martedì 15 dicembre 2009

Repubblica 15.12.09
Quando in piazza il corpo del Capo diventa un bersaglio
E il Cavaliere ferito s’è mostrato sul predellino
di Filippo Ceccarelli

Anche poco prima dell´aggressione Berlusconi si era vantato in piazza della sua prestanza
Esiste una vasta e seria letteratura, materia di studio universitario, successi editoriali

Nel tempo delle visioni a distanza, oltre che di corpi, la vita del potere si popola di indizi, simboli e presagi che evocano una realtà al tempo stesso tecnologica e arcaica. Così all´inizio di dicembre è stato messo in vendita sul web, per 13,5 euro, un bambolotto di Berlusconi completo di spilloni per un rito vudù.
E´ arduo stabilire se qualche compratore ha operato in questo senso; né d´altra parte si saprà mai se domenica sera, a piazza del Duomo, ha funzionato o meno l´amuleto che sempre il Cavaliere aveva ricevuto in omaggio due giorni prima, a Bruxelles, dall´eurodeputato Rivellini: un classico cornetto anti-jella, però incorporato in una cravatta, «da toccare quando serve».
Non ce n´è stato il tempo. Ma forse quello che è accaduto per mano dello sciaguratissimo Tartaglia valica addirittura la soglia della tecno-magia per imporsi negli annali politici come un evento non del tutto inedito, però sintomatico del presente: la violazione della sacralità del corpo sovrano. O meglio: la profanazione del corpo che un sovrano come Berlusconi ha fin dall´inizio messo al centro della sua lunga avventura politica.
Un corpo che tra gesti, posture, scenette, abiti, accessori, diete, trucchi, jogging, lifting, trapianti, farmaci, elisir, svenimenti, autocelebrazioni virili, sogni di eterna giovinezza e perfino di immortalità, ecco, questo suo corpo così fermo e mutevole è finito per diventare un´icona che compendia i valori estetici e morali del comando berlusconiano. Si pensi alla cruda battuta sul sollievo arrecato al popolo dall´avere un leader «con le palle». O alla danza delle corna, quel vortice di giovani con il cappelletto della Protezione civile che su comando alzavano le mani inscenando il celebre gestaccio; e lui che al culmine denunciava addirittura un palpeggiamento ai suoi danni. O ancora si pensi alla scarlattina che sempre «scherzando», s´intende, il premier avrebbe avuto il potere e il piacere di attaccare al conduttore di Ballarò, Floris. Esempi degli ultimi 60 giorni.
A pensarci bene, anche poco prima dell´aggressione Berlusconi aveva messo in scena e santificato la speciale potenza del suo corpo, vantandosi di non sentire il freddo nel gelo della serata milanese. C´era infatti al suo fianco sul palco un intabarratissimo Formigoni: «Ma io sono più giovane - aveva proclamato il Cavaliere - perché a differenza di lui non porto la canottiera», e a questo punto si era aperto la camicia mostrando la pelle nuda. Ecco. Ridotto di lì a poco una maschera di sangue, quel volto, quella carne battuta ispiravano sì ammirazione per il coraggio e anche umana pietà; ma al tempo stesso si sono offerte per la prima volta al pubblico come il più inconfessabile vincolo che la sacralità del potere mantiene tanto con la vita quanto con la violenza e la morte.
Possono sembrare fumisterie. Che oltretutto non spostano di un centimetro il giudizio sulla gravità dell´aggressione e ancora di più su quello che di peggio poteva accadere. Ma per chi pensa che la parola abbia ancora un senso è bene sapere che sul corpo di Berlusconi esiste una vasta e seria letteratura, materia di studio universitario, successi editoriali. Dall´accurato saggio del professor Federico Boni, Il superleader (Meltemi), alle profonde e suggestive elaborazioni sui leader tele-populisti di Vincenzo Susca e Derrick De Kerckhove in Tecno-magia (Apogeo), fino all´opera specifica di Marco Belpoliti, Il corpo del capo (Guanda).
Ebbene, nel blog Nazione indiana (www. nazioneindiana. com) proprio Belpoliti ha scritto ieri, in qualche modo ancora a caldo, un prezioso articolo sul «corpo ferito del capo» in cui distingue i due momenti di quella serata. Nel primo Berlusconi, ricevuto il colpo, si china, si copre il viso, compie il gesto umano di chi cerca riparo e vacilla. Ma nel secondo momento «il Capo ritorna tale»: e allora ferma l´auto, esce di nuovo, sale sul predellino, scivola, risale e si mostra alla folla. Vuol far vedere che è vivo, «ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta. Si mostra - osserva Belpoliti - perché è nell´ostensione che il suo potere esiste e prospera. Lo fa in modo istintivo, senza ripensamenti... Sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli perché questa è la natura stessa del patto che ha stretto con loro».
Il punto delicato della faccenda è che in una vita pubblica ormai priva di ideologie e narrazioni collettive, la sacralità del potere - indotta, mirata, spontanea o funzionale che sia - comunque si tira appresso la sua profanazione; così come la perenne ostensione del corpo di un sovrano che fa coincidere in sé ogni statuto e istituto ne «chiama implacabilmente la violazione». A cosa porti tutto questo gioco di specchi, proiezioni e slittamenti è difficile dire. Ma certo, oltre al lancio folle di souvenir, la comparsa in simultanea della bambolina vudù e del talismano dell´eurodeputato non è che diano molta speranza, né più tanta allegria.

Corriere della Sera 15.12.09
Don Verzè: ha già perdonato l’aggressore. È tempo di cambiare la Costituzione
«Questo clima è anche colpa della caccia all’uomo da parte dei magistrati»
intervista di Aldo Cazzullo

Don Verzé, Berlusconi è qui nel suo ospedale. Come l’ha trovato?

«Fisicamente, in ripresa. Psicologica­mente, umiliato, terrorizzato. Non tan­to per il dolore, quanto per aver prova­to sul suo corpo l’odio».

Quando ha saputo?

«Appena è successo. Mi ha avvisato il suo medico, Alberto Zangrillo. Ma non sono andato subito al San Raffaele. In questi casi ci vogliono calma, tran­quillità. E anche solitudine. Attorno a Berlusconi c’erano i nostri medici mi­gliori, e loro bastavano. Hanno fatto la Tac, per escludere danni cerebrali. Poi gli altri esami. Solo dopo abbiamo fatto entrare il fratello e i figli».

E lei?

«Io sono andato stamattina (ieri,

nda ). Era giusto lasciargli un po’ di tem­po. Quando accade una cosa del gene­re, quando si rischia la vita, ci si ritrova come sospesi tra Dio e il mondo. Soprat­tutto se si è uomini della statura di Ber­lusconi ».

Perché parla di un Berlusconi «ter­rorizzato »?

«Il problema non è lui. Lui si è già ripreso, la forte emozione che ha prova­to è già alle spalle. L’ho rivisto all’ora di pranzo, e il suo ottimismo aveva già preso il sopravvento. Anch’io sono un ottimista; ma perché ho novant’anni, e mi sento ormai nelle braccia di Gesù Cristo. Berlusconi è più ottimista di me. Il problema è l’odio. Questo episo­dio è anche un monito. Il segno che è davvero il tempo di cambiare la Costitu­zione ».

Perché? E in che modo, secondo lei?

«Non tocca a me dirlo. Tocca ai politi­ci: l’ho detto a Berlusconi e agli altri che ho visto oggi, Fini e Bersani».

Come ha trovato Fini?

«Freddo. Forse perché l’ho visto per strada».

E Bersani?

«Caloroso. Sinceramente dispiaciu­to. Bersani è una gran brava persona. Ci siamo anche dati un bacio. Certo, ha da governare una gabbia di tigri e leo­ni ».

Di Pietro dice che Berlusconi ha isti­gato all’odio. Anche la Bindi, con toni diversi, sostiene che il premier ha le sue responsabilità per il clima che si è creato.

«Sono loro ad aizzare all’odio, ad aver ispirato il gesto di quel povero dia­volo ».

È giusto dare più poteri al presiden­te del Consiglio?

«Se ne occupino gli addetti ai lavori. Dico soltanto come cambierei l’articolo 1: l’Italia è una repubblica fondata non solo sul lavoro, ma anche sulla cultura; la politica divide, la cultura unisce. Quanto è accaduto è frutto di un’assolu­ta mancanza di cultura. Di rispetto. Di conoscenza dell’altro. Berlusconi mi ha detto: 'Perché a me? Perché mi odiano tanto, al punto da volermi ammazzare? Io voglio il bene del paese, il bene di tutti. Tu don Luigi lo sai che è così. Perché non se ne rendono conto?'».

È davvero così, don Lui­gi?

«Certo. Io conosco bene Berlusconi. È un uomo di fi­ducia e di fede. Conosce il vero insegnamento di Ge­sù: 'Amatevi l’un l’altro co­me io ho amato voi'. Berlu­sconi ama tutti, anche i suoi nemici. È incapace di pensie­ri o parole cattivi».

Una volta definì «coglio­ni » gli italiani che non vo­tavano per lui.

«Ma anch’io ne dico di tutti i colori alle persone che lavorano con me. Però loro non se la prendono. Perché, come Berlusconi, parlo con il sorriso sulle lab­bra; e loro sono indotti a sorridere».

Anche la magistratura, secondo lei, ha contribuito a creare questo clima?

«È chiaro che è così. Questo è il vero motivo per cui occorre ritoccare la Co­stituzione. Anche la caccia all’uomo giu­diziaria ha creato il contesto in cui è sta­ta possibile l’aggressione. La magistra­tura dev’essere ricondotta al suo ruolo. Che è al di sopra e al di fuori della politi­ca. I magistrati non devono fare politi­ca; sarebbe come se il Papa o la Chiesa pretendessero di farla».

Lei sa che diranno che Berlusconi e i suoi intendono approfittare della cir­costanza.

«So quel che diranno. Non si rendo­no conto del pericolo che incombe sul paese, del clima che si respira, della gra­vità di quanto è accaduto. Non si rendo­no conto che Berlusconi ama l’Italia, ed è per questo, non per i suoi interessi, che è sceso in campo, mettendo in gio­co tutto se stesso, anima e corpo, anche a rischio della propria salute. Anche a rischio della propria vita, come si è vi­sto. Io gliel’ho detto: 'Ricordati che sei una persona ricca'. Ma lui non si tira mai indietro. Poi, certo, non è un ange­lo del cielo. È un uomo. Un uomo sano e vitale. Può commettere errori. Come me, come lei. Per fortuna il San Raffaele è il suo angelo custode; e io sono il cu­stode del suo angelo custode».

Perdonerà il suo feritore?

«L’ha già perdonato. Non mi stupirei che chiedesse di incontrarlo».

Repubblica 15.12.09
"Fermeremo fabbriche e cantieri" a marzo sciopero degli immigrati
L’iniziativa lanciata su Facebook da due associazioni

In ballo due date diverse: "Ma le unificheremo" L´adesione di Acli e comunità straniere

ROMA - I cantieri edili si fermeranno di colpo. Chiuderanno le fabbriche. Vuoti i mercati ortofrutticoli. Abbandonati i campi di pomodori. Chiusi ristoranti, alberghi e pizzerie. È un giorno senza immigrati: ventiquattro ore senza colf, badanti, agricoltori, operai, infermieri stranieri. A lanciare il primo sciopero dei migranti in Italia è Facebook, con due gruppi attivi, migliaia di iscritti e una decina di associazioni di immigrati impegnate.
Oltre confine un´analoga iniziativa è già in corso in Francia, sempre grazie a Facebook. Una giornalista, Nadia Lamarkbi, si è domandata: «Cosa succederebbe se il nostro Paese si svegliasse domani senza noi immigrati?». La giornata scelta dai francesi è il primo marzo 2010 e in pochi giorni quella che sembrava solo una provocazione si è trasformata in un appuntamento concreto, con oltre 45mila iscritti. Non manca un precedente: il primo maggio 2006 negli Stati Uniti ad incrociare le braccia erano state migliaia di lavoratori ispanici.
Ora l´idea contagia l´Italia. Due i gruppi attivi. Il primo, intitolato "Primo marzo 2010, 24 ore senza di noi", conta oltre 3mila iscritti (tra italiani e stranieri), si ispira alla "Giornata senza immigrati" organizzata in Francia e si propone di organizzare una «grande manifestazione di protesta per far capire all´opinione pubblica italiana quanto sia determinante l´apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società». Il secondo gruppo, sempre su Facebook, si chiama "Blacks Out – Un giorno senza immigrati", fissa la data dello sciopero al 20 marzo 2010 e vede l´adesione dei rappresentanti di molte associazioni di migranti: Eugen Terteleac, presidente di "Romeni in Italia"; Vladimir Kosturi, presidente dell´associazione "Illiria" (Albanesi in Italia); Iualian Manta, presidente della "Voce dei Romeni"; Yacouba Dabre, segretario del "Movimento per gli Africani"; Khalid Chaouki, responsabile Seconde generazioni dei Giovani Democratici; l´associazione bengalese "Dhuumcatu"; Wu Zhiqiang, presidente del Sindacato Cinese Nazionale; Hu Lanbo, direttrice del mensile "Cina in Italia"; Gaoussou Ouattara, membro della Giunta dei Radicali Italiani. Non solo. Al gruppo aderiscono anche le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani: oltre 980mila iscritti, 4.500 circoli), con il loro presidente Andrea Olivero.
«Un vento xenofobo spazza il nostro Paese – scrive Aly Baba Faye, sociologo, tra i promotori del gruppo "Blacks Out" – e la risposta della politica è una sola: aprire la stagione della caccia all´immigrato con la scusa dell´irregolarità, dichiarare guerra alla società multietnica e sdoganare l´equazione "immigrato uguale criminale". Per questo – prosegue Faye nell´appello – un giorno prima della Giornata mondiale contro il razzismo, una settimana prima delle elezioni amministrative italiane, il 20 marzo 2010, dalle ore 00.01, i nuovi italiani si fermeranno». Dunque due gruppi, per due date diverse. «Ma stiamo lavorando – racconta Faye – per unificare le forze e le date, affinché questo appuntamento non sia un´occasione sprecata».

Repubblica 15.12.09
Il Vaticano di fronte ai preti pedofili
risponde Corrado Augias

Dott. Corrado Augias, «Rabbia e vergogna», così papa Ratzinger si è espresso sull'insabbiamento degli abusi nei confronti dei minori nell'arcidiocesi di Dublino. La stampa anglosassone ha dato risalto al rapporto della Commissione Murphy, indagine durata anni durante i quali la preoccupazione dei quattro arcivescovi che hanno retto la diocesi è stata di «mantenere il segreto, evitare lo scandalo, proteggere la reputazione della chiesa e salvare le sue proprietà. Tutte le altre considerazioni, compreso benessere dei bambini e giustizia per le vittime, erano subordinate a queste priorità». Che questa fosse la vera preoccupazione è provato dal fatto che fin dal 1987 venne stipulata una polizza assicurativa relativa a future spese legali e a risarcimenti. E' il secondo rapporto su questo problema, dopo quello della Commissione Ryan, pubblicato a maggio scorso, che riguardava gli abusi sessuali commessi su 2.500 bambini delle scuole cattoliche tra il 1940 e il 1980. Quasi nulla è trapelato in Italia. Stampa e Tv hanno oscurato o relegato in posizione poco visibile la notizia, salvo rare eccezioni. Ora c'è stata la reazione ufficiale del Vaticano al rapporto Murphy e finalmente se ne parla. Che tempestività e che coraggio!
Massimo Rubboli rubboli@unige.it

Nel maggio scorso Enrico Franceschini scrisse una corrispondenza da Londra per questo giornale che apriva così: « È una delle pagine più nere della storia d'Irlanda, e della storia della Chiesa cattolica: l'abuso sessuale sistematico e ampiamente diffuso ai danni di bambini e adolescenti di entrambi i sessi, in scuole, orfanotrofi, riformatori e altri istituti gestiti da ordini religiosi cattolici irlandesi». Racconti atroci «di uomini e donne oggi adulti che ricordano di essere stati picchiati in ogni parte del corpo, seviziati, stuprati, talvolta da più persone. Una discesa agli inferi nascosta per decenni, solo ora svelata in tutta la sua mostruosa realtà». Il problema è delicatissimo e come tale lo avvertono gli ambienti più avanzati della stessa Chiesa. Nel giugno scorso il cardinale di Vienna Schönborn, ha consegnato a Benedetto XVI un appello dei fedeli austriaci che chiedevano di abolire l'obbligo del celibato. Gianni Gennari, teologo e firma di 'Avvenire', fa notare che « il celibato dei preti non è verità di fede, è una legge della Chiesa latina del 1139 poi fissata dal Concilio di Trento tra l'altro convocato da Paolo III, Farnese, padre di quattro figli, due dei quali legittimati». Il prof Bubboli aggiunge però che nel 2001 il cardinale Ratzinger aveva inviato a tutti i vescovi una lettera riservata per ribadire l'obbligo di mantenere segrete, pena la scomunica, le notizie relative ad abusi sessuali compiuti da preti mettendone al corrente solo il Vaticano.

Repubblica 15.12.09
Troppi vecchi e troppi maschi il Partito annuncia la svolta
Pechino dice addio al figlio unico
di Giampaolo Visetti

Rapporto shock rivela: 40 milioni di bambine sono state abortite o uccise dopo il parto

PECHINO - Dopo trent´anni la Cina cancella la legge del "figlio unico". Un rapporto shock dell´ufficio statistiche ha certificato ieri l´allarme del governo: nel 2050 tre cinesi su dieci avranno più di 60 anni. Oltre 400 milioni di anziani, privi di pensione e assistenza sanitaria. Ma la nazione più popolosa del pianeta non sarà solo un´esplosiva terra di vecchi. È già un Paese dove i maschi sono troppi e mancano femmine.
I dati esatti, diffusi per la prima volta, fanno impressione. Ogni 100 femmine, oggi in Cina nascono 121 maschi. Un divario unico al mondo e senza precedenti nella storia. La media mondiale è di 103-106 maschi ogni 100 femmine. I cinesi scoprono così che la legge del "figlio unico", varata da Deng Xiao Ping nel 1978 per frenare il boom demografico, si è trasformata in una disastrosa regola del "maschio unico". In tre decenni sono nate 400 milioni di persone in meno e la famiglia media cinese è scesa da 6 a 1,7 figli. Solo negli ultimi dieci anni però sono nati 37 milioni di maschi in più rispetto alle femmine, e nel 2030 i maschi in eccesso saranno almeno 46 milioni. Medici e sociologi ammettono di trovarsi di fronte «ad una tragedia intrisa di sangue». «Poco meno di 40 milioni di femmine - dice Yuan Xin, direttore dell´Istituto statale della popolazione - sono state eliminate con l´aborto, o appena nate».
L´incubo di costruire un´ingovernabile nazione di maschi, vecchi e soli, in cui un abitante su cinque non potrà trovare una compagna e formare una famiglia, ha costretto i vertici del Partito comunista ad annunciare la marcia indietro rispetto alla più contestata legge del Paese. «La norma sarà adeguata - ha dichiarato il consigliere presidenziale Hu Angang - con il dodicesimo piano quinquennale 2011-2015. L´obiettivo della legge "un bambino per coppia" è stato raggiunto. La nuova politica demografica terrà conto della necessità di "due bambini per coppia"». Il rapporto rivela che solo in Tibet la percentuale tra neonati maschi e femmine è nella media mondiale. Nella regione di Hainan si arriva invece a 135 maschi ogni 100 femmine. Poco meno nello Jiangxi, nell´Anhui e nello Shaanxi. Da tempo minoranze etniche e contadini possono generare più di un figlio. La maggioranza han e il miliardo di individui che assedia le megalopoli, no. Le multe arrivano al triplo dello stipendio di un anno.
Le autorità non avevano però considerato la tradizione. I cinesi continuano a preferire i figli maschi: trovano prima un lavoro, possono mantenere i genitori, tramandano il nome, non hanno bisogno della dote. «Il risultato - dice Zhai Zhenwu, direttore del dipartimento di sociologia dell´Università del Popolo di Pechino - è stato l´esplosione degli screening per conoscere in anticipo il sesso dei nascituri». La maggioranza delle coppie, se scopre di aspettare una femmina, abortisce. Nei villaggi, dove non ci sono ambulatori, le neonate indesiderate vengono uccise clandestinamente in casa, oppure vendute.
Fino ad oggi l´orrore è stato tacitamente tollerato. Le esigenze però sono cambiate. Pechino non teme più di non avere cibo sufficiente per un 1,4 miliardi di persone. Ha paura di restare senza forza lavoro, senza madri, senza giovani che possano pagare le cure ai vecchi. Di qui l´ammissione di fallimento del governo. «La politica demografica - ha detto Qiao Xiaochun, capo della commissione statale per la popolazione - sarà aggiustata. La stesura di un piano diverso è già iniziata e i cambiamenti sono in discussione». Dall´anno prossimo saranno proibiti i test prenatali per conoscere il sesso del feto. Una legge consentirà poi alle coppie di avere due figli anche se solo uno dei partner è figlio unico. Il diritto sarà infine «caldamente esteso a tutti».
A Shanghai, dove tre abitanti su dieci hanno più di 65 anni e c´è meno di un figlio per famiglia, si è già iniziato. Ma senza successo. In luglio i manifesti che recitavano «La madrepatria è troppo stanca per sostenere più bambini», o «Un bambino in più significa una tomba in più», sono stati tolti dalle strade. Le autorità hanno sommerso di volantini le case. Ordine: «Fate più figli». Risposta: «Non esiste». Le domande di secondo figlio sono state meno di venti al mese. I funzionari prevedono che nel 2010 nasceranno 165 mila bambini, pochi più di quest´anno e meno che nel 2008. «La gente - dice Feng Juying, capo dell´ufficio di pianificazione famigliare - non ha soldi per due bambini. Mancano sicurezza sociale, asili e scuole, case adeguate. Chi per la prima volta ha conquistato uno standard di vita sostenibile, non vuole più fare rinunce».
Pechino rivede così lo spettro che spazzò via la dinastia Qing. Durante una carestia, un quarto delle bambine furono soppresse. I maschi non coltivarono i campi: divennero nomadi, banditi, infine ribelli. Due generazioni di "piccoli imperatori single", secondo il governo, possono oggi «rompere la stabilità sociale, minare l´equilibrio etnico e distruggere l´economia». Hu Jintao è costretto a correggere il "padre" Deng: sapendo che anche stavolta può essere troppo tardi.

Repubblica 15.12.09
Un brano della traduzione del celebre saggio del filosofo francese
Il problema della razza e l’Orfeo nero di Sartre
Separati dalle lingue, dalla politica e dalla storia dei loro colonizzatori, i neri hanno in comune una memoria collettiva
di Jean-Paul Sartre

Pubblichiamo alcune pagine di "Orfeo nero", il famoso saggio del 1948 di ripubblicato da Marinotti

Nei secoli della schiavitù il nero ha bevuto il calice dell´amarezza fino alla feccia; e la schiavitù è un fatto passato che né i nostri autori né i loro padri hanno conosciuto direttamente. Ma resta sempre un enorme incubo dal quale neppure i più giovani sanno se si sono completamente risvegliati. Da un capo all´altro della terra i neri, separati dalle lingue, dalla politica e dalla storia dei loro colonizzatori, hanno in comune una memoria collettiva (...) Così quando il nero si volge alla sua esperienza fondamentale, questa si rivela a un tratto a due dimensioni: si tratta, contemporaneamente, di una comprensione intuitiva della condizione umana e della memoria ancora vivida di un passato storico. (...)
Il nero, grazie al semplice approfondimento della sua memoria di antico schiavo, afferma che il dolore è il destino degli uomini e che proprio per questo il dolore non ne è meno immeritato. Egli rigetta con orrore il marasma cristiano, il piacere triste, l´umiltà masochista e tutti gli inviti tendenziosi alla rassegnazione; vive l´assurdità della sofferenza nella sua purezza, nella sua ingiustizia e nella sua gratuità e vi scopre questa verità misconosciuta o mascherata dal cristianesimo: la sofferenza ha in se stessa il suo proprio rifiuto; è essenzialmente il rifiuto di soffrire, è il volto in ombra della negatività, si apre alla rivolta e alla libertà. (...)
Strana e decisiva svolta: la razza si è trasformata in storicità, il Presente nero esplode e si inserisce nel tempo, la Negritudine si inserisce con il suo Passato e il suo Futuro nella Storia Universale, non è più uno stato neppure un atteggiamento esistenziale, è un Divenire; il contributo nero all´evoluzione dell´Umanità non è più un sapore, un gusto, un ritmo, una autenticità, un insieme di istinti primitivi: è un´impresa datata, una costruzione paziente, un futuro. È in nome delle qualità etniche che il nero, proprio adesso, rivendica il suo posto al sole; ora è sulla sua missione che fonda il suo diritto alla vita; e questa missione, proprio come quella del proletariato, gli viene dalla sua situazione storica: perché egli, più di ogni altro, ha sofferto dello sfruttamento capitalistico, più di ogni altro, ha appreso il senso della rivolta e l´amore della libertà. Ed essendo il più oppresso, egli persegue necessariamente la liberazione di tutti, quando lavora per la propria libertà.
Ma possiamo, dopo tutto ciò, credere ancora all´omogeneità interiore della negritudine? E come dire cosa essa sia? Ora è una innocenza perduta, che è esistita solo in un lontano passato, e ora una presenza che si realizzerà solo nell´ambito della Città futura. Ora si contrae in un attimo di fusione panteistica con la Natura ed ora si estende fino a coincidere con l´intera storia dell´Umanità; ora è un atteggiamento esistenziale ed ora sembra un obiettivo delle tradizioni nero-africane. La si riscopre? La si crea?
Per il nero autentico si tratta di vedere se il suo comportamento deriva dalla sua essenza come le conseguenze derivano da un principio, oppure si è negri allo stesso modo in cui il fedele di una religione è credente, ossia nel timore e nel tremore, nell´angoscia, nel rimorso continuo di non essere mai abbastanza ciò che si vorrebbe essere? Si tratta di un dato di fatto o di valore? Dell´oggetto di una intuizione empirica o di un concetto morale? Si tratta di una conquista della riflessione o se la riflessione l´avvelena? Se essa non mai autentica che nell´irriflesso e nell´immediato? Si tratta della spiegazione sistematica dell´anima nera o di un Archetipo platonico al quale ci si può avvicinare indefinitamente senza però mai raggiungerlo? E´ per i neri, come il nostro buon senso di ingegneri, la cosa al mondo meglio distribuita? O discende in alcuni come una grazia e sceglie essa sola i suoi eletti? Certamente si risponderà che la negritudine è tutto questo e molte ben altre cose ancora.
© 2009 Christian Marinotti Edizioni (traduzione e cura di Santo Arcoleo)

Corriere della Sera 15.12.09
Archeologi di Pechino hanno trovato analogie con il sito inglese: svelato il mistero di una civiltà
Scoperta la Stonehenge cinese
Risale a 4100 anni fa: è il più antico osservatorio astronomico
di Marco Del Corona

PECHINO — He Nu è convin­to di avere ragione, e continua a scavare. Gli astronomi pensa­no che possa avere ragione, e lo lasciano scavare. Ed è così che He procede con la sua mis­sione: dimostrare che i resti scoperti nella contea di Xian­gfen, provincia dello Shanxi, appartengono al più antico os­servatorio astronomico mai identificato. Il sito di Taosi, che risale a 4.100 anni fa, è la gran­de scommessa di He. Lui è ri­cercatore all’Istituto di Archeo­logia che fa capo all’Accademia di Scienze sociali (la Cass), una delle istituzioni cardinali della Repubblica Popolare: secondo la sua teoria, Taosi non solo è un punto di svolta nella storia dell’umanità, ma contribuireb­be ad allargare le conoscenze sulle prime fasi della civiltà ci­nese, 5 mila anni di storia i cui capitoli iniziali trascolorano nel mito.

Le autorità di Pechino dal 2001 conducono un program­ma di ricerche archeologiche per investigare i fondamenti della Cina di oggi, in un’ansia (nazionalistica) che si nutre di primati, reali o presunti. Taosi, dunque, ricopre un ruolo chia­ve. Una Stonehenge cinese. He Nu ha dichiarato che la struttu­ra delle vestigia gli ha ricorda­to il celeberrimo monumento britannico: stesso impianto cir­colare, «e poiché gli antichi ci­nesi credevano che il cielo fos­se circolare, tutte le strutture che si riferivano al cielo aveva­no una pianta circolare». Il Chi­na Daily, quotidiano che mo­stra quanto la Cina vuole far sa­pere di sé al mondo, gli ha dato credito. E lascia che He spieghi gli indizi che lo portano a soste­nere, reperti alla mano, di ave­re scoperto il primo osservato­rio astronomico di sempre.

Il ritrovamento dei resti risa­le al 2003 e sei anni sono servi­ti a He Nu per argomentare la sua ipotesi. Gli scavi hanno mo­strato che a Taosi erano esistiti 13 pilastri posti – appunto – cir­colarmente. Dodici intervalli. Dal dicembre 2003 all’aprile 2004, l’archeologo ha effettua­to osservazioni utilizzando dei pali infissi nel terreno in corri­spondenza delle tracce dei pila­stri. Registrando il sorgere del sole intorno ad alcune date fon­damentali – solstizio d’inver­no; il picco della stagione fred­da, ovvero verso il 20 gennaio; l’equinozio di primavera; il pic­co delle piogge, cioè verso il 20 aprile – He ha avuto la quasi certezza che si trattasse di un osservatorio, utilizzato per orientare i tempi dell’agricoltu­ra. Quando gli astronomi han­no contestato la prima tornata di dati, He ha ripreso a scavare, scovando le tracce di quello che doveva essere il punto d’os­servazione originale, 25 centi­metri di diametro. E’ a 4 centi­metri dal punto d’osservazione che He si era dato per le sue si­mulazioni: quasi una prova.

Qualche anno e 70 cicli stu­dio del cielo dopo, sia i lumina­ri dell’astronomia sia l’Istituto per la Storia delle Scienze natu­rali presso la Cass hanno am­messo che i dati raccolti merita­no approfondimenti. He esul­ta. Se così fosse, l’epoca degli imperatori Yao, Shun e Yu, col­locati in un terzo millennio a.C. dal sapore mitologico, ri­sulterebbero un po’ meno leg­gendari e un po’ più reali. So­prattutto Yao, cui tradizional­mente si riconosce l’introduzio­ne dell’astronomia e del calen­dario. Il direttore del museo ar­cheologico della contea, Tao Fuhai, ha invece esaminato il vasellame ritrovato a Taosi concludendo che qui, per la prima volta in Cina, il moti­vo decorativo del drago si associa al potere, dunque al potere imperiale, e che il sito può perciò essere quel­lo di una capitale. La caccia alle radi­ci della terza economia mondia­le è solo cominciata. He Nu con­tinua a scavare, gli accademici osservano. Alle ambizioni della Cina servono anche le stelle del passato.

Corriere della Sera 15.12.09
Ipotesi e dubbi
Il contesto Papato, comuni e nobili volevano minare il potere imperiale
La tragedia Il timore di essere tradito spinse il monarca a colpire il suo erede
Ma Federico non fu grande con il figlio ribelle e suicida
Gli storici rivalutano Enrico, vittima dell’ira paterna
di Paolo MIeli

Nuovo interesse per Federico II. Dopo i tre volu­mi sull’imperato­re svevo che l’Enciclopedia Treccani ha pubblicato tra il 2005 e il 2008, la casa editri­ce Salerno sta per dare alle stampe l’altra opera monumentale, Federico II e l’apogeo dell’Impero di Wolfgang Stürner, nel­la impeccabile traduzione di Andrea Antonio Verardi. Un’attenzione particolare meriterebbe l’introduzione di Ortensio Zecchino, dove si analizza come diverse correnti storiografiche nonché diversi regimi hanno tentato di far pro­pria la figura del sovrano vissuto tra il 1194 e il 1250, che segnò di sé l’epoca in cui visse e an­che quelle successive. Ma l’imponente libro di Stürner è uno strumento indispensabile per fa­re luce su importanti questioni connesse al­l’esperienza fridericiana e ad alcune sue vicen­de esistenziali, prima tra tutte il conflitto che oppose l’imperatore al figlio Enrico, destinato a diventare il suo erede, e che invece segnò dram­maticamente la loro vita per risolversi, infine, in tragedia. In passato Enrico è stato quasi sem­pre trattato dagli storici come uno stolto e spes­so la denigrazione a suo danno appariva motiva­ta più dalla necessità di cantare le lodi del pa­dre che da suoi peccati di comportamento. Og­gi — come vedremo — ci sono studiosi che ri­valutano Enrico re di Germania e quasi sposa­no, per così dire, le ragioni che lo indussero al­lo scontro con l’imperatore Federico. Non è il caso dell’opera di Stürner, che però anche su questa vicenda appare più approfondita, dotta e sottile delle innumerevoli che l’hanno prece­duta.

Enrico, nato nel 1211, trascorse i primi cinque anni di vita con la madre, Costanza d’Aragona, alla corte di Palermo. In seguito, su disposizio­ne del padre, si recò con Costanza in Germania (1216) e lì, allorché Federico ottenne da papa Onorio III la corona imperiale a Roma (1220), crebbe in assenza dei genitori. Incoronato re ad Aquisgrana (ma sotto la tutela di un reggente) a undici anni, a quattordici fu costretto a sposare Margherita d’Austria, che era molto più anzia­na di lui. Quando nel 1231 Enrico manifestò l’in­tenzione di divorziare dalla moglie per sposare Agnese di Boemia, Federico si oppose. Il proble­ma di fondo, ha scritto Hubert Houben ( Federi­co II , Il Mulino), era di natura politica: Federico voleva che il figlio governasse attenendosi scru­polosamente ai suoi ordini; Enrico dovette pe­rò considerare il divieto di separarsi da Marghe­rita come lesivo del suo rango regale, una sorta di limitazione della sua autorità. E fu scontro. Che si concluse con la deposizione di Enrico, la sua lunga prigionia, il suo ammalarsi di lebbra e infine il suicidio (1242). Alla morte del figlio, Federico lo fece seppellire con tutti gli onori nel duomo di Cosenza e nella lettera (scritta dal capo della sua cancelleria Pier della Vigna) con la quale esortava il clero del regno di Sicilia a pregare per il defunto, si soffermò con queste parole sul conflitto che li aveva divisi: «Anche se non siamo stati piegati dalla superbia di un re vivo, siamo commossi dalla morte di questo nostro figlio; non siamo i primi e non saremo gli ultimi a sopportare i danni delle trasgressio­ni dei figli e ciò nonostante a piangere dopo i loro funerali… Né l’acerba sofferenza generata dalla trasgressione è per i genitori una medici­na efficace contro il dolore: la natura, pungen­doli, li fa dolere per la morte dei figli, anche se essi li hanno offesi con la loro irriverenza, che si oppone alle leggi della natura stessa».

Stürner — come si diceva — dedica grande attenzione al dissidio tra Federico e suo figlio Enrico, mettendolo in relazione, almeno per quel che riguarda la fase iniziale, alla rivolta di Messina che esplose nell’agosto del 1232 e che costrinse l’imperatore a rimanere in Sicilia dal­l’aprile del 1233 al febbraio del 1234. La som­mossa di Messina — che si era poi estesa a Sira­cusa e a Nicosia — era stata provocata dalla du­rezza, o meglio dal rigore di Riccardo di Monte­negro, rappresentante di Federico in quella re­gione. Era stato del resto lo stesso Federico a disporre il divieto alle città di eleggere propri funzionari e giudici, a decidere per un consi­stente aumento degli oneri fiscali e a stabilire il mancato rinnovo dell’esenzione dalla dogana per il porto di Messina. Come reazione ebbe una sommossa di cui Riccardo di Montenegro fu solo un bersaglio apparente. E per aver ragio­ne dell’insurrezione l’imperatore si vide costret­to a promettere un perdono generale; poi però, una volta che ebbe domato la rivolta, non tenne fede alla sua stessa parola: fece arrestare i capi di quei moti, ne impiccò o mise al rogo la gran parte, imprigionò o bandì dalla città i loro se­guaci e fece distruggere completamente alcune colonie che si erano distinte in quei tumulti. Perdonò, invece, e promosse di rango Riccardo di Montenegro.

Scottato da quell’esperienza, Federico affron­tò la questione del figlio con particolare durez­za. Enrico era stato assai leale, alla fine degli an­ni Venti, nei confronti del padre, scomunicato da Gregorio IX nonostante avesse ottenuto — al termine di un negoziato con il sultano d’Egit­to — la restituzione di Gerusalemme ai cristia­ni. Enrico si era scontrato con tutti coloro che si andavano alleando con papa Gregorio (in pri­mis Ludovico di Baviera) in cospirazioni che sembrava avessero come fine la destituzione dell’imperatore. Ma il padre non gliene fu affat­to grato. Anzi. Secondo Stürner l’imperatore prese spunto dal complesso rapporto tra il fi­glio e i principi tedeschi per rendere pubblica la sua contrapposizione a Enrico. La dieta di Worms del gennaio 1231 «aveva costretto Enri­co a revocare le concessioni fatte in un primo tempo alle città sulla Mosa ma anche a ratifica­re il ruolo di predominio dei principi che gover­navano le città». I cittadini non potevano con­cludere patti o alleanze tra loro contro la volon­tà dei principi e il re non avrebbe potuto appro­vare tali alleanze. La successiva dieta che si tenne di nuovo a Worms, alla presenza del sovra­no, dalla fine di aprile all’inizio di maggio dello stesso anno, «si spinse più in là. Richiamando l’accordo che Federico aveva stretto con i princi­pi ecclesiastici nel 1220, i principi imperiali ot­tennero la ratifica della loro posizione di domi­ni terrae attraverso un privilegio reale. Il re ri­nunciava espressamente a fondare città, a co­struire castelli o nuove strade, istituire mercati o zecche nei loro territori senza il loro consen­so ». Oltre a ciò, il re «concedeva ai principi l’esercizio indisturbato della giurisdizione e dei diritti feudali e si impegnava a tenere a freno le tendenze espansionistiche delle città sul suolo regio, cui quelli guardavano, come sempre, con preoccupazione». Il re proibiva altresì «alle cit­tà di occupare i suburbi e di appropriarsi di be­ni, di accogliere i servi della gleba fuggiti dai loro signori, di estendere la loro giurisdizione e il diritto di scorta nei territori limitrofi e di com­piere atti amministrativi a spese dei principi». Questo documento metteva in luce la forte posi­zione che i principi tedeschi avevano acquisito rispetto al re. A differenza del 1220, inoltre, «i principi imperiali, laici ed ecclesiastici, rappre­sentarono i loro interessi in maniera compatta, come un unico ceto, e il re — ciò che può risul­tare importante nel giudizio su Enrico — non ricevette nulla in cambio della propria compia­cenza, del suo ufficiale riconoscimento del­l’evolversi degli eventi a loro favore».

Nel 1232 l’imperatore convocò in modo assai brusco suo figlio ad Aquileia (non si vedevano da dodici anni, da quando Enrico ne aveva no­ve) dove riconobbe in maniera formale e piena le sue decisioni e la sua dignità regale, ma riba­dì anche l’assoluto predominio della propria po­sizione «obbligando Enrico a una drastica, rigo­rosa e perfino umiliante sottomissione al suo potere imperiale». Il re rientrò in Germania molto scosso e ferito nell’orgoglio, il padre da quel momento non si fidò più di lui. E fu la ri­volta di Messina con la feroce repressione che ne seguì. In quell’occasione papa Gregorio IX, scrive Stürner, «non solo sospettò che Federico avesse messo al rogo i suoi avversari, facendoli passare per eretici, ma biasimò anche le dure misure imperiali contro l’insurrezione sicilia­na, definendole senza troppe perifrasi crudeli e ingiuste, e accusò inoltre Federico di aver spin­to alla ribellione i sudditi con la sua politica di oppressione invece di conquistarli con l’amore, come si conveniva a un regnante cristiano: sem­brava quasi che volesse negare al sovrano tem­porale il diritto di usare la forza».

E il dispetto dell’imperatore fu assai grande allorché nell’agosto del 1233 Enrico, accompa­gnato a sorpresa dal vescovo di Strasburgo, ma anche dall’arcivescovo Sigfrido di Magonza e dal vescovo Ermanno di Würzburg, per oscuri motivi mosse con un grande esercito contro Ot­tone, figlio di Ludovico e nuovo duca di Bavie­ra, infliggendogli una pesante sconfitta. Dispet­to che si trasformò in collera quando nel dicem­bre del 1234 Enrico strinse un accordo con Mila­no e le città della Lega: «Agli occhi dell’impera­tore », scrive Stürner, «quell’accordo dovette ap­parire un crimine assurdo e orrendo, che dimo­strava con assoluta chiarezza i propositi di alto tradimento di suo figlio, miranti alla rovina del­l’impero ». Nel 1235 Federico scatenò la guerra contro Enrico e, nonostante quest’ultimo aves­se inviato ambasciatori per chiedergli perdono e annunciare la sua sottomissione, non si fer­mò finché non lo ebbe sconfitto e imprigiona­to, con le conseguenze di cui si è detto all’ini­zio.

Stürner a questo punto si misura con i lavori su Federico II di due importanti storici tra loro contrapposti: Christian Hillen e Theo Broek­mann. Concorda con Hillen, il quale ha sostenu­to che «i principi imperiali, al pari dei nobili tedeschi, ebbero contatti molto più intensi con il padre, che dimorava nella lontana Italia, che con il giovane re, furono sostenuti da Federico e contribuirono a plasmare la sua idea sugli av­venimenti tedeschi, mentre attuavano i suoi propositi. E che Enrico non riuscì, evidente­mente, a creare un’analoga rete di rapporti per­sonali incentrata su di sé: e così alla fine non ebbe più appoggi tra le personalità di rango, co­me pure tra i rappresentanti della ministeriali­tà ». Dissente invece da Broekmann, che ha ap­profondito il conflitto tra padre e figlio soste­nendo che «Federico sarebbe stato influenzato dal modo di risolvere le divergenze vigente in Sicilia, fondato sul rigor iustitiae , sull’autorità e la spietata durezza, mentre Enrico, agendo in conformità con il sistema di valori vigente a nord delle Alpi, avrebbe combattuto in difesa del suo onore e del suo prestigio di re; dalla sua sottomissione egli si sarebbe quindi atteso, fi­no alla fine, non solo di ricevere il perdono im­periale, ma anche, grazie a questo, il proprio ho­nor regio » .

Di fatto Broekmann accusa Federico di non aver saputo dar prova di misericordia. Un impe­ratore duro, spietato, contro un re tedesco mi­te. Ma Stürner gli contesta che «Federico biasi­ma sempre, senza eccezione, la durezza del di­ritto romano che egli intendeva alleviare con la mitezza e la misericordia delle proprie costitu­zioni ». Naturalmente, prosegue, «nella prassi politica lo svevo dimostrò di saper punire in maniera estremamente crudele; ma si trattò quasi sempre di casi di aperta e palese infrazio­ne della legge o di alto tradimento, come la ri­volta dei Saraceni in Sicilia o la congiura del 1246. D’altra parte fin da giovane Federico mo­strò di saper perdonare le ribellioni, una volta sconfitte, richiamandosi alla propria misericor­dia e pietà, e promulgò il corpus di Melfi… sol­tanto dopo un’accurata consultazione con i rap­presentanti del regno». Né «gli erano estranee le usanze nordiche, e quando giunse in Germa­nia praticò per lungo tempo, con convinzione e successo, le forme di sovranità consuete in quei luoghi (perciò biasimate ancora da qual­che storico dei nostri giorni) come dovette spe­rimentare anche suo figlio». Da quest’ultimo «lo separava forse soprattutto la divergenza di fondo circa il ruolo dei principi imperiali; e que­sta divergenza spiega il rifiuto di Enrico di re­carsi alla fine del 1231 alla grande dieta organiz­zata dal padre a Ravenna, come pure la sua alle­anza, certamente sfortunata, con i tradizionali antagonisti dei sostenitori più fedeli dell’impe­ratore, nonché il patto da lui stretto infine con Milano, l’acerrima nemica di Federico». Tutte decisioni, queste, che «portarono al duro con­trasto tra padre e figlio, fino a renderlo insana­bile; sicuramente Enrico maturò la profonda convinzione di essere stato costretto alla lite con il padre dalla volontà di tutelare la propria dignità e orgoglio regio. Ma di certo Federico poteva rivendicare lo stesso, con altrettanta convinzione, forte anche delle concezioni vive nell’impero e insistere inoltre sul suo superiore rango, come pure — fatto per lui decisivo — sull’obbedienza che il diritto divino e naturale prescriveva al figlio nei confronti del padre».

Stürner, pur inserendosi nel solco degli stori­ci tradizionali tutti impegnati a sostenere le ra­gioni di Federico, attenua — ed è la prima volta — il giudizio sui torti di Enrico. Imputa a que­st’ultimo una «percezione troppo ottimistica dei propri spazi di azione» e gli muove l’accusa «politica» di non aver tranquillizzato — con la mutevolezza delle sue prese di posizione — la borghesia cittadina, ma soprattutto, nella colla­borazione che ebbe con i principi dell’impero, di aver parteggiato per coloro che era evidente prima o poi sarebbero entrati in conflitto con la causa sveva, mettendosi in urto con quelli che erano destinati a restare fedeli alla sua fami­glia. Ma il libro contiene rilievi anche per il pa­dre. «Da parte sua», sostiene Stürner, «Federi­co non facilitò certo le cose, pretendendo dal figlio, senza avere con lui rapporti o vincoli per­sonali, la sottomissione al comandamento che ingiungeva l’obbedienza al padre, ossia un atto tanto infantile quanto formale: per risvegliare nel figlio il senso di un simile dovere e al con­tempo conquistarlo alla propria concezione po­litica, avrebbe dovuto offrirgli un’attenzione pa­terna continua, con parole e consigli personali. Se il figlio fallì per le sue debolezze caratteriali e per un’errata percezione delle possibilità di manovra della dignità regale tedesca, il padre mancò nel compito di trasmettere al figlio que­sta percezione». Siamo solo agli inizi della revi­sione di quel rapporto tra padre e figlio, ma il riequilibrio di giudizio c’è ed è di sostanza.


Biografie
Il fascino svevo non tramonta
Federico II di Svevia (1194-1250), figlio di Enrico VI e della principessa normanna Costanza d’Altavilla, abbinò la corona del Sacro Romano Impero e quella del Regno di Sicilia. Uomo di raffinata cultura, colpisce e affascina ancora oggi la sua apertura al dialogo con ebrei e musulmani, insolita in un sovrano medievale. L’uscita in Italia della biografia di Wolfgang Stürner Federico II e l’apogeo dell’impero (Salerno Editrice, pagine 1127, € 84) si pone nella scia della Enciclopedia fridericiana in tre volumi e circa 500 voci (in tutto 1848 pagine) intitolata Federico II : un’opera di alto pregio, pubblicata dalla Treccani dal 2005 al 2008 in una tiratura limitata e realizzata sotto la direzione di un comitato presieduto da Ortensio Zecchino e composto da Girolamo Arnaldi, Arnold Esch, Cosimo Damiano Fonseca, Antonio Menniti Ippolito, Alberto Varvaro. Assai più sintetico il libro dello storico medievista Hubert Houben Federico II (pagine 208, € 12,50) edito quest’anno dal Mulino, che ha appena pubblicato anche il volume Gli inizi del diritto pubblico. Da Federico I a Federico II (pagine 440, € 28), a cura di Gerhard Dilcher e Diego Quaglioni, che raccoglie gli atti di un convegno organizzato dall’Istituto storico italo-germanico di Trento.

Corriere della Sera 15.12.09
Destini. La vita privata del premio Nobel al centro di un libro di Anna Maria, figlia di Leonardo
Pirandello e Sciascia, geni e drammi allo specchio
di Matteo Callura

Leonardo Sciascia a proposito di Antoniet­ta Portolano: «Già Balzac aveva detto: 'Dio preservi le donne dallo sposare un uomo che scrive libri'. E da un uomo che scrive i libri che Pirandello ha scritto?».

La gran parte dell’opera di Pirandello, la più significativa, viene dalla sofferenza sua e della consorte, finita in una casa di cura per malati di mente. E non soltanto Antonietta eb­be la vita segnata dall’essere moglie dell’auto­re dei Sei personaggi , ma tutti coloro che, in modo diverso, gli furono vicini. Specie le don­ne. Altra sua «vittima» fu la figlia Lietta, inna­morata del padre al punto da non staccarsene mai, neanche quando il matrimonio la portò in Cile. Non fece che pensare al genitore, Liet­ta, nel mentre tentava di vivere la sua vita con il marito e con i figli. E questo la costrinse ad andare avanti e indietro attraverso l’Oceano, in un succedersi sconvolgente di gioia e di strazio. Era tale l’affetto di Lietta per il padre, e quello di lui per la figlia, da spingere Anto­nietta, già preda della follia, ad accusarli d’in­cesto. E vi sono tracce, di questa macchia or­renda, in alcune opere del drammaturgo.

Un inferno, la vita familiare di Pirandello, speculare a quello delle donne che gli stava­no vicino. Un inferno, cui a suo modo si sot­trasse l’attrice Marta Abba, divenuta l’unica musa ispiratrice del «Maestro» senza condivi­derne né una casa né tanto meno il talamo.

Se dell’inferno domestico di Pirandello ci dicono tutto o quasi le sue opere, raramente è emerso qualcosa dal punto di vista femmini­le (quello di Antonietta e Lietta, soprattutto). Questo punto di vista ci viene offerto ora da Anna Maria Sciascia, figlia dello scrittore Leo­nardo, in un piccolo ma denso libro: Il gioco dei padri - Pirandello e Sciascia (Avagliano Editore, pagine 88, e 5). Un volumetto che vuol essere anche una confessione che sa di sfogo personale: «Scrivendo di loro mi è capi­tato spesso di piangere, un pianto non solo di intensa partecipazione emotiva, ma anche di liberazione. Il dramma di Antonietta, l’inquie­tudine di Lietta mi hanno portato, per simpa­tia, a rivedere la mia vita; pian piano attraver­so il ricordo di episodi, lacerazioni, piccoli traumi in parte dimenticati e talvolta rimos­si... ».

È certo gratificante vivere — da figli, da mogli — con un genio; ma se ne possono su­bire conseguenze gravi, per la propria perso­nalità, per la propria famiglia, per la propria carriera. Attraverso un processo d’identifica­zione, a volte doloroso, Anna Maria Sciascia ha potuto osservare dal di dentro i drammi di Antonietta e Lietta; così come ne ha colto an­che le gioie e i momenti esaltanti. «Il desti­no », scrive, «ci ha portate accanto a uomini straordinari e ognuna di noi ha reagito in ma­niera diversa anche se il filo conduttore è uni­co: un alternarsi di stati d’animo contrastanti: tormento ed estasi, croce e delizia». Antoniet­ta e Lietta, pirandellianamente, hanno trova­to la loro autrice.

lunedì 14 dicembre 2009

l’Unità 14.12.09
«I giovani non vedono più il futuro. Dobbiamo aprire il loro orizzonte»
Il regista: In Grecia la corruzione è un freno per l’economia, bisogna agire subito. Temo un’esplosione sociale, altrimenti, o il collasso
Intervista a Theo Anghelopoulos di Rachele Gonnelli

Non so dire se l’Italia si rispecchia nelle vicende della Grecia moderna o se preferisce rimuovere questo confronto dalla svolta di Salerno in poi. Ricordo ciò che una volta, in Sardegna, mi disse un prete cattolico, un esperto di Dante. Mi disse: la Grecia non esiste e neanche l’Italia, esiste solo una grande civiltà del Mediterraneo. La settimana scorsa durante le manifestazioni dei giovani ad Atene hanno arrestato anche cinque ragazzi italiani. Li ho visti e non erano solo cinque, erano tantissimi. Io dico: a questi ragazzi senza futuro dobbiamo una risposta, una risposta fondamentale per tutti quanti e per la società. È la risposta alla domanda: si può cambiare, si può ancora migliorare, cambiare la nostra vita, il nostro sviluppo? È una domanda che non si può, che sarebbe pericoloso ignorare». Theo Anghelopoulos uno dei più grandi registi al mondo, classe ’35 è stato definito da Antonio Tabucchi «poeta della Storia». Per il passo lieve e insieme mitologico con cui ha nell’ultimo mezzo secolo raccontato del regime dei colonnelli greci, della guerra in Bosnia, della caduta del Muro e dei confini ad Est, della disillusione rispetto al comunismo. Sabato era in Italia per parlare del mito di Ulisse e delle sue collaborazioni con artisti come Marcello Mastroianni, Gian Maria Volontè, Tonino Guerra, lo sceneggiatore che gli consigliarono Fellini e Tarkovskij, davanti a tanti giovani seduti per terra sui tappeti di una sala gelida del palazzo Doria Pamphili a Valmontone, ospite d’onore del 41 ̊ Parallelo, officina culturale ideata da Andrea Satta e dai Têtes de Bois. Si parla di musica popolare «rebetika», cinema e scambi culturali. Ma la Storia urge, con il secondo Natale di scontri di piazza e la Grecia in una crisi economica profondissima, sull’orlo della bancarotta, sotto la lente di osservazione di Bruxelles. Anghelopoulos non aspetta altro che di parlare di questo.
In Grecia si ha l’impressione di una situazione anni Settanta...
«No, anche allora c’era fermento, contestazione da parte degli studenti ma tutte le riunioni si svolgevano nelle case, in segreto. La dittatura non permetteva espressioni pubbliche. Sono passati quarant’anni, non un giorno. C’erano prigionieri, morti, c’era la resistenza ma ci aspettavamo molto dal futuro. Finita la dittatura tutto, pensavamo, sarebbe cambiato. Invece la destra è tornata al potere e il cambiamento non c’è stato. All’epoca speravamo in una luce dopo gli anni del buio invece l’orizzonte si è chiuso e oggi davanti ai giovani non c’è nulla. Questo sfogo, questa rabbia di adesso è per questa mancanza di apertura. È una società che non respira quella greca. La morte, mi correggo l’assassinio di un ragazzo Alexandros Grigoropoulos ucciso dalla polizia ndr è stato la causa scatenante».
La sua lettura è dunque di un moto di disperazione più che di un movimento che formula proposte? «Non ci sono proposte. Ma non ci sono in generale, solo negazioni, continui No».
Eppure nelle manifestazioni del Natale scorso c’era più violenza, la gente sembra diversa, più adulti, con servizi d’ordine più organizzati... «Sì, le cose ora sono più mature. In un anno questo movimento di giovani ha formulato non proposte ancora ma almeno domande, punti interrogativi. Mentre la società greca non più tanto giovane appoggia i giovani, nella stragrande maggioranza riconosce le ragioni di fondo della loro protesta. I partiti della sinistra, Siriza e il Kke, sono con loro, anche se prendendo le distanze dalla violenza e dalle distruzioni di vetrine e bancomat che fanno solo il gioco di chi vuole dare come unica risposta la repressione».
I koukoulofors, gli incappucciati, i Black bloc insomma, chi sono? «La vera domanda è: chi c’è dietro?. Non c’è risposta. I ragazzi portano le felpe con il cappuccio ma ci sono anche provocatori vestiti così che vogliono il caos, in una sorta di strategia della tensione».
Il premier Papandreu mette al primo posto la lotta alla corruzione, è davvero così estesa? «C’è in tutto il mondo ma in una economia debole come quella greca si avverte molto di più come freno. Il giovane Papandreou ha fatto molte promesse, governa da poco, dopo il fallimento del governo corrotto del giovane Karamanlis, ma non abbiamo ancora visto nulla. Deve agire subito o si rischia il collasso. La gente deve uscire dallo sbando, temo un’esplosione sociale. O una rivoluzione».

l’Unità 14.12.09
Parlagli, il pancione ti ascolta
Raccontare e leggere ai bambini non è solo un atto d’amore, migliora le capacità cognitive e affettive dei piccoli e fortifica la relazione con i genitori. E l’editoria si sta adeguando...
di Manuela Trinci

Gli studi La voce della mamma che racconta dà un imprinting d’amore al feto
L’editoria si sta già adeguando: «Legginpancia»,«Legginbraccio» sono alcuni titoli

Leggere ad alta voce fa bene, persino ai lattanti. È un atto d’amore. Ma dopo lo scalpore mediatico suscitato lo scorso anno da una ricerca della Boston University School of Medicine secondo la quale novelle, filastrocche e ninne nanne – sussurrate o canticchiate ai bebé, a partire dai sei mesi migliorano le capacità cognitive ed emotive, arricchiscono il vocabolario, fortificano la relazione fra il bambino e il genitore, le varie «Millanta, la gallina canta», «Ninna nanna, ninna mamma» o «Fate la nanna coscine di pollo», sono diventate quasi garanti di neonati dal futuro «con una marcia in più». Quindi, una volta ricevuto l’imprinting «lettura uguale amore di mamma e papà», i ragazzini coltiverebbero interesse per la lettura e conoscerebbero un accelerazione degli apprendimenti, senza considerare un effetto collaterale a dir poco sorprendente: l'aumento dei libri letti dai genitori e non solo quelli di favole.
Individuata dunque in cantilene, vezzeggiamenti e lallazioni che si accompagnano anche alle pratiche di accudimento la preistoria del raccontare-ascoltare storie, la parola d’ordine che oggi rimbalza di culla in culla sino agli autorevoli siti Nati per Leggere, Reach out and read o il Bookstart, è diventata: per comunicare non è mai troppo presto!
Catturati così, un po’ tutti, da una divertente vertigine delle origini, le mamme in attesa, le storie, hanno iniziato a leggerle alle pance. D’altra parte, sappiamo bene come l’udito sia tra i sensi a distanza, parimenti a vista e olfatto, tra i primi a essere utilizzati dal feto. Immerso in un bagno di suoni primordiali il nascituro, dopo che il suo orecchio si sia formato e sia funzionante, sente e ben riconosce la voce della mamma. Da parte loro i genitori, con parole di latte, si allenano a... scaldare la voce.
LIBRI & BIBERON
Legginpancia e Legginbraccio, Racconti col pancione, Letture... nel marsupio, sono alcuni dei titoli che girano e rigirano fra biblioteche e corsi di preparazione alla nascita, dalla biblioteca delle Oblate di Firenze a quella di Cuneo, dal Centro Nascita di Sassari all’Ospedale di Chieri sino all’Umberto I di Torino, in una inedita, utilissima, intersezione interdisciplinare fra bibliotecari, ostetriche, pediatri e psicologi.
Inserire, allora, un libro nel corredino – fra biberon, camiciotti e carillon – è l’idea che la Franco Panini Editore ha recentemente lanciato con la linea ZEROTRE, librini da magiare, accarezzare, stropicciare ammollare e da portare nel lettino, nel passeggino o in pancia...
Insomma: toccare per credere!
E nenie e filastrocche provenienti da tutte le parti del mondo sono pure al centro di un’interessante esperienza bolognese voluta fortemente dal Centro Clinico per la Prima Infanzia; un servizio, che fa parte dell’Area di Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza del Dipartimento di Salute mentale, dell’AUSL di Bologna.
Bell’esempio di buona sanità, Voci InMusica è, di fatto, un gruppo interculturale di musica per mamme-in attesa o con piccolissimi bambini che risponde a criteri di prevenzione nei quali è la musica a farsi ponte, mediatore culturale, straordinario momento di meticciatto, che favorisce un’atmosfera rasserenante, una comunanza fisica ed emotiva fra differenti storie personali e valori sociali.
In effetti, per la maggior parte delle famiglie migranti, manca una «rete» sociale. In tale maniera, le mamme, lontane dalla loro terra, sradicate dalle proprie abitudini e dai propri modelli relativi all’accudimento, vivono spesso in solitudine sia il periodo della gravidanza sia i primi momenti della vita del piccino, trovandosi magari, poi, a disagio nel ruolo di madre esule.
Materiali sonori alternativi, libri musicali con raccolte indigene di filastrocche, sollecitano e coinvolgono, in una pluralità di stili, le neo-mamme presenti che condividono con il gruppo canti e musiche facenti parte della loro esperienza, dei loro luoghi, della loro infanzia. I fili delle storie si ritessono e i piccoli incontrano infanzie lontane, nostalgie e delusioni e speranze in un futuro dalle frontiere mobili, libero. Come libere sono le storie.
Perché la madre che legge o canta al bambino una storia, parla con lui, parla del mondo... proprio come scriveva Gianni Rodari.

l’Unità 14.12.09
Dal Medio Oriente alla Siberia, la marcia di Homo Sapiens
Su Science la ricerca degli scienziati di 11 paesi. Studiando il Dna di 73 popolazioni asiatiche ribaltano teorie consolidate. Ma la notizia è anche un’altra: pure loro, gli scienziati, per la prima volta sono tutti asiatici.
di Pietro Greco

80.000 anni fa fu un’unica migrazione a popolare l’intera Asia
93 genetisti per la ricerca. Per la prima volta un team tutto asiatico

L’Asia, il più grande e popoloso continente del mondo, è stato colonizzato per la prima volta da Homo sapiens con un’unica grande ondata migratoria che, partita dal Medio Oriente (e prima ancora dall’Africa), ha costeggiato il subcontinente indiano, conquistato i grandi arcipelaghi dell’Indopacifico, si è estesa a nord, giungendo in Cina e dilagando, infine, nelle gradi steppe siberiane. La grande spinta iniziale ha dato poi vita a una grande diversificazione (pur nell’ambito della sostanziale omogeneità della specie umana): nella sola Indonesia, ancora oggi si contano 300 popolazioni diverse. E nelle Filippine sono 180. Come è nata tanta diversità? Da un evento iniziale unico. La storia della conquista umana dell’Asia è stata ricostruita da un gruppo di 93 genetisti, appartenenti a 40 istituzioni di 11 paesi, che ha esaminato il Dna di 1.900 persone rappresentative di 73 popolazioni asiatiche. Di ciascuno l’equipe ha esaminato 50.000 SNP (polimorfismi del singolo nucleotide). Ovvero siti genetici dove una singola mutazione determina una forma (allele) alternativa di un medesimo gene. Lo studio di questa enorme massa di dati ha consentito di verificare non solo la (ormai scontata) omologia tra diversità genetica e diversità linguistica, ma anche che la diversità diminuisce spostandosi dal sud verso il nord dell’Asia e che tutte le variazioni presenti a nord sono presenti anche al sud (ma non viceversa). Il che significa, appunto, che il nord del continente è stato colonizzato da popolazioni provenienti dal sud.
UNA PARTITA PLANETARIA
In realtà, il team – che ha pubblicato i risultati della sua ricerca sull’ultimo numero di Science – ha potuto stabilire che la colonizzazione dell’intera Asia è avvenuta sulla spinta di una singola ondata migratoria che ha seguito il tragitto che abbiamo già descritto. Con ciò falsificando due vecchie teorie che non hanno retto alla prova. La prima sosteneva che l’Asia era stata colonizzata mediante due flussi migratori, uno a sud e l’altro a nord. La seconda, invece, proponeva una singola ondata di uomini che si sarebbero inoltrati nelle steppe dell’Eurasia, avrebbero raggiunto le coste del Pacifico e poi colonizzato il sud del continente. Oggi sappiamo che è andata in un altro modo (anche se non sappiamo dire con esattezza quando è avvenuta la grande spinta migratoria dal Medio Oriente: probabilmente è iniziata intorno a 80.000 anni fa). Ma la ricerca pubblicata su Science è importante anche per un’altra ragione. I 93 scienziati di 40 istituzioni di 11 paesi diversi sono, a loro volta, tutti asiatici. Non era mai avvenuto prima, in una ricerca di così vasta portata in genetica delle popolazioni. E il fatto è la dimostrazione più convincente che il grande continente è diventato uno dei poli importanti della ricerca scientifica mondiale, anche nei settori della ricerca di base. La scienza sta diventando sempre più una partita giocata su un campo grande quanto il mondo intero.❖

Repubblica 14.12.09
Contro la violenza per la libertà
di Ezio Mauro

Hanno colpito Berlusconi. L´immagine del volto del Premier trasformato in una maschera di sangue raggiunge tutti noi con la sua carica di violenza. Con la follia che trasforma un uomo in simbolo da abbattere ad ogni costo e con ogni mezzo, e la persona che diventa un bersaglio fisico. Il film drammatico di piazza Duomo farà il giro del mondo, testimoniando il degrado dello scontro politico in Italia. Ma per una volta, non è questo che conta. Conta l´effetto su ognuno di noi, sul Paese, sul sistema politico.
Amici e avversari, sostenitori e oppositori oggi devono essere solidali con il premier – come siamo noi – e senza alcun distinguo, nel momento in cui è un uomo colpito dalla violenza. E devono fare muro contro l´insania di questo gesto, prima di tutto perché è gravissimo in sé e poi perché può incubare una stagione tragica che abbiamo già sperimentato, negli anni peggiori della nostra vita.
Solo così la politica (che la violenza vuole ammutolire) può salvarsi, ritrovando il suo spazio e la sua autonomia, nella quale è compreso il confronto durissimo tra maggioranza e opposizione e anche lo scontro di opinioni, programmi e strategie. Ma distinguendo, sempre, tra le critiche e l´odio, tra il contrasto d´idee e la violenza, tra le funzioni e le persone.
Anche se il gesto di piazza Duomo è fortunatamente isolato e frutto di follia, in gioco c´è niente meno che la libertà. La libertà di Berlusconi di dispiegare le sue politiche e le sue idee coincide con la nostra stessa libertà di criticarlo. Questo spazio di libertà si chiama democrazia: difendiamola.

Repubblica 14.12.09
L’identità al tempo di Google
di Stefano Rodotà

Come si può oggi rispondere all´antica domanda «Chi sono»? Fino a ieri, sia pure tra molte cautele, si poteva ben dire «io sono quello che dico di essere». Ma siamo ormai entrati in un tempo in cui sempre più si dovrà ammettere «io sono quel che Google dice che io sono». E lì, in quello sterminato catalogo del mondo e nelle infinite altre banche dati che implacabilmente conservano informazioni personali, viene costruita la nostra identità, in forme che sempre più sfuggono al controllo dello stesso interessato.
Sapevamo forse da sempre che lo sguardo dell´altro contribuisce a definire la nostra identità. Scriveva Sartre che «l´Ebreo dipende dall´opinione sulla sua professione, sui suoi diritti, sulla sua vita». Questa dipendenza è cresciuta in modo determinante negli ultimi trent´anni, da quando l´elettronica non solo ha reso possibile raccogliere e conservare una quantità tendenzialmente infinita di dati, ma soprattutto consente di ritrovarli fulmineamente, di metterli in rapporto tra loro, e così di tracciare profili che diventano gli strumenti attraverso i quali ciascuno di noi viene conosciuto, valutato, continuamente ricostruito. L´identità "digitale" prende il sopravvento, rischia d´essere il solo tramite con il mondo, ponendo problemi prima impensabili. Poiché la nostra esistenza sta diventando un flusso continuo di informazioni, un´infinità di rivoli che vanno nelle più diverse direzioni, non solo l´identità si conferma sempre mutevole, ma rischia di divenire completamente instabile, affidata com´è ad una molteplicità di soggetti, ciascuno dei quali costruisce, modifica, fa circolare immagini di identità altrui.
Chiunque si trovi ad avere una biografia su Wikipedia, la grande enciclopedia in rete costruita attraverso il contributo di tutti quelli che vogliono intervenire, sa che è buona norma tenerla sotto controllo, per correggere errori, eliminare invenzioni, integrarla con elementi che gli autori hanno ritenuto irrilevanti, proprio per evitare che sia proiettata sul mondo una falsa identità. Un affare di pochi? Consideriamo, allora, la comunicazione elettronica nel suo insieme, quella che coinvolge tutti, bambini compresi, e che si realizza attraverso il telefono fisso e mobile, gli sms, la posta elettronica, gli accessi e la presenza su Internet. Di tutto questo rimangono tracce, conservate per legge anche per lunghi periodi. Il risultato? La possibilità di ricostruire l´intera rete delle relazioni di una persona (a chi ho telefonato o mandato sms o messaggi di posta elettronica, e con quale frequenza), dei suoi spostamenti (da dove ho chiamato), dei suoi gusti (a quali siti accedo), delle sue opinioni o credenze (con quale partito o chiesa sono in contatto). Si dice, però, che in questi casi la garanzia è offerta dal fatto che non vengono conservati i contenuti delle conversazioni o dei messaggi (anche se non è sempre così). Ma questa apparente garanzia nasconde un rischio grandissimo. Facciamo un confronto con il tema controverso delle intercettazioni. In questi casi, se ho parlato con una persona implicata in vicende poco chiare o illegali, posso sempre dimostrare che la conversazione era del tutto estranea alla materia dell´indagine. Se, invece, dal tabulato telefonico risulta soltanto il fatto della chiamata, rimane il sospetto di un contatto equivoco. Non a caso grandi associazioni europee per la difesa dei diritti civili stanno chiedendo all´Unione europea proprio la modifica delle norme sulla conservazione di questi dati.
Sta cambiando la natura stessa della società, che si trasforma in "società della registrazione", dove per ragioni di sicurezza o interessi di mercato si determina una ininterrotta schedatura di tutto e di tutti. Accade così che tutti vivano in un universo dove brandelli dell´identità di ciascuno sono sparsi in banche dati diverse. Così l´identità diventa multipla; si articola attraverso il presentarsi sulla scena del mondo con una molteplicità non solo di pseudonimi, ma di rappresentazioni di sé; conosce gradi diversi di persistenza pubblica, che variano a seconda dell´intensità con la quale viene riconosciuto un "diritto all´oblio", legato soprattutto alla possibilità di far scomparire dalla rete informazioni che ci riguardano. E la libera costruzione della personalità si collega sempre più ampiamente al "diritto di non sapere", di bloccare l´arrivo di informazioni sgradite. Una libertà che potrà essere meglio garantita dal nuovo "diritto a rendere silenziosi i chips", cioè dal potere della persona di disporre di strumenti tecnologici che possono in qualsiasi momento interrompere le diverse forme di raccolta delle sue informazioni personali attraverso apparati elettronici, affrancandosi così da controlli esterni. Appare evidente che l´identità si definisce sempre più nettamente in base al rapporto tra persona e tecnologia, alla progressiva immersione in un ambiente popolato da "oggetti intelligenti", che forniscono infinite informazioni sui nostri comportamenti.
Ma cambia anche il significato "relazionale" dell´identità. Le reti sociali, emblema dell´Internet 2.0, incarnano questo mutamento. Si va su Facebook per essere visti, per conquistare una identità pubblica permanente che superi il quarto d´ora di notorietà che Andy Wahrol riteneva dovesse divenire un diritto di ogni persona. Si alimenta il "pubblico" per dare senso al "privato". Si esibisce un insieme di informazioni personali, il "corpo elettronico", così come si esibisce il corpo fisico attraverso tatuaggi, piercing e altri segni d´identità. L´identità si fa comunicazione.
Ma che cosa accade a questa identità tutta rovesciata all´esterno? Essa diventa più disponibile per chiunque voglia impadronirsi di un numero sempre crescente di informazioni che ci riguardano, raccolte in luoghi talora irraggiungibili e utilizzate da soggetti talora ignoti. L´identità rischia di farsi "inconoscibile", la sua costruzione obbliga a un interrotto peregrinare in rete, per scoprire chi parla di noi, per impedire abusi. Ma lungo questo cammino scopriamo come possa divenire vana la pretesa del "conosci te stesso".
La costruzione dell´identità, dunque, si effettua in condizioni di dipendenza crescente dall´esterno, dal modo in cui viene strutturato l´ambiente nel quale viviamo, dal "digital tsunami" che si sta abbattendo su di noi, che alimenta la bulimia informativa di organismi di sicurezza e di attori del mercato, tutti vogliosi di impadronirsi della crescente quantità di informazioni che può essere prodotta da ogni contatto che stabiliamo, da ogni oggetto che adoperiamo. Da qui nasce una ininterrotta produzione di "profili" personali, che stabiliscono confronti con modelli di normalità e spingono ad assumere una identità "obbligata", necessaria per l´accettazione sociale, per sfuggire a stigmatizzazioni o a costi nell´attività quotidiana.
Proprio per evitare questi condizionamenti, si progettano forme di identità funzionali, che comunicano all´esterno solo quella porzione di identità strettamente necessaria per la realizzazione di un determinato risultato. Partendo della premessa che siamo ormai nel mondo delle identità multiple, la persona dovrebbe poter autonomamente gestire un profilo riguardante la salute, un altro per l´acquisto di beni e servizi e così via, dunque una "rete di identità" che eviti i rischi connessi al doversi rivelare integralmente all´esterno.
Ma proprio il requisito dell´autonomia rischia di essere cancellato dalle sperimentazioni sull´"autonomic computing". Si può, infatti, creare uno schema che "cattura" l´identità in un determinato momento e poi la sviluppa in base ad una serie di informazioni fornite da una molteplicità di fonti, senza partecipazione e consapevolezza da parte dell´interessato. La separazione tra identità e autonomia può così divenire totale. Si parte da una identità "congelata", che viene poi affidata a algoritmi che ne costruiranno il futuro. Possiamo chiudere gli occhi di fronte a questa prospettiva, dimenticando che la logica dell´algoritmo onnisciente è tra le cause della devastante crisi finanziaria?

Repubblica 14.12.09
I minareti e la “sindrome svizzera"
di Timothy Garton Ash

Così Nicolas Sarkozy, in risposta al no svizzero ai minareti, ci invita a praticare la fede con "modestia e discrezione". Sentirsi raccomandare modestia e discrezione da Sarkozy è come farsi consigliare un abbigliamento sobrio da Lady Gaga, udire l´elogio della fedeltà coniugale dalla bocca di Tiger Woods o l´invito a sacrificare i propri interessi da parte di un banchiere.
Ma il volubile presidente francese ha ragione quando dice dalle pagine di Le Monde che non basta limitarsi a condannare l´esito del referendum svizzero, ma che bisogna cercare di capirne le motivazioni e di valutare quanto questo risultato sia specchio dell´Europa di oggi. Come è possibile che in un paese con quattro soli minareti il 57 per cento dei votanti su un´affluenza alle urne pari al 53 per cento - in altre parole più di un quarto dell´elettorato svizzero - abbia voluto introdurre il divieto di costruire minareti?
Il voto è stato forse influenzato dai manifesti provocatori con i minareti a mo´ di missili sulla bandiera svizzera, accostati alla minacciosa figura di una donna velata? O da ridicole argomentazioni come quelle avanzate da Oskar Freysinger, del partito popolare svizzero, secondo cui «la presenza di minareti in Europa significherà che l´Islam avrà preso il sopravvento». Secondo questa logica Spagna e Gran Bretagna sono già paesi islamici. Si è trattato di un´espressione dell´"islamofobia" dilagante, che trova bersagli diversi a seconda dei paesi, ma fondamentalmente inocula lo stesso veleno sotto pelle? O è stata solo ansia? Gli svizzeri si sono chiesti: la nostra società è cambiata così in fretta - dove andremo a finire?
Che sia chiaro: è stato un voto sbagliato sia in linea di principio che a livello politico. La Corte Europea dei diritti umani rileverà con ogni probabilità la violazione del principio di libertà religiosa per come viene interpretato nell´Europa del ventunesimo secolo. La libertà religiosa non può esprimersi così: noi cristiani ed ebrei abbiamo le nostre chiese e le nostre sinagoghe, ma voi musulmani non potete avere le vostre moschee. La vostra religione è tollerabile fino a che viene praticata solo da adulti consenzienti in privato. Significa spostare le lancette dell´orologio della tolleranza di trecento anni indietro, ad un tempo in cui i protestanti nella cattolica Francia non potevano praticare il culto pubblicamente. Ovvio che le norme urbanistiche e la realtà paesaggistica vanno rispettati. Ma il voto svizzero non riguardava i piani urbanistici.
C´è chi ribatte che molti paesi islamici non consentono la costruzione di chiese cristiane. Perché allora i paesi europei dovrebbero permettere agli islamici di erigere minareti? È come dire beh, in America c´è la pena di morte, perché quindi in Italia non si condanna alla sedia elettrica Amanda Knox? Oppure: in Arabia Saudita lapidano le adultere, perché noi non dovremmo torturare gli arabi? In molti paesi a maggioranza musulmana è diffusa l´intolleranza verso i cristiani, gli ebrei ed altri gruppi religiosi (Bahai, Ahmadiyya ecc.) e, non da ultimo, verso gli atei, ma le nostre critiche a tale intolleranza sono credibili solo se in patria mettiamo in pratica i principi universali che predichiamo all´estero. Come disse un tempo qualcuno: fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Il voto che vieta i minareti è sbagliato non perché in Europa non esistano problemi legati ai musulmani. È sbagliato perché i problemi legati ai musulmani in Europa sono tanti. Dobbiamo decidere quali contino davvero e quali siano di secondaria importanza.
Sul versante musulmano esiste ad esempio il problema dell´estremismo radicale e quello dell´illiberalismo reazionario (vedi il trattamento riservato alle donne in alcune comunità conservatrici musulmane). Sul versante non musulmano si evidenzia la tendenza a fare di tutta l´erba un fascio, condensando problematiche relative al terrorismo, all´immigrazione, ai richiedenti asilo, alla disoccupazione e alla criminalità nella paura dell´"Islam". Il peggio che può capitare è la polarizzazione attorno a due tematiche puramente simboliche, con una parte, costituita quasi interamente da non musulmani che grida all´"Islam" e l´altra, costituita quasi interamente da non musulmani che risponde "islamofobia".
La Svizzera mostra quale è il rischio di scivolare in una guerra culturale, un Kulturkampf, che non tocca il nocciolo del problema. Il nocciolo del problema non è l´Islam o l´anti-Islam, non sono i minareti e il velo, ma gli elementi essenziali a garantire una società libera: libertà di parola; diritti umani; sicurezza personale contro il terrorismo, la criminalità e il potere arbitrario dello stato; eguaglianza davanti alla legge di uomini e donne, ricchi e poveri, fedeli di ogni credo e non credenti; scuole in cui i principi e i valori di un paese libero siano appresi e interiorizzati da bambini di ogni provenienza, qualunque tipo di insegnamento ricevano o non ricevano a casa.
Non tutti i musulmani saranno sempre in grado di sostenere tutti i requisiti essenziali di una moderna società libera. Esiste reale tensione tra alcuni di questi requisiti (ad esempio la parità di diritti e dignità degli omosessuali) e gli insegnamenti normalmente impartiti nelle comunità tradizionali conservatrici musulmane. Ma la maggioranza dei musulmani europei li sosterranno nella maggioranza delle occasioni. Non dobbiamo permettere che i battibecchi totemici su minareti e veli oscurino la battaglia che conta davvero.
www. timothygartonash.com
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere della Sera 14.12.09
Repressione. Voci a Teheran di arresto imminente per Mousavi e Kharrubi
«I nemici della Repubblica islamica sono come schiuma sull’acqua»
Iran, la rabbia di Khamenei «L’opposizione va eliminata»
di Viviana Mazza

Dopo il caso del poster di Khomeini bruciato in strada

Un monito duro. Un ultima­tum ai leader dell’opposizione. «Alcuni hanno trasformato la campagna elettorale in una cam­pagna contro l’intero sistema», ha detto ieri la Guida suprema Ali Khamenei in un discorso mandato in onda dalla tv di Sta­to. «Hanno violato la legge, orga­nizzato rivolte e incoraggiato la gente a opporsi al sistema», ha incalzato. «Ma i nemici della Re­pubblica islamica sono come schiuma sull’acqua e saranno eli­minati. Ciò che resterà sarà il si­stema islamico». Pur senza no­minarli, il leader religioso, politi­co e militare dell’Iran ha ordina­to ai rivali di Ahmadinejad, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Kar­roubi, che 6 mesi dopo le elezio­ni accusano ancora di brogli il presidente, di desistere. O saran­no puniti. Minacce che alimenta­no le voci, diffuse da giorni, sul­l’arresto imminente dei due e su misure contro gli ex presidenti riformisti Khatami e Rafsanjani. Khamenei ha affermato che come risultato delle loro azioni, l’immagine del fondatore della Repubblica Islamica Ruhollah Khomeini è stata dissacrata («stanno apertamente violando la legge, hanno insultato l’Imam») e ha chiesto alle autori­tà di identificare i colpevoli. Do­po le ultime proteste degli stu­denti, il 7 dicembre, la tv di Sta­to ha mandato in onda più volte un filmato nel quale un presun­to manifestante brucia l’immagi­ne di Khomeini, crimine punibi­le con due anni di carcere. Sullo sfondo si sentono slogan dell’op­posizione, ma del «colpevole» si vedono solo le mani. L’opposi­zione dice che è un falso, realiz­zato per screditarli. «Sappiamo tutti che gli studenti amano l’Imam e sono pronti a sacrifica­re la vita per i suoi obiettivi», ha dichiarato Mousavi. «È una scu­sa per reprimere l’opposizione usando il nome e la reputazione dell’Imam», ha detto Karroubi.
Secondo i siti riformisti, du­rante una riunione nell’ufficio della Guida Suprema sabato se­ra, il «fronte» dei Pasdaran e di Ahmadinejad gli avrebbe chiesto l’arresto di Mousavi e altri leader per mettere fine alle proteste: al­cuni sostengono che potrebbe av­venire prima dell’Ashura (26-27 dicembre), per evitare che l’oppo­sizione usi le processioni in me­moria dell’Imam Hussein per scendere in piazza. Un’obiezione sarebbe però stata sollevata: arre­starli ne farebbe dei martiri, pro­prio come Hussein. Entrambi i fronti rivendicano infatti gli stes­si simboli. I Pasdaran, responsa­bili della repressione, chiedono che chi ha insultato Khomeini (e «chi sta dietro le quinte») sia pro­cessato e punito. Il procuratore di Teheran Jafari-Dolatabadi ha avvertito: «Nessuna pietà per chi ha offeso l’Imam». Ma l’Istituto di Khomeini, gestito dalla sua fa­miglia, mette in dubbio l’autenti­cità del filmato. E Mousavi ha sempre criticato la politica estera ed economica di Ahmadinejad chiedendo però come il rivale il ritorno ai «valori fondamentali» di Khomeini. Ieri sia gli studenti conservatori che quelli anti-go­vernativi protestavano stringen­do l’immagine del fondatore del­la Repubblica islamica.
Allo stesso tempo, però, il mo­vimento nato come critica con­tro i brogli si sta trasformando — nelle piazze almeno — in una sfida sempre più radicale al siste­ma. Mentre Khomeini è riverito, la piazza ha gridato «Morte» al suo successore Khamenei, bru­ciandone e calpestandone il vol­to. Lui invita i leader a prendere le distanze dalla piazza. Non una mano tesa, ma un ordine. «Le elezioni sono finite, sono state le­gali », ha ribadito, chiamandoli «ex fratelli», ammonendo che «il sistema giudiziario deve com­piere il suo dovere». «Qualcosa sta per accadere», avvertiva il si­to di Mousavi, Kaleme , invitan­do i sostenitori a scendere in piazza se dovesse essere arresta­to.

Corriere della Sera 14.12.09
Il retroscena La strategia del regime per reprimere l’Onda Verde
Quei dissidenti trasformati in contro-rivoluzionari
di Guido Olimpio

WASHINGTON — Il regime ira­niano è pronto a sferrare un nuovo colpo di maglio sull’opposizione. E per renderlo più accettabile a quei cittadini che fino ad oggi sono rima­sti neutrali ha bisogno di un prete­sto. Che trasformi gli avversari da contestatori in contro-rivoluziona­ri, contro i quali tutto è lecito. A questo serve il caso delle immagini di Khomeini bruciate dagli studen­ti. Un episodio che può essere attri­buito alla dissidenza ma che ha an­che gli indizi della provocazione. Un pericolo avvertito dagli uomini di Mousavi, il tenace avversario del presidente Ahmadinejad: attenzio­ne — hanno avvisato ieri — sta per accadere qualcosa.

La sfuriata del leader Ali Khame­nei, i moniti dei pasdaran e gli attac­chi del ministro dell’Intelligence contro l’ex presidente Rafsanjani rappresentano la preparazione del terreno. Nervosi per una contesta­zione che non muore, preoccupati per il confronto sul nucleare, consa­pevoli delle fratture interne, Ahma­dinejad e la Guida hanno raddoppia­to gli sforzi per adottare le contro­misure. Sul piano politico puntano a mettere fuori legge chi non li ac­cetta presentandoli come personag­gi capaci di minare le fondamenta della Rivoluzione islamica. Giochet­to vecchio quanto le cariatidi con il mantello ma che funziona sempre.

La storia del Paese — come con­ferma Ali Karbalai, un esponente del dissenso in Italia — è ricca di episodi in questo senso. Dal miste­rioso incendio del cinema Rex ad Abadan (1978, 500 morti) usato per incitare alla rivolta contro lo Scià al­l’affare Rushdie cavalcato da Kho­meini passando per attentati attri­buiti a questo o a quel gruppo di ter­roristi.

Sul piano della sicurezza hanno perfezionato l’apparato repressivo. Nuovi incarichi per pasdaran e le milizie affiliate, dai basiji agli Hezbollah. Al minimo accenno di di­mostrazione, la parola passa a col­telli e spranghe. Bastonature segui­te da arresti indiscriminati. Deten­zioni accompagnate da torture. A occuparsi dell’opposizione c’è la ne­onata «Organizzazione per l’Intelli­gence » dei guardiani. In quest’ambi­to i pasdaran hanno creato un’unità specializzata nella «guerra» su Inter­net, rivelatosi fondamentale per i se­guaci di Mousavi nel diffondere in­formazioni alternative.

Fonti Usa non escludono che il re­gime abbia anche ingaggiato hacker stranieri (in particolare russi) per bloccare siti e comunicazioni. Inten­sa l’attività di disturbo verso tv e ra­dio che dall’estero trasmettono ver­so l’Iran. Sempre i pasdaran sono pronti a lanciare una loro divisione «media», con un’agenzia che diffon­derà informazioni a getto continuo. Mentre 6 mila basiji hanno aperto se­zioni nelle scuole in modo da forgia­re, fin da piccoli, i «balilla» degli ayatollah. Una guerra culturale e un grande bavaglio che anticipano, pro­babilmente, una grande randellata sulla testa di chi osa sfidare un regi­me vergognoso.




Speranze laiche Una meditazione sulla creazione e la natura della realtà, dalla Bibbia a Sant’Agostino, alle contraddizioni di oggi

Corriere della Sera 14.12.09
La favola che aiuta a vivere
Il mistero di Dio e quello del Male ci permettono di sfuggire al Nulla
di Raffaele La Capria

Che faceva Dio prima di crea­re il mondo? Se lo doman­dava anche Sant’Agosti­no. Ma quando si parla di Dio non si può usare la parola «prima», per­ché questa parola ha a che fare col tempo e quando si dice Dio si dice eterno, infini­to.

Si dice senza tempo e incollocabile nel tempo. E comunque se vuoi rispondere in termini umani a una domanda che non prevede termini umani, alza gli occhi al cielo in una notte stellata. «A che tante fa­celle? », ti domanderai. Le hai mai contate? Sono milioni, miliardi, sono infinite an­ch’esse come chi le accese. Se Dio creò il mondo in sette giorni, come dice la Bib­bia, e se ci mise altrettanto per creare ogni stella, quelle che vediamo e quelle che non vediamo, infinito come le stelle sareb­be il suo creare. E dunque prima di creare il nostro mondo Dio faceva quel che fa ora, quel che sta da sempre facendo, per­ché Dio è eterna e continua creazione, e chissà cosa ci mise in ogni stella e cosa ora ci sta mettendo. Nella nostra mise la luce e la distinse dalle tenebre, ci mise il mare e i pesci, la terra gli animali e le piante, il cie­lo e gli uccelli, il sole, la luna e tutto il cor­teo dei pianeti che ci accompagna. Nelle altre stelle non possiamo neppure immagi­nare cosa ha messo, ma saranno cose mira­bili come quelle che ha creato nel nostro mondo, mirabili come l’uomo che le con­templa e ci ragiona, vedendo in esse la ma­no di Dio. Ecco, ora una stella cade e lascia dietro di sé una polverina luminosa nel cie­lo notturno e mentre questa cade un’altra chissà dove sta nascendo, perché la crea­zione non è mai compiuta e avviene di con­tinuo, non si ferma mai. Se si fermasse ci sarebbe il Nulla e il Nulla è ciò che è im­pensabile, è il contrario di Dio che invece è pensabile, tant’è vero che io ora sto pen­sando. Se il nulla fosse pensabile sarebbe come cancellare l’esistenza del Dio Creato­re e questo è impossibile perché la sua cre­azione è sotto gli occhi di tutti.

Ecco, è questa la favola che mi sto rac­contando, la favola in cui credo e che mi sostiene, la favola che ognuno si racconta secondo la propria fede.

Ma a turbarla subentra un altro pensie­ro che suscita tremore e terrore: non sia­mo portati a pensare Dio un po’ troppo a nostra immagine e somiglianza? A pensar­lo come un Divino Artista che ha i nostri sentimenti di amore e giustizia? Ma se non fosse così? Se fosse soltanto terribile? Cioè quel Dio che ha creato la gazzella ma anche lo scorpione, ciò che chiamiamo Amore e ciò che chiamiamo Orrore, ciò che diciamo Buono e ciò che diciamo Catti­vo. Ci ama questo Dio o siamo per lui co­me le formiche che spazziamo via con un gesto senza pensarci un momento? A volte sembra che ci ami, a volte no. È volubile questo Dio o è distratto? Ad Auschwitz cer­to era distratto, e non solo lì.

Quante volte gira la testa da un’altra par­te e non vede le cose atroci che accadono. Lo dissero anche i soldati romani a Cristo inchiodato sulla croce: dov’è il tuo Dio? Perché non viene a salvarti? E Cristo inva­no lo chiamò nell’agonia: padre, padre, perché mi hai abbandonato? Eli, Eli, lam­ma sabactani ! Già, perché tante volte ci ha abbandonati nell’agonia? Glielo chiese an­che Giobbe e non ebbe risposta. È lì il mi­stero, nel silenzio di Dio. Forse se Dio non risponde — mi dico a volte — è perché sta combattendo. Credi che per far crescere una pianta o il cervello di un uomo e i suoi nervi o un piccolo fiore dei campi di cui nessuno si accorgerà mai, non sia necessa­rio il suo combattimento? «La forza che preme nel gambo e scoppia nel fiore» non è il Dio combattente della Creazione Conti­nua? E la forza che piega quel fiore e lo fa appassire non è sempre Lui? E chi fa vivere le cellule che distruggono il corpo di una persona amata, non è sempre Lui? Creare può essere continua presenza ma anche continuo dolore, il Suo e il nostro. Il dolo­re dell’uomo o di un animale, il destino di un povero pollo di batteria o di un vitello portato innocente al macello fa parte della creazione.

Ma fa parte della creazione che ogni cre­atura vivente per continuare a vivere debba uccidere un’altra creatura vivente, e man­giarla, masticarla, ridurla in poltiglia in un bolo disgustoso, ingerirla ed espellerla co­me escremento? Chi ha inventato tutto que­sto? E come mai tutto questo «si tiene» e non collassa? Non sprofonda nelle tenebre e nel gelo? Questo mi fa paura e mi sconcer­ta, è il contrario di quell’armonia che pur immagino e che tante volte mi è stato con­cesso di scoprire nelle cose create. Tutto questo mi trascende e forse è inevitabile mi dico, ma perché? Tutto questo non ha risposta. Ed è parte del miste­ro-che-non-ha-risposta l’intreccio inestri­cabile di bene e male che forse è implicito nella creazione, perché la forza che crea è la forza che distrugge ed entrambe forse so­no necessarie alla vita.

Ma a me questo non basta, perché se Dio fosse tutto questo, io mi sentirei un ca­suale accidente del creato. Nella realtà mi considero invece un uomo rispettoso del Suo mistero, ma una risposta la vorrei. E la vorrei non solo per me, ma anche per l’asi­no legato alla ruota del mulino, per il bue e per il maiale. Vorrei la risposta a questa do­manda: la sofferenza e il dolore sono inuti­li? Non saranno registrati in nessun libro? Sono gratuiti? Sono per nulla? La risposta non può essere il Tuo silenzio. Perché allo­ra la favola che mi raccontavo del Dio Vin­cente va in frantumi. E se la favola non resi­ste e la fede vacilla, chi mi sosterrà?

No, forse è sbagliato tutto il mio modo di impostare la faccenda. Forse il mio mo­do è umano, troppo umano. Forse Dio è al­tro e io sono una particella minima di un ingranaggio inafferrabile. Come posso pre­tendere di capirlo, di superare lo scoglio su cui si sono imbattute tutte le religioni, se non so nemmeno io chi sono e che cosa potrei essere in determinate condizioni? È stato detto: non vale soltanto ciò che tu fai di te, ma è forse più importante ciò che tu fai di quel che è stato fatto di te. E se ciò che è stato fatto di me fosse di confrontar­mi col silenzio di Dio? Dovrei assumermi questa responsabilità e comportarmi di conseguenza? Dovrei combattere insieme a Lui che sta combattendo anche per me, insieme al Dio della mia favola, al Dio Vin­cente della creazione? Ma chi, se non Lui, me ne darà la forza?

Corriere della Sera 14.12.09
Sarah Dunant completa con «Le notti al Santa Caterina» la trilogia rinascimentale
Passioni e peccati in convento
La storia di Serafina, ispirata alla vita delle ragazze costrette alla clausura
di Fabio Cavalera

LONDRA — Serafina è una sedicenne viva­ce, curiosa e innamorata, ha una voce d’ange­lo ed è figlia della nobiltà milanese. Siamo nel Rinascimento. Il padre soffoca le sue vi­gorose passioni consegnandola al monaste­ro di Santa Caterina a Ferrara. È una «dona­zione » ispirata dall’interesse personale, for­malmente il segno della riconoscenza che lui, signore e padrone prepotente, deve alla corte degli Estensi con la quale intrattiene importanti rapporti d’affari.
Ma c’è anche dell’altro, un qualcosa che non si può confessare ed è un banale, ipocri­ta e cinico calcolo terreno: al ricco lombardo costa meno imporre alla giovane il supplizio del remoto isolamento anziché garantirle la dote per il matrimonio. Offrendola alla clau­sura, governata dalla intransigente badessa, imprigiona la ragazza in una ragnatela di morbosità, di perversioni e di dolori laceran­ti. Non vi è rispetto da parte del genitore per la sorte dell’adolescente. È, questa, la condi­zione che migliaia di donne in età acerba condividono, costrette a subire l’ordine, im­posto dalle famiglie, di scomparire nei luo­ghi della preghiera e della meditazione. Sera­fina non è l’unica a divorarsi nell’afflizione. Sono le vittime. I fantasmi di un lungo svolgi­mento della storia.
Panico, angoscia, malattie della mente e in­vidie rompono i silenzi delle celle occupate dalle benedettine, non vi è pietà per l’ultima novizia strappata agli affetti e ai sogni non ancora adulti. È possibile non affondare nella disperazione e nella solitudine? Avviene quasi cinque secoli fa, nel 1570: il Con­cilio di Trento è passato da un pezzo e sulla Chiesa soffia il ven­to della controriforma. I dogmi e i culti del cattolicesimo sono decretati come infallibili, la dot­trina dei sacramenti è contrap­posta alle eresie scismatiche del luteranesimo e del calvinismo, l’autorità del successore di Pietro iscritta nel patrimo­nio di fede e nell’obbligo di obbedienza che vincola il credente. Ma, insieme, i vescovi compongono l’indice dei libri proibiti e delle azioni che discutono e incrinano la suprema­zia delle gerarchie ecclesiali, al pari dei loro pronunciamenti: l’Inquisizione scatena gli strali dell’intolleranza e li trasforma in roghi, punizioni e condanne a morte.
Nei conventi cala il buio, i contatti con l’esterno sono annullati, si erigono altissime mura di cinta, le grate vengono poste alle fi­nestre, la riflessione diviene allucinazione. La parola del Signore e la devozione sono lo schermo dietro al quale si nascondono le vio­lenze psicologiche e fisiche. Le «visitazioni» degli ispettori vaticani sono improvvise e as­sumono la forma di minacce, di umiliazioni e di vessazioni. Serafina soffre, si riscatta, la sua energia contagia, si ribella e si pente (ma chissà se per ragionata finzione), digiuna e non andiamo oltre perché il libro ( Le notti al Santa Caterina , Neri Pozza, pagine 480, e 18) va letto e apprezzato per quello che è: un sofisticato e bellissimo romanzo storico (bestseller negli Usa e nel Re­gno Unito) di cui va dato me­rito a Sarah Dunant, docente universitaria, studiosa ingle­se di Cambridge, con il gusto delle lettere e autrice di una trilogia rinascimentale che è ora all’ultimo atto dopo La cortigiana e La nascita di Venere.
L’immaginazione può funzionare se è avvol­ta in un rigoroso contesto di eventi e di am­bienti: Sarah Dunant ha sposato la ricerca scientifica alla fantasia e alla curiosità perso­nale, il risultato è che ci fa condividere (gran­de merito anche al traduttore Massimo Orte­lio) i patimenti della clausura rinascimentale. Per riuscirci ha compiuto alla fine l’unica e ri­gorosa operazione possibile: «Mi sono ritirata per un po’ in un monastero di benedettine». Ha visto e partecipato alla loro vita, ha parlato con le suore, si è confrontata, ne ha imparato i linguaggi, ha seguito il filo delle tradizioni e dei riti. E dentro la ricostruzione ha collocato i suoi personaggi: Serafina, Emiliana, Chiara, Zuana, Benedicta, le converse e le novizie del «Santa Caterina», che non esiste a Ferrara, ma che è la raffigurazione realistica del con­vento cinquecentesco e seicentesco, sacra isti­tuzione dove i turbamenti femminili nascondevano mi­steri. Sono tutte donne le «at­trici » perché di «questo uni­verso, i conventi delle suore all’indomani del Concilio di Trento, si sa poco o nulla». Ombre del passato. «È ad es­se che ho dedicato il roman­zo e alla moltitudine di quelle che hanno condiviso la loro sorte».
Una sorte che una religiosa del monastero dei Santi Nabore e Felice a Bologna descrisse con una lettera al Papa nel 1586. Frasi di pian­to e di desolazione, ricordate nella nota che chiude il romanzo Le notti al Santa Cateri­na : «Molte di noi sono rinchiuse a forza e pri­vate d’ogni contatto. Vivendo di stenti e ab­bandonate da tutti conosciamo solo l’infer­no, in questo mondo e in quello che verrà».

Corriere della Sera 14.12.09
Quella strada verso l’assoluto



di Emanuele Severino

Domani, alle 21, al Teatro Comunale di Ferrara, sarà presentata «L’ultima sali­ta, la Via Crucis di Beniamino Simoni» un film (Betty wrong - Rai) di Elisabet­ta Sgarbi . Interverranno: Fabio Mango­lini, Gisberto Morselli, Vittorio Sgarbi, Franco Battiato, Tahar Ben Jelloun e Re­mo Bodei. Pubblichiamo una presenta­zione del filosofo Emanuele Severino.

Che cos’è? Lo si può chiamare un cal­cio? Sembra proprio di no: si dà un calcio a un cane rabbioso; ma, allora, l’espressione di chi lo sferra è diversa. È essa stessa rabbiosa, inferocita, violenta. E invece l’uomo della sta­zione III della Via Crucis non esprime nulla di tut­to questo.
Ha in mano un basto­ne da lavori rurali o cam­pestri; come l’altro, un poco dietro, alla sua de­stra, e anch’esso senza copricapo.
Il viso ha l’indolenza ottusa e l’indifferenza del contadino che sta spingendo col piede, per farlo rialzare, un mu­lo che si sia accasciato esausto per terra. O una capra stramazzata. Può anche sem­brare che stiano vangando. O rimestando un pastone per le bestie.
Stanno spingendo Gesù, caduto a terra con la sua croce. Anche qui, come nelle altre «stazioni», Gesù è raffigurato in mo­do convenzionale: un’immagine che tenta di mostrare qualcosa che non solo non è una bestia, ma è più che un uomo.
Di per sé, l’immagine è scontata; ma il contrasto con l’opaco e lento indaffararsi dei due uomini è potente. Il sospetto che la convenzionalità della raffigurazione del Cristo sia voluta, intenzionale, lascia il posto alla certezza. L’animale — che inve­ce è un Dio — è condotto al macello.
La figura in secondo piano e quella sul­lo sfondo, a cavallo, più che l’aura degli armigeri diffondono quella dei contadini che stanno a guardare se le cose si stiano facendo per bene.
Tacciono tutti. Lo si vede. La bocca è chiusa come quando si sta com­piendo un lavoro fatico­so che non si può evita­re e lo stesso peso della parola deve essere evita­to. Il Dio-bestia, a terra con la corda al collo, ha la bocca socchiusa.
L’aspetto di questo Dio ha dell’ordinario, del prevedibile, del­­l’usuale, come la forma di un calice messo sul tavolo di una tratto­ria.
Ma qui l’arte fa toccare l’assolutamente inusuale e spaesante: il fondo del calice, il dolore bevuto fino all’ultima feccia.

Corriere della Sera 14.12.09
Barenboim: vi racconto la musica che amo di più
«Sì alle imperfezioni di un’esecuzione dal vivo»
di Enrico Girardi

MILANO — Con la vita che fa, tra stu­dio, prove, concerti, viaggi, libri e intervi­ste, vien difficile pensare che abbia an­che tempo per ascoltare dischi o guarda­re dvd. Specie in settimane intense come queste ultime milanesi, con le recite di Carmen — l’opera che ha inaugurato la stagione alla Scala — il Gala Domingo, lo Chopin al pianoforte di questa sera e il concerto di Natale in vista.

«Effettivamente — ammette Daniel Ba­renboim — non ne ascolto molti. Non so­no come Arthur Rubinstein che voleva sempre ampliare il suo repertorio e ne di­vorava uno dopo l'altro, ascoltando an­che le cose più ricercate. Ma ciò non si­gnifica che non ne riconosca l'enorme va­lore. Se devo scegliere tra un concerto dal vivo o l'ascolto di un cd preferisco il concerto, è ovvio, ma il cd permette di riascoltare un'esecuzione tutte le volte che si vuole e quando si vuole com­prendere a fondo una musica che abbia un certo grado di com­plessità, non se ne può fare a me­no » .

«Il disco è fotografia di un mo­mento — aggiunge — che sia fatto in studio o registrato dal vivo, ri­sente di quell'attimo, delle condi­zioni in cui si lavora, dell'universo che uno si porta dietro. Perciò due esecuzioni dello stesso brano, sia pu­re con lo stesso interprete, non saran­no mai uguali. E anche questo ne de­creta il fascino, senza dimenticare che il disco non è elitario e arriva an­che laddove non vi sono le condizioni per offrire a tutti la musica dal vivo».

Recentemente, a «Che tempo che fa», ha dichiarato che la musica è il mo­do di dare fisicità all'anima. E se la musi­ca è fisicità, materia, non può prescinde­re dal gesto di chi la produce... «È pro­prio così — si accalora — infatti è da un po' di tempo che mi piace guardare i ca­nali musicali in televisione, come in Ita­lia 'Classica'. E mi è tornato in mente Ser­giu Celibidache. Una trentina di anni fa andai a Monaco a registrare con lui i Con­certi di Brahms e di Cajkovskij e lui volle a tutti i costi che non se ne facesse un cd, come voleva la casa discografica, ma un video perché riteneva che la musica esi­ste solo dal vivo e che i video che ritrag­gono musicisti che suonano sono uno spettacolo come la musica stessa».

Tutto dunque fa pensare che Ba­renboim preferisca un disco «live», ma­gari anche imperfetto, che un disco inci­so chirurgicamente in studio.

«Beh — precisa col sorriso sulle lab­bra — dipende dalle imperfezioni... però non c'è dubbio che tanti musicisti quan­do entrano in studio di registrazione per­dono parte della loro naturalezza proprio perché non vogliono commettere errori. È paradossale, perché in studio si può correggere, ma succede. Penso ancora a quel gigante di Rubinstein che in studio perdeva un po' di slancio e, conseguente­mente, di varietà di colori. Il pubblico gli dava forza. Qualche anno fa ho visto il vi­deo del Concerto chopiniano che fece quando rientrò in Russia nel 1964: d'una bellezza impressionante. Non esiste un suo disco altrettanto bello. In ogni caso sono contento che nella collana del Cor­riere della Sera vi siano tante incisioni dal vivo: il concerto di Ramallah, la Nona

di Beethoven, la Sinfonia Dante di Liszt, l' Ottava di Bruckner, i Concerti di Mo­zart, le Sinfonie di Schumann e ovvia­mente il Wozzeck ripreso a Berlino con la regia di Chéreau».

La carrellata di uscite discografiche del Corriere è disegnata in modo tale da fotografare ampiezza e varietà del reper­torio del direttore e pianista israelo-ar­gentino e le orchestre con cui ha lavorato più assiduamente, con incisioni recenti e recentissime che si alternano a incisioni ormai già «storiche».

«Mi piace che questi dischi escano con il quotidiano — commenta —. Mi piace perché comprare un disco può di­ventare una cosa naturale come compra­re il giornale e che la cultura entri nelle case con le notizie del giorno. Mi fa ve­nire in mente quanto diceva Maurizio Pollini giorni fa, che la musica per la società è come un sogno per l'indivi­duo: non necessario ma indispensabi­le » .

Naturalmente anche all'interno del­la collana ci sono dischi e dvd che Ba­renboim ama particolarmente.

E il più amato è quello che esce per primo. «Un fatto storico, quel concerto a Ramallah nell'agosto 2005, nel cuore della Palestina. So­no felice — aggiunge — che in que­sti giorni l'Orchestra del Divano è stata invitata a tenere un concerto il 5 gennaio nel Qatar. Sarà il terzo concerto in un Paese arabo dopo Rabat, in Marocco, e appunto Ra­mallah. Ma quel concerto resterà per sempre nel mio cuore. E il do­cumentario Knowledge is the Be­ginning spiega in modo acuto e toccante cosa sia il progetto del Divano molto meglio di mille parole. Se i proble­mi del Medioriente un giorno mai si risol­veranno, si parlerà del Ramallah Concert per ricordare come era stato difficile or­ganizzare iniziative del genere; nel caso contrario lo si ricorderà come un mo­mento di speranza. Quel che è certo è che oggi un altro concerto del Divano in Palestina non è nemmeno ipotizzabile».

«Ma anche il cd della Nona di Beetho­ven, con il Divano e un formidabile quar­tetto di solisti (Denoke, Meier, Fritz, Pa­pe) a Berlino, ha un forte potere simboli­co per quello che rappresenta questa sin­fonia proprio in una città per lunghi anni divisa da un muro».

Il maestro scaligero ama ricordare an­che l'unico Fidelio che abbia Domingo co­me Florestano e i Concerti per pianoforte di Mozart in cui è impegnato come soli­sta e direttore a capo dei Berliner Philhar­moniker.

E ovviamente è felice che vi sia anche un dvd di tango alla fine della collana: «Il bello del tango — racconta — è che in Argentina tutti i musicisti classici lo suo­nano. Non è come in America dove la classica e il jazz sono mondi separati. Io ogni tanto ho bisogno di tornare laggiù a suonarlo con i miei amici. Ma posso già annunciare che al più presto organizzerò una serata di tango sinfonico anche alla Scala, probabilmente già nella prossima stagione, perché sono certo che i profes­sori scaligeri ne saranno entusiasti per primi e, appresi quei due o tre 'segreti', potranno eseguirli meravigliosamente».

Corriere della Sera 14.12.09
Il progetto nato nel 1999 con lo studioso Said
«Noi ebrei e arabi assieme a lezione di tolleranza nell’orchestra di Daniel»
Parlano i ragazzi della West Eastern Divan
di Giuseppina Manin

MILANO — Suonare con il ne­mico. Un arabo accanto a un israeliano, a un libanese, un si­riano, un giordano, un turco, un iracheno... Fuori ci sono le guerre. Le bombe, i confini, le minacce, i soprusi. Le ideologie, le religioni, i fanatismi, i tabù. Dentro, nella sala da concerto, c’è la musica. Che non fa mira­coli, non risolve i guai e le ruggi­ni tra gli uomini, ma qualche po­tere magico ce l’ha. Perché par­la una lingua che capiscono tut­ti e perché richiede a ciascuno l’ascolto dell’altro.

Due considerazioni che han­no convinto l’israeliano Daniel Barenboim e il palestinese Ed­ward Said a dar vita nel 1999 a un’orchestra inedita quanto pro­vocatoria, composta da giova­ni, età tra i 14 e i 25 anni, prove­nienti da Paesi in conflitto del Medio Oriente. E poiché l’en­semble nacque a Weimar, la cit­tà di Goethe, fu battezzata West Eastern Divan, come la ce­lebre raccolta di liriche, auspi­cio di unione tra le due grandi culture contro xenofobie e nazio­nalismi. Un audace esperimen­to di musica e vita documentato per un lungo tratto, sei anni, dall’inizio fino al memorabile concerto di Ramallah, nell’emo­zionante documentario di Paul Smaczny, Knowledge is the Be­ginning , applaudito sulle molte ribalte internazionali e che nel 2008 ha aperto il Festival «Sen­za frontiere» alla Casa del cine­ma di Roma.

«Un’orchestra rappresenta il microcosmo di una società. La nostra lo è di una società che non è mai esistita e che forse non esisterà mai» avverte Elena Cheah, violoncellista d’origine ebraica della Divan, autrice di un libro, «Insieme» (Feltrinelli) che raccoglie le voci di alcuni protagonisti di quest’avventura straordinaria quanto faticosa. Suonare «insieme» richiede sin­tonia, obbliga a condividere non solo il tempo della musica ma anche il tempo «tra» la mu­sica: le trasferte, le ore libere... E siccome sono ragazzi, i cuori si accendono, le parole volano, si discute, si scherza, si litiga. Ma alla fine, avendo un proget­to comune, s’impara ad ascolta­re, a confrontarsi, a scavalcare i pregiudizi.

E così Ramzi Aburedwan, pa­lestinese cresciuto nei campi dei rifugiati, pronto a tirar pie­tre ai militari, racconta di aver parlato per la prima volta volta con un israeliano proprio nella Divan. «Prima li conoscevo solo per le bombe. Mio fratello e mio padre sono stati uccisi dai sol­dati d’Israele. In cuore avevo so­lo odio. Ma se non si prova a parlare con il nemico, si conti­nuerà a spargere sangue». «In questi anni passati insieme ab­biamo fatto grandi progressi musicali e umani — assicura Nassib al-Ahmadieh violoncelli­sta libanese —. Abbiamo impa­rato a essere tolleranti, a capire di più le ragioni dell’altro. Sono qui per questo».

«Chi nasce in Israele difficil­mente conoscerà gli arabi — ag­giunge Daniel Cohen, violinista —. Ho faticato a digerire l’idea che i palestinesi costituiscano una nazione e le loro pretese sia­no fondate. Ma 5 anni e 6 tour­née con questo gruppo così biz­zarro e meraviglioso mi hanno aiutato a guardare al conflitto da un altro punto di vista».

Tra i primi violini un ragazzo israeliano che era stato soldato lungo la frontiera del Libano. Entrato nella Divan, si ritrovò a dividere il leggio con una giova­ne musicista libanese. Dopo qualche giorno confessò: «Un mese fa, se questa ragazza per caso fosse stata lì e avesse fatto un movimento sbagliato, forse le avrei sparato. Adesso sono se­duto accanto a lei e insieme suo­niamo Beethoven...» .