lunedì 14 dicembre 2009

l’Unità 14.12.09
«I giovani non vedono più il futuro. Dobbiamo aprire il loro orizzonte»
Il regista: In Grecia la corruzione è un freno per l’economia, bisogna agire subito. Temo un’esplosione sociale, altrimenti, o il collasso
Intervista a Theo Anghelopoulos di Rachele Gonnelli

Non so dire se l’Italia si rispecchia nelle vicende della Grecia moderna o se preferisce rimuovere questo confronto dalla svolta di Salerno in poi. Ricordo ciò che una volta, in Sardegna, mi disse un prete cattolico, un esperto di Dante. Mi disse: la Grecia non esiste e neanche l’Italia, esiste solo una grande civiltà del Mediterraneo. La settimana scorsa durante le manifestazioni dei giovani ad Atene hanno arrestato anche cinque ragazzi italiani. Li ho visti e non erano solo cinque, erano tantissimi. Io dico: a questi ragazzi senza futuro dobbiamo una risposta, una risposta fondamentale per tutti quanti e per la società. È la risposta alla domanda: si può cambiare, si può ancora migliorare, cambiare la nostra vita, il nostro sviluppo? È una domanda che non si può, che sarebbe pericoloso ignorare». Theo Anghelopoulos uno dei più grandi registi al mondo, classe ’35 è stato definito da Antonio Tabucchi «poeta della Storia». Per il passo lieve e insieme mitologico con cui ha nell’ultimo mezzo secolo raccontato del regime dei colonnelli greci, della guerra in Bosnia, della caduta del Muro e dei confini ad Est, della disillusione rispetto al comunismo. Sabato era in Italia per parlare del mito di Ulisse e delle sue collaborazioni con artisti come Marcello Mastroianni, Gian Maria Volontè, Tonino Guerra, lo sceneggiatore che gli consigliarono Fellini e Tarkovskij, davanti a tanti giovani seduti per terra sui tappeti di una sala gelida del palazzo Doria Pamphili a Valmontone, ospite d’onore del 41 ̊ Parallelo, officina culturale ideata da Andrea Satta e dai Têtes de Bois. Si parla di musica popolare «rebetika», cinema e scambi culturali. Ma la Storia urge, con il secondo Natale di scontri di piazza e la Grecia in una crisi economica profondissima, sull’orlo della bancarotta, sotto la lente di osservazione di Bruxelles. Anghelopoulos non aspetta altro che di parlare di questo.
In Grecia si ha l’impressione di una situazione anni Settanta...
«No, anche allora c’era fermento, contestazione da parte degli studenti ma tutte le riunioni si svolgevano nelle case, in segreto. La dittatura non permetteva espressioni pubbliche. Sono passati quarant’anni, non un giorno. C’erano prigionieri, morti, c’era la resistenza ma ci aspettavamo molto dal futuro. Finita la dittatura tutto, pensavamo, sarebbe cambiato. Invece la destra è tornata al potere e il cambiamento non c’è stato. All’epoca speravamo in una luce dopo gli anni del buio invece l’orizzonte si è chiuso e oggi davanti ai giovani non c’è nulla. Questo sfogo, questa rabbia di adesso è per questa mancanza di apertura. È una società che non respira quella greca. La morte, mi correggo l’assassinio di un ragazzo Alexandros Grigoropoulos ucciso dalla polizia ndr è stato la causa scatenante».
La sua lettura è dunque di un moto di disperazione più che di un movimento che formula proposte? «Non ci sono proposte. Ma non ci sono in generale, solo negazioni, continui No».
Eppure nelle manifestazioni del Natale scorso c’era più violenza, la gente sembra diversa, più adulti, con servizi d’ordine più organizzati... «Sì, le cose ora sono più mature. In un anno questo movimento di giovani ha formulato non proposte ancora ma almeno domande, punti interrogativi. Mentre la società greca non più tanto giovane appoggia i giovani, nella stragrande maggioranza riconosce le ragioni di fondo della loro protesta. I partiti della sinistra, Siriza e il Kke, sono con loro, anche se prendendo le distanze dalla violenza e dalle distruzioni di vetrine e bancomat che fanno solo il gioco di chi vuole dare come unica risposta la repressione».
I koukoulofors, gli incappucciati, i Black bloc insomma, chi sono? «La vera domanda è: chi c’è dietro?. Non c’è risposta. I ragazzi portano le felpe con il cappuccio ma ci sono anche provocatori vestiti così che vogliono il caos, in una sorta di strategia della tensione».
Il premier Papandreu mette al primo posto la lotta alla corruzione, è davvero così estesa? «C’è in tutto il mondo ma in una economia debole come quella greca si avverte molto di più come freno. Il giovane Papandreou ha fatto molte promesse, governa da poco, dopo il fallimento del governo corrotto del giovane Karamanlis, ma non abbiamo ancora visto nulla. Deve agire subito o si rischia il collasso. La gente deve uscire dallo sbando, temo un’esplosione sociale. O una rivoluzione».

l’Unità 14.12.09
Parlagli, il pancione ti ascolta
Raccontare e leggere ai bambini non è solo un atto d’amore, migliora le capacità cognitive e affettive dei piccoli e fortifica la relazione con i genitori. E l’editoria si sta adeguando...
di Manuela Trinci

Gli studi La voce della mamma che racconta dà un imprinting d’amore al feto
L’editoria si sta già adeguando: «Legginpancia»,«Legginbraccio» sono alcuni titoli

Leggere ad alta voce fa bene, persino ai lattanti. È un atto d’amore. Ma dopo lo scalpore mediatico suscitato lo scorso anno da una ricerca della Boston University School of Medicine secondo la quale novelle, filastrocche e ninne nanne – sussurrate o canticchiate ai bebé, a partire dai sei mesi migliorano le capacità cognitive ed emotive, arricchiscono il vocabolario, fortificano la relazione fra il bambino e il genitore, le varie «Millanta, la gallina canta», «Ninna nanna, ninna mamma» o «Fate la nanna coscine di pollo», sono diventate quasi garanti di neonati dal futuro «con una marcia in più». Quindi, una volta ricevuto l’imprinting «lettura uguale amore di mamma e papà», i ragazzini coltiverebbero interesse per la lettura e conoscerebbero un accelerazione degli apprendimenti, senza considerare un effetto collaterale a dir poco sorprendente: l'aumento dei libri letti dai genitori e non solo quelli di favole.
Individuata dunque in cantilene, vezzeggiamenti e lallazioni che si accompagnano anche alle pratiche di accudimento la preistoria del raccontare-ascoltare storie, la parola d’ordine che oggi rimbalza di culla in culla sino agli autorevoli siti Nati per Leggere, Reach out and read o il Bookstart, è diventata: per comunicare non è mai troppo presto!
Catturati così, un po’ tutti, da una divertente vertigine delle origini, le mamme in attesa, le storie, hanno iniziato a leggerle alle pance. D’altra parte, sappiamo bene come l’udito sia tra i sensi a distanza, parimenti a vista e olfatto, tra i primi a essere utilizzati dal feto. Immerso in un bagno di suoni primordiali il nascituro, dopo che il suo orecchio si sia formato e sia funzionante, sente e ben riconosce la voce della mamma. Da parte loro i genitori, con parole di latte, si allenano a... scaldare la voce.
LIBRI & BIBERON
Legginpancia e Legginbraccio, Racconti col pancione, Letture... nel marsupio, sono alcuni dei titoli che girano e rigirano fra biblioteche e corsi di preparazione alla nascita, dalla biblioteca delle Oblate di Firenze a quella di Cuneo, dal Centro Nascita di Sassari all’Ospedale di Chieri sino all’Umberto I di Torino, in una inedita, utilissima, intersezione interdisciplinare fra bibliotecari, ostetriche, pediatri e psicologi.
Inserire, allora, un libro nel corredino – fra biberon, camiciotti e carillon – è l’idea che la Franco Panini Editore ha recentemente lanciato con la linea ZEROTRE, librini da magiare, accarezzare, stropicciare ammollare e da portare nel lettino, nel passeggino o in pancia...
Insomma: toccare per credere!
E nenie e filastrocche provenienti da tutte le parti del mondo sono pure al centro di un’interessante esperienza bolognese voluta fortemente dal Centro Clinico per la Prima Infanzia; un servizio, che fa parte dell’Area di Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza del Dipartimento di Salute mentale, dell’AUSL di Bologna.
Bell’esempio di buona sanità, Voci InMusica è, di fatto, un gruppo interculturale di musica per mamme-in attesa o con piccolissimi bambini che risponde a criteri di prevenzione nei quali è la musica a farsi ponte, mediatore culturale, straordinario momento di meticciatto, che favorisce un’atmosfera rasserenante, una comunanza fisica ed emotiva fra differenti storie personali e valori sociali.
In effetti, per la maggior parte delle famiglie migranti, manca una «rete» sociale. In tale maniera, le mamme, lontane dalla loro terra, sradicate dalle proprie abitudini e dai propri modelli relativi all’accudimento, vivono spesso in solitudine sia il periodo della gravidanza sia i primi momenti della vita del piccino, trovandosi magari, poi, a disagio nel ruolo di madre esule.
Materiali sonori alternativi, libri musicali con raccolte indigene di filastrocche, sollecitano e coinvolgono, in una pluralità di stili, le neo-mamme presenti che condividono con il gruppo canti e musiche facenti parte della loro esperienza, dei loro luoghi, della loro infanzia. I fili delle storie si ritessono e i piccoli incontrano infanzie lontane, nostalgie e delusioni e speranze in un futuro dalle frontiere mobili, libero. Come libere sono le storie.
Perché la madre che legge o canta al bambino una storia, parla con lui, parla del mondo... proprio come scriveva Gianni Rodari.

l’Unità 14.12.09
Dal Medio Oriente alla Siberia, la marcia di Homo Sapiens
Su Science la ricerca degli scienziati di 11 paesi. Studiando il Dna di 73 popolazioni asiatiche ribaltano teorie consolidate. Ma la notizia è anche un’altra: pure loro, gli scienziati, per la prima volta sono tutti asiatici.
di Pietro Greco

80.000 anni fa fu un’unica migrazione a popolare l’intera Asia
93 genetisti per la ricerca. Per la prima volta un team tutto asiatico

L’Asia, il più grande e popoloso continente del mondo, è stato colonizzato per la prima volta da Homo sapiens con un’unica grande ondata migratoria che, partita dal Medio Oriente (e prima ancora dall’Africa), ha costeggiato il subcontinente indiano, conquistato i grandi arcipelaghi dell’Indopacifico, si è estesa a nord, giungendo in Cina e dilagando, infine, nelle gradi steppe siberiane. La grande spinta iniziale ha dato poi vita a una grande diversificazione (pur nell’ambito della sostanziale omogeneità della specie umana): nella sola Indonesia, ancora oggi si contano 300 popolazioni diverse. E nelle Filippine sono 180. Come è nata tanta diversità? Da un evento iniziale unico. La storia della conquista umana dell’Asia è stata ricostruita da un gruppo di 93 genetisti, appartenenti a 40 istituzioni di 11 paesi, che ha esaminato il Dna di 1.900 persone rappresentative di 73 popolazioni asiatiche. Di ciascuno l’equipe ha esaminato 50.000 SNP (polimorfismi del singolo nucleotide). Ovvero siti genetici dove una singola mutazione determina una forma (allele) alternativa di un medesimo gene. Lo studio di questa enorme massa di dati ha consentito di verificare non solo la (ormai scontata) omologia tra diversità genetica e diversità linguistica, ma anche che la diversità diminuisce spostandosi dal sud verso il nord dell’Asia e che tutte le variazioni presenti a nord sono presenti anche al sud (ma non viceversa). Il che significa, appunto, che il nord del continente è stato colonizzato da popolazioni provenienti dal sud.
UNA PARTITA PLANETARIA
In realtà, il team – che ha pubblicato i risultati della sua ricerca sull’ultimo numero di Science – ha potuto stabilire che la colonizzazione dell’intera Asia è avvenuta sulla spinta di una singola ondata migratoria che ha seguito il tragitto che abbiamo già descritto. Con ciò falsificando due vecchie teorie che non hanno retto alla prova. La prima sosteneva che l’Asia era stata colonizzata mediante due flussi migratori, uno a sud e l’altro a nord. La seconda, invece, proponeva una singola ondata di uomini che si sarebbero inoltrati nelle steppe dell’Eurasia, avrebbero raggiunto le coste del Pacifico e poi colonizzato il sud del continente. Oggi sappiamo che è andata in un altro modo (anche se non sappiamo dire con esattezza quando è avvenuta la grande spinta migratoria dal Medio Oriente: probabilmente è iniziata intorno a 80.000 anni fa). Ma la ricerca pubblicata su Science è importante anche per un’altra ragione. I 93 scienziati di 40 istituzioni di 11 paesi diversi sono, a loro volta, tutti asiatici. Non era mai avvenuto prima, in una ricerca di così vasta portata in genetica delle popolazioni. E il fatto è la dimostrazione più convincente che il grande continente è diventato uno dei poli importanti della ricerca scientifica mondiale, anche nei settori della ricerca di base. La scienza sta diventando sempre più una partita giocata su un campo grande quanto il mondo intero.❖

Repubblica 14.12.09
Contro la violenza per la libertà
di Ezio Mauro

Hanno colpito Berlusconi. L´immagine del volto del Premier trasformato in una maschera di sangue raggiunge tutti noi con la sua carica di violenza. Con la follia che trasforma un uomo in simbolo da abbattere ad ogni costo e con ogni mezzo, e la persona che diventa un bersaglio fisico. Il film drammatico di piazza Duomo farà il giro del mondo, testimoniando il degrado dello scontro politico in Italia. Ma per una volta, non è questo che conta. Conta l´effetto su ognuno di noi, sul Paese, sul sistema politico.
Amici e avversari, sostenitori e oppositori oggi devono essere solidali con il premier – come siamo noi – e senza alcun distinguo, nel momento in cui è un uomo colpito dalla violenza. E devono fare muro contro l´insania di questo gesto, prima di tutto perché è gravissimo in sé e poi perché può incubare una stagione tragica che abbiamo già sperimentato, negli anni peggiori della nostra vita.
Solo così la politica (che la violenza vuole ammutolire) può salvarsi, ritrovando il suo spazio e la sua autonomia, nella quale è compreso il confronto durissimo tra maggioranza e opposizione e anche lo scontro di opinioni, programmi e strategie. Ma distinguendo, sempre, tra le critiche e l´odio, tra il contrasto d´idee e la violenza, tra le funzioni e le persone.
Anche se il gesto di piazza Duomo è fortunatamente isolato e frutto di follia, in gioco c´è niente meno che la libertà. La libertà di Berlusconi di dispiegare le sue politiche e le sue idee coincide con la nostra stessa libertà di criticarlo. Questo spazio di libertà si chiama democrazia: difendiamola.

Repubblica 14.12.09
L’identità al tempo di Google
di Stefano Rodotà

Come si può oggi rispondere all´antica domanda «Chi sono»? Fino a ieri, sia pure tra molte cautele, si poteva ben dire «io sono quello che dico di essere». Ma siamo ormai entrati in un tempo in cui sempre più si dovrà ammettere «io sono quel che Google dice che io sono». E lì, in quello sterminato catalogo del mondo e nelle infinite altre banche dati che implacabilmente conservano informazioni personali, viene costruita la nostra identità, in forme che sempre più sfuggono al controllo dello stesso interessato.
Sapevamo forse da sempre che lo sguardo dell´altro contribuisce a definire la nostra identità. Scriveva Sartre che «l´Ebreo dipende dall´opinione sulla sua professione, sui suoi diritti, sulla sua vita». Questa dipendenza è cresciuta in modo determinante negli ultimi trent´anni, da quando l´elettronica non solo ha reso possibile raccogliere e conservare una quantità tendenzialmente infinita di dati, ma soprattutto consente di ritrovarli fulmineamente, di metterli in rapporto tra loro, e così di tracciare profili che diventano gli strumenti attraverso i quali ciascuno di noi viene conosciuto, valutato, continuamente ricostruito. L´identità "digitale" prende il sopravvento, rischia d´essere il solo tramite con il mondo, ponendo problemi prima impensabili. Poiché la nostra esistenza sta diventando un flusso continuo di informazioni, un´infinità di rivoli che vanno nelle più diverse direzioni, non solo l´identità si conferma sempre mutevole, ma rischia di divenire completamente instabile, affidata com´è ad una molteplicità di soggetti, ciascuno dei quali costruisce, modifica, fa circolare immagini di identità altrui.
Chiunque si trovi ad avere una biografia su Wikipedia, la grande enciclopedia in rete costruita attraverso il contributo di tutti quelli che vogliono intervenire, sa che è buona norma tenerla sotto controllo, per correggere errori, eliminare invenzioni, integrarla con elementi che gli autori hanno ritenuto irrilevanti, proprio per evitare che sia proiettata sul mondo una falsa identità. Un affare di pochi? Consideriamo, allora, la comunicazione elettronica nel suo insieme, quella che coinvolge tutti, bambini compresi, e che si realizza attraverso il telefono fisso e mobile, gli sms, la posta elettronica, gli accessi e la presenza su Internet. Di tutto questo rimangono tracce, conservate per legge anche per lunghi periodi. Il risultato? La possibilità di ricostruire l´intera rete delle relazioni di una persona (a chi ho telefonato o mandato sms o messaggi di posta elettronica, e con quale frequenza), dei suoi spostamenti (da dove ho chiamato), dei suoi gusti (a quali siti accedo), delle sue opinioni o credenze (con quale partito o chiesa sono in contatto). Si dice, però, che in questi casi la garanzia è offerta dal fatto che non vengono conservati i contenuti delle conversazioni o dei messaggi (anche se non è sempre così). Ma questa apparente garanzia nasconde un rischio grandissimo. Facciamo un confronto con il tema controverso delle intercettazioni. In questi casi, se ho parlato con una persona implicata in vicende poco chiare o illegali, posso sempre dimostrare che la conversazione era del tutto estranea alla materia dell´indagine. Se, invece, dal tabulato telefonico risulta soltanto il fatto della chiamata, rimane il sospetto di un contatto equivoco. Non a caso grandi associazioni europee per la difesa dei diritti civili stanno chiedendo all´Unione europea proprio la modifica delle norme sulla conservazione di questi dati.
Sta cambiando la natura stessa della società, che si trasforma in "società della registrazione", dove per ragioni di sicurezza o interessi di mercato si determina una ininterrotta schedatura di tutto e di tutti. Accade così che tutti vivano in un universo dove brandelli dell´identità di ciascuno sono sparsi in banche dati diverse. Così l´identità diventa multipla; si articola attraverso il presentarsi sulla scena del mondo con una molteplicità non solo di pseudonimi, ma di rappresentazioni di sé; conosce gradi diversi di persistenza pubblica, che variano a seconda dell´intensità con la quale viene riconosciuto un "diritto all´oblio", legato soprattutto alla possibilità di far scomparire dalla rete informazioni che ci riguardano. E la libera costruzione della personalità si collega sempre più ampiamente al "diritto di non sapere", di bloccare l´arrivo di informazioni sgradite. Una libertà che potrà essere meglio garantita dal nuovo "diritto a rendere silenziosi i chips", cioè dal potere della persona di disporre di strumenti tecnologici che possono in qualsiasi momento interrompere le diverse forme di raccolta delle sue informazioni personali attraverso apparati elettronici, affrancandosi così da controlli esterni. Appare evidente che l´identità si definisce sempre più nettamente in base al rapporto tra persona e tecnologia, alla progressiva immersione in un ambiente popolato da "oggetti intelligenti", che forniscono infinite informazioni sui nostri comportamenti.
Ma cambia anche il significato "relazionale" dell´identità. Le reti sociali, emblema dell´Internet 2.0, incarnano questo mutamento. Si va su Facebook per essere visti, per conquistare una identità pubblica permanente che superi il quarto d´ora di notorietà che Andy Wahrol riteneva dovesse divenire un diritto di ogni persona. Si alimenta il "pubblico" per dare senso al "privato". Si esibisce un insieme di informazioni personali, il "corpo elettronico", così come si esibisce il corpo fisico attraverso tatuaggi, piercing e altri segni d´identità. L´identità si fa comunicazione.
Ma che cosa accade a questa identità tutta rovesciata all´esterno? Essa diventa più disponibile per chiunque voglia impadronirsi di un numero sempre crescente di informazioni che ci riguardano, raccolte in luoghi talora irraggiungibili e utilizzate da soggetti talora ignoti. L´identità rischia di farsi "inconoscibile", la sua costruzione obbliga a un interrotto peregrinare in rete, per scoprire chi parla di noi, per impedire abusi. Ma lungo questo cammino scopriamo come possa divenire vana la pretesa del "conosci te stesso".
La costruzione dell´identità, dunque, si effettua in condizioni di dipendenza crescente dall´esterno, dal modo in cui viene strutturato l´ambiente nel quale viviamo, dal "digital tsunami" che si sta abbattendo su di noi, che alimenta la bulimia informativa di organismi di sicurezza e di attori del mercato, tutti vogliosi di impadronirsi della crescente quantità di informazioni che può essere prodotta da ogni contatto che stabiliamo, da ogni oggetto che adoperiamo. Da qui nasce una ininterrotta produzione di "profili" personali, che stabiliscono confronti con modelli di normalità e spingono ad assumere una identità "obbligata", necessaria per l´accettazione sociale, per sfuggire a stigmatizzazioni o a costi nell´attività quotidiana.
Proprio per evitare questi condizionamenti, si progettano forme di identità funzionali, che comunicano all´esterno solo quella porzione di identità strettamente necessaria per la realizzazione di un determinato risultato. Partendo della premessa che siamo ormai nel mondo delle identità multiple, la persona dovrebbe poter autonomamente gestire un profilo riguardante la salute, un altro per l´acquisto di beni e servizi e così via, dunque una "rete di identità" che eviti i rischi connessi al doversi rivelare integralmente all´esterno.
Ma proprio il requisito dell´autonomia rischia di essere cancellato dalle sperimentazioni sull´"autonomic computing". Si può, infatti, creare uno schema che "cattura" l´identità in un determinato momento e poi la sviluppa in base ad una serie di informazioni fornite da una molteplicità di fonti, senza partecipazione e consapevolezza da parte dell´interessato. La separazione tra identità e autonomia può così divenire totale. Si parte da una identità "congelata", che viene poi affidata a algoritmi che ne costruiranno il futuro. Possiamo chiudere gli occhi di fronte a questa prospettiva, dimenticando che la logica dell´algoritmo onnisciente è tra le cause della devastante crisi finanziaria?

Repubblica 14.12.09
I minareti e la “sindrome svizzera"
di Timothy Garton Ash

Così Nicolas Sarkozy, in risposta al no svizzero ai minareti, ci invita a praticare la fede con "modestia e discrezione". Sentirsi raccomandare modestia e discrezione da Sarkozy è come farsi consigliare un abbigliamento sobrio da Lady Gaga, udire l´elogio della fedeltà coniugale dalla bocca di Tiger Woods o l´invito a sacrificare i propri interessi da parte di un banchiere.
Ma il volubile presidente francese ha ragione quando dice dalle pagine di Le Monde che non basta limitarsi a condannare l´esito del referendum svizzero, ma che bisogna cercare di capirne le motivazioni e di valutare quanto questo risultato sia specchio dell´Europa di oggi. Come è possibile che in un paese con quattro soli minareti il 57 per cento dei votanti su un´affluenza alle urne pari al 53 per cento - in altre parole più di un quarto dell´elettorato svizzero - abbia voluto introdurre il divieto di costruire minareti?
Il voto è stato forse influenzato dai manifesti provocatori con i minareti a mo´ di missili sulla bandiera svizzera, accostati alla minacciosa figura di una donna velata? O da ridicole argomentazioni come quelle avanzate da Oskar Freysinger, del partito popolare svizzero, secondo cui «la presenza di minareti in Europa significherà che l´Islam avrà preso il sopravvento». Secondo questa logica Spagna e Gran Bretagna sono già paesi islamici. Si è trattato di un´espressione dell´"islamofobia" dilagante, che trova bersagli diversi a seconda dei paesi, ma fondamentalmente inocula lo stesso veleno sotto pelle? O è stata solo ansia? Gli svizzeri si sono chiesti: la nostra società è cambiata così in fretta - dove andremo a finire?
Che sia chiaro: è stato un voto sbagliato sia in linea di principio che a livello politico. La Corte Europea dei diritti umani rileverà con ogni probabilità la violazione del principio di libertà religiosa per come viene interpretato nell´Europa del ventunesimo secolo. La libertà religiosa non può esprimersi così: noi cristiani ed ebrei abbiamo le nostre chiese e le nostre sinagoghe, ma voi musulmani non potete avere le vostre moschee. La vostra religione è tollerabile fino a che viene praticata solo da adulti consenzienti in privato. Significa spostare le lancette dell´orologio della tolleranza di trecento anni indietro, ad un tempo in cui i protestanti nella cattolica Francia non potevano praticare il culto pubblicamente. Ovvio che le norme urbanistiche e la realtà paesaggistica vanno rispettati. Ma il voto svizzero non riguardava i piani urbanistici.
C´è chi ribatte che molti paesi islamici non consentono la costruzione di chiese cristiane. Perché allora i paesi europei dovrebbero permettere agli islamici di erigere minareti? È come dire beh, in America c´è la pena di morte, perché quindi in Italia non si condanna alla sedia elettrica Amanda Knox? Oppure: in Arabia Saudita lapidano le adultere, perché noi non dovremmo torturare gli arabi? In molti paesi a maggioranza musulmana è diffusa l´intolleranza verso i cristiani, gli ebrei ed altri gruppi religiosi (Bahai, Ahmadiyya ecc.) e, non da ultimo, verso gli atei, ma le nostre critiche a tale intolleranza sono credibili solo se in patria mettiamo in pratica i principi universali che predichiamo all´estero. Come disse un tempo qualcuno: fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Il voto che vieta i minareti è sbagliato non perché in Europa non esistano problemi legati ai musulmani. È sbagliato perché i problemi legati ai musulmani in Europa sono tanti. Dobbiamo decidere quali contino davvero e quali siano di secondaria importanza.
Sul versante musulmano esiste ad esempio il problema dell´estremismo radicale e quello dell´illiberalismo reazionario (vedi il trattamento riservato alle donne in alcune comunità conservatrici musulmane). Sul versante non musulmano si evidenzia la tendenza a fare di tutta l´erba un fascio, condensando problematiche relative al terrorismo, all´immigrazione, ai richiedenti asilo, alla disoccupazione e alla criminalità nella paura dell´"Islam". Il peggio che può capitare è la polarizzazione attorno a due tematiche puramente simboliche, con una parte, costituita quasi interamente da non musulmani che grida all´"Islam" e l´altra, costituita quasi interamente da non musulmani che risponde "islamofobia".
La Svizzera mostra quale è il rischio di scivolare in una guerra culturale, un Kulturkampf, che non tocca il nocciolo del problema. Il nocciolo del problema non è l´Islam o l´anti-Islam, non sono i minareti e il velo, ma gli elementi essenziali a garantire una società libera: libertà di parola; diritti umani; sicurezza personale contro il terrorismo, la criminalità e il potere arbitrario dello stato; eguaglianza davanti alla legge di uomini e donne, ricchi e poveri, fedeli di ogni credo e non credenti; scuole in cui i principi e i valori di un paese libero siano appresi e interiorizzati da bambini di ogni provenienza, qualunque tipo di insegnamento ricevano o non ricevano a casa.
Non tutti i musulmani saranno sempre in grado di sostenere tutti i requisiti essenziali di una moderna società libera. Esiste reale tensione tra alcuni di questi requisiti (ad esempio la parità di diritti e dignità degli omosessuali) e gli insegnamenti normalmente impartiti nelle comunità tradizionali conservatrici musulmane. Ma la maggioranza dei musulmani europei li sosterranno nella maggioranza delle occasioni. Non dobbiamo permettere che i battibecchi totemici su minareti e veli oscurino la battaglia che conta davvero.
www. timothygartonash.com
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere della Sera 14.12.09
Repressione. Voci a Teheran di arresto imminente per Mousavi e Kharrubi
«I nemici della Repubblica islamica sono come schiuma sull’acqua»
Iran, la rabbia di Khamenei «L’opposizione va eliminata»
di Viviana Mazza

Dopo il caso del poster di Khomeini bruciato in strada

Un monito duro. Un ultima­tum ai leader dell’opposizione. «Alcuni hanno trasformato la campagna elettorale in una cam­pagna contro l’intero sistema», ha detto ieri la Guida suprema Ali Khamenei in un discorso mandato in onda dalla tv di Sta­to. «Hanno violato la legge, orga­nizzato rivolte e incoraggiato la gente a opporsi al sistema», ha incalzato. «Ma i nemici della Re­pubblica islamica sono come schiuma sull’acqua e saranno eli­minati. Ciò che resterà sarà il si­stema islamico». Pur senza no­minarli, il leader religioso, politi­co e militare dell’Iran ha ordina­to ai rivali di Ahmadinejad, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Kar­roubi, che 6 mesi dopo le elezio­ni accusano ancora di brogli il presidente, di desistere. O saran­no puniti. Minacce che alimenta­no le voci, diffuse da giorni, sul­l’arresto imminente dei due e su misure contro gli ex presidenti riformisti Khatami e Rafsanjani. Khamenei ha affermato che come risultato delle loro azioni, l’immagine del fondatore della Repubblica Islamica Ruhollah Khomeini è stata dissacrata («stanno apertamente violando la legge, hanno insultato l’Imam») e ha chiesto alle autori­tà di identificare i colpevoli. Do­po le ultime proteste degli stu­denti, il 7 dicembre, la tv di Sta­to ha mandato in onda più volte un filmato nel quale un presun­to manifestante brucia l’immagi­ne di Khomeini, crimine punibi­le con due anni di carcere. Sullo sfondo si sentono slogan dell’op­posizione, ma del «colpevole» si vedono solo le mani. L’opposi­zione dice che è un falso, realiz­zato per screditarli. «Sappiamo tutti che gli studenti amano l’Imam e sono pronti a sacrifica­re la vita per i suoi obiettivi», ha dichiarato Mousavi. «È una scu­sa per reprimere l’opposizione usando il nome e la reputazione dell’Imam», ha detto Karroubi.
Secondo i siti riformisti, du­rante una riunione nell’ufficio della Guida Suprema sabato se­ra, il «fronte» dei Pasdaran e di Ahmadinejad gli avrebbe chiesto l’arresto di Mousavi e altri leader per mettere fine alle proteste: al­cuni sostengono che potrebbe av­venire prima dell’Ashura (26-27 dicembre), per evitare che l’oppo­sizione usi le processioni in me­moria dell’Imam Hussein per scendere in piazza. Un’obiezione sarebbe però stata sollevata: arre­starli ne farebbe dei martiri, pro­prio come Hussein. Entrambi i fronti rivendicano infatti gli stes­si simboli. I Pasdaran, responsa­bili della repressione, chiedono che chi ha insultato Khomeini (e «chi sta dietro le quinte») sia pro­cessato e punito. Il procuratore di Teheran Jafari-Dolatabadi ha avvertito: «Nessuna pietà per chi ha offeso l’Imam». Ma l’Istituto di Khomeini, gestito dalla sua fa­miglia, mette in dubbio l’autenti­cità del filmato. E Mousavi ha sempre criticato la politica estera ed economica di Ahmadinejad chiedendo però come il rivale il ritorno ai «valori fondamentali» di Khomeini. Ieri sia gli studenti conservatori che quelli anti-go­vernativi protestavano stringen­do l’immagine del fondatore del­la Repubblica islamica.
Allo stesso tempo, però, il mo­vimento nato come critica con­tro i brogli si sta trasformando — nelle piazze almeno — in una sfida sempre più radicale al siste­ma. Mentre Khomeini è riverito, la piazza ha gridato «Morte» al suo successore Khamenei, bru­ciandone e calpestandone il vol­to. Lui invita i leader a prendere le distanze dalla piazza. Non una mano tesa, ma un ordine. «Le elezioni sono finite, sono state le­gali », ha ribadito, chiamandoli «ex fratelli», ammonendo che «il sistema giudiziario deve com­piere il suo dovere». «Qualcosa sta per accadere», avvertiva il si­to di Mousavi, Kaleme , invitan­do i sostenitori a scendere in piazza se dovesse essere arresta­to.

Corriere della Sera 14.12.09
Il retroscena La strategia del regime per reprimere l’Onda Verde
Quei dissidenti trasformati in contro-rivoluzionari
di Guido Olimpio

WASHINGTON — Il regime ira­niano è pronto a sferrare un nuovo colpo di maglio sull’opposizione. E per renderlo più accettabile a quei cittadini che fino ad oggi sono rima­sti neutrali ha bisogno di un prete­sto. Che trasformi gli avversari da contestatori in contro-rivoluziona­ri, contro i quali tutto è lecito. A questo serve il caso delle immagini di Khomeini bruciate dagli studen­ti. Un episodio che può essere attri­buito alla dissidenza ma che ha an­che gli indizi della provocazione. Un pericolo avvertito dagli uomini di Mousavi, il tenace avversario del presidente Ahmadinejad: attenzio­ne — hanno avvisato ieri — sta per accadere qualcosa.

La sfuriata del leader Ali Khame­nei, i moniti dei pasdaran e gli attac­chi del ministro dell’Intelligence contro l’ex presidente Rafsanjani rappresentano la preparazione del terreno. Nervosi per una contesta­zione che non muore, preoccupati per il confronto sul nucleare, consa­pevoli delle fratture interne, Ahma­dinejad e la Guida hanno raddoppia­to gli sforzi per adottare le contro­misure. Sul piano politico puntano a mettere fuori legge chi non li ac­cetta presentandoli come personag­gi capaci di minare le fondamenta della Rivoluzione islamica. Giochet­to vecchio quanto le cariatidi con il mantello ma che funziona sempre.

La storia del Paese — come con­ferma Ali Karbalai, un esponente del dissenso in Italia — è ricca di episodi in questo senso. Dal miste­rioso incendio del cinema Rex ad Abadan (1978, 500 morti) usato per incitare alla rivolta contro lo Scià al­l’affare Rushdie cavalcato da Kho­meini passando per attentati attri­buiti a questo o a quel gruppo di ter­roristi.

Sul piano della sicurezza hanno perfezionato l’apparato repressivo. Nuovi incarichi per pasdaran e le milizie affiliate, dai basiji agli Hezbollah. Al minimo accenno di di­mostrazione, la parola passa a col­telli e spranghe. Bastonature segui­te da arresti indiscriminati. Deten­zioni accompagnate da torture. A occuparsi dell’opposizione c’è la ne­onata «Organizzazione per l’Intelli­gence » dei guardiani. In quest’ambi­to i pasdaran hanno creato un’unità specializzata nella «guerra» su Inter­net, rivelatosi fondamentale per i se­guaci di Mousavi nel diffondere in­formazioni alternative.

Fonti Usa non escludono che il re­gime abbia anche ingaggiato hacker stranieri (in particolare russi) per bloccare siti e comunicazioni. Inten­sa l’attività di disturbo verso tv e ra­dio che dall’estero trasmettono ver­so l’Iran. Sempre i pasdaran sono pronti a lanciare una loro divisione «media», con un’agenzia che diffon­derà informazioni a getto continuo. Mentre 6 mila basiji hanno aperto se­zioni nelle scuole in modo da forgia­re, fin da piccoli, i «balilla» degli ayatollah. Una guerra culturale e un grande bavaglio che anticipano, pro­babilmente, una grande randellata sulla testa di chi osa sfidare un regi­me vergognoso.




Speranze laiche Una meditazione sulla creazione e la natura della realtà, dalla Bibbia a Sant’Agostino, alle contraddizioni di oggi

Corriere della Sera 14.12.09
La favola che aiuta a vivere
Il mistero di Dio e quello del Male ci permettono di sfuggire al Nulla
di Raffaele La Capria

Che faceva Dio prima di crea­re il mondo? Se lo doman­dava anche Sant’Agosti­no. Ma quando si parla di Dio non si può usare la parola «prima», per­ché questa parola ha a che fare col tempo e quando si dice Dio si dice eterno, infini­to.

Si dice senza tempo e incollocabile nel tempo. E comunque se vuoi rispondere in termini umani a una domanda che non prevede termini umani, alza gli occhi al cielo in una notte stellata. «A che tante fa­celle? », ti domanderai. Le hai mai contate? Sono milioni, miliardi, sono infinite an­ch’esse come chi le accese. Se Dio creò il mondo in sette giorni, come dice la Bib­bia, e se ci mise altrettanto per creare ogni stella, quelle che vediamo e quelle che non vediamo, infinito come le stelle sareb­be il suo creare. E dunque prima di creare il nostro mondo Dio faceva quel che fa ora, quel che sta da sempre facendo, per­ché Dio è eterna e continua creazione, e chissà cosa ci mise in ogni stella e cosa ora ci sta mettendo. Nella nostra mise la luce e la distinse dalle tenebre, ci mise il mare e i pesci, la terra gli animali e le piante, il cie­lo e gli uccelli, il sole, la luna e tutto il cor­teo dei pianeti che ci accompagna. Nelle altre stelle non possiamo neppure immagi­nare cosa ha messo, ma saranno cose mira­bili come quelle che ha creato nel nostro mondo, mirabili come l’uomo che le con­templa e ci ragiona, vedendo in esse la ma­no di Dio. Ecco, ora una stella cade e lascia dietro di sé una polverina luminosa nel cie­lo notturno e mentre questa cade un’altra chissà dove sta nascendo, perché la crea­zione non è mai compiuta e avviene di con­tinuo, non si ferma mai. Se si fermasse ci sarebbe il Nulla e il Nulla è ciò che è im­pensabile, è il contrario di Dio che invece è pensabile, tant’è vero che io ora sto pen­sando. Se il nulla fosse pensabile sarebbe come cancellare l’esistenza del Dio Creato­re e questo è impossibile perché la sua cre­azione è sotto gli occhi di tutti.

Ecco, è questa la favola che mi sto rac­contando, la favola in cui credo e che mi sostiene, la favola che ognuno si racconta secondo la propria fede.

Ma a turbarla subentra un altro pensie­ro che suscita tremore e terrore: non sia­mo portati a pensare Dio un po’ troppo a nostra immagine e somiglianza? A pensar­lo come un Divino Artista che ha i nostri sentimenti di amore e giustizia? Ma se non fosse così? Se fosse soltanto terribile? Cioè quel Dio che ha creato la gazzella ma anche lo scorpione, ciò che chiamiamo Amore e ciò che chiamiamo Orrore, ciò che diciamo Buono e ciò che diciamo Catti­vo. Ci ama questo Dio o siamo per lui co­me le formiche che spazziamo via con un gesto senza pensarci un momento? A volte sembra che ci ami, a volte no. È volubile questo Dio o è distratto? Ad Auschwitz cer­to era distratto, e non solo lì.

Quante volte gira la testa da un’altra par­te e non vede le cose atroci che accadono. Lo dissero anche i soldati romani a Cristo inchiodato sulla croce: dov’è il tuo Dio? Perché non viene a salvarti? E Cristo inva­no lo chiamò nell’agonia: padre, padre, perché mi hai abbandonato? Eli, Eli, lam­ma sabactani ! Già, perché tante volte ci ha abbandonati nell’agonia? Glielo chiese an­che Giobbe e non ebbe risposta. È lì il mi­stero, nel silenzio di Dio. Forse se Dio non risponde — mi dico a volte — è perché sta combattendo. Credi che per far crescere una pianta o il cervello di un uomo e i suoi nervi o un piccolo fiore dei campi di cui nessuno si accorgerà mai, non sia necessa­rio il suo combattimento? «La forza che preme nel gambo e scoppia nel fiore» non è il Dio combattente della Creazione Conti­nua? E la forza che piega quel fiore e lo fa appassire non è sempre Lui? E chi fa vivere le cellule che distruggono il corpo di una persona amata, non è sempre Lui? Creare può essere continua presenza ma anche continuo dolore, il Suo e il nostro. Il dolo­re dell’uomo o di un animale, il destino di un povero pollo di batteria o di un vitello portato innocente al macello fa parte della creazione.

Ma fa parte della creazione che ogni cre­atura vivente per continuare a vivere debba uccidere un’altra creatura vivente, e man­giarla, masticarla, ridurla in poltiglia in un bolo disgustoso, ingerirla ed espellerla co­me escremento? Chi ha inventato tutto que­sto? E come mai tutto questo «si tiene» e non collassa? Non sprofonda nelle tenebre e nel gelo? Questo mi fa paura e mi sconcer­ta, è il contrario di quell’armonia che pur immagino e che tante volte mi è stato con­cesso di scoprire nelle cose create. Tutto questo mi trascende e forse è inevitabile mi dico, ma perché? Tutto questo non ha risposta. Ed è parte del miste­ro-che-non-ha-risposta l’intreccio inestri­cabile di bene e male che forse è implicito nella creazione, perché la forza che crea è la forza che distrugge ed entrambe forse so­no necessarie alla vita.

Ma a me questo non basta, perché se Dio fosse tutto questo, io mi sentirei un ca­suale accidente del creato. Nella realtà mi considero invece un uomo rispettoso del Suo mistero, ma una risposta la vorrei. E la vorrei non solo per me, ma anche per l’asi­no legato alla ruota del mulino, per il bue e per il maiale. Vorrei la risposta a questa do­manda: la sofferenza e il dolore sono inuti­li? Non saranno registrati in nessun libro? Sono gratuiti? Sono per nulla? La risposta non può essere il Tuo silenzio. Perché allo­ra la favola che mi raccontavo del Dio Vin­cente va in frantumi. E se la favola non resi­ste e la fede vacilla, chi mi sosterrà?

No, forse è sbagliato tutto il mio modo di impostare la faccenda. Forse il mio mo­do è umano, troppo umano. Forse Dio è al­tro e io sono una particella minima di un ingranaggio inafferrabile. Come posso pre­tendere di capirlo, di superare lo scoglio su cui si sono imbattute tutte le religioni, se non so nemmeno io chi sono e che cosa potrei essere in determinate condizioni? È stato detto: non vale soltanto ciò che tu fai di te, ma è forse più importante ciò che tu fai di quel che è stato fatto di te. E se ciò che è stato fatto di me fosse di confrontar­mi col silenzio di Dio? Dovrei assumermi questa responsabilità e comportarmi di conseguenza? Dovrei combattere insieme a Lui che sta combattendo anche per me, insieme al Dio della mia favola, al Dio Vin­cente della creazione? Ma chi, se non Lui, me ne darà la forza?

Corriere della Sera 14.12.09
Sarah Dunant completa con «Le notti al Santa Caterina» la trilogia rinascimentale
Passioni e peccati in convento
La storia di Serafina, ispirata alla vita delle ragazze costrette alla clausura
di Fabio Cavalera

LONDRA — Serafina è una sedicenne viva­ce, curiosa e innamorata, ha una voce d’ange­lo ed è figlia della nobiltà milanese. Siamo nel Rinascimento. Il padre soffoca le sue vi­gorose passioni consegnandola al monaste­ro di Santa Caterina a Ferrara. È una «dona­zione » ispirata dall’interesse personale, for­malmente il segno della riconoscenza che lui, signore e padrone prepotente, deve alla corte degli Estensi con la quale intrattiene importanti rapporti d’affari.
Ma c’è anche dell’altro, un qualcosa che non si può confessare ed è un banale, ipocri­ta e cinico calcolo terreno: al ricco lombardo costa meno imporre alla giovane il supplizio del remoto isolamento anziché garantirle la dote per il matrimonio. Offrendola alla clau­sura, governata dalla intransigente badessa, imprigiona la ragazza in una ragnatela di morbosità, di perversioni e di dolori laceran­ti. Non vi è rispetto da parte del genitore per la sorte dell’adolescente. È, questa, la condi­zione che migliaia di donne in età acerba condividono, costrette a subire l’ordine, im­posto dalle famiglie, di scomparire nei luo­ghi della preghiera e della meditazione. Sera­fina non è l’unica a divorarsi nell’afflizione. Sono le vittime. I fantasmi di un lungo svolgi­mento della storia.
Panico, angoscia, malattie della mente e in­vidie rompono i silenzi delle celle occupate dalle benedettine, non vi è pietà per l’ultima novizia strappata agli affetti e ai sogni non ancora adulti. È possibile non affondare nella disperazione e nella solitudine? Avviene quasi cinque secoli fa, nel 1570: il Con­cilio di Trento è passato da un pezzo e sulla Chiesa soffia il ven­to della controriforma. I dogmi e i culti del cattolicesimo sono decretati come infallibili, la dot­trina dei sacramenti è contrap­posta alle eresie scismatiche del luteranesimo e del calvinismo, l’autorità del successore di Pietro iscritta nel patrimo­nio di fede e nell’obbligo di obbedienza che vincola il credente. Ma, insieme, i vescovi compongono l’indice dei libri proibiti e delle azioni che discutono e incrinano la suprema­zia delle gerarchie ecclesiali, al pari dei loro pronunciamenti: l’Inquisizione scatena gli strali dell’intolleranza e li trasforma in roghi, punizioni e condanne a morte.
Nei conventi cala il buio, i contatti con l’esterno sono annullati, si erigono altissime mura di cinta, le grate vengono poste alle fi­nestre, la riflessione diviene allucinazione. La parola del Signore e la devozione sono lo schermo dietro al quale si nascondono le vio­lenze psicologiche e fisiche. Le «visitazioni» degli ispettori vaticani sono improvvise e as­sumono la forma di minacce, di umiliazioni e di vessazioni. Serafina soffre, si riscatta, la sua energia contagia, si ribella e si pente (ma chissà se per ragionata finzione), digiuna e non andiamo oltre perché il libro ( Le notti al Santa Caterina , Neri Pozza, pagine 480, e 18) va letto e apprezzato per quello che è: un sofisticato e bellissimo romanzo storico (bestseller negli Usa e nel Re­gno Unito) di cui va dato me­rito a Sarah Dunant, docente universitaria, studiosa ingle­se di Cambridge, con il gusto delle lettere e autrice di una trilogia rinascimentale che è ora all’ultimo atto dopo La cortigiana e La nascita di Venere.
L’immaginazione può funzionare se è avvol­ta in un rigoroso contesto di eventi e di am­bienti: Sarah Dunant ha sposato la ricerca scientifica alla fantasia e alla curiosità perso­nale, il risultato è che ci fa condividere (gran­de merito anche al traduttore Massimo Orte­lio) i patimenti della clausura rinascimentale. Per riuscirci ha compiuto alla fine l’unica e ri­gorosa operazione possibile: «Mi sono ritirata per un po’ in un monastero di benedettine». Ha visto e partecipato alla loro vita, ha parlato con le suore, si è confrontata, ne ha imparato i linguaggi, ha seguito il filo delle tradizioni e dei riti. E dentro la ricostruzione ha collocato i suoi personaggi: Serafina, Emiliana, Chiara, Zuana, Benedicta, le converse e le novizie del «Santa Caterina», che non esiste a Ferrara, ma che è la raffigurazione realistica del con­vento cinquecentesco e seicentesco, sacra isti­tuzione dove i turbamenti femminili nascondevano mi­steri. Sono tutte donne le «at­trici » perché di «questo uni­verso, i conventi delle suore all’indomani del Concilio di Trento, si sa poco o nulla». Ombre del passato. «È ad es­se che ho dedicato il roman­zo e alla moltitudine di quelle che hanno condiviso la loro sorte».
Una sorte che una religiosa del monastero dei Santi Nabore e Felice a Bologna descrisse con una lettera al Papa nel 1586. Frasi di pian­to e di desolazione, ricordate nella nota che chiude il romanzo Le notti al Santa Cateri­na : «Molte di noi sono rinchiuse a forza e pri­vate d’ogni contatto. Vivendo di stenti e ab­bandonate da tutti conosciamo solo l’infer­no, in questo mondo e in quello che verrà».

Corriere della Sera 14.12.09
Quella strada verso l’assoluto



di Emanuele Severino

Domani, alle 21, al Teatro Comunale di Ferrara, sarà presentata «L’ultima sali­ta, la Via Crucis di Beniamino Simoni» un film (Betty wrong - Rai) di Elisabet­ta Sgarbi . Interverranno: Fabio Mango­lini, Gisberto Morselli, Vittorio Sgarbi, Franco Battiato, Tahar Ben Jelloun e Re­mo Bodei. Pubblichiamo una presenta­zione del filosofo Emanuele Severino.

Che cos’è? Lo si può chiamare un cal­cio? Sembra proprio di no: si dà un calcio a un cane rabbioso; ma, allora, l’espressione di chi lo sferra è diversa. È essa stessa rabbiosa, inferocita, violenta. E invece l’uomo della sta­zione III della Via Crucis non esprime nulla di tut­to questo.
Ha in mano un basto­ne da lavori rurali o cam­pestri; come l’altro, un poco dietro, alla sua de­stra, e anch’esso senza copricapo.
Il viso ha l’indolenza ottusa e l’indifferenza del contadino che sta spingendo col piede, per farlo rialzare, un mu­lo che si sia accasciato esausto per terra. O una capra stramazzata. Può anche sem­brare che stiano vangando. O rimestando un pastone per le bestie.
Stanno spingendo Gesù, caduto a terra con la sua croce. Anche qui, come nelle altre «stazioni», Gesù è raffigurato in mo­do convenzionale: un’immagine che tenta di mostrare qualcosa che non solo non è una bestia, ma è più che un uomo.
Di per sé, l’immagine è scontata; ma il contrasto con l’opaco e lento indaffararsi dei due uomini è potente. Il sospetto che la convenzionalità della raffigurazione del Cristo sia voluta, intenzionale, lascia il posto alla certezza. L’animale — che inve­ce è un Dio — è condotto al macello.
La figura in secondo piano e quella sul­lo sfondo, a cavallo, più che l’aura degli armigeri diffondono quella dei contadini che stanno a guardare se le cose si stiano facendo per bene.
Tacciono tutti. Lo si vede. La bocca è chiusa come quando si sta com­piendo un lavoro fatico­so che non si può evita­re e lo stesso peso della parola deve essere evita­to. Il Dio-bestia, a terra con la corda al collo, ha la bocca socchiusa.
L’aspetto di questo Dio ha dell’ordinario, del prevedibile, del­­l’usuale, come la forma di un calice messo sul tavolo di una tratto­ria.
Ma qui l’arte fa toccare l’assolutamente inusuale e spaesante: il fondo del calice, il dolore bevuto fino all’ultima feccia.

Corriere della Sera 14.12.09
Barenboim: vi racconto la musica che amo di più
«Sì alle imperfezioni di un’esecuzione dal vivo»
di Enrico Girardi

MILANO — Con la vita che fa, tra stu­dio, prove, concerti, viaggi, libri e intervi­ste, vien difficile pensare che abbia an­che tempo per ascoltare dischi o guarda­re dvd. Specie in settimane intense come queste ultime milanesi, con le recite di Carmen — l’opera che ha inaugurato la stagione alla Scala — il Gala Domingo, lo Chopin al pianoforte di questa sera e il concerto di Natale in vista.

«Effettivamente — ammette Daniel Ba­renboim — non ne ascolto molti. Non so­no come Arthur Rubinstein che voleva sempre ampliare il suo repertorio e ne di­vorava uno dopo l'altro, ascoltando an­che le cose più ricercate. Ma ciò non si­gnifica che non ne riconosca l'enorme va­lore. Se devo scegliere tra un concerto dal vivo o l'ascolto di un cd preferisco il concerto, è ovvio, ma il cd permette di riascoltare un'esecuzione tutte le volte che si vuole e quando si vuole com­prendere a fondo una musica che abbia un certo grado di com­plessità, non se ne può fare a me­no » .

«Il disco è fotografia di un mo­mento — aggiunge — che sia fatto in studio o registrato dal vivo, ri­sente di quell'attimo, delle condi­zioni in cui si lavora, dell'universo che uno si porta dietro. Perciò due esecuzioni dello stesso brano, sia pu­re con lo stesso interprete, non saran­no mai uguali. E anche questo ne de­creta il fascino, senza dimenticare che il disco non è elitario e arriva an­che laddove non vi sono le condizioni per offrire a tutti la musica dal vivo».

Recentemente, a «Che tempo che fa», ha dichiarato che la musica è il mo­do di dare fisicità all'anima. E se la musi­ca è fisicità, materia, non può prescinde­re dal gesto di chi la produce... «È pro­prio così — si accalora — infatti è da un po' di tempo che mi piace guardare i ca­nali musicali in televisione, come in Ita­lia 'Classica'. E mi è tornato in mente Ser­giu Celibidache. Una trentina di anni fa andai a Monaco a registrare con lui i Con­certi di Brahms e di Cajkovskij e lui volle a tutti i costi che non se ne facesse un cd, come voleva la casa discografica, ma un video perché riteneva che la musica esi­ste solo dal vivo e che i video che ritrag­gono musicisti che suonano sono uno spettacolo come la musica stessa».

Tutto dunque fa pensare che Ba­renboim preferisca un disco «live», ma­gari anche imperfetto, che un disco inci­so chirurgicamente in studio.

«Beh — precisa col sorriso sulle lab­bra — dipende dalle imperfezioni... però non c'è dubbio che tanti musicisti quan­do entrano in studio di registrazione per­dono parte della loro naturalezza proprio perché non vogliono commettere errori. È paradossale, perché in studio si può correggere, ma succede. Penso ancora a quel gigante di Rubinstein che in studio perdeva un po' di slancio e, conseguente­mente, di varietà di colori. Il pubblico gli dava forza. Qualche anno fa ho visto il vi­deo del Concerto chopiniano che fece quando rientrò in Russia nel 1964: d'una bellezza impressionante. Non esiste un suo disco altrettanto bello. In ogni caso sono contento che nella collana del Cor­riere della Sera vi siano tante incisioni dal vivo: il concerto di Ramallah, la Nona

di Beethoven, la Sinfonia Dante di Liszt, l' Ottava di Bruckner, i Concerti di Mo­zart, le Sinfonie di Schumann e ovvia­mente il Wozzeck ripreso a Berlino con la regia di Chéreau».

La carrellata di uscite discografiche del Corriere è disegnata in modo tale da fotografare ampiezza e varietà del reper­torio del direttore e pianista israelo-ar­gentino e le orchestre con cui ha lavorato più assiduamente, con incisioni recenti e recentissime che si alternano a incisioni ormai già «storiche».

«Mi piace che questi dischi escano con il quotidiano — commenta —. Mi piace perché comprare un disco può di­ventare una cosa naturale come compra­re il giornale e che la cultura entri nelle case con le notizie del giorno. Mi fa ve­nire in mente quanto diceva Maurizio Pollini giorni fa, che la musica per la società è come un sogno per l'indivi­duo: non necessario ma indispensabi­le » .

Naturalmente anche all'interno del­la collana ci sono dischi e dvd che Ba­renboim ama particolarmente.

E il più amato è quello che esce per primo. «Un fatto storico, quel concerto a Ramallah nell'agosto 2005, nel cuore della Palestina. So­no felice — aggiunge — che in que­sti giorni l'Orchestra del Divano è stata invitata a tenere un concerto il 5 gennaio nel Qatar. Sarà il terzo concerto in un Paese arabo dopo Rabat, in Marocco, e appunto Ra­mallah. Ma quel concerto resterà per sempre nel mio cuore. E il do­cumentario Knowledge is the Be­ginning spiega in modo acuto e toccante cosa sia il progetto del Divano molto meglio di mille parole. Se i proble­mi del Medioriente un giorno mai si risol­veranno, si parlerà del Ramallah Concert per ricordare come era stato difficile or­ganizzare iniziative del genere; nel caso contrario lo si ricorderà come un mo­mento di speranza. Quel che è certo è che oggi un altro concerto del Divano in Palestina non è nemmeno ipotizzabile».

«Ma anche il cd della Nona di Beetho­ven, con il Divano e un formidabile quar­tetto di solisti (Denoke, Meier, Fritz, Pa­pe) a Berlino, ha un forte potere simboli­co per quello che rappresenta questa sin­fonia proprio in una città per lunghi anni divisa da un muro».

Il maestro scaligero ama ricordare an­che l'unico Fidelio che abbia Domingo co­me Florestano e i Concerti per pianoforte di Mozart in cui è impegnato come soli­sta e direttore a capo dei Berliner Philhar­moniker.

E ovviamente è felice che vi sia anche un dvd di tango alla fine della collana: «Il bello del tango — racconta — è che in Argentina tutti i musicisti classici lo suo­nano. Non è come in America dove la classica e il jazz sono mondi separati. Io ogni tanto ho bisogno di tornare laggiù a suonarlo con i miei amici. Ma posso già annunciare che al più presto organizzerò una serata di tango sinfonico anche alla Scala, probabilmente già nella prossima stagione, perché sono certo che i profes­sori scaligeri ne saranno entusiasti per primi e, appresi quei due o tre 'segreti', potranno eseguirli meravigliosamente».

Corriere della Sera 14.12.09
Il progetto nato nel 1999 con lo studioso Said
«Noi ebrei e arabi assieme a lezione di tolleranza nell’orchestra di Daniel»
Parlano i ragazzi della West Eastern Divan
di Giuseppina Manin

MILANO — Suonare con il ne­mico. Un arabo accanto a un israeliano, a un libanese, un si­riano, un giordano, un turco, un iracheno... Fuori ci sono le guerre. Le bombe, i confini, le minacce, i soprusi. Le ideologie, le religioni, i fanatismi, i tabù. Dentro, nella sala da concerto, c’è la musica. Che non fa mira­coli, non risolve i guai e le ruggi­ni tra gli uomini, ma qualche po­tere magico ce l’ha. Perché par­la una lingua che capiscono tut­ti e perché richiede a ciascuno l’ascolto dell’altro.

Due considerazioni che han­no convinto l’israeliano Daniel Barenboim e il palestinese Ed­ward Said a dar vita nel 1999 a un’orchestra inedita quanto pro­vocatoria, composta da giova­ni, età tra i 14 e i 25 anni, prove­nienti da Paesi in conflitto del Medio Oriente. E poiché l’en­semble nacque a Weimar, la cit­tà di Goethe, fu battezzata West Eastern Divan, come la ce­lebre raccolta di liriche, auspi­cio di unione tra le due grandi culture contro xenofobie e nazio­nalismi. Un audace esperimen­to di musica e vita documentato per un lungo tratto, sei anni, dall’inizio fino al memorabile concerto di Ramallah, nell’emo­zionante documentario di Paul Smaczny, Knowledge is the Be­ginning , applaudito sulle molte ribalte internazionali e che nel 2008 ha aperto il Festival «Sen­za frontiere» alla Casa del cine­ma di Roma.

«Un’orchestra rappresenta il microcosmo di una società. La nostra lo è di una società che non è mai esistita e che forse non esisterà mai» avverte Elena Cheah, violoncellista d’origine ebraica della Divan, autrice di un libro, «Insieme» (Feltrinelli) che raccoglie le voci di alcuni protagonisti di quest’avventura straordinaria quanto faticosa. Suonare «insieme» richiede sin­tonia, obbliga a condividere non solo il tempo della musica ma anche il tempo «tra» la mu­sica: le trasferte, le ore libere... E siccome sono ragazzi, i cuori si accendono, le parole volano, si discute, si scherza, si litiga. Ma alla fine, avendo un proget­to comune, s’impara ad ascolta­re, a confrontarsi, a scavalcare i pregiudizi.

E così Ramzi Aburedwan, pa­lestinese cresciuto nei campi dei rifugiati, pronto a tirar pie­tre ai militari, racconta di aver parlato per la prima volta volta con un israeliano proprio nella Divan. «Prima li conoscevo solo per le bombe. Mio fratello e mio padre sono stati uccisi dai sol­dati d’Israele. In cuore avevo so­lo odio. Ma se non si prova a parlare con il nemico, si conti­nuerà a spargere sangue». «In questi anni passati insieme ab­biamo fatto grandi progressi musicali e umani — assicura Nassib al-Ahmadieh violoncelli­sta libanese —. Abbiamo impa­rato a essere tolleranti, a capire di più le ragioni dell’altro. Sono qui per questo».

«Chi nasce in Israele difficil­mente conoscerà gli arabi — ag­giunge Daniel Cohen, violinista —. Ho faticato a digerire l’idea che i palestinesi costituiscano una nazione e le loro pretese sia­no fondate. Ma 5 anni e 6 tour­née con questo gruppo così biz­zarro e meraviglioso mi hanno aiutato a guardare al conflitto da un altro punto di vista».

Tra i primi violini un ragazzo israeliano che era stato soldato lungo la frontiera del Libano. Entrato nella Divan, si ritrovò a dividere il leggio con una giova­ne musicista libanese. Dopo qualche giorno confessò: «Un mese fa, se questa ragazza per caso fosse stata lì e avesse fatto un movimento sbagliato, forse le avrei sparato. Adesso sono se­duto accanto a lei e insieme suo­niamo Beethoven...» .

domenica 13 dicembre 2009

l’Unità 13.12.09
Conversando con Andrea Camilleri
Leonardo Sciascia deputato. Combattere a mani nude nel Paese della doppiezza
di Saverio Lodato

Un onorevole siciliano, guida ragionata e commentata alle interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia, pubblicato in questi giorni da Bompiani ( E:12) , è un libro a dir poco imbarazzante. E cercheremo di spiegare perché. In 192 pagine, viene descritta la parentesi, ma sarebbe più esatto dire la folgorante meteora, di uno Sciascia quotidianamente impegnato nella battaglia politica, che per lui, e non poteva essere altrimenti, altro non era che il proseguimento della battaglia delle idee con altri mezzi. C’è una guida d’eccezione in queste pagine: Andrea Camilleri. Il quale tiene per mano il lettore e lo accompagna in questo universo apparentemente inedito, offrendogli, per cominciare a orientarsi, i testi integrali di quelle 19 interrogazioni, interpellanze e risoluzioni parlamentari che fra il 1979 e il 1983, recarono, da solo o con altri, la firma dello scrittore di Racalmuto, eletto in rappresentanza del partito radicale di Pannella. Ci sono voluti trent’anni perché qualcuno mettesse insieme atti parlamentari di non difficile reperibilità. Lo ha fatto Lei. E sappiamo bene che non è un caso. Ma è sin troppo facile constatare che se non ci fosse stato Lei a pubblicare " Un onorevole siciliano", lo Sciascia "totus politicus", per dirla con Croce, dormirebbe ancora il sonno dei giusti. Non trova imbarazzante questo ritardo in un Paese dove gli uomini politici non perdono occasione per citare Sciascia e il più delle volte a sproposito? «Come dico nella nota finale del libro, in realtà queste interpellanze e interrogazioni erano state messe insieme da Vittorio Nisticò, l’indimenticabile direttore de "L’Ora" di Palermo, e pubblicate in una rivista da lui diretta molti anni fa, che si chiamava Euros. Sono d’accordo che, come allora non se ne accorse nessuno, anche oggi la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Fortunatamente una volta tanto il mio nome è stato un buon grimaldello. Ho fatto questo lavoro di compilazione come doveroso omaggio a Leonardo Sciascia nel ventennale della sua morte. Sciascia fu sempre nella sua scrittura, articoli, saggi, romanzi, uno scrittore civile e politico; sarebbe stata una grave carenza nel panorama della sua attività non ricordare il suo esercizio da uomo politico. Circa l’imbarazzo per questo ritardo di conoscenza di Sciascia, trovo che ci siano cose assai più imbarazzanti».
Prima di diventare “onorevole”, Sciascia fu eletto consigliere comunale a Palermo 1975 come indipendente nella fila del Partito Comunista Italiano, e su esplicita richiesta di Achille Occhetto, all’epoca segretario regionale. A caldeggiare la sua candidatura, ci fu anche Renato Guttuso, amico personale di Sciascia. Ma comunista come Lei scrive Guttuso lo era sempre stato. Sciascia no, anzi. E questa sua prima avventura politica di “prima linea” non andò bene traducendosi in delusione, perché? «Penso che l’esperienza di Sciascia come consigliere comunale sia stata a un tempo per lui positiva e negativa. Positiva perché lo fece intervenire direttamente nell’agone politico e negativa perché si rese conto che mentre a Palermo il partito comunista si comportava secondo una linea politica totalmente condivisa da Sciascia, a Roma si preparava intanto quel compromesso storico vagheggiato da Berlinguer che a Sciascia non andava bene. Si chiedeva infatti: siamo sicuri che in Italia sia impossibile governare il paese senza il concorso della Dc? L’unica risposta che si seppe dare fu quella delle dimissioni».
In quella vicenda non vede gli ultimi retaggi di un togliattismo che non sapeva guardare all’impegno dei grandi intellettuali nella politica se non come prestigiosi “fiori all’occhiello” ? «Certo, anche questo è da tenere presente. Nel senso che Sciascia, ricordiamocelo, si era presentato come indipendente e il fatto non era solo nominale, era sostanziale. Lui era realmente indipendente all’interno del Pci. Mentre molti intellettuali si adeguavano alla residuale linea togliattiana, ma Togliatti non c’era più da molto, lui invece che non era comunista né intendeva esserlo, davanti al disagio preferì riprendersi la sua libertà d’azione».
Torniamo allo “Sciascia onorevole”. Un giorno, Sciascia, osserva che, prima che iniziasse la seduta a Montecitorio, aveva sentito parlamentari d’ogni schieramento definire un determinato provvedimento “con lodevole sintesi” sono parole sue“uno schifo”. Ma le stesse persone che così si erano espresse “in transatlantico", qualche minuto dopo, “in aula”, lo avrebbero votato appassionatamente. Secondo Lei, questa è la politica? O è la “politica italiana”?
«Sono fermamente convinto che questa non sia la politica. Perché se questa fosse la politica, nessuna persona di buona fede potrebbe occuparsi di politica. Purtroppo si tratta di una politica italiana che trova uguali forse in certi paesi che noi reputiamo democraticamente “inferiori” al nostro. Le vorrei ricordare che noi oggi andiamo a votare con una legge che lo stesso proponente ebbe a definire “una porcata” e che è stata entusiasticamente approvata da tutti i partiti alleati al proponente. Né si può dire che l’opposizione abbia fatto molto per ribaltare questo stato di cose. Ora, cosa dire della politica di un paese dove si passa dallo “schifo” alla “porcata”?»
A Sciascia lo sgomentò, in quella sua breve esperienza parlamentare, “la doppiezza tra il dire e il fare e tra il dire e il dire”. Oggi che stati d’animo proverebbe?
«Oggi c’è molto di peggio: una parte della politica fa tanto per fare, e un’altra parla tanto per parlare. Altro che sgomento...» Leggendo questo libro ho avuto l’impressione che, se si facesse operazione analoga con i testi di tanti “professionisti della politica” che hanno calcato le scene del Parlamento, si salverebbe appena qualche paginetta. Ascolti questa osservazione di Sciascia: “La campagna elettorale che ha portato a questa legislatura è stata da più parti ... svolta sul tema dell’ingovernabilità. In realtà, questo paese è invece il più governabile che esista al mondo... Tutto ciò che in questo paese è ingovernabile, eversione e criminalità principalmente incluse, risiedono appunto nel modo di governare”. Non è imbarazzante che simili parole, trent’anni dopo, sembrino scolpite sulla roccia?»
«Non so come rispondere alla sua domanda. Chiaramente si tratta di qualcosa di più che imbarazzante. La politica non è una cosa astratta, si risolve sempre in leggi e provvedimenti concreti. Direi quindi che, più che imbarazzante, la cattiva politica può risultare devastante per un paese».
Sciascia dà l’impressione di affrontare la politica a mani nude. Può elencare i grandi temi con i quali si cimentò in quegli anni? «Mi piace molto la sua espressione “a mani nude”. Sciascia era infatti un profeta disarmato e sempre più lo risulta rileggendo proprio queste pagine. Non c’è stato tema della vita italiana che Sciascia non abbia affrontato da giornalista, da scrittore e da politico. Io vorrei ricordare qui la feroce polemica della quale fu oggetto quando pubblicò “L’affaire Moro” oppure quando scrisse quell’articolo dal titolo infelice, e non suo, “né con le Br né con lo Stato”. Il fatto è che toccava sempre con una precisione da chirurgo il punto dolente».
Camilleri, un’ultima domanda che riguarda Sciascia, e anche Lei. Perché i “fiori all’occhiello” sono ben accolti nei salotti della politica italiana, ma nella stanza del manovratore non devono mettere piede?
«Non credo che né io né Sciascia abbiamo fatto parte dei salotti della politica italiana. Lui ha fatto politica attiva e ha dato un altissimo esempio di come si possa fare una politica rispettosa di se stesso e degli altri. Pare la politica sempre più voglia diventare una enclave di tecnici, la gran parte dei quali però, alla resa dei conti, si dimostra di non avere neanche un diploma preso in una scuola per corrispondenza». ❖

l’Unità 13.12.09
Ecco a voi a colori, la "panfilosofia"

Atlante di filosofia. Luoghi e percorsi del pensiero di Elmar Holenstein Trad. di M. Guerra, F. Mauri, V. Sanna pagine 306, euro 65,00 Einaudi

Un’opera originale che ci presenta ed espone la filosofia «geograficamente» (la prefazione è infatti affidata al geografo e filosofo Franco Farinelli). L’autore ne studia i luoghi di origine e sviluppo, fornendone, con l’ausilio delle carte, una rappresentazione visiva. E sfata uno stereotipo: la concezione eurocentrica della filosofia, la cui origine viene ricondotta quasi esclusivamente alla Grecia. Dall’Atlante emerge invece una visione policentrica, che si allarga al continente asiatico come all’Africa e alle Americhe. L’umanità nel suo complesso è più omogenea di quanto si pensasse all’inizio del Ventesimo secolo; le singole culture sono invece più eterogenee di quanto in passato si fosse dogmaticamente ammesso. Tra le concezioni filosofiche degli esseri umani ci sono sensibili differenze. Quelle più profonde si registrano non tra zone diverse, ma tra gli individui e le scuole di pensiero all'interno di ciascuna. La filosofia, insomma, viene presentata come un’attività collettiva e in costante evoluzione, frutto di scambi e contaminazioni. Si può «vedere» tutto questo in 41 carte geografiche colorate.●

Repubblica 13.12.09
La grande anomali nell’Italia del cavaliere
di Eugenio Scalfari

C´È un´anomalia al vertice istituzionale dello Stato. L´abbiamo scritto varie volte ed Ezio Mauro l´ha di nuovo precisato con chiarezza subito dopo il discorso di Silvio Berlusconi all´assemblea del Partito popolare europeo a Bonn. L´anomalia sta nel fatto che il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo disconosce l´autonomia del potere giudiziario; disconosce la legittimità degli organi di garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e ritiene che il premier, votato dal popolo, detenga un potere sovraordinato rispetto a tutti gli altri.
Questa situazione – così ritiene il premier – esiste già nella Costituzione materiale, cioè nella prassi politica e nella convinzione dello spirito pubblico, ma non è stata ancora introdotta nella Costituzione scritta e ad essa si appoggiano i poteri di garanzia e la magistratura per contestare la Costituzione materiale. Bisogna dunque modificare la nostra Carta anzi, dice il premier, bisogna cambiarla adeguandola allo spirito pubblico. Lui si farà portatore di quel cambiamento, prima o poi. Quando lo giudicherà opportuno. A quel punto la situazione sarà pacificata, un nuovo equilibrio sarà stato raggiunto, il governo potrà lavorare in pace, i processi persecutori contro il presidente del Consiglio saranno celebrati solo quando il suo mandato sarà terminato e la sovranità della maggioranza sarà in questo modo tutelata.
L´anomalia ha notevoli dimensioni. Il fatto che Berlusconi l´abbia descritta e raccontata con parole sue in un congresso del Partito popolare europeo cui appartiene, denuncia di per sé la gravità di questa situazione, ma ancora di più questa gravità emerge dal fatto che non vi siano state contestazioni in quell´assemblea. L´Unione europea riconosce e fa propria una carta di diritti che vale per tutti gli Stati membri. Di questa carta i principi dello Stato di diritto e dell´indipendenza dei poteri costituzionali sono parte integrante. Sicché è molto preoccupante che uno dei principali esponenti del Partito popolare europeo, a chi gli chiedeva un commento sul discorso di Berlusconi, abbia risposto: è una questione interna alla politica italiana. Quando si tratta dei principi della costituzionalità europea non esistono questioni interne dei singoli Stati membri che possano sfuggire al vaglio degli organi dell´Unione. Credo che questo problema andrebbe formalmente sollevato dinanzi al Parlamento di Strasburgo e dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri dell´Unione.
Per quanto riguarda il nostro "foro interno" per ora l´anomalia resta, ma verrà al pettine nei prossimi giorni sulla questione che più sta a cuore al premier, quella cioè della sua posizione giudiziaria rispetto ai tribunali della Repubblica. Lì avverrà il primo scontro. È ormai evidente che il metodo della "moral suasion", utilmente praticato dai nostri Capi di Stato nei confronti del governo fin dai tempi di Luigi Einaudi, non vale più. Esso è stato possibile per sessant´anni fino a quando le diverse posizioni politiche si confrontavano in un quadro di valori e principi condivisi; ma questo quadro di compatibilità è ormai andato in pezzi. Le varie istituzioni e i poteri dei quali ciascuna di esse ha la titolarità sono dunque l´uno in presenza degli altri senza più ammortizzatori di sorta. Gli angoli non sono più arrotondabili ma spigolosi. Il rischio è una prova di forza interamente istituzionale.
L´anomalia berlusconiana ci ha condotto a questo punto, a questo rischio, a questo pericolo. Molti pensavano che tutto si riducesse a problemi di galateo e di linguaggio. Non era così ed ora la dura sostanza è emersa in tutto il suo rilievo.
* * *
Abbiamo scritto più volte che l´anomalia populista è presente in modo particolare nello spirito pubblico del nostro paese. Ma non soltanto. La tentazione autoritaria è presente in molti altri luoghi. Autoritarismo e populismo spesso sono fusi insieme e costituiscono una miscela esplosiva, ma talvolta sono disgiunti. La vocazione al cesarismo a volte è alimentata dal conservatorismo di opinioni pubbliche sensibili agli interessi di classe e alla difesa di privilegi. Oppure dall´emergere di interessi nuovi che chiedono riconoscimento e rappresentanza.
Nella storia moderna la tentazione autoritaria è stata molto presente nell´Europa continentale, talvolta con modalità aberranti oppure con caratteristiche innovative. Ma ha innescato in ogni caso processi avventurosi, forieri di guerre e di rovine materiali e morali. I principi di libertà ne sono stati devastati.
Di solito quando ci si inoltra in questo tipo di analisi si rievoca l´esperienza del fascismo italiano. Esso avviò anche alcuni processi innovativi, ottenuti tuttavia con la perdita della libertà, con l´esasperazione demagogica del nazionalismo e con un generale impoverimento della società. Ma un altro esempio, con caratteristiche molto diverse, era già avvenuto in Europa un secolo prima e fu il bonapartismo. Andrebbe storicamente ripercorso il bonapartismo perché rappresenta una vicenda per molti aspetti eloquente di come si passa da una fase rivoluzionaria ad una fase moderata e poi ad una svolta autoritaria che aveva in grembo la fine del regime feudale, l´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, pagando però queste innovazioni con milioni di morti in un quindicennio di guerre continue e con la perdita della libertà.
Il generale Bonaparte rappresentava un´anomalia rispetto al regime moderato del Direttorio, nato sulle ceneri del Terrore robespierrista. La sua vocazione autoritaria non aveva nulla di populistico ma era appoggiata da un´opinione pubblica che voleva a tutti i costi una pacificazione. Napoleone fu visto come lo strumento di questa pacificazione e fu l´appoggio di quell´opinione pubblica che gli consentì un colpo di Stato che non costò neppure una vittima. Il 18 brumaio del 1799 suo fratello Luciano Bonaparte, presidente dell´assemblea dei Cinquecento, con l´appoggio del generale Murat, sciolse quell´assemblea con la scusa che essa era piena di giacobini e consegnò il potere a suo fratello Napoleone. Il seguito è noto.
Non abbiamo nulla di simile, non c´è un generale Bonaparte, non c´è un generale Murat, non ci sono fantasmi militareschi. Ma c´è un´opinione pubblica spaccata in due e una classe dirigente anch´essa spaccata in due. C´è una tentazione autoritaria. C´è una maggioranza conservatrice formata da piccoli e piccolissimi imprenditori e lavoratori autonomi che sperano di ricevere tutela e riconoscimento. E c´è un´ampia clientela articolata in potenti clientele locali, legate al potere e ai benefici che il potere è in grado di dispensare.
Questa è l´anomalia. La quale ha deciso di non esser più anomalia ma di rimodellare la Costituzione. Non riformandone alcuni aspetti ma cambiandone la sostanza. Non più equilibrio tra poteri e organi di garanzia, ma un solo potere sovraordinato rispetto agli altri. L´Esecutivo che si è impadronito, con la legge elettorale definita "porcata" dai suoi autori, del potere legislativo e si accinge ora a mettere la briglia al potere giudiziario e agli organi di garanzia.
Sì, bisogna rivisitarla la storia del 18 brumaio del 1799 perché c´è un aspetto che ci può riguardare molto da vicino. Del resto, anche il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 va riletto e meditato. Ci sono momenti storici nei quali l´assetto di uno Stato viene sconvolto e capovolto. Dopo nulla sarà più come prima. Nessuno si era reso conto di ciò che stava per accadere. Quando accadde era ormai troppo tardi per impedirlo.

Post Scriptum. La vicenda Spatuzza-Graviano ha dato luogo a qualche fraintendimento che è bene chiarire. A me Spatuzza non piace affatto e i Graviano meno ancora, ma la cronaca ha le sue regole che vanno rispettate. E perciò ricordiamo: Spatuzza ha dichiarato in processo di aver saputo dell´accordo con Berlusconi e Dell´Utri da Giuseppe Graviano. Il quale ha rifiutato di deporre e ha detto che parlerà solo quando sarà venuto il momento di parlare. Chi invece ha detto di non aver mai conosciuto Dell´Utri e tanto meno Berlusconi è il fratello Filippo Graviano, del quale Spatuzza non ha mai parlato. Questo dice la cronaca e non altro.

Repubblica 13.12.09
Raduno in un centro sociale a Roma 40 anni dopo
E i reduci di Lotta Continua si ritrovano grazie a Facebook
di Anna Rita Cillis

ROMA - A riunirli ci ha pensato Facebook. Un tam tam nato sulla rete e al quale hanno aderito tra gli altri anche lo scrittore Erri De Luca, il fotografo Tano D´amico, l´attivista per i diritti dei migranti Romana Sanso, mentre Enrico Deaglio ha mandato un video messaggio. E il risultato è stato «sopra a ogni aspettativa». I "reduci" di Lotta Continua - ma loro non amano definirsi tali - hanno festeggiato nel cuore del quartiere Garbatella a Roma la nascita, quarant´anni fa, del movimento che ha trascinato negli anni Settanta migliaia di ragazzi nelle piazze, sulle strade, e che ha anche dato vita a un giornale rimasto, nel bene e nel male, storico. A raccogliere l´invito, ieri, sono stati in tanti. «Le adesioni sono state circa duemila», dice Fabrizio Scottoni, tra gli storici del movimento. Una festa, «nulla di più, dove la politica resta fuori, senza rinnegare niente di quello che è stato. Ma sono passati quarant´anni e le cose sono molto cambiate, per tutti. Oggi c´è solo il piacere di incontrarsi nuovamente. C´è chi non si vedeva da oltre trent´anni. Non c´è nessun tipo di rimpianto, solo la voglia di non dimenticare le persone» dice Carlo Ambrosoli. Lì, in via Passino, tra il centro sociale "La Strada" e la sezione di Sinistra Democratica, il via vai è continuo. Strette di mano, abbracci, sorrisi.
E c´è chi si emoziona entrando nella sala dove è stata allestita la mostra dei video storici, che vanno avanti non-stop e di tutti i numeri del giornale «dal primo all´ultimo. Li abbiamo rilegati e messi a disposizione di chi vuole vedere cosa scrivevamo, cosa pensavamo», racconta Mauro. «Eravamo proprio giovani», commentano tra loro due signore bionde.

il Riformista 13.12.09
Sì alla proposta dei radicali
di Fabio Ruta

Caro direttore, ho letto la risposta del segretario del Psi Riccardo Nencini all’appello dei radicali Staderini e Cappato per una coalizione con socialisti, verdi e area laica per le regionali. Il punto di frizione sembra essere il sostegno ai candidati governatori del centrosinistra. Non vedo nei radicali una volontà di rottura con il PD, ma solo quella di trattare alla pari, su contenuti riformatori e di alternativa, per un grande accordo nazionale e non per piccole intese di convenienza. L’antiberlusconismo non costituisce infatti un programma di governo. Il progetto innovativo della Rosa nel Pugno è ancora attuale. Quella iniziativa in breve tempo attirò simpatie e consensi. La difesa della laicità, la promozione del merito e di un welfare universalistico e inclusivo, la attiva tutela dei diritti dei malati, dei disabili, dei detenuti, la promozione della green economy e delle energie rinnovabili, della rottamazione edilizia e della bonifica ambientale, la riforma del sistema dell’informazione. Sono solo alcuni temi che tale alleanza può portare in un dibattito politico altrimenti scadente. E inutile tentare di rianimare il percorso di Sinistra e Libertà, mai decollato. Sono d’accordo con Nencini che il rapporto con il Pd sia fondamentale. Ma un’aggregazione come quella descritta da Staderini e Cappato aiuta proprio chi nel Pd vuole uscire dal paradigma del “manchismo” per proporre un’alternativa realmente laica e di progresso. E socialisti, radicali, verdi, repubblicani, federalisti europei, laici, in coalizione, potrebbero parlare con una voce più forte, incisiva e riconoscibile. Un’alleanza che potrebbe coalizzarsi con il centrosinistra, in un’operazione trasparente e di alto profilo. Il Psi, per cui simpatizzo da tempo, non deve navigare a vista, ma indicare un orizzonte di sinistra socialista capace di coniugare la tradizione con la modernità, e il pensiero liberale e libertario con un ecologismo riformatore adatto ai tempi. Penso che Nencini, che stimo per la sua misura e capacità analitica, abbia il coraggio e l’intelligenza di non arroccare il partito su posizioni di testimonianza identitaria, e di collocarlo in un progetto rivolto al futuro: in tutte le regioni, a partire dal mio Piemonte.

Corriere della Sera Salute 13.12.09
Genetica Inatteso risultato a Heidelberg: disattivando un gene, una topolina è diventata maschio
Tra i sessi soltanto una piccolissima differenza
di Margherita Fronte

«Le cellule ovariche hanno inaspettatamente assunto le caratteristiche di quelle dei testicoli»

La differenza fra i sessi è mol­to più piccola di quanto si cre­da: basta infatti che un solo ge­ne smetta di funzionare per tra­sformare le ovaie in testicoli. Lo dimostra uno studio appena pubblicato sulla rivista Cell . E sebbene la scoperta sia stata fat­ta osservando quanto è accadu­to ad alcune topoline, ci sono ottime ragioni per pensare che lo stesso possa succedere an­che agli esseri umani, dato che il gene in questione è presente in tutti i vertebrati, dai pesci all' Homo sapiens. In futuro insom­ma, una donna che non si rico­noscesse nel suo sesso e voles­se cambiarlo potrebbe sotto­porsi alla stessa 'cura' alla qua­le i ricercatori del Laboratorio europeo di biologia molecolare di Heidelberg, in Germania, hanno sottoposto i loro anima­li da esperimento. Per trasfor­mare Minnie in Topolino, han­no disattivato con tecniche di ingegneria genetica il gene Fo­xl2, che si pensava avesse un ruolo nello sviluppo delle ova­ie. E hanno atteso gli eventi. «Il risultato ha sorpreso anche noi», ha commentato Mathias Trier, che ha coordinato gli esperimenti. «Ci aspettavamo che le topoline avrebbero sem­plicemente smesso di produrre ovociti, ma abbiamo osservato una trasformazione molto più radicale: le cellule delle ovaie hanno assunto le caratteristi­che di quelle dei testicoli, ini­ziando anche a produrre testo­sterone ». Nell'arco di tre setti­mane, il tessuto ovarico era di­ventato molto simile a quello testicolare, pur senza arrivare a generare spermatozoi.
«Quel gene, dunque, serve alle femmine per rimanere ta­li », hanno concluso ad Heidel­berg. I risultati potrebbero con­tribuire a chiarire le cause della menopausa precoce e di alcune rare anomalie dello sviluppo sessuale, in cui i genitali ma­schili si formano in persone che hanno i cromosomi e l'aspetto femminili.

Corriere della Sera Salute 13.12.09
Neurologia. Una ricerca americana conferma un comune sentire
Le delusioni d’amore? Una vera sofferenza
Si attivano le stesse aree cerebrali del dolore fisico
di Elena Meli

C’è chi tende a patire di più il rifiuto sociale: avrebbe una particolare variante genetica

Non prendete in giro chi soffre per amore; se vi dice che sta male 'fisicamente', credetegli. Perché amore, nel cervello, fa rima con dolore: le aree cerebrali che si attiva­no se non veniamo corrispo­sti sono le stesse 'accese' quando proviamo un dolore fisico. Lo dimostra una ricer­ca, pubblicata sui Proceedin­gs of the National Academy of Sciences , condotta dalla psico­loga californiana Naomi Ei­senberger su 122 volontari.

Le pene d’amore in realtà sono state ricreate in laborato­rio, con un gioco in cui il par­tecipante veniva di volta in volta escluso da altri: una si­mulazione di rifiuto sociale. Quando la persona era respin­ta, la risonanza magnetica fun­zionale mostrava l’accensione della corteccia cingolata ante­riore e dell’insula anteriore si­nistra, le aree dove risiede la componente affettiva del do­lore fisico, che si attivano quando ci facciamo male o ab­biamo un fastidio costante. «I pazienti con una lesione in queste aree sentono fisica­mente il dolore, ma lo vivono in modo distaccato» chiarisce la Eisenberger. Commenta Do­natella Marazziti, del Diparti­mento di Psichiatria dell’Uni­versità di Pisa, che da anni studia la biologia dell’amore: «Non mi meraviglia che la ba­se biologica per il dolore fisi­co e psicologico sia la stessa. Non usiamo infiniti sistemi per le nostre funzioni; per si­tuazioni simili adattiamo' e attiviamo un unico circuito. Del resto il valore profondo del dolore, reale o psicologi­co, è uno: ci segnala che dob­biamo evitare qualcosa che può nuocerci». Che sia acqua bollente o una relazione sba­gliata, insomma, poco impor­ta al cervello: i segnali che in­via sono identici. Tanto che si attivano gli stessi recettori ce­rebrali, quelli per gli oppioidi, in pratica gli interruttori su cui agiscono morfina e simili, che non a caso tolgono il dolo­re fisico, ma anche lo stress emotivo che lo accompagna.

I dati raccolti dalla Eisen­berger vanno oltre: la psicolo­ga ha dimostrato che c’è chi è geneticamente predisposto a soffrire di più. Studiando i suoi volontari si è accorta che una variante del gene per un recettore degli oppioidi si as­sociava invariabilmente a una tendenza a patire di più il ri­fiuto sociale: le aree cerebrali attivate si allargavano, la per­sona in questione si sentiva proprio a terra. Plausibile, se­condo Marazziti.

A questo punto, la tentazio­ne di curare le pene d’amore con gli antidolorifici, soprat­tutto se siamo 'anime geneti­camente sensibili', è grande. «Sarebbe mostruoso: star ma­le per amore serve per impara­re a scegliere la persona giu­sta — dice la psichiatra —. So­lo se la sofferenza diventa de­pressione è doveroso interve­nire.

L’amore non deve essere manipolato». I modi per far­lo, in teoria, ci sarebbero: ol­tre agli oppioidi, infatti, l’amo­re modifica i livelli di seroto­nina, di peptidi come ossitoci­na e vasopressina, delle neu­rotrofine che 'nutrono' il no­stro cervello. Tutti sistemi per cui abbiamo già, o sono allo studio, vari farmaci. Ma le me­dicine che influenzano l’amo­re non sono esenti da rischi. «Basta pensare — osserva Ma­razziti — a che cosa succede quando curiamo i depressi, con farmaci che agiscono an­che sui sistemi coinvolti nella biologia dell’amore: alcuni, guariti, tornano a innamorar­si; altri non recuperano le ca­pacità affettive». Come dire, meno ci si mettono le mani meglio è, perché è difficile prevedere dove si va a parare. «Quando amiamo, si attivano tutte le aree cerebrali 'socia­li', cioè l’80% del cervello. In­tervenire dall’esterno su un’emozione così complessa rischia di provocare effetti im­prevedibili » conclude la psi­chiatra.

l'Unità Lettere 13.12.09
Crocefissi e vilipendio
di Roberto Martina
Mi appassiona oltre ogni immagina-zione la nuova campagna spalma crocefissi dell'on. Sergio De Gregorio, ritenuta addirittura iniziativa legislativa necessaria. Chi vilipende il crocefisso sarà punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a 1.000 euro. È interessante perché il significato etimologico di vilipendere è proprio riconoscere che una cosa val poco, e infatti i promotori dell' iniziativa stimano 51.646 euro sufficienti per l'acquisto di 40.000 crocefissi semplici. Parliamo di un vero e proprio vilipendio in senso stretto, circa 1,29 € l'uno, poco quando su Ebay non si riesce a trovarne uno usato per meno di 6 e sui siti per suore bisogna spenderne almeno 30.

Riceviamo da Roberto Martina la parte conclusiva della sua lettera che il quotidiano non ha pubblicato:
«...meno di 6 e sui siti per suore bisogna spenderne almeno 30; un insulto di fronte ai 3 milioni e 250 mila spesi per l’acquisto del “crocifisso ritrovato”. E fortuna che hanno speso tutti quei soldi per un crocefisso solo, perché con le tariffe alla De Gregorio a quest’ora stavamo in ballo con 2.520.000 crocefissi da esporre obbligatoriamente per placare l’inquietudine cristiana, con l’incognita di ritrovarseli piantati pure dentro le toilette degli autogrill a rievocare la fallita aggressione all’identità cristiana d’Italia da parte dei cessi alla turca».

venerdì 11 dicembre 2009

Repubblica 10.12.09
La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa
di Vito Mancuso

SI APRE oggi a Roma e durerà finoa sabato un convegno internazionale promosso dal Progetto Culturale della Cei con il patrocinio del Comune di Roma: "Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto". Il programma prevede la partecipazione di scienziati, storici, filosofi, scrittori, giornalisti, teologi. Condividendo l' urgenza dell' argomento, presento alcune considerazioni in forma necessariamente schematica che consegno alla pubblica riflessione. 1. La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l' ateismo materialista. Tale era l' impresa della modernità, caratterizzata dal porre l' assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall' ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell' ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come "rivincita di Dio", anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio. 2. La questione epocale è piuttosto un' altra, cioè che tale rivincita non corrisponde per nulla a una rivincita del Dio cristiano. SEGUE La postmodernità col suo crescente desiderio di spiritualità non intende per nulla tradursi nelle tradizionali forme cristiane. Anzi, il cristianesimo continua a perdere fascino, annoia, nel migliore dei casi consola. La questione diviene quindi quale forma di spiritualità sia concepibile per un' epoca che vuole essere religiosa (persino mistica come prevedeva Malraux) ma non intende più essere cristiana nella forma tradizionale del termine. Affrontare questa sfida è essenziale per la teologia cristiana. 3. La teologia può tornare a far pensare gli uominia Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita. Ha scritto Nietzsche: "Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza". È vero. Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale. Vi sono stati pensatori che nel ' 900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin. Si tratta di continuare sulla loro strada. Oggi la coscienza euIl cristianesimo continua a perdere di fascino e nel migliore dei casi consola ropea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare. 4. In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all' interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l' ipocrisia. Ha scritto nel 1990 il cardinal Ratzinger: "Nell' alfabeto della fede al posto d' onore è l' affermazione: In principio era il Logos. La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l' eterna Ragione". Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall' esercizio della ragione all' interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali. Simone Weil rilevò il paradosso: "Nel cristianesimo, sin dall' inizio o quasi, c' è un disagio dell' intelligenza". Tale malaise de l' intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ' 900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari. E oggi le cose non sono migliorate, anzi. 5. L' impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale. Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magisteroteologia è strettissimo. A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l' aria pulita della libertà. Non sto auspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso. Ciò che auspico è l' introduzione di una concezione dinamicoevolutiva della verità (verità uguale bene) e non più statico-dottrinaria (verità uguale dottrina). Una teologia all' altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa. L' obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina. 6. Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell' equazione "verità uguale dottrina" per porre invece "verità maggiore dottrina". È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere. In questo orizzonte l' esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell' ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini). Ne viene che un' affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona. Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica "ortodosso-eterodosso", al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica "vero-falso", e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia. Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora. 7. Concretizzando. Non si può continuare insegnare che la morteè stata introdotta dal peccato dell' uomo, mentre oggi si sa che la morte c' è da quando esiste la riproduzione sessuata, cioè milioni di anni prima della comparsa dell' uomo. Né si possono più sostenere così come sono i dogmi sul peccato originale, sull' origine dell' anima, sull' eternità dell' inferno, sulla risurrezione della carne. Occorre inoltre prendere atto dell' insufficiente risposta alla questione del male e del dolore innocente, la più antica e la più attuale sfida a ogni pensiero di Dio. Per quanto riguarda poi la morale sessuale, le parole del card. Poupard sul caso Galileo, cioè che la Chiesa di allora fu incapace di "dissociare la fede da una cosmologia millenaria", devono portare a domandarsi se oggi non si è allo stesso modo incapaci di L' attuale gerarchia ecclesiastica è in grado di aprirsi al rischio della libera intelligenza? dissociare la fede da una biologia altrettanto millenaria e altrettanto sorpassata.È necessario un immenso lavoro perché l' occidente torni a riconoscersi nella sua religione, e la condizione indispensabile è che il cantiere della teologia si apra alla libertà. Infatti (per riprendere il sottotitolo del convegno romano) con o senza libertà cambia tutto. Ma l' attuale gerarchia della Chiesa è spiritualmente grado di cogliere l' urgenza della situazione e di aprirsi al rischio della libera intelligenza?

Repubblica 11.12.09
Dove ci porta lo stato d’eccezione
di Ezio Mauro

Ieri è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d´eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.
Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l´intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del «partito dei giudici della sinistra» che avrebbe «scatenato la caccia» contro il premier.
Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa «forme e limiti» per l´esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere «profondo rammarico e preoccupazione» per il «violento attacco» del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L´avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.
Da oggi siamo un Paese in cui il capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane
C´è un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente
Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all´opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.
Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell´avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell´ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: «Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?».
La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d´eccezione. Carl Schmitt diceva che «è sovrano chi decide nello stato d´eccezione», perché invece di essere garante dell´ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione («abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale»), rende l´istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l´unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.
Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d´eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l´assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l´autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.
Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l´ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l´eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell´attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l´unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell´interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell´esclusivo interesse del singolo. L´eccezione, appunto.
Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l´abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all´accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un´ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell´uomo più potente d´Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?
L´eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un´istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.
Per questo, com´è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d´eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell´Italia di oggi.

Corriere della Sera 11.12.09
Veleni e rischi
di Massimo Franco

La chiave per capi­re lo sfogo di Sil­vio Berlusconi da­vanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certa­mente l’esasperazione. Troppi veleni e troppe ten­sioni, anche nel centrode­stra; e troppa incertezza. Al­trimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovrani­tà è passata dal Parlamen­to al partito dei giudici». Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella cate­goria delle stranezze italia­ne che in quella degli attac­chi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: an­che se la scelta di parlare ad un congresso interna­zionale accentua l’imbaraz­zo.

È come se da ieri le ano­malie del Belpaese fossero state offerte al giudizio del­l’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere poli­tico; fra i processi e l’inve­stitura popolare di un capo di governo. Il sospetto, pe­rò, è che il problema sia as­sai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflit­to istituzionale in una fase di crisi economica e finan­ziaria generalizzata sia ac­colta come un tema stacca­to dalla realtà. I contraccol­pi interni, però, ci sono: so­prattutto per il nuovo attac­co alla Consulta.

Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sem­bra diventato il suo invo­lontario picconatore. Eppu­re, è convinto di non esse­re lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Pa­ese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere sen­za legittimazione popola­re; e senza diritto di repli­ca. Ma in una lotta che ap­pare sempre più di soprav­vivenza, i rischi si moltipli­cano. Per questo il presi­dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quel­lo della Camera, Gianfran­co Fini, non potevano tace­re; e infatti la cosa più ru­morosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani.

La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico. Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli di­mostra che la sua offensi­va non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rom­pere con il Quirinale, seb­bene le critiche del Pdl al presidente della Repubbli­ca segnalino un’ostilità strisciante. La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittuali­tà così accentuata fa venire i brividi. Promette un logo­ramento ed una paralisi de­cisionale dei quali paghe­rebbe il prezzo il Paese, ol­tre che Berlusconi.

Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni. Ma se davvero ne è convinto, non si spie­ga il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impres­sione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolez­za che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giu­stificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti posso­no rafforzare gli avversari.

Repubblica 11.12.09
Bertone, elogio a Togliatti "Quasi un padre della Chiesa"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «Togliatti? Parlò alla Costituente come un padre della Chiesa». «La Lega? Presidia il territorio come le parrocchie di un tempo». I due lusinghieri - e per molti versi sorprendenti - giudizi sono del cardinale segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone, formulati - ieri sera all´università cattolica Lumsa - a un convegno su don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare, presenti l´ex premier Massimo D´Alema, Roberto Cota, capogruppo dei deputati leghisti, e Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.
Bertone, parlando dello storico segretario del Pci, ricorda «quel suo splendido discorso» sul ruolo dei cattolici tenuto all´Assemblea Costituente per annunciare il sì del suo partito sull´articolo 7 della Costituzione. «Un discorso - puntualizza il segretario di Stato vaticano - quasi come un padre della Chiesa». Lodi anche per un altro leader comunista, Antonio Gramsci, del quale rammenta che «nel 1921 sulla revisione dei Patti Lateranensi scrisse su Ordine Nuovo che "saremo noi a risolvere la questione romana". In effetti, in seguito sono stati poi i socialisti a fare la revisione e Gramsci è stato profeta». Senza tuttavia dimenticare il segretario del Psi Bettino Craxi, che - ricorda Bertone - da presidente del Consiglio firmò nel 1984 la revisione del Concordato.
Apprezzamenti anche alla Lega Nord, malgrado i recenti attacchi subiti dal cardinale di Milano Tettamanzi da parte del Carroccio. Bertone riconosce che oggi «la Lega presidia il territorio grazie a un grande radicamento come una volta erano le parrocchie. Occorrerebbe recuperarlo». D´Alema ricambia la «cortesia» riconoscendo il ruolo della Chiesa, specificando, però, che «abbiamo bisogno di cattolici laici che rispettino la laicità e siano fonte di valore per la politica, non di atei devoti che mettano la politica al servizio della tradizione».

Repubblica 11.12.09
8 per mille, a chi vanno i soldi dello Stato
risponde Corrado Augias

Caro Augias, sull'8 per mille sono laico convinto e la mia scelta è sempre ricaduta sullo Stato, con una punta di orgoglio, ammetto. Scopro adesso che con decreto del presidente del Consiglio buona parte dei soldi dell'8 per mille quest'anno andranno a finanziare restauri e interventi in favore di immobili ecclesiastici, compresi quelli danneggiati dal terremoto in Abruzzo. Se intendo destinare la mia quota alla Chiesa Cattolica e alle sue meritevoli iniziative lo faccio mettendo una croce sull'apposita casella, è intuitivo. Se non lo faccio è evidente che intendo destinare i miei soldi ad altri progetti, spero altrettanto meritevoli. Mi pare addirittura ovvio nella sua semplicità. Invece no, c'è chi della mia volontà si infischia, devotamente. Da tutto ciò traggo una conclusione: chi rappresenta questo nostro povero Stato non perde occasione di colpire alle spalle. La prossima volta che dovrò tracciare una croce eviterò di piegarmi e mi guarderò bene le spalle. Magari farò felice qualche simpatico Valdese.
Luca Olivieri lu.olivieri@libero.it

A inizio novembre la Repubblica (Carmelo Lopapa) rendeva nota la notizia. «L'atto del governo n. 121» relativo all'8 per mille confermava che i soldi vanno sì allo Stato ma sono nella discrezionalità del capo del Governo, per il loro utilizzo. Il "parere parlamentare" è delle commissioni Bilancio. La novità di quest'anno è che gran parte del ricavato sarà destinato a «interventi per il sisma in Abruzzo» con netta preponderanza di parrocchie e monasteri. Il presidente della commissione parlamentare competente, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha obiettato: «Le richieste di finanziamento relative all'Abruzzo risultano presentate in data antecedente al sisma ed appare quindi opportuna una verifica e un coordinamento con gli interventi previsti dopo il sisma». C'è insomma il robusto sospetto di un altro pasticcio riparatorio nei confronti della Chiesa cattolica confermato dal fatto che la quasi totalità del restante denaro è destinata a lavori di restauro per diocesi, chiese, parrocchie, monasteri. Sono previsti anche interventi per la Pontificia Università Gregoriana e la Compagnia di Gesù sui quali lo stesso Giorgetti ha obiettato che la priorità doveva essere data a «progetti presentati da enti territoriali», non ecclesiastici. Più che un Atto di Governo sembra insomma un Atto di Contrizione, costoso per il contribuente tanto più che questi denari vanno ad aggiungersi alle cospicue sovvenzioni di cui la Chiesa già gode. Gli italiani che hanno specificato a chi dare i soldi dell'8 per mille sono circa 17 milioni. Di questi, l'89 per cento indica la Chiesa cattolica un po' per fede molto come frutto di una campagna pubblicitaria assai efficace che i vescovi affidano a una delle migliori (e più care) società di promozione.

Corriere della Sera 11.12.09
Religione. Storici e teologi a confronto al convegno promosso dalla Cei. Domani le conclusioni
La grammatica è la prova di Dio
Il filosofo Robert Spaemann arruola (e ribalta) Nietzsche
di Maria Antonietta Calabrò

Si vuole dimostrare l’esistenza di Dio nelle condizioni della vita moderna, perché l’Illuminismo, alla fine, è costretto a distruggere se stesso

«Che esista un essere che nella nostra lingua si chiama 'Dio' è una vecchia diceria che non si riesce a mettere a tacere», una «diceria immortale». «Ma abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dun­que a ciò che noi pensiamo quando diciamo 'Dio', corrisponda qualcosa nella realtà?». Ro­bert Spaemann, il maggior filosofo tedesco vi­vente (professore emerito a Heidelberg e Mona­co, visiting professor a Parigi, Rio de Janeiro, Lovanio e all’Accademia delle scienze sociali di Pechino, autore di opere tradotte in 14 lingue) torna sul nucleo centrale della sua riflessione. E blocca l’attenzione dei 1.500 partecipanti riuniti a Roma per l’evento internazionale «Dio oggi», organizzato dal Progetto culturale della Confe­renza episcopale. Il filosofo affronta quello che ha definito «il problema della mistificazione moderna dell’intramontabile questione su Dio» («Die Frage nach Gott und die Täuschung der Moderne»). La parola Täuschung indica una torsione, una deformazione prospettica che restituisce un’immagine ingannevole del problema.

Spaemann spiega però all’auditorio che c’è la possibilità di dimostrare Dio «nelle condizio­ni della vita moderna». Cioè a partire da un pen­siero inteso come dominio, come autoafferma­zione e non più come il mostrarsi di ciò che è. Una «prova» dell’esistenza di Dio, come Spae­mann ha detto, che sia «Nietzsche-resistente», perché «l’Illuminismo alla fine è costretto a di­struggere se stesso». E di conseguenza non so­lo Dio, ma anche l’uomo: «Il risultato è il nichili­smo ».

Concetti cari a Benedetto XVI, che li ha ribadi­ti nel messaggio letto in apertura del convegno: «Quando Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, l’umanità perde l’orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stes­sa ». «Ce lo insegnano — afferma il Papa — le esperienze del passato, anche non lontano». È per questo che, secondo il cardinale Camillo Ruini, motore dell’iniziativa «Dio oggi», «ren­dere testimonianza al vero Dio e al tempo stes­so alla verità dell’uomo è il compito forse più esaltante che ci sia dato di adempiere». Da Cartesio in poi l'intelligibilità dell’essere (il fatto che l’uomo comprende la realtà) non è più garanzia del fatto che ci sia Dio: la prova della sua esistenza, perciò, non parte più dal presupposto della verità della conoscenza. Compiuta la «torsione» della modernità, secon­do Spaemann, l’argomento più convincente per dimostrare l’esistenza di Dio non è allora quello che guadagna Dio come causa prima, motore immobile, bensì quello che — con un percorso inverso a quello ontologico — giunge a Dio come al garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la pro­pria identità. Dio è il garante di una realtà che sola permette a quell’«animale abile» che è og­gi l’uomo (abile a manipolare tutta la propria vita) l'intelligibilità dell’essere e della verità.

Proprio per i motivi largamente esposti nella relazione di Spaemann — svolta interamente in italiano, per cui è stato ringraziato da Andrea Riccardi — chi più di altri ha contribuito a pre­parare il terreno per questa nuova prova del­l’esistenza di Dio è paradossalmente Friedrich Nietzsche il teorico della «morte di Dio». Egli avrebbe infatti mostrato nel modo più radicale l’intimo nesso che collega l’idea di Dio con quel­la di verità. La negazione di Dio comporta la ne­gazione della verità, comporta che l’uomo si li­miti solo a conoscere i propri stati d’animo sog­gettivi. Cosa che però all’uomo stesso è struttu­ralmente quasi impossibile. A questo proposito Spaemann cita un’affer­mazione del pensatore che si era dichiarato ateo «per istinto». «Io temo — scrive Nietzsche — che non ci liberere­mo di Dio finché conti­nuiamo a credere alla grammatica». E Spae­mann commenta: «Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla gramma­tica e anche Nietzsche ha potuto scrivere quel­lo che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica quello che ha voluto dire». La grammatica però oggi viene attaccata dagli stessi strumenti di co­municazione, soprattut­to la tv, secondo il criti­co Aldo Grasso: «Osser­vando il creato si ha l’impressione che Dio ami la complessità e in­vece la tv ama la sempli­cità, fino a confonderla con la banalità». La «diceria immorta­le » ha profonde conse­guenze vitali ed esistenziali «perché — ha affer­mato Spaemann — la traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uo­mo, siamo noi stessi». Implicazioni immediate sul terreno delle tecnoscienze e della bioetica, di cui hanno discusso in una tavola rotonda, vo­luta al termine della prima giornata, Aldo Schia­vone, il cardinale Carlo Caffarra, Enrico Berti e Giuliano Ferrara. Ma conseguenze soprattutto sul senso della vita. Le Confessioni di Sant’Ago­stino hanno chiuso l’intervento del presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «Quando cerco te, o mio Dio, io cerco la felicità della mia vita. Ti cer­cherò perché viva l’anima mia».

Repubblica 11.12.09
Quella sera in piazza Fontana
Così entrammo negli anni di piombo
di Giorgio Bocca

Finirono la breve pace sociale e l´unione nata con la Resistenza

Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell´Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza.
Ma il mio studio stava nell´interno e non avevo sentito il fragore dell´esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: «Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale».
C´erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c´era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo.
Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l´arte dell´understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l´umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell´eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall´arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.
Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l´unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell´impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l´ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.
La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l´inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l´impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell´impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina.
Cosa c´era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l´ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l´ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell´utopia socialista, delle richieste dell´impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie.
Di certo c´è solo che quella febbre c´era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L´unica spiegazione non spiegazione, l´unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l´ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: «Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C´è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica». Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: «Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l´uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati».
Ma c´era un´utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c´era l´utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, «spostare a destra il governo della repubblica italiana». Anche nell´estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l´avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l´opposizione operaia era debole o inesistente.

Repubblica 11.12.09
La strage che cambiò la nostra storia
di Guido Crainz

Sono passati 40 anni dall´attentato terroristico che fece 17 morti: l´esplosione ha segnato le vicende del Paese
Quattro giorni dopo in Tv Bruno Vespa annunciò che il colpevole era Pietro Valpreda
La verità ufficiale si sgretola nel 1972 con le indagini di alcuni magistrati coraggiosi

Quarant´anni dopo, quel 12 dicembre del 1969 ci costringe ancora a fare i conti con una lacerazione, con uno stravolgimento. Conclude gli anni del miracolo economico e della speranza solare e dà avvio al clima tragico degli anni Settanta, segnati dalla "strategia della tensione" e poi dal terrorismo di sinistra. "Rivela" parti oscure dello Stato, innesca derive, incupisce le forme e le modalità della politica.
Esplode a Milano la bomba più devastante di quel giorno (altri ordigni scoppiano a Roma, senza effetti mortali). Alla Banca dell´Agricoltura muoiono diciassette persone. Un sacerdote di Cinisello, scampato per pochissimo all´esplosione, porta i primi aiuti e prega «per quei poveri brandelli di sangue». «Sono sotto choc – scrive Pasolini - è giunto fino a Patmos sentore / di ciò che annusano i cappellani / i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta / la mia età fra pochi anni». Ed evoca poi una per una, in versi dolenti e prolungati, quelle vittime anziane e innocenti.
Già in sé spaventosa, la strage ingigantisce per lo scenario in cui si inserisce e per i comportamenti di uomini e settori dello Stato e di larghissima parte dei media. Erano stati un pallido annuncio gli attentati compiuti nella primavera e nell´estate dalla cellula neofascista di Freda e Ventura, per i quali erano stati incarcerati invece alcuni anarchici. Vengono poi gli intensi conflitti sindacali dell´autunno, inaspriti da una lunga compressione di diritti e dall´intransigenza padronale. Quegli scioperi vedono inedite forme di democrazia dal basso, portano a conquiste importanti e aprono la via allo Statuto dei lavoratori, un´affermazione di civiltà. La tensione giunge al massimo nel tragico incidente milanese del 19 novembre in cui perde la vita l´agente di polizia Antonio Annarumma, figlio di braccianti: prima che i fatti siano accertati, il Presidente della Repubblica Saragat parla, poco responsabilmente, di "barbaro assassinio" e invita a «mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita». La maturità e la forza sindacale però prevalgono e i contratti iniziano a essere firmati: la strage del 12 dicembre irrompe in questo quadro e lo sconvolge. Ci comunicò – ha scritto Adriano Sofri – «poche e terribili notizie: che si era disposti a distruggere la vita delle persone, anche delle persone inermi e innocenti». Sono di rara intensità le immagini dei funerali delle vittime proposte da uno straordinario servizio di "Tv7". Suonano vere le parole commosse e ferme di cittadini consapevoli, e i volti stessi di quella piazza Duomo gremita dicono al paese che il terrore non ha vinto: «la morte di tanta povera gente… a chi giova?»; «non bisogna mettere insieme questa strage orrenda con il presunto disordine degli scioperi»; «una strage contro il mondo del lavoro…»; «di fronte a una cosa così mostruosa ci siamo ritrovati».
Sono le uniche parole di verità che gli italiani sentono in televisione. Al telegiornale del 16 dicembre Bruno Vespa annuncia che l´anarchico Pietro Valpreda è colpevole, responsabile della strage. Poche ore prima, dopo un fermo illegalmente protratto, era morto cadendo dal quarto piano della questura milanese un altro anarchico, il ferroviere Pino Pinelli, persona buona e giusta: il questore Guida dichiarava che il suicidio era un´ammissione di colpevolezza. Menzogne, tutte, accompagnate da gravi depistaggi delle indagini che alimentano la campagna contro la sinistra («eravamo perduti e sperduti - ha ricordato un magistrato profondamente democratico, Marco Ramat - freddo di fuori e di dentro»). A rompere la compattezza di quel plumbeo clima esce poco dopo un libro dal titolo sconvolgente, La strage di stato, scritto da "un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare": richiama l´attenzione sulla pista neofascista e sulle complicità che essa ha trovato. Quella ricostruzione ha presto molte conferme ma la "verità ufficiale" si sgretola solo a partire dal 1972, con le indagini sulla "pista nera" di giudici coraggiosi (Stiz, D´Ambrosio, Alessandrini: destinato quest´ultimo ad essere ignobilmente assassinato anni dopo dal terrorismo di sinistra).
Nei mesi successivi alla strage si era diffusa l´allarmata sensazione di un restringersi della democrazia, e la fondata denuncia di menzogne e depistaggi – che vede in prima fila giornalisti civilmente sensibili, a partire da Camilla Cederna - ha un impatto enorme. «Per la prima volta - ha scritto Giorgio Bocca - gli italiani avevano l´impressione di esser stati ingannati, traditi dal loro Stato». L´impressione tende a diventare incubo con il procedere della "strategia della tensione", iniziata allora e volta a favorire una svolta autoritaria e di destra: è scandita da crescenti aggressioni squadristiche, da una gestione sempre più repressiva dell´ordine pubblico e da "trame nere" e attentati che hanno culmine nel 1974. Ancora Bocca ha colto però anche un effetto paradossale della preziosa battaglia di verità su Piazza Fontana. Aver avuto ragione, ha scritto, contribuì a togliere lucidità alla sinistra estrema, a «imprigionarla nei suoi sospetti e nelle sue ire», a ingigantirne la sfiducia nella democrazia reale del paese: consolidò cioè letture ideologiche e deformate della realtà, con effetti talora tragici. Senza quel 12 dicembre non capiremmo appieno neppure l´incubazione degli anni di piombo.
Altre questioni ancora pose però quel dramma nazionale. Nel giornalismo ad esempio, in reazione al dominante conformismo delle prime ore, si innescarono fermenti innovativi e fecondi, mossi dall´ansia di un´informazione reale e non subalterna. Non furono superficiali neppure le conseguenze negative di comportamenti illegittimi e gravi di uomini e apparati dello Stato: 36 anni dopo quel 12 dicembre la giustizia italiana ha decretato in via definitiva e abnorme che di quella strage nessuno è colpevole. La democrazia ha tenuto, anche di fronte a prove terribili, ma non ha fugato le ombre: ombre che hanno avvelenato un intero decennio. E la morte di Pino Pinelli addolora e ferisce ancora.

Repubblica 11.12.09
Ru486, Sacconi minaccia "Solo ricoveri in ospedale o interverrà il governo"
di Michele Bocci

Ma sull´applicazione della norma le Regioni si dividono
Resta accesa la polemica politica Dorina Bianchi (ex Pd ora Udc): "Non è un aborto soft"

ROMA - Il governo tuona contro le Regioni: la Ru486 deve essere somministrata solo in ricovero ordinario. Dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della delibera Aifa che ammette il farmaco nel nostro sistema sanitario, il ministro al Welfare Sacconi avverte: «Prenderemo iniziative contro chi non rispetterà la 194, il ricovero dovrà essere effettivo». Il timore è quello che molte donne firmino per tornare a casa, visto che nessuno può essere obbligato a restare in ospedale contro la sua volontà salvo in casi particolari. Nella delibera dell´Aifa, pubblicata l´altroieri, si parla di ricovero «dal momento dell´assunzione del farmaco fino alla verifica dell´esplulsione del prodotto del concepimento». Secondo qualcuno la frase lascia aperta anche la possibilità del day-hospital, e infatti l´Agenzia è stata duramente criticata dallo stesso Sacconi, oltre che dal centrodestra e dal Vaticano, per non essere stata più esplicita. L´esecutivo potrebbe chiedere una riunione dello Stato-Regioni per disegnare le linee guida di somministrazione ma per ora non lo fa.
Dalla ditta Exelgyne, che produce la Ru486, spiegano che a febbraio saranno pronti per la distribuzione. Che succederà? In Italia ci sono Regioni che somministrano il farmaco ormai da 4 anni, acquistandolo all´estero caso per caso. Alcune prevedono il ricovero ordinario. Come la Toscana, dove non cambierà nulla. «A suo tempo - spiega l´assessore alla salute Enrico Rossi - prevedemmo il ricovero dopo aver sentito il consiglio sanitario regionale. Credo comunque che in questioni come queste resti fondamentale il rapporto medico-paziente». È un fatto che in Toscana la stragrande maggioranza delle donne fino ad oggi abbiano firmato dopo la somministrazione della pillola per tornare a casa, ripresentandosi il giorno dell´espulsione provocata dalle prostaglandine. Anche in Emilia Romagna il farmaco viene importato, ma si prevede il day hospital. «Andremo avanti, quello che stiamo facendo è perfettamente in linea con quanto previsto dall´Aifa - dice l´assessore alla salute Giovanni Bissoni - Le linee guida le hanno fatte i nostri professionisti». In Veneto la pillola fino ad ora non veniva somministrata. L´assessore Sandro Sandri annuncia che la Regione «si atterrà strettamente a quanto suggerito dal ministro Sacconi. Organizzeremo le nostre strutture per dare la pillola in regime di ricovero ordinario».
Ieri la senatrice Donatella Poretti (Radicali-Pd) ha ricordato come «Sacconi ha scritto nella relazione al Parlamento sulla 194 che, in alcuni casi, la pillola è stata data in regime di day hospital. Se pensa che una cosa del genere violi la legge poteva andare in procura». Il presidente della Pontificia accademia della Vita, monsignor Rino Fisichella, ha detto che «pensare che la Ru486 non sia un vero aborto è un inganno». Secondo Sacconi è «inequivoco il fatto che il processo farmacologico debba svolgersi sotto controllo medico ospedaliero». Il ministro annuncia controlli, così come il senatore Pdl Maurizio Gasparri. Dorina Bianchi, senatrice da poco passata dal Pd all´Udc, chiarisce: «Mi auguro che l´aborto farmacologico non venga considerato una procedura soft e indolore per la donna». Livia Turco del Pd parla della «fine di un tormentone. Ci potevano essere risparmiati mesi di scontri».

Corriere della Sera 11.12.09
Domani in piazza giovani da tutta Europa. La polizia: «Intenzioni pacifiche»
I no global contro Copenaghen «Il capitalismo si finge verde»
di Mario Porqueddu

Negoziato lento, rigidi i Paesi in via di sviluppo

COPENAGHEN — L’ennesi­ma prova dell’importanza di questi negoziati, se mai ce ne fosse stato bisogno, arriva dai contestatori. E non si tratta dei climascettici, né di produttori di petrolio infastiditi dall’apolo­gia delle energie rinnovabili, ma del popolo che da dieci an­ni, Seattle ’99, assedia i grandi della Terra quando si riunisco­no sotto le insegne del G8; gli aspiranti violatori di tante zone rosse che nel tempo hanno pro­tetto delegati dell’Organizzazio­ne mondiale del commercio o del Fondo monetario interna­zionale. Domani saranno qui, a Copenaghen, perché si sono convinti anche loro che quassù si decidano i destini dell’econo­mia mondiale. Per la precisio­ne: «L’intera retorica della crisi climatica e della crisi finanzia­ria — scrivono — è una cinica manovra degli specialisti mani­polatori di Stato per negare la crisi omnicomprensiva della co­siddetta civilizzazione». E anco­ra: «Le reali intenzioni di Cop15 sono di restaurare la le­gittimità del capitalismo globa­le inaugurando l’era del capitali­smo verde». Il manifesto che in­vita a unirsi al blocco più duro nel corteo di domani è firmato Never Trust a Cop , gioco di pa­role che può voler dire «non fi­darti mai di una Cop» oppure di «un poliziotto».

In piazza sono attese 50 mila persone, in arrivo da tutta Euro­pa. La polizia danese ostenta si­curezza. «Sappiamo che la mag­gior parte vuole manifestare pa­cificamente — spiega un porta­voce — e vogliamo che tutti possano esercitare questo dirit­to democratico. Ma non permet­teremo di entrare nel luogo do­ve si svolgono i negoziati. Sono due anni e mezzo che ci prepa­riamo a questo corteo». Avran­no, per la prima volta, un can­none ad acqua. «Ma serve per eventuali incendi, non per le persone» assicurano. Mercole­dì notte, in un palazzo di pro­prietà del Comune destinato a dormitorio per attivisti, le forze dell’ordine hanno sequestrato bombe di vernice e scudi. Sem­pre senza scomporsi: «Pensia­mo servissero per azioni di di­sobbedienza civile». Domani, però, la Danimarca potrebbe mostrare un volto meno affabi­le. Alla fine di novembre il par­lamento ha approvato il passag­gio da 6 a 12 ore del fermo di polizia preventivo, basato sul sospetto che qualcuno possa creare problemi, e ha previsto fino a 40 giorni di cella per chi passasse dalla potenza all’atto.

Il negoziato, intanto, avanza piano. Ieri è stata resa di pubbli­co dominio una bozza di accor­do che unisce le grandi econo­mie in crescita e molti Paesi in via di sviluppo, firmata da Ci­na, India, Brasile, Sudafrica e Sudan (presidente del G77). Una decina di fogli, sotto la dici­tura «Accordo di Copenaghen», per insistere sulla strada segna­ta dal Protocollo di Kyoto, ag­giornando i numeri, magari al rialzo per quelli dei tagli alle emissioni del mondo occidenta­le, ma senza eliminare la fonda­mentale distinzione tra inquina­tori storici (noi) e Paesi che ne­cessitano di risorse per comple­tare la corsa verso uno svilup­po compiuto (loro). È una carta già vecchia, scritta il 30 novem­bre a Pechino, assicura Le Mon­de che per primo l’ha pubblica­ta. Ma qui serve per segnare una posizione, rispondere al «testo danese» dell’altro giorno che vincolava anche i Paesi in via di sviluppo a ridurre le emis­sioni in tempi non lontani, in­somma trattare. I temi sul tavo­lo sono molti, su tutti la necessi­tà di impegnare gli Usa, che nel Protocollo non entreranno e quindi vanno coinvolti nel se­condo ramo del negoziato, le Azioni di cooperazione a lungo termine. Altro scoglio: i finan­ziamenti ai Paesi emergenti. Chi deve pagare, quanto e dove prendere i soldi? Ieri George So­ros ha detto la sua, proponen­do di usare parte dei 283 miliar­di di dollari dei cosiddetti «di­ritti speciali di prelievo» del Fmi. Chissà che ne pensano gli anticapitalisti.

Corriere della Sera 11.12.09
Mubarak smentisce. «Combattiamo solo il contrabbando»
L’Egitto costruisce un muro d’acciaio per isolare Gaza
Barriera anti tunnel fino a 30 metri sottoterra
di Francesco Battistini

GERUSALEMME — Più du­ro d'un muro. Più profondo d'un tunnel. Più invisibile d'un contrabbandiere. Gli egi­ziani lo starebbero costruen­do da diciassette giorni. In se­greto. «Di giorno scavano, di notte piazzano le putrelle». Un gigantesco scudo d'accia­io rinforzato, a prova di bom­be e di fiamma. Impenetrabi­le. Che chiuderà il confine di Rafah per 9-10 km. E arriverà fino a 30 metri sottoterra. E servirà a bloccare le armi che passano per centinaia di tun­nel. E chiuderà Gaza per sem­pre, e dappertutto. Il governo del Cairo avrebbe dato l'ok nei mesi scorsi, gli americani non avrebbero detto no, gl' israeliani avrebbero detto che era ora. Chi abita sull'orlo della Striscia, chiede l'anoni­mato e conferma: «Sono ve­nuti operai, camion, ruspe. Quattro chilometri li hanno già completati. Tengono tut­to nascosto, per paura di rea­zioni. Ma scavano molto. E co­prono dove lavorano».

Muro contro muro. Se sca­tenò l'indignazione interna­zionale quello che Sharon co­struì in pochi mesi, per bloc­care i kamikaze dalla West Bank, provoca solo un imba­razzato silenzio questo che Mubarak starebbe montando di notte, per sigillare Gaza. A rivelare il progetto è stato mercoledì un quotidiano isra­eliano, Haaretz . A riprendere la notizia è stata ieri la Bbc.

Obbligando il governo egizia­no a una smentita breve, at­traverso il sito del giornale Al-Shorouk: «Per fermare il contrabbando, l'Egitto sta conducendo un'azione seria ed efficace, senza ricorrere ad alcun muro». E poiché quest' azione viene svolta da mesi assieme agli americani — do­po che alla Conferenza di Sharm el Sheikh fu Hillary Clinton a garantire l'invio di tecnici e sensori radar — ec­co diventare più di un'ipotesi il consenso Usa allo scudo: «Ogni domanda su progetti specifici a Rafah — non nega l'ambasciata americana al Cai­ro — va rivolta direttamente al governo egiziano». Inutile dire che cosa pensino della faccenda a Gerusalemme: da anni qui si rimprovera a Mu­barak di non fare abbastanza per fermare i Qassam irania­ni che arrivano via tunnel. E forse non è casuale che, mar­tedì, Netanyahu abbia parlato d'una barriera da tirar su, lui pure, lungo la frontiera tra Israele ed Egitto: in pratica, un prolungamento del muro d'acciaio.

Sbarrare i tunnel, strango­lare Gaza. «Non posso crede­re che i nostri fratelli metta­no una barriera fra noi», dice un portavoce di Hamas, Yehiye Moussa. Eppure la Stri­scia sta diventando un proble­ma soprattutto degli egiziani. La guerra d'un anno fa ha ri­dotto del 90% il lancio dei raz­zi su Israele e gli altri valichi sono insuperabili: col conta­gocce, l'esercito israeliano ha concesso in questi giorni di portare dentro 10mila dosi di vaccino per l'influenza A e d'esportare un po' di fiori dal­le serre. Anche le trattative per la liberazione di Gilad Shalit, tornate in altomare, si fanno al Cairo (a proposito: resterà aperto il tunnel Vip, usato per le delegazioni di Ha­mas?). L'anno scorso, quan­do a migliaia sfondarono il va­lico di Rafah e si riversarono in Egitto, non passarono inos­servati i modi spicci con cui la polizia di Mubarak li ricac­ciò indietro: molti Paesi arabi contestarono «il faraone», che non fa nulla per alleviare l'isolamento d'un milione e mezzo di «fratelli» palestine­si. Per i tunnel, ricostruiti do­po la guerra, oggi passano ci­bo, auto, moto, droga, medici­nali, benzina. Perfino vacche e Viagra. Senza i tunnel, Gaza non evade più nemmeno dall' incubo.

Corriere della Sera 11.12.09
In Russia tagliato per gli studenti «Arcipelago Gulag»: 400 pagine (invece di 2.000)
di Antonio Carioti

Per lunghi anni al bando nella patria del suo autore, ora che lui è morto sarà un testo scolastico obbligatorio. È il destino del capolavoro di Aleksandr Solzhenitsyn (nella foto) «Arcipelago Gulag», che ha immortalato la sigla della direzione dei campi di prigionia staliniani (appunto il Gulag) quale simbolo del sistema repressivo sovietico. Gli studenti russi non si cimenteranno però con i tre volumi (quasi 2.000 pagine) dell’opera integrale, ma con una riduzione di circa cinque volte realizzata dalla vedova di Solzhenitsyn, Natalia, che ha annunciato ieri di aver completato il lavoro. «Spero che sia pubblicato entro settembre, ossia per il prossimo anno scolastico», ha dichiarato la signora. Ma prima il libro, una vigorosa denuncia dei crimini compiuti dal regime comunista tra il 1918 e il 1956, sarà passato al vaglio degli esperti ministeriali. Ex deportato, premio Nobel nel 1970, fervente cristiano ortodosso, Solzhenitsyn (1918-2008) era tornato in Russia nel 1994 dopo vent’anni di esilio e si era poi avvicinato a Vladimir Putin, del quale apprezzava, da convinto nazionalista, la linea di restaurazione della potenza russa. Proprio Putin, oggi primo ministro, ha proposto l’adozione di «Arcipelago Gulag» nelle scuole.

Corriere della Sera 11.12.09
L’esposizione alle Scuderie del Quirinale
La pittura antica di Roma multietnica
di Luciano Canfora

Aggirarsi tra i resti del mondo antico può determinare tra i moderni alme­no due diversi modi di reagi­re: o scadere nell’esclamazio­ne perenne assumendo i frammenti superstiti come «vette», oppure storicizzare, studiare le tecniche, cercare di comprendere la qualità, il senso e il destinatario di quei frammenti di realtà. Il primo atteggiamento, oltre che steri­le, suscita il riso; il secondo si nutre di filologia, cioè di sape­re storico messo a frutto criti­camente. Del resto né gli anti­chi producevano solo «vette» né è serio immaginare che la benevolenza di qualche divi­nità ci abbia destinato soltan­to i prodotti migliori. L’illusio­ne ottica che discende da tali equivoci è rischiosa. Essa ha nutrito di sé il classicismo, so­prattutto quello deteriore, ed è e resta il modo dominante con cui il «senso comune» si avvicina al mondo antico.

Invece non è blasfemo di­re, ad esempio, che non tutte le pochissime tragedie atti­che giunte a noi sono necessa­riamente sublimi: piuttosto, anche quando non sono tali, sono preziosi documenti. E lo stesso potrà dirsi per altre for­me artistiche anche nel cam­po delle arti figurative. In que­sto campo, anzi, il modo del­la conservazione è molto più affidato al caso. Per i testi fil­trati attraverso la tarda anti­chità e il medioevo fattori consapevolmente selettivi, operanti comunque con crite­ri assiologici, hanno avuto ef­ficacia: meno nel caso di quel che ci è giunto della cultura materiale.

La mostra della pittura ro­mana («Roma. La pittura di un impero», Scuderie del Qui­rinale, aperta fino al 17 genna­io) sapientemente organizza­ta e illustrata da Eugenio La Rocca, curatore dell’omoni­mo catalogo (Skira), offre un concreto inveramento di quanto ora osservato. Lo stes­so La Rocca indica bene i limi­ti scientifici, e non declamato­ri, dell’impresa: «Esaminare analiticamente singoli fram­menti di affreschi, pitture su legno o su vetro, cercando di misurare in base alle tecniche artistiche, il livello formale cui era giunta la pittura nel mondo romano». E l’arco di tempo cui questa analisi si ri­ferisce è amplissimo: dal I a.C. all’età bizantina.

Dell’imponente materiale isoleremo una sezione, molto significante e coerente: i ri­tratti provenienti dall’oasi di Hawara nel Fayyum (Egitto) che si collocano tra l’età nero­niana (54-68 d.C.) e la fine del regno di Marco Aurelio (180 d.C.). Si sa che il Fayyum è un luogo privilegiato della ricer­ca: i ritrovamenti di papiri, molto abbondanti, hanno per­messo di farci un’idea concre­ta di quel mondo, dei libri che leggevano, della diffusio­ne della cultura e dell’alfabe­tizzazione, della vita economi­ca, dell’evoluzione della scrit­tura. Ma come vivaio di ritrat­ti il Fayyum è non meno signi­ficativo. I volti giunti fino a noi di personaggi (per lo più notabili locali) grazie agli avanzi di quella ricca attività pittorica sono i volti di quelle «borghesie urbane», di quel­la civilitas che Michail Rosto­vcev descrisse ed esaltò nel suo capolavoro, la Storia eco­nomica e sociale dell’impero romano (apparsa anche in Ita­lia già subito, nei primi anni Trenta, presso La Nuova Ita­lia, con una bella introduzio­ne di Gaetano De Sanctis). Quella rispecchiata dai ritratti del Fayyum è per l’appunto quella classe decisiva nella re­altà urbana del mondo roma­no, che fu travolta dalla crisi micidiale del III secolo, e che non si risollevò più. Guardan­do questi ritratti di persone non eccelse ma rappresentati­ve di un ceto dinamico, elle­nizzato (e inconsapevole del­la imminente bufera) si è por­tati ad osservare che questa documentazione è, a suo mo­do, una ulteriore conferma della fondatezza dell’affresco che di questo mondo e di que­sto ceto aveva tracciato il grande Rostovcev. Documen­ti tanto più probanti in quan­to salvatisi per caso in un’area geografica la cui ricchezza do­cumentaria è dovuta al caso (cause fisiche, natura del ter­reno ecc.). E il caso rende dav­vero questo segmento rappre­sentativo di un intero.

Gibbon faceva incomincia­re la «decadenza» alla fine della dinastia antonina, Ro­stovcev poneva la fine nel III secolo. È ovvio ricordare che la grande e dura opera di re­staurazione dell’impero realiz­zatasi tra Aureliano (270-275 d.C.) e Costantino il Grande, felicemente battezzato in pun­to di morte nel 337, diede vita daccapo ad un impero poten­te e durevole. Ma tutto era or­mai mutato. Era un altro im­pero.