venerdì 11 dicembre 2009

Repubblica 10.12.09
La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa
di Vito Mancuso

SI APRE oggi a Roma e durerà finoa sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: "Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto". Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi. Condividendo l' urgenza dell' argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione. 1. La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l' ateismo materialista. Tale era l' impresa della modernità, caratterizzata dal porre l' assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall' ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell' ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio. 2. La questione epocale è piuttosto un' altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano. SEGUE La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane. Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola. La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un' epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine. Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana. 3. La teologia può tornare a far pensare gli uominia Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita. Ha scritto Nietzsche: "Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza". È vero. Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale. Vi sono stati pensatori che nel ' 900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin. Si tratta di continuare sulla loro strada. Oggi la coscienza euIl cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola ropea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare. 4. In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all' interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l' ipocrisia. Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: "Nell' alfabeto della fede al posto d' onore è l' affermazione: In principio era il Logos. La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l' eterna Ragione". Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall' esercizio della ragione all' interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali. Simone Weil rilevò il paradosso: "Nel cristianesimo, sin dall' inizio o quasi, c' è un disagio dell' intelligenza". Tale malaise de l' intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ' 900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari. E oggi le cose non sono migliorate, anzi. 5. L' impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale. Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magisteroteologia è strettissimo. A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l' aria pulita della libertà. Non sto auspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso. Ciò che auspico è l' introduzione di una concezione dinamicoevolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina). Una teologia all' altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa. L' obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina. 6. Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell' equazione "verità uguale dottrina" per porre invece "verità maggiore dottrina". È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere. In questo orizzonte l' esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell' ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini). Ne viene che un' affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona. Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica "ortodosso-eterodosso", al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica "vero-falso", e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia. Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora. 7. Concretizzando. Non si può continuare insegnare che la morteè stata introdotta dal peccato dell' uomo, mentre oggi si sa che la morte c' è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell' uomo. Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull' origine dell' anima, sull' eternità dell' inferno, sulla risurrezione della carne. Occorre inoltre prendere atto dell' insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio. Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card. Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di "dissociare la fede da una cosmologia millenaria", devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di L' attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.È necessario un immenso lavoro perché l' occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà. Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto. Ma l' attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l' urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza?

Repubblica 11.12.09
Dove ci porta lo stato d’eccezione
di Ezio Mauro

Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d´eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.
Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l´intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del «partito dei giudici della sinistra» che avrebbe «scatenato la caccia» contro il premier.
Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa «forme e limiti» per l´esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere «profondo rammarico e preoccupazione» per il «violento attacco» del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L´avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.
Da oggi siamo un Paese in cui il capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane
C´è un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente
Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.
Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell´avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell´ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: «Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?».
La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d´eccezione. Carl Schmitt diceva che «è sovrano chi decide nello stato d´eccezione», perché invece di essere garante dell´ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione («abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale»), rende l´istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l´unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.
Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d´eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l´assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l´autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.
Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l´ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l´eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell´attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l´unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell´interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell´esclusivo interesse del singolo. L´eccezione, appunto.
Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l´abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all´accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un´ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell´uomo più potente d´Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?
L´eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.
Per questo, com´è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d´eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell´Italia di oggi.

Corriere della Sera 11.12.09
Veleni e rischi
di Massimo Franco

La chiave per capi­re lo sfogo di Sil­vio Berlusconi da­vanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certa­mente l’esasperazione. Troppi veleni e troppe ten­sioni, anche nel centrode­stra; e troppa incertezza. Al­trimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovrani­tà è passata dal Parlamen­to al partito dei giudici». Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella cate­goria delle stranezze italia­ne che in quella degli attac­chi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: an­che se la scelta di parlare ad un congresso interna­zionale accentua l’imbaraz­zo.

È come se da ieri le ano­malie del Belpaese fossero state offerte al giudizio del­l’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere poli­tico; fra i processi e l’inve­stitura popolare di un capo di governo. Il sospetto, pe­rò, è che il problema sia as­sai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflit­to istituzionale in una fase di crisi economica e finan­ziaria generalizzata sia ac­colta come un tema stacca­to dalla realtà. I contraccol­pi interni, però, ci sono: so­prattutto per il nuovo attac­co alla Consulta.

Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sem­bra diventato il suo invo­lontario picconatore. Eppu­re, è convinto di non esse­re lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Pa­ese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere sen­za legittimazione popola­re; e senza diritto di repli­ca. Ma in una lotta che ap­pare sempre più di soprav­vivenza, i rischi si moltipli­cano. Per questo il presi­dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quel­lo della Camera, Gianfran­co Fini, non potevano tace­re; e infatti la cosa più ru­morosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani.

La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico. Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli di­mostra che la sua offensi­va non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rom­pere con il Quirinale, seb­bene le critiche del Pdl al presidente della Repubbli­ca segnalino un’ostilità strisciante. La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittuali­tà così accentuata fa venire i brividi. Promette un logo­ramento ed una paralisi de­cisionale dei quali paghe­rebbe il prezzo il Paese, ol­tre che Berlusconi.

Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni. Ma se davvero ne è convinto, non si spie­ga il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impres­sione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolez­za che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giu­stificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti posso­no rafforzare gli avversari.

Repubblica 11.12.09
Bertone, elogio a Togliatti "Quasi un padre della Chiesa"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «Togliatti? Parlò alla Costituente come un padre della Chiesa». «La Lega? Presidia il territorio come le parrocchie di un tempo». I due lusinghieri - e per molti versi sorprendenti - giudizi sono del cardinale segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone, formulati - ieri sera all´università cattolica Lumsa - a un convegno su don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare, presenti l´ex premier Massimo D´Alema, Roberto Cota, capogruppo dei deputati leghisti, e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.
Bertone, parlando dello storico segretario del Pci, ricorda «quel suo splendido discorso» sul ruolo dei cattolici tenuto all´Assemblea Costituente per annunciare il sì del suo partito sull´articolo 7 della Costituzione. «Un discorso - puntualizza il segretario di Stato vaticano - quasi come un padre della Chiesa». Lodi anche per un altro leader comunista, Antonio Gramsci, del quale rammenta che «nel 1921 sulla revisione dei Patti Lateranensi scrisse su Ordine Nuovo che "saremo noi a risolvere la questione romana". In effetti, in seguito sono stati poi i socialisti a fare la revisione e Gramsci è stato profeta». Senza tuttavia dimenticare il segretario del Psi Bettino Craxi, che - ricorda Bertone - da presidente del Consiglio firmò nel 1984 la revisione del Concordato.
Apprezzamenti anche alla Lega Nord, malgrado i recenti attacchi subiti dal cardinale di Milano Tettamanzi da parte del Carroccio. Bertone riconosce che oggi «la Lega presidia il territorio grazie a un grande radicamento come una volta erano le parrocchie. Occorrerebbe recuperarlo». D´Alema ricambia la «cortesia» riconoscendo il ruolo della Chiesa, specificando, però, che «abbiamo bisogno di cattolici laici che rispettino la laicità e siano fonte di valore per la politica, non di atei devoti che mettano la politica al servizio della tradizione».

Repubblica 11.12.09
8 per mille, a chi vanno i soldi dello Stato
risponde Corrado Augias

Caro Augias, sull'8 per mille sono laico convinto e la mia scelta è sempre ricaduta sullo Stato, con una punta di orgoglio, ammetto. Scopro adesso che con decreto del presidente del Consiglio buona parte dei soldi dell'8 per mille quest'anno andranno a finanziare restauri e interventi in favore di immobili ecclesiastici, compresi quelli danneggiati dal terremoto in Abruzzo. Se intendo destinare la mia quota alla Chiesa Cattolica e alle sue meritevoli iniziative lo faccio mettendo una croce sull'apposita casella, è intuitivo. Se non lo faccio è evidente che intendo destinare i miei soldi ad altri progetti, spero altrettanto meritevoli. Mi pare addirittura ovvio nella sua semplicità. Invece no, c'è chi della mia volontà si infischia, devotamente. Da tutto ciò traggo una conclusione: chi rappresenta questo nostro povero Stato non perde occasione di colpire alle spalle. La prossima volta che dovrò tracciare una croce eviterò di piegarmi e mi guarderò bene le spalle. Magari farò felice qualche simpatico Valdese.
Luca Olivieri lu.olivieri@libero.it

A inizio novembre la Repubblica (Carmelo Lopapa) rendeva nota la notizia. «L'atto del governo n. 121» relativo all'8 per mille confermava che i soldi vanno sì allo Stato ma sono nella discrezionalità del capo del Governo, per il loro utilizzo. Il "parere parlamentare" è delle commissioni Bilancio. La novità di quest'anno è che gran parte del ricavato sarà destinato a «interventi per il sisma in Abruzzo» con netta preponderanza di parrocchie e monasteri. Il presidente della commissione parlamentare competente, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha obiettato: «Le richieste di finanziamento relative all'Abruzzo risultano presentate in data antecedente al sisma ed appare quindi opportuna una verifica e un coordinamento con gli interventi previsti dopo il sisma». C'è insomma il robusto sospetto di un altro pasticcio riparatorio nei confronti della Chiesa cattolica confermato dal fatto che la quasi totalità del restante denaro è destinata a lavori di restauro per diocesi, chiese, parrocchie, monasteri. Sono previsti anche interventi per la Pontificia Università Gregoriana e la Compagnia di Gesù sui quali lo stesso Giorgetti ha obiettato che la priorità doveva essere data a «progetti presentati da enti territoriali», non ecclesiastici. Più che un Atto di Governo sembra insomma un Atto di Contrizione, costoso per il contribuente tanto più che questi denari vanno ad aggiungersi alle cospicue sovvenzioni di cui la Chiesa già gode. Gli italiani che hanno specificato a chi dare i soldi dell'8 per mille sono circa 17 milioni. Di questi, l'89 per cento indica la Chiesa cattolica un po' per fede molto come frutto di una campagna pubblicitaria assai efficace che i vescovi affidano a una delle migliori (e più care) società di promozione.

Corriere della Sera 11.12.09
Religione. Storici e teologi a confronto al convegno promosso dalla Cei. Domani le conclusioni
La grammatica è la prova di Dio
Il filosofo Robert Spaemann arruola (e ribalta) Nietzsche
di Maria Antonietta Calabrò

Si vuole dimostrare l’esistenza di Dio nelle condizioni della vita moderna, perché l’Illuminismo, alla fine, è costretto a distruggere se stesso

«Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama 'Dio' è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere», una «diceria immortale». «Ma abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dun­que a ciò che noi pensiamo quando diciamo 'Dio', corrisponda qualcosa nella realtà?». Ro­bert Spaemann, il maggior filosofo tedesco vi­vente (professore emerito a Heidelberg e Mona­co, visiting professor a Parigi, Rio de Janeiro, Lovanio e all’Accademia delle scienze sociali di Pechino, autore di opere tradotte in 14 lingue) torna sul nucleo centrale della sua riflessione. E blocca l’attenzione dei 1.500 partecipanti riuniti a Roma per l’evento internazionale «Dio oggi», organizzato dal Progetto culturale della Confe­renza episcopale. Il filosofo affronta quello che ha definito «il problema della mistificazione moderna dell’intramontabile questione su Dio» («Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne»). La parola Täuschung indica una torsione, una deformazione prospettica che restituisce un’immagine ingannevole del problema.

Spaemann spiega però all’auditorio che c’è la possibilità di dimostrare Dio «nelle condizio­ni della vita moderna». Cioè a partire da un pen­siero inteso come dominio, come autoafferma­zione e non più come il mostrarsi di ciò che è. Una «prova» dell’esistenza di Dio, come Spae­mann ha detto, che sia «Nietzsche-resistente», perché «l’Illuminismo alla fine è costretto a di­struggere se stesso». E di conseguenza non so­lo Dio, ma anche l’uomo: «Il risultato è il nichili­smo ».

Concetti cari a Benedetto XVI, che li ha ribadi­ti nel messaggio letto in apertura del convegno: «Quando Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, l’umanità perde l’orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stes­sa ». «Ce lo insegnano — afferma il Papa — le esperienze del passato, anche non lontano». È per questo che, secondo il cardinale Camillo Ruini, motore dell’iniziativa «Dio oggi», «ren­dere testimonianza al vero Dio e al tempo stes­so alla verità dell’uomo è il compito forse più esaltante che ci sia dato di adempiere». Da Cartesio in poi l'intelligibilità dell’essere (il fatto che l’uomo comprende la realtà) non è più garanzia del fatto che ci sia Dio: la prova della sua esistenza, perciò, non parte più dal presupposto della verità della conoscenza. Compiuta la «torsione» della modernità, secon­do Spaemann, l’argomento più convincente per dimostrare l’esistenza di Dio non è allora quello che guadagna Dio come causa prima, motore immobile, bensì quello che — con un percorso inverso a quello ontologico — giunge a Dio come al garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la pro­pria identità. Dio è il garante di una realtà che sola permette a quell’«animale abile» che è og­gi l’uomo (abile a manipolare tutta la propria vita) l'intelligibilità dell’essere e della verità.

Proprio per i motivi largamente esposti nella relazione di Spaemann — svolta interamente in italiano, per cui è stato ringraziato da Andrea Riccardi — chi più di altri ha contribuito a pre­parare il terreno per questa nuova prova del­l’esistenza di Dio è paradossalmente Friedrich Nietzsche il teorico della «morte di Dio». Egli avrebbe infatti mostrato nel modo più radicale l’intimo nesso che collega l’idea di Dio con quel­la di verità. La negazione di Dio comporta la ne­gazione della verità, comporta che l’uomo si li­miti solo a conoscere i propri stati d’animo sog­gettivi. Cosa che però all’uomo stesso è struttu­ralmente quasi impossibile. A questo proposito Spaemann cita un’affer­mazione del pensatore che si era dichiarato ateo «per istinto». «Io temo — scrive Nietzsche — che non ci liberere­mo di Dio finché conti­nuiamo a credere alla grammatica». E Spae­mann commenta: «Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla gramma­tica e anche Nietzsche ha potuto scrivere quel­lo che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica quello che ha voluto dire». La grammatica però oggi viene attaccata dagli stessi strumenti di co­municazione, soprattut­to la tv, secondo il criti­co Aldo Grasso: «Osser­vando il creato si ha l’impressione che Dio ami la complessità e in­vece la tv ama la sempli­cità, fino a confonderla con la banalità». La «diceria immorta­le » ha profonde conse­guenze vitali ed esistenziali «perché — ha affer­mato Spaemann — la traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uo­mo, siamo noi stessi». Implicazioni immediate sul terreno delle tecnoscienze e della bioetica, di cui hanno discusso in una tavola rotonda, vo­luta al termine della prima giornata, Aldo Schia­vone, il cardinale Carlo Caffarra, Enrico Berti e Giuliano Ferrara. Ma conseguenze soprattutto sul senso della vita. Le Confessioni di Sant’Ago­stino hanno chiuso l’intervento del presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicità della mia vita. Ti cer­cherò perché viva l’anima mia».

Repubblica 11.12.09
Quella sera in piazza Fontana
Così entrammo negli anni di piombo
di Giorgio Bocca

Finirono la breve pace sociale e l´unione nata con la Resistenza

Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell´Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza.
Ma il mio studio stava nell´interno e non avevo sentito il fragore dell´esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: «Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale».
C´erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c´era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo.
Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l´arte dell´understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l´umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell´eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall´arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.
Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l´unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell´impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l´ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.
La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l´inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l´impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell´impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina.
Cosa c´era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l´ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l´ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell´utopia socialista, delle richieste dell´impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie.
Di certo c´è solo che quella febbre c´era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L´unica spiegazione non spiegazione, l´unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l´ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: «Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C´è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica». Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: «Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l´uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati».
Ma c´era un´utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c´era l´utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, «spostare a destra il governo della repubblica italiana». Anche nell´estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l´avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l´opposizione operaia era debole o inesistente.

Repubblica 11.12.09
La strage che cambiò la nostra storia
di Guido Crainz

Sono passati 40 anni dall´attentato terroristico che fece 17 morti: l´esplosione ha segnato le vicende del Paese
Quattro giorni dopo in Tv Bruno Vespa annunciò che il colpevole era Pietro Valpreda
La verità ufficiale si sgretola nel 1972 con le indagini di alcuni magistrati coraggiosi

Quarant´anni dopo, quel 12 dicembre del 1969 ci costringe ancora a fare i conti con una lacerazione, con uno stravolgimento. Conclude gli anni del miracolo economico e della speranza solare e dà avvio al clima tragico degli anni Settanta, segnati dalla "strategia della tensione" e poi dal terrorismo di sinistra. "Rivela" parti oscure dello Stato, innesca derive, incupisce le forme e le modalità della politica.
Esplode a Milano la bomba più devastante di quel giorno (altri ordigni scoppiano a Roma, senza effetti mortali). Alla Banca dell´Agricoltura muoiono diciassette persone. Un sacerdote di Cinisello, scampato per pochissimo all´esplosione, porta i primi aiuti e prega «per quei poveri brandelli di sangue». «Sono sotto choc – scrive Pasolini - è giunto fino a Patmos sentore / di ciò che annusano i cappellani / i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta / la mia età fra pochi anni». Ed evoca poi una per una, in versi dolenti e prolungati, quelle vittime anziane e innocenti.
Già in sé spaventosa, la strage ingigantisce per lo scenario in cui si inserisce e per i comportamenti di uomini e settori dello Stato e di larghissima parte dei media. Erano stati un pallido annuncio gli attentati compiuti nella primavera e nell´estate dalla cellula neofascista di Freda e Ventura, per i quali erano stati incarcerati invece alcuni anarchici. Vengono poi gli intensi conflitti sindacali dell´autunno, inaspriti da una lunga compressione di diritti e dall´intransigenza padronale. Quegli scioperi vedono inedite forme di democrazia dal basso, portano a conquiste importanti e aprono la via allo Statuto dei lavoratori, un´affermazione di civiltà. La tensione giunge al massimo nel tragico incidente milanese del 19 novembre in cui perde la vita l´agente di polizia Antonio Annarumma, figlio di braccianti: prima che i fatti siano accertati, il Presidente della Repubblica Saragat parla, poco responsabilmente, di "barbaro assassinio" e invita a «mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita». La maturità e la forza sindacale però prevalgono e i contratti iniziano a essere firmati: la strage del 12 dicembre irrompe in questo quadro e lo sconvolge. Ci comunicò – ha scritto Adriano Sofri – «poche e terribili notizie: che si era disposti a distruggere la vita delle persone, anche delle persone inermi e innocenti». Sono di rara intensità le immagini dei funerali delle vittime proposte da uno straordinario servizio di "Tv7". Suonano vere le parole commosse e ferme di cittadini consapevoli, e i volti stessi di quella piazza Duomo gremita dicono al paese che il terrore non ha vinto: «la morte di tanta povera gente… a chi giova?»; «non bisogna mettere insieme questa strage orrenda con il presunto disordine degli scioperi»; «una strage contro il mondo del lavoro…»; «di fronte a una cosa così mostruosa ci siamo ritrovati».
Sono le uniche parole di verità che gli italiani sentono in televisione. Al telegiornale del 16 dicembre Bruno Vespa annuncia che l´anarchico Pietro Valpreda è colpevole, responsabile della strage. Poche ore prima, dopo un fermo illegalmente protratto, era morto cadendo dal quarto piano della questura milanese un altro anarchico, il ferroviere Pino Pinelli, persona buona e giusta: il questore Guida dichiarava che il suicidio era un´ammissione di colpevolezza. Menzogne, tutte, accompagnate da gravi depistaggi delle indagini che alimentano la campagna contro la sinistra («eravamo perduti e sperduti - ha ricordato un magistrato profondamente democratico, Marco Ramat - freddo di fuori e di dentro»). A rompere la compattezza di quel plumbeo clima esce poco dopo un libro dal titolo sconvolgente, La strage di stato, scritto da "un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare": richiama l´attenzione sulla pista neofascista e sulle complicità che essa ha trovato. Quella ricostruzione ha presto molte conferme ma la "verità ufficiale" si sgretola solo a partire dal 1972, con le indagini sulla "pista nera" di giudici coraggiosi (Stiz, D´Ambrosio, Alessandrini: destinato quest´ultimo ad essere ignobilmente assassinato anni dopo dal terrorismo di sinistra).
Nei mesi successivi alla strage si era diffusa l´allarmata sensazione di un restringersi della democrazia, e la fondata denuncia di menzogne e depistaggi – che vede in prima fila giornalisti civilmente sensibili, a partire da Camilla Cederna - ha un impatto enorme. «Per la prima volta - ha scritto Giorgio Bocca - gli italiani avevano l´impressione di esser stati ingannati, traditi dal loro Stato». L´impressione tende a diventare incubo con il procedere della "strategia della tensione", iniziata allora e volta a favorire una svolta autoritaria e di destra: è scandita da crescenti aggressioni squadristiche, da una gestione sempre più repressiva dell´ordine pubblico e da "trame nere" e attentati che hanno culmine nel 1974. Ancora Bocca ha colto però anche un effetto paradossale della preziosa battaglia di verità su Piazza Fontana. Aver avuto ragione, ha scritto, contribuì a togliere lucidità alla sinistra estrema, a «imprigionarla nei suoi sospetti e nelle sue ire», a ingigantirne la sfiducia nella democrazia reale del paese: consolidò cioè letture ideologiche e deformate della realtà, con effetti talora tragici. Senza quel 12 dicembre non capiremmo appieno neppure l´incubazione degli anni di piombo.
Altre questioni ancora pose però quel dramma nazionale. Nel giornalismo ad esempio, in reazione al dominante conformismo delle prime ore, si innescarono fermenti innovativi e fecondi, mossi dall´ansia di un´informazione reale e non subalterna. Non furono superficiali neppure le conseguenze negative di comportamenti illegittimi e gravi di uomini e apparati dello Stato: 36 anni dopo quel 12 dicembre la giustizia italiana ha decretato in via definitiva e abnorme che di quella strage nessuno è colpevole. La democrazia ha tenuto, anche di fronte a prove terribili, ma non ha fugato le ombre: ombre che hanno avvelenato un intero decennio. E la morte di Pino Pinelli addolora e ferisce ancora.

Repubblica 11.12.09
Ru486, Sacconi minaccia "Solo ricoveri in ospedale o interverrà il governo"
di Michele Bocci

Ma sull´applicazione della norma le Regioni si dividono
Resta accesa la polemica politica Dorina Bianchi (ex Pd ora Udc): "Non è un aborto soft"

ROMA - Il governo tuona contro le Regioni: la Ru486 deve essere somministrata solo in ricovero ordinario. Dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera Aifa che ammette il farmaco nel nostro sistema sanitario, il ministro al Welfare Sacconi avverte: «Prenderemo iniziative contro chi non rispetterà la 194, il ricovero dovrà essere effettivo». Il timore è quello che molte donne firmino per tornare a casa, visto che nessuno può essere obbligato a restare in ospedale contro la sua volontà salvo in casi particolari. Nella delibera dell´Aifa, pubblicata l´altroieri, si parla di ricovero «dal momento dell´assunzione del farmaco fino alla verifica dell´esplulsione del prodotto del concepimento». Secondo qualcuno la frase lascia aperta anche la possibilità del day-hospital, e infatti l´Agenzia è stata duramente criticata dallo stesso Sacconi, oltre che dal centrodestra e dal Vaticano, per non essere stata più esplicita. L´esecutivo potrebbe chiedere una riunione dello Stato-Regioni per disegnare le linee guida di somministrazione ma per ora non lo fa.
Dalla ditta Exelgyne, che produce la Ru486, spiegano che a febbraio saranno pronti per la distribuzione. Che succederà? In Italia ci sono Regioni che somministrano il farmaco ormai da 4 anni, acquistandolo all´estero caso per caso. Alcune prevedono il ricovero ordinario. Come la Toscana, dove non cambierà nulla. «A suo tempo - spiega l´assessore alla salute Enrico Rossi - prevedemmo il ricovero dopo aver sentito il consiglio sanitario regionale. Credo comunque che in questioni come queste resti fondamentale il rapporto medico-paziente». È un fatto che in Toscana la stragrande maggioranza delle donne fino ad oggi abbiano firmato dopo la somministrazione della pillola per tornare a casa, ripresentandosi il giorno dell´espulsione provocata dalle prostaglandine. Anche in Emilia Romagna il farmaco viene importato, ma si prevede il day hospital. «Andremo avanti, quello che stiamo facendo è perfettamente in linea con quanto previsto dall´Aifa - dice l´assessore alla salute Giovanni Bissoni - Le linee guida le hanno fatte i nostri professionisti». In Veneto la pillola fino ad ora non veniva somministrata. L´assessore Sandro Sandri annuncia che la Regione «si atterrà strettamente a quanto suggerito dal ministro Sacconi. Organizzeremo le nostre strutture per dare la pillola in regime di ricovero ordinario».
Ieri la senatrice Donatella Poretti (Radicali-Pd) ha ricordato come «Sacconi ha scritto nella relazione al Parlamento sulla 194 che, in alcuni casi, la pillola è stata data in regime di day hospital. Se pensa che una cosa del genere violi la legge poteva andare in procura». Il presidente della Pontificia accademia della Vita, monsignor Rino Fisichella, ha detto che «pensare che la Ru486 non sia un vero aborto è un inganno». Secondo Sacconi è «inequivoco il fatto che il processo farmacologico debba svolgersi sotto controllo medico ospedaliero». Il ministro annuncia controlli, così come il senatore Pdl Maurizio Gasparri. Dorina Bianchi, senatrice da poco passata dal Pd all´Udc, chiarisce: «Mi auguro che l´aborto farmacologico non venga considerato una procedura soft e indolore per la donna». Livia Turco del Pd parla della «fine di un tormentone. Ci potevano essere risparmiati mesi di scontri».

Corriere della Sera 11.12.09
Domani in piazza giovani da tutta Europa. La polizia: «Intenzioni pacifiche»
I no global contro Copenaghen «Il capitalismo si finge verde»
di Mario Porqueddu

Negoziato lento, rigidi i Paesi in via di sviluppo

COPENAGHEN — L’ennesi­ma prova dell’importanza di questi negoziati, se mai ce ne fosse stato bisogno, arriva dai contestatori. E non si tratta dei climascettici, né di produttori di petrolio infastiditi dall’apolo­gia delle energie rinnovabili, ma del popolo che da dieci an­ni, Seattle ’99, assedia i grandi della Terra quando si riunisco­no sotto le insegne del G8; gli aspiranti violatori di tante zone rosse che nel tempo hanno pro­tetto delegati dell’Organizzazio­ne mondiale del commercio o del Fondo monetario interna­zionale. Domani saranno qui, a Copenaghen, perché si sono convinti anche loro che quassù si decidano i destini dell’econo­mia mondiale. Per la precisio­ne: «L’intera retorica della crisi climatica e della crisi finanzia­ria — scrivono — è una cinica manovra degli specialisti mani­polatori di Stato per negare la crisi omnicomprensiva della co­siddetta civilizzazione». E anco­ra: «Le reali intenzioni di Cop15 sono di restaurare la le­gittimità del capitalismo globa­le inaugurando l’era del capitali­smo verde». Il manifesto che in­vita a unirsi al blocco più duro nel corteo di domani è firmato Never Trust a Cop , gioco di pa­role che può voler dire «non fi­darti mai di una Cop» oppure di «un poliziotto».

In piazza sono attese 50 mila persone, in arrivo da tutta Euro­pa. La polizia danese ostenta si­curezza. «Sappiamo che la mag­gior parte vuole manifestare pa­cificamente — spiega un porta­voce — e vogliamo che tutti possano esercitare questo dirit­to democratico. Ma non permet­teremo di entrare nel luogo do­ve si svolgono i negoziati. Sono due anni e mezzo che ci prepa­riamo a questo corteo». Avran­no, per la prima volta, un can­none ad acqua. «Ma serve per eventuali incendi, non per le persone» assicurano. Mercole­dì notte, in un palazzo di pro­prietà del Comune destinato a dormitorio per attivisti, le forze dell’ordine hanno sequestrato bombe di vernice e scudi. Sem­pre senza scomporsi: «Pensia­mo servissero per azioni di di­sobbedienza civile». Domani, però, la Danimarca potrebbe mostrare un volto meno affabi­le. Alla fine di novembre il par­lamento ha approvato il passag­gio da 6 a 12 ore del fermo di polizia preventivo, basato sul sospetto che qualcuno possa creare problemi, e ha previsto fino a 40 giorni di cella per chi passasse dalla potenza all’atto.

Il negoziato, intanto, avanza piano. Ieri è stata resa di pubbli­co dominio una bozza di accor­do che unisce le grandi econo­mie in crescita e molti Paesi in via di sviluppo, firmata da Ci­na, India, Brasile, Sudafrica e Sudan (presidente del G77). Una decina di fogli, sotto la dici­tura «Accordo di Copenaghen», per insistere sulla strada segna­ta dal Protocollo di Kyoto, ag­giornando i numeri, magari al rialzo per quelli dei tagli alle emissioni del mondo occidenta­le, ma senza eliminare la fonda­mentale distinzione tra inquina­tori storici (noi) e Paesi che ne­cessitano di risorse per comple­tare la corsa verso uno svilup­po compiuto (loro). È una carta già vecchia, scritta il 30 novem­bre a Pechino, assicura Le Mon­de che per primo l’ha pubblica­ta. Ma qui serve per segnare una posizione, rispondere al «testo danese» dell’altro giorno che vincolava anche i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emis­sioni in tempi non lontani, in­somma trattare. I temi sul tavo­lo sono molti, su tutti la necessi­tà di impegnare gli Usa, che nel Protocollo non entreranno e quindi vanno coinvolti nel se­condo ramo del negoziato, le Azioni di cooperazione a lungo termine. Altro scoglio: i finan­ziamenti ai Paesi emergenti. Chi deve pagare, quanto e dove prendere i soldi? Ieri George So­ros ha detto la sua, proponen­do di usare parte dei 283 miliar­di di dollari dei cosiddetti «di­ritti speciali di prelievo» del Fmi. Chissà che ne pensano gli anticapitalisti.

Corriere della Sera 11.12.09
Mubarak smentisce. «Combattiamo solo il contrabbando»
L’Egitto costruisce un muro d’acciaio per isolare Gaza
Barriera anti tunnel fino a 30 metri sottoterra
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Più du­ro d'un muro. Più profondo d'un tunnel. Più invisibile d'un contrabbandiere. Gli egi­ziani lo starebbero costruen­do da diciassette giorni. In se­greto. «Di giorno scavano, di notte piazzano le putrelle». Un gigantesco scudo d'accia­io rinforzato, a prova di bom­be e di fiamma. Impenetrabi­le. Che chiuderà il confine di Rafah per 9-10 km. E arriverà fino a 30 metri sottoterra. E servirà a bloccare le armi che passano per centinaia di tun­nel. E chiuderà Gaza per sem­pre, e dappertutto. Il governo del Cairo avrebbe dato l'ok nei mesi scorsi, gli americani non avrebbero detto no, gl' israeliani avrebbero detto che era ora. Chi abita sull'orlo della Striscia, chiede l'anoni­mato e conferma: «Sono ve­nuti operai, camion, ruspe. Quattro chilometri li hanno già completati. Tengono tut­to nascosto, per paura di rea­zioni. Ma scavano molto. E co­prono dove lavorano».

Muro contro muro. Se sca­tenò l'indignazione interna­zionale quello che Sharon co­struì in pochi mesi, per bloc­care i kamikaze dalla West Bank, provoca solo un imba­razzato silenzio questo che Mubarak starebbe montando di notte, per sigillare Gaza. A rivelare il progetto è stato mercoledì un quotidiano isra­eliano, Haaretz . A riprendere la notizia è stata ieri la Bbc.

Obbligando il governo egizia­no a una smentita breve, at­traverso il sito del giornale Al-Shorouk: «Per fermare il contrabbando, l'Egitto sta conducendo un'azione seria ed efficace, senza ricorrere ad alcun muro». E poiché quest' azione viene svolta da mesi assieme agli americani — do­po che alla Conferenza di Sharm el Sheikh fu Hillary Clinton a garantire l'invio di tecnici e sensori radar — ec­co diventare più di un'ipotesi il consenso Usa allo scudo: «Ogni domanda su progetti specifici a Rafah — non nega l'ambasciata americana al Cai­ro — va rivolta direttamente al governo egiziano». Inutile dire che cosa pensino della faccenda a Gerusalemme: da anni qui si rimprovera a Mu­barak di non fare abbastanza per fermare i Qassam irania­ni che arrivano via tunnel. E forse non è casuale che, mar­tedì, Netanyahu abbia parlato d'una barriera da tirar su, lui pure, lungo la frontiera tra Israele ed Egitto: in pratica, un prolungamento del muro d'acciaio.

Sbarrare i tunnel, strango­lare Gaza. «Non posso crede­re che i nostri fratelli metta­no una barriera fra noi», dice un portavoce di Hamas, Yehiye Moussa. Eppure la Stri­scia sta diventando un proble­ma soprattutto degli egiziani. La guerra d'un anno fa ha ri­dotto del 90% il lancio dei raz­zi su Israele e gli altri valichi sono insuperabili: col conta­gocce, l'esercito israeliano ha concesso in questi giorni di portare dentro 10mila dosi di vaccino per l'influenza A e d'esportare un po' di fiori dal­le serre. Anche le trattative per la liberazione di Gilad Shalit, tornate in altomare, si fanno al Cairo (a proposito: resterà aperto il tunnel Vip, usato per le delegazioni di Ha­mas?). L'anno scorso, quan­do a migliaia sfondarono il va­lico di Rafah e si riversarono in Egitto, non passarono inos­servati i modi spicci con cui la polizia di Mubarak li ricac­ciò indietro: molti Paesi arabi contestarono «il faraone», che non fa nulla per alleviare l'isolamento d'un milione e mezzo di «fratelli» palestine­si. Per i tunnel, ricostruiti do­po la guerra, oggi passano ci­bo, auto, moto, droga, medici­nali, benzina. Perfino vacche e Viagra. Senza i tunnel, Gaza non evade più nemmeno dall' incubo.

Corriere della Sera 11.12.09
In Russia tagliato per gli studenti «Arcipelago Gulag»: 400 pagine (invece di 2.000)
di Antonio Carioti

Per lunghi anni al bando nella patria del suo autore, ora che lui è morto sarà un testo scolastico obbligatorio. È il destino del capolavoro di Aleksandr Solzhenitsyn (nella foto) «Arcipelago Gulag», che ha immortalato la sigla della direzione dei campi di prigionia staliniani (appunto il Gulag) quale simbolo del sistema repressivo sovietico. Gli studenti russi non si cimenteranno però con i tre volumi (quasi 2.000 pagine) dell’opera integrale, ma con una riduzione di circa cinque volte realizzata dalla vedova di Solzhenitsyn, Natalia, che ha annunciato ieri di aver completato il lavoro. «Spero che sia pubblicato entro settembre, ossia per il prossimo anno scolastico», ha dichiarato la signora. Ma prima il libro, una vigorosa denuncia dei crimini compiuti dal regime comunista tra il 1918 e il 1956, sarà passato al vaglio degli esperti ministeriali. Ex deportato, premio Nobel nel 1970, fervente cristiano ortodosso, Solzhenitsyn (1918-2008) era tornato in Russia nel 1994 dopo vent’anni di esilio e si era poi avvicinato a Vladimir Putin, del quale apprezzava, da convinto nazionalista, la linea di restaurazione della potenza russa. Proprio Putin, oggi primo ministro, ha proposto l’adozione di «Arcipelago Gulag» nelle scuole.

Corriere della Sera 11.12.09
L’esposizione alle Scuderie del Quirinale
La pittura antica di Roma multietnica
di Luciano Canfora

Aggirarsi tra i resti del mondo antico può determinare tra i moderni alme­no due diversi modi di reagi­re: o scadere nell’esclamazio­ne perenne assumendo i frammenti superstiti come «vette», oppure storicizzare, studiare le tecniche, cercare di comprendere la qualità, il senso e il destinatario di quei frammenti di realtà. Il primo atteggiamento, oltre che steri­le, suscita il riso; il secondo si nutre di filologia, cioè di sape­re storico messo a frutto criti­camente. Del resto né gli anti­chi producevano solo «vette» né è serio immaginare che la benevolenza di qualche divi­nità ci abbia destinato soltan­to i prodotti migliori. L’illusio­ne ottica che discende da tali equivoci è rischiosa. Essa ha nutrito di sé il classicismo, so­prattutto quello deteriore, ed è e resta il modo dominante con cui il «senso comune» si avvicina al mondo antico.

Invece non è blasfemo di­re, ad esempio, che non tutte le pochissime tragedie atti­che giunte a noi sono necessa­riamente sublimi: piuttosto, anche quando non sono tali, sono preziosi documenti. E lo stesso potrà dirsi per altre for­me artistiche anche nel cam­po delle arti figurative. In que­sto campo, anzi, il modo del­la conservazione è molto più affidato al caso. Per i testi fil­trati attraverso la tarda anti­chità e il medioevo fattori consapevolmente selettivi, operanti comunque con crite­ri assiologici, hanno avuto ef­ficacia: meno nel caso di quel che ci è giunto della cultura materiale.

La mostra della pittura ro­mana («Roma. La pittura di un impero», Scuderie del Qui­rinale, aperta fino al 17 genna­io) sapientemente organizza­ta e illustrata da Eugenio La Rocca, curatore dell’omoni­mo catalogo (Skira), offre un concreto inveramento di quanto ora osservato. Lo stes­so La Rocca indica bene i limi­ti scientifici, e non declamato­ri, dell’impresa: «Esaminare analiticamente singoli fram­menti di affreschi, pitture su legno o su vetro, cercando di misurare in base alle tecniche artistiche, il livello formale cui era giunta la pittura nel mondo romano». E l’arco di tempo cui questa analisi si ri­ferisce è amplissimo: dal I a.C. all’età bizantina.

Dell’imponente materiale isoleremo una sezione, molto significante e coerente: i ri­tratti provenienti dall’oasi di Hawara nel Fayyum (Egitto) che si collocano tra l’età nero­niana (54-68 d.C.) e la fine del regno di Marco Aurelio (180 d.C.). Si sa che il Fayyum è un luogo privilegiato della ricer­ca: i ritrovamenti di papiri, molto abbondanti, hanno per­messo di farci un’idea concre­ta di quel mondo, dei libri che leggevano, della diffusio­ne della cultura e dell’alfabe­tizzazione, della vita economi­ca, dell’evoluzione della scrit­tura. Ma come vivaio di ritrat­ti il Fayyum è non meno signi­ficativo. I volti giunti fino a noi di personaggi (per lo più notabili locali) grazie agli avanzi di quella ricca attività pittorica sono i volti di quelle «borghesie urbane», di quel­la civilitas che Michail Rosto­vcev descrisse ed esaltò nel suo capolavoro, la Storia eco­nomica e sociale dell’impero romano (apparsa anche in Ita­lia già subito, nei primi anni Trenta, presso La Nuova Ita­lia, con una bella introduzio­ne di Gaetano De Sanctis). Quella rispecchiata dai ritratti del Fayyum è per l’appunto quella classe decisiva nella re­altà urbana del mondo roma­no, che fu travolta dalla crisi micidiale del III secolo, e che non si risollevò più. Guardan­do questi ritratti di persone non eccelse ma rappresentati­ve di un ceto dinamico, elle­nizzato (e inconsapevole del­la imminente bufera) si è por­tati ad osservare che questa documentazione è, a suo mo­do, una ulteriore conferma della fondatezza dell’affresco che di questo mondo e di que­sto ceto aveva tracciato il grande Rostovcev. Documen­ti tanto più probanti in quan­to salvatisi per caso in un’area geografica la cui ricchezza do­cumentaria è dovuta al caso (cause fisiche, natura del ter­reno ecc.). E il caso rende dav­vero questo segmento rappre­sentativo di un intero.

Gibbon faceva incomincia­re la «decadenza» alla fine della dinastia antonina, Ro­stovcev poneva la fine nel III secolo. È ovvio ricordare che la grande e dura opera di re­staurazione dell’impero realiz­zatasi tra Aureliano (270-275 d.C.) e Costantino il Grande, felicemente battezzato in pun­to di morte nel 337, diede vita daccapo ad un impero poten­te e durevole. Ma tutto era or­mai mutato. Era un altro im­pero.

mercoledì 9 dicembre 2009

l'Unità 10.12.09
I tagli ai contributi statali

Colpo di mano in via libertà di stampa
di Giulia Rodano

Ci sono giornali nel nostro Paese che non hanno alle spalle potenti gruppi finanziari e industriali, che a malapena riescono a raccogliere qualche briciola della gigantesca tor-
ta pubblicitaria, che vivono a fatica grazie alla fedeltà dei loro lettori e grazie al contributo dello Stato. Sono i giornali editi da cooperative, no profit, i giornali di partito. Si tratta di poco meno di 280 testate giornalistiche. Con un colpo di mano notturno, maggioranza e Governo hanno abolito il «diritto soggettivo» di queste testate giornalistiche a godere di finanziamenti pubblici. Il contributo sarà deciso di anno in anno dal Governo che stabilirà a chi e quanto versare. Si passa dal diritto alla elargizione, da una informazione pluralista a una informazione a «sovranità limitata», sotto il controllo del Governo. Per molte di queste testate significa morte certa. Un colpo durissimo per i 4500 posti di lavoro a rischio tra giornalisti, tecnici, amministrativi, senza contare le migliaia di collaboratori. Si tratta di un vero e proprio bavaglio alla libertà, all’indipendenza e al pluralismo dell’informazione.
Proviamo a immaginare come si presenterebbe il panorama informativo italiano senza testate come L’Unità, Il Manifesto, Liberazione, solo per citare quotidiani collocati all’opposizione del Governo Berlusconi. Rimarrebbero in piedi soltanto i grandi quotidiani nazionali di proprietà di agglomerati di imprese finanziarie e industriali, mentre il panorama televisivo è già dominato dal «combinat» Rai-Mediaset. Governo e maggioranza giustificano il colpo di mano con la volontà di togliere di mezzo finte cooperative o giornali inesistenti. A parte che dovrebbe essere compito del Governo controllare che i soldi pubblici siano spesi soltanto a favore delle testate che hanno veramente i requisiti previsti dalla legge. Ma qui con la scusa dell’acqua sporca si vuole gettare via anche il bambino. Quello che è stato scritto nella finanziaria in discussione alla Camera è un altro capitolo di quel progressivo svuotamento della democrazia edificata in Italia grazie alla nostra Carta Costituzionale. Dopo la grande manifestazione di Piazza del Popolo in difesa della libertà di informazione, occorre che tutte le forze schierate in difesa delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, tornino a incontrarsi e a mobilitarsi. Anche le Regioni italiane possono e devono svolgere un loro ruolo. Come hanno fatto di fronte ai tagli alla cultura, devono intervenire. Ogni Regione italiana dispone di leggi di sostegno alla editoria. Si tratta di verificare i termini concreti perché le regioni diano il loro contributo in difesa del pluralismo e della libertà di informazione. Sarebbe più che mai opportuno e necessario che la Conferenza delle Regioni italiane incontrasse la Federazione Nazionale della Stampa e gli organismi di rappresentanza delle testate giornalistiche colpite dalla scure di Tremonti.

Repubblica 10.12.09
Proposta del Pdl depositata al Senato. Primo firmatario De Gregorio. 51.646 euro per finanziare i nuovi acquisti
"Chi tocca il crocifisso va in galera reato levarlo dagli uffici pubblici"
La norma prevede l'obbligo di esporre la croce. I senatori del centrodestra: comprarne 40 mila
di Carmelo Lopapa

ROMA - Crocifisso in tutti gli uffici pubblici. E poi ospedali, porti, stazioni, aeroporti, carceri. Obbligatorio. Sanzionato di «arresto fino a sei mesi» o ammenda fino a mille euro non solo chi lo rimuove, ma anche il funzionario pubblico che si rifiuterà di esporlo.
«C´è uno scontro di civiltà. E ognuno deve dire da che parte sta. Noi stiamo dalla parte della Chiesa, non ce ne vergogniamo». Il primo firmatario Sergio De Gregorio commenta così il disegno di legge depositato in questi giorni da nove senatori ultra-cattolici del Pdl al Senato. «Magari un po´ ruvido, soprattutto nelle sanzioni, ma necessario», sostiene il presidente della fondazione Italiani nel mondo. A firmare il testo che, assicurano, presto sarà «calendarizzato» per l´esame a Palazzo Madama, anche Juan Esteban Caselli, eletto in Argentina, Gentiluomo del Papa in America latina e delegato presso il sovrano ordine dei Cavalieri Malta. Tra i promotori, anche Raffaele Calabrò, artefice del testo sul testamento biologico passato al Senato. Il disegno di legge - neanche a dirlo - segue la sentenza della Corte di Strasburgo che un mese fa ha giudicato la presenza del Crocifisso un «limite alla libertà religiosa», consta di soli 5 articoli e prevede anche una copertura finanziaria.
Già, perché se passasse il vincolo, occorrerebbe anche dotare tutti gli uffici del simbolo cristiano. Così, il quinto e ultimo articolo stanzia 51.646 euro per il 2010, da recuperare dal «Fondo di riserva» del ministero dell´Economia. E tanto dovrebbe bastare, spiegano i promotori, per acquistare dai 30 ai 40 mila Crocifissi, di quelli semplici, già visibili nelle aule scolastiche. Per il resto, oltre a riconoscere (articolo 1) alla croce il ruolo di «emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana» e di simbolo perciò «irrinunciabile», si prevede (articolo 2) la sua esposizione «al fine di testimoniare il permanente richiamo della Repubblica italiana al proprio patrimonio storico-culturale radicato nella tradizione cristiana». Da qui, l´esposizione non solo «in tutte le aule delle scuole, delle università, delle accademie» (articolo 3), ma anche «negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali territoriali, in tutte le aule dei consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, in tutti i seggi elettorali», e ancora nelle carceri, negli ospedali, le stazioni, i porti, gli aeroporti in tutte le sedi diplomatiche. Chi lo rimuove «o lo vilipende, è punito con l´arresto fino a sei mesi o con l´ammenda da 500 a 1.000 euro». E la stessa sanzione è prevista per «il pubblico ufficiale o l´incaricato di pubblico servizio che si rifiuterà di ottemperare all´obbligo». Dice De Gregorio: «Non è una proposta integralista. Ma rispondiamo con inquietudine all´aggressività che si manifesta contro la nostra identità cristiana». Il governo per ora tace. L´opposizione si prepara a dare battaglia. «Un atto di insopportabile piaggeria servile - attacca Francesco Pardi dell´Idv, tra i primi ad opporsi alla proposta - Esibizionismo strumentale per procacciarsi la benevolenza dei vescovi. Lo fronteggeremo in aula».

Repubblica 10.12.09
Quando il mondo della Rete diventa movimento politico
di Giancarlo Bosetti

Grazie ai social network stanno tramontando i sistemi tradizionali della mobilitazione Ecco i nuovi soggetti della scena pubblica

Gli obiettivi. Valori alternativi
Internet si è dimostrata un imbattibile strumento di parte: partigiana per elezione, perché è nella sua natura la vocazione a riunire le persone per via di affinità
Comunità virtuali, MySpace Facebook, Twitter, e-mail: tra potere e contropotere, grazie a ogni forma di Internet mobile e all´auto comunicazione di massa, oggi la partita è aperta

Con la diffusione del web nel mondo, un miliardo e settecento milioni di utenti (un quarto della popolazione mondiale), ci sono certamente oggi maggiori strumenti per resistere al potere. Si possono meglio difendere valori e interessi alternativi a quelli prevalenti. Tra potere e contropotere, per usare l´espressione di Manuel Castells, la partita è aperta (e non chiusa a vantaggio del primo), grazie ai social network, alle comunità virtuali, a Facebook, MySpace, Twitter, all´e-mail, a ogni forma di Internet mobile e a quella auto-comunicazione individuale di massa, che caratterizza il paesaggio tecnologico contemporaneo. L´asticella della soglia d´ingresso sulla scena pubblica si è abbassata.
La mobilitazione "in viola" del No-B day, costruita in meno di venti giorni, mostra che la piazza web ha cominciato a funzionare anche in Italia. Le smart mobs, le folle intelligenti, di cui parla da anni Howard Rheingold hanno fatto già varie apparizioni: nelle Filippine nel 2001 fu un movimento organizzato con gli Sms a spingere alle dimissioni il presidente; in Spagna dopo l´attentato di Atocha le tesi del governo furono rovesciate e punite con il voto, a mezzo telefonini; in Iran la contestazione delle ultime elezioni viaggiava su Twitter. Si cita da noi il precedente di Beppe Grillo, con il suo V-Day, ma si trattava di un personaggio già molto noto.
Invece piazza San Giovanni il 5 dicembre scorso è stata riempita da organizzatori poco conosciuti. Era evidente il carattere "orizzontale" della mobilitazione, accentuato dalla collocazione dei politici tra gli spettatori.
Negli Stati Uniti la politica è stata già largamente ridisegnata dal web; Obama aveva reclutato nella sua campagna Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook, e deve a YouTube tanto quanto J. F. Kennedy doveva alla tv e F. D. Roosevelt alla radio. Si tratta del paese con il più alto indice di penetrazione della Rete (75 per cento). Da noi meno della metà della popolazione ha accesso al web e dunque la performance del corteo No-B è una tappa da ricordare: la politica tenti di adeguarsi.
Ormai una traccia chiara della direzione del cambiamento è evidente: non si tratta dell´utopia della "e-democracy", ma di un radicale aggiornamento delle tecniche della competizione. Il web annunciava fin dall´inizio la caduta di barriere tra i cittadini e la politica. Ross Perot entrava in scena nella campagna presidenziale americana del 1992 con l´idea della democrazia diretta per via digitale; Al Gore promuoveva le "autostrade dell´informazione" nel 1994, e nel 1995 si parlava di "ascesa della repubblica elettronica" (Lawrence Grossman).
E negli anni successivi Internet ha davvero modellato la scena pubblica, ma non nel senso che molti avevano idealizzato: democrazia diretta, assemblee elettroniche, disseminazione del potere. No, al contrario, il web si è dimostrato un imbattibile strumento di parte: Internet è partigiana per elezione, perché è nella sua natura la vocazione a riunire le persone per via di affinità, per organizzarle intorno a obiettivi comuni. La Rete, per la politica, raccoglie gente con pensieri, interessi, attitudini simili molto più di quanto non serva a porre gli uni di fronte agli altri individui con idee e interessi in conflitto. La Rete è la «piazza elettronica» non perché sia una ideale "agorà" deliberativa, in cui le parti confrontano i propri argomenti, è invece proprio "la piazza" dove si manifesta per un´idea comune. Dovrà essere possibile un giorno anche ricavare dalle tecnologie di rete mezzi per migliorare l´intero sistema democratico, ma per il momento è chiaro quanti benefici, subito, ne possono ricavare le organizzazioni partitiche e i movimenti sociali, in termini di trasparenza, economia, rapidità, efficacia. Se solo lo volessero.
La capacità, che con il web abbiamo, di far sì che l´informazione giunta a uno di noi possa estendersi rapidamente ad altri, a costi bassissimi o nulli, ha un grandioso potenziale di libertà. Dobbiamo stare soltanto in guardia e cautelarci nei confronti di quello che Cass Sunstein (Republic.com 2.0, Princeton 2007 e Going to Extremes, Oxford 2009) chiama il rischio del perfect filtering, del perfetto filtraggio di individui affini, che la Rete esercita inesorabilmente attraendo il simile con il simile, con una autoselezione che tende a escludere voci discordanti. La discussione tra persone, che son sempre d´accordo tra loro, può nutrire complicità, scoraggiare verifiche, accrescere il disprezzo per altri, far commettere di errori a cascata, o meglio a "cyber-cascata", fino ad accreditare come vere notizie false e a polarizzare estremismi. È salutare che, di norma, sulle piazze, anche virtuali, circolino idee in libertà e opposti pareri.
La "tirannide della maggioranza" è sempre in agguato, tanto più in paesi, come il nostro, che soffre non solo di digital divide (metà della popolazione fuori dalla Rete, in America la penetrazione è del 75 per cento), ma anche di press divide (è salita al 40 per cento la percentuale estranea ai mezzi di stampa) e dove la dipendenza dalla tv generalista per l´informazione politica rimane spaventosamente alta (70 per cento per tutti, 81 tra gli anziani, Censis 2009). Il pluralismo dell´informazione resta in sofferenza, la partita tra poteri e contropoteri resta aperta, la contesa tra informazioni dall´alto del vecchio mass-medium e informazioni dal basso del social network è in corso, ma c´è sempre da stare un po´ in ansia per il risultato finale del match.

Repubblica 10.12.09
Comincia con l'antica Grecia e oggi diventa virtuale
Il modello dell'agorà
di Umberto Galimberti

I limiti della materia
La discontinuità tra l´antichità e l´oggi sta nei corpi, nel tempo e nello spazio. Allora le parole erano accompagnate dai gesti, i gesti dagli sguardi, e gli sguardi potevano smascherare il gioco tra menzogna e verità

In occasione del no-B Day i corpi si sono materializzati nella piazza, ma la loro convocazione è avvenuta attraverso quella realtà dematerializzata che è la Rete, dove lo spazio viene abolito, il tempo reso istantaneo e le persone fanno la loro comparsa con la vicaria complicità di quel loro sosia che è l´alter ego digitale. Certo c´è una bella discontinuità tra l´agorà antica, dove le parole erano accompagnate dai gesti, i gesti dagli sguardi, e gli sguardi, tradendo le intenzioni, potevano smascherare il mai risolto gioco tra menzogna e verità. Ma se guardiamo le cose più da vicino questa discontinuità si riduce, se è vero che il modo occidentale di pensare, nelle sue espressioni matematiche e filosofiche, ha preso avvio proprio dal rifiuto della percezione sensibile, per inaugurare quel pensiero immateriale che trova la sua articolazione nei costrutti della mente, che consentono di approdare a quella realtà considerata perfetta, perché liberata dai limiti della materia.
Non a caso, scrive Platone: «Ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni col corpo». E 2000 anni dopo, Cartesio, inaugurando il metodo scientifico, scriveva: «Dato che i sensi a volte ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse tal quale i sensi ce la fanno percepire, perché non conosciamo i corpi per il fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero».
Se questa è la tradizione del pensiero occidentale, che ha preso avvio nell´agorà greca dove si insegnava a prescindere dai limiti della materia, quindi dai corpi e dai sensi, c´è perfetta continuità tra l´iperuranio platonico, l´astrazione matematica, il cogito cartesiano e la realtà virtuale, capace di dare, nella comunicazione dematerializzata, l´effetto della realtà materiale senza i condizionamenti della materia.
La diffusione del telelavoro, l´osservazione di realtà altrimenti inosservabili proprie della biologia molecolare e della genetica, fino al sesso virtuale con partner virtuali, o l´ideazione di una second life rispetto a quella insoddisfacente che ci capita di vivere hanno fatto dell´agorà virtuale qualcosa di più potente e di non meno reale dell´antica agorà materiale. Ma ciò che è davvero sorprendente è che l´agorà virtuale trae spunto proprio dal tipo di pensiero che nell´antica agorà greca è stato inaugurato.
Protagonisti della società virtuale sono i giovani, che nella società reale nessuno convoca, nessuno chiama per nome. Trascurati dal mondo adulto, essi inaugurano una piazza dove si incontrano, e dove il mondo adulto, che li ha esclusi, con qualche difficoltà ha accesso. Il loro comunicare, chiamarsi e convocarsi per via telematica segnala una modalità di socializzazione e di scambi relazionali non ancora abbastanza considerato dal mondo adulto, che sotto questo profilo appare arcaico. E in questa segnalazione c´è la configurazione del futuro, che solo chi è giovane è in grado di progettare e sognare.
Nella proiezione del futuro ci sono i segni del cambiamento. Si tratta di un cambiamento che è radicale perché avviene in un linguaggio, quello virtuale, che un potere troppo vecchio nelle sue abitudini mentali e nei suoi schemi percettivi non solo fatica a capire, ma neppure ne scorge la forza e la potenza. Perché è potenza comunicare senza i limiti dello spazio, senza le attese del tempo, senza la grevità dei corpi, senza l´ingombro della materia. E proprio qui può nascere quello spiraglio di speranza che Pier Luigi Celli giustamente vedeva preclusa ai giovani se attesa dal mondo adulto. Il futuro i giovani non lo attendono più dagli adulti. Con la loro piazza virtuale semplicemente se lo prendono.

Repubblica 10.12.09
Giorgione
A Castelfranco i capolavori del pittore della luce
di Antonio Pinelli

Per celebrare i 500 anni dalla morte del grande artista il suo paese natale organizza un´esposizione con opere da tutto il mondo. Insieme ai quadri del maestro anche quelli di altri autori, da Tiziano a Giovanni Bellini
Vasari racconta l´importanza dell´incontro con i dipinti di Leonardo

Nel 1510, quando «Zorzi da Chastelfranco», detto Giorgione, morì a Venezia di peste a soli 33 anni, i collezionisti, come sarebbe accaduto esattamente un secolo dopo con Caravaggio, piombarono come avvoltoi sulle sue opere ancora disponibili. Prima fra tutte Isabella d´Este, che scatenò un suo agente a Venezia per informarsi se fosse vera la voce che dava come ancora presso lo studio del pittore una «nocte», ovvero un notturno: probabilmente una Natività o un´Adorazione dei Magi. Non era così, come si affrettò a comunicargli il corrispondente in un dettagliato resoconto delle accurate indagini da lui svolte al riguardo, e la smaniosa Isabella dovette rinunciare ad incastonare anche un trofeo di Giorgione nella rutilante corona di capolavori che risplendeva nella sua celebre raccolta mantovana, ma l´episodio è comunque indicativo di quanto celebre fosse il pittore veneto anche fuori dai confini della Serenissima.
Come sempre succede, tuttavia, quando un personaggio d´eccezione muore anzitempo, il suo trapasso lo proietta automaticamente nella dimensione del mito, circonfondendolo di un alone abbagliante che ne annebbia l´identità storica concreta. Diradare questa nebbia, nel caso di Giorgione, è reso ancor più arduo dall´assenza di opere firmate, dalla quasi totale carenza di testimonianze documentarie di prima mano e dalla sfuggente elusività dei soggetti di alcune delle sue rare opere certe giunte fino a noi. Di qui la vertiginosa varietà di ipotesi presenti nella sterminata bibliografia sull´artista e l´importanza di mostre come questa allestita nella sua città natale in occasione del V centenario della morte. Questa (Giorgione 2010) vanta prestiti dai grandi musei del mondo e dà l´occasione per vedere opere di altri maestri, da Tiziano a Sebastiano del Piombo. In generale queste esposizioni offrono l´opportunità di ricapitolare le poche acquisizioni certe di cui disponiamo e di vagliare attraverso un confronto diretto tra le opere esibite, la plausibilità delle più recenti proposte di ricostruzione della sua breve ma intensa parabola creativa.
Ma veniamo ai «fatti» e alle «opinioni» su Giorgione. Se la data di morte ci è fornita dalla lettera di Isabella d´Este, quella di nascita ce la tramanda Vasari, anche se nella prima edizione delle sue «Vite» indica il 1477 e nella seconda il 1478. Non sappiamo nulla di certo sul cognome, ma l´ipotesi avanzata proprio in occasione di questa mostra, che lo identifica con un tal Zorzi, che nel 1493 viveva a Castelfranco con sua madre Altadona, precocemente vedova di «Zuanne Barbarella», sembrano metter d´accordo due contrastanti tradizioni: quella che lo vuole nato da «umilissime origini» e quella che lega il suo nome ai Barbarella, famiglia castellana di spicco.
Se si eccettua la scritta che compare dietro un suo Ritratto di donna ora a Vienna, la cosiddetta Laura, in cui egli si dichiara collega di maestro Vincenzo Catena, nulla sapremmo delle sue frequentazioni artistiche, se non ciò che possiamo dedurre per via stilistica dalle sue opere. Tali deduzioni confermano, arricchendolo, il quadro d´insieme fornitoci da Vasari, che dopo aver tratteggiato l´arrivo a Venezia del giovane Giorgione, subito apprezzato oltre che per le sue doti di pittore perché suonava il liuto e cantava «divinamente», ne esalta la capacità di superare i due fratelli Bellini perché sapeva «metter lo spirto nelle figure et contraffar la freschezza della carne viva» con una mirabile «unione sfumata ne´colori». Se quest´ultima definizione calza a pennello con quella trepida e sensibilissima modulazione dei toni luminosi del colore, il cosiddetto tonalismo veneto, il cui primato è tuttora attribuito a Giorgione, anche l´incidenza assegnata da Vasari all´incontro con la pittura di Leonardo («aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo molto fumeggiate e cacciate terribilmente di scuro: e questa maniera gli piacque tanto che[..]nel colorito a olio la imitò grandemente») è ormai unanimemente accettata.
Non c´è dubbio infatti che l´epocale novità introdotta da Giorgione nell´arte veneta nasce dalla geniale fusione della migliore eredità dell´umanesimo artistico lagunare - in particolare di Giovanni Bellini e Cima da Conegliano, e dello scultore Tullio Lombardo - con due potenti stimoli «forestieri», l´uno proveniente da Leonardo, e l´altro, di cui tace Vasari e di cui troppo poco si parla tuttora, dalla cultura d´oltralpe. Quest´ultima a lui nota non solo tramite le stampe, ma anche attraverso la conoscenza diretta dei non pochi artisti «ponentini» che soggiornarono nella laguna (Dürer in primis) e dei tanti loro dipinti presenti nelle raccolte veneziane (comprese le quattro visionarie tavole di Bosch che tuttora si ammirano in Palazzo Grimani). Senza questa componente «tedesca» sarebbe difficile spiegare i celebri (e ahimè perduti) notturni giorgioneschi (dalla «nocte» invano inseguita da Isabella a quello con Enea e Anchise agli inferi, visto dal Michiel nella casa veneziana di Taddeo Contarini); ma neppure i Tre filosofi ora a Vienna, che Michiel vide in casa Contarini, e l´ancor più celebre Tempesta, da lui vista in casa di Gabriele Vendramin. Perché se è pur probabile che sia l´uno che l´altro dipinto abbiano un soggetto ben preciso - ma occultato a bella posta per volere del committente affinché fosse comprensibile solo a pochi – a me pare altresì evidente che il soggetto esplicitato, nell´uno come nell´altro caso, sia il paesaggio: dominato dalla buia grotta in controluce nei Tre filosofi e dall´imminente scroscio di pioggia, preannunciato dalla folgore, nella Tempesta. Soggetti espliciti che meglio si intendono alla luce del parallelo affacciarsi nelle Fiandre di un nuovissimo genere, il «paesaggio autonomo».
Quanto all´influsso di Leonardo su Giorgione, esso non si limita alla questione del rapporto tra «sfumato» e «tono», ma investe in pieno la volontà di conferire alle pose, ai gesti e ai volti delle figure un´espressione che ne riveli gli stati d´animo. Di norma in Giorgione questo timbro espressivo è improntato a malinconia: a volte velata di rimpianto, come nella sublime pala di Castelfranco, a volte più amorosa e trasognata, o a volte, come nell´Autoritratto in veste di David, dolorosamente atrabiliare, come si conviene alla canonica iconografia della genialità. Ma forse la tastiera di sentimenti toccata da Zorzi includeva anche altri registri, più comici o più appassionati. Ed è quanto suggerisce la mostra riproponendo come suoi quei due famosi Cantori della Galleria Borghese, che di solito, ma forse a torto, gli vengono negati.

Corriere della Sera 10.12.09
La filosofia si allea con Dio e salva l’uomo dalla violenza
Il vento del pensiero e la coscienza cristiana contro la follia della volontà
Credere nell’esistenza della morte è il peccato più profondo
di Emanuele Severino

Alcune riflessioni sul tema del convegno promosso dal cardinale Camillo Ruini che si apre oggi a Roma

Stando al significato assunto storicamente dalla parola «Dio», esiste qualcosa di infini­tamente più «alto» di «Dio». Può il cristia­nesimo portarsi a questa «altezza»? Il «Dio» storico, infatti, è una delle forme più radicali della violenza, e la vicinanza tra Satana, che «è omi­cida sin dall’inizio», e Dio diventa inevitabile. Ma in quello stare infinitamente più «in alto» appare che la violenza e la morte sono già da sempre vinte anche se la fede nella loro esistenza domina il mon­do.

La violenza domina il mondo. Rende nemici sta­ti, etnie, famiglie, individui e l’individuo stesso ri­spetto a sé stesso. Il cristianesimo è una delle for­me più alte che l’uomo abbia evocato contro di es­sa. Tutte le grandi religioni hanno l’intento di te­nerla lontana. Parlano un linguaggio che i popoli possono capire. Ma soprattutto il cristianesimo si è confrontato per due millenni con la filosofia. E in­fatti quale altro alleato le religioni hanno trovato, contro la violenza, oltre alla filosofia? La quale non parla certo il linguaggio che la «gente» capisce, ma è entrata nel sangue delle religioni, e poi di tutti i grandi eventi della storia europea: rinascimento e arti, scienza moderna e diritto, rivoluzione france­se, capitalismo e comunismo. La filosofia si fa sen­tire come il vento a chi se ne sta in casa: attraverso le porte, le finestre, i muri delle religioni. Stare al­l’aperto è difficile, perfino pericoloso. L’aperto met­te in discussione tutte le certezze di chi sta al chiu­so. Mette in discussione anche il senso della violen­za. Non certo per rimetterla in circolazione. La filo­sofia stende la mano alla coscienza religiosa, a quel­la cristiana in particolare, per portarla più in alto.

Si distingue la violenza dalla volontà. Esiste la volontà buona, si dice: combatte quella cattiva che, essa sì, è violenza. La volontà non può esser messa in discussione! E quand’anche lo fosse , dovremmo stenderci per terra e non fare più nulla? Ma anche per far questo occorre volerlo! E allora? Allora si potrebbe incominciare a pensare che altro è volere sapendo che volere è peccare, è violenza, altro è vo­lere non sapendolo. Volere è peccato e violenza? Sì, è strano; ma si provi a prestare ascolto a cosa dice quel vento di cui si parlava qui sopra. Molte parole sfuggiranno, altre resteranno incomprensibili, an­che perché in casa, a volte, si fa molto rumore. Il vento dice: «La violenza può esistere solo perché si crede che il mondo sia disponibile alla volontà (umana o divina) di trasformarlo. Nel paradiso cri­stiano non c’è violenza, soprattutto perché l’Ordina­mento divino che vi regna è un sole immutabile, inviolabile, immodificabile. E nessuno dei beati vuole trasformarlo. Ma si pensa a che significa la trasformazione delle cose e la conseguente decisio­ne di trasformarle? Significa che diventano altro da quello che sono. Il vivente diventa un morto, e quando è diventato un morto, lì non c’è soltanto un morto, ma un vivente che è un morto. Perché sia un morto, è necessario che esso sia, appunto, un vivente che ora è un morto, ossia che il morto sia il risultato di un morire e che il risultato sia, appunto, un vivente che è un morto, cioè un non vivente. Che strano! Si diventa sospettosi quando si sente parlare di una casa che non è una casa, di una stella che non è una stella, di un albero che non è un albero; ma non si prova nessun imbaraz­zo e si sta tranquilli (o meglio, si crede di esserlo) quando si sente dire che un vivente è un morto! Eppure la stessa follia è presente nel dire che una stella non è una stella e nel dire che un vivente è un morto. La stessa follia, lo stesso errore, la stessa vio­lenza per cui qualcosa è reso altro da ciò che esso è, è separato da sé, squartato, e un pezzo del pro­prio cadavere (la stella) è reso identico all’altro pez­zo (la non stella)».

A questo punto, in casa qualcuno dirà infastidi­to di chiudere meglio porte e finestre, per non sen­tire questi discorsi, qualche altro dirà che essi son proprio parole al vento. Che però, anche se non gli si bada più, continua a parlare. Così: «Gesù dice ai Farisei, che vogliono ucciderlo, che il loro padre è il diavolo, 'che sin dall’inizio è stato omici­da e non è rimasto nella verità' ( ille homicida erat ab inizio et in veritate non stetit , Gv.,8,40). In­fatti ha indotto i nostri progeni­tori al peccato, cioè ad essere 'co­me Dio' ( eritis sicut dii ), e Dio ha punito l’uomo consegnandolo alla morte. 'Ad opera di un uomo — dice Paolo ( ad Romanos, 5, 12) — entrò nel mondo il peccato, e ad opera del peccato la morte'. Ma ecco il centro di quanto va soprattutto pensato, all’aperto: che non è che la morte sia entrata nel mondo ad opera del peccato, ma, all’opposto, che il peccato è entrato nel mondo ad opera della morte; e cioè che il vero peccato è la morte. Vediamo».

«Nei Vangeli, la parola più usata per nominare il peccato è hamartìa , che innanzitutto significa 'er­rore'. Ma prima abbiamo sentito l’errore più radica­le, cioè la convinzione che le cose divengano altro da ciò che esse sono, e che, diventate altro, sono altro da sé. Diventando un morto, il vivo è un mor­to. E ogni diventar altro è un morire. Credere nel­l’esistenza della morte è credere che un vivo sia un morto, cioè un non vivo; che la stella sia non stella, e così via per tutte le cose che la volontà vuole far diventar altro da quello che sono, e che così vuole perché, appunto, crede che possano diventar altro. Credere nell’esistenza della morte è l’errore estre­mo, il peccato più profondo, più originale. Con la morte il peccato entra nel mondo perché il vero peccato è la morte stessa, cioè la fede nella sua esi­stenza. È sul fondamento di questa fede si può deci­dere di uccidere».

Ma la filosofia ha un duplice volto. Uno guarda la notte, l’altro il giorno. Il vento che sta parlando è il vento del giorno. «L’altro volto, mostrato dal po­polo greco — dice ancora il vento, se qualcuno è rimasto a sentirlo —, rende estremo l’errore più ra­dicale: crede di vedere che le cose diventando altro da sé, diventano nulla e da nulla che erano, diventa­no esseri. A ciò provvede la volontà di Dio e dell’uo­mo. L’errore estremo è credere che il nulla, diventa­to essere, sia essere, e che l’essere diventato nulla, sia nulla. Quando l’uomo vuole che l’uomo vada nel nulla è 'omicida'. Quando Adamo pecca è deici­da. Ed omicida è il diavolo che spinge l’uomo nella morte. E Dio? Ma anche Dio non vuol forse creare il mondo dal nulla, e annientarlo quando creerà 'un nuovo cielo e una terra nuova?' ( Apocalisse ,21). Non crede forse anche Dio nell’esistenza della mor­te? E non è forse questo il senso originario dell’omicidio e della violenza? » .

«Se la follia estrema è credere che uomini e cose divengano nul­la e ne escano, e questa fede è il vero peccato, l’essere è ucciso proprio dalla fede che esso diven­ga nulla. Sul fondamento di que­sta fede, che è la violenza dell’enticidio, viene per­petrato l’omicidio autentico: si mette l’uomo (e le cose tutte) nel sepolcro del nulla, lo si fa diventare un nulla — lui, che è uomo e non un nulla —, lo si considera qualcosa che di per sé è un nulla. Poi si solleva il coperchio del sepolcro, e, trovando un ca­davere, lo si 'salva', prima creandolo dal nulla e poi liberandolo dalla morte, che però è la 'morte eterna', non questa nostra morte, nella quale si continua a credere. Il cristianesimo vuole ridurre il suo Dio a un omicida? O non c’è forse qualcosa di infinitamente più alto di ogni Dio, più alto della vo­lontà e della violenza?».

Il vento che si è fatto sentire viene dall’aperto, si diceva prima. Solleva miriadi di problemi, ma pri­ma di giudicarlo vanità delle vanità, non ci si posso­no tappare le orecchie. Anche perché viene dal­l’aperto nel senso che sale dal più profondo di noi stessi, dal profondo con cui crediamo di non aver nulla a che fare, dal sottosuolo della casa in cui ci chiudiamo e a cui riduciamo la nostra esistenza.


Repubblica 9.12.09
Quando Stalin faceva rivestire i quadri di nudo
Il dittatore censurò i disegni "nature" dei pittori russi dell’Ottocento Ora 19 riproduzioni saranno esposte, accompagnate dalle sue note
Le "purghe" di Stalin sui ritratti di uomini nudi
di Leonardo Coen

L´ex leader sovietico "cancellava" genitali e toraci, scrivendo un giudizio di condanna
Resta il mistero di come queste copie, conservate tra gli anni ´40 e ´50 in una cartella rossa, siano riapparse soltanto oggi

MOSCA. Il vecchio ignudo ritratto da Valentin Aleksandrovic Serov, grande maestro dell´impressionismo russo, ha lo sguardo orgoglioso di chi non si vergogna del proprio fisico, usurato dal passar del tempo. Ma al padrone del Cremlino non piacque la sfrontatezza del disegno di Serov. Sulla riproduzione dell´opera cancellò il pene del vecchio con un brusco tratto di lapis rosso, coprendo il torace con strisce da arcipelago gulag, imitando grossolanamente la divisa da galeotto. Prima il giudizio, poi la condanna. Su un altro nudo Stalin aggiunse delle mutande, imitando lo stile dei terribili e grezzi slip sovietici, e scrisse: «Non metterti a culo nudo sulle pietre! Vai al komsomol e al rabfak (la facoltà dei lavoratori, così si chiamavano nei primi decenni del potere sovietico le scuole elementari per gli operai analfabeti, ndr). Date al ragazzo un paio di mutande! I. Stalin».
Stalin il Braghettone? A quanto pare, la tentazione ce l´aveva di imitare lo sciagurato Daniele da Volterra. Costui, nel 1564, venne chiamato dalla censura della Santa Sede per coprire le «indecenti» nudità di santi e dannati del Giudizio Universale di Michelangelo. Stalin, invece, espresse i suoi giudizi bacchettoni con un lapis in calce alle riproduzioni di alcuni disegni di nudo dei più celebri pittori russi dell´Ottocento, tra i quali Ilia Repin, Aleksandr Ivanon, Vasilij Surikov, Andrej Rjabushlin, e, appunto, Valentin Serov. Ora, diciannove di queste riproduzioni saranno esposte dal 18 dicembre nella galleria Marat Ghelman di Mosca, tutte chiosate dagli scarabocchi e dalle note di Stalin, di cui si conoscevano i giudizi e i suggerimenti relativi a numerosi settori dell´arte e della scienza, ma nessuno per quel che riguarda la pittura. Il vuoto sta per essere colmato, grazie a questa mostra: «La storia russa a volte solleva il velo su tali enigmi, coincidenze e stranezze», hanno scritto i critici d´arte moscoviti, sorpresi dall´evento e dalle diciannove inedite scritte staliniane. Che non mancano di sorprendere. La riproduzione di un disegno di Aleksandr Ivanon, per esempio, scatenò in Iosif Vassirionovic la voglia di sentenziare: «Un fesso pensoso è paggio di 10 nemici». Variante di un suo noto aforisma, raccolto dallo scrittore tedesco Lion Feuchtwanger durante i numerosi colloqui col dittatore sovietico: «Un fesso leccapiedi è peggiore di cento nemici». In calce ad un altro disegno di Ivanon emerge il disprezzo: «Di questi fannulloni ne abbiamo tanti anche noi. Fi-lo - sos» (Stalin deforma la parola «folosof», cioè «filosofo», aggiungendo la desinenza «sos», probabilmente dal verbo «sosat´» cioè «succhiare»). All´ennesimo nudo, trapela l´irritazione: «Questo semplicemente ha paura del sole? E un vigliacco!!!»..
Resta il mistero di come queste riproduzioni siano riapparse soltanto oggi. Chi le ha celate per oltre mezzo secolo? Dove erano nascoste? Qual è la loro origine? In effetti sappiamo poco, né gli organizzatori della mostra si sono dannati per colmare le lacune. Le riproduzioni, in una cartella rossa, sarebbero capitate tra le mani di Stalin grosso modo tra la fine degli anni ‘40 e l´inizio degli anni ‘50 dello scorso secolo: «Stalin è un personaggio equivoco - dice Mikhail Mikhajlin, il direttore del quotidiano on line Gazeta. ru che ha organizzato la mostra - Lo studio di questi disegni e scarabocchi dà un idea dello stato psicologico in cui lui si trovava dalla fine degli anni 40 alla morte. Io ho avuto l´impressione che lui parlasse con le ombre: si rivolge a Kalinin, a Plekhanov, in modo frivolo, da vecchi». Le perizie grafologiche hanno provato l´autenticità della calligrafia di Stalin: «Questi disegni dovrebbero provenire dalla sua dacia - sostiene Jurij Pankov, l´esperto delle mostra nonché direttore della casa editrice «Avtograf veka» («L´autografo del secolo») - però non si sa che fine abbiano fatto dopo la morte di Stalin. Non ci sono timbri che testimonino l´eventuale custodia presso qualche archivio o biblioteca. In qualche modo sono finiti in mano ad un collezionista privato che a suo tempo deve avere avuto a che fare con i servizi di sicurezza». Infatti, il suo nome è coperto dall´anonimato più assoluto. Che abbia voluto celebrare in modo originale il 130esimo anniversario della nascita di Stalin che cade il prossimo 21 dicembre? La mostra farà felici gli psicostorici russi, che così potranno aggiornare le analisi della complessa personalità di Stalin. Appare evidente, dicono ad un primo esame dei disegni, il suo interesse per il corpo maschile e i genitali. Era un omosessuale latente o un omofobo?

Repubblica 9.12.09
Dilemma dopo il No-B day: partito o movimento?
Il popolo viola pensa al bis "Torniamo presto in piazza e banconote anti-Silvio"
"Se scendiamo in politica faremo la differenza: noi non siamo come loro, siamo veri"
Mobilitazione per querelare "Il Giornale" che li ha definiti "gli amici di Spatuzza"
di Alessandra Longo

ROMA - E adesso? E adesso il cosiddetto «popolo viola» si interroga su come amministrare lo straordinario consenso incassato sabato scorso a Roma. Cosa vogliamo essere?, si chiedono. Un movimento, un partito, una lista civica, un club di scacchi e, soprattutto, «che cosa siamo e che cosa vogliamo»? Domande di fondo, esistenziali, da lettino dello psicanalista, che sopravvivono anche nelle nuove modalità di comunicazione. Ecco lo sfogatoio in rete, virtuale ma concretissimo. I «viola» alle prese con la fase più difficile: trasformare un successo in qualcosa di stabile e riconoscibile, consolidare l´anti-berlusconismo di un giorno in un´onda che trasporti e convinca anche gli italiani «che non navigano su internet e guardano ancora la televisione». Sì, diciamolo, anche quelli che votano Pd «e sono molto vecchi» (testuale,ndr) e «quelli che votano Pdl ma non ne possono più del signor B».
Diventare partito? Perché no: «Se scendiamo in politica e partecipiamo alle elezioni, faremo la differenza. Noi non siamo come loro, noi siamo veri!». Un «partito viola, con donne e uomini nuovi». Impresa difficilissima, lo ammettono: «Dare vita ad una democrazia partecipata e trasparente». Diventare partito per sfuggire ai partiti che già ci sono. Addirittura. Oppure non diventarlo affatto? «Dobbiamo prima rinforzarci, stare fra la gente, fare azioni sul territorio, vivere la realtà, controinformare, boicottare... No, non ci serve un partito ora, non ci servono nuove stanze del potere. Chi vuole trasformare l´onda viola in una lista elettorale tradisce lo spirito di questo movimento che fa rete tra persone...». Dialoghi a cuore aperto, posizioni travagliate e contrapposte, anche qualche incursore tradito dal linguaggio antico («È necessario dare corpo ad una massa antagonista alla demagogia qualunquista...»). È il contraccolpo emotivo, politico del successo, unito ad una inedita, robusta, e un po´ generica, sindrome di accerchiamento, diffidenza per tutto e tutti: «I partiti ti ammazzano con la loro logica di complotti e inciuci»; «i media, fintanto che non ci saremo strutturati, ci possono distruggere»; «la casta politica è trasversale e succhia il sangue»; «gli spazi internet possono essere a rischio. Tenteranno di fermarci, salvate nella memoria di un pc i nostri numeri di telefono...».
Tutta l´energia di un giorno non si è estinta: «La gente deve riconoscerci, deve cominciare a viverci come un movimento forte e convinto. E se ci mettessimo tutti un braccialetto viola?». Piovono le proposte: una volta al mese davanti a Palazzo Chigi; da subito drappi viola alle finestre; entro gennaio un´altra manifestazione grande e bella come quella di San Giovanni, magari «contro la mafia in Parlamento». E poi cartoline viola da inviare a centinaia di migliaia alle varie residenze di Berlusconi. Avete l´indirizzo delle sue case? Sì, certo. Dopo qualche secondo, arrivano in rete le risposte. In contemporanea un altro gruppo si occupa di querelare Vittorio Feltri («Ci ha chiamato amici di Spatuzza. Abbiamo passato le carte all´avvocato»).
Un fiume in piena che non si arresta mai e non si imbarazza di pensare grande o molto piccolo. Per esempio, l´idea delle «banconote consapevoli». Quella piace moltissimo. Perché non scrivere a matita sui soldi una frase del tipo «Berlusconi dimissioni»? Perché è reato, non si può, obiettano i più prudenti. Qualcuno corre dritto sul sito di Bankitalia e scarica il capitolo «sul danneggiamento» della valuta. Un «piccolo» intervento, a matita, possibilmente viola, «mette al riparo noi e i negozianti da qualsiasi problema», rassicurano i promotori dell´iniziativa. Scorri il dialogo su Facebook ed è come una diretta: «L´ho fatto! Ho sganciato i miei primi 50 euro segnati al supermercato. Missione compiuta e la cassiera mi ha anche sorriso». Storcono il naso i «legalisti»: «Strada sbagliata».
Difficile dare forma e senso alla valanga. Arriva l´appello: «Non "spammiamoci" da soli!». Per chi non se ne intende, lo «spamming» (linguaggio internet), è «l´invio di grandi quantità di messaggi indesiderati».

Repubblica 9.12.09
Dalia Mogahed, 36 anni di origine egiziana, fa parte dello staff del presidente Usa: "Così spiegherò l´Islam a Obama e all´America"
di Francesca Caferri

Dalia Mogahed è la prima donna con il velo ad essere entrata alla Casa Bianca. «Non posso dire di essere offesa quando mi definiscono così - dice - ma preferirei che l´attenzione fosse più sulle mie ricerche, sui motivi che mi hanno portato a lavorare per il presidente. E non sul mio velo. Ma ho imparato ad accettare il fatto che tutti guardino quello. E che i media, soprattutto quelli arabi, abbiano fatto di me il simbolo di una nuova Casa Bianca. Che include, non esclude. E che rispetta l´Islam. Non ho scelto di essere un simbolo: ma ho capito che posso usare questa cosa per far capire chi sono io e cosa fanno i musulmani in America».
Sorriso franco, capacità di mantenere la calma anche di fronte agli attacchi e di non emozionarsi: neanche quando ha ascoltato il suo presidente parlare al mondo arabo - seguendo i suggerimenti che lei aveva dato - proprio dall´Egitto, Paese che lei aveva lasciato bambina per iniziare l´avventura che l´ha condotta alla Casa Bianca.

Dalia Mogahed, 36 anni, consigliere del presidente Usa per i rapporti con il mondo musulmano, è la prima donna ad entrare alla Casa Bianca con il velo A Washington è arrivata grazie a un libro che demolisce uno dopo l´altro, tutti gli stereotipi più diffusi sull´Islam. Quel volume ora esce anche in Italia
Il momento più delicato è stato il discorso del Cairo "Serviva un cambio di prospettiva"
"Per i media arabi sono il simbolo di una nuova America Che non esclude più, ma include"
"Quello che vuole l´Amministrazione è ascoltare le voci dei musulmani e capire come coinvolgerli"

Questa è Dalia Mogahed, 36 anni, consigliere del presidente Obama per i rapporti con il mondo musulmano e autrice di "Who speaks for Islam?" un libro negli Stati Uniti lo scorso anno monopolizzò per settimane l´attenzione di giornali e televisioni e che ora esce anche in Italia.
Alla Casa Bianca Mogahed è arrivata direttamente da Gallup, uno dei più prestigiosi centri di ricerca americani: qui a partire dal 2001 ha lavorato per cinque anni con il collega John Esposito al più grande studio mai condotto sui musulmani nel mondo. «In questi tempi di estreme tensioni e di ostilità crescente, pochi libri sarebbero potuti arrivare in un momento più giusto», disse quando i risultati delle loro ricerche furono pubblicati negli Stati Uniti il premio Nobel per la pace Desmond Tutu. «Il nostro scopo - racconta Mogahed - era spostare il dibattito sui musulmani in una direzione più costruttiva. A lungo si è detto che il conflitto fra le società a maggioranza musulmana e l´Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, era inevitabile. Il libro invece dimostra che non è così. Lo fa facendo parlare la maggioranza silenziosa dei musulmani, quella che non riesce a far uscire la propria voce perché schiacciata da governi repressivi, da media che non li considerano abbastanza interessanti, o da pochi estremisti. E che dice che i punti di frizione fra mondo islamico e Occidente, che pure ci sono, si concentrano su politiche transitorie, non sui principi di fondo». E molte altre cose: che la cosa che i musulmani ammirano di più dell´Occidente è la libertà politica e di espressione, che la maggior parte degli intervistati - inclusi il 73% dei sauditi e l´89% degli iraniani - ritengono che le donne dovrebbero godere degli stessi diritti degli uomini. Che nei paesi a prevalenza musulmana la maggior parte della gente condanna i fatti dell´11 settembre 2001 e che la minoranza che li giustifica e ha un´opinione negativa degli Stati Uniti (7%) non è più religiosa rispetto al resto della popolazione. E così via.
Idee scontate, si potrebbe dire oggi, ma quando cominciarono a circolare nell´America di Bush suonavano rivoluzionarie. Tanto da catturare l´attenzione dell´allora senatore dell´Illinois Barack Obama. «Quando il libro uscì mandammo una copia a tutti i membri del Congresso - ricorda oggi Mogahed - compreso lui. Ci rispose con un biglietto di ringraziamento. Non lo conoscevamo, e non avevamo idea se lo avrebbe letto o no. Ma dopo qualche tempo una persona che era stata nel suo studio al Senato mi disse che il libro era lì, in bella evidenza. Lo trovai un segno incoraggiante».
Lo era così tanto che qualche mese dopo Obama, diventato Presidente, chiamò Mogahed a far parte del suo Adivorsy Council on Faith-based and neighborhood partnership e ad occuparne la poltrona più scottante: quella di consigliere per le relazioni con il mondo musulmano. Uno dei dossier chiave su cui si gioca il successo della presidenza Obama. «Sono stata sorpresa quando mi hanno chiamato. E naturalmente onorata. Il fatto che io porti il velo non ha pesato nella scelta: quello che il presidente vuole è ascoltare le voci dei musulmani, sapere cosa pensano davvero. Per capirli. E per coinvolgere i musulmani americani in una causa comune. Da subito l´impressione è stata che le mie idee, come quelle di tutti coloro che lavorano nel Consiglio, fossero accolte molto seriamente».
Il compito più delicato del consigliere finora è stato quello di tracciare le linee guida per il discorso del Cairo, con cui Obama ha cercato di colmare il divario che otto anni di presidenza Bush avevano creato fra gli Stati Uniti e il mondo arabo: «Ho cercato di pensare cosa era al cuore del conflitto e ho capito che dovevamo parlare di rispetto. E delle scelte politiche degli Stati Uniti che non piacciono ai musulmani. Non dovevamo "vendere" gli ideali dell´America, perché la gente li conosce e li ammira già, come dimostra la ricerca Gallup. Quello che serviva era cambiare approccio: riconoscere l´importanza non della nostra civiltà, ma di quella dei musulmani. La gente nel mondo arabo non aveva bisogno di essere adulata, ma riconosciuta. Di sentire che il loro punto di vista era ascoltato, non ignorato. Ho passato le mie idee a chi scrive i discorsi con il presidente: è stato bello vedere che sono state accolte».
Dopo la gloria sono aumentate le polemiche: già colpita al momento della sua nomina, Mogahed è stata presa di mira in patria per essere apparsa in un programma tv insieme a un membro di Hizbullah Tahrir, un gruppo considerato estremista e per una sua presunta difesa della sharia. «È stata un´esperienza istruttiva - dice lei ora - io parlavo dei risultati della ricerca, e lui li ignorava per sfruttare solo le cose utili alle sue idee. Prima sono stata attaccata da lui, poi da quelli che mi hanno accusato di complicità con gli estremisti: il che dimostra che quanto sia forte il rifiuto di un vero dialogo, basato sui fatti».
Nel mondo arabo intanto si estesa anche a lei la delusione che molti provano nei confronti di Obama, colpevole di molti di non aver sbloccato il processo di pace in Medio Oriente e di aver scelto di inviare nuove truppe in Afghanistan: «Posso capire la delusione - spiega lei - ma quando il presidente si è insediato le aspettative erano così alte che riuscire a soddisfarle tutte era davvero difficile. Io continuo a credere che fra qualche tempo, quando guarderemo indietro a questo momento, lo vedremo ancora come una fase di miglioramento».
Lei la sua parte continua a farla: negli Stati Uniti "Who speaks for Islam?" è diventato un film che, dopo una prima riservata a politici e analisti al Dipartimento di Stato a Washington, sta girando con successo le sale e presto arriverà in televisione. In contemporanea il libro arriva in Europa: «Credo che sia positivo che questo lavoro esca da voi proprio ora - conclude Mogahed - il referendum in Svizzera potrebbe avere effetti anche sul resto del continente, e penso che sia un bene che ci siano dati scientifici a disposizione per smantellare miti infondati come quello di un Vecchio continente che starebbe cadendo nelle mani degli arabi. L´idea di Eurabia non riflette l´evidenza empirica. E inoltre l´Europa ha bisogno di forza di lavoro giovane per spingere l´economia: ed è un fatto che questa forza lavoro è costituita oggi in buona parte da immigrati o da cittadini di seconda generazione, le cui origini sono in paesi musulmani. L´essere una nazione che include, che è aperta al talento e al lavoro, ha reso gli Stati Uniti il paese più importante del mondo. Dovreste pensarci».

Repubblica 9.12.09
Un velo alla Casa Bianca
La nuova consigliera ha risvegliato paure mai sopite su un presidente troppo vicino all´Islam
Le paure dell´ultra-destra "È amica degli jihadisti"
di Vittorio Zucconi

«Allah in casa!» strepitarono i difensori della vera fede e i crociati dell´"obamafobia" quando la videro entrare e non in una casa qualsiasi, ma nella Casa simbolo dell´America, quella Bianca. «La Jihad è penetrata nel governo degli Stati Uniti grazie a Obama», urlò dal suo sito Jihad Watch la sentinella dei fondamentalisti cristiani, Robert Spencer. «L´estremismo islamista ha ricevuto il sigillo ufficiale del Presidente Obama» inorridì il messalino dei neoconservatori, il Weekly Standard, quando Dalia Mogahed, musulmana egiziano-americana di 36 anni, specialista in sondaggi per la Gallup, plurilaureata negli Stati Uniti con una laurea in ingegneria chimica (ahi ahi, la scienza degli esplosivi), autrice di ricerche sulle aspirazioni dell´universo musulmano fu imbarcata, insieme con altre 24 persone, vescovi cattolici e rabbini, pastori luterani e devoti hindu, laici e accademici, nell´ "Ufficio per le iniziative religiose e assistenziali".

Un ufficio voluto da George Bush nel 2001 per carezzare il proprio elettorato cristianista e mantenuto, seppur molto annacquato, da Barack Obama. «Le sue ricerche sono manipolate per dimostrare che i musulmani sono come noi e che la sharia è gradita alle donne», si scandalizzò l´idolo degli islamofobi, il professor Daniel Pipes.
Ma se ogni ricerca troverà sempre detrattori e critici secondo la legge della gelosia accademica, la vera, imperdonabile colpa della signora Mogahed non era dentro la sua testa, ma sopra. Era quel velo, quel hijab che lei indossa. Dalia era la prima «donna velata» che fosse entrata alla Casa Bianca in 200 anni, sia pure dalla porticina di servizio di un carrozzone la cui utilità pratica resta oscura.
L´arruolamento della signora egiziana, trasportata dalla famiglia negli Stati Uniti quando aveva 4 anni, sunnita di confessione, direttrice della sezione Ricerche culturali internazionali della Gallup, non segnalò naturalmente il trapianto della giurisprudenza islamica nel cuore del potere americano. Per ora, sospettano i tremebondi crociati. Il suo ingresso nella commissione di consulenti sarebbe apparso, in tempi e in climi meno surriscaldati, come del tutto normale, in una nazione dove vivono, tra immigrati e convertiti, circa sei milioni di musulmani. E dove svettano in 104 città, da Detroit a Tucson in Arizona, altrettante moschee, complete di quei minareti che ora sconvolgono gli svizzeri.
Neppure l´imputazione di sloppiness, di superficialità contro il suo libro "Chi parla per l´Islam?" scritto con un professore della più autorevole università di Gesuiti americani, la Georgetown di Washington, John Esposito - un cognome che non richiama sospetti etnici - è la motivazione della tenace e stridula ostilità che la accompagna da aprile, per colpire il Presidente con ogni mezzo e con ogni pretesto, dove fondamentalismo religioso e razzismo si combinano e si ricombinano sottilmente e velenosamente, sempre sotto traccia.
L´eresia che ha sconvolto il nuovo dogma della political correctness, del luogocomunismo post 9/11, è l´avere osato sostenere, sulla base dei sondaggi, l´ovvietà, che l´enorme maggioranza dei musulmani è sostanzialmente «come noi».
Quale orrore. Affermare che soltanto pochi milioni di loro sul miliardo abbondante dal Marocco all´Indonesia, (non tutti gli arabi sono musulmani, non tutti i musulmani sono arabi, andrebbe ogni tanto rammentato) chiedono di vivere in pace, aspirano a ciò a cui aspiriamo noi, salute, prosperità, futuro per i figli, libertà individuali e collettive, divertimento, buon governo, dignità, sicurezza, contraddice il primo comandamento della «minaccia islamica».
Ancora più empiamente, questa signora nubile dal bel volto incorniciato ma non velato dallo scialle portato attorno ai capelli come vuole la devozione anche in altre religioni ortodosse, osa sostenere che i precetti di modestia e di non esibizionismo sono accettati da molte musulmane come un libero riconoscimento di valori personali e femminili, prima che religiosi, diversi da quelli dell´occidente cosiddetto cristiano, convertito al velinismo e all´ostentazione sessuale.
Prendere le difese della sharia, cercare di capire, è stato letto immediatamente come un altro indizio da usare nella vera guerra, contro Barack Obama. Le sue cifre sono massaggiate e manipolate, è stato detto, per esagerare quel "moderatismo" che non può esistere nel Corano. Il suo collega e maestro Esposito dirige un centro di ricerche finanziato dai Sauditi, dunque è una quinta colonna. Le sue partecipazioni a talk show televisivi al fianco di noti agitatori estremisti, e la sua amicizia con un imam "moderato" di Detroit poi sorpreso a finanziare il terrore, dimostrano che sotto il velo del moderatismo si nasconde la solita fondamentalista. E´ niente altro che un cavallo di Troia, la signora Dalia Mogahed, che la "Taliban" bionda dalle sensazionali minigonne cara alle tv della ultradestra, Ann Coulter - quella che accusava Clinton di essere «un porco che si masturbava nel lavandino della cucina mentre Hillary ricevava gli ospiti a cena» - ha paragonato a «un ufficiale del KBG assunto alla Casa Bianca durante la Guerra Fredda». Sotto la protezione di un presidente che si chiama, ricordate?, "Hussein". C´è di sicuro un minareto, dopo la piscina di Roosevelt, la pista da bowling di Nixon, i rapanelli biologici di Michelle, nel futuro della Casa Bianca.

Corriere della Sera 9.12.09
La ricerca Uno studio della Fondazione Rosselli mette in evidenza le richieste di chi vuole imparare la lingua
Cresce il numero degli eventi organizzati, ma la distribuzione geografica è da rivedere. Gli esempi della Francia e della Spagna
Una passione (mondiale) per l’italiano
Popolarità in aumento: è la quinta lingua più richiesta Il ruolo e le difficoltà degli 89 Istituti di cultura all’estero
di Dario Fertilio

Uno studio della Fondazione Rosselli, realizzato per il Cor­riere della Sera , porta con sé buone nuove sull’immagine interna­zionale dell’Italia. I dati più confor­tanti riguardano la popolarità e l’inte­resse della nostra lingua: siamo quin­ti nella classifica degli idiomi più ri­chiesti dagli studenti. Il che non cor­risponde, naturalmente, alla diffusio­ne reale (colossi come il cinese o l’hindi viaggiano nell’ordine inarriva­bile delle centinaia di milioni di par­lanti). Ma se consideriamo il numero di coloro che hanno deciso di legge­re Dante o Pirandello nell’originale, oppure per passione culturale o inte­resse economico si sono iscritti ai corsi, ecco che l’onda lunga di cultu­ra, cucina, artigianato, arte di vivere ci porta in alto: seguiamo a distanza, certo, l’inglese (ovvio), lo spagnolo (quasi altrettanto ovvio), e siamo an­che alle spalle del tedesco e del fran­cese; però, subito dopo, ci siamo noi. Da qui la necessità di consolidare una rete adeguata di Istituti di cultu­ra all’estero. Ma la ricerca della Fon­dazione Rosselli fotografa una situa­zione ambivalente: da un lato cre­scenti successi promozionali, oltre al­l’aumento degli studenti; dall’altro ri­tardi strutturali e, ancor più, manca­te riforme. Lo studio mette in eviden­za le crescenti richieste di chi vuole imparare l’italiano: settemila sono i corsi «venduti» dagli Istituti durante il 2007. Risalta l’aumento degli even­ti collegati alla promozione annuale della cultura, la «Settimana della lin­gua italiana nel mondo»: si è passati dai 309 del 2001 ai mille del 2005, si­no a sfiorare i 1600 l’anno scorso (quest’anno la tendenza alla crescita appare confermata). Tuttavia, se si analizza la rete globale degli 89 Istitu­ti, salta agli occhi una distorsione ge­ografica. La maggioranza dei centri culturali (54%) è concentrata in Euro­pa (con una punta di otto nella sola Germania). Un po’ come se la batta­glia politico-culturale si continuasse a combattere lungo la Cortina di fer­ro, e come se non esistessero i pro­grammi Erasmus e uno scambio co­stante fra i cittadini della Ue, si imma­gina ancora che gli avamposti del­­l’Italia debbano trovarsi a Londra, Barcellona o Parigi anziché Rio, Nuo­va Delhi, Shanghai o Kazan. E infatti l’Africa subsahariana ottiene in tutto il 4 per cento delle presenze, quella mediterranea e mediorientale si fer­ma all’11, mentre il blocco Asia-Ocea­nia raccoglie un modesto 10. Bassa in proporzione (21%) la presenza de­gli Istituti di cultura nell’area cultu­ralmente e linguisticamente più affi­ne all’Italia, quella delle Americhe (in molti Paesi, dal Venezuela in giù, l’italiano potrebbe legittimamente aspirare a vedersi riconoscere il ter­zo posto come lingua ambientale, do­po lo spagnolo e il portoghese).

Crescono, insomma, le aspettati­ve, ma l’organizzazione non è all’al­tezza. Un raffronto con i «concorren­ti » (soprattutto inglesi, tedeschi e spagnoli) si conferma problematico. Fuori categoria la Francia, con un nu­mero impressionante di sedi ma una politica linguistica del tutto differen­te, la distribuzione degli enti cultura­li, su scala globale, ci vede lontani dal British Council e dal Goethe Insti­tut, anche se davanti al Cervantes. Re­sta il fatto che la riforma tanto attesa per rilanciare l’azione del nostro Pae­se continua a languire. La Spagna, ad esempio, ha investito molto nel po­tenziamento della sua rete, con l’obiettivo di rafforzare la «strategia Paese». L’Italia, invece, non ha anco­ra messo a punto la sua riforma. Sul­la quale Renato Cristin, che ha guida­to per anni l’Istituto di Berlino tenen­dovi a battesimo Palazzo Italia, ha al­cune idee precise: «Meglio organizza­re meno eventi ma dare maggiore qualità alle manifestazioni; aumenta­re considerevolmente i direttori di chiara fama, con capacità manageria­li e politico-culturali, riducendo il numero dei promossi per anzianità di servizio e in virtù di carriere inter­ne ministeriali; soprattutto è la presi­denza del Consiglio che dovrebbe in­vestire, e mettere il ministro degli Esteri in condizione di includere la cultura italiana all’estero nelle priori­tà strategiche del Paese». E poi sareb­be necessaria un’azione capace di coinvolgere tutti gli enti che oggi ci rappresentano: i ministeri (Esteri, Be­ni culturali, Turismo), ed Enit, Ice, Camere di commercio. L’obiettivo: puntare su un’immagine unica e una rete di alleanze con le istituzioni cul­turali e scientifiche più prestigiose.

Su un punto, invece, i progressi appaiono sensibili: nella capacità de­gli Istituti di conquistarsi finanzia­menti e sponsorizzazioni locali. Pur muovendo da risorse limitate e all’in­terno di un quadro normativo invec­chiato, i direttori degli Istituti sono riusciti complessivamente a svec­chiare l’immagine collettiva del Pae­se. E i dati dimostrano come fra il 2005 e il 2007 sia avvenuta un’inver­sione di tendenza: la crescita dell’au­tofinanziamento ha dapprima avvici­nato, poi quasi pareggiato, infine (nel 2007) superato la cifra comples­siva stanziata dallo Stato. Un dato di cui gli Istituti possono andare orgo­gliosi, soprattutto se accompagnato dall’altro che riguarda il numero del­le sole manifestazioni culturali, cre­sciute del 19 per cento dal 2007 al 2008. Si è passati infatti da 6049 a 7203, ma qui non è tutto oro quello che luccica: perché il moltiplicarsi de­gli eventi potrebbe essere spia di un certo provincialismo. Meglio punta­re sull’eccellenza, ricalcando dove possibile il modello vincente «Italia in Giappone», già replicato nel 2006 in Cina, e negli anni successivi in Vietnam e Corea.

Resta invece irrisolto il problema del ritardo nel promuovere la cultura scientifica e tecnologica. Dovrà esse­re colmato — sottolinea la ricerca— attraverso eventi che mettano a con­fronto scienziati italiani e stranieri, e favoriscano accordi tra università.

Un ultimo capitolo messo in rilie­vo dalla Fondazione Rosselli riguar­da il dialogo proficuo aperto dagli Istituti con le regioni: nel 2008 sette su dieci hanno realizzato manifesta­zioni culturali sul tema delle identità locali. Qui è ormai alle porte un nuo­vo «Brand Italia» variamente articola­to: c’è il turismo accompagnato dal­l’arte enogastronomica, ma anche un nuovo impulso all’esportazione di prodotti locali. L’Emilia-Roma­gna, attraverso un’esposizione sul Made in Italy, ha promosso la produ­zione della moto Ducati a Tokio; la Confartigianato veneto ha organizza­to all’interno dell’Istituto di Ankara un convegno volto alla promozione del tessuto produttivo locale. 


Corriere della Sera 9.12.09
Dove imparare la nostra lingua è una moda
Giappone, scelta per 500 mila
di D. Fert.

Se esiste un libro dei sogni per la cultura italia­na all’estero, questo si trova senz’altro in Giappo­ne: è laggiù che si vede come potrebbe essere la nostra immagine nel mondo, se la sfruttassimo in pieno. Così infatti è avvenuto nel 2001, in occa­sione dell’iniziativa «Italia in Giappone», quando il paese del Sol levante venne inondato da circa ottocento eventi distribuiti su quindici mesi, con più di cento milioni di contatti. O in occasione di grandi mostre: due anni fa, con l’Annunciazione di Leonardo capace di attirare quasi novecento­mila visitatori; o anche quest’anno, con l'esposi­zione sull’impero romano.

Del resto, bastano le cifre attuali degli studenti di italiano — che il direttore dell’Istituto di To­kio, Umberto Donati, fornisce senza enfasi — per rendersi conto della portata indiscutibile del fe­nomeno. Seimila iscritti ai corsi trimestrali orga­nizzati direttamente dall’Istituto, con un occhio particolare all’eccellenza e alla «fidelizzazione» degli studenti, insistendo sugli approfondimenti e sui corsi di cultura avanzata. Poi, a un livello più popolare, ci sono le lezioni di italiano orga­nizzate dalla televisione e radio pubblica Nhk

(più o meno equivalente alla nostra Rai) rispetto alle quali le vendite abbinate dei testi per la gram­matica e gli esercizi fanno ipotizzare (per difetto) l’esistenza di circa duecentomila studenti.

Ancora: ottantamila giovani studiano l’italiano presso scuole e università che ne prevedono l’in­segnamento (sono centoventi). Aggiungiamo du­ecento scuole private in tutto il Paese, dove trovia­mo altri cinquantamila allievi, e infine coloro che scelgono lo studio solitario della lingua, spesso motivato dalla passione per la musica lirica, la cu­cina o semplicemente perché lavorano nei nume­rosi ristoranti italiani (sono tremila nella sola To­kio). Così si arriva a un dato complessivo compre­so fra i quattrocentomila e il mezzo milione di giapponesi che, a vario titolo e in forme diverse, hanno un rapporto con la lingua italiana.

Esaurito il boom degli anni Ottanta e Novanta, si può forse parlare — spiega il direttore Donati — di un calo dei principianti, ma di un sensibile rafforzamento del legame con l’Italia da parte dei progrediti. Non più dunque, come in passato, corsi brevi e immersioni nella lingua per qualche mese soltanto, ma partecipazione attiva a corsi sulla civiltà classica, l’arte, l’opera, la gastrono­mia, la storia, la letteratura. Con alcuni cammei culturali che danno il senso dell’innamoramento giapponese: corsi di ricamo al punto antico per signore, di chitarra per giovani e poi di incisione e gioielleria. E ancora, sessioni di lingua col kara­oke o con il metodo sperimentale della «sugge­stopedia ». Perché quando si ama una cultura — ecco il ful­cro dell’insegnamento che viene dal Sol levante — si ammira tutto ciò che vi è mentalmente asso­ciato: eleganza, bellezza, raffinatezza, il gusto ide­almente «rinascimentale» di vivere. Un sentimen­to abbastanza diffuso da esprimersi visibilmente nel panorama urbano nipponico: l’italiano è usa­to assai spesso nelle insegne degli esercizi com­merciali (ristoranti, bar, negozi) e per battezzare prodotti industriali (l’auto «Serena» della Nissan, i termini «premio», «porte», «passo» per la Toyo­ta; una moto della Yamaha è diventata addirittura «Dio». E non si contano le riviste dai nomi italia­ni: «Uomo», «Ciao», «Grazia», «Viaggio»).

Probabilmente è da qui, da questa passione giapponese e dall’uso non solo pratico della no­stra lingua, che si deve partire per spiegare — co­me sottolinea l’ambasciatore Vincenzo Petrone — il fenomeno degli eventi concepiti dall’Italia ma finanziati prevalentemente sul mercato giap­ponese (soltanto quest’anno per due milioni e mezzo di euro). Succede infatti che i grandi gior­nali come lo Yomiuri Shimbun o le televisioni pubbliche e private organizzino direttamente grandi eventi, si preoccupino di trovare gli spon­sor tra i loro inserzionisti e raggiungano il pareg­gio economico tramite la vendita di biglietti, cata­loghi e merchandising. Significativo qui il ruolo della Fondazione Italia-Giappone, presieduta dal­l’ambasciatore Umberto Vattani, dove convivono enti e aziende pubblici e privati.