mercoledì 9 dicembre 2009

l'Unità 10.12.09
I tagli ai contributi statali

Colpo di mano in via libertà di stampa
di Giulia Rodano

Ci sono giornali nel nostro Paese che non hanno alle spalle potenti gruppi finanziari e industriali, che a malapena riescono a raccogliere qualche briciola della gigantesca tor-
ta pubblicitaria, che vivono a fatica grazie alla fedeltà dei loro lettori e grazie al contributo dello Stato. Sono i giornali editi da cooperative, no profit, i giornali di partito. Si tratta di poco meno di 280 testate giornalistiche. Con un colpo di mano notturno, maggioranza e Governo hanno abolito il «diritto soggettivo» di queste testate giornalistiche a godere di finanziamenti pubblici. Il contributo sarà deciso di anno in anno dal Governo che stabilirà a chi e quanto versare. Si passa dal diritto alla elargizione, da una informazione pluralista a una informazione a «sovranità limitata», sotto il controllo del Governo. Per molte di queste testate significa morte certa. Un colpo durissimo per i 4500 posti di lavoro a rischio tra giornalisti, tecnici, amministrativi, senza contare le migliaia di collaboratori. Si tratta di un vero e proprio bavaglio alla libertà, all’indipendenza e al pluralismo dell’informazione.
Proviamo a immaginare come si presenterebbe il panorama informativo italiano senza testate come L’Unità, Il Manifesto, Liberazione, solo per citare quotidiani collocati all’opposizione del Governo Berlusconi. Rimarrebbero in piedi soltanto i grandi quotidiani nazionali di proprietà di agglomerati di imprese finanziarie e industriali, mentre il panorama televisivo è già dominato dal «combinat» Rai-Mediaset. Governo e maggioranza giustificano il colpo di mano con la volontà di togliere di mezzo finte cooperative o giornali inesistenti. A parte che dovrebbe essere compito del Governo controllare che i soldi pubblici siano spesi soltanto a favore delle testate che hanno veramente i requisiti previsti dalla legge. Ma qui con la scusa dell’acqua sporca si vuole gettare via anche il bambino. Quello che è stato scritto nella finanziaria in discussione alla Camera è un altro capitolo di quel progressivo svuotamento della democrazia edificata in Italia grazie alla nostra Carta Costituzionale. Dopo la grande manifestazione di Piazza del Popolo in difesa della libertà di informazione, occorre che tutte le forze schierate in difesa delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, tornino a incontrarsi e a mobilitarsi. Anche le Regioni italiane possono e devono svolgere un loro ruolo. Come hanno fatto di fronte ai tagli alla cultura, devono intervenire. Ogni Regione italiana dispone di leggi di sostegno alla editoria. Si tratta di verificare i termini concreti perché le regioni diano il loro contributo in difesa del pluralismo e della libertà di informazione. Sarebbe più che mai opportuno e necessario che la Conferenza delle Regioni italiane incontrasse la Federazione Nazionale della Stampa e gli organismi di rappresentanza delle testate giornalistiche colpite dalla scure di Tremonti.

Repubblica 10.12.09
Proposta del Pdl depositata al Senato. Primo firmatario De Gregorio. 51.646 euro per finanziare i nuovi acquisti
"Chi tocca il crocifisso va in galera reato levarlo dagli uffici pubblici"
La norma prevede l'obbligo di esporre la croce. I senatori del centrodestra: comprarne 40 mila
di Carmelo Lopapa

ROMA - Crocifisso in tutti gli uffici pubblici. E poi ospedali, porti, stazioni, aeroporti, carceri. Obbligatorio. Sanzionato di «arresto fino a sei mesi» o ammenda fino a mille euro non solo chi lo rimuove, ma anche il funzionario pubblico che si rifiuterà di esporlo.
«C´è uno scontro di civiltà. E ognuno deve dire da che parte sta. Noi stiamo dalla parte della Chiesa, non ce ne vergogniamo». Il primo firmatario Sergio De Gregorio commenta così il disegno di legge depositato in questi giorni da nove senatori ultra-cattolici del Pdl al Senato. «Magari un po´ ruvido, soprattutto nelle sanzioni, ma necessario», sostiene il presidente della fondazione Italiani nel mondo. A firmare il testo che, assicurano, presto sarà «calendarizzato» per l´esame a Palazzo Madama, anche Juan Esteban Caselli, eletto in Argentina, Gentiluomo del Papa in America latina e delegato presso il sovrano ordine dei Cavalieri Malta. Tra i promotori, anche Raffaele Calabrò, artefice del testo sul testamento biologico passato al Senato. Il disegno di legge - neanche a dirlo - segue la sentenza della Corte di Strasburgo che un mese fa ha giudicato la presenza del Crocifisso un «limite alla libertà religiosa», consta di soli 5 articoli e prevede anche una copertura finanziaria.
Già, perché se passasse il vincolo, occorrerebbe anche dotare tutti gli uffici del simbolo cristiano. Così, il quinto e ultimo articolo stanzia 51.646 euro per il 2010, da recuperare dal «Fondo di riserva» del ministero dell´Economia. E tanto dovrebbe bastare, spiegano i promotori, per acquistare dai 30 ai 40 mila Crocifissi, di quelli semplici, già visibili nelle aule scolastiche. Per il resto, oltre a riconoscere (articolo 1) alla croce il ruolo di «emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana» e di simbolo perciò «irrinunciabile», si prevede (articolo 2) la sua esposizione «al fine di testimoniare il permanente richiamo della Repubblica italiana al proprio patrimonio storico-culturale radicato nella tradizione cristiana». Da qui, l´esposizione non solo «in tutte le aule delle scuole, delle università, delle accademie» (articolo 3), ma anche «negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali territoriali, in tutte le aule dei consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, in tutti i seggi elettorali», e ancora nelle carceri, negli ospedali, le stazioni, i porti, gli aeroporti in tutte le sedi diplomatiche. Chi lo rimuove «o lo vilipende, è punito con l´arresto fino a sei mesi o con l´ammenda da 500 a 1.000 euro». E la stessa sanzione è prevista per «il pubblico ufficiale o l´incaricato di pubblico servizio che si rifiuterà di ottemperare all´obbligo». Dice De Gregorio: «Non è una proposta integralista. Ma rispondiamo con inquietudine all´aggressività che si manifesta contro la nostra identità cristiana». Il governo per ora tace. L´opposizione si prepara a dare battaglia. «Un atto di insopportabile piaggeria servile - attacca Francesco Pardi dell´Idv, tra i primi ad opporsi alla proposta - Esibizionismo strumentale per procacciarsi la benevolenza dei vescovi. Lo fronteggeremo in aula».

Repubblica 10.12.09
Quando il mondo della Rete diventa movimento politico
di Giancarlo Bosetti

Grazie ai social network stanno tramontando i sistemi tradizionali della mobilitazione Ecco i nuovi soggetti della scena pubblica

Gli obiettivi. Valori alternativi
Internet si è dimostrata un imbattibile strumento di parte: partigiana per elezione, perché è nella sua natura la vocazione a riunire le persone per via di affinità
Comunità virtuali, MySpace Facebook, Twitter, e-mail: tra potere e contropotere, grazie a ogni forma di Internet mobile e all´auto comunicazione di massa, oggi la partita è aperta

Con la diffusione del web nel mondo, un miliardo e settecento milioni di utenti (un quarto della popolazione mondiale), ci sono certamente oggi maggiori strumenti per resistere al potere. Si possono meglio difendere valori e interessi alternativi a quelli prevalenti. Tra potere e contropotere, per usare l´espressione di Manuel Castells, la partita è aperta (e non chiusa a vantaggio del primo), grazie ai social network, alle comunità virtuali, a Facebook, MySpace, Twitter, all´e-mail, a ogni forma di Internet mobile e a quella auto-comunicazione individuale di massa, che caratterizza il paesaggio tecnologico contemporaneo. L´asticella della soglia d´ingresso sulla scena pubblica si è abbassata.
La mobilitazione "in viola" del No-B day, costruita in meno di venti giorni, mostra che la piazza web ha cominciato a funzionare anche in Italia. Le smart mobs, le folle intelligenti, di cui parla da anni Howard Rheingold hanno fatto già varie apparizioni: nelle Filippine nel 2001 fu un movimento organizzato con gli Sms a spingere alle dimissioni il presidente; in Spagna dopo l´attentato di Atocha le tesi del governo furono rovesciate e punite con il voto, a mezzo telefonini; in Iran la contestazione delle ultime elezioni viaggiava su Twitter. Si cita da noi il precedente di Beppe Grillo, con il suo V-Day, ma si trattava di un personaggio già molto noto.
Invece piazza San Giovanni il 5 dicembre scorso è stata riempita da organizzatori poco conosciuti. Era evidente il carattere "orizzontale" della mobilitazione, accentuato dalla collocazione dei politici tra gli spettatori.
Negli Stati Uniti la politica è stata già largamente ridisegnata dal web; Obama aveva reclutato nella sua campagna Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook, e deve a YouTube tanto quanto J. F. Kennedy doveva alla tv e F. D. Roosevelt alla radio. Si tratta del paese con il più alto indice di penetrazione della Rete (75 per cento). Da noi meno della metà della popolazione ha accesso al web e dunque la performance del corteo No-B è una tappa da ricordare: la politica tenti di adeguarsi.
Ormai una traccia chiara della direzione del cambiamento è evidente: non si tratta dell´utopia della "e-democracy", ma di un radicale aggiornamento delle tecniche della competizione. Il web annunciava fin dall´inizio la caduta di barriere tra i cittadini e la politica. Ross Perot entrava in scena nella campagna presidenziale americana del 1992 con l´idea della democrazia diretta per via digitale; Al Gore promuoveva le "autostrade dell´informazione" nel 1994, e nel 1995 si parlava di "ascesa della repubblica elettronica" (Lawrence Grossman).
E negli anni successivi Internet ha davvero modellato la scena pubblica, ma non nel senso che molti avevano idealizzato: democrazia diretta, assemblee elettroniche, disseminazione del potere. No, al contrario, il web si è dimostrato un imbattibile strumento di parte: Internet è partigiana per elezione, perché è nella sua natura la vocazione a riunire le persone per via di affinità, per organizzarle intorno a obiettivi comuni. La Rete, per la politica, raccoglie gente con pensieri, interessi, attitudini simili molto più di quanto non serva a porre gli uni di fronte agli altri individui con idee e interessi in conflitto. La Rete è la «piazza elettronica» non perché sia una ideale "agorà" deliberativa, in cui le parti confrontano i propri argomenti, è invece proprio "la piazza" dove si manifesta per un´idea comune. Dovrà essere possibile un giorno anche ricavare dalle tecnologie di rete mezzi per migliorare l´intero sistema democratico, ma per il momento è chiaro quanti benefici, subito, ne possono ricavare le organizzazioni partitiche e i movimenti sociali, in termini di trasparenza, economia, rapidità, efficacia. Se solo lo volessero.
La capacità, che con il web abbiamo, di far sì che l´informazione giunta a uno di noi possa estendersi rapidamente ad altri, a costi bassissimi o nulli, ha un grandioso potenziale di libertà. Dobbiamo stare soltanto in guardia e cautelarci nei confronti di quello che Cass Sunstein (Republic.com 2.0, Princeton 2007 e Going to Extremes, Oxford 2009) chiama il rischio del perfect filtering, del perfetto filtraggio di individui affini, che la Rete esercita inesorabilmente attraendo il simile con il simile, con una autoselezione che tende a escludere voci discordanti. La discussione tra persone, che son sempre d´accordo tra loro, può nutrire complicità, scoraggiare verifiche, accrescere il disprezzo per altri, far commettere di errori a cascata, o meglio a "cyber-cascata", fino ad accreditare come vere notizie false e a polarizzare estremismi. È salutare che, di norma, sulle piazze, anche virtuali, circolino idee in libertà e opposti pareri.
La "tirannide della maggioranza" è sempre in agguato, tanto più in paesi, come il nostro, che soffre non solo di digital divide (metà della popolazione fuori dalla Rete, in America la penetrazione è del 75 per cento), ma anche di press divide (è salita al 40 per cento la percentuale estranea ai mezzi di stampa) e dove la dipendenza dalla tv generalista per l´informazione politica rimane spaventosamente alta (70 per cento per tutti, 81 tra gli anziani, Censis 2009). Il pluralismo dell´informazione resta in sofferenza, la partita tra poteri e contropoteri resta aperta, la contesa tra informazioni dall´alto del vecchio mass-medium e informazioni dal basso del social network è in corso, ma c´è sempre da stare un po´ in ansia per il risultato finale del match.

Repubblica 10.12.09
Comincia con l'antica Grecia e oggi diventa virtuale
Il modello dell'agorà
di Umberto Galimberti

I limiti della materia
La discontinuità tra l´antichità e l´oggi sta nei corpi, nel tempo e nello spazio. Allora le parole erano accompagnate dai gesti, i gesti dagli sguardi, e gli sguardi potevano smascherare il gioco tra menzogna e verità

In occasione del no-B Day i corpi si sono materializzati nella piazza, ma la loro convocazione è avvenuta attraverso quella realtà dematerializzata che è la Rete, dove lo spazio viene abolito, il tempo reso istantaneo e le persone fanno la loro comparsa con la vicaria complicità di quel loro sosia che è l´alter ego digitale. Certo c´è una bella discontinuità tra l´agorà antica, dove le parole erano accompagnate dai gesti, i gesti dagli sguardi, e gli sguardi, tradendo le intenzioni, potevano smascherare il mai risolto gioco tra menzogna e verità. Ma se guardiamo le cose più da vicino questa discontinuità si riduce, se è vero che il modo occidentale di pensare, nelle sue espressioni matematiche e filosofiche, ha preso avvio proprio dal rifiuto della percezione sensibile, per inaugurare quel pensiero immateriale che trova la sua articolazione nei costrutti della mente, che consentono di approdare a quella realtà considerata perfetta, perché liberata dai limiti della materia.
Non a caso, scrive Platone: «Ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo». E 2000 anni dopo, Cartesio, inaugurando il metodo scientifico, scriveva: «Dato che i sensi a volte ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse tal quale i sensi ce la fanno percepire, perché non conosciamo i corpi per il fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero».
Se questa è la tradizione del pensiero occidentale, che ha preso avvio nell´agorà greca dove si insegnava a prescindere dai limiti della materia, quindi dai corpi e dai sensi, c´è perfetta continuità tra l´iperuranio platonico, l´astrazione matematica, il cogito cartesiano e la realtà virtuale, capace di dare, nella comunicazione dematerializzata, l´effetto della realtà materiale senza i condizionamenti della materia.
La diffusione del telelavoro, l´osservazione di realtà altrimenti inosservabili proprie della biologia molecolare e della genetica, fino al sesso virtuale con partner virtuali, o l´ideazione di una second life rispetto a quella insoddisfacente che ci capita di vivere hanno fatto dell´agorà virtuale qualcosa di più potente e di non meno reale dell´antica agorà materiale. Ma ciò che è davvero sorprendente è che l´agorà virtuale trae spunto proprio dal tipo di pensiero che nell´antica agorà greca è stato inaugurato.
Protagonisti della società virtuale sono i giovani, che nella società reale nessuno convoca, nessuno chiama per nome. Trascurati dal mondo adulto, essi inaugurano una piazza dove si incontrano, e dove il mondo adulto, che li ha esclusi, con qualche difficoltà ha accesso. Il loro comunicare, chiamarsi e convocarsi per via telematica segnala una modalità di socializzazione e di scambi relazionali non ancora abbastanza considerato dal mondo adulto, che sotto questo profilo appare arcaico. E in questa segnalazione c´è la configurazione del futuro, che solo chi è giovane è in grado di progettare e sognare.
Nella proiezione del futuro ci sono i segni del cambiamento. Si tratta di un cambiamento che è radicale perché avviene in un linguaggio, quello virtuale, che un potere troppo vecchio nelle sue abitudini mentali e nei suoi schemi percettivi non solo fatica a capire, ma neppure ne scorge la forza e la potenza. Perché è potenza comunicare senza i limiti dello spazio, senza le attese del tempo, senza la grevità dei corpi, senza l´ingombro della materia. E proprio qui può nascere quello spiraglio di speranza che Pier Luigi Celli giustamente vedeva preclusa ai giovani se attesa dal mondo adulto. Il futuro i giovani non lo attendono più dagli adulti. Con la loro piazza virtuale semplicemente se lo prendono.

Repubblica 10.12.09
Giorgione
A Castelfranco i capolavori del pittore della luce
di Antonio Pinelli

Per celebrare i 500 anni dalla morte del grande artista il suo paese natale organizza un´esposizione con opere da tutto il mondo. Insieme ai quadri del maestro anche quelli di altri autori, da Tiziano a Giovanni Bellini
Vasari racconta l´importanza dell´incontro con i dipinti di Leonardo

Nel 1510, quando «Zorzi da Chastelfranco», detto Giorgione, morì a Venezia di peste a soli 33 anni, i collezionisti, come sarebbe accaduto esattamente un secolo dopo con Caravaggio, piombarono come avvoltoi sulle sue opere ancora disponibili. Prima fra tutte Isabella d´Este, che scatenò un suo agente a Venezia per informarsi se fosse vera la voce che dava come ancora presso lo studio del pittore una «nocte», ovvero un notturno: probabilmente una Natività o un´Adorazione dei Magi. Non era così, come si affrettò a comunicargli il corrispondente in un dettagliato resoconto delle accurate indagini da lui svolte al riguardo, e la smaniosa Isabella dovette rinunciare ad incastonare anche un trofeo di Giorgione nella rutilante corona di capolavori che risplendeva nella sua celebre raccolta mantovana, ma l´episodio è comunque indicativo di quanto celebre fosse il pittore veneto anche fuori dai confini della Serenissima.
Come sempre succede, tuttavia, quando un personaggio d´eccezione muore anzitempo, il suo trapasso lo proietta automaticamente nella dimensione del mito, circonfondendolo di un alone abbagliante che ne annebbia l´identità storica concreta. Diradare questa nebbia, nel caso di Giorgione, è reso ancor più arduo dall´assenza di opere firmate, dalla quasi totale carenza di testimonianze documentarie di prima mano e dalla sfuggente elusività dei soggetti di alcune delle sue rare opere certe giunte fino a noi. Di qui la vertiginosa varietà di ipotesi presenti nella sterminata bibliografia sull´artista e l´importanza di mostre come questa allestita nella sua città natale in occasione del V centenario della morte. Questa (Giorgione 2010) vanta prestiti dai grandi musei del mondo e dà l´occasione per vedere opere di altri maestri, da Tiziano a Sebastiano del Piombo. In generale queste esposizioni offrono l´opportunità di ricapitolare le poche acquisizioni certe di cui disponiamo e di vagliare attraverso un confronto diretto tra le opere esibite, la plausibilità delle più recenti proposte di ricostruzione della sua breve ma intensa parabola creativa.
Ma veniamo ai «fatti» e alle «opinioni» su Giorgione. Se la data di morte ci è fornita dalla lettera di Isabella d´Este, quella di nascita ce la tramanda Vasari, anche se nella prima edizione delle sue «Vite» indica il 1477 e nella seconda il 1478. Non sappiamo nulla di certo sul cognome, ma l´ipotesi avanzata proprio in occasione di questa mostra, che lo identifica con un tal Zorzi, che nel 1493 viveva a Castelfranco con sua madre Altadona, precocemente vedova di «Zuanne Barbarella», sembrano metter d´accordo due contrastanti tradizioni: quella che lo vuole nato da «umilissime origini» e quella che lega il suo nome ai Barbarella, famiglia castellana di spicco.
Se si eccettua la scritta che compare dietro un suo Ritratto di donna ora a Vienna, la cosiddetta Laura, in cui egli si dichiara collega di maestro Vincenzo Catena, nulla sapremmo delle sue frequentazioni artistiche, se non ciò che possiamo dedurre per via stilistica dalle sue opere. Tali deduzioni confermano, arricchendolo, il quadro d´insieme fornitoci da Vasari, che dopo aver tratteggiato l´arrivo a Venezia del giovane Giorgione, subito apprezzato oltre che per le sue doti di pittore perché suonava il liuto e cantava «divinamente», ne esalta la capacità di superare i due fratelli Bellini perché sapeva «metter lo spirto nelle figure et contraffar la freschezza della carne viva» con una mirabile «unione sfumata ne´colori». Se quest´ultima definizione calza a pennello con quella trepida e sensibilissima modulazione dei toni luminosi del colore, il cosiddetto tonalismo veneto, il cui primato è tuttora attribuito a Giorgione, anche l´incidenza assegnata da Vasari all´incontro con la pittura di Leonardo («aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo molto fumeggiate e cacciate terribilmente di scuro: e questa maniera gli piacque tanto che[..]nel colorito a olio la imitò grandemente») è ormai unanimemente accettata.
Non c´è dubbio infatti che l´epocale novità introdotta da Giorgione nell´arte veneta nasce dalla geniale fusione della migliore eredità dell´umanesimo artistico lagunare - in particolare di Giovanni Bellini e Cima da Conegliano, e dello scultore Tullio Lombardo - con due potenti stimoli «forestieri», l´uno proveniente da Leonardo, e l´altro, di cui tace Vasari e di cui troppo poco si parla tuttora, dalla cultura d´oltralpe. Quest´ultima a lui nota non solo tramite le stampe, ma anche attraverso la conoscenza diretta dei non pochi artisti «ponentini» che soggiornarono nella laguna (Dürer in primis) e dei tanti loro dipinti presenti nelle raccolte veneziane (comprese le quattro visionarie tavole di Bosch che tuttora si ammirano in Palazzo Grimani). Senza questa componente «tedesca» sarebbe difficile spiegare i celebri (e ahimè perduti) notturni giorgioneschi (dalla «nocte» invano inseguita da Isabella a quello con Enea e Anchise agli inferi, visto dal Michiel nella casa veneziana di Taddeo Contarini); ma neppure i Tre filosofi ora a Vienna, che Michiel vide in casa Contarini, e l´ancor più celebre Tempesta, da lui vista in casa di Gabriele Vendramin. Perché se è pur probabile che sia l´uno che l´altro dipinto abbiano un soggetto ben preciso - ma occultato a bella posta per volere del committente affinché fosse comprensibile solo a pochi – a me pare altresì evidente che il soggetto esplicitato, nell´uno come nell´altro caso, sia il paesaggio: dominato dalla buia grotta in controluce nei Tre filosofi e dall´imminente scroscio di pioggia, preannunciato dalla folgore, nella Tempesta. Soggetti espliciti che meglio si intendono alla luce del parallelo affacciarsi nelle Fiandre di un nuovissimo genere, il «paesaggio autonomo».
Quanto all´influsso di Leonardo su Giorgione, esso non si limita alla questione del rapporto tra «sfumato» e «tono», ma investe in pieno la volontà di conferire alle pose, ai gesti e ai volti delle figure un´espressione che ne riveli gli stati d´animo. Di norma in Giorgione questo timbro espressivo è improntato a malinconia: a volte velata di rimpianto, come nella sublime pala di Castelfranco, a volte più amorosa e trasognata, o a volte, come nell´Autoritratto in veste di David, dolorosamente atrabiliare, come si conviene alla canonica iconografia della genialità. Ma forse la tastiera di sentimenti toccata da Zorzi includeva anche altri registri, più comici o più appassionati. Ed è quanto suggerisce la mostra riproponendo come suoi quei due famosi Cantori della Galleria Borghese, che di solito, ma forse a torto, gli vengono negati.

Corriere della Sera 10.12.09
La filosofia si allea con Dio e salva l’uomo dalla violenza
Il vento del pensiero e la coscienza cristiana contro la follia della volontà
Credere nell’esistenza della morte è il peccato più profondo
di Emanuele Severino

Alcune riflessioni sul tema del convegno promosso dal cardinale Camillo Ruini che si apre oggi a Roma

Stando al significato assunto storicamente dalla parola «Dio», esiste qualcosa di infini­tamente più «alto» di «Dio». Può il cristia­nesimo portarsi a questa «altezza»? Il «Dio» storico, infatti, è una delle forme più radicali della violenza, e la vicinanza tra Satana, che «è omi­cida sin dall’inizio», e Dio diventa inevitabile. Ma in quello stare infinitamente più «in alto» appare che la violenza e la morte sono già da sempre vinte anche se la fede nella loro esistenza domina il mon­do.

La violenza domina il mondo. Rende nemici sta­ti, etnie, famiglie, individui e l’individuo stesso ri­spetto a sé stesso. Il cristianesimo è una delle for­me più alte che l’uomo abbia evocato contro di es­sa. Tutte le grandi religioni hanno l’intento di te­nerla lontana. Parlano un linguaggio che i popoli possono capire. Ma soprattutto il cristianesimo si è confrontato per due millenni con la filosofia. E in­fatti quale altro alleato le religioni hanno trovato, contro la violenza, oltre alla filosofia? La quale non parla certo il linguaggio che la «gente» capisce, ma è entrata nel sangue delle religioni, e poi di tutti i grandi eventi della storia europea: rinascimento e arti, scienza moderna e diritto, rivoluzione france­se, capitalismo e comunismo. La filosofia si fa sen­tire come il vento a chi se ne sta in casa: attraverso le porte, le finestre, i muri delle religioni. Stare al­l’aperto è difficile, perfino pericoloso. L’aperto met­te in discussione tutte le certezze di chi sta al chiu­so. Mette in discussione anche il senso della violen­za. Non certo per rimetterla in circolazione. La filo­sofia stende la mano alla coscienza religiosa, a quel­la cristiana in particolare, per portarla più in alto.

Si distingue la violenza dalla volontà. Esiste la volontà buona, si dice: combatte quella cattiva che, essa sì, è violenza. La volontà non può esser messa in discussione! E quand’anche lo fosse , dovremmo stenderci per terra e non fare più nulla? Ma anche per far questo occorre volerlo! E allora? Allora si potrebbe incominciare a pensare che altro è volere sapendo che volere è peccare, è violenza, altro è vo­lere non sapendolo. Volere è peccato e violenza? Sì, è strano; ma si provi a prestare ascolto a cosa dice quel vento di cui si parlava qui sopra. Molte parole sfuggiranno, altre resteranno incomprensibili, an­che perché in casa, a volte, si fa molto rumore. Il vento dice: «La violenza può esistere solo perché si crede che il mondo sia disponibile alla volontà (umana o divina) di trasformarlo. Nel paradiso cri­stiano non c’è violenza, soprattutto perché l’Ordina­mento divino che vi regna è un sole immutabile, inviolabile, immodificabile. E nessuno dei beati vuole trasformarlo. Ma si pensa a che significa la trasformazione delle cose e la conseguente decisio­ne di trasformarle? Significa che diventano altro da quello che sono. Il vivente diventa un morto, e quando è diventato un morto, lì non c’è soltanto un morto, ma un vivente che è un morto. Perché sia un morto, è necessario che esso sia, appunto, un vivente che ora è un morto, ossia che il morto sia il risultato di un morire e che il risultato sia, appunto, un vivente che è un morto, cioè un non vivente. Che strano! Si diventa sospettosi quando si sente parlare di una casa che non è una casa, di una stella che non è una stella, di un albero che non è un albero; ma non si prova nessun imbaraz­zo e si sta tranquilli (o meglio, si crede di esserlo) quando si sente dire che un vivente è un morto! Eppure la stessa follia è presente nel dire che una stella non è una stella e nel dire che un vivente è un morto. La stessa follia, lo stesso errore, la stessa vio­lenza per cui qualcosa è reso altro da ciò che esso è, è separato da sé, squartato, e un pezzo del pro­prio cadavere (la stella) è reso identico all’altro pez­zo (la non stella)».

A questo punto, in casa qualcuno dirà infastidi­to di chiudere meglio porte e finestre, per non sen­tire questi discorsi, qualche altro dirà che essi son proprio parole al vento. Che però, anche se non gli si bada più, continua a parlare. Così: «Gesù dice ai Farisei, che vogliono ucciderlo, che il loro padre è il diavolo, 'che sin dall’inizio è stato omici­da e non è rimasto nella verità' ( ille homicida erat ab inizio et in veritate non stetit , Gv.,8,40). In­fatti ha indotto i nostri progeni­tori al peccato, cioè ad essere 'co­me Dio' ( eritis sicut dii ), e Dio ha punito l’uomo consegnandolo alla morte. 'Ad opera di un uomo — dice Paolo ( ad Romanos, 5, 12) — entrò nel mondo il peccato, e ad opera del peccato la morte'. Ma ecco il centro di quanto va soprattutto pensato, all’aperto: che non è che la morte sia entrata nel mondo ad opera del peccato, ma, all’opposto, che il peccato è entrato nel mondo ad opera della morte; e cioè che il vero peccato è la morte. Vediamo».

«Nei Vangeli, la parola più usata per nominare il peccato è hamartìa , che innanzitutto significa 'er­rore'. Ma prima abbiamo sentito l’errore più radica­le, cioè la convinzione che le cose divengano altro da ciò che esse sono, e che, diventate altro, sono altro da sé. Diventando un morto, il vivo è un mor­to. E ogni diventar altro è un morire. Credere nel­l’esistenza della morte è credere che un vivo sia un morto, cioè un non vivo; che la stella sia non stella, e così via per tutte le cose che la volontà vuole far diventar altro da quello che sono, e che così vuole perché, appunto, crede che possano diventar altro. Credere nell’esistenza della morte è l’errore estre­mo, il peccato più profondo, più originale. Con la morte il peccato entra nel mondo perché il vero peccato è la morte stessa, cioè la fede nella sua esi­stenza. È sul fondamento di questa fede si può deci­dere di uccidere».

Ma la filosofia ha un duplice volto. Uno guarda la notte, l’altro il giorno. Il vento che sta parlando è il vento del giorno. «L’altro volto, mostrato dal po­polo greco — dice ancora il vento, se qualcuno è rimasto a sentirlo —, rende estremo l’errore più ra­dicale: crede di vedere che le cose diventando altro da sé, diventano nulla e da nulla che erano, diventa­no esseri. A ciò provvede la volontà di Dio e dell’uo­mo. L’errore estremo è credere che il nulla, diventa­to essere, sia essere, e che l’essere diventato nulla, sia nulla. Quando l’uomo vuole che l’uomo vada nel nulla è 'omicida'. Quando Adamo pecca è deici­da. Ed omicida è il diavolo che spinge l’uomo nella morte. E Dio? Ma anche Dio non vuol forse creare il mondo dal nulla, e annientarlo quando creerà 'un nuovo cielo e una terra nuova?' ( Apocalisse ,21). Non crede forse anche Dio nell’esistenza della mor­te? E non è forse questo il senso originario dell’omicidio e della violenza? » .

«Se la follia estrema è credere che uomini e cose divengano nul­la e ne escano, e questa fede è il vero peccato, l’essere è ucciso proprio dalla fede che esso diven­ga nulla. Sul fondamento di que­sta fede, che è la violenza dell’enticidio, viene per­petrato l’omicidio autentico: si mette l’uomo (e le cose tutte) nel sepolcro del nulla, lo si fa diventare un nulla — lui, che è uomo e non un nulla —, lo si considera qualcosa che di per sé è un nulla. Poi si solleva il coperchio del sepolcro, e, trovando un ca­davere, lo si 'salva', prima creandolo dal nulla e poi liberandolo dalla morte, che però è la 'morte eterna', non questa nostra morte, nella quale si continua a credere. Il cristianesimo vuole ridurre il suo Dio a un omicida? O non c’è forse qualcosa di infinitamente più alto di ogni Dio, più alto della vo­lontà e della violenza?».

Il vento che si è fatto sentire viene dall’aperto, si diceva prima. Solleva miriadi di problemi, ma pri­ma di giudicarlo vanità delle vanità, non ci si posso­no tappare le orecchie. Anche perché viene dal­l’aperto nel senso che sale dal più profondo di noi stessi, dal profondo con cui crediamo di non aver nulla a che fare, dal sottosuolo della casa in cui ci chiudiamo e a cui riduciamo la nostra esistenza.


Repubblica 9.12.09
Quando Stalin faceva rivestire i quadri di nudo
Il dittatore censurò i disegni "nature" dei pittori russi dell’Ottocento Ora 19 riproduzioni saranno esposte, accompagnate dalle sue note
Le "purghe" di Stalin sui ritratti di uomini nudi
di Leonardo Coen

L´ex leader sovietico "cancellava" genitali e toraci, scrivendo un giudizio di condanna
Resta il mistero di come queste copie, conservate tra gli anni ´40 e ´50 in una cartella rossa, siano riapparse soltanto oggi

MOSCA. Il vecchio ignudo ritratto da Valentin Aleksandrovic Serov, grande maestro dell´impressionismo russo, ha lo sguardo orgoglioso di chi non si vergogna del proprio fisico, usurato dal passar del tempo. Ma al padrone del Cremlino non piacque la sfrontatezza del disegno di Serov. Sulla riproduzione dell´opera cancellò il pene del vecchio con un brusco tratto di lapis rosso, coprendo il torace con strisce da arcipelago gulag, imitando grossolanamente la divisa da galeotto. Prima il giudizio, poi la condanna. Su un altro nudo Stalin aggiunse delle mutande, imitando lo stile dei terribili e grezzi slip sovietici, e scrisse: «Non metterti a culo nudo sulle pietre! Vai al komsomol e al rabfak (la facoltà dei lavoratori, così si chiamavano nei primi decenni del potere sovietico le scuole elementari per gli operai analfabeti, ndr). Date al ragazzo un paio di mutande! I. Stalin».
Stalin il Braghettone? A quanto pare, la tentazione ce l´aveva di imitare lo sciagurato Daniele da Volterra. Costui, nel 1564, venne chiamato dalla censura della Santa Sede per coprire le «indecenti» nudità di santi e dannati del Giudizio Universale di Michelangelo. Stalin, invece, espresse i suoi giudizi bacchettoni con un lapis in calce alle riproduzioni di alcuni disegni di nudo dei più celebri pittori russi dell´Ottocento, tra i quali Ilia Repin, Aleksandr Ivanon, Vasilij Surikov, Andrej Rjabushlin, e, appunto, Valentin Serov. Ora, diciannove di queste riproduzioni saranno esposte dal 18 dicembre nella galleria Marat Ghelman di Mosca, tutte chiosate dagli scarabocchi e dalle note di Stalin, di cui si conoscevano i giudizi e i suggerimenti relativi a numerosi settori dell´arte e della scienza, ma nessuno per quel che riguarda la pittura. Il vuoto sta per essere colmato, grazie a questa mostra: «La storia russa a volte solleva il velo su tali enigmi, coincidenze e stranezze», hanno scritto i critici d´arte moscoviti, sorpresi dall´evento e dalle diciannove inedite scritte staliniane. Che non mancano di sorprendere. La riproduzione di un disegno di Aleksandr Ivanon, per esempio, scatenò in Iosif Vassirionovic la voglia di sentenziare: «Un fesso pensoso è paggio di 10 nemici». Variante di un suo noto aforisma, raccolto dallo scrittore tedesco Lion Feuchtwanger durante i numerosi colloqui col dittatore sovietico: «Un fesso leccapiedi è peggiore di cento nemici». In calce ad un altro disegno di Ivanon emerge il disprezzo: «Di questi fannulloni ne abbiamo tanti anche noi. Fi-lo - sos» (Stalin deforma la parola «folosof», cioè «filosofo», aggiungendo la desinenza «sos», probabilmente dal verbo «sosat´» cioè «succhiare»). All´ennesimo nudo, trapela l´irritazione: «Questo semplicemente ha paura del sole? E un vigliacco!!!»..
Resta il mistero di come queste riproduzioni siano riapparse soltanto oggi. Chi le ha celate per oltre mezzo secolo? Dove erano nascoste? Qual è la loro origine? In effetti sappiamo poco, né gli organizzatori della mostra si sono dannati per colmare le lacune. Le riproduzioni, in una cartella rossa, sarebbero capitate tra le mani di Stalin grosso modo tra la fine degli anni ‘40 e l´inizio degli anni ‘50 dello scorso secolo: «Stalin è un personaggio equivoco - dice Mikhail Mikhajlin, il direttore del quotidiano on line Gazeta. ru che ha organizzato la mostra - Lo studio di questi disegni e scarabocchi dà un idea dello stato psicologico in cui lui si trovava dalla fine degli anni 40 alla morte. Io ho avuto l´impressione che lui parlasse con le ombre: si rivolge a Kalinin, a Plekhanov, in modo frivolo, da vecchi». Le perizie grafologiche hanno provato l´autenticità della calligrafia di Stalin: «Questi disegni dovrebbero provenire dalla sua dacia - sostiene Jurij Pankov, l´esperto delle mostra nonché direttore della casa editrice «Avtograf veka» («L´autografo del secolo») - però non si sa che fine abbiano fatto dopo la morte di Stalin. Non ci sono timbri che testimonino l´eventuale custodia presso qualche archivio o biblioteca. In qualche modo sono finiti in mano ad un collezionista privato che a suo tempo deve avere avuto a che fare con i servizi di sicurezza». Infatti, il suo nome è coperto dall´anonimato più assoluto. Che abbia voluto celebrare in modo originale il 130esimo anniversario della nascita di Stalin che cade il prossimo 21 dicembre? La mostra farà felici gli psicostorici russi, che così potranno aggiornare le analisi della complessa personalità di Stalin. Appare evidente, dicono ad un primo esame dei disegni, il suo interesse per il corpo maschile e i genitali. Era un omosessuale latente o un omofobo?

Repubblica 9.12.09
Dilemma dopo il No-B day: partito o movimento?
Il popolo viola pensa al bis "Torniamo presto in piazza e banconote anti-Silvio"
"Se scendiamo in politica faremo la differenza: noi non siamo come loro, siamo veri"
Mobilitazione per querelare "Il Giornale" che li ha definiti "gli amici di Spatuzza"
di Alessandra Longo

ROMA - E adesso? E adesso il cosiddetto «popolo viola» si interroga su come amministrare lo straordinario consenso incassato sabato scorso a Roma. Cosa vogliamo essere?, si chiedono. Un movimento, un partito, una lista civica, un club di scacchi e, soprattutto, «che cosa siamo e che cosa vogliamo»? Domande di fondo, esistenziali, da lettino dello psicanalista, che sopravvivono anche nelle nuove modalità di comunicazione. Ecco lo sfogatoio in rete, virtuale ma concretissimo. I «viola» alle prese con la fase più difficile: trasformare un successo in qualcosa di stabile e riconoscibile, consolidare l´anti-berlusconismo di un giorno in un´onda che trasporti e convinca anche gli italiani «che non navigano su internet e guardano ancora la televisione». Sì, diciamolo, anche quelli che votano Pd «e sono molto vecchi» (testuale,ndr) e «quelli che votano Pdl ma non ne possono più del signor B».
Diventare partito? Perché no: «Se scendiamo in politica e partecipiamo alle elezioni, faremo la differenza. Noi non siamo come loro, noi siamo veri!». Un «partito viola, con donne e uomini nuovi». Impresa difficilissima, lo ammettono: «Dare vita ad una democrazia partecipata e trasparente». Diventare partito per sfuggire ai partiti che già ci sono. Addirittura. Oppure non diventarlo affatto? «Dobbiamo prima rinforzarci, stare fra la gente, fare azioni sul territorio, vivere la realtà, controinformare, boicottare... No, non ci serve un partito ora, non ci servono nuove stanze del potere. Chi vuole trasformare l´onda viola in una lista elettorale tradisce lo spirito di questo movimento che fa rete tra persone...». Dialoghi a cuore aperto, posizioni travagliate e contrapposte, anche qualche incursore tradito dal linguaggio antico («È necessario dare corpo ad una massa antagonista alla demagogia qualunquista...»). È il contraccolpo emotivo, politico del successo, unito ad una inedita, robusta, e un po´ generica, sindrome di accerchiamento, diffidenza per tutto e tutti: «I partiti ti ammazzano con la loro logica di complotti e inciuci»; «i media, fintanto che non ci saremo strutturati, ci possono distruggere»; «la casta politica è trasversale e succhia il sangue»; «gli spazi internet possono essere a rischio. Tenteranno di fermarci, salvate nella memoria di un pc i nostri numeri di telefono...».
Tutta l´energia di un giorno non si è estinta: «La gente deve riconoscerci, deve cominciare a viverci come un movimento forte e convinto. E se ci mettessimo tutti un braccialetto viola?». Piovono le proposte: una volta al mese davanti a Palazzo Chigi; da subito drappi viola alle finestre; entro gennaio un´altra manifestazione grande e bella come quella di San Giovanni, magari «contro la mafia in Parlamento». E poi cartoline viola da inviare a centinaia di migliaia alle varie residenze di Berlusconi. Avete l´indirizzo delle sue case? Sì, certo. Dopo qualche secondo, arrivano in rete le risposte. In contemporanea un altro gruppo si occupa di querelare Vittorio Feltri («Ci ha chiamato amici di Spatuzza. Abbiamo passato le carte all´avvocato»).
Un fiume in piena che non si arresta mai e non si imbarazza di pensare grande o molto piccolo. Per esempio, l´idea delle «banconote consapevoli». Quella piace moltissimo. Perché non scrivere a matita sui soldi una frase del tipo «Berlusconi dimissioni»? Perché è reato, non si può, obiettano i più prudenti. Qualcuno corre dritto sul sito di Bankitalia e scarica il capitolo «sul danneggiamento» della valuta. Un «piccolo» intervento, a matita, possibilmente viola, «mette al riparo noi e i negozianti da qualsiasi problema», rassicurano i promotori dell´iniziativa. Scorri il dialogo su Facebook ed è come una diretta: «L´ho fatto! Ho sganciato i miei primi 50 euro segnati al supermercato. Missione compiuta e la cassiera mi ha anche sorriso». Storcono il naso i «legalisti»: «Strada sbagliata».
Difficile dare forma e senso alla valanga. Arriva l´appello: «Non "spammiamoci" da soli!». Per chi non se ne intende, lo «spamming» (linguaggio internet), è «l´invio di grandi quantità di messaggi indesiderati».

Repubblica 9.12.09
Dalia Mogahed, 36 anni di origine egiziana, fa parte dello staff del presidente Usa: "Così spiegherò l´Islam a Obama e all´America"
di Francesca Caferri

Dalia Mogahed è la prima donna con il velo ad essere entrata alla Casa Bianca. «Non posso dire di essere offesa quando mi definiscono così - dice - ma preferirei che l´attenzione fosse più sulle mie ricerche, sui motivi che mi hanno portato a lavorare per il presidente. E non sul mio velo. Ma ho imparato ad accettare il fatto che tutti guardino quello. E che i media, soprattutto quelli arabi, abbiano fatto di me il simbolo di una nuova Casa Bianca. Che include, non esclude. E che rispetta l´Islam. Non ho scelto di essere un simbolo: ma ho capito che posso usare questa cosa per far capire chi sono io e cosa fanno i musulmani in America».
Sorriso franco, capacità di mantenere la calma anche di fronte agli attacchi e di non emozionarsi: neanche quando ha ascoltato il suo presidente parlare al mondo arabo - seguendo i suggerimenti che lei aveva dato - proprio dall´Egitto, Paese che lei aveva lasciato bambina per iniziare l´avventura che l´ha condotta alla Casa Bianca.

Dalia Mogahed, 36 anni, consigliere del presidente Usa per i rapporti con il mondo musulmano, è la prima donna ad entrare alla Casa Bianca con il velo A Washington è arrivata grazie a un libro che demolisce uno dopo l´altro, tutti gli stereotipi più diffusi sull´Islam. Quel volume ora esce anche in Italia
Il momento più delicato è stato il discorso del Cairo "Serviva un cambio di prospettiva"
"Per i media arabi sono il simbolo di una nuova America Che non esclude più, ma include"
"Quello che vuole l´Amministrazione è ascoltare le voci dei musulmani e capire come coinvolgerli"

Questa è Dalia Mogahed, 36 anni, consigliere del presidente Obama per i rapporti con il mondo musulmano e autrice di "Who speaks for Islam?" un libro negli Stati Uniti lo scorso anno monopolizzò per settimane l´attenzione di giornali e televisioni e che ora esce anche in Italia.
Alla Casa Bianca Mogahed è arrivata direttamente da Gallup, uno dei più prestigiosi centri di ricerca americani: qui a partire dal 2001 ha lavorato per cinque anni con il collega John Esposito al più grande studio mai condotto sui musulmani nel mondo. «In questi tempi di estreme tensioni e di ostilità crescente, pochi libri sarebbero potuti arrivare in un momento più giusto», disse quando i risultati delle loro ricerche furono pubblicati negli Stati Uniti il premio Nobel per la pace Desmond Tutu. «Il nostro scopo - racconta Mogahed - era spostare il dibattito sui musulmani in una direzione più costruttiva. A lungo si è detto che il conflitto fra le società a maggioranza musulmana e l´Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, era inevitabile. Il libro invece dimostra che non è così. Lo fa facendo parlare la maggioranza silenziosa dei musulmani, quella che non riesce a far uscire la propria voce perché schiacciata da governi repressivi, da media che non li considerano abbastanza interessanti, o da pochi estremisti. E che dice che i punti di frizione fra mondo islamico e Occidente, che pure ci sono, si concentrano su politiche transitorie, non sui principi di fondo». E molte altre cose: che la cosa che i musulmani ammirano di più dell´Occidente è la libertà politica e di espressione, che la maggior parte degli intervistati - inclusi il 73% dei sauditi e l´89% degli iraniani - ritengono che le donne dovrebbero godere degli stessi diritti degli uomini. Che nei paesi a prevalenza musulmana la maggior parte della gente condanna i fatti dell´11 settembre 2001 e che la minoranza che li giustifica e ha un´opinione negativa degli Stati Uniti (7%) non è più religiosa rispetto al resto della popolazione. E così via.
Idee scontate, si potrebbe dire oggi, ma quando cominciarono a circolare nell´America di Bush suonavano rivoluzionarie. Tanto da catturare l´attenzione dell´allora senatore dell´Illinois Barack Obama. «Quando il libro uscì mandammo una copia a tutti i membri del Congresso - ricorda oggi Mogahed - compreso lui. Ci rispose con un biglietto di ringraziamento. Non lo conoscevamo, e non avevamo idea se lo avrebbe letto o no. Ma dopo qualche tempo una persona che era stata nel suo studio al Senato mi disse che il libro era lì, in bella evidenza. Lo trovai un segno incoraggiante».
Lo era così tanto che qualche mese dopo Obama, diventato Presidente, chiamò Mogahed a far parte del suo Adivorsy Council on Faith-based and neighborhood partnership e ad occuparne la poltrona più scottante: quella di consigliere per le relazioni con il mondo musulmano. Uno dei dossier chiave su cui si gioca il successo della presidenza Obama. «Sono stata sorpresa quando mi hanno chiamato. E naturalmente onorata. Il fatto che io porti il velo non ha pesato nella scelta: quello che il presidente vuole è ascoltare le voci dei musulmani, sapere cosa pensano davvero. Per capirli. E per coinvolgere i musulmani americani in una causa comune. Da subito l´impressione è stata che le mie idee, come quelle di tutti coloro che lavorano nel Consiglio, fossero accolte molto seriamente».
Il compito più delicato del consigliere finora è stato quello di tracciare le linee guida per il discorso del Cairo, con cui Obama ha cercato di colmare il divario che otto anni di presidenza Bush avevano creato fra gli Stati Uniti e il mondo arabo: «Ho cercato di pensare cosa era al cuore del conflitto e ho capito che dovevamo parlare di rispetto. E delle scelte politiche degli Stati Uniti che non piacciono ai musulmani. Non dovevamo "vendere" gli ideali dell´America, perché la gente li conosce e li ammira già, come dimostra la ricerca Gallup. Quello che serviva era cambiare approccio: riconoscere l´importanza non della nostra civiltà, ma di quella dei musulmani. La gente nel mondo arabo non aveva bisogno di essere adulata, ma riconosciuta. Di sentire che il loro punto di vista era ascoltato, non ignorato. Ho passato le mie idee a chi scrive i discorsi con il presidente: è stato bello vedere che sono state accolte».
Dopo la gloria sono aumentate le polemiche: già colpita al momento della sua nomina, Mogahed è stata presa di mira in patria per essere apparsa in un programma tv insieme a un membro di Hizbullah Tahrir, un gruppo considerato estremista e per una sua presunta difesa della sharia. «È stata un´esperienza istruttiva - dice lei ora - io parlavo dei risultati della ricerca, e lui li ignorava per sfruttare solo le cose utili alle sue idee. Prima sono stata attaccata da lui, poi da quelli che mi hanno accusato di complicità con gli estremisti: il che dimostra che quanto sia forte il rifiuto di un vero dialogo, basato sui fatti».
Nel mondo arabo intanto si estesa anche a lei la delusione che molti provano nei confronti di Obama, colpevole di molti di non aver sbloccato il processo di pace in Medio Oriente e di aver scelto di inviare nuove truppe in Afghanistan: «Posso capire la delusione - spiega lei - ma quando il presidente si è insediato le aspettative erano così alte che riuscire a soddisfarle tutte era davvero difficile. Io continuo a credere che fra qualche tempo, quando guarderemo indietro a questo momento, lo vedremo ancora come una fase di miglioramento».
Lei la sua parte continua a farla: negli Stati Uniti "Who speaks for Islam?" è diventato un film che, dopo una prima riservata a politici e analisti al Dipartimento di Stato a Washington, sta girando con successo le sale e presto arriverà in televisione. In contemporanea il libro arriva in Europa: «Credo che sia positivo che questo lavoro esca da voi proprio ora - conclude Mogahed - il referendum in Svizzera potrebbe avere effetti anche sul resto del continente, e penso che sia un bene che ci siano dati scientifici a disposizione per smantellare miti infondati come quello di un Vecchio continente che starebbe cadendo nelle mani degli arabi. L´idea di Eurabia non riflette l´evidenza empirica. E inoltre l´Europa ha bisogno di forza di lavoro giovane per spingere l´economia: ed è un fatto che questa forza lavoro è costituita oggi in buona parte da immigrati o da cittadini di seconda generazione, le cui origini sono in paesi musulmani. L´essere una nazione che include, che è aperta al talento e al lavoro, ha reso gli Stati Uniti il paese più importante del mondo. Dovreste pensarci».

Repubblica 9.12.09
Un velo alla Casa Bianca
La nuova consigliera ha risvegliato paure mai sopite su un presidente troppo vicino all´Islam
Le paure dell´ultra-destra "È amica degli jihadisti"
di Vittorio Zucconi

«Allah in casa!» strepitarono i difensori della vera fede e i crociati dell´"obamafobia" quando la videro entrare e non in una casa qualsiasi, ma nella Casa simbolo dell´America, quella Bianca. «La Jihad è penetrata nel governo degli Stati Uniti grazie a Obama», urlò dal suo sito Jihad Watch la sentinella dei fondamentalisti cristiani, Robert Spencer. «L´estremismo islamista ha ricevuto il sigillo ufficiale del Presidente Obama» inorridì il messalino dei neoconservatori, il Weekly Standard, quando Dalia Mogahed, musulmana egiziano-americana di 36 anni, specialista in sondaggi per la Gallup, plurilaureata negli Stati Uniti con una laurea in ingegneria chimica (ahi ahi, la scienza degli esplosivi), autrice di ricerche sulle aspirazioni dell´universo musulmano fu imbarcata, insieme con altre 24 persone, vescovi cattolici e rabbini, pastori luterani e devoti hindu, laici e accademici, nell´ "Ufficio per le iniziative religiose e assistenziali".

Un ufficio voluto da George Bush nel 2001 per carezzare il proprio elettorato cristianista e mantenuto, seppur molto annacquato, da Barack Obama. «Le sue ricerche sono manipolate per dimostrare che i musulmani sono come noi e che la sharia è gradita alle donne», si scandalizzò l´idolo degli islamofobi, il professor Daniel Pipes.
Ma se ogni ricerca troverà sempre detrattori e critici secondo la legge della gelosia accademica, la vera, imperdonabile colpa della signora Mogahed non era dentro la sua testa, ma sopra. Era quel velo, quel hijab che lei indossa. Dalia era la prima «donna velata» che fosse entrata alla Casa Bianca in 200 anni, sia pure dalla porticina di servizio di un carrozzone la cui utilità pratica resta oscura.
L´arruolamento della signora egiziana, trasportata dalla famiglia negli Stati Uniti quando aveva 4 anni, sunnita di confessione, direttrice della sezione Ricerche culturali internazionali della Gallup, non segnalò naturalmente il trapianto della giurisprudenza islamica nel cuore del potere americano. Per ora, sospettano i tremebondi crociati. Il suo ingresso nella commissione di consulenti sarebbe apparso, in tempi e in climi meno surriscaldati, come del tutto normale, in una nazione dove vivono, tra immigrati e convertiti, circa sei milioni di musulmani. E dove svettano in 104 città, da Detroit a Tucson in Arizona, altrettante moschee, complete di quei minareti che ora sconvolgono gli svizzeri.
Neppure l´imputazione di sloppiness, di superficialità contro il suo libro "Chi parla per l´Islam?" scritto con un professore della più autorevole università di Gesuiti americani, la Georgetown di Washington, John Esposito - un cognome che non richiama sospetti etnici - è la motivazione della tenace e stridula ostilità che la accompagna da aprile, per colpire il Presidente con ogni mezzo e con ogni pretesto, dove fondamentalismo religioso e razzismo si combinano e si ricombinano sottilmente e velenosamente, sempre sotto traccia.
L´eresia che ha sconvolto il nuovo dogma della political correctness, del luogocomunismo post 9/11, è l´avere osato sostenere, sulla base dei sondaggi, l´ovvietà, che l´enorme maggioranza dei musulmani è sostanzialmente «come noi».
Quale orrore. Affermare che soltanto pochi milioni di loro sul miliardo abbondante dal Marocco all´Indonesia, (non tutti gli arabi sono musulmani, non tutti i musulmani sono arabi, andrebbe ogni tanto rammentato) chiedono di vivere in pace, aspirano a ciò a cui aspiriamo noi, salute, prosperità, futuro per i figli, libertà individuali e collettive, divertimento, buon governo, dignità, sicurezza, contraddice il primo comandamento della «minaccia islamica».
Ancora più empiamente, questa signora nubile dal bel volto incorniciato ma non velato dallo scialle portato attorno ai capelli come vuole la devozione anche in altre religioni ortodosse, osa sostenere che i precetti di modestia e di non esibizionismo sono accettati da molte musulmane come un libero riconoscimento di valori personali e femminili, prima che religiosi, diversi da quelli dell´occidente cosiddetto cristiano, convertito al velinismo e all´ostentazione sessuale.
Prendere le difese della sharia, cercare di capire, è stato letto immediatamente come un altro indizio da usare nella vera guerra, contro Barack Obama. Le sue cifre sono massaggiate e manipolate, è stato detto, per esagerare quel "moderatismo" che non può esistere nel Corano. Il suo collega e maestro Esposito dirige un centro di ricerche finanziato dai Sauditi, dunque è una quinta colonna. Le sue partecipazioni a talk show televisivi al fianco di noti agitatori estremisti, e la sua amicizia con un imam "moderato" di Detroit poi sorpreso a finanziare il terrore, dimostrano che sotto il velo del moderatismo si nasconde la solita fondamentalista. E´ niente altro che un cavallo di Troia, la signora Dalia Mogahed, che la "Taliban" bionda dalle sensazionali minigonne cara alle tv della ultradestra, Ann Coulter - quella che accusava Clinton di essere «un porco che si masturbava nel lavandino della cucina mentre Hillary ricevava gli ospiti a cena» - ha paragonato a «un ufficiale del KBG assunto alla Casa Bianca durante la Guerra Fredda». Sotto la protezione di un presidente che si chiama, ricordate?, "Hussein". C´è di sicuro un minareto, dopo la piscina di Roosevelt, la pista da bowling di Nixon, i rapanelli biologici di Michelle, nel futuro della Casa Bianca.

Corriere della Sera 9.12.09
La ricerca Uno studio della Fondazione Rosselli mette in evidenza le richieste di chi vuole imparare la lingua
Cresce il numero degli eventi organizzati, ma la distribuzione geografica è da rivedere. Gli esempi della Francia e della Spagna
Una passione (mondiale) per l’italiano
Popolarità in aumento: è la quinta lingua più richiesta Il ruolo e le difficoltà degli 89 Istituti di cultura all’estero
di Dario Fertilio

Uno studio della Fondazione Rosselli, realizzato per il Cor­riere della Sera , porta con sé buone nuove sull’immagine interna­zionale dell’Italia. I dati più confor­tanti riguardano la popolarità e l’inte­resse della nostra lingua: siamo quin­ti nella classifica degli idiomi più ri­chiesti dagli studenti. Il che non cor­risponde, naturalmente, alla diffusio­ne reale (colossi come il cinese o l’hindi viaggiano nell’ordine inarriva­bile delle centinaia di milioni di par­lanti). Ma se consideriamo il numero di coloro che hanno deciso di legge­re Dante o Pirandello nell’originale, oppure per passione culturale o inte­resse economico si sono iscritti ai corsi, ecco che l’onda lunga di cultu­ra, cucina, artigianato, arte di vivere ci porta in alto: seguiamo a distanza, certo, l’inglese (ovvio), lo spagnolo (quasi altrettanto ovvio), e siamo an­che alle spalle del tedesco e del fran­cese; però, subito dopo, ci siamo noi. Da qui la necessità di consolidare una rete adeguata di Istituti di cultu­ra all’estero. Ma la ricerca della Fon­dazione Rosselli fotografa una situa­zione ambivalente: da un lato cre­scenti successi promozionali, oltre al­l’aumento degli studenti; dall’altro ri­tardi strutturali e, ancor più, manca­te riforme. Lo studio mette in eviden­za le crescenti richieste di chi vuole imparare l’italiano: settemila sono i corsi «venduti» dagli Istituti durante il 2007. Risalta l’aumento degli even­ti collegati alla promozione annuale della cultura, la «Settimana della lin­gua italiana nel mondo»: si è passati dai 309 del 2001 ai mille del 2005, si­no a sfiorare i 1600 l’anno scorso (quest’anno la tendenza alla crescita appare confermata). Tuttavia, se si analizza la rete globale degli 89 Istitu­ti, salta agli occhi una distorsione ge­ografica. La maggioranza dei centri culturali (54%) è concentrata in Euro­pa (con una punta di otto nella sola Germania). Un po’ come se la batta­glia politico-culturale si continuasse a combattere lungo la Cortina di fer­ro, e come se non esistessero i pro­grammi Erasmus e uno scambio co­stante fra i cittadini della Ue, si imma­gina ancora che gli avamposti del­­l’Italia debbano trovarsi a Londra, Barcellona o Parigi anziché Rio, Nuo­va Delhi, Shanghai o Kazan. E infatti l’Africa subsahariana ottiene in tutto il 4 per cento delle presenze, quella mediterranea e mediorientale si fer­ma all’11, mentre il blocco Asia-Ocea­nia raccoglie un modesto 10. Bassa in proporzione (21%) la presenza de­gli Istituti di cultura nell’area cultu­ralmente e linguisticamente più affi­ne all’Italia, quella delle Americhe (in molti Paesi, dal Venezuela in giù, l’italiano potrebbe legittimamente aspirare a vedersi riconoscere il ter­zo posto come lingua ambientale, do­po lo spagnolo e il portoghese).

Crescono, insomma, le aspettati­ve, ma l’organizzazione non è all’al­tezza. Un raffronto con i «concorren­ti » (soprattutto inglesi, tedeschi e spagnoli) si conferma problematico. Fuori categoria la Francia, con un nu­mero impressionante di sedi ma una politica linguistica del tutto differen­te, la distribuzione degli enti cultura­li, su scala globale, ci vede lontani dal British Council e dal Goethe Insti­tut, anche se davanti al Cervantes. Re­sta il fatto che la riforma tanto attesa per rilanciare l’azione del nostro Pae­se continua a languire. La Spagna, ad esempio, ha investito molto nel po­tenziamento della sua rete, con l’obiettivo di rafforzare la «strategia Paese». L’Italia, invece, non ha anco­ra messo a punto la sua riforma. Sul­la quale Renato Cristin, che ha guida­to per anni l’Istituto di Berlino tenen­dovi a battesimo Palazzo Italia, ha al­cune idee precise: «Meglio organizza­re meno eventi ma dare maggiore qualità alle manifestazioni; aumenta­re considerevolmente i direttori di chiara fama, con capacità manageria­li e politico-culturali, riducendo il numero dei promossi per anzianità di servizio e in virtù di carriere inter­ne ministeriali; soprattutto è la presi­denza del Consiglio che dovrebbe in­vestire, e mettere il ministro degli Esteri in condizione di includere la cultura italiana all’estero nelle priori­tà strategiche del Paese». E poi sareb­be necessaria un’azione capace di coinvolgere tutti gli enti che oggi ci rappresentano: i ministeri (Esteri, Be­ni culturali, Turismo), ed Enit, Ice, Camere di commercio. L’obiettivo: puntare su un’immagine unica e una rete di alleanze con le istituzioni cul­turali e scientifiche più prestigiose.

Su un punto, invece, i progressi appaiono sensibili: nella capacità de­gli Istituti di conquistarsi finanzia­menti e sponsorizzazioni locali. Pur muovendo da risorse limitate e all’in­terno di un quadro normativo invec­chiato, i direttori degli Istituti sono riusciti complessivamente a svec­chiare l’immagine collettiva del Pae­se. E i dati dimostrano come fra il 2005 e il 2007 sia avvenuta un’inver­sione di tendenza: la crescita dell’au­tofinanziamento ha dapprima avvici­nato, poi quasi pareggiato, infine (nel 2007) superato la cifra comples­siva stanziata dallo Stato. Un dato di cui gli Istituti possono andare orgo­gliosi, soprattutto se accompagnato dall’altro che riguarda il numero del­le sole manifestazioni culturali, cre­sciute del 19 per cento dal 2007 al 2008. Si è passati infatti da 6049 a 7203, ma qui non è tutto oro quello che luccica: perché il moltiplicarsi de­gli eventi potrebbe essere spia di un certo provincialismo. Meglio punta­re sull’eccellenza, ricalcando dove possibile il modello vincente «Italia in Giappone», già replicato nel 2006 in Cina, e negli anni successivi in Vietnam e Corea.

Resta invece irrisolto il problema del ritardo nel promuovere la cultura scientifica e tecnologica. Dovrà esse­re colmato — sottolinea la ricerca— attraverso eventi che mettano a con­fronto scienziati italiani e stranieri, e favoriscano accordi tra università.

Un ultimo capitolo messo in rilie­vo dalla Fondazione Rosselli riguar­da il dialogo proficuo aperto dagli Istituti con le regioni: nel 2008 sette su dieci hanno realizzato manifesta­zioni culturali sul tema delle identità locali. Qui è ormai alle porte un nuo­vo «Brand Italia» variamente articola­to: c’è il turismo accompagnato dal­l’arte enogastronomica, ma anche un nuovo impulso all’esportazione di prodotti locali. L’Emilia-Roma­gna, attraverso un’esposizione sul Made in Italy, ha promosso la produ­zione della moto Ducati a Tokio; la Confartigianato veneto ha organizza­to all’interno dell’Istituto di Ankara un convegno volto alla promozione del tessuto produttivo locale. 


Corriere della Sera 9.12.09
Dove imparare la nostra lingua è una moda
Giappone, scelta per 500 mila
di D. Fert.

Se esiste un libro dei sogni per la cultura italia­na all’estero, questo si trova senz’altro in Giappo­ne: è laggiù che si vede come potrebbe essere la nostra immagine nel mondo, se la sfruttassimo in pieno. Così infatti è avvenuto nel 2001, in occa­sione dell’iniziativa «Italia in Giappone», quando il paese del Sol levante venne inondato da circa ottocento eventi distribuiti su quindici mesi, con più di cento milioni di contatti. O in occasione di grandi mostre: due anni fa, con l’Annunciazione di Leonardo capace di attirare quasi novecento­mila visitatori; o anche quest’anno, con l'esposi­zione sull’impero romano.

Del resto, bastano le cifre attuali degli studenti di italiano — che il direttore dell’Istituto di To­kio, Umberto Donati, fornisce senza enfasi — per rendersi conto della portata indiscutibile del fe­nomeno. Seimila iscritti ai corsi trimestrali orga­nizzati direttamente dall’Istituto, con un occhio particolare all’eccellenza e alla «fidelizzazione» degli studenti, insistendo sugli approfondimenti e sui corsi di cultura avanzata. Poi, a un livello più popolare, ci sono le lezioni di italiano orga­nizzate dalla televisione e radio pubblica Nhk

(più o meno equivalente alla nostra Rai) rispetto alle quali le vendite abbinate dei testi per la gram­matica e gli esercizi fanno ipotizzare (per difetto) l’esistenza di circa duecentomila studenti.

Ancora: ottantamila giovani studiano l’italiano presso scuole e università che ne prevedono l’in­segnamento (sono centoventi). Aggiungiamo du­ecento scuole private in tutto il Paese, dove trovia­mo altri cinquantamila allievi, e infine coloro che scelgono lo studio solitario della lingua, spesso motivato dalla passione per la musica lirica, la cu­cina o semplicemente perché lavorano nei nume­rosi ristoranti italiani (sono tremila nella sola To­kio). Così si arriva a un dato complessivo compre­so fra i quattrocentomila e il mezzo milione di giapponesi che, a vario titolo e in forme diverse, hanno un rapporto con la lingua italiana.

Esaurito il boom degli anni Ottanta e Novanta, si può forse parlare — spiega il direttore Donati — di un calo dei principianti, ma di un sensibile rafforzamento del legame con l’Italia da parte dei progrediti. Non più dunque, come in passato, corsi brevi e immersioni nella lingua per qualche mese soltanto, ma partecipazione attiva a corsi sulla civiltà classica, l’arte, l’opera, la gastrono­mia, la storia, la letteratura. Con alcuni cammei culturali che danno il senso dell’innamoramento giapponese: corsi di ricamo al punto antico per signore, di chitarra per giovani e poi di incisione e gioielleria. E ancora, sessioni di lingua col kara­oke o con il metodo sperimentale della «sugge­stopedia ». Perché quando si ama una cultura — ecco il ful­cro dell’insegnamento che viene dal Sol levante — si ammira tutto ciò che vi è mentalmente asso­ciato: eleganza, bellezza, raffinatezza, il gusto ide­almente «rinascimentale» di vivere. Un sentimen­to abbastanza diffuso da esprimersi visibilmente nel panorama urbano nipponico: l’italiano è usa­to assai spesso nelle insegne degli esercizi com­merciali (ristoranti, bar, negozi) e per battezzare prodotti industriali (l’auto «Serena» della Nissan, i termini «premio», «porte», «passo» per la Toyo­ta; una moto della Yamaha è diventata addirittura «Dio». E non si contano le riviste dai nomi italia­ni: «Uomo», «Ciao», «Grazia», «Viaggio»).

Probabilmente è da qui, da questa passione giapponese e dall’uso non solo pratico della no­stra lingua, che si deve partire per spiegare — co­me sottolinea l’ambasciatore Vincenzo Petrone — il fenomeno degli eventi concepiti dall’Italia ma finanziati prevalentemente sul mercato giap­ponese (soltanto quest’anno per due milioni e mezzo di euro). Succede infatti che i grandi gior­nali come lo Yomiuri Shimbun o le televisioni pubbliche e private organizzino direttamente grandi eventi, si preoccupino di trovare gli spon­sor tra i loro inserzionisti e raggiungano il pareg­gio economico tramite la vendita di biglietti, cata­loghi e merchandising. Significativo qui il ruolo della Fondazione Italia-Giappone, presieduta dal­l’ambasciatore Umberto Vattani, dove convivono enti e aziende pubblici e privati.

martedì 8 dicembre 2009

Repubblica 8.12.09
Terapia del dolore
Non soffrire è un diritto in arrivo la nuova legge
di Elena Dusi

L´Italia è agli ultimi posti in Europa per uso di oppioidi e cannabinoidi, mentre è in continuo aumento il consumo di analgesici. Ma ora, finalmente, il Senato si appresta a dare il via libera alla normativa sulle cure palliative Una rivoluzione che renderà la vita più facile a medici e pazienti. Ecco come
Si stanno formando specialisti ad hoc e vengono aggiornati i protocolli al Pronto soccorso

Nel 1961 le Nazioni Unite stabilivano nella Convention on narcotic drugs che è "indispensabile alleviare le sofferenze dei malati attraverso l´uso di farmaci oppioidi". Quasi cinquant´anni più tardi l´Italia comincia a mettere questo obiettivo nel suo mirino. Dopo il s della Camera ottenuto a metà settembre con l´unanimità dei voti dopo due sole sedute, per il nuovo disegno di legge "sulle cure palliative e contro il dolore" ci si aspetta una strada in discesa anche al Senato. L´approvazione definitiva dovrà attendere il completamento della finanziaria, ma medici e pazienti guardano con ottimismo a una normativa che riduce moduli e burocrazie per la prescrizione dei farmaci antidolore: non solo oppioidi ma anche cannabinoidi.
Prima in Europa per consumo di antidolorifici da banco, l´Italia è ultima in classifica quanto a prescrizioni di oppioidi. La coesistenza dei due primati - niente affatto casuale - significa automedicazione e assenza di esperti accanto al paziente, uso di farmaci spesso non appropriati e quindi maggiori effetti collaterali. E la permanenza dell´Italia in fondo alla classifica europea (con Germania e Svezia che usano dosi di oppioidi otto volte superiori alle nostre) nonostante un aumento significativo (più 13 per cento) dell´uso di questi analgesici tra il 2006 e il 2007, indica quanto grande fosse l´abisso che ci separava dagli altri paesi prima della legge del 2001 del governo Amato, che ha finalmente spezzato l´equazione fra consumatori di oppioidi per fini medici e tossicodipendenti.
Il nuovo disegno di legge atteso in Senato prevede la semplificazione delle prescrizioni. Ma contiene anche una serie di provvedimenti che rivoluzionano (o almeno promettono di farlo) il rapporto fra i medici del dolore e le persone sofferenti. Grazie a uno stanziamento di 50 milioni di euro, più altri 100 milioni annui, la nuova normativa prevede il miglioramento delle terapie sia negli hospice per i malati terminali sia attraverso il servizio a domicilio. E il medico curante, per prescrivere la maggior parte degli analgesici, non avrà più bisogno del ricettario speciale da redigere in triplice copia. Ricettario che molti medici non avevano neanche mai ritirato dalle Asl.
Al miglioramento delle norme si affiancano in Italia le iniziative delle università (come la nascita di alcuni master per la terapia del dolore) per formare specialisti ad hoc, anziché considerare questa disciplina solo come una costola dell´anestesia e rianimazione. Aggiornano i loro protocolli anche i pronti soccorsi, per i quali la terapia antalgica con gli oppioidi sui bambini non è più tabù. E al San Matteo di Pavia è stata istituzionalizzata la figura dell´"infermiere del dolore", capace di misurare l´intensità della sofferenza di un paziente, valutare l´efficacia della terapia antalgica e in molti casi anche riconoscere possibili effetti collaterali in anticipo rispetto ai medici. Una figura simile esiste nell´istituto di ricerca e cura lombardo da circa 5 anni. Ma è stata ufficializzata solo da un anno, dopo l´osservazione che per alcuni tipi di intervento il dolore post-operatorio affligge il 30-40 per cento dei pazienti e in alcuni casi, se non aggredito a dovere, si trasforma in cronico. E proprio all´infermiere specializzato nell´alleviare la sofferenza, e alla sua diffusione iniziale in una manciata di ospedali del centro-nord, è stata dedicata recentemente la seconda edizione del San Matteo International Meeting on Pain Research, organizzato dall´Istituto di Pavia e dalla Fondazione Maugeri.
Ma se in ospedale, negli hospice o in tutti i casi dove una diagnosi di malattia grave già esiste, ricevere un trattamento contro il dolore è prassi relativamente comune, la sfida della nuova legge è realizzare quella rete di assistenza domiciliare che dovrebbe alleviare la sofferenza anche del 25-30 per cento della popolazione colpita da dolori cronici per i motivi più vari (artriti, postumi di operazioni o incidenti, il fenomeno in crescita della fibromialgia). Una maggiore vicinanza tra medici e pazienti potrebbe tra l´altro fare da volano alla ricerca, diffondendo nuove terapie o trattamenti che non possono certo essere somministrati come farmaci da banco. Un esempio di medicinale innovativo è lo zicotonide, estratto da una conchiglia marina, che ha il vantaggio di non creare dipendenza ma ha bisogno di essere iniettato molto lentamente attraverso un catetere. Altri strumenti promettenti: le pompe a infusione lenta, fino ad arrivare a tecniche d´avanguardia come lo stimolatore elettrico peridurale o gli elettrodi intracerebrali che favoriscono la produzione di endorfine.
Ampliare la varietà degli strumenti permette tra l´altro di evitare la sorte degli Usa, dove la Food and drug administration venerdì scorso ha costretto le case produttrici a cambiare posologie e foglietti informativi degli analgesici, per combattere gli abusi che secondo l´Fda causano centinaia di overdosi fatali ogni anno. E un altro invito alla cautela arriva da uno studio reso pubblico proprio oggi dal Saint Michael´s Hospital di Toronto e relativo all´Ontario. I medici hanno calcolato che tra 1991 e 2004 i decessi causati dall´uso di oppioidi sono esattamente raddoppiati: da 13,7 per milione di persone a 27,2. Mentre va avanti all´Onu, nel frattempo, la richiesta presentata a primavera da Human Rights Watch di inserire l´accesso alla terapia del dolore fra i diritti fondamentali dell´uomo.

Repubblica 8.12.09
Il finale di partita del cavaliere
di Aldo Schiavone

È difficile immaginare come finirà l´impolitico e caotico finale di partita che il presidente del Consiglio sta giocando per salvarsi non dai processi (come si dice), ma ormai solo e unicamente da se stesso - dai suoi errori e dal suo passato. È arduo far previsioni, quando ormai il cerchio più stretto intorno a lui sta diventando, giorno dopo giorno, «il luogo della convergenza oggettiva del delirio collettivo» (così, amichevolmente, Il foglio).
Ma una cosa è certa. Ed è che chi sta perdendo – e in modo drammatico – è intanto il Paese; sono tutti gli italiani, qui e subito. Perché per uno di quei micidiali incastri di cui la storia è piena, l´interminabile epilogo del berlusconismo sta coincidendo in pieno con un momento cruciale negli anni che stiamo vivendo: quello in cui, mentre forse si comincia a intravedere un´uscita dalla fase più acuta della crisi, le conseguenze sociali della recessione che ci ha colpito si stanno manifestando in tutta la loro prevedibile gravità.
Sarebbe, questa – dovrebbe essere – la stagione della lungimiranza e della fermezza; l´ora in cui dimostrare tempestività e respiro strategico; in cui rendere visibile un progetto coerente di ridefinizione dell´identità produttiva e civile della nazione; insomma, qualcosa che somigliasse a un´interpretazione politica, di governo, della nuova modernità italiana, capace di indicare un percorso, di fissare obiettivi comuni, di raccogliere le forze disperse ma presenti nella nostra società.
Dalla crisi verrà fuori un mondo cambiato: nuovi equilibri, nuovi rapporti di forza, nuove competitività, nuove filosofie della cittadinanza e del lavoro e del rapporto fra individualità e territorio. O siamo capaci di stare nelle trasformazioni, di tenere il passo, di ritagliarci uno spazio, o precipiteremo indietro, con una velocità che non riusciamo nemmeno a concepire.
E invece, di questa urgenza, di questa necessità di uno sforzo e di uno slancio collettivo di idee e di energie, non si vede nel governo del Paese la benché minima traccia. Tutto ruota intorno al Capo in sofferenza, e al suo destino: i suoi desideri, i suoi timori, il suo corpo addirittura, e la rappresentazione che egli si fa del potere, dove si confonde di continuo lo stile di una leadership carismatica (ne avessimo davvero una, in tutto il nostro schieramento politico!), con la deriva personalistica di un grande comunicatore che non ha più un vero messaggio da trasmettere, e che ha perduto ogni rapporto con il futuro. La povertà del nostro discorso pubblico è impressionante, se confrontata con il dibattito francese, o tedesco.
Come spiegare altrimenti del resto – se non come tacita rassegnazione alla nostra sconfitta e alla nostra minorità – l´inerzia del governo di fronte a una disoccupazione giovanile che per alcune fasce d´età e per alcune regioni sfiora il 50%. Quando si toccano queste cifre, sono intere generazioni a essere travolte, a veder messe a repentaglio le loro prospettive di crescita e di sviluppo personale; e quando ciò accade – e non si corre subito ai ripari –è la stessa tenuta democratica del Paese a essere messa a rischio. E come ancora spiegare altrimenti se non come una silenziosa abdicazione al nostro ruolo e alla nostra posizione in Europa, che mentre in Francia (solo per fare un esempio) un governo di destra decide – proprio di fronte alla crisi in atto – di puntare su un imponente piano di trasferimento di risorse alla scuola, all´università, alla ricerca, avendo capito che il terreno della formazione e dell´innovazione culturale e scientifica è ormai quello su cui si decide la sorte e il rango mondiale delle comunità nazionali, per i nostri dirigenti politici di maggioranza già solo accennare a questi problemi sembra un lusso che non possiamo concederci.
Non bisogna parlare a cuor leggero di declino italiano. Per quanto mi riguarda, è una parola che non ho mai usato. E bisogna rifuggire dal vezzo deprecabile del catastrofismo sul proprio Paese quando è governato da chi non vorremmo, salvo a rovesciare di colpo i termini dell´analisi, e veder tutto rosa quando si invertono i ruoli politici. Ma credo che oggi – lo dico con pena e con ansia – si ha l´impressione che qualcosa di profondo stia cedendo e si stia decomponendo, nel nostro tessuto intellettuale e sociale. E che la pulsione alla resa sia più forte di quella alla lotta. Voglia Iddio di star sbagliando.

Repubblica 8.12.09
Quei ragazzi convinti che il sapere è irrilevante
di Javier Marias

Una reginetta di bellezza ha detto che Colombo ha scoperto l´America nel 1780
Avrà saputo che cos´è un secolo? Se avesse detto «1789» avremmo potuto pensare che avesse confuso una data famosa con un´altra. Ma il 1780? Un mistero veramente. La notizia aggiungeva qualcos´altro, forse ancora più rivelatore e sintomatico: in un programma della televisione Tve avevano provato a svergognarla per la sua gaffe, ma lei si è difesa con disinvoltura, affermando che «è irrilevante sapere questa cosa».
È facile giudicarlo un evento trascurabile e consolarsi con la fondata idea che tutte le miss e aspiranti tali sono ignoranti per definizione e irrimediabilmente sceme. I loro gridolini, i loro pianti e le loro ovvietà sono stati parodiati fino allo sfinimento in film e programmi umoristici. Che ci si può aspettare da una miss? La cosa è nota. Però la giovane in questione probabilmente fino a quattro giorni fa era una ragazza normale. Sarà andata al liceo come tutte, e chissà, forse sarà arrivata anche a prendersi il diploma. Sarà arrivata ai diciotto-vent´anni con una qualche istruzione, e ne è prova il fatto che le sia venuta in mente la parola «irrilevante», che ai tempi nostri non è alla portata di tutti. Ho paura che le sue due risposte, quella del 1780 e quella dell´irrilevanza, le avrebbero potute dare parecchi giovani che non hanno mai avuto nulla a che fare con i concorsi di bellezza, e un numero non trascurabile di adulti, fra i quali, senza dubbio, alcuni di quei giornalisti televisivi che hanno voluto metterla alla berlina, solo che a loro non fanno queste domande difficili con le telecamere davanti.
«È irrilevante sapere questa cosa». Da un certo punto di vista la candidata al titolo di "Reina" non ha tutti i torti, perché la stessa cosa devono aver pensato certamente tutti i professori che ha avuto in vita sua, e i responsabili della Pubblica istruzione - nazionali e regionali - degli ultimi due o tre decenni, che hanno fatto tutto il possibile per trasformare la Spagna in una società di illetterati, di ignoranti fieri della loro ignoranza, di primitivi esperti in tecnologia; e come loro un buon numero di genitori, che si sono affannati a pretendere dai docenti che insegnassero ai loro virgulti «cose pratiche», che possano servire per guadagnarsi da vivere in futuro, senza perdere tempo con l´«irrilevante». Serve a qualcosa il latino, una lingua cadavere? A che serve la matematica, quando abbiamo le calcolatrici che ci forniscono il risultato di qualsiasi operazione lì, sul momento? A che servono la grammatica, la sintassi e l´ortografia se come si parla e come si scrive è lo stesso? A che serve conoscere la storia se basta cercare su Internet per appurare istantaneamente chi fu il tale personaggio e che cosa successe il tale anno? A che serve la geografia, se prendiamo aerei che ci portano in qualunque posto nel giro di poche ore e non ci importa nulla del tragitto? C´è qualcosa che serve a qualcosa? E che cosa sono, poi, le cose «pratiche»? Forse solo imparare a maneggiare il computer e la calcolatrice. In fin dei conti, perché è necessario andare a scuola? Per avere un´idea del mondo, del passato dell´umanità, della storia dell´arte e delle religioni, dell´evoluzione delle scienze, della nostra anatomia, dei testi che sono stati scritti, della moltiplicazione, della divisione, della somma e della sottrazione, del cerchio e del triangolo? Niente di tutto questo è «pratico» né aiuta a guadagnarsi da vivere, tanto meno a diventare Reina Hispanomericana. Eppure…
L´istruzione non è solo conoscenza e dati. È un elemento essenziale di quella che un tempo si chiamava «formazione», cioè la trasformazione degli individui in persone, non esseri animaleschi che cadono nel mondo senza avere nozione alcuna di quello che c´è stato prima di loro, incapaci di associare due fatti, di distinguere fra causa ed effetto, di articolare due frasi intelligibili, di pensare e ragionare, di comprendere un testo semplice. Questo è il genere di esseri che abbonda ogni giorno di più nella nostra società intellettualmente rudimentale. Il problema è che, per qualche mistero, alla fine questi esseri non escono fuori né «pratici» né in grado di guadagnarsi da vivere, la vecchia aspirazione dei loro già abbrutiti genitori. Non è raro vedere in televisione giovani e non tanto giovani che dicono, in questi tempi di crisi: «Io non voglio studiare, quello che voglio è che mi diano un lavoro per guadagnare soldi». Spesso hanno un´aria talmente da scemi che mi scopro a pensare con pena: «Ma santo cielo, come può qualcuno darti un lavoro se è evidente che non ti hanno insegnato nulla e che non servi neppure per appiccicare un francobollo? Se io fossi un imprenditore, non ti assumerei». Temo che gli imprenditori veri pensino la stessa cosa: «Non ho bisogno di un animale tecnologico, che sa battere i tasti come gli viene ordinato ma senza avere la minima idea di quello che sta facendo. Non ho bisogno di una persona incompleta. Portatemi qualcuno civilizzato, con conoscenze irrilevanti, di quelle che ti permettono di cavartela nel mondo».
© The New York Times Syndicate
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere della Sera 8.12.09
I socialisti europei, le assenze e l'ennesima occasione perduta
di Franco Venturini

Il congresso dei socialisti euro­pei che si tiene a Praga è uno specchio fedele dello stato del Pse. Assen­te lo spagnolo Zapatero. Assente il britan­nico Brown. Assenti il portoghese Socra­tes e l’austriaco Gusenbauer. Assente (per malattia) il greco Papandreu. Occorre con­tinuare? Per un partito che alle elezioni eu­ropee aveva condiviso la sconfitta di buo­na parte dei socialismi nazionali rivelatisi incapaci di intercettare la crisi economica e di proporre ricette alternative rispetto ai partiti di centrodestra, il congresso di Pra­ga poteva e doveva rappresentare una oc­casione di rilancio. Meno legato alle singo­le forze nazionali, e più istanza europea dotata di una propria visione. Meno confu­so nelle sue acrobazie al Parlamento euro­peo, e più coraggioso nello sfidare lo stra­potere dei governi della Ue. Si poteva ten­tare, almeno, di far quello che ritualmen­te ha indicato il danese Rasmussen, con­fermato presidente: battersi per la rifor­ma del sistema finanziario, dare all’Euro­pa una nuova strategia di crescita, adotta­re come bandiere la difesa dell’ambiente e le pari opportunità. Si sarebbe potuto, ma se poi quelli che contano non si fanno nemmeno vedere chi potrebbe mai crede­re alla svolta? Il nostro Pd vive doppiamen­te la crisi nella sua condizione di «osserva­tore », studiata per evitare che gli ex Ds liti­ghino con gli ex Margherita. Ma la colpa non è del Pd: più in generale sembra esse­re l’opzione socialista a vivere una crisi profonda, e il Pse non è in grado di rove­sciare la tendenza.

Aria del tutto diversa tira tra i popolari del Ppe che si vedranno giovedì a Bonn. Anche loro hanno le loro magagne inter­ne, come la defezione dei conservatori in­glesi. Ma nel complesso il partito è in posi­zione dominante, guidato nientemeno che da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy. Il Ppe ha la maggioranza relativa in un Parlamento presieduto dal polacco Buzek, ha fatto confermare Barroso, ha fat­to eleggere Van Rompuy, ha ottenuto quel che voleva nella nuova Commissio­ne. Certo, a decidere nell’Europa di oggi sono i governi, non certo i partiti di Stra­sburgo che oltretutto sono una pallida imitazione di quelli nazionali. Ma il Pse poteva almeno fingere di crederci.

Corriere della Sera 8.12.09
Sei mesi dopo le elezioni Decine di migliaia di persone protestano fino a seraAtenei in rivolta in tutto l’Iran La polizia attacca gli studenti
Botte, lacrimogeni e spari contro gli slogan anti-regime
di Viviana Mazza

«Mio compagno della scuola elementare — cantavano ieri gli studenti iraniani in uno dei tanti video emersi su YouTube a dispetto della censura —. Il mio nome e il tuo sono stati in­cisi su questa lavagna nera, e i nostri corpi portano i segni del bastone dell’ingiustizia e della tirannia». Negli atenei di tutto l’Iran e in molte piazze, gli stu­denti hanno intonato inni stori­ci insieme a slogan radicali emersi negli ultimi mesi (come «Morte al dittatore», contro la Guida suprema Khamenei). Gli agenti in divisa e in borghese li hanno picchiati con violenza, dentro gli atenei e fuori. Li col­pivano coi manganelli alla te­sta e alle spalle fino a farli san­guinare, hanno usato i lacrimo­geni, e secondo alcune testimo­nianze alla Bbc avrebbero spa­rato, anche se i siti riformisti parlano di colpi d’avvertimen­to in aria.

A sei mesi dalla contestata rielezione del presidente Ahma­dinejad, decine di migliaia di iraniani sono tornati a protesta­re contro il regime in occasio­ne della Giornata dello Studen­te, rovesciando il significato di un appuntamento antiamerica­no (ricorda l’uccisione di tre universitari nel 1953 durante la visita del vicepresidente Usa Nixon). L’ex rivale di Ahmadi­nejad, Mir Hossein Mousavi, ha appoggiato la protesta dal web e diversi manifestanti in­dossavano nastri verdi, il suo «colore elettorale» diventato poi simbolo delle proteste. Il fulcro della rivolta erano gli ate­nei, di Teheran ma anche di Shi­raz e Kerman nel centro del Pae­se, di Mashaad a Est e di Tabriz e Kermanshah a Ovest, a giudi­care da testimonianze giunte via telefono, blog e video: le uniche fonti di notizie. Ai re­porter stranieri rimasti in Iran è stato proibito infatti di uscire dagli uffici. Né è noto il bilan­cio dei feriti o degli arresti, tra i quali un leader dell’ateneo di Amir Kabir, Majid Tavakoli, e due donne (mentre 15 madri di manifestanti uccisi nei mesi scorsi sono state arrestate saba­to in un incontro di protesta).

La strategia delle autorità era duplice. Da una parte, soffo­care il dissenso dentro gli ate­nei: attraverso gli arresti pre­ventivi di oltre 100 leader stu­denteschi, e grazie alle milizie paramilitari che aggredivano chi gridava slogan antigoverna­tivi. Dall’altra, tentavano di iso­lare gli atenei, che erano circon­dati da migliaia di agenti. Stri­scioni bianchi e ritratti di Kha­menei rivestivano il perimetro dell’Università di Teheran per impedire di vedere all’interno, il cancello di quella di Amir Ka­bir era stato sigillato, ma gli studenti lo hanno sfondato dal­l’interno. La rete dei cellulari è stata interrotta in alcune zone e Internet era a tratti tanto len­to da non poter inviare un’email. Ma le proteste hanno acquistato nuova forza nel po­meriggio, continuando fino a sera. «Dovresti vedere le ragaz­ze — raccontava un testimone a una radio dell’opposizione —. Sembrano campionesse di judo. Colpiscono gli agenti in borghese coi bastoni e le pietre e poi corrono via! Ma anche lo­ro vengono picchiate».

Agi 8.12.09
EDITORIA: HADDAD, UN PUBBLICO DI ALTA CULTURA E GRANDE ATTENZIONE
Roma 8 dic. - Oltre quella ufficiale, c'e' voluta la sala attigua, per poter ospitare un folto pubblico, "di alto livello culturale, di grande attenzione e partecipazione nel seguirti dentro le parole con cui hai costruito un racconto e un libro". Cosi' la giornalista, poetessa e scrittrice libanese Joumana Haddad racconta dal Libano la sua giornata, "quasi un sogno che ogni scrittore vorrebbe vivere", trascorsa a Roma tra la Fiera nazionale della Piccola e Media Editoria, 'Piu' libri piu' liberi', dove la mattina ha presentato il suo libro, alla seconda ristampa, 'Il ritorno di Lilith', e la sera lo ha riproposto in versione di 'spettacolo' bilingue arabo-italiano al Teatro Eliseo. Anche qui, e' stato necessario l'uso di una sala attigua, il Piccolo Eliseo, per l'enorme afflusso di persone accorse ad assistere all'evento teatrale ideato da Francesco Verenucci. "Il ritorno Lilith non poteva trovare una casa piu' adatta, o meglio ancora il corpo piu' adatto per la sua immagine e identita'", aggiunge la Haddad riferendosi alla giovanissima, compie di questi tempi il primo anno di vita, e innovativa casa editrice 'L'Asino d'oro' degli editori Lorenzo Fagioli e Matteo Fago. La 'ribelle araba' si e' confrontata con lo psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli, autore di 'Left 2006', la raccolta dei suoi 43 articoli scritti per il settimanale 'Left'. Davanti ad un pubblico speciale, la poetessa, che ha riscoperto Lilith la donna che Dio creo' dalla terra come Adamo ma che rifiuto' di obbedire all'uomo, si ribello' e se ne ando' dal Paradiso e lo psichiatra della 'Teoria della nascita' hanno dato vita ad un confronto inedito, originale: la 'poesia', come espressione del profondo di ciascuno, per dire e raccontare o di una donna libera e ribelle o anche di una politica che ha per oggetto la realta' umana, l'essere umano e le sue esigenze, e non soltanto i suoi bisogni. "Quanto accaduto, l'aver vissuto quasi un sogno, ti da' - scandisce la Haddad - una tremenda energia, una grande voglia di scrivere ancora, di far meglio e di piu' rispetto a quanto gia' fatto". E che e' stato gia' un gran successo di vendite e di pubblico. Un andar ancora avanti oltre il gia' acquisito? "Certamente - risponde con la sua leggerezza la Haddad - la nostra immagine interna, la nostra identita' e' sempre in continua evoluzione, trasformazione, non e' statica, si arricchisce ogni giorno per incontri con persone nuove, per interessi e curiosita' del tutto nuove". Specie poi quando le persone sono, conclude, "di alto livello culturale, di grande attenzione e partecipazione, che vogliono andare con te dentro le parole" (AGI)Pat

lunedì 7 dicembre 2009

Repubblica 6.12.09
La figlia di Camus "Ecco mio padre un uomo solo"
di Fabio Gambaro

PARIGI «Quando si ha un genitore celebre come il mio, ai figli resta molto poco del padre. Per questo mi esprimo il meno possibile, cercando di tenere per me la dimensione privata della nostra storia». Inizia così la conversazione con Catherine Camus, la figlia dell' autore de La peste e Lo straniero, di cui il 4 gennaio prossimo ricorrerà il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Di Albert Camus, premio Nobel per la letteratura morto in un incidente d' auto a soli quarantasei anni, in questi giorni in Francia si parla molto, anche perché la proposta di Nicolas Sarkozy di trasferirne le spoglie nel Pantheon ha suscitato accese discussioni. In questi stessi giorni la figlia dello scrittore, che vive in Provenza nella casa acquistata dal padre poco prima del tragico incidente, manda in libreria un bellissimo libro, ricco di foto e documenti, intitolato Albert Camus, solitarie et solidarie. E in occasione di tale pubblicazione ha accettato di parlare, benché per ora non desideri intervenire nel dibattito suscitato dalla proposta del presidente: «È un' iniziativa che non mi aspettavo assolutamente», ammette con franchezza. All' inizio, ho pensato che ciò avrebbe potuto rappresentare una sorta di riconoscimento per tutti gli umili che mio padre ha sempre difeso. Un riconoscimento anche per mia nonna, una donna che ha conosciuto la povertà e la sofferenza. Poi però mi sono resa conto che le cose erano più complicate. Così, dato che per il momento ho troppi dubbi, preferisco non esprimermi, tenendomi lontana dalla polemica. So che prima o poi dovrò parlare, ma lo farò solo quando avrò le idee più chiare. Per una figlia non è facile accettare la riesumazione del padre, ma Camus è un uomo pubblico e i suoi libri appartengono a tutti. Io non voglio imporre nulla a nessuno, non sono la guardiana del tempio, anche perché il tempio non esiste. Quando mi sentirò meno implicata affettivamente, dirò come la penso, anche se allora, forse, il mio punto di vista non interesserà più». In questi giorni, molti ricordano il carattere libertario di suo padre. Anche per lei resta un tratto fondamentale? «Certo, era uomo libero, ma per lui la libertà non esisteva senza la responsabilità. Ricordava spesso che occorre sempre assumersi la responsabilità delle proprie scelte, delle azioni come delle parole. Si tratta di una forma di rispetto nei confronti degli altri. È un principio su cui insisteva molto anche in casa. Nella vita quotidiana, infatti, cercava di trasmetterci i valori presenti nelle sue opere. Per noi, il peccato capitale era il non rispetto degli altri». L' uomo privato, quindi, non era diverso da quello pubblico? «Io non ho conosciuto l' uomo pubblico, perché, fino al giorno della sua morte, in realtà non sapevo che fosse celebre. In casa, eravamo protetti dalla sua celebrità». Nemmeno al momento del Nobel? «Non avevamo né radio né televisione, quindi la notizia non ci colpì più di tanto. Mi disse che sarebbe andato in Svezia, ma per me non era un fatto particolarmente importante. Mi ricordo che gli chiesi se esistesse anche un Nobel per gli acrobati, e siccome mi rispose di no, non diedi più di tanta importanza alla cosa. Avevamo l' abitudine di una vita semplice». Nel suo libro pubblica una lettera inedita a Nicola Chiaromonte, dove Camus ammette che la notizia del Nobel l' ha gettato nel panico... «Pensava di essere troppo giovane. Aveva solo quarantatré anni e stava attraversando un periodo molto difficile, dato che il mondo intellettuale parigino lo aveva emarginato. Inoltre, il Nobel rendeva ancora più profonda la distanza tra la realtà da cui veniva e lo scrittore che era diventato. Non bisogna mai dimenticare le sue origini popolari. In Algeria, era un bambino di strada, per il quale la lingua francese era stata una conquista. La celebrità rischiava di schiacciarlo e non lasciargli più spazio per un' esistenza sua». Trascorreva molto tempo con figli? «Aveva molti impegni pubblici, ma riusciva a essere presente nella nostra vita. Era un padre bravissimo, capace di darci molta sicurezza. Era un uomo divertente e pieno d' ironia. Ci faceva ridere, preparava da mangiare, giocava a pallone. Era pieno di vita. Ricordo mio padre come un uomo felice. Una volta lo vidi triste e gli chiesi perché. Lui mi rispose che era solo. Dovevo avere nove anni e non sapevo come dirgli che con me non sarebbe mai stato solo. Ma doveva essere veramente molto solo, per dirlo a me. Era probabilmente poco dopo la pubblicazione de L' uomo in rivolta ». Quel libro produsse la rottura con Sartre. Ne soffrì molto? «Erano amici e quindi ne soffrì, ma credo che la rottura avvenne più per opera di Simone de Beauvoir che di Sartre, che mio padre considerava un uomo generoso. La polemica lo ferì, perché, più ancora del libro, gli attacchi miravano a lui personalmente. Molti si allontanarono da lui. Solo alcuni amici gli rimasero vicini, come Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, René Char o Louis Guilloux». La sua denuncia dello stalinismo fu molto osteggiata? «Fu un vero scandalo, fu accusato di essere di fatto un alleato della destra. Per mio padre ciò che contava era la dignità umana, indipendentemente dagli schieramenti politici. Si poneva sempre dal punto di vista dell' uomo e non dell' ideologia. Per questo, nel mondo intellettuale francese rimase solo. Non faceva parte di alcun partito. Diceva sempre che l' unico partito cui avrebbe potuto aderire era il partito di quelli che non sono mai sicuri di aver ragione. Il partito del dubbio. Senza dimenticare le sue origini popolari. La maggior parte degli intellettuali francesi erano dei borghesi che avevano frequentato le migliori scuole. Lui era diverso e per di più veniva dall' Algeria, in un' epoca in cui la Francia guardava soprattutto al nord, rimuovendo la sua dimensione mediterranea». Per Camus la mediterraneità era importante? «Certo. Amava moltissimo la Spagna, la Grecia e soprattutto l' Italia. Per lui, il mare e il sole erano fondamentali. Ha anche scritto che gli sarebbe piaciuto morire sulla strada che sale verso Siena». Oggi Camus è apprezzato da tutti. Non teme che l' eccesso di consenso rischi di imbalsamare la sua immagine ribelle? «No, perché Camus sa difendersi molto bene. I suoi scritti sono lì a provarlo».

Repubblica 6.12.09
La nobiltà della miseria la sua unica fede
di Daria Galateria

Il 4 gennaio 1960, sulla Statale 5, a ventiquattro chilometri da Sens, la potente Facel-Vega dei Gallimard sbanda, sbatte contro un platano e rimbalza sfasciandosi. Albert Camus muore sul colpo. Alla guida Michel Gallimard, il nipote dell' editore, è gravissimo; muore in ospedale cinque giorni dopo. Le due donne Gallimard sul retro restano indenni; il loro cane non viene ritrovato. Sul cruscotto, l' orologio è fermo alle 13.30: è ministro della cultura uno scrittore, Malraux, che alla notizia spedisce immediatamente un segretario a ritirare la borsa di Camus, che il sindaco di Sens ha trovato accanto all' auto. Nella borsa c' è in effetti un manoscritto, centoquaranta fogli coperti da una scrittura fitta e senza cancellature: è il romanzo Il primo uomo. Ad Algeri, la madre illetterata di Camus - la «donna che non pensa», che in casa, col suo amore «minerale», «passava il tempo a seguirlo con gli occhi» - come al solito non piange: « È troppo giovane», dice solo (Camus aveva quarantasei anni). Piange la gente per le strade di Parigi, nota con un po' di stupore Queneau, della casa editrice Gallimard, dove si decide di non pubblicare Il primo uomo. Il romanzo era bellissimo e Camus - dopo Kipling, il più giovane premio Nobel della storia - amatissimo nel mondo. Ma in casa editrice - consultati gli intellettuali di riferimento - ritennero inopportuna la diffusione di quel libro. Il primo uomo era la risposta di Camus al problema algerino, che dal 1954 squassava Francia e Algeria, ed è stato un laboratorio dei conflitti che, a cinquant' anni dal pomeriggio di quell' incidente, agitano la nostra epoca. Da tre anni, Camus, che pure «aveva male all' Algeria, come si ha male ai polmoni», taceva. Il primo uomo è un po' suo padre, uno dei primi coloni in Algeria; nel 1914, quando Albert ha un anno, muore nella battaglia della Marna. La madre, Catherine, è tornata, quando il marito è partito in guerra, dalla mamma: tre stanze senza acqua né elettricità, in cui vivono anche due fratelli di Catherine e, a un certo punto, una nipote. «Nessuno intorno a me sapeva leggere; tenetene conto», raccomandava Camus. Nel romanzo è la nonna che comperava le scarpe, che «sperava immortali», e che ferrava con grossi chiodi conici perché la suola non si consumasse. Ogni sera, il bambino doveva dimostrare di non averle usurate giocando a calcio sul cemento; quando le suole si staccavano, le legava con un laccio, ma erano «le sere del nerbo di bue»: «Lo sai che costano». I vestiti, per durare, erano troppo grandi, e il bambino era costretto a sbuffare in vita l' impermeabile, stringendo bene la cintura - tanti anni dopo, a New York, chiamavano Camus, per quell' abitudine, «il piccolo Bogart» (gli assomigliava in effetti; era solo molto più alto, e, con la sua «aria da garagista», più bello). La miseria era già una prima risposta alla guerra d' Algeri; i poverissimi si confondono, e ci guadagnano a fraternizzare. Camus aveva sognato perciò un popolo algerino autonomo, e federato con quello dei piccoli coloni francesi (i grandi andavano beninteso eliminati; personalmente Camus aveva difeso i militanti del Fnl imprigionati e torturati). Ma i due campi si erano specializzati, rispettivamente, in terrorismoe napalm. Alla consegna del Nobel, un algerino aveva chiesto a Camus di pronunciarsi in favore della causa d' Algeria; lui aveva risposto: «Tra la giustizia e mia madre, scelgo mia madre» - che era una citazione distorta di Dostoevskij, e anche una testarda protesta contro la violenza, a protezione del più debole, che era ancora la madre. Ma la frase non gli fu perdonata. Quando, prima che gli scoprissero la malattia ai polmoni, Camus giocava a calcio, era portiere. Aveva imparato una grande lezione, che il pallone non arriva mai da dove ce lo si aspetta. Anche gli attacchi gli erano venuti sempre dai più vicini. All' uscita de L' uomo in rivolta, Sartre aveva attaccato il saggio, con le sue denunce di Stalin; tutto il suo gruppo aveva rotto con Camus. Camus soffriva di «pene d' amicizia, come si hanno pene d' amore». « Soffri?», gli aveva chiesto la figlia Catherine, vedendo il padre assorto: «No, sono solo», gli aveva risposto Camus. Lo splendido filosofo Merleau-Ponty, cinque anni dopo quella lacerazione, leggendo dei gulag, si era ricreduto. C' è da imparare qualcosa anche a rileggere oggi Actuelles III, che raccoglie gli articoli di Camus sull' Algeria. Ora, a cinquant' anni dalla morte, Catherine Camus pubblica un ritratto dal titolo Albert Camus, solitaire et solidaire (Michel Lafon, 208 pagine, 39,90 euro) tutto intessuto di foto e di documenti, a volte inediti, di quel suo padre «vertiginoso». Vediamo la casa dei coloni Camus, di primitiva semplicità; seri e composti, il maestro Germain e il professor Grenier, che lottano per convincere la nonna e il ragazzo a fargli continuare, con le borse, gli studi; e poi il sole, il teatro, le donne (Jean Grenier rimproverava a Camus «l' ossessione freudiana per i seni»), le battaglie del giornalismo, in maniche di camicia, ad Algeri e a Parigi; la Resistenza e Combat, foglio clandestino; gli anni del Lo straniero e La peste, col suo enorme successo, a milioni di copie; il lavoro da Gallimard, e gli intellettuali di Parigi; a Stoccolma per il Nobel, con lo smoking affittato a rue de Buci; la madre di straziante cartapecora; e poi Camus in vacanza nel Lubéron col grande poeta Char (Gallimard festeggia Camus con un suo inedito itinerario con Char attraverso il paese di quelle estati, foto di Henriette Grindat, 80 pagine, 22,50 euro; e, a seguire, la corrispondenza con Michel Gallimard, mentre dai Bouquins Laffont Jean Yves Guérin dirige le mille pagine di un Dictionnaire Camus ). Non lontano da Char, Camus finì per comperare una casa, nell' incantata Lourmarin, dove riposa. Sarkozy ha recentemente lanciato l' idea di traslarlo al Pantheon. I francesi vicini a Camus pensano che sia meglio lasciare le sue ossa a scaldarsi al sole di Provenza.

Repubblica 7.12.09
La religione senza Dio
di Ilvo Diamanti

È impossibile separare la religione dalla politica, in Italia. Tanto più dopo la fine della Dc, quando la Chiesa è tornata a rappresentare i valori, i principi, ma anche gli interessi dei cattolici in Italia, in modo autonomo e diretto.
Il fatto è che oggi altri soggetti, oltre alla Chiesa, svolgono lo stesso ruolo. Talora in competizione, perfino in disaccordo con essa. Come dimostra la pesante polemica lanciata, ieri, dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano. Ma gli esempi sono molti. Basta pensare alla proposta di inserire la croce nel tricolore. La bandiera nazionale. Avanzata (ancora) dalla Lega e apprezzata dal ministro Frattini, dopo il referendum che, in Svizzera, ha bloccato la costruzione dei minareti. D´altronde, la Lega si oppone alla costruzione delle moschee in molte realtà locali, insieme ad altri gruppi e partiti politici della destra (non solo) estrema. Xenofobia e islamofobia si mischiano e si richiamano reciprocamente, in nome delle radici cristiane dell´Europa e, soprattutto, dell´Italia. Come dimostrano le polemiche suscitate dalla decisione della Corte europea contro l´esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Criticata, in Italia, da gran parte delle forze politiche, di destra e di sinistra. Tutte impegnate a difendere l´identità cattolica. Anche a costo di entrare in contrasto con la Chiesa. Di assumere posizioni più clericali della Chiesa. Non nel caso del crocifisso, ovviamente, ma nelle altre vicende citate. Le moschee, i minareti. In generale: le politiche sull´immigrazione e i rapporti con gli stranieri. Su cui la Chiesa, attraverso le sue organizzazioni e i suoi media, ma anche attraverso la gerarchia (non solo il cardinale Tettamanzi, ma tutta), ha assunto posizioni molto lontane dalla Lega e dal centrodestra. Schierandosi a favore del diritto di culto e di fede religiosa, anche per gli islamici. E, dunque, in disaccordo con le guerre di religione lanciate contro i minareti e le moschee. E contro gli immigrati.
Da ciò il singolare (ricorrente) contrasto, fra la Chiesa e la Lega – spesso affiancata dagli alleati di centrodestra – nella rappresentanza dei valori religiosi e della "comunità cattolica". Il fatto è che il valore della religione va ben oltre i confini della fede e della comunità dei credenti. D´altronde (Demos, 2007), l´insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Italia, è approvato da 9 persone su 10. E dalla maggioranza degli stessi elettori di sinistra. Lo stesso per l´esposizione del crocifisso. Perché, come ha rammentato il sociologo Jean-Paul Willaime su Le Monde: «Tutte le società europee, per quanto secolarizzate, non sono mai uscite del tutto da una concezione territoriale di appartenenza religiosa; gli stessi immaginari nazionali non sono completamente neutri dal punto di vista religioso».
Così, anche in presenza di un declino sensibile della pratica rituale, ai partiti populisti diviene possibile riattivare – e sfruttare – le componenti religiose dell´identità nazionale e territoriale. Non solo: la religione viene usata come strumento di consenso partigiano ed elettorale. Lo ha fatto la Lega fin dagli anni Novanta, in polemica aperta e dura contro la Chiesa nazionale, nemica della secessione. Lo scontro è proseguito in seguito, sui temi della solidarietà sociale, soprattutto verso gli immigrati. Sulla questione dell´integrazione. La Lega, in altri termini, si è proposta essa stessa alla guida di una religione senza Chiesa – e senza Dio. I cui valori, simboli, luoghi vengono fatti rientrare dentro i confini dell´identità territoriale. Ne diventano riferimenti fondamentali. D´altronde, il ruolo della religione nella costruzione dell´immaginario locale e nello stesso mondo intorno a noi – per riprendere la suggestione di Willaime – è innegabile e molto visibile. Un santo al giorno, scandisce il calendario. Le festività. Gli atti che accompagnano la biografia di molte persone: dal battesimo al matrimonio fino al funerale. E ancora, ogni giorno: le ore battute dai campanili. I quali, insieme alle chiese e alle cattedrali, fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Il che spiega, in parte, la reazione sollevata dalla possibile costruzione di luoghi di culto di altre religioni. Le moschee. Figuriamoci i minareti. Capaci di produrre una rottura rispetto al passato, resa visibile – anzi: appariscente – da uno skyline urbano inedito. Il che genera incertezza e inquietudine, soprattutto quando, come in questa fase, le appartenenze territoriali – nazionali e locali – sono scosse violentemente dalla globalizzazione, ma anche dai mille muri sorti dopo la caduta del Muro. In Italia questo problema appare particolarmente rilevante, perché si tratta di un paese diviso, con un´identità nazionale debole e incompiuta. La Lega offre, al proposito, risposte semplici e rassicuranti a problemi complessi. Reinventa la tradizione per rispondere al mutamento. Recupera le radici cristiane di una società secolarizzata, le impianta sul territorio. Ricorre a simboli antichi per affrontare problemi nuovi. Lo spaesamento, l´inquietudine suscitata dai flussi migratori. Gli stranieri diventano, anzi, una risorsa importante per rafforzare l´appartenenza locale. Per chiarire chi siamo Noi attraverso il distacco dagli Altri.
Lo stesso crocifisso si trasforma in simbolo unificante, avulso dal suo significato. È la croce da associare al tricolore. Dove la croce è più importante del tricolore. Una bandiera che, secondo la Lega, evoca una nazione inesistente. Mentre la croce evoca lo "scontro fra civiltà". La crociata contro l´Islam, che ha l´epicentro nel Nord, dove l´immigrazione è più ampia. D´altra parte, su questi temi gli italiani e gli stessi cattolici si trovano spesso d´accordo con la Lega e con gli alleati di governo (a cui essa detta la linea). Molto meno con le posizioni solidali e tolleranti espresse dalla Chiesa (Demos per liMes, 2008).
La sfida della Lega è, dunque, insidiosa. Perché etnicizza la religione. Costruisce, al tempo stesso, una patria e un´identità. Ma anche una religione alternativa. In tempi segnati da una domanda di appartenenza e di senso acuta e diffusa.
Di fronte a questa sfida, le scomuniche e l´indignazione rischiano di risultare risposte insufficienti. Inadeguate. Per gli attori politici. (Tutti, non solo quelli di sinistra. Anche per gli alleati di centrodestra). Ma soprattutto per la Chiesa.

Corriere della Sera 7.12.09
Dialoghi L’ebraismo, l’esilio, il padre: Claudio Magris a confronto con l’autore di «Scintille» appena pubblicato da Feltrinelli
L'identità è sempre in costruzione
Conversazione di Claudio Magris con Gad Lerner

Pochissimi libri come Scintille. Una sto­ria di anime vagabonde di Gad Lerner (Feltrinelli) fanno capire la verità poeti­ca e umana di quella famosa parabola di Borges in cui si parla di un uomo che dipinge paesaggi — fiumi, boschi, monti, città — e alla fine si accorge di aver dipinto il proprio volto. Questo libro è qualcosa di molto diverso da tut­to ciò che ha reso Gad Lerner giustamente famo­so quale giornalista e grande conduttore televi­sivo; diverso anche dagli altri suoi libri, anche se con la sua opera e col suo lavoro precedente ha in comune la fulminea capacità sintetica, la simbiosi di lievità e profondità, di rispettosa pa­catezza e precisa, anche dura, presa di posizio­ne. È un libro essenziale e forte, con una sua asciutta, dissimulata poesia che segna il lettore.

Scintille è un viaggio, nel mondo e in se stes­so; in un mondo particolarissimo e insieme uni­versale, provinciale e sovranazionale come l’identità ebraica, legata alla peculiarità dello shtetl , del piccolo borgo ebraico, e sparsa, in vir­tù dell’esilio, in tutto il mondo, in una migrazio­ne — spesso dovuta alle persecuzioni — che rende casuale e talora sorprendente il luogo di nascita e in una continua trasformazione della nazionalità. Lo stesso Lerner è nato a Beirut; dunque uno dei maggiori giornalisti italiani po­trebbe essere libanese, se la storia del Medio Oriente negli anni della sua prima infanzia fos­se stata diversa, ma al contempo egli è anche— e potrebbe essere soltanto — un ebreo polacco come il padre originario di Boryslaw, la cittadi­na galiziana capitale del petrolio e poi teatro di un grande massacro nazista.

Uno degli affascinanti pregi del libro consi­ste pure nella concreta, intensa evidenza con cui mostra come si costruisca — e non solo nel caso di Israele — una nazionalità, senza che ciò infici l’autentico, essenziale sentimento di ap­partenenza a una patria. Come ogni viaggio che si rispetti, pure questo di Lerner parte da una mappa, soprattutto mentale, ma una mappa che durante il viaggio si aggiusta, si corregge, si trasforma, come un viso nel corso degli anni e delle esperienze che lo segnano.

È anche una storia di famiglia, alla ricerca di chiarire a se stesso la propria realtà, la propria identità multipla in cui confluiscono ebrei sefar­diti e askenaziti, impero ottomano e impero ab­sburgico, bellezza del paesaggio libanese e tor­pida malinconia di quello europeo orientale.

Il dramma della propria mappa personale, tracciata strappata e ricucita, s’intreccia a un drammatico capitolo di storia del mondo, in un libro che abbraccia esilio e Shoah, Italia, Israele, Mitteleuropa e Levante musulmano, «infelicità araba» e Gilgul, il vorticoso movimento delle anime vagabonde intorno alla separazione dei corpi secondo la mistica ebraica, l’antisemiti­smo e l’orrore di Sabra e Chatila.

«In questo viaggio», chiedo a Lerner, «ti sei ritrovato o perduto, hai disegnato meglio il tuo volto, come nella parabola di Borges, o l’hai re­so più indistinto? Insomma, le tue anime vagabonde si sono riunite o almeno avvicinate, o si sono ancor più disperse?» Lerner — Provo serenità, in­nanzitutto, un certo sollievo.

Tanto doveva, l’ebreo fortuna­to che io sono, alle anime fami­liari vagabonde la cui irrequie­tezza continua a vivere in me.

Accetterò dunque, malvolentieri, la verità della parabola di Borges. Sopporterò l’idea di aver di­pinto il mio volto sgradevole: non per vezzo au­tobiografico, ma perché quelle anime familiari meritavano il risarcimento della consapevolez­za. La paura di affrontare il dolore, ma anche un imperdonabile senso di vergogna, avevano ostruito il canale di trasmissione naturale del racconto, dai nonni ai genitori a me e i miei fra­telli. La scrittura, infine, permette che la mia buona sorte s’inchini davanti al travaglio d’infe­licità che l’ha generata. Sottopongo il lettore a un girovagare continuo, e tu noti che in Scintil­le

il racconto della nazionalità risulta sempre provvisorio, in costruzione. Ma questo libro avrei potuto scriverlo solo in italiano. Credo sia un’esperienza sempre più frequente nel mondo contemporaneo: è grazie alla mia nuova cittadi­nanza che posso riconoscere i legami con le al­tre patrie che mi porto dentro.

Magris — Questo tuo viaggio ha una sua pe­culiarissima, multipla fisionomia; è un viaggio nella diaspora e nel ritorno alla Terra Promessa, nel destino ebraico e in quello arabo e soprattut­to nel destino odierno di una crescente mesco­lanza, che ora esalta ora intimorisce. Come ve­di, con la tua esperienza, il futuro di questo in­contro e di queste mescolanze nel nostro Pae­se? Vedi più integrazione o più rifiuto?

Lerner — Frequentavo una scuola elementa­re di Milano nel 1961, quando si celebrava il cen­tenario dell’Unità d’Italia. Sarò grato per sem­pre alla mia maestra, Ada Fiecchi, per come sep­pe farmi innamorare degli eroi del Risorgimen­to nazionale, sebbene fossi un nuovo arrivato. Perché non dovrebbe ripetersi tale esperienza d’inclusione, pur nelle mutate circostanze? Tan­to più che la storia non si ferma. I miei nonni nacquero sudditi di imperi sovranazionali: i nonni materni nella Palestina ottomana su cui regnava il sultano di Istanbul; i nonni paterni nella Galizia asburgica, governata da Vienna. Di mezzo ci sta il nostro secolo, il secolo dei nazio­nalismi. Ma i nostri nipoti difficilmente vivran­no negli Stati nazionali scricchiolanti così come oggi li conosciamo.

Magris — Mentre tutta la storia di famiglia s’intreccia epicamente e nonostante tutto sere­namente alle vicende storiche e collettive, c’è nel tuo libro una lacerazione, una ferita che bru­cia: il rapporto aspro, duro con tuo padre, narra­to con una dolorosa ma impietosa sincerità che può turbare. Ne hai sofferto, te ne senti anche un po’ colpevole, credi di aver riscattato quella frattura narrandola? È un po’ il dramma di ogni autentica letteratura, perché la parola esatta, di­ceva Thomas Mann, ferisce sempre. In ogni ca­so, non si potrebbe mai parlare con altrettanta sincerità dei propri figli… Lerner — Farò tesoro di questa citazione di Thomas Mann per cercare consolazione e conci­liazione alle ferite di mio padre — ma non im­magini quanto di mia madre! — cui il mio libro strappa i cerotti. Dovevo risparmiargliela, que­sta impietosa sincerità? Quanto me lo sono chie­sto, sollecitato da amici che ritenevano eccessi­va l’indiscrezione cui sottoponevo i miei vecchi. Ho attenuato, smussato. Ma la molla che mi ha sospinto a viaggiare, e a spiegarmi per via stori­ca le incomprensioni familiari, il venir meno della confidenza, non poteva venire nascosta. Cerco la pace, con mio padre e mia madre. Scin­tille è un protendersi verso di loro. E sarà pure vero che dei genitori non potrebbero parlare con altrettanta sincerità dei loro figli. Ma quanti ne vedo soffrire imprigionati nella retorica dei buoni sentimenti — cosa vuol dire volersi be­ne? — accampati come giustificazione delle reti­cenze, elusioni, censure da cui nessuno trarrà giovamento.

Magris — Per tuo padre — scrivi in una nota fulminea — «la propria esperienza era divenuta inenarrabile». A parte il suo caso, si tratta di un motivo fondamentale, particolarmente oggi, della nostra vita e del suo racconto, ossia della letteratura. È sempre più difficile distinguere le proprie esperienze da quelle degli altri, la realtà dalla sua riproduzione fittizia o dalla sua paro­dia; ci si sente un po’ dei cloni. L’ebraismo da un lato ne è colpito in modo particolare — la Shoah non è narrabile, chi ha visto la Gorgone non può dirlo — ma d’altro canto ha opposto un’accanita resistenza alla spersonalizzazione e ha difeso la peculiarità dell’esperienza indivi­duale. Tu senti narrabile o inenarrabile la tua esperienza?

Lerner — Attraversare inconsapevolmente la storia, anche quando essa ti s’impone, com’è successo alla mia famiglia, col peso di eventi straordinari, resta un destino molto comune. Ma ti rendi conto? Io ero un ventenne che legge­va i tuoi libri su Joseph Roth e il mondo yiddish ignorandone il nesso con la vicenda di mio pa­dre, con il fastidio suscitato in famiglia dalla nonna sopravvissuta, con i nostri luoghi galizia­ni di cui nessuno ci parlava. Inenarrabili a causa del dolore, per l’assenza di personalità adegua­te a comprenderli? Certo che a noialtri privile­giati il narrare riesce molto più semplice. E se non altro, lo dobbiamo ai nostri figli.
Un uomo si propone di disegnare il mondo. Prima di morire, scopre che ha disegnato l’immagine del suo volto