L’araba ribelle
Esibire simboli religiosi? Offende il pubblico pudore
di Joumana Haddad
La religione cristiana non è più tollerante di quella islamica. La Chiesa ha trovato modi più ipocriti e pericolosi per combattere chi la sfida
Per avere bisogna concedere: come spiegheremo agli islamici europei che il Burka è offensivo se non ammettiamo che il crocifisso lo è per loro?
La religione, come l’amore, dovrebbe essere un fatto intimo e privato
Quando la cantante americana Madonna, nel video della sua canzone Like a prayer (1989), ha baciato la statua di un santo di colore, che poi si animò e danzò sensualmente davanti a delle croci che bruciavano, è stata aspramente criticata dal Vaticano e dai cattolici, perché quel video è stato giudicato “sacrilego”. Ripeto: È stata “aspramente criticata”. Punto. Quando invece il regista olandese Teo Van Gogh ha rilasciato il suo cortometraggio “Submission” (2004), in cui si vedevano dei versi di una sura del Corano scritti sulla schiena della protagonista del film, è stato assassinato da un musulmano olandese.
Il codice Da Vinci, Gilbert and George, Damien Hirst, e le loro violente provocazioni al Cristianesimo? “Aspramente criticati”. Salman Rushdie, Taslima Nasreen, Ayan Hirsi Ali e le loro violente provocazioni all’Islam? Fatwa. Minacce di morte. Omicidi. Perché ripeto ora questi fatti conosciuti da tutti ormai? Non certo per sostenere che la religione cristiana è più tollerante di quella islamica. Quello è solo uno “bluff ”, un’illusione ottica che non dovrebbe illudere nessuno. E io non sarei per nulla credibile, né coerente con me stessa, se sposassi una tesi simile. Anzi, secondo me la Chiesa ha trovato metodi più ipocriti, cancerogeni, e forse anche più pericolosi, per combattere quelli che sfidano il suo potere. Mi posso permettere di affermarlo, essendo in fondo un “prodotto” della cultura cattolica, anche se orientale.
Le dico, queste cose, per sostenere una tesi: per avere, si deve concedere. Io sono nata e cresciuta in un paese (il Libano) dove c’era di tutto: musulmani sunniti, musulmani sciiti, drusi, cattolici, ortodossi, ecc.; un paese dove 20 comunità religiose diverse condividevano, (in salutare indifferenza, almeno fino al 1975) questo microscopico spazio geografico, politico e sociale. Io ho imparato, fin da piccola, a non esibire le mie convinzioni come se fossero delle verità assolute e definitive che valgono per tutti. Ho anche imparato che dobbiamo fare una scelta tra il rigetto dei simboli (quindi eliminarli) o il rispetto dei simboli (quindi accettarli tutti); e ho imparato che la libertà d’espressione è diversa dalla libertà di
offendere; e che il “politicamente corretto”, e il “decentemente corretto”, non sono affatto la stessa cosa.
Per avere, si deve concedere. In parole più chiare, come potremmo convincere la comunità musulmana d’Europa che il Burka, per esempio, è offensivo, senza ammettere che anche il crocifisso lo è per loro? Il crocifisso non è un oggetto di decorazione: è un simbolo della fede cristiana e delle sue leggi. Il crocefisso dice, tra l’altro: “Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”. (San Paolo, Prima lettera a Timoteo, 2: 12 – 15).
Allora basta con l’esibizionismo e il voyeurismo religiosi, in tutte le loro forme.
Andare a pregare dovrebbe essere come andare a fare l’amore: un’affare privato. Si parla sempre di oscenità sessuale, ma perché nessuno parla di oscenità religiosa?
Chi fa l’amore in pubblico viene mandato in prigione: sostengono che sia “un’offesa al pudore pubblico”. Io sogno un mondo laico, non contaminato, dove lo stesso trattamento è riservato a coloro che fanno spettacolo della loro fede religiosa.
Eppure, lo confesso, aspetto con grande impazienza il giorno in cui una cantante musulmana danzerà in pubblico con un piccolo Corano appeso tra i seni nudi. Vivrebbe, la sciagurata, 24 ore per raccontarlo.
Intanto, io vado a pregare a modo mio. Cioè a fare l’amore. In privato. Molto in privato.
Repubblica 17.12.09
Le leggi per la Rete
di Stefano Rodotà
L´Italia ha scoperto la Rete. Appena ieri era divenuta evidente per tutti la forza di Internet quando proprio da lì era partita l´iniziativa che era riuscita a portare in piazza un milione di persone per il "No B Day".
Si materializzava così una dimensione della democrazia inedita per il nostro paese. Pochi giorni dopo quell´immagine appare rovesciata. Internet diventa il luogo che genera odio, secerne umori perversi. E questa sua nuova interpretazione travolge quella precedente: il "No B Day" è presentato come un momento d´incubazione dei virus che avrebbero reso possibile l´aggressione a Berlusconi, Internet come lo strumento in mano a chi incita alla violenza. Conclusione: la proposta di un immediato giro di vite per controllare la Rete, secondo un abusato copione che trasforma ogni fatto drammatico non in un imperativo a riflettere più seriamente, ma in un pretesto per ridurre ogni questione politica e sociale a fatto d´ordine pubblico, limitando libertà e diritti.
Per fortuna, all´interno dello stesso mondo politico è stata subito colta la pericolosità di questa impostazione. Intervenendo alla Camera dei deputati, Pier Ferdinando Casini ha detto parole sagge: «Guai a promuovere provvedimenti illiberali. Le leggi già consentono di punire le violazioni. Negli Usa Obama riceve intimidazioni continue su Internet, ma a nessuno viene in mente di censurare la Rete». E la finiana fondazione FareFuturo evoca la "sindrome cinese", la deliberata volontà di impedire che Internet possa rappresentare uno strumento di democrazia. Questi moniti, insieme a molti altri, sembrano aver trovato qualche ascolto, a giudicare almeno dalle dichiarazioni più prudenti del ministro Maroni.
Il tema della violenza è vero, e grave. Ma altrettanto ineludibile è la questione della democrazia. È istruttivo leggere la lista dei paesi che sottopongono a controlli Internet: tutti Stati autoritari o totalitari (con una particolare eccezione per l´India). Questo vuol forse dire che i paesi democratici sono distratti, che si sono arresi di fronte all´hate speech, al linguaggio dell´odio? O è vero il contrario, che è maturata la consapevolezza che la democrazia vive solo se rimane piena la libertà di manifestare opinioni, per quanto sgradevoli possano essere, e che già disponiamo di strumenti adeguati per intervenire quando la libertà d´espressione si fa reato nel nuovo mondo digitale?
Vi è una vecchia formula che ben conoscono coloro i quali si occupano seriamente di Internet: quel che è illegale offline, è illegale anche online. Tradotto nel linguaggio corrente, questo vuol dire che Internet non è uno spazio privo di regole, un far west dove tutto è possibile, ma che ad esso si applicano le norme che regolano la libertà di espressione e che già escludono che essa possa essere considerata ammissibile quando diventa apologia di reato, istigazione a delinquere, ingiuria, minacce, diffamazione. Questo è il solo terreno dove sia costituzionalmente legittimo muoversi, e le particolarità di Internet non hanno impedito alla polizia postale e alla magistratura di intervenire per reprimere comportamenti illegali. Le conseguenze di questa impostazione sono chiare: no alla censura preventiva, comunque incompatibile con i nostri principi costituzionali; no a forme di repressione affidate ad autorità amministrative o riferite a comportamenti non qualificabili come reati; no ad accertamenti e sanzioni non affidati alla competenza dell´autorità giudiziaria.
Considerando più da vicino le peculiarità di Internet, bisogna essere ben consapevoli del fatto che le proposte di introdurre "filtri" all´accesso a determinati siti sollevano un radicale problema di democrazia. Chi stabilisce quali siano i siti "consentiti"? Qual è il confine che separa i contenuti liberamente accessibili e quelli illeciti? Il più grande spazio pubblico mai conosciuto dall´umanità rischia di essere affidato, all´arbitrio politico, che inevitabilmente attrarrebbe nell´area dei comportamenti vietati tutto quel che si configura come dissenso, pensiero minoritario, opinione non ortodossa. E la proposta di vietare l´anonimato in rete trascura il fatto che proprio l´anonimato (peraltro ostacolo non del tutto insuperabile nel caso di veri comportamenti illeciti) è la condizione che permette la manifestazione del dissenso politico. Quale oppositore di regime totalitario potrebbe condurre su Internet la sua battaglia politica, dentro o fuori del suo paese, se fosse obbligato a rivelare la propria identità, così esponendo se stesso, i suoi familiari, i suoi amici a ogni possibili rappresaglia? Non si può inneggiare al coraggio dei bloggers iraniani o cubani, e denunciare le persecuzioni che li colpiscono, e poi eliminare lo scudo che, ovunque, può essere necessario per il dissenziente politico. Anche nei paesi democratici. È di questi giorni la denuncia di associazioni americane per la tutela dei diritti civili che accusano le agenzia per la sicurezza di controllare reti sociali come Facebook e Twitter proprio per individuare chi anima iniziative di opposizione. Non è la privacy di chi è in Rete ad essere in pericolo: è la sua stessa libertà, e dunque il carattere democratico del sistema in cui vive.
Certo, i gruppi che su Facebook inneggiano a Massimo Tartaglia turbano molto. Ma bisogna conoscere le dinamiche che generano queste reazioni, certamente inaccettabili, ma rivelatrici del modo in cui si sta strutturando la società, che richiede attenzione e strategie diverse dalla scorciatoia repressiva, pericolosa e inutile. Inutile, perché la Rete è piena di risorse che consentono di aggirare questi divieti. Pericolosa, non solo perché può colpire diritti fondamentali, ma perché spinge le persone colpite dal divieto a riorganizzarsi, dando così permanenza a fenomeni che potrebbero altrimenti ridimensionarsi via via che si allontana l´occasione che li ha generati.
Solo una buona cultura di Internet può offrirci gli strumenti culturali adatti per garantire alla Rete le potenzialità democratiche continuamente insidiate al suo stesso interno da nuove forme di populismo, dalla possibilità di creare luoghi chiusi, a misura proprie e dei propri simili, negandosi al confronto e alla stessa conoscenza degli altri. Più che misure repressive serve fantasia, quella che induce gruppi in tutto il mondo a chiedere un Internet Bill of Rights o che ha spinto uno studioso americano oggi collaboratore di Obama, Cass Sunstein, a proporre che i siti particolarmente influenti per dimensioni o contenuti debbano prevedere un link, una indicazione che segnali l´esistenza di siti con contenuti diversi o opposti e che permetta di collegarsi a questi immediatamente.
Repubblica 17.12.09
Pannella: chi punta a gestire il patatrac dovrà fare i conti con noi radicali
ROMA - «Silvio Berlusconi non si deve toccare. Deve essere battuto con e nella democrazia che si deve conquistare. Non nella partitocrazia di sinistra, centro o destra». A sostenerlo è Marco Pannella, che definisce questo «l´inverno più difficile dal 1955» per l´Italia. Ci sono, sostiene, forze interessate «al patatrac: quelle forze dovranno fare i conti con la nostra resistenza», dice il leader radicale. Che continua: «Berlusconi non è un genio, ma non è neanche un genio del male. Lui è un prodotto della nostra partitocrazia. Il clima è simile al 1980 e come allora vogliono cancellare e zittire i radicali».
Repubblica 17.12.09
A Dongguan, nel cuore industriale del Paese 300mila prostitute sono controllate e certificate
Cina, la città delle concubine con il bollino di qualità
di Giampaolo Visetti
Ogni tanto una retata ricorda che vendere prestazioni sessuali è un reato. Ma nei fatti, le autorità non fanno nulla per frenare il commercio
Il lavoro inizia fin dal mattino: bar, saune, centri di massaggi e discoteche per allietare le giornate di lavoratori, businessmen e funzionari
In Cina, ogni giorno, sembra cambiare tutto. La memoria muore con la notte. Solo su un punto la tradizione non transige: il sesso. Si nasconde qui l´unico fallimento del potere. Nel 1949 Mao chiuse i bordelli e dichiarò reato la prostituzione. Risultato: sessant´anni dopo prospera in Cina la città del sesso più grande del mondo. Si chiama Dongguan e giace tra i canali, nel delta del fiume delle Perle, nella regione meridionale del Guangdong.
L´ultimo rifugio delle concubine è stato collocato sull´acqua dopo un´indagine di mercato, piuttosto che per una romantica nostalgia. Dongguan è a metà strada tra Shenzen e Guangzhou, megalopoli industriali del cuore produttivo del pianeta. Milioni di lavoratori migranti, centinaia di manager, migliaia di clienti in viaggio, tutti con il requisito-base: una vita lontano da casa e qualche soldo fuori controllo in tasca. In trent´anni, grazie all´esplosione globale dell´economia cinese, la città delle ultime concubine ha trasformato, a sua volta, un mestiere artigianale in un´industria. Si può leggere, in questo passaggio, la sconvolgente metamorfosi cinese. Le prostitute sono oltre 300mila e il settore impiega stabilmente 800mila addetti.
Dopo un´iniziale, timida, opposizione, la municipalità si è sviluppata su misura. Ogni giorno, perché l´attività inizia già al mattino, aprono 25 mila locali: saune, centri-massaggio, bar, karaoke, bagni e discoteche. Sono sorti anche 120 alberghi di lusso, per uomini particolarmente generosi che amano le ragazze d´alto bordo. Nessuno, ufficialmente, è un bordello. E infatti le ragazze, come impone il destino di ogni concubina, adempiono innanzitutto ad un servizio di "sostegno umano": chiacchierano, consolano, brindano e mangiano con chi ne ha bisogno, addormentano, consigliano. Soprattutto ridono, considerata la difficoltà e l´importanza della pratica, nella quotidianità.
Solo dopo tale opera sedativa, con orientale finezza e cinese determinazione, si passa all´amore. Qui termina l´esotismo imperiale e inizia la catena di montaggio statale. Ogni locale offre una quarantina di ragazze, distinte per qualità. Ogni aspirante viene sottoposta ad un regolare corso settimanale di addestramento professionale. «Sufficiente - ha confessato una novizia - per farti spellare non solo le ginocchia». I servizi offerti sono 30 e vanno concordati prima. Le concubine più raffinate seguono anche corsi di recitazione: devono sapere cantare e suonare, fare lo spogliarello, ballare, travestirsi, fingere su tutto. Due ore standard, con «doppio amplesso su letto ad acqua», costano tra i 15 e gli 80 euro. Base di partenza.
La genialità cinese, innescata dalla proverbiale parsimonia popolare, è arrivata a certificare l´indice "Iso" anche per garantire la qualità del prodotto di Dongguan. Trecento ispettori esaminano ogni mese locali e concubine: valutano lusso, ampiezza, pulizia, salute, attrezzatura, età, caratteristiche, riservatezza e così via fino al titolo di studio delle signore, all´opportunità di girare video personali e alla probabilità dei clienti di restare vittime di una retata della polizia. I centri più eleganti, tra i servizi, offrono anche la tecnologia. Concubine hi-tech aiutano i clienti, provenienti ormai da tutta l´Asia, a navigare in internet. Realizzano e stampano, su carta di riso rossa, ricerche da Google. Una società, per venti euro all´anno, invia agli abbonati sms quotidiani con le novità, le disponibilità di giornata, le offerte. A fornire i nominativi degli interessati potenziali, le concessionarie d´auto della regione. In due mesi hanno sottoscritto in 7 mila. L´organizzazione è all´altezza dei risultati. Si calcola che il 10% dei lavoratori di Dongguan frequentino ormai abitualmente le prostitute, per un giro d´affari di 70 milioni di euro a settimana.
«Chiudere - ha osservato il segretario comunale del Partito comunista, Liu Zhigeng - significherebbe bruciare il 30% del Pil e produrre quasi un milione di disoccupati. Ma possiamo dire che sarebbe a rischio la nostra intera economia. E questo, si capisce, è il problema».
Nonostante il successo, e il suo valore, l´ultimo mercato delle concubine cinesi è vissuto dal Paese come una vergogna nazionale. «Trecentomila prostitute in una città di prostitute - dice Pan Suiming, docente di sociologia all´Università del Popolo - certificano un fallimento politico. Le donne, nelle fabbriche del Guangdong, vengono sfruttate e molestate. Il 90% delle concubine, prima di diventarlo, hanno lavorato nelle catene di montaggio. Finiscono nei bordelli camuffati da sauna perché non hanno scelta. Se devi subire, meglio farlo guadagnando trenta volte di più e lavorando il 50% in meno».
Da anni, il ministero della Pubblica sicurezza, pressato da masse di mogli inferocite, annuncia piazza pulita. Migliaia di poliziotti effettuano periodiche retate. Poi si scopre, regolarmente, che nei locali si rilassano funzionari di partito e vertici delle forze dell´ordine. Che saloni e night appartengono ai leader del potere e delle organizzazioni di categoria. O che le stesse autorità affittano interi piani di hotel e relative ragazze per tenere le riunioni politiche più delicate. «La pressione per chiudere un occhio - dice il capo della polizia, Cui Jian - è enorme». Per questo l´ultimo eden delle concubine cinesi non conosce tramonto. Cresce, come tutto, qui: assieme alla tristezza della sua solitudine.
Repubblica 17.12.09
Ayn Rand. L’icona della destra americana
di Federico Rampini
Biografie, citazioni, tesi di laurea: il revival della vestale liberista che fu maestra di Greenspan infiamma i conservatori Usa
Scrisse un romanzo sui seguaci del capitalismo che nel 2009 ha venduto 500 mila copie
Esule dalla Russia rivoluzionaria oggi viene usata come anti-Palin per il suo "élitismo di massa"
NEW YORK. Quest´anno avrà venduto ancora mezzo milione di copie. Niente male per un libro uscito nel 1957. Il suo successo ha avuto un nuovo boom nell´ultimo biennio, una progressione geometrica: più 67 per cento le vendite dall´anno scorso, più 114 dal 2007. Non è la prima volta. Già negli anni Novanta, in un sondaggio promosso dalla Library of Congress, gli americani lo indicarono come «il libro che aveva più influenzato la loro vita» dopo la Bibbia. È Atlas Shrugged, il romanzone (1.200 pagine) di Ayn Rand, la profetessa della destra liberista (tradotta in Italia da Corbaccio con il titolo L´Atlantide) che conosce un potente revival a 27 anni dalla sua morte. Una donna che rappresenta il polo opposto rispetto alla nuova star dei conservatori, Sarah Palin, anche lei ben piazzata nelle classifiche delle vendite con il suo best seller Going Rogue. Il successo della Palin è costruito sull´anti-élitismo, sul disprezzo degli intellettuali. Il suo populismo eccita l´America profonda che vive di Suv, birra e porto d´armi. La Rand al contrario inventò uno speciale "élitismo di massa", come dimostrano le 27 mila tesi di laurea che ogni anno le vengono dedicate. Atlas Shrugged si presenta come un romanzo filosofico ed esoterico, la chiave per entrare a far parte di una schiera di eletti: i seguaci del capitalismo allo stato puro.
Contro di lei sono state impotenti le armi della critica che stroncò subito Atlas Shrugged, senza pietà e a ragione: trame improbabili, personaggi senza spessore psicologico, troppe digressioni predicatorie. Accuse irrilevanti. Da quando Barack Obama è alla Casa Bianca, nelle manifestazioni anti tasse organizzate dai repubblicani sono apparsi striscioni con le scritte "Atlas Shrugged" e "Ayn Rand aveva ragione". Il più popolare anchorman della Fox News, il pop-con Glenn Beck, la cita nelle sue urlate televisive contro le "statalizzazioni rampanti" del presidente. Il centro studi dedicato alla perennità del suo pensiero - "Ayn Rand Institute Objectivist Academic Center" - è assediato dalle richieste di conferenze sulla pensatrice scomparsa. Ogni anno 900 mila copie dei suoi romanzi sono utilizzati come libri di testo nei licei. La Vendetta postuma di Ayn Rand, è il titolo di un preoccupato saggio di Adam Kirsch, opinionista di New Republic. E ben due biografie della grande dama conservatrice sono appena uscite in libreria simultaneamente.
La sua vita in effetti è ben più avvincente dei suoi romanzi. Ebrea russa di San Pietroburgo (il suo vero nome era Alissa Rosenbaum), a 12 anni è traumatizzata dalla rivoluzione quando le milizie bolsceviche sequestrano la farmacia del padre e costringono la famiglia all´esilio. Emigra in California, decisa a dedicare la vita alla lotta contro il comunismo e ogni forma di collettivismo. Viene notata a Hollywood dal regista Cecil B. De Mille e assoldata come comparsa nel kolossal Il Re dei Re. Poi impara il mestiere di sceneggiatrice di b-movies. È quella tecnica di scrittura - rudimentale - che la Rand applica nei suoi romanzoni a tesi. Originati dalla passione ideologica, ma partoriti con estrema fatica, una sofferenza fisica che lei attutisce con una crescente dipendenza dalle anfetamine.
Atlas Shrugged evoca nel titolo Atlante, il titano della mitologia greca che sorregge la Terra: allude al protagonista John Galt, inventore-imprenditore che rappresenta lo spirito creativo e indomabile del capitalismo, su cui si regge il benessere della società. Disgustato dalle regole del New Deal, dalla pressione fiscale, dall´intervento dello Stato nell´economia, Galt decide di scrollarsi di dosso ("shrug") l´oppressione di quei vincoli e si mette alla testa di una ribellione dei capitalisti. Su questa trama grossolana la Rand innesta lunghe parentesi teoriche in cui i personaggi espongono la sua ideologia iper-individualista, l´elogio dell´egoismo, una visione nietzschiana dell´imprenditore come Superuomo. Un´idea del mondo così feroce da fare impallidire al confronto "l´avidità fa bene", il celebre motto di Gordon Gekko (Michael Douglas) nel film Wall Street di cui Oliver Stone sta preparando il seguito.
L´impatto di Atlas Shrugged nella società americana è sorprendente. Negli anni del suo fulgore Ayn Rand - che ama vestirsi di una tunica nera con un diadema d´oro a forma di dollaro - diventa l´animatrice di un cenacolo di adoratori, la sacerdotessa di una setta, circondata di giovani plagiati. Uno di questi lei se lo sceglie come amante ufficiale imponendone la presenza al marito.
Il più celebre dei suoi allievi diventerà il banchiere centrale degli Stati Uniti: Alan Greenspan. La lettura dei suoi romanzi ispira generazioni di imprenditori, dal fondatore della Cnn Ted Turner allo stilista Ralph Lauren, dai creatori di Wikipedia a quelli di Craigslist. Un elenco impressionante, la prova del segno profondo che l´ideologia della Rand imprime nella cultura del capitalismo americano.
Perciò la sua figura è ancora capace di suscitare passioni estreme. La sinistra le addebita disastri: per esempio il liberismo di Greenspan, la causa della bolla finanziaria che è esplosa nel 2007-2008 trascinando il mondo nella recessione. Di recente Frank Ahrens, nel suo blog Economy Watch sul Washington Post ha eletto Ayn Rand, a titolo postumo, «il personaggio più deteriore del decennio, strega malefica della finanza, per la sua fede dogmatica, acritica e cieca nel mercato». Ma il suo pensiero spacca anche la destra. Le frange estreme dell´opposizione repubblicana la idolatrano. Rush Limbaugh, il più popolare tribuno radiofonico di destra, accusa regolarmente Obama di «perseguitare i tanti John Galt che creano ricchezza e tengono in piedi l´America». I conservatori moderati rabbrividiscono di fronte alla sua visione darwiniana della società: mal si concilia con l´idea di un´economia di mercato capace di spalancare a tutti l´American Dream. E non ha mai potuto conquistare i favori dei teo-con, per via del suo ateismo militante. Il potente revival del culto di Rand, che accompagna le proteste contro il "socialismo" di Obama, può creare dei problemi a un partito repubblicano che sogna la rivincita alle elezioni di mid-term nel 2010. L´ideologia anti-Stato che le unisce è un collante ma non nasconde le profonde differenze: a un certo punto la destra dovrà scegliere tra la sacerdotessa di ieri e la pop-star di oggi, tra il glamour populista di Sarah Palin e l´élitismo crudele di Ayn Rand.
Repubblica 17.12.09
Dopo le accuse di Ferrari, parla il direttore editoriale Ernesto Franco
Orgoglio Einaudi “Noi facciamo cultura”
di Massimo Novelli
Nella giornata dedicata a Bobbio, il discorso sulla casa editrice: "Abbiamo una tensione verso le nuove idee, non inseguiamo i gusti del pubblico"
TORINO. Nessuno pronuncia direttamente il suo nome. Ma Gian Arturo Ferrari, i suoi recenti attacchi a Giulio Einaudi, accusato di megalomania e di voler addirittura dettare la linea al Pci togliattiano, aleggiano nella piccola sala dell´Archivio di Stato di Torino come lo spettro di Banquo aleggia nel Macbeth. È un gelido pomeriggio, si tiene l´ultima delle giornate di studio dedicate ad alcune figure della cultura che furono fondamentali nella vita di Norberto Bobbio. Si discute della casa editrice dello Struzzo. Marco Revelli, il direttore editoriale Ernesto Franco, studiosi di valore come Domenico Scarpa, Maria Rosa Masoero e Silvia Savioli, ne tratteggiano le vicende, i protagonisti, i successi e le crisi.
Se fosse una partita di calcio, si direbbe che l´intervento iniziale di Revelli è un assist in piena regola. Cita il Bobbio di Politica e cultura, quel suo acceso confronto con alcuni intellettuali comunisti e poi con Roderigo di Castiglia, al secolo Palmiro Togliatti; e la sua netta rivendicazione dell´autonomia della cultura rispetto alla politica. Politica della cultura, pertanto, non politica culturale. Una differenza basilare. Chi oggi le confonde, insiste Revelli, «farebbe bene a leggersi quelle pagine per capire che cosa è stata l´Einaudi».
Tocca a Ernesto Franco. Nemmeno lui, per ovvie ragioni, menziona il manager che, ancora per qualche giorno, è direttore della divisione libri della Mondadori e dunque «capo» della stessa Einaudi. Tuttavia è chiarissimo quando si sofferma sulla storia dello Struzzo, ne ricorda il Dna culturale, rammenta la tensione «verso le nuove idee, non le novità, che sopravvivono al tempo». E sembra davvero che risponda a Ferrari nel momento in cui sottolinea che «il nuovo è rischio, anche rischio imprenditoriale, ma senza inseguire i gusti del pubblico».
Anche Franco ricorda il Bobbio di Politica e cultura, ripercorre le idee di Giulio Einaudi, specifica che la casa editrice «è stata ed è» nel solco della libertà, della democrazia, del confronto e a volte del contrasto tra le idee. Però si è mossa, si muove, lontana da ogni interferenza politica. Ci fu un preciso progetto editoriale da parte di Giulio Einaudi e del gruppo dei «senatori» di via Biancamano? Che cosa pensava il «Principe» in proposito? Diceva che «le cose si sono ottenute sono quelle che, giorno per giorno, venivano fuori dagli avvenimenti, dalle intercettazioni del futuro. Del progetto ti accorgi solo quando lo hai alle spalle».
C´è, nel discorso del direttore editoriale einaudiano, un forte senso di identità, un richiamo costante alla tradizione prestigiosa, all´eredità ingombrante del passato, a maestri come Leone Ginzburg che Bobbio accostava a Piero Gobetti, definendo entrambi «risvegliatori di coscienze». E c´è altresì un suo riferimento puntuale all´attualità dei valori fondanti, dell´imprinting originale.
Certamente adesso tutto è cambiato, come sono mutate l´editoria, la società. C´è la consapevolezza che oggi «è necessario coniugare cultura e profitto», mantenere in equilibrio le ragioni culturali e quelle del conto economico. L´Einaudi, a ogni modo, conclude Ernesto Franco, resta una «casa editrice di cultura». Sempre aperta al nuovo, con «progetti avveniristici» in cantiere. E sul suo sfondo ideale non campeggiano Togliatti o Mario Alicata, bensì il gruppo di amici e di compagni di scuola raffigurati da Marco Revelli. Quelli che dai banchi del liceo Massimo d´Azeglio si ritrovarono a fondare lo Struzzo, nella cospirazione antifascista di Giustizia e Libertà (non nel Pci), in carcere, nelle piazze del 25 aprile 1945 e nuovamente ai tavoli della redazione di via Biancamano.
Corriere della Sera 17.12.09
Dal Pd «Rifondare il sistema senza temere l’accusa di voler fare inciuci»
D’Alema: premier e Di Pietro due populismi speculari
intervista di Maria Teresa Meli
Berlusconi Meglio una leggina ad personam che salvi lui e limiti i danni
Fini È conscio dei rischi non perché sia di sinistra: ha senso dello Stato
Bersani Si muove bene, con saggezza. Bindi? Consiglierei più prudenza
«Si alimentano in una spirale che va fermata con le riforme»
Onorevole D'Alema, in Parla mento ci si azzuffa un giorno sì e un giorno no, tanto per dare il buon esempio alle piazze.
«Non si tratta del venir meno del 'bon ton', abbiamo un problema serio: l'elemento del populismo è diventato un dato strutturale del si stema politico italiano in questi ul timi quindici anni per cui il Parla mento ha cessato di svolgere la sua funzione di luogo della mediazione ed è diventato puro luogo di rap presentazione teatrale dello scon tro. In Parlamento non si discute più nulla, vi è solo un susseguirsi di votazioni di parata, come la fidu cia. Perciò è stata cancellata quella dialettica tra maggioranza e opposi zione che portava all'assunzione di una comune responsabilità. E que sto è il frutto di uno svuotamento del sistema democratico».
I conflitti potrebbero inasprirsi ulteriormente?
«Potrebbe esserci un'escalation. Il prevalere del populismo riduce gli spazi della politica, cancella l'idea che i conflitti vengono regola ti perché c'è un bene comune che comunque non può esser distrut to. Sono stati i partiti, il Parlamen to, insomma la politica, ad aver consentito nel dopoguerra a que sto Paese di governare scontri di na tura ideologica e sociale ben più ra dicali di quelli di oggi. Allora c'era una classe dirigente che incanalava dentro le istituzioni i conflitti, che così venivano governati. Se ne ridu ceva in questo modo la pericolosi tà. L'eccesso di personalizzazione della politica ha invece portato alla distruzione dei partiti e allo svuota mento del Parlamento, che è ormai ridotto ad uno stadio: c'è la curva nord, c'è la curva sud, manca qualsiasi dialettica governo-Parlamen to. Fini a mio parere giustamente ri vendica questo meccanismo ele mentare e difende le istituzioni».
Secondo lei Berlusconi è re sponsabile di questo clima?
«Berlusconi è sicuramente un elemento di questo processo. Di quello che Piero Ignazi chiama, con un termine efficace, il 'forzaleghi smo'. In Italia c'è ormai una frattu ra tra politica e antipolitica che at traversa gli schieramenti. Da que sto punto di vista, ci sono delle si militudini tra il populismo di Berlusconi e quello di Di Pietro: sono speculari e si alimentano a vicen da, nel senso che Di Pietro è l'oppo sizione ideale per Berlusconi. Mi ri cordo che nel 2002 partecipai ad un'assemblea di studenti a Firenze, dove spiegai che parlare di regime era sbagliato, affrontando anche le dure critiche di quella platea. Non ho mai visto Berlusconi affrontare i suoi elettori per dire loro che la si nistra, nel nostro Paese, è democra tica. Queste considerazioni politiche non possono assolutamente giustificare una violenza barbara e insensata che colpisce non solo la persona di Berlusconi, ma l'istitu zione Presidente del Consiglio che lui rappresenta. Abbiamo espresso la nostra solidarietà e Bersani ha fatto benissimo ad andare a trovar lo. Ci sono gesti che contano più di mille discorsi. Bisogna fermare la spirale dei due populismi che si ali mentano a vicenda. Bisogna avere il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una co mune assunzione di respon sabilità, senza temere l'accusa di voler fare inciuci. E respingo l'idea che il maggioritario debba essere una rissa. In questo senso il discorso di Cicchitto, con quell'in credibile elenco di 'colpevoli', aveva elementi di autentica irresponsabilità » .
E qual è, secondo lei, onorevole D’Alema il modo in cui si può usci re da questa situazione?
«L'unico modo di uscirne è quel lo di ripartire dal rispetto per le isti tuzioni e dalla necessità di correg gere le distorsioni, come questa sorta di presidenzialismo di fatto a cui siamo giunti. Sul piano istitu zionale il governo non ha mai avu to tanta forza. Il paradosso è che questo meccanismo non produce decisioni efficaci né riforme signifi cative. Ci avevano raccontato che tolti di mezzo i partiti e la mediazio ne politica avremmo avuto final mente una democrazia governan te. Non era vero. Altro che aggiusta menti tecnici, qui c'è bisogno di ri fondare il sistema politico e questo è l'unico spazio in cui il Pd può agire, tra gli opposti po pulismi. Non è facile, però Bersani lo sta facendo bene. Certo, per disegnare quest'al tra idea di opposizione ci vor rà tempo ma è l'unico cammino che possiamo intraprendere, in terloquendo con quelle componen ti riformiste presenti anche nel cen trodestra. Spero che anche Berlu sconi cominci a rendersi conto di tutto ciò. Ma non c'è solo lui da quella parte. C'è Fini, che appare consapevole dei rischi che ho de scritto, non perché sia diventato di sinistra, ma perché è un uomo poli tico e ha senso dello Stato. Questo può avvicinare persone che hanno opinioni politiche tra loro diverse. In questi giorni non c'è stata solo violenta strumentalizzazione, ab biamo ascoltato anche considera zioni molto ragionevoli, come quel le, ad esempio, di Gianni Letta».
Certe prese di posizione di Di Pietro non le piacciono, ma che cosa pensa delle dichiarazioni di Bindi su Berlusconi, dopo l’aggressione?
«Bersani ha detto cose sagge e giuste. A lui gli iscritti e gli elettori hanno assegnato il compito di rap presentarci. Ad altri consiglierei maggiore prudenza».
Fu lei il primo a rimettere in gioco Di Pietro candidandolo al Mugello.
«Di Pietro era in gioco. Ritenni, e non da solo, che il posto per un pro tagonista della politica fosse il Par lamento ».
Lei parla di riforme ma per Ber lusconi è preliminare la riforma della giustizia.
«La riforma della giustizia, per renderla migliore per tutti i cittadi ni, ci interessa e abbiamo le nostre proposte. Viceversa, quelle per fer mare i processi a Berlusconi non so no riforme e non si può certo pre tendere che l'opposizione le faccia proprie. Se per evitare il suo proces so devono liberare centinaia di im putati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad perso nam per limitare il danno all'ordi namento e alla sicurezza dei cittadi ni. Ma una vera emergenza demo cratica è sicuramente quella della ri forma del Parlamento, a cui occor re restituire autorità e centralità, ri ducendo il numero dei parlamenta ri e superando il bicameralismo perfetto in senso federalista. Ci vuo le una legge elettorale che restitui sca ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti. Ripartiamo dalle proposte della Commissione Violante, che indicano la via per un governo forte in un quadro di pote ri democratici e non di un populi smo plebiscitario».
l’Unità Lettere e il Riformista Lettere 17.12.09
Capezzone e il Marchese del Grillo
di Roberto Martina
Alberto Sordi nel film "il marchese del Grillo" considerava responsabile Aronne Piperno della crocifissione di Gesù Cristo e con questa scusa non pagò il conticino del comò. Deve sentirsi un po’ marchese del Grillo anche Daniele Capezzone che al tg3 notte addossava a Penati la responsabilità dell’attuale clima politico pretendendo l'abiura in diretta delle alleanze politiche del Pd. Ricordo alcune dichiarazioni storiche di Capezzone: “Più che verso Londra o Washington la Cdl sembra andare verso il Sudamerica e il peronismo”, oppure “sarebbe un'eresia dirsi d'accordo con chi ha impostazioni clerico-fasciste su materie come il divorzio, la droga, la ricerca scientifica”. “Talebano, talebano, talebano” rivolto a Socci. Su Dell’Utri: "Da Palermo emergono fatti e comportamenti oscuri di cui qualcuno, Berlusconi in testa, dovrà assumersi le responsabilità politiche". E poi: "Berlusconi è l'erede di Don Lurio, altro che Don Sturzo". Scherzi del signor marchese, se ne raccontano tanti.