia per cominciare una sorta di «purga berlusconiana».
Come si addice al partito-caserma, l´unico che il presidente del Consiglio concepisce e che il presidente della Camera aborrisce. Come è logico per la muta famelica di cani che da giorni, in Transatlantico e sui giornali-cognati, ha lanciato la caccia a Fini sospettandolo di criminale complotto e di altro tradimento, e che ora sente, nelle sue frasi pronunciate a ruota libera in quel famigerato fuori onda, l´eco di una profezia che si autoavvera.
Ma se questo è il disegno, cacciare il «mercante» dal tempio dell´unto del Signore, bisogna dire che l´operazione è insieme avventurosa e pericolosa.
Avventurosa, perché Fini è pur sempre la terza carica dello Stato, e dal modo in cui ha messo in riga il livido Bondi a Ballarò è evidente che l´uomo non rinuncerà mai a far vivere la sua idea alternativa di centrodestra, incontrando su questo un consenso nel Paese e un sostegno nel partito, per quanto, per ora, entrambi minoritari. Operazione pericolosa, perché il Pdl senza il co-fondatore Fini diventa, sul piano culturale e sociale, il partito di una destra a trazione esclusivamente forza leghista, esasperata ed esagitata, che non ha eguali in Occidente e non ha paragoni nelle famiglie del popolarismo europeo. Un partito estremista e populista, che si chiude nella sua ridotta identitaria, padana e neanche più tanto sudista, e si preclude ogni possibile riapertura di gioco con il centro di Casini, difficilmente spendibile per sostituire Fini nel ruolo di stampella di un Cavaliere sempre più azzoppato.
Berlusconi farà bene a ponderare le sue mosse. La sua destra, rivoluzionaria e plebiscitaria, può anche vincere questa partita interna. Ma i fatti stanno dimostrando che l´altra destra, quella di Fini, istituzionale, laica e repubblicana, sta comunque saldamente in campo, e se non qui ed ora rappresenta comunque un´alternativa possibile.
Anche per il governo del Paese. Per quello futuro, ovviamente. Da quello attuale lacerato e disperato com´è, non c´è da aspettarsi più nulla, se non una rissosa e rovinosa sopravvivenza. E questo, per l´Italia, è davvero un prezzo troppo alto da pagare. Aveva detto bene il presidente della Repubblicano Giorgio Napolitano: solo la maggioranza può uccidere la maggioranza. È quello che sta accadendo in questo avvelenato clima da 25 luglio 1943: un lento, inesorabile suicidio politico.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 3.12.09
Usa, via libera alla ricerca sulle staminali
Assegnati i finanziamenti pubblici voluti dall´amministrazione Obama
Invertita la rotta rispetto a Bush, che aveva imposto limiti rigidissimi agli studi
di Elena Dusi

Barack Obama spalanca le porte alla ricerca sulle staminali prelevate dagli embrioni umani. La Casa Bianca completa così l´inversione di rotta rispetto alla politica dell´ex presidente George W. Bush, che aveva circondato di limiti rigidissimi l´utilizzo per finalità mediche degli embrioni creati in sovrannumero nelle cliniche della fertilità. Ieri i National Institutes of Health hanno dato luce verde al finanziamento pubblico per gli scienziati che si dedicano a ricerche sulle staminali umane. La condizione è che i ricercatori usino solo cellule appartenenti alle 13 linee (cioè coltivazioni, ceppi comuni) approvate dall´Nih, l´ente pubblico che si occupa di sanità.
Le 13 linee, ha anticipato il direttore dei National Institutes of Health, Francis Collins, sono destinate ad aumentare. Presto l´"imprimatur" dell´Nih potrà essere esteso a circa 200 linee di staminali. La decisione dell´Nih poggia su uno dei primi provvedimenti presi da Obama: un ordine esecutivo di marzo che tagliava con colpo di spada i limiti imposti da Bush e annunciava la riapertura del rubinetto dei finanziamenti pubblici per gli studi sulle staminali umane. In Italia la creazione di nuove linee di cellule embrionali è proibita. Solo una manciata di laboratori, fra grandi difficoltà, riesce a fare ricerca importando le "cellule bambine" dall´estero.
Le 13 linee liberalizzate negli Usa sono state create al Children Hospital di Boston (11 linee) e alla Rockefeller University di New York (2 linee). Dall´era precedente al 2001 (quando Bush chiuse i cordoni della borsa) esistevano già 21 linee disponibili. Tutte le coltivazioni sono state ottenute da embrioni abbandonati da coppie sottoposte a trattamento per l´infertilità.
«Il panorama inizia a cambiare. Questo è solo il primo di una lunga serie di passi. La comunità scientifica verrà finalmente messa in grado di esplorare il potenziale della ricerca sulle staminali», ha dichiarato Francis Collins, uno dei più importanti genetisti del mondo e contemporaneamente un cristiano evangelico convinto. Il limite del provvedimento dell´Nih è che per la creazione di nuove linee si dovrà continuare ricorrere a finanziamenti privati. Ma il provvedimento di Collins estenderà enormemente il numero di laboratori che potranno dedicarsi alla ricerca sulle staminali. Gli scienziati sono stati invitati a sottomettere online i loro progetti, con 21 milioni di dollari pronti a essere erogati. Le staminali - che compongono gli embrioni al 100% e sono più rare negli adulti - sanno replicarsi all´infinito e trasformarsi in ogni tipo di tessuto. Manipolandole, gli scienziati cercano di riparare i tessuti danneggiati da una varietà infinita di malattie, dalle lesioni del midollo spinale al diabete, dall´infarto all´Alzheimer.

Repubblica 3.12.09
Cucchi, "assolte" le guardie penitenziarie
L´indagine del Dap: nessuna responsabilità. La famiglia: grottesco, non è morto di vecchiaia
Altro colpo di scena dopo il reintegro dei medici. Il pm: le accuse ai tre agenti restano in piedi
di Marino Bisso Carlo Picozza

ROMA - Sulla morte di Stefano Cucchi, un´altra indagine interna si è conclusa con l´"assoluzione". Per il dipartimento dell´Amministrazione penitenziaria (Dap) non avrebbero colpe i tre agenti carcerari, accusati di omicidio preterintenzionale per aver pestato nelle celle del tribunale il trentunenne deceduto dopo una settimana con la schiena rotta, il corpo denutrito, disidratato e segnato da sospette bruciature di sigaretta. Sarebbero "innocenti", per la Asl Roma B (che ha revocato per loro il provvedimento di trasferimento), anche i tre medici del Pertini, pure indagati dalla procura per omicidio colposo per non aver assicurato le cure adeguate a Cucchi che nella corsia carceraria ha perso un chilo al giorno. "Senza macchie" anche i carabinieri che per primi avevano escluso, nella ricostruzione dei fatti, responsabilità dell´Arma che con i suoi uomini ha arrestato il giovane con pochi grammi di droga alle 23.30 del 15 ottobre e lo ha tenuto in custodia notturna nelle caserme Appio e Tor Sapienza (qui arrivò l´equipaggio di un´ambulanza che non visitò e neanche vide il giovane in viso per i suoi rifiuti e la poca luce che filtrava in cella dal corridoio).
«Stefano», commenta con amarezza Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, «non può essere morto di vecchiaia in sei giorni».
Il Dap, in 73 pagine, ha raccolto le dichiarazioni di agenti, medici e dei familiari del giovane e le ha consegnate ieri ai pm Francesca Loi e Vincenzo Barba per i quali l´inchiesta non cambia orientamento. «Gli accertamenti» per il capo del Dap, Franco Ionta, «non hanno rilevato responsabilità della polizia penitenziaria». E sulla custodia di chi viene arrestato in flagranza di reato, sottolinea: «Sto pensando di ritirare il nostro personale dalle celle del tribunale».
«Medici e poliziotti penitenziari», commenta dall´associazione Antigone, il presidente Patrizio Gonnella, «per la Asl e per il Dap non avrebbero responsabilità: chi è stato allora a pestare Cucchi?». L´inchiesta va avanti: sono stati sentiti il detenuto tunisino che ha firmato la lettera di accusa ai carabinieri e l´assistente del senatore Stefano Pedica che l´ha consegnata ai pm. Gli inquirenti, che danno poco credito a quelle tre pagine, hanno accertato che non furono scritte dal tunisino, poco pratico della lingua, ma da un altro detenuto al quale il primo l´ha dettate. È stato acquisito il registro di ingressi e uscite dalle celle del tribunale ed emergono già molte anomalie sugli orari e sull´andirivieni nel sotterraneo.
Intanto ieri, il senatore Ignazio Marino, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla Sanità, ha reso noto che, con un ordine di servizio, il Dap obbliga gli agenti penitenziari a informare i medici dei reparti carcerari sulle richieste di colloquio dei familiari con i pazienti-detenuti. Non dovrebbe insomma ripetersi più quanto accaduto ai genitori di Stefano, tenuti per giorni all´oscuro delle condizioni del giovane e informati crudelmente della sua morte solo con la notifica dell´esecuzione dell´autopsia. «Mi sembra un grande passo avanti», commenta Ilaria Cucchi sorella di Stefano, «spero che nessun´altra famiglia patisca quanto abbiamo patito noi».

Repubblica 3.12.09
Statali, Brunetta taglia fuori la Cgil
Epifani:"Grave autogol". Finanziaria, dubbi della Ragioneria. Primi fondi alla banda larga
di Roberto Petrini

ROMA - È scontro tra il ministro per la Funzione pubblica, Renato Brunetta e il leader della Cgil Guglielmo Epifani. Mentre in Parlamento il ministro dell´Economia Tremonti è impegnato in una faticosa spola fino a tarda notte tra Palazzo Chigi e Montecitorio per quadrare il cerchio della Finanziaria, sul fronte del contratto degli statali si alza la temperatura tra il governo e il maggiore sindacato italiano. Ad accendere la miccia è stato lo stesso Brunetta: «La convocazione delle parti è imminente, ma solo dei sindacati che hanno firmato il nuovo modello contrattuale». La Cgil, destinata a rimanere fuori dalla porta, ha reagito con decisione: «Una scelta sbagliata e scortese, è un grosso autogol». Una convocazione contrastata, dunque, che arriva dopo la proclamazione da parte di Cgil e Uil dello sciopero generale per la mancanza di risorse nella Finanziaria rispettivamente per l´11 e il 21 dicembre.
Nel frattempo la giornata è stata segnata da nuova tensione e vertici di maggioranza: il governo non è riuscito a disincagliare il giudizio di inammissibilità degli emendamenti bocciati martedì e dovrà riscriverli; qualche speranza resta solo per le coperture in capo allo scudo fiscale e per il pacchetto di tagli alle poltrone agli enti locali che tuttavia diventerà facoltativo. Diversa la questione degli emendamenti congelati: sono stati bloccati perché mancava la relazione tecnica, ma la relazione mancava perché non c´era la copertura. Ieri, indirettamente è stato lo stesso Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, a confermarlo puntando i piedi: ha scritto di suo pugno in calce alla relazione che il via libera ai tre emendamenti governativi (Ponte sullo Stretto per 470 milioni, Roma capitale per 600 milioni e pacchetto lavoro che costa 1,1 miliardi) è condizionato alle risorse disponibili. Queste risorse sono contenute nell´emendamento - che ancora manca e si attende - che va sotto il nome di «patto per la salute» ma che contiene sostanzialmente, in 90 commi, buona parte delle coperture. Alla fine - dopo un intenso lavoro tecnico - le risorse dovrebbero saltare fuori: dal fondo Letta di Palazzo Chigi (circa 3,5 miliardi), dalle province di Trento e Bolzano (1,1 miliardi), dal fondo Tfr e da altre partite minori. In questo modo, oltre alle risorse per i tre emendamenti in stand by dovrebbero emergere quelle per il patto per la salute. Sembra invece concludersi positivamente per Tremonti il dossier Banca del Sud: l´emendamento di origine parlamentare è stato riammesso. Alla fine ieri si è votato soltanto l´articolo 1 del provvedimento.
Sorte migliore per i fondi per la banda larga. Oggi sul tavolo del Cipe dovrebbe arrivare il via libera ad una prima tranche di circa 400 milioni (sugli 800 richiesti da Scajola) per Internet ad alta velocità.
Dettagli emergono, infine, sul contributo unificato per l´accesso alle cause di lavoro e previdenziali: comporterà aggravi per 60 milioni per coloro che chiederanno un giudizio su cause di lavoro o previdenza. «Si tratta di una tassa odiosa», ha detto Cesare Damiano del Pd. Spunta anche un altro balzello: un aumento da 1 a 3 euro per le tasse aeroportuali in un emendamento di Matteoli (ministro per le Infrastrutture).

Repubblica 3.12.09
Minareti. Perché l´Occidente non deve averne paura
di Piero Coda

L´atteggiamento sbagliato di chi vuole godere tutti i benefici materiali della globalizzazione, ma non ha alcuna intenzione di affrontare i rischi che questa porta con sé

La coabitazione tra popoli culture, esigenze sociali e religioni è un fenomeno che è sempre esistito Ma oggi assume un ritmo molto più accelerato e connotati inediti

La proibizione sancita dal referendum svizzero e le posizioni della Lega riaccendono lo scontro sui temi della tolleranza e della coesistenza tra religioni diverse

L´esito del referendum svoltosi in Svizzera la scorsa domenica circa la costruzione di nuovi minareti è il risultato eclatante della superficialità culturale con cui le nostre società stanno affrontando uno dei fenomeni più ingenti e sfidanti del nostro tempo. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi – e le analisi sociologiche e i dati statistici, insieme alla cronaca quotidiana, ce ne danno evidente documentazione – è un profondo rimescolamento delle carte per quanto concerne la relazione e la coabitazione tra i popoli, le culture, le esperienze sociali, le religioni. Un fatto che c´è sempre stato, ma che oggi assume dei connotati inediti e pervasivi, oltre che un ritmo accelerato. Il disagio nell´affrontare questa sfida, molto concreta e oltremodo impegnativa, è comprensibile. Ma non lo è l´assenza, a livello pubblico, di un approfondimento e di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci ad andare al di là della reattività immediata e di leggere il significato profondo di quanto accade e ci interpella, al fine d´individuare strategie culturalmente attrezzate e operativamente praticabili. L´esito e, prima ancora, la proposizione di un referendum come quello di domenica in Svizzera denuncia in modo grave e inequivocabile quest´assenza. E c´è solo da augurarsi che provochi quello choc salutare capace d´innescare un processo ponderato di discernimento della vera questione che è in ballo.
L´esperienza di questo referendum ci dice infatti che cosa non dobbiamo e non possiamo fare, in virtù della tradizione culturale e giuridica su cui si regge la civiltà occidentale e in riferimento all´inedito che bussa alla nostra porta e che chiede di dar nuova forma – senza rinnegare assolutamente il positivo delle acquisizioni con fatica sin qui raggiunte – alla convivenza civile e all´assetto giuridico delle nostre società. Innanzi tutto, non è più possibile -– pena il ritorno a un passato che è improponibile – legiferare impedendo la legittima espressione pubblica delle diverse fedi religiose. Le quali non possono in nulla derogare dalle norme fondamentali e riconosciute della società in cui si esplicano, ma che altrettanto non possono esser relegate nella sfera del privato. È questo un guadagno irrinunciabile della civiltà occidentale, cui non è estraneo l´apporto per molti versi decisivo della fede cristiana e della cultura che ad essa s´ispira. C´è voluto tempo e si sono combattute aspre battaglie, con chiusure e resistenze su ambedue i fronti, ma alla fine il principio secondo cui occorre dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare è diventato, per lo Stato moderno e per la Chiesa, un principio almeno formalmente inderogabile. Tanto che il Concilio Vaticano II ha emanato una dichiarazione sulla libertà civile e sociale in materia religiosa, la Dignitatis humanae. Dichiarazione per nulla scontata, sino a quel momento, nello stesso ambito cristiano, e che proprio per questo – al dire di Paolo VI – «resterà senza dubbio uno dei più grandi documenti di questo Concilio». Un´altra cosa che è non solo strategicamente sbagliata, ma culturalmente del tutto inadeguata oltre che controproducente, è contrapporre rozzamente Occidente e Islam, facendo loro vestire i panni di due civiltà inconciliabili. Certo, le differenze non mancano e sono anche rilevanti: ma la contrapposizione escludente non favorisce mai l´evoluzione dei dati positivi presenti in un dato sistema culturale e sociale. Senza dire che l´identità sana e matura non si promuove contro quella dell´altro, chiunque egli sia, ma nella fatica di stabilire con lui il giusto rapporto. E senza sottovalutare il fatto che una presa di posizione come quella che si è espressa nel referendum sui minareti segnala un´insuperabile contraddizione: quella di chi vuol godere di tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre.
Detto questo, si può guardare con serenità e spirito costruttivo alla delicata questione di che cosa necessitino gli atteggiamenti fondanti della nostra cultura e le regole procedurali e sostanziali della nostra convivenza per farsi capaci di apparecchiare uno spazio pubblico condiviso e accogliente. Insomma, se, per me che sono cristiano, il campanile e il suono delle campane fanno casa e nutrono il sentimento della mia identità, perché non debbo riconoscere che il minareto e l´invito alla preghiera del muezzin fanno altrettanto per gli amici musulmani? L´essenziale è che il suono della campana e l´invito del muezzin non siano assordanti e impositivi. Del resto, non sono stati pochi né brevi i periodi della storia passata né a tutt´oggi sono del tutto spariti i luoghi ove sinagoghe, chiese e moschee convivono pacificamente e arricchiscono le rispettive identità del dono prezioso che viene dall´altro.
Dobbiamo senz´altro essere realisticamente consapevoli che tutto ciò non è scontato né facile. Ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme. Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare in radice ogni forma di tentazione fondamentalista e omologatrice. Promuovendo, di concerto con coloro – e non sono pochi – che non aderiscono a nessuna tradizione religiosa, una laicità matura che si faccia spazio propizio di dialogo e incontro, nella cornice del rispetto della dignità e dei diritti/doveri inalienabili della persona. Senza indulgere a quel falso irenismo che mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, in realtà le rende indifferenti l´una verso l´altra inibendo quell´inesausta ricerca di bene, di verità e di pace che muove la coscienza e la libertà verso orizzonti sempre più ricchi e condivisibili. Riuscire a convivere così, nei Paesi europei così come in quelli islamici, non è, per chi aderisce a una fede religiosa, abdicare alla propria identità né sognare idealisticamente un´utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e la propria responsabilità verso l´altro.

Repubblica 3.12.09
A ciascuno il suo dio
Rivoluzione americana. Dalle guerre di religione alla libertà di culto
di Nadia Urbinati

Il primo emendamento della costituzione americana ha stabilito una novità assoluta. La libertà religiosa appartiene agli individui senza interferenza dello Stato e senza che ci sia una confessione riconosciuta

I paesi europei hanno fatto una gran fatica ad accettare di vivere con chi prega uno stesso dio in una maniera diversa da quella della maggioranza. I cristiani si sono massacrati tra loro per disaccordi su che cosa fossero i sacramenti e se credevano o no nel mistero della transustanziazione o della trinità. Nel Cinquecento, dopo la grande disubbidienza di Lutero, teologi riformati e cattolici si impegnarono in diversi concilii a ristabilire la concordia, a superare cioè tutte le divisioni per non aver più bisogno di tollerarsi a vicenda. Tolleranza era una parola negativa come il "sopportare" chi era nel torto. La verità era una e una doveva essere la religione praticata in un paese: si tollerava provvisoriamente, in attesa della nuova grande unità cristiana.
Ma mentre i teologi cercavo invano di superare i loro dissidi dogmatici con l´arte della parola, i monarchi e i principi dovevano in qualche modo impedire le violenze tra cattolici, calvinisti e protestanti. Con editti provvisori l´autorità secolare concedeva ai fedeli di un credo minoritario di comunicarsi a loro modo, di sposarsi e di partecipare alle funzioni religiose, di essere cioè non soltanto credenti in cuor loro, ma anche praticanti. Era il primo passo verso il riconoscimento della libertà religiosa – un passo molto incerto e che non riuscì a scongiurare il massacro di San Bartolomeo e le guerre religiose.
La formula "un re, una fede" (cuius regio, eius religio), coniata a metà Cinquecento proprio per giustificare una politica di pacificazione in attesa di ristabilire l´unita cristiana, fu per almeno due secoli e mezzo la migliore soluzione che gli stati europei escogitarono per non massacrarsi nel nome di un dio o di un dogma. La formula escludeva mescolanza di credenti e divideva territorialmente le religioni: ciascuna chiesa nel proprio fazzoletto di terra e con un proprio re. La libertà e la pace potevano esistere solo tra eguali. Dio segnava i confini degli stati – chiese cattoliche non erano ben viste in terra protestante e viceversa. Questa idea è stata messa in crisi dalla Rivoluzione americana che con il primo emendamento alla costituzione riconosceva la libertà religiosa come libertà degli individui, escludendo sia l´interferenza dello stato sia il riconoscimento di chiese e confessioni. La tolleranza del diverso lasciava il posto al diritto di essere come si sceglieva purché si rispettasse la libera scelta altrui. La ben nota teoria del "muro" di divisione tra stato e chiesa era la grande innovazione americana.
A leggere le cronache di questi giorni sembra di essere ritornati al Cinquecento: appartenere ad un credo diverso da quello della maggioranza è rischioso. La differenza è che mentre nel Cinquecento la furia di omogeneità si abbatteva sulle denominazioni cristiane oggi si abbatte su alcune religioni non cristiane. In Svizzera, dove per anni gli italiani sono stati paria e ghettizzati, oggi è la volta dei mussulmani: la divinità politica del popolo (vox populi, vox dei) ha decretato per referendum come chi vive sul suolo svizzero può o non può pregare (si comprende bene perché le autorità cattoliche si siano schierate con la libertà di religione; mentre si deve apprezzare la loro solidarietà ai mussulmani non si può però non far loro presente che esse stesse si fanno complici di questa logica quando accettano che dei politici decidano che il crocifisso è un simbolo culturale della nazione italiana). Questo brutto giuoco alla pulizia religiosa piace molto ai leghisti nostrani, i quali vorrebbero inseguire il sogno di "tutti uguali in questo paese": "una fede, un re". Non per devozione ma per fanatica interpretazione dell´identità collettiva. Quattro secoli e mezzo fa questa ubriacatura di omogeneità religiosa fece del vecchio continente un mattatoio.

Repubblica 3.12.09
Discriminazione
Il voto elvetico nasce da un sentimento di paura
Legiferare su una singola categoria di individui significa entrare in un sistema di discriminazione che evoca i periodi peggiori della storia europea E così Ginevra non può entrare nella Ue
di Gilles Kepel

Con il referendum sui minareti la Svizzera ha dimostrato di non poter far parte dell´Unione europea. I risultati del voto rappresentano uno stupefacente arretramento sui temi dell´identità e si contrappongono allo spirito di apertura, di diversità e soprattutto alla gestione multipolare che caratterizza attualmente il funzionamento dell´Unione europea. Gli svizzeri che si sono espressi a larga maggioranza contro la costruzione di nuove moschee con minareti hanno seguito un riflesso da assediati. Quello che dobbiamo chiederci ora con preoccupazione è se sia possibile che una legge, per definizione universale, venga applicata unicamente ad una categoria di individui. In questo caso, non si tratterebbe neanche di stranieri residenti, per i quali sono già comunemente accettate discriminazioni, per esempio sul diritto di voto, ma di cittadini svizzeri musulmani. Questi cittadini non potrebbero costruire moschee con un minareto, mentre i cattolici o i protestanti hanno sempre potuto edificare chiese con campanili e potranno continuare a farlo in futuro.
In Francia un referendum di questo tipo non sarebbe possibile. Contrariamente a quello che è stato detto, la legge francese non riguarda solamente l´utilizzo del velo ma affronta l´insieme dei simboli religiosi. È una legge che vale dunque anche per gli alunni cristiani ed ebrei, costretti a rinunciare ad elementi distintivi della loro confessione prima di entrare in classe. Legiferare su una singola categoria di individui avrebbe significato entrare in un sistema di discriminazione che evoca i peggiori periodi della storia europea del Novecento. Le dichiarazioni di alcuni esponenti della Lega Nord dimostrano la persistenza di un sentimento da stato d´assedio anche in Italia. Nel mondo politico francese esiste invece la volontà condivisa di non aprire un dibattito simile a quello che c´è stato in Svizzera, proprio per non rischiare di entrare in una spirale discriminatoria.
Le ultime ricerche sociologiche dimostrano che esiste una nuova generazione di giovani provenienti dall´immigrazione che hanno studiato nelle scuole europee, hanno avuto accesso alla conoscenza e che, tra tante difficoltà, seguono una traiettoria sociale ascendente. Il problema è che questa generazione rimane troppo spesso ostaggio di predicatori che danno un´immagine della loro religione in rottura con i valori e le norme europee, quando non addirittura violenta. È questo il vero nodo della questione. Credo che non siamo abbastanza informati su quello che vuole e pensa la maggioranza dei giovani musulmani. Essi sono poco presenti nei media, molto occupati invece da chi vuole comunicare con toni conflittuali e sempre più accesi: questi fanno paura e perciò hanno più visibilità. Di qui discende anche la difficoltà per chi vuole essere rappresentato in quanto musulmano di trovare mezzi e spazio per esprimersi.
Cosa succederà adesso? La Svizzera teme di entrare nel mirino di attacchi fondamentalisti come è successo alla Danimarca con la vicenda delle vignette satiriche di Maometto. Non mi sembra però che il referendum svizzero sui minareti abbia avuto la stessa eco nei paesi musulmani. Oggi molti dirigenti svizzeri si domandano se i sauditi e gli altri monarchi del Golfo continueranno a investire i petrodollari sulle rive del Lago Lemano. Abbiamo visto che le relazioni tra la Svizzera e la famiglia Gheddafi si sono molto deteriorate negli ultimi tempi. È un altro elemento sul quale riflettere. Come accade in molti paesi europei, non si amano gli arabi quando sono poveri ma diventano molto simpatici quando sono ricchi.
(Testo raccolto da Anais Ginori)

Repubblica 3.12.09
Dopo le polemiche sul Cnr e il convegno anti-Darwin, l´intervento del celebre fisico
Cabibbo: "il creazionismo non abbia cittadinanza"
di Elena Dusi

Rivolta nel mondo scientifico per l´iniziativa di De Mattei, vice del Consiglio Nazionale. La replica del presidente Maiani: "Una sua idea, il nostro lavoro non c´entra"

No, il creazionismo non è scienza. E nemmeno cultura cattolica cristiana. Anche la chiesa oggi è si aperta alle teorie di Darwin. Quell´idea non ha alcun diritto di cittadinanza nella nostra società». Nicola Cabibbo è uno dei più importanti fisici italiani. Insegna alla Sapienza di Roma e presiede la Pontificia accademia delle scienze. Il suo no al mito del creazionismo è la reazione all´ennesimo rigurgito di cultura anti-scientifica in Italia: il convegno "Evoluzionismo. Il tramonto di un´ipotesi" ospitato a febbraio dal Cnr.
Nulla di strano che qualcuno trovi più attraente il mito rispetto alle teorie di Darwin, in un paese che nel 2004 cancellò l´evoluzione dai programmi scolastici. Né che organizzi un convegno come quello al Cnr, e pubblichi un volume con gli atti in cui si sostiene tra l´altro che il grand canyon si è formato nel giro di un anno per via del diluvio universale e che la Terra è troppo giovane per aver consentito il dipanarsi dell´evoluzione umana. A suscitare sconcerto nell´ambiente scientifico sono state proprio la sede (il palazzo del Consiglio nazionale delle ricerche a Roma) e il simbolo riportato sul volume degli atti accanto al nome della casa editrice: sempre quello del principale ente pubblico italiano dedicato alla scienza.
Il convegno risale al 23 febbraio. Nel frattempo gli atti sono stati pubblicati dalla casa editrice Cantagalli con un contributo del Cnr di 9mila euro. A organizzare il consesso a porte chiuse proprio nell´anno in cui si celebrano i due secoli dalla nascita di Darwin e i 150 anni dalla pubblicazione de L´origine delle specie, è stato il vicepresidente del Cnr, Roberto De Mattei. E la liaison fra un ente pubblico dedicato alla ricerca scientifica e un convegno sul tramonto dell´evoluzionismo non ha mancato di suscitare polemiche. Anche perché, proprio in quei giorni, l´università gregoriana organizzava un meeting internazionale per aprirsi alle teorie dell´evoluzione.
«In qualsiasi paese normale, governato dal buon senso, tesi come quelle del convegno getterebbero nel ridicolo chiunque fosse così temerario dall´affermarle», scrive su Micromega Telmo Pievani, che insegna filosofia della scienza alla Bicocca di Milano. E Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze, nel suo blog attacca direttamente De Mattei: «Come è possibile che rivesta un incarico di primo piano nel più importante ente pubblico di ricerca del paese e allo stesso tempo organizzi convegni in aperta contraddizione con l´evidenza scientifica? Come si sentiranno i biologi del Cnr con un vicepresidente così?».
De Mattei, professore di storia del cristianesimo all´università europea di Roma e presidente della fondazione Lepanto "per la difesa dei principi e delle istituzioni della Civiltà Cristiana", è al Cnr dal 2003 come subcommissario e dall´anno successivo come vicepresidente. Nel suo curriculm parallelo a quello istituzionale, figura l´organizzazione nel 2000 - subito dopo il Gay Pride della capitale - di una marcia di espiazione da piazza San Giovanni al Santuario del divino amore per "cancellare l´offesa arrecata alla capitale del cristianesimo".
Nella polemica, però, il biologo dell´università di Lecce Ferdinando Boero, tira in ballo direttamente Luciano Maiani, il presidente del Cnr che fino a ieri aveva cercato di schivare le polemiche citando la libertà d´espressione. «Qui la libertà d´espressione non c´entra» replica Boero in una lettera a Maiani. «Se Lei manda a una rivista scientifica un articolo dove dice che la Terra è piatta, il suo articolo viene bocciato. Questo convegno esprime posizioni analoghe a queste. E ha l´etichetta del Cnr». Maiani ieri ha così deciso di ribadire che l´impegno dell´ente di ricerca segue esclusivamente il solco della scienza. «Il convegno si è svolto per iniziativa del vicepresidente - si difende il fisico che ha assunto la direzione nel 2008 e ha trovato De Mattei già sulla poltrona di vice. «Ovviamente non presto alcuna fede al creazionismo. Né le ricerche del Cnr sono ispirate in alcun modo a quell´idea. La programmazione del nostro ente seguirà come sempre criteri esclusivamente scientifici».

Repubblica 3.12.09
"Affari di famiglia", il nuovo saggio di Maurizio Bettini
Perché Roma vietava i matrimoni tra cugini
di Maurizio Bettini

Questo diventerà uno dei punti di differenza fra la nostra e altre culture che invece prescrivevano quel tipo di unione

Anticipiamo un brano di Affari di famiglia. La parentela nella letteratura e nella cultura antica, il nuovo libro di , che esce in questi giorni (Il Mulino, pagg. 369, euro 28)

I racconti sulle origini di Roma ci tramandano ben pochi casi di unioni con la cugina: soltanto tre, ma ciò che più conta è che si tratta ogni volta di unioni assolutamente sfortunate, paradigmi mitici che sarebbe certo mal augurante seguire. Il primo esempio è costituito dall´infelice matrimonio che Amata aveva progettato fra la propria figlia Lavinia e Turno, il figlio di sua sorella Venilia. In questo caso si tratta addirittura di un matrimonio direttamente contrario ai fati, perché la fanciulla è destinata a sposare Enea, lo «straniero» venuto da lontano: per permettere nientemeno che la fondazione di Roma.
Il secondo esempio è costituito invece dal matrimonio progettato fra uno dei Curiazi e sua «cugina» Orazia, figlia di una sorella di sua madre. Anche questa unione era però destinata a realizzarsi, e a concludersi tragicamente con la morte del fidanzato (sponsus) Curiazio nel duello con il cugino (e futuro cognato) Orazio: e con l´uccisione di Orazia per mano del suo stesso fratello. Il terzo esempio corrisponde infine a un matrimonio cui seguirono ogni sorta di omicidi e di nefandezze, quello tra i due fratelli Tarquini e le loro cugine, figlie del re Servio Tullio e della sorella della loro madre. Queste due unioni simultanee si presentarono subito male assortite, dato che il Tarquinio «buono» si era unito con la cugina Tullia «cattiva», mentre il Tarquinio «cattivo» (e futuro Tarquinio il Superbo) si era unito con la Tullia «buona». Come ben si sa l´omicidio provvide a riappaiare i partner, con l´uccisione di Tarquinio e della Tullia «buoni», seguita da quella del vecchio re Servio Tullio, il cui cadavere fu anzi oltraggiato dalla coppia assassina. Ebbe così inizio lo sciagurato regno di Tarquinio il Superbo assieme alla propria cugina/cognata/moglie: l´ultimo regno della storia di Roma.
L´esito disgraziato di questi tre mitici matrimoni fra cugini, progettati o realizzati, non sembra dunque lasciare molti dubbi, specie se proiettato sul divieto matrimoniale che abbiamo ricordato. Anche il racconto, in accordo con le prescrizioni consuetudinarie, sembra dire: a Roma non si sposa la cugina.
Questo forte divieto matrimoniale non mancava naturalmente di colpire i non romani. Plutarco dedicò due delle sue Questioni romane alla riluttanza che a Roma visibilmente si manifestava di fronte alla possibilità di sposare le consanguinee. Di tale interdizione egli forniva anzi spiegazioni di un certo interesse, oltre ad allegare una storiella che spiegava come e qualunque questo divieto fosse stato una volta infranto: e da quel momento in poi il costume fosse cambiato. In effetti, sembra certo che Plutarco avesse ragione, e che l´antica barriera esogamica si fosse progressivamente ridotta nello sviluppo storico della società romana: ma il «divieto della cugina» continuò sostanzialmente a serpeggiare a Roma, visto che almeno a partire dal IV secolo d.C. questo tipo di matrimonio appare nuovamente interdetto. E anzi, il cristianesimo trasformò tale divieto in una regola quasi tanto forte quanto l´incesto con la sorella. (...)
La Chiesa si preoccuperà di estendere sempre di più le proibizioni matrimoniali, il cui raggio d´azione raggiungerà un´ampiezza realmente vertiginosa: mentre il «matrimonio con la cugina» - vietato dalle leggi canoniche e mal visto dal costume - costituirà un punto dolente, ovvero una sorta di continua tentazione per la nostra cultura occidentale. Si potrebbe anzi affermare che, proprio nel «divieto della cugina», la nostra cultura troverà uno dei più espliciti punti di contrasto, ovvero di «differenza», rispetto alle pratiche matrimoniali in uso in culture diverse, in cui il matrimonio con la cugina è molto spesso non solo autorizzato ma addirittura prescritto.

Corriere della Sera 3.12.09
Passaggi Due saggi descrivono il cammino tortuoso dei «postcomunisti» dalla rivoluzione del 1989 al Pd
Sinistra, la «generazione traslochi»
Cambiare di continuo il nome e la sede, inseguiti dallo spettro del Pci
di Paolo Franchi

Acome Avanti popolo, Av­venire, Avventure (e Av­venturieri). B come Ber­linguer ti voglio bene, Bordighismo, Botteghe Oscure. C come Cane morto (da Marx a Mussi transitando per Lukács), Cattoco­munisti, Centralismo democratico, Clandestinità, Collateralismo, Com­pagni, Congressi, Corresponsabili­tà. E via di questo passo. Fino alla V (Vigilanza rivoluzionaria), e alla Z di Zelig. Ci si può provare a restitui­re alla vicenda del Pci un significa­to comprensibile anche per i più giovani ricorrendo a un lemmario rigorosamente ispirato all’alfabeto? E può farlo un trentenne, che, so­prattutto grazie alla tradizione ora­le, questa vicenda l’ha incontrata sin da ragazzo, ma che, almeno per motivi anagrafici, non l’ha personal­mente vissuta? Sì, si può. O almeno: Francesco Cundari, che di mestiere non fa lo storico, ma il giornalista colto e in­telligente (prima al «Riformista», poi al «Foglio», adesso alla direzio­ne di Red Tv), ci è riuscito. In que­sto suo primo libro ( Comunisti im­maginari , Vallecchi, pp 254, € 16), Cundari salta agilmente, e senza far­sene troppi problemi, dai rami alti a quelli bassi di una storia lunga set­tant’anni, dal Palmiro Togliatti che, quando Davide Lajolo gli chiede an­gosciato quale sorte avrebbe avuto Antonio Gramsci a Mosca negli an­ni di Stalin, risponde secco: «Sareb­be morto», alla bandiera arcobale­no della pace, che non è una creatu­ra del terzo millennio ma fu inven­tata negli anni Cinquanta dai ragaz­zi della Fgci, e issata da un giovane alpinista rosso di nome Ugo Pec­chioli addirittura su una cima del Monte Bianco. E salta, Cundari, ri­correndo a un’arma efficace quan­to rara. Giuseppe Vacca, nella prefa­zione, la cataloga come «sarcasmo appassionato». Ma, ricorrendo a un ossimoro, proprio come faceva nella sua penultima stagione il Pci «di lotta e di governo», «conserva­tore e rivoluzionario», si potrebbe anche parlare di sarcasmo affettuo­so, velato di qualcosa di simile alla nostalgia. E di passione fredda.

Per questa via il giovane Cundari giunge ad abbozzare qualche con­clusione per nulla lieve, e solo al­l’apparenza paradossale. Per esem­pio quando «serenamente» argo­menta che «il legame con Mosca e l’appartenenza al movimento co­munista mondiale erano non già il limite, ma la relativa garanzia della relativa autonomia politica e cultu­rale del Pci». O quando afferma de­ciso che la storia del postcomuni­smo non comincia nell’89, ma die­ci anni prima, assieme alla «lenta agonia del Pci», quando Enrico Ber­linguer decreta «la crisi e il forzato accantonamento della sua unica strategia, il compromesso storico, che peraltro a Togliatti si richiama­va esplicitamente». O (soprattutto) quando ricorda che, «non avendo mai ricevuto degna sepoltura», lo spettro del Pci «è condannato no­nostante tutto a vagare ancora tra noi, popolando i sogni dei nostalgi­ci come gli incubi dei suoi irriduci­bili nemici», e frastornando i suoi ultimi discendenti, lasciati in uno stato di perenne straniamento.

Già: per i postcomunisti (gli ex comunisti sono un’altra razza) lo straniamento è una condizione as­sieme politica ed esistenziale. Ne parla, in un altro libro per nulla ba­nale uscito a ridosso del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino e della svolta di Achille Occhetto, Gianni Cuperlo. Quando venne giù il comunismo, Cuperlo, che adesso è un apprezzato dirigen­te e parlamentare del Pd, aveva vent’anni, ma dal Pci si era fatto conquistare sin «da piccolo». Dal­l’umanità che popolava il partito è tuttora convinto di aver avuto pa­recchi insegnamenti. Primo tra tut­ti quello ricevuto da un operaio co­munista triestino nel pieno di una disputa congressuale su una que­stione di deleghe: «Xe inutile far polemica col partito… gavemo uno statuto, no? E te sa perché el se cia­ma statuto? Perché dentro sta-tuto. Basta zercar». E Basta zercar ( « Ba­sta cercare») s’intitola il libro di Cu­perlo, pubblicato da Fazi (pp. 208, € 16), che ha pure un sottotitolo in­trigante: Sinistra, traslochi, Partito democratico . Bene, si fa per dire, la sinistra e il Pd. Ma che cosa c’entra­no, con la ricerca, i traslochi?

C’entrano molto, e il quaranten­ne Cuperlo spiega benissimo il per­ché. Se a sinistra uno dice: la gene­razione dell’antifascismo, tutti san­no di cosa sta parlando. E lo stesso dicasi per la generazione delle ma­gliette a strisce del luglio 1960, e an­cor più per quelli del Sessantotto, «tra i più tenaci in assoluto», che «infatti comandano ancora». E co­me si potrebbe definire, invece, chi la mattina di via Fani era un ragazzi­no, e negli anni seguenti, «quando il mondo svoltava a destra lascian­dosi dietro bandiere vermiglie sen­za un filo di vento», un adolescente o poco più?

Un’idea — un’ottima idea — Cu­perlo ce l’ha. «Noi — scrive — sia­mo i migliori a fare i traslochi. Per altro decisi quasi sempre dagli al­tri ». E dunque, anche se non suona bene, anche se non ha poesia, vada per «la generazione dei traslochi». Perché è finito, e non solo a sini­stra, il tempo in cui, in un partito, ci si stava una vita.

Da vent’anni, compendia Cuper­lo, «sciogliamo e fondiamo partiti. Riempiamo e svuotiamo sedi. Sem­pre nella logica di mettere in salvo le ambizioni di un campo. Lo abbia­mo fatto con passione. A volte so­no state gradazioni sui simboli, al­tre una variante sulla sigla. In due occasioni, uno strappo netto con la tradizione. La prima nell’89. La se­conda, più di recente, con il Pd». Vent’anni di vita da nomadi (un de­stino intuito da Occhetto, che non a caso non parlò di un partito, ma di una «carovana»). Vent’anni se­gnati dall’ambizione, o dalla dura necessità di andare comunque «ol­tre », oltre il comunismo, oltre il so­cialismo, oltre la sinistra, portando­si appresso solo «qualche ricordo di famiglia e un bagaglio di attrezzi utilissimo, avendo schiacciato il no­stro impegno sull’allarmismo pe­renne », perché si vive pressoché so­lo di emergenze. Conclusione prov­visoria (ma non troppo): «Siamo la protezione civile della sinistra italia­na» .

Qui non c’è sarcasmo appassio­nato e affettuoso. C’è, piuttosto, au­toironia. Un po’ indulgente, forse. Ma pure abbastanza dolorosa da farci augurare, pur con tutti i (pe­santi) dubbi del caso, che Cuperlo e i suoi compagni possano final­mente trovar pace (e ritrovare un’anima che, traslocando traslo­cando, deve essersi smarrita) nel Pd bersaniano. Sperando che il fan­tasma di cui dice Cundari non ven­ga, la notte, a turbare il loro merita­to riposo.

mercoledì 2 dicembre 2009

Corriere della Sera 2.12.09
«L’ateismo ci distrugge Nella Chiesa c’è bisogno di coerenza e credibilità»
Il cardinale Ruini: gravi errori anche nell’evangelizzazione La cultura ignora Dio, i fedeli devono essere veri testimoni
di Gian Guido Vecchi

«Vede, la testimonianza della fede dev’essere coerente e credibile. Talvolta coloro che pensano d’essere credenti in realtà si il­ludono, s’ingannano da sé...». Lo studio è affacciato sulle mura vaticane, la Tor­re di San Giovanni e la Cupola di Miche­langelo. Alle sue spalle, posate su una mensola, una foto seppiata dei suoi ge­nitori, il papà medico, la mamma che studiò Lettere, e le immagini di Giovan­ni Paolo II e Benedetto XVI. Libri dapper­tutto. Il cardinale Camillo Ruini è in pie­na attività e ha un lampo negli occhi, «io non ho mai avuto paura di andare in pensione», sorride. Difatti, dal 10 al 12 dicembre, il Comitato per il progetto culturale della Cei, da lui presieduto, riu­nirà a Roma un evento internazionale su Dio. Teologi, filosofi, studiosi, artisti, scienziati. «Sto anche lavorando a un li­bro su Dio. Penso sarà in libreria nel 2011. Non è facile, ho insegnato per 29 anni e il rischio è di fare il professore, cosa che la gente non gradisce».

Eminenza, il tema del convegno è radicale: «Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto». La situazione è così preoccupante?

«È preoccupante sul piano culturale, perché oggi sono molto forti e diffuse, fino ad apparire prevalenti, le tendenze a negare o a ignorare Dio: lo si riduce a un prodotto della nostra mente, del no­stro desiderio o della nostra struttura psichica, oppure si sostiene che per via razionale di Dio non si possa conoscere nulla, che lo si possa conoscere solo at­traverso una scelta di fede puramente soggettiva. Questo è motivo di preoccu­pazione per noi».

Le fedi non hanno forse acquistato un peso sempre maggiore nel mon­do?

«Certamente, è un fatto innegabile. E proprio questo mette a nudo una frattu­ra tra le tendenze prevalenti nella cultu­ra e il sentire della gente: una frattura dannosa per tutti, perché rende la cultu­ra autoreferenziale e alla fine sterile, e perché d’altra parte dà a tanti credenti la sensazione sbagliata e pericolosa che per credere in Dio vadano rifiutati gli sviluppi attuali della storia, ci si debba isolare dalla storia».

La sua analisi richiama ciò che scrisse Benedetto XVI, il 10 marzo, nel­la lettera ai vescovi del mondo: «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini» e questo ha «effetti distruttivi». Qua­li?

«Anzitutto, dare all’umanità la sensa­zione di essere sola nell’universo, ab­bandonata al cieco divenire del cosmo senza una direzione, uno scopo. Tutto ciò pesa sull’anima delle persone, fa sen­tire la nostra vita inutile e priva di sen­so. Ma anche la società e la cultura per­dono il loro riferimento decisivo. Se non c’è Dio, l’uomo è soltanto una parti­cella della natura, manipolabile come tutto il resto. Si perde così il riferimento principe della vita sociale, l’idea che l’uomo, come diceva Kant, è sempre un fine cui tendere e mai un mezzo».

C’è un campo nel quale questa emergenza si mostri con particolare evidenza?

«Potrei dire che questo nodo di fon­do emerge quando gli esseri umani so­no trattati in modo puramente funzio­nale, come semplici strumenti dei quali servirsi, nella bioetica come in campo sociale, politico o economico».

In genere si parla sempre di bioeti­ca...

«C’è manipolazione anche nello sfrut­tamento totale, quando l’uomo viene brutalizzato e trattato come uno stru­mento di cui servirsi senza pensare alla sua dignità. Ma la questione, in realtà, riguarda tutta la nostra esistenza, non solo alcuni ambiti: il problema di Dio non è settoriale, è una questione globa­le dell’uomo in quanto tale».

La Chiesa ha sbagliato in qualcosa?

«Faccio una premessa: secondo la fe­de cattolica, la Chiesa è costituita da due dimensioni inseparabili. La prima è fatta degli uomini e delle donne creden­ti, delle realtà istituzionali che rendono la Chiesa visibile. La seconda si riferisce allo Spirito Santo che la anima. Perciò la Chiesa è una realtà storico-sociale e insieme il corpo mistico di Gesù Cristo. Quando si parla di sbagli, di peccato, è più appropriato riferirsi agli uomini o al­le istituzioni della Chiesa, piuttosto che alla Chiesa come tale che è inseparabile da Cristo, dallo Spirito Santo, da Dio».

In questo senso, ci sono state man­canze nell’evangelizzazione, nell’atteg­giamento verso il mondo, nell’elabora­zione teologica?

«Mancanze anche molto gravi ci so­no state, ci sono adesso e purtroppo ci saranno in futuro, in ciascuno degli am­biti che ha ricordato. Nel complesso, di­rei che tali mancanze hanno a che fare con la testimonianza che i credenti han­no dato al Dio in cui crediamo».

In che modo?

«Quando il comportamento persona­le è tanto divergente da ciò che si do­vrebbe esprimere nella fede, c’è il ri­schio che ci sia un’illusione soggettiva. Una sorta di autoinganno. Devi essere coerente e credibile, nella vita, perché la tua testimonianza non appaia agli al­tri priva di peso, se tu stesso la smenti­sci. Allo stesso modo, del resto, uno può ritenersi non credente ma in realtà essere molto più vicino alla fede di quanto non pensi».

Che cosa può fare la Chiesa? Basta una riflessione colta di élite culturali?

«Non basta certo una riflessione in­tellettuale. La questione di Dio e della testimonianza da dare a Dio riguarda tutta la vita, non solo la cultura o l’intel­ligenza. Il nostro convegno è perciò un contributo molto parziale, ma anche molto utile nel momento storico che vi­viamo ».

Il problema principale non sono forse quelli che non pensano affatto?

«Quelli che non pensano e ignorano del tutto la questione di Dio e ogni gran­de domanda dell’esistenza sono senz’al­tro un grande problema per l’evangeliz­zazione. Mi chiedo peraltro se persone del genere esistano sul serio: davvero uno non si pone mai le grandi questio­ni? L’ateismo e l’agnosticismo diffusi nella nostra cultura sono un problema diverso ma non meno grande. Non pen­siamo sia residuale: la cultura ha un in­flusso sulla vita, prima o poi. Se la cultu­ra ti dice che Dio non c’è e tu vuoi cre­derci, vivi quantomeno una dissociazio­ne in te stesso».

Il Papa, in volo verso Praga, diceva che le «minoranze creative determina­no il futuro» e la Chiesa «deve com­prendersi come minoranza creativa». È il destino dei cristiani in Europa?

«È difficile e rischioso pronunciarsi sul futuro. Dipende dalla libertà di Dio e dalla libertà degli uomini. Ad ogni mo­do i cristiani, ma cristiani che siano dav­vero testimoni di Dio, sono sempre stati minoranza. E sì, possono essere mino­ranza creativa, come ha chiesto spesso Benedetto XVI».

Nel libro «Il caso serio di Dio» lei inizia dalla preghiera. Perché?

«Il mio ultimo piccolo libro è una rac­colta di quattro interventi da me fatti quest’anno e che ho ritenuto più signifi­cativi di altri. Quello sulla preghiera è per me il più importante perché riguar­da l’essenziale: è attraverso la preghiera che viviamo più consapevolmente il no­stro rapporto con Dio».

Nel libro parla di laicità. Grozio, nel Seicento, pose le basi dell’ordina­mento laico dello Stato con un’espres­sione memorabile: il diritto si basa sulla natura e sarebbe valido «etsi Deus non daretur», anche se Dio non ci fosse. Benedetto XVI, come il prede­cessore, propone al contrario che ci si orienti «veluti si Deus daretur», come se Dio ci fosse. Non è una negazione della laicità? Uno Stato dovrebbe legi­ferare «come se Dio ci fosse»?

«La laicità richiede distinzione e au­tonomia reciproca tra lo Stato e la Chie­sa, che non sono in pericolo, a mio pare­re. Ciò che la laicità non richiede è una posizione relativista fatta propria dallo Stato, in forza della quale la legislazione dovrebbe prescindere da ciò che noi sia­mo, da ogni riferimento alla realtà og­gettiva del nostro essere. In questo sen­so, il 'come se Dio ci fosse' non si oppo­ne all’'anche se Dio non ci fosse' di Gro­zio: piuttosto, è un modo di mantenerlo vivo nell’attuale situazione storica».

In che senso?

«Grozio, giustamente, riteneva che nel suo tempo la condivisione dell’ap­proccio culturale portato storicamente dal cristianesimo fosse comune. Da più di un secolo, però, tale presupposto è caduto. Il Novecento, a cominciare dai grandi totalitarismi, è la storia del rifiu­to progressivo di ciò che prima era co­munemente accettato. La situazione si è rovesciata, Benedetto XVI ne prende at­to e cerca di offrire una riposta anche culturale: per questo la sua proposta tro­va il favore di tanti intellettuali laici».

C’è chi magari sarà stupito: da de­cenni, eminenza, il suo nome è rego­larmente accostato al tema del rappor­to tra Chiesa e politica. Ora parla es­senzialmente di Dio.

«Per più di vent’anni, dal 1986 al 2008, ho avuto precise responsabilità nell’ambito della Chiesa italiana e ho cercato di onorarle. Dopo la 'pensione' ho potuto tornare ai temi cui mi dedica­vo prevalentemente prima di diventare vescovo: in particolare, allo studio e alla proposta delle ragioni della fede. È quel­lo che di nuovo cerco ora di fare, con piacere personale e anche un po’ di en­tusiasmo ».

Repubblica 2.12.09
A.A.A. Chiesa vendesi
Se il Vaticano vuole vendere le chiese senza fedeli
di Giancarlo Zizola

Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi. Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi. In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte. «Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano.

Cappelle, ex monasteri e canoniche di campagna. Viaggio tra gli edifici sacri abbandonati che il Vaticano vuol mettere all´asta

Le ragnatele rivestono di strati ancestrali il confessionale dell´Inquisizione da dove pende la stola un tempo violacea dell´ultimo confessore: la chiesa di san Michele sulla rocca di Guardia Piemontese, nella Calabria tirrenica, potrebbe essere inclusa nel catasto delle chiese in vendita o da rottamare annunciato dal ministro della cultura della Santa Sede, l´arcivescovo Gianfranco Ravasi. Corrisponde infatti alle condizioni tassative enunciate per la selezione degli edifici di culto da avviare al mercato o alla demolizione fra le oltre centomila chiese o cappelle sparse lungo la penisola: mancanza di fedeli, scarso o nullo valore artistico o per la memoria, onerosità della manutenzione, sproporzione ingiustificata tra valore in gioco e costi dell´eventuale restauro, sui bilanci delle diocesi. In sostanza, al catasto cimiteriale delle chiese sarebbero condannati unicamente i pesi morti, le chiese già defunte. «Un mucchio di mattoni privi di carisma, spesso già sconsacrate» dice Giuliano Della Pergola, per anni docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano. «Strutture chiuse da tempo, inevase per difetto di partecipazione. Quasi mai hanno un valore artistico o urbano tale da giustificarne il ripristino. Non sono più un punto di riferimento, nemmeno per la comunità civile. Per cui l´alternativa che si pone è fra il loro abbattimento puro e semplice o il riuso civile, che non esclude funzioni spirituali, culturali e sociali».
Il caso di Guardia Piemontese potrebbe fare testo nel dibattito subito esploso dopo le dichiarazioni di Ravasi, specie per le spade roteanti dei guardiani leghisti della conservazione a ogni prezzo dell´antiquariato sacro per scongiurare eventuali aborriti meticciati religiosi con l´Islam. Ignorano forse che il Dio dell´Islam è lo stesso Dio dei cristiani e degli ebrei e dichiarano di preferire un night club ad una moschea in una ipotetica ex chiesa cattolica sconsacrata.
Che sia uno spazio in sfacelo, lo provano gli stucchi caduti dalla volta sul pavimento, i finestroni sbrecciati, le tre dita di polverume sull´altar maggiore. Un tempo erano le anziane del villaggio che si prendevano cura della chiesa, scendendo in processione nei loro costumi occitani a cantare il rosario e a confidare le loro pene alla statua della Vergine Addolorata. «Qui il prete non ci viene, il prete siamo noi» dicevano, riabilitando uno dei tratti laicali della riforma valdese in Calabria. Ma ora che la somma di secolarizzazione ed emigrazione ha dissolto la piccola comunità spontanea di cristiani di quel paese del sud in vista del Tirreno anche per quella chiesa è suonata la campana a morto.
Tuttavia perfino con la loro rovina queste mura potrebbero rivendicare un senso: testimoniare la ferocia con cui le truppe dell´Inquisizione massacrarono nel 1561 i contadini venuti con la loro eresia dalle valli piemontesi. La chiesa fu eretta subito dopo per imporre "l´unica vera fede". L´immenso convento dei domenicani là vicino è anch´esso in decomposizione. La strage fu tale che la Porta del paese si chiama "Porta del Sangue". Questa funzione vivente della memoria potrebbe dunque essere ritenuta sufficiente, secondo gli standard stabiliti dalla Commissione vaticana per la conservazione dei Beni Ecclesiastici, a preservare dallo sterminio la chiesa domenicana dell´Inquisizione in Calabria. Decisione che implicherebbe interventi di recupero, ripensamenti di funzioni museali-didattiche, programmazioni culturali, con costi difficilmente compensati dai flussi turistici in calo o dalle passioni ecumeniche raffreddate. Ma se aveva ragione Padre Davide Maria Turoldo a ricordare che sui frontoni di molte chiese cristiane la parola "Dio" è scritta col sangue e le guerre, quale chiesa non avrebbe valore storico sufficiente a salvarla dalla demolizione o dal mercato? Alcuni temono che a prevalere potrebbe essere l´interesse delle alte sfere ecclesiastiche a destituire un passato violento con un cambio negazionista della destinazione d´uso dei luoghi di culto per rimuovere le stragi, prima ancora di averne fatto mea culpa.
Questa storia di chiese inutili serve troppo da allegoria per la crisi del cattolicesimo istituito, come la cattedrale a cielo aperto di Andrej Tarkovskij in Nostalghia. Di fatto, dichiara formalmente che la Chiesa di Ratzinger rinuncia all´ipotesi di un recupero del terreno perduto, nella prospettiva di un cristianesimo di massa o di una "società cristiana". Calo della pratica religiosa, indebolimento istituzionale, travolgenti fattori di trasformazione dei vissuti collettivi hanno tagliato fuori per sempre alcune postazioni sacre, come vecchie stazioni ferroviarie su binari morti. La secolarizzazione si è abbattuta sul cattolicesimo e sul suo spazio sacro senza la furia distruttiva delle armate di Oliver Cromwell sulle abbazie irlandesi o gli incendi giacobini appiccati alle pievi cattoliche durante la Rivoluzione Francese. Ma la devastazione a dosi omeopatiche, consumistica, è stata non meno micidiale, e l´alleanza tra Chiesa e Mercato, contro cui Pier Paolo Pasolini aveva predicato nel deserto, presenta ora il conto: non solo il catasto delle chiese da vendere o rottamare, ma anzitutto la "chiesa superflua" analizzata da Heinrich Frics. «Ovunque la Chiesa è per i più qualcosa di cui si può fare a meno per la significatività del vissuto quotidiano» ha scritto il teologo tedesco, «L´erosione del legame attacca soprattutto la Chiesa istituzionale, col risultato che la fede diventa volatile e la Chiesa perde di riconoscimento sociale».
S´incontrano tuttavia dei vescovi che rifiutano di rovesciare qualsiasi responsabilità sul capro espiatorio della modernità o del laicismo. Claude Dagens, vescovo di Angouleme, chiama in causa la scarsa attuazione del modello di "Chiesa comunità" proposta dal Concilio Vaticano II e chiede di puntare sul "rifacimento interiore" della Chiesa, su una riorganizzazione istituzionale in cui la Chiesa faccia leva sui piccoli gruppi di preti e laici. Se la Chiesa ha continuato a farsi identificare con gerarchia e clero, era fatale che, venendo meno il clero in modo massiccio, non si trovassero preti sufficienti a gestire tutte le parrocchie. L´abbandono di alcuni campanili era il risultato matematico di un errore strategico. E´ il clericalismo che si morde la coda. Per deficit di partecipazione e di ruolo dei laici, le chiese sono state caricate quasi unicamente sulle spalle dei preti. Venendo meno i preti le chiese devono essere abbandonate al nulla. Il sacramento viene abbandonato e allora, piuttosto che lasciarlo nel deserto di una chiesa vuota, è preferibile trasferirlo ove ci sia il calore di una comunità.
In Francia sono corsi per primi ai ripari, sperimentando le assemblee domenicali senza prete. Il Vaticano si è affrettato a stroncarle rifiutando loro il diritto di consacrare l´eucarestia, di accettare che persone designate dalle comunità potessero assumere delle responsabilità direttive nella comunità.
Questa diaspora di chiese di pietra non è tuttavia così apocalittica o anomala come potrebbe sembrare a prima vista. Per alcuni indica che la Chiesa ammette di non poter più a lungo restare avvinghiata a una forma di vita istituzionale, la parrocchia residenziale, che data dall´era preindustriale, e di dover cercare di inculturarsi in forme istituzionali più flessibili e differenziate, provvisorie, accanto a quelle classiche nel territorio.
Della Pergola assicura che non si tratta che di "un´operazione di buon senso", che non è il caso di drammatizzare dando corpo ai fantasmi del passato. «Questa transizione dell´identità – dice – è una prerogativa specifica dell´identità fluida del cristianesimo in ogni secolo e ha accompagnato continuamente la storia degli edifici di culto, a Palermo ci sono sinagoghe divenute prima chiese cristiane, poi moschee, in Spagna a Cordova questi cambi di identità sono comuni. Il cristianesimo si è installato con l´assimilazione di sinagoghe prima e da templi pagani poi, divenuti chiese cattoliche».
In accordo con l´urbanista, anche l´arcivescovo Loris F. Capovilla che richiama l´invito di Papa Roncalli, quando era nunzio in Turchia, davanti alla scomparsa delle chiese antiche, numerose "come le stelle del cielo" nella terra dei primi Concili Ecumenici: «Non importa nulla. Venerare i luoghi anche se devastati, le memorie monumentali anche se rovine, ma non attaccarci a tutto ciò. Il regno di Gesù non è subordinato a ciò che nella stessa religione vera c´è di materiale, di esterno, di transitorio». «La dismissione di chiese» osserva l´ex segretario di Roncalli – «è una storia che data almeno dal dopoguerra. A Napoli come a Venezia ci sono chiese storiche trasformate in scuole o banche, uno dei licei scientifici di Venezia è il Santa Giustina, che ha sede nella omonima ex chiesa. Si conserva la facciata ma si cambia l´interno e la destinazione». Prima di disfarsi delle chiese spente, Capovilla sarebbe per l´affidamento a Confraternite laicali o a piccole comunità monastiche, come a Bose. In ogni caso egli raccomanda che le dismissioni siano accompagnate da strumenti giuridici che assicurino la destinazione pertinente dell´ex edificio sacro, vietandone utilizzi impropri. Nessuna preclusione all´uso dell´edificio di culto per riunioni di preghiera di altre religioni. Oppure per conferenze, dibattiti, esposizioni, concerti, per la bellezza, perché «si dovrebbe ricordare che ove è bellezza e verità, giustizia e bontà, ivi è Dio».

Repubblica 2.12.09
Il prelato e storico dell´arte sostiene che più che le mura contano i fedeli
"Bisogna fare attenzione che non diventino locali a luci rosse come accade all´Est"
di Orazio La Rocca

ROMA. Monsignor Verdon, sconsacrare e vendere un edificio sacro non è una sconfitta per la Chiesa? «Nessuna sconfitta. È solo realismo storico prevedere, là dove ci sono cambiamenti sociali, che una chiesa possa avere altre funzioni a causa di cambiamenti demografici, emigrazioni, che cambiano i volti di regioni, città, ma anche di piccoli quartieri». L´idea di sconsacrare e vendere vecchie chiese non scandalizza monsignor Timothy Verdon, 63 anni, storico dell´arte nativo del New Jersey (Usa), consultore della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa.
Monsignore, i cristiani non dovrebbero quindi sentirsi troppo legati all´architettura sacra?
«No, le chiese sono importanti. Ma su un piano strettamente teologico il rapporto che i cristiani devono avere con le chiese è del tutto differente, ad esempio, dalla totale sacralità che nell´Antico Testamento circondava il Tempio di Gerusalemme o che oggi, la Mecca è per i musulmani. La vera chiesa per i cristiani non sono le cattedrali o le basiliche come San Pietro, ma è la comunità di credenti in Cristo».
E tutto questo cosa c´entra con le vecchie chiese da vendere?
«C´entra perché i cristiani devono essere consapevoli che una chiesa può essere trasformata. Ma con grande prudenza, perché si tratta sempre di luoghi che hanno segnato la vita di generazioni di credenti con battesimi, matrimoni, funerali».
Anche lei, però, invita alla cautela.
«Certamente. È importante pensare sempre alle future destinazioni. Non fare, ad esempio, come nei paesi dell´Est, dove antichissime chiese vengono sconsacrate per farne palestre o locali a luci rosse. È bene che un edificio sacro sia riutilizzato per il bene del territorio facendone, magari, biblioteche, musei o anche locali per i riti di altre religioni».