domenica 20 dicembre 2009

l’Unità 20.12.09
Il fronte interno
Franceschini-Veltroni, attacchi a D’Alema ma l’obiettivo è il leader
Il capogruppo alla Camera: «Non ho mai visto inciuci buoni» L’ex segretario polemizza con Latorre e le analisi dalemiane «Le riforme? Non si fanno certo in questo clima politico...»
di Simone Collini

Dicono che non sono e non faranno l’opposizione interna, che a Bersani non riserveranno il trattamento sperimen-
tato da chi l’ha preceduto e che vogliono soltanto dare un contributo di idee. Fatto sta che alla prima iniziativa pubblica organizzata da Area democratica, Franceschini, Veltroni e gli altri esponenti della minoranza Pd ci vanno giù pesanti, attaccando D’Alema per la battuta sugli «inciuci utili» ma avanzando forti perplessità sulla stessa disponibilità di Bersani a un confronto con la maggioranza sulle riforme.
Questo appuntamento a Cortona era pianificato da tempo, e da tempo i due ex segretari avevano scelto il taglio da dare all’intervento che avrebbero fatto. Ma quando all’ex convento di Sant’Agostino, durante la prima giornata di lavori, si viene a sapere della frase di D’Alema, si decide di non lasciar spazio ad indugi.
«Di inciuci che hanno fatto bene non ne ho mai visto neanche uno», dice Franceschini al microfono mentre tra le mura della chiesa sconsacrata risuona forte l’applauso. Una bordata a D’Alema, che già era stato criticato nell’intervento precedente, da Veltroni: «Se penso a ciò che ha provocato dei mali a questo paese, non mi viene in mente il Partito d’azione», dice l’ex segretario facendo riferimento alla seconda parte della dichiarazione di D’Alema finita al centro delle polemiche.
Ma anche la linea bersaniana della disponibilità al confronto viene messa in discussione. «La Costituzione è delicata e fantastica dice Veltroni per metterci le mani serve un clima politico che ora non riesco a vedere». Per non parlare di una riforma della giustizia. «Sarebbe inevitabilmente destinata a fallire sostiene Franceschini e allora anziché farci trascinare in un trabocchetto che serve a risolvere i problemi del premier, proponiamo un confronto sui contenuti, facciamo con la destra una riforma degli ammortizzatori sociali». Quello sulle riforme istituzionali è non solo «un dialogo inutile», ma anche dannoso: «Non a caso arriva adesso, alla vigilia delle regionali. È un tranello che la destra ci ha preparato per spostare i riflettori sui problemi degli italiani». Fassino, Tonini, Ceccanti, Realac-
ci e tutti i trecento parlamentari e amministratori locali della minoranza in platea mostrano di concordare con forti applausi. Gentiloni interviene per dire che «il fumo del dialogo sulle riforme non può coprire l’arrosto delle leggi ad personam». Debora Serracchiani per descrivere quelli con cui si dovrebbe dialogare, a partire dalla «destra fascista che si chiama Lega».
Ma non è solo sul circorscritto tema della disponibilità al confronto che Franceschini e gli altri si fanno sentire. È anche sul più generale modo di fare opposizione che intervengono. Veltroni si dice «sorpreso che un dirigente del nostro partito dica che Berlusconi deve arrivare alla fine della legislatura». A chi si riferisce? A Latorre, viene spiegato («un’affermazione che non ho mai pronunciato», manda a dire il vicecapogruppo Pd al Senato). E poi al suo successore che, sottolinea, «ha vinto col 53%, con il 47% che ha espresso un’altra posizione» e quindi «nessuno può pensare che il Pd possa essere governato come il patrimonio personale di qualcuno» chiede cautela sulla politica delle alleanze: «Non è un gran capolavoro se rifacciamo l’Unione, magari con un presidente del Consiglio espresso da un partito di centro, invece che dal Pd». Anche Franceschini ha qualche dubbio sul dialogo con i centristi. Non solo definisce «sbagliato creare in laboratorio un nuovo partito di centro cui appaltare la ricerca del consenso moderato». Ma lancia l’allarme su quella che può essere «una merce di scambio per avere magari un nuovo alleato»: ovvero, un riferimento all’Udc e alla legge elettorale proporzionale. «Con il sistema tedesco si torna indietro di 15 anni», scandisce.
La due giorni di Cortona verrà ripetuta: ora Area democratica si doterà di coordinamenti politici in tutte le province, un sito web (c’è chi punta anche a un quotidiano) e in prospettiva di uno speaker; poi, tutti di nuovo qui, a maggio, un mesetto dopo le regionali.❖

Repubblica 20.12.09
Il primo lo fece Togliatti
D'Alema e l'inciucio, il Pd si spacca Veltroni: ne vediamo di tutti i colori
Franceschini: miopi sull'Udc. Bersani: no a leggi ad personam
di Umberto Rosso

Casini apprezza l´ex premier: "I compromessi ci vogliono. In Italia c´è troppo odio"
Certi ‘inciuci´ farebbero bene al Paese, perché servono a costruire la convivenza in Italia. L´articolo 7 della Costituzione votato anche da Togliatti fu il primo grande ‘inciucio´

CORTONA - «Io di inciuci che hanno fatto bene non ne conosco nemmeno uno». Saluti da Cortona, sotto la neve. E la cartolina che Franceschini spedisce a D´Alema riaccende lo scontro nel Pd. C´è anche la firma del ritrovato Walter Veltroni, accorso alla convention di Area democratica, accanto a quella del capogruppo della Camera. Di suo pugno ci aggiunge anzi due righette indirizzate a Nicola Latorre, «mi sorprende che un nostro dirigente dica che Berlusconi deve assolutamente arrivare a fine legislatura, se ne vedono di tutti i colori». Il vicepresidente dei senatori del Pd si sorprende della sorpresa, «non ho mai detto nulla di simile». Ma ormai, su scambi veri o presunti con Berlusconi, alleanze da coltivare e fino a che prezzo con Casini, la contesa in casa democratica è riesplosa. Tanto da spingere Bersani a intervenire dal Tg1: «Siamo contro le leggi per una persona sola, e su questo non si discute». Ma il capo del Pd è anche per le riforme, a cominciare però da quelle sociali: «Possibile che in Parlamento non si riesca a parlare dei 780 mila disoccupati in più, delle 900 mila persone che vivono con ammortizzatori sociali che finiscono?».
Ma non c´è il segretario nel mirino della neonata corrente pd, che dalla convention assicura «nessuno ha pronunciato una sola parola contro di lui, non siamo gli anti-Bersani, le nostre idee sono a disposizione del partito». Un partito, pensa però Franceschini, e lo pensa Veltroni arrivato a qui per rilanciare il must della «vocazione maggioritaria», che rischia di perdere la bussola sotto i colpi dell´offensiva dalemiana. Nel laboratorio dell´ex premier, Area democratica vede in lavorazione distillati che non gradisce affatto. «Ritorno al passato». «Attacco al bipolarismo». «Frammentazione». «Fine delle ragioni fondative del Pd». Prendiamo il rapporto con Casini, che intanto dà ragione a D´Alema, spiegando che «i compromessi ci vogliono», che «c´è troppo odio» in Italia. «Ma che bella idea, che idea geniale», ironizza Franceschini. Argomenta: «Aiutare in laboratorio la nascita di un centro, visto che il Pd secondo questi teorici non sarebbe capace di intercettare i voti moderati, è miopia politica. Quelli, una volta finito Berlusconi, se ne vanno con la destra e ci lasciano per 40 anni all´opposizione».
Ovvero: l´alleanza con l´Udc (ma anche con Idv e sinistra radicale) si può fare, ma alle condizioni del Pd. Il capogruppo piazza due paletti. Primo: la leadership spetta in ogni caso al partito più forte, stop all´"ammuina" su Casini candidato premier del centrosinistra. Secondo: no al modello tedesco, sì al doppio turno alla francese. Non tutti, dentro il correntone pd, la pensano allo stesso modo. Gli ex ppi, con Fioroni che non si è presentato in sala nel giorno del tandem Dario-Walter, fanno sapere che il rapporto con l´Udc è «decisivo ed essenziale», e comunicano che comunque la corrente dei popolari non si scioglierà.
Siluri anti-D´Alema partono anche da Veltroni. «Non mi pare un capolavoro riciclare l´Unione e, per giunta, affidarne la guida non al Pd ma al centro». Ancora: «Il male per il nostro paese non è certo venuto dalla cultura azionista, da Parri e Calamandrei». L´ex segretario chiede «forte discontinuità» nelle candidature regionali in Campania, Calabria, no all´appoggio a Lombardo in Sicilia. Le riforme insieme a Berlusconi? «Non vedo il clima, e nemmeno il disegno generale». Bacchettate alla Lega, che la Serracchiani definisce «il nuovo fascismo». La pietra tombale la mette Franceschini. Il tavolo delle riforme istituzionali è «una trappola». Le riforme sulla giustizia servono solo al premier. Controproposta: «Riformiamo piuttosto gli ammortizzatori sociali. Noi siamo pronti. E Berlusconi?».

Corriere della Sera 20.12.09
«Inciucio». Corsi e ricorsi storici
Dai triumviri di Roma alla «palude» e Depretis una scelta piena di rischi
di Luciano Canfora

Come concetto politico, «inciucio» (dal verbo dialettale siciliano «’nciuciare», fare qualcosa maldestramente) è termine recente, ma il suo contenuto è antico. E per lo più fallimentare, quando non catastrofico. Non vorremmo risalire troppo indietro nel tempo, ma, tanto per tenerci all’esempio più noto, i patti tra leader di opposti schieramenti che a Roma furono chiamati «triumvirati» (informale il primo, magistratura straordinaria il secondo) portarono prima o poi alla guerra civile. «Graves principum amicitiae» li definì Orazio, in un’ode in cui sconsigliava ad uno storico suo amico addirittura di parlarne. Il fenomeno parlamentare cui si allude con quel termine gergale siciliano, detto più elegantemente trasformismo, ebbe speciale vitalità nei secoli XIX e XX.

Ma aveva già fatto le sue prime prove nelle assemblee elettive della Rivoluzione francese, ad opera di quell’area centrale della Convenzione Nazionale che fu detta, con dileggio, «la palude». I parlamenti a prevalenza liberale furono poi il terreno di coltura del trasformismo.

Né solo in Italia (Agostino Depretis) ma anche nella pratica pseudoparlamentare del Secondo Impero e parlamentare della Seconda Repubblica francese. Molti fattori portavano a tale esito, ma soprattutto la micidiale miscela tra suffragio ristretto (in sostanza censitario) e leggi elettorali maggioritarie. Il collegio uninominale era l’habitat appropriato per la elezione di notabili naturaliter centrali, accomodanti e centristi. Ne risultava un personale politico socialmente omogeneo, che era, anche per questo, particolarmente disposto al reciproco compromesso: architrave, all’epoca, del mestiere di deputato. Tutt’altra cosa fu il compromesso costituzionale, e costituente, del 1946. Certo, anche un Liborio Romano, ultimo ministro di polizia di «Franceschiello», forse segretamente manovrato da Cavour (come mostra un recentissimo libro di Nico Perrone, Rubbettino editore), infine senatore del Regno d’Italia, ha avuto — nel gioco politico — un suo ruolo e un suo significato. Ma si trova di molti cubiti al di sotto dei dilemmi morali dei Costituenti di fronte all’articolo 7. La distanza tra Liborio Romano e Palmiro Togliatti resta incolmabile.

l’Unità 20.12.09
Amore odio diritti
Quanto pesa il sentimento sul governo
di Francesca Rigotti

Amore e politica. Confortati dall’opinione di poeti e psicologi che vanno ripetendo che amore e odio sono strettamente connessi e che l’oggetto d’amore è spesso anche soggetto di aggressioni, non ci stupiremo di trovare il sentimento dell’amore inglobato, a torto o a ragione, nella politica. È questo il suo posto?
Nei secoli passati, in regimi autoritari spesso dispotici, erano abituali quanto paradossali le espressioni d’amore del sovrano verso i sudditi, costruite sul modello di quelle dei padri nei confronti dei figli (le madri, da questi scenari, erano a priori escluse). Ecco sprecarsi quindi asserzioni paternaliste da parte dei reggitori, tanto più calorose quanto più provenienti da sovrani-canaglia, come quel Federico II di Prussia di cui è nota la vocazione autoritaria tanto quanto la smagliante retorica ricca di dichiarazioni di amore paterno per i popoli da lui governati e assistiti con affettuosa dedizione (sic).
In democrazia invece non si parla di amore – ed è corretto che sia così – bensì di diritti, di legalità, di rispetto. Né si tratta di porgere l’altra guancia o di amare il prossimo: si tratta di rispettare tutti, il lontano quanto il prossimo, perché è il rispetto, non l’amore, la parola chiave delle democrazie liberali, che non vestono i rossi mantelli delle passioni bensì gli abiti grigi della legalità e del diritto.
Già nel Principe (1513) Machiavelli si chiede se sia meglio per il principe essere amato che temuto: «Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato». Anche se mai e poi mai, ammonisce il segretario fiorentino, il principe dovrà rendersi (parolina d’oro che sottolinea la responsabilità individuale) odioso nei confronti del popolo.
Machiavelli parlava per il monarca di sudditi; per il governante di cittadini le cose sono diverse. Odio e amore non sono espressioni del linguaggio delle democrazie liberali, dove il sentimento sovrano è il rispetto, a tutti dovuto in quanto esseri umani, ma che il politico pubblico più di altri dovrebbe meritare tramite un comportamento serio, onesto, dignitoso, autoritativo: non per il suo autoritarismo, attenzione, ma per la sua autorevolezza che nasce dalla statura morale e politica, dalla condotta irreprensibile, dalla magnanimità – dall’avere cioè, come dice la parola, una «grande anima» lontana dalla cultura della ricchezza, dell’accumulo, della corruzione e della autoprotezione a tutti i costi: chi ha orecchie per intendere intenda, e auguri a tutti. ❖

l’Unità 20.12.09
Diffusione planetaria. Dagli Usa alla Russia, dall’Indonesia all’Egitto, fino al cuore dell’Europa
Propaganda e non solo. Internet serve anche per organizzare attacchi e reclutare
Web, la rete dell’odio Più di tremila i siti razzisti
Affermano che «Auschwitz è come Disneyland»; inneggiano al Terzo Reich, incitano alla caccia all’ebreo, al negro, ai gay... Sono gli «hate sites», i siti dell’odio. Una crescita costante, in quantità e qualità...
di Umberto De Giovannangeli

L’antisemitismo corre sul web. Ed è un fenomeno in costante crescita. In quantità e diffusione. Dall’Indonesia all’Australia, dalla Russia all’Italia, passando per l’Egitto, le repubbliche baltiche dell’ex Urss, la Polonia. Sono oltre tremila i siti censiti che propagandano tesi antisemite. A questi vanno aggiunti i filmati (calcolabili a centinaia) di esaltazione del Terzo Reich e di negazione della Shoah, scaricati su Youtube. La rete collega singoli e gruppi. Crea alleanza. Produce mobilitazione. Organizza aggressioni contro giovani ebrei. Incentiva la profanazione di cimiteri ebraici.
LA RETE DELLA VERGOGNA
Oltre tremila siti antisemiti. Una rete della vergogna che accompagna la formazione di gruppi e movimenti dichiaratamente antisemiti: sono almeno 850 quelli censiti dal Centro Wiesenthal di Gerusalemme. Questi siti, sottolinea il direttore del Centro Simon Wiesenthal di New York, Marc Weitzman,sono utilizzati non più soltanto per la propaganda ma anche «come sistema di reclutamento, praticamente privo di rischi, quasi a costo zero e anonimo». Considerazioni, e cifre, che ritroviamo in un recente rapporto realizzato dal network Raxen su input dell’Eumc (Centro Europeo di Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia).
Secondo gli esperti, a partire dal 2000, sul web ha preso piede una rete di comunicazione tra estrema desta e fondamentalismo islamico. Negli oltre 3mila siti dedicati a contenuti antisemiti, a cui si legano chat e forum, al centro viene posta la negazione dell’Olocausto «come una componente dell’agitazione antisemita». «Gli estremisti di destra si legge nel rapporto hanno scoperto come condurre la loro guerra via Internet, come usare la “elecronic warfare”. Simili tattiche hanno indotto le autorità di alcuni Stati a mettere in guardia contro le derive terroristiche dello spettro dell’estrema destra. In più la potenziale violenza è coltivata dai peggior tipi di giochi elettronici, diventati arma politica vera e propria utilizzata abilmente dai neo-nazi. Questi siti hanno un pubblico fedele e e ampio, costituito non di semplici curiosi, ma di persone che sull'odio hanno costruito il proprio rapporto col mondo e usano Internet per ritrovarsi, scambiarsi informazioni, infiammarsi reciprocamente, creare steccati, alzare barriere, scavare fossati.
NAZI IN ISRAELE
Zalman Gilichinsky, immigrato in Israele dalla Moldovia nel 1989, si occupa da diciannove anni di monitorare il fenomeno dell’antisemitismo in Israele. Sul suo sito internet, pogrom. org.il, ha denunciato a giornali e associazioni la diffusione di decine di fogli a sfondo neonazista in Israele. Inutilmente: i media israeliani lo considerano un argomento tabù. Un’eccezione si ebbe nel 2007, quando la polizia scoprì una cellula neonazista composta da almeno otto immigrati provenienti da Paesi ex sovietici, tutti tra i 17 e i 19 anni, accusati di aver organizzato attacchi contro ebrei ortodossi, stranieri, punk, gay e tossicodipendenti, oltre che sfregiato una sinagoga di Tel Aviv.
Il neonazismo sul web non conosce confini: siti russi, francesi, spagnoli, svedesi, tedeschi, americani, in un crescendo di farneticazioni antisemite e deliri razzisti, celebrazioni di Hitler e esaltazione della razza ariana. Negli Usa sono oltre 400 i siti che si dicono apertamente nazisti, hitleriani o appartenenti al Ku Kluz Klan. Gli «hate sites» ( i siti dell’odio) sono mobili, pronti ad aggirare restrizioni legislative. Sono novanta i gruppi di estrema destra tedeschi che hanno trasferito loro siti Internet dai server della Germania a quelli degli Stati Uniti. Negli Usa, la legge sulla libertà di espressione rende più difficile la chiusura delle pagine web.❖

Repubblica 20.12.09
Copenhagen. Il risultato premia la linea della "non ingerenza" voluta da Pechino e New Delhi. Emarginata l’Europa
Il trionfo di "Cindia" sull´America "L'Occidente non può dettare le regole"
di Federico Rampini

COPENAGHEN - Le ragioni della vittoria politica di "Cindia" al vertice sul cambiamento climatico? Il responsabile Onu per l´ambiente Yvo de Boer le riassume così: «In India 400 milioni di persone vivono senza accesso alla corrente elettrica. Come gli dici di spegnere una lampadina che non hanno?» È ciò che il premier indiano Manmohan Singh aveva in mente quando ha detto: «Ogni accordo sul clima deve considerare i bisogni di crescita delle nazioni in via di sviluppo». Se a qualcosa è servito Copenaghen, forse è proprio questo. Mai più l´Occidente potrà dettare tempi e regole per far fronte all´emergenza ambientale, ignorando che il saccheggio dell´ambiente visto dai paesi emergenti è anzitutto un lascito nostro.
«Tutto il mondo dovrebbe essere felice per i risultati del vertice», ha detto raggiante Xie Zhenhua, il capodelegazione cinese, nel riprendere l´aereo per Pechino. La sua esultanza non lasciava dubbi sull´esito. «Noi cinesi - ha aggiunto Xie - abbiamo preservato il nostro interesse nazionale e la nostra sovranità». Non è proprio così che Barack Obama ha cercato di vendere agli americani l´accordo finale. Un punto qualificante dell´intesa raggiunta in extremis è la concessione cinese che gli impegni a ridurre le emissioni di CO2 andranno verificati nella trasparenza, con un monitoraggio internazionale. Ma quanto la Cina sarà davvero aperta a forme di ispezioni straniere, alla fine lo decideranno a Pechino, valutando di volta in volta i propri interessi.
Se ci fosse bisogno di una conferma del successo politico di Pechino e Delhi, l´ha data un autorevole consigliere di Obama rivelando i retroscena del vertice ai giornalisti di ritorno a Washington sull´Air Force One. Le ultime ore convulse di trattative per salvare Copenaghen dal fiasco totale, Obama le ha passate a rincorrere il premier cinese («Datemi il primo ministro Wen, dov´è finito Wen?»). Wen si nascondeva in albergo. E a negoziare con il presidente degli Stati Uniti mandava un sottosegretario agli Esteri. In quanto a Singh, la delegazione Usa è stata presa dal panico quando a vertice ancora aperto è giunto l´annuncio: «Gli indiani sono già all´aeroporto, hanno deciso che non serve rimanere e stanno imbarcando sull´aereo di Stato per tornare a casa». Alla fine Obama ha dovuto, letteralmente, imbucarsi a una riunione in cui nessuno lo aveva invitato: un meeting tra i dirigenti di Cina, India, Brasile e Sudafrica, cioè il nuovo gruppo "Basic". Obama aveva capito che se voleva salvare una parvenza di risultato al vertice, le cose si decidevano lì dentro.
È uno choc per due aree del mondo che avrebbero potuto contare molto di più: l´Unione europea e il Giappone, spesso all´avanguardia nelle normative sull´ambiente, ma ininfluenti a Copenaghen. Mai Obama ha cercato una sponda con loro. Dando prova di senso tattico, il presidente americano ha "marcato" solo i giocatori che contavano. Perché la chiave dei nuovi equilibri politici mondiali, è nella capacità di Cina e India di giocare su due sponde. Sono superpotenze economiche in competizione con l´Occidente (anche nella quantità di gas carbonici). Al tempo stesso conservano la capacità di rappresentare paesi emergenti ben più poveri di loro.
Un esempio è proprio la difesa che la Repubblica Popolare ha fatto della propria sovranità nazionale, contro la "trasparenza". Perché questa campagna cinese ha trovato comprensione in molti paesi dell´Asia, dell´Africa e dell´America latina? In parte perché si tratta di governi-clienti di Pechino, avvinghiati in robuste reti di relazioni commerciali, finanziarie, militari. Ma c´è una ragione più nobile, l´ha spiegata il presidente brasiliano Lula da Silva: «L´Occidente deve stare attento alle interferenze. Quando i cinesi si battono contro le ingerenze, ad altri paesi in via di sviluppo vengono in mente i tempi in cui mandavate i vostri diktat attraverso il Fondo monetario e la Banca mondiale».
Mark Levine, scienziato ambientalista al Lawrence Berkeley National Laboratory, che in qualità di esperto ha accompagnato Barack Obama sia in Cina che a Copenaghen, è convinto che i leader di Pechino non sottovalutino affatto i danni del cambiamento climatico: «Stanno investendo molto nelle energie alternative. E sull´auto elettrica, vogliono arrivare prima loro di noi. Ma al tempo stesso vogliono affermare il principio che su questo terreno non tocca a noi dare lezioni».

Repubblica 20.12.09
Mobilitazione dei radicali a tre anni dalla morte di Welby
"Una petizione per legalizzare eutanasia e testamento biologico"
di Paola Coppola

ROMA - Una petizione per legalizzare l´eutanasia e il testamento biologico. A tre anni dalla morte di Piergiorgio Welby, il 20 dicembre del 2006, i Radicali si mobilitano per raccogliere le firme nelle piazze. «Chiediamo che nelle scelte relative alla fine della vita sia rispettato il diritto all´autodeterminazione di ciascun individuo», si legge nel testo al parlamento. E sul testamento biologico: «Chiediamo il riconoscimento legale del testamento biologico attraverso il quale le scelte individuali siano obbligatoriamente rispettate e che includa la possibilità di rinunciare alla nutrizione e idratazione artificiale». Questo il senso della mobilitazione di tre giorni, che si chiude oggi, nell´anniversario della scomparsa di Welby dopo una lunga lotta per il diritto a scegliere sul fine vita. «La battaglia di mio marito non è andata perduta», racconta Mina Welby «perché tanti vengono a firmare anche tra i giovani perché vogliono scegliere cure e terapie e credono che non sia giusto vivere in una condizione di non vita». I tavoli organizzati nelle piazze informano anche su come fare per aprire a livello comunale i registri telematici a cui affidare le dichiarazioni anticipate di trattamenti sanitari prima dell´approvazione della legge nazionale. A Genova già lo hanno fatto, in altri comuni i cittadini si stanno mobilitando con una petizione. L´Associazione Luca Coscioni, insieme a "A buon diritto" resta un punto di riferimento per firmare testamento biologico. «Ne abbiamo già oltre 3000, ma i testamenti biologici compilati dagli italiani potrebbero essere oltre 10mila: se il loro diritto venisse negato dalla legge del parlamento il caso potrebbe arrivare davanti alla Corte Costituzionale», precisa Marco Cappato, segretario dell´associazione Luca Coscioni.

Corriere della Sera 20.12.09
La sentenza Da Tiger Woods alla Lewinsky: quando uno dei due rompe il silenzio
L’amore clandestino difeso dalla Cassazione
Minacciò di rivelare la storia: condannato per estorsione
di Maria Luisa Agnese

E adesso i mariti (e le mo­gli) che pensano di farla fran­ca negando, negando sempre, possono esultare. Perché l’amante che vuole uscire dal­la clandestinità potrebbe ri­schiare il reato di estorsione. Insomma l’outing non concor­dato potrebbe costare molto caro all’amante negletto. Al­meno così ha deliberato la Cas­sazione esaminando il caso di Sergio T, 33 anni, da Nola, che aveva minacciato di rivelare al­la madre dell’amante la loro relazione segreta. Denunciato e condannato, aveva fatto ri­corso, i giudici supremi però lo hanno respinto ribadendo gli estremi del reato «quando la minaccia sia fatta con lo sco­po di coartare la volontà altrui per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia».

Ma, per tanti consorti che possono rilassarsi, quanti amanti disperati: per esempio che fine farebbero alla luce di questa sentenza tutte le “fidanzate” di Tiger Woods (fra cui una cameriera di Los Angeles bombardata da 300 sms) che in un mese sono esplose con le loro rivelazioni mandando in crisi un matri­monio collaudato, un campio­ne miliardario e il business che gli ruotava intorno.

Storie non inusuali in un mondo che insegue il quarto d’ora di celebrità. Che dire del­le due bellezze che a distanza di pochi giorni, nel 2004, ten­tarono di mandare in frantu­mi – senza successo - il matri­monio di un altro campione sportivo come David Be­ckham? O del tentativo itali­co, l’anno seguente, operato ai danni della coppia del desi­derio nostrano Totti-Blasi da Flavia Vento che, proprio quando Ilary era molto incin­ta e alla vigilia del matrimo­nio, raccontò a Gente di una notte d’amore con lui? O della rincorsa alle rivelazioni segre­te da parte di due maschietti, Rossano Rubicondi e Antonio Tequila, sulla multimiliarda­ria Ivana Trump, che, dopo aver ballato per qualche estate con loro in quel di Saint Tro­pez, si è ricordata di essere una signora e li fatti diffidare dai suoi avvocati dall’usare an­cora il suo nome o la sua im­magine.

Ma l’alchimia delicata e diffi­cile (sentimenti, passioni, inte­ressi) che si nasconde dietro una relazione clandestina si può liquidare davvero alla vo­ce estorsione? C’è solo questo dietro alla voglia disperata di possesso e di riconoscimento di persone negate in un rap­porto mai reso pubblico? Nelle loro soluzioni estreme film co­me Tutta la vita davanti e At­trazione fatale ci raccontano anche della rabbia e della fru­strazione di essere cancellati: che altro volevano Sabrina Fe­rilli e Glenn Close se non riba­dire il disperato bisogno di es­serci, di essere riconosciute?

Viene in mente il volto di­sperato e stranito di una don­na apparentemente fortunata come la principessa Di­ana che, incurante di tutti i suoi privilegi, era andata in televisione a mettere in piazza addirit­tura un doppio tradimen­to: quello del marito e il suo; ma solo per far sapere al mondo della sua umilia­zione per non essere in fon­do mai stata amata, al di là di un sontuoso e celebrato matrimonio. Anche dietro al volto della giovane Monica Lewinsky, che in tante intervi­ste raccontava i retroscena più gustosi delle avance del Presidente, non si intravede­vano soltanto giochi politici più grossi di lei e una giovani­le febbre da protagonismo, ma la lusinga che suscitava in una ragazza fresca ma non par­ticolarmente attraente il fatto di essere entrata per un atti­mo nel cono di luce di un po­tente della terra.

Lo stesso bisogno che forse ha spinto Patrizia Caselli a re­galare a Bruno Vespa, nel li­bro L’amore e il potere , una ri­velazione postuma, per far sa­pere a tutti quello di cui fino ad allora erano a conoscenza solo le persone che erano an­date in pellegrinaggio ad Ham­mamet da Bettino Craxi: che era stata lei l’ultimo amore se­greto del Cinghialone.

Corriere della Sera 20.12.09
Quella violenza alla libertà di decidere
di Cesare Rimini

Una storia d’amore, una relazione, una cosa che comunque il protagonista vuole mantenere inti­ma e segreta può diventare lo strumento, il mezzo per commettere il reato gravissimo di estorsione.

E l’affermazione della suprema corte è del tutto condivisibile perché l’estorsione, punita con la re­clusione da 5 a 10 anni, è il delitto che commette «chi con violenza o minaccia, costringendo talu­no a fare od omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno». Per­ché il reato sussista non è necessario che la minac­cia sia in sé un fatto illecito, è il fine che lo qualifi­ca. Extorquere, in latino, è ottenere per via di mi­nacce o lusinghe.

Insomma, il caso di scuola è questo: «Tu mi hai rubato una cosa, io ti denuncio se non mi vendi il tuo cavallo veloce». È chiaro che la minaccia di de­nunciare il furto subìto è perfettamente lecita, ma diventa illecita se viene utilizzata per costringere e procurarsi un vantaggio. Estorsione è la violazio­ne della libertà di decidere.

sabato 19 dicembre 2009

Repubblica 19.12.09
D´Alema: gli inciuci a volte sono utili
D´Alema elogia l´"inciucio" "Lo fece Togliatti con la Chiesa"
"Serve alla convivenza". Attacco alla cultura azionista
di Giovanna Casadio

ROMA - La possibilità di un accordo con Silvio Berlusconi su giustizia e riforme divide il Pd. Ieri Massimo D´Alema ha ribadito che «gli inciuci a volte sono utili». Contrari ad un´intesa con il premier che preveda una leggina ad personam sull´immunità Dario Franceschini e Rosy Bindi. Ma le polemiche invadono anche il Pdl: ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha regalato del Valium al direttore de il Giornale Vittorio Feltri, che ha ribattuto: «Gli manderò del vino bianco perché il rosso lo annebbia».

«Certi "inciuci" farebbero bene al paese». In nome della realpolitik, Massimo D´Alema rilancia il confronto tra Pd e Pdl. Non sono le polemiche a fermare l´ex ministro degli Esteri, che l´altra sera, nel "caminetto" dei leader democratici riunito dal segretario Bersani, aveva già messo sul tavolo il suo punto di vista. Con un paio di battute, ieri - durante la presentazione del libro "Comunisti immaginari" di Francesco Cundari - torna sulla questione dell´apertura a Berlusconi e al centrodestra, sulle riforme a cominciare da quella della giustizia. E tanto per fare un esempio di "inciucio", ricorda l´articolo 7 della Costituzione sui rapporti tra Stato e Chiesa votato dal Pci di Togliatti nell´Assemblea costituente.
«I comunisti italiani hanno sempre dovuto difendersi da questo tipo di accuse - ricorda D´Alema - C´è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato questo, da quando Sofri accusa Togliatti di non volere fare la rivoluzione, dall´articolo 7 in giù che è stato il primo grande "inciucio"... ma questi "inciuci" sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia, oggi è più complicato, ma sarebbero utili anche adesso. Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese...». I dirigenti comunisti, precisa, «hanno avuto un ruolo di educare i cittadini», e di nuovo cita Togliatti e la diversità dei comunisti italiani. Dal fronte dalemiano arriva la contrarietà di Nicola Latorre alla «delegittimazione giudiziaria del premier: avendo vinto Berlusconi le elezioni, deve governare questo paese fino a fine legislatura».
Bersani, però, ribadisce che la barra è dritta: il Pd non voterà mai leggi "ad personam" per aiutare il premier a uscire dai suoi guai giudiziari. Strada che nel partito non troverebbe consensi: contraria la presidente Rosy Bindi («La maggioranza ha i numeri per approvare le leggi che ritiene, non chieda avalli a noi»), come Piero Fassino («Attenti a non cambiare rotta») e il capogruppo alla Camera, Dario Franceschini. Tanto che il responsabile giustizia, Andrea Orlando accusa Di Pietro di mistificare. Il leader di Idv infatti aveva definito «senza senso la proposta di D´Alema» di una leggina pro Berlusconi che «i suoi stessi elettori boccerebbero; è scandaloso solo pensarlo; è come dire che piuttosto che essere colpiti da uno sparo è meglio essere accoltellati». Replica Orlando: «È incredibile che Di Pietro impieghi gran parte del suo tempo per attaccare il Pd. La nostra posizione sul cosiddetto legittimo impedimento è chiara: siamo contrari. Quindi una polemica pretestuosa contro D´Alema, il quale ha utilizzato semplicemente un paradosso».
Il Pd sembra diviso sul dialogo. Da Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente, ex capo dello Stato, cattolico democratico, parte uno spunto di riflessione per il centrosinistra: «Non sono per nulla contrario all´ipotesi di un provvedimento che dia una tutela al premier a condizione che non ci sia danno a terzi». Scalfaro è stato anche magistrato. Osserva: «Tale provvedimento però non deve sospendere i termini per la chiusura dei processi». Un intervento a tutto campo quello del presidente emerito: sulle elezioni anticipate («Sarebbero da evitare, perché sciogliere le Camere sono interventi traumatici, una patologia seria»); sullo sfidante di Berlusconi («Rosy Bindi avrebbe l´intelligenza e la grinta per sconfiggere

Agenzia Radicale 19.12.09
Per D’Alema chi attenta la democrazia è la cultura azionista
di C.P.

Aspettavamo Mikail Santoro per sapere chi fossero i mandanti dell'attento a Silvio Berlusconi: ci ha rifilato la solita, stantia minestra riscaldata, del filosofo Umberto Galimberti per il quale chiunque in qualisiasi momento può aggredire fisicamente un altro essere umano. La ‘non violenza' anche verbale per Galimberti non fa parte dell'essere umano, perché simile alla tigre o alla pantera. Ma oggi ne sappiamo di più: i mandanti dell'attentato e della democrazia italiana sono gli 'azionisti', vale a dire quella nobile, onestissima, disinteressata, lungimirante cultura azionista fatta di gente come Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Leo Valiani, Tristano Codignola, Carlo Arturo Jemolo, Ugo La Malfa e tanti altri illustri politici, che rischiarono la propria vita contro l'orrendo nazifascismo, che vollero a fecero la Repubblica Italiana laica, che fino alla fine si opposero a qualsiasi 'inciucio' con la Chiesa!
A svelare l'arcano del mandante è stato l'ineffabile 'baffino' Massimo D'Alema che proprio oggi ha testualmente detto: questa cultura azionista non ha mai fatto il bene del paese! Meriterebbe di esser giudicato dallo stesso ‘Tribunale Speciale' del ventennio che condanno' a morte migliaia di partigiani e che fece morire in carcere, complice il Pcus, Antonio Gramsci, 'un cervello che non deve pensare' disse Benito e quindi andava eliminato, anche per il Pci. Questa cultura azionista non violenta si oppose all'art. 7 della Costituzione con cui Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi elevarono a norma costituzionale in nome della ‘riappacificazione nazionale' i Patti Lateranensi del 1926 tra Mussolini, Uomo della Provvidenza, e Pio XI.
Patti Lateranensi che per Gramsci avrebbero significato "la capitolazione" dello Stato perche' poi "costretto a perseguitare" chiunque non si fosse riconosciuto nella religione di Stato, quella cattolica, come sancito dai Patti. Non contento di ciò, il Migliore, per anni al sicuro e al caldo nella residenza russa di Stalin, mentre in Italia si lottava corpo a corpo contro il fascismo e il nazismo mettendo a rischio la propria vita, o in Spagna si difendeva a Repubblica e tanti anarchici furono uccisi dal Kgb russo con la complicita' di Togliatti, sbarcato a Napoli, era pronto a fare il governo con il fascista Pietro Badoglio. Poi nel 1945 fece saltare il Governo di quel 'coglione' di Ferruccio Parri, quindi come ministro della Giustizia emano' nel 1946 il decreto di amnistia controfirmato da De Gasperi con cui Pci e Dc si divisero il bottino del ventennio: magistrati, giornalisti e intellettuali nel Pci, Repubblichini di Salò (come Ciarrapico e Sbardella) nella Dc.
E i torturatori dei partigiani, i giudici che mandarono a Ventotene Pertini, Terracini, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e tanti altri, gli estensori dell'orrendo Manifesto della Razza che definiva gli ebrei un popolo da sterminare, furono liberati dal Migliore. Non soddisfatto dell'opera nefasta, proseguì a ingannare milioni di persone con il mito dell'Urss, patria del socialismo realizzato... con i gulag, e non si fermo' neanche di fronte all'invasione dell'Ungheria da parte dei tank sovietici: tirò fuori la 'balla' dei controrivoluzionari pagati dall'Occidente!!
Poi venne il compromesso storico di Enrico Berlinguer, e con la 'fermezza' dello Stato l'omicidio di Aldo Moro! Ah, dimenticavo. Togliatti ebbe un figlio, Aldino che oggi e' un numero, quello della stanza di una clinica privata di Modena dove e' internato da decenni per schizofrenia. E una figlia, seguace di un ebreo che non fu mai perseguitato dai nazisti i quali però ne apprezzarono l'opera psicoanalitica: si chiamava Sigmund Freud che chiamò Mussolini 'Eroe della Cultura'.
Ma quell'azionista pericoloso di Riccardo Lombardi se la cavò con una piccola battuta: "Non perdo neanche un secondo a leggere qualsiasi libro di chi ha definito Mussolini 'Eroe della Cultura: per me è stato l'Eroe della Cultura della Morte'. Ne' tanto meno condivise la famigerata legge 180 del compagno Franco Basaglia: scelse i tormenti, le perplessità, i dubbi atroci di Mario Tobino di chiudere sici et simpliciter i manicomi.
Costui diceva, "mi si dia del reazionario, del servo del potere ma la differenza tra me e Basaglia è che io la malattia mentale l'ho vista e la vedo, lui dice che non esiste". Ci vogliamo aggiungere cosi' tanto per far cultura che il Pci, non tutto per la verità, considerò e considera Sartre e Foucault, Heidegger e Basaglia, grandi maestri del pensiero umano e che l'Ingegnere socialista ex-azionista bollo' le loro tesi come 'aberranti'?
Perché? Ma perché negavano totalmente la realtà dell'essere umano che non ha solo bisogno di casa, salario, auto, televisore, frigorifero, ma di esser liberato dall'alienazione sul lavoro e da quella religiosa, avere la possibilità di disporre di tempo libero per se, per studiare Dante e Omero, per apprezzare Picasso, per fare l'amore.
Accade che bisogna riscrivere la storia: buttare giù dalla torre i falsi padri della Repubblica che non furono ne' Togliatti ne' De Gasperi, come i falsi padri della psicoanalisi che non fu Freud e il freudismo che non e' mai esistito, come i falsi maitre a penser che non sono stati Sartre e Foucault che giustificava la pedofilia, ne' Heidegger e nemmeno Basaglia. La cultura azionista e Lombardi a modo loro, per i tempi, non certamente facili e semplici, gli anni '30 e '40, dominati dalle ideologie della Morte (Fascismo e Nazismo), gli anni '50 e '60 dominati dal mito dell'Urss, e gli anni '70 dal Sessantotto finito nella droga e nella P38, qualcosa di sporco avevano intuito.
E Lombardi d'istinto disse 'No' a quest'inganno. Fece del suo meglio avendo accanto una donna straordinaria Ena Viatto che a tredici anni chiuse con la religione "noiosa e deprimente", mando' a quel paese Togliatti, divorziò dal comunista Li Causi perché innamoratasi di un Ingegnere non comunista, ma amico degli antifascisti...
E questa donna, chissà perché, nessuno mai l'ha voluta ricordare, le ha mai dedicato qualche riga di giornale o dieci secondi di televisione...A differenza di quel che pensa e dice 'baffino' della cultura azionista non violenta e libertaria, liberale e laica, antidogmatica e socialista ce ne e' ancora tanto ma tanto bisogno, non degli ‘inciuci' catto-comunisti', ai quali la ‘non violenza' non è mai appartenuta.

Corriere della Sera 19.12.09
Nel Pd Franceschini riunisce i suoi a Cortona: sulle riforme niente pasticci
«Certi inciuci farebbero bene» D’Alema incalza i democratici
di Alessandro Trocino

CORTONA — «Certi inciu­ci farebbero bene al paese». Massimo D’Alema si riferi­sce a «inciuci» di rango, co­me l’articolo 7, oggetto del Concordato. E aggiunge: «Sa­rebbero utili anche oggi. Questa cultura azionista non ha mai fatto bene al Paese».

Il termine «inciucio», pro­nunciato a Roma, rimbalza a Cortona, dove si riunisce per la prima volta Area Democra­tica, che fa capo alla mozio­ne di Dario Franceschini. Per la leggina sul legittimo impedimento, D’Alema ave­va parlato di «riduzione del danno», ovvero di «male mi­nore » rispetto al processo breve. Tutti provvedimenti che Area Democratica vede come il fumo negli occhi. Pa­olo Gentiloni: «Non scambia­mo il fumo delle parole sulle riforme con l’arrosto del le­gittimo impedimento». E Da­rio Franceschini: «Sulle rifor­me non vogliamo pasticci». Oggi ci sarà il rinnovato no all’«inciucio» di Walter Vel­troni, che avverte: «Si parla troppo dei processi ai poten­ti » .

Michele Salvati traccia in apertura l’identità di Ad: no alla tradizione «esaurita» del­la socialdemocrazia, «ruolo significativo» agli elettori non iscritti, difesa del bipola­rismo. Pina Picierno entra nel vivo: «La divergenza fon­damentale con la maggioran­za del Pd è sulla giustizia. No a compromessi sulla legali­tà ». Debora Serracchiani: «Sulla giustizia non dobbia­mo balbettare. Dobbiamo di­re no a qualunque legge ad personam salva premier». Parole diverse dal dalemia­no Nicola Latorre che si dice contrario alla «delegittima­zione giudiziaria del pre­mier ». Piero Fassino, invece, da Cortona mette in guardia dal rischio che si cerchi di ba­rattare «una riforma della giustizia con le riforme isti­tuzionali ». «L’ubi consistam del Pd — aggiunge Sergio D’Antoni — deve restare la vocazione maggioritaria e la comprensione di tutte le cul­ture » .

Anche Area Democratica ha diverse anime al suo inter­no. Beppe Fioroni vorrebbe tenerle ben vive: «Dobbia­mo alimentarle, non soppri­merle. Non ci sto a un parti­to nel partito, ma dobbiamo trovare le nostre affinità elet­tive. Intanto i popolari non li sciolgo». Franco Marini vor­rebbe mantenerli trasversali alle mozioni e per questo non è venuto a Cortona. Fio­roni aspira a una «dirigenza plurima» dentro Ad, con nes­suna struttura e nessun por­tavoce. Nei prossimi mesi potrebbe invece nascere un ufficio politico, con i rappre­sentanti delle sub correnti, e uno speaker. Come soluzio­ne di sintesi, si parla del vel­troniano Giorgio Tonini.

Corriere della Sera 19.12.09
Il caso In un video montate immagini per dimostrare la teoria dell’«autoattentato»
Su Internet la «tesi del complotto». Pdl e Pd: assurdo
di Monica Guerzoni

ROMA — Si intitola «L’aggressione a Ber­lusconi una montatura?», è partito da You­Tube e sta facendo il giro del web, diven­tando il vessillo del partito del complotto. Cioè il fronte di chi pensa che la tragedia delle Torri gemelle sia nata in seno alla Ca­sa Bianca e che, allo stesso modo, Massimo Tartaglia sia stato assoldato da Palazzo Chi­gi. La tesi dell’autoattentato va alla grande, su Internet. Dove si sfida il senso del ridico­lo parlando dei fatti di piazza del Duomo come di un «11 settembre all’italiana».

Il video più gettonato, rilanciato da Face­book e visto in poche ore da trecentomila utenti, è stato realizzato montando le im­magini di Rainews 24 e va rimbalzando dai siti giustizialisti a quelli dei movimenti, sca­tenando migliaia di commenti e gettando legna sul fuoco dell’antiberlusconismo. L’aggressione del Duomo non sarebbe, in­somma, che una «manipolazione mondiale per prendere il controllo di Internet». Il fil­mato è diviso in due parti, dura circa otto minuti ed è corredato da musica thriller e infografiche in rosso. L’autore, che non si rivela, utilizza il fermo immagine col dichia­rato intento di portare a galla i «piccoli e grandi particolari», i «dubbi» e le «incon­gruenze » che tormentano i radical anti-Sil­vio. Perché il sangue, invece di sgorgare fluido e abbondante, appare «magicamen­te coagulato»? Cos’è il «misterioso» ogget­to che uno dei body-guard tiene in mano all’interno dell’auto? Non sarà mica una «bomboletta che spruzza sangue finto»?

Tutte «scempiaggini», prende nettamen­te le distanze Beppe Fioroni, responsabile Welfare del Pd. «Ma smettiamola... Se la ri­produzione del Duomo lo colpiva sulla tem­pia il premier poteva morire — e qui Fioro­ni parla da medico —. Ma quale complotto! Il confronto politico rimanga nell’ambito della saggezza». Intanto però, un click do­po l’altro, il filmato che sprona «spegnete la tv accendete il cervello» irretisce miglia­ia di sostenitori. «Questo video mostra la verità!!! — scrive su YouTube MrBrasco80 —. Non facciamo gli ipocriti!!! E la camicia piena di sangue che hanno detto al tg dove sta?». Fake407 invece non ci crede e raccon­ta che a lui hanno rotto il naso con un pu­gno, «ma neanche una goccia di sangue».

Il video arriva dopo l’affondo del presi­dente del Senato Renato Schifani contro i social network, paragonati ai gruppi extra­parlamentari degli anni ’70. E certo non è sfuggito all’entourage del presidente del Consiglio.

«Ho visto qualcuno di questi video — conferma Daniele Capezzone — e siamo di­nanzi a qualcosa che definirei microterrori­smo ». Non sarà troppo? «Io ci vedo la stes­sa furia ideologica di chi usa la violenza, ma in più la miseria di fare tutto nella pro­pria stanzetta, negando l’evidenza e illuden­dosi perfino di fare un’inchiesta — attacca il portavoce del Pdl —. Vigliacchi, falsifica­tori e illusi». Se non parlassimo di «una co­sa drammatica» Capezzone si metterebbe a ridere: «Si lamentano perché Berlusconi sanguinava poco, se siamo arrivati a que­sto punto...».

Repubblica 19.12.09
Berlusconi sul Pd «Sono un simpatizzante»
L’altolà dell'opposizione Pd "Niente scambi sulla giustizia"
E Marini dice addio al cartello degli anti-Bersani
di Umberto Rosso

CORTONA - Parola d´ordine: niente inciuci dalemiani sulle riforme. Dario Franceschini tiene a battesimo la prima riunione di Area democratica, chiamando a raccolta tutta l´opposizione interna al Pd, e lancia l´altolà della corrente: «Non vogliamo pasticci. E non li voteremo». E così se D´Alema, o lo stesso Bersani, avessero in mente di aprire la porta al legittimo impedimento, ovvero a qualche altro «scambio» con Berlusconi, sono avvisati: un terzo del partito, in nome del milione di voti raccolti dal segretario sconfitto alle primarie, non ci sta. Si dà appuntamento per la prima volta a Cortona il cartello degli anti-Bersani - franceschiniani, fassiniani, popolari, veltroniani, parisiani - e decide che è arrivato il momento di mettere radici, di darsi una struttura e un nome preciso. In arrivo un sito web e si pensa in prospettiva perfino a un quotidiano della corrente. «Senza pensare di mettere in piedi però - precisa Beppe Fioroni - un partito nel partito».
Nella componente si confrontano infatti i «fusionisti», fra le varie anime, e i «federalisti». Ma intanto si mette a punto la ragione sociale di tutta la ditta. L´anti-inciucismo. Perché, come mette in guardia Piero Fassino, «il confronto sulle riforme da 20 anni nel nostro paese non ha prodotto altro che o una crisi di governo o elezioni anticipate». E in questo momento non si intravedono proprio, secondo la minoranza del Pd, segnali che possano far presagire una sorte diversa ad un tavolo di trattative. Anzi. Il pericolo, denuncia Paolo Gentiloni, è che «ci sia uno scambio fra l´arrosto del legittimo impedimento e il fumo della riforma elettorale».
Il sospetto che circola forte, nelle fila di Ad, è che dietro la mano tesa sulla giustizia ci siano manovre in corso per una nuova legge elettorale, l´amo indispensabile nei progetti dalemiani per agganciare Casini. Pronti ad alzare le barricate, allora. Perdendo, su questa linea, qualche pezzo. Franco Marini si è chiamato fuori. In uno scontro duro, l´altra sera nel caminetto di partito, con l´ex pupillo Franceschini. «Le riforme vanno fatte, anche il lodo costituzionale Alfano». E giù un nuovo attacco alla Bindi e allo stesso Dario per la presenza al No B day. Replica del figlioccio di un tempo: «Di riforme piuttosto io farei quelle economiche, per far star meglio gli italiani». Dalla parte dell´ex presidente del Senato, soprattutto, Violante e Latorre. Bersani media fra le anime interne, sì alle riforme ma non quelle ad personam, sì a Di Pietro ma anche a Casini, e nessun confronto sulla legge elettorale prima delle regionali: il partito sul nodo è diviso, e le spaccature avrebbero conseguenze negative sulla campagna di marzo.
Una frenata che l´opposizione apprezza ma il segretario «centrista», secondo Franceschini e soci, avrà un bel da fare se davvero si apre il tavolo. Anche perché da Cortona partono siluri anti-Casini, si denuncia il rischio di subalternità all´Udc. L´ex presidente della Camera, ironizza Sergio D´Antoni, ex segretario della Cisl, «ci fa sapere che se Berlusconi lo maltratta ancora sarà costretto a fare il leader del Pd. E la Bindi informa che lei preferirebbe però che il capo del nostro partito lo scegliesse il partito». E se Marini dice addio, ecco il ritorno di Veltroni, che stamattina parlerà a Cortona, dopo aver superato una fase di gelo con Franceschini. I due si sono incontrati, è arrivato il chiarimento. Walter pensava che la corrente potesse avere un diverso coordinatore (visto che Dario fa il capogruppo) ma per il momento non sono previsti nuovi portavoce. Uniti nel nome dell´anti-inciucio. Come il no all´appoggio esterno del Pd alla giunta Lombardo.

Repubblica 19.12.09
L’assedio al Pd tra il Bene e il Male
di Carlo Galli

Una nuova, elementare teologia politica sembra stia sostituendo il discorso pubblico democratico nel nostro Paese. Tutte le forme del conflitto politico e dell´antagonismo sociale sono in via di sparizione.
Non ci sono più il concorrente, l´avversario, il nemico esterno, ovvero i simboli in cui prendono corpo le tipologie di lotta (economica e politica) che possono trovare posto e legittimazione nella moderna civiltà liberale, e nella nostra Costituzione. È in via di trasformazione anche la figura novecentesca del nemico interno, ideologico, da osteggiare perché portatore di una visione del mondo che non può trovare collocazione nel nostro stesso spazio politico. Ormai, la politica viene spiegata attraverso un apparato categoriale estremo e rudimentale al contempo, come il confronto mortale tra Amore e Odio.
Questa suprema semplificazione – che ha in realtà radici tanto nelle fiabe e nel repertorio popolare antico e moderno quanto nelle cupe fantasie del pensiero controrivoluzionario, o nella bruciante denuncia del totalitarismo di Orwell in 1984 – non appare oggi nella politica italiana, ma ne è diventata l´epicentro dopo l´aggressione milanese a Berlusconi. Il crimine di uno squilibrato – un atto che è ovvio punire penalmente, come è ovvio solidarizzare umanamente con la vittima – è stato ed è utilizzato per bollare come criminale l´opposizione al premier; una immotivata e folle avversione personale è stata promossa a emblema della lotta politica contro le politiche della maggioranza, il cui potere è stato definito Bene, e Male ciò che vi si oppone. Oltre la criminalizzazione dell´avversario, siamo alla sua demonizzazione, alla squalificazione non solo etica ma anche ontologica. La dimensione giuridica – che fa sì che un reato sia un reato, mentre una critica è una critica: illecito il primo, lecita la seconda – è risucchiata e annichilita in una teologia manichea che si propone come chiave di lettura onnicomprensiva della dinamiche politiche: tutto si confonde con tutto, tutto deriva da tutto, tutto conduce a tutto; il pensiero e l´azione si trovano sul medesimo piano, inesorabilmente inclinato verso l´abisso: verso il sangue, la violenza, il terrorismo anarchico. Non ci sono distinzioni ma solo gradazioni nel Male: è Male il semplice opporsi al Bene, in qualunque forma ciò avvenga. La metafora del clima (il "clima di odio"), oggi vincente, lo dice: il clima è appunto l´insieme dei fenomeni atmosferici e anche la generica predisposizione verso una certa loro tipologia (clima buono o cattivo). Con una simile concettualità si può rendere chiunque responsabile di qualunque cosa, o almeno si può sostenere la possibile pericolosità, diretta o indiretta, di ogni comportamento non conforme. Le leggi che limitano la libertà di espressione, i provvedimenti speciali, pendono minacciosi sugli oppositori. Ma tutto ciò è Bene, è la forza dell´Amore.
Del Male c´è però una speranza di perdono: si chiama dialogo, collaborazione parlamentare per rifare la Costituzione. Dissolve il clima di odio e assolve da molti peccati. Il piccolo prezzo da pagare per l´indulgenza, la penitenza dopo tutto mite a cui l´opposizione si deve assoggettare, è di collaborare (o almeno di non ostacolarle efficacemente) ad alcune leggi volte a garantire l´impunità personale al premier (dal legittimo impedimento al Lodo Alfano costituzionalizzato) e il controllo della magistratura all´esecutivo (la separazione delle carriere e la "riforma della giustizia"). Se ciò non avverrà, se il Pd non saprà essere "autonomo" e presterà ancora orecchio alle lusinghe di Satana (Di Pietro, Repubblica), la reazione sarà durissima: il Male sarà condannato senza remissione, e l´intero sistema giudiziario sarà spazzato via dal "processo breve", che non sarà difficile, per chi controlla tutte le televisioni, presentare come giusta risposta all´esigenza di rapida giustizia che accomuna tutti gli italiani.
Non si è tratteggiata una caricatura; e del resto non c´è nulla da ridere. La situazione italiana è davvero questa: la costruzione mediatica di un´egemonia culturale pressoché incontrastata, o comunque subìta, dispiega tutta la propria potenza per creare un mondo artificiale che deve far velo a quello reale, che deve negare l´evidenza, ossia l´esistenza di un´Italia non di destra e non berlusconiana, e neppure terrorista o incline alla violenza, di una società che si sforza di essere libera e che dispiega le proprie capacità critiche in un pubblico dibattito, e quindi anche attraverso i giornali (alcuni) e le case editrici (alcune). L´obiettivo è evidente: delegittimare la base sociale e intellettuale dell´opposizione, tagliare i ponti fra la società e il palazzo, intimidire le forze che costituiscono la linfa vitale del Pd, in modo che questo, nella sua attività politica, sia sempre più isolato nella sua condizione di minoranza parlamentare. E questo isolamento, questo allontanamento dall´opinione della sua base, dovrebbe essere chiamato "autonomia".
Certo, la pressione sul Pd è davvero enorme: se cede verrà punito alle elezioni regionali, in favore di Di Pietro; se resiste rischia di produrre gravi lacerazioni al proprio interno. Eppure è in questo crinale che si deve dispiegare un´azione politica forte: che è non cercare di parlare d´altro (dei "veri problemi degli italiani", come se rifare la Costituzione in queste condizioni e con questi prezzi non fosse un problema di tutti), ma appunto parlare delle medesime cose di cui parla la destra, criticandole e demistificandole senza timidezze. Di fornire una contro-interpretazione della vulgata corrente sul Bene e sul Male, e di provare a inserirsi nuovamente nel discorso pubblico, senza rassegnazioni e anzi con la volontà di rovesciarne i termini. Di affermare la critica contro i miti, la ragione contro le fiabe, la forza della democrazia liberale contro la paura e contro i rischi di una democrazia "protetta".


Repubblica 19.12.09
L’odio e l’amore non fanno politica
di Giovanni Valentini

Una dote necessaria è il coraggio civile e il coraggio di dire la verità.
(da "Conversazioni notturne a Gerusalemme" di Carlo Maria Martini – Mondadori, 2008 – pag. 110)

Nella forsennata campagna di denigrazione e intimidazione contro il nostro giornale e il nostro Gruppo editoriale, rilanciata dalla "Guardia del Presidente" all´indomani della barbara aggressione di Milano, emerge platealmente il tentativo di criminalizzare il dissenso e la critica per imporre il silenzio-stampa a tutti gli oppositori, una sorta di black-out mediatico, sulle vicende e sulle responsabilità politiche. Ma c´è una domanda fondamentale che non trova una risposta ragionevole né convincente: perché mai noi dovremmo "odiare" Silvio Berlusconi? Qual è il motivo che giustificherebbe un tale sentimento contro il presidente del Consiglio?
Si dice: Berlusconi è stato considerato fin dall´inizio un "corpo estraneo". Lui rappresenta l´anti-politica. E dunque, l´establishment, la classe dirigente, insomma i cosiddetti poteri forti, si rifiutano di riconoscerlo e di accettarlo come capo del governo.
Sul fatto che il Cavaliere rappresenti l´anti-politica, si potrebbe discutere a lungo. In realtà, politicamente Berlusconi discende da Bettino Craxi e il berlusconismo è in qualche modo la prosecuzione del craxismo, nella sua degenerazione finale verso l´affarismo e la corruzione. Proprio per questo, ancor più di lui, è semmai Antonio Di Pietro a incarnare nel bene o nel male l´anti-politica, cioè il rifiuto della partitocrazia nelle sue perversioni.
Quanto al "corpo estraneo", bisogna intendersi. Berlusconi è l´erede diretto e il maggior beneficiario della Prima Repubblica. L´imprenditore che, attraverso una legislazione di favore sulla televisione, ha ricavato dal vecchio sistema di potere enormi vantaggi in termini aziendali e personali. Quando gli sono venute a mancare le protezioni e le coperture politiche, ha dovuto fare di necessità virtù e scendere in campo per difendere i propri interessi, prima sul piano economico e poi su quello giudiziario.Tutto ciò non sarebbe sufficiente comunque a giustificare una presunta "campagna di odio" nei suoi confronti da parte di un Gruppo editoriale che può vantare – dalla fondazione del settimanale L´Espresso nel ´55 a quella di Repubblica nel ´76, fino ai giorni nostri – una lunga tradizione di impegno civile, nel solco di un giornalismo di opinione e di denuncia. Non a caso la nostra opposizione a Berlusconi e a tutto ciò che rappresenta risale alla metà degli anni Ottanta, ben prima cioè del suo ingresso diretto in politica. E poi, prosegue e si rafforza nell´ultimo quindicennio attraverso il legittimo esercizio del diritto di critica, in nome del pluralismo e della libertà di stampa.
Questo atteggiamento non si basa sull´odio, cioè su un sentimento ostile, irrazionale ed emotivo; bensì al contrario su considerazioni oggettive, fondate, assolutamente razionali. Vale a dire, innanzitutto, l´abnorme concentrazione di potere mediatico, economico e politico che oggi il Cavaliere impersona su scala planetaria, senza paragoni al mondo. Una concentrazione che costituisce di per sé, anche indipendentemente dall´uso o dall´abuso che se ne fa, un pericolo per la vita democratica.
Il fatto è che, dal ´94 a oggi, non solo Berlusconi non ha voluto sciogliere questi nodi, per emendarsi dai suoi vizi d´origine. Ma anzi li ha ulteriormente aggrovigliati, utilizzando il potere mediatico per accrescere il potere economico e infine per conquistare e consolidare il potere politico, imperniato sulla figura del lìder maximo, del capo carismatico, del taumaturgo.
Ha criminalizzato fin dall´inizio gli avversari, bollandoli tutti come "comunisti" e alimentando la repressione del dissenso, della critica e perfino della satira. Ha via via espropriato il Parlamento delle sue prerogative, con una "porcata" come la legge elettorale in vigore che in pratica toglie ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti e con il ricorso intensivo al voto di fiducia. Ha sferrato un attacco in crescendo alle magistratura, alla Costituzione e allo Stato di diritto, a colpi di decreti-legge e leggi "ad personam". Fino ad arrivare alla massime istituzioni di garanzia, la Corte costituzionale e la presidenza della Repubblica.
Può anche darsi, come pare abbia confidato lui stesso nei giorni scorsi in ospedale a Fedele Confalonieri, che ora il male produca il bene e che alla fine l´amore prevalga. «Se cambiano i toni – ha detto appena dimesso – il mio dolore non sarà inutile». Ma la Politica non si fa né con l´odio né con l´amore. Si fa, nell´interesse generale, con atti, gesti, comportamenti concreti e responsabili.
E allora, se il presidente del Consiglio vuole davvero chiudere la "stagione dell´odio", deve rimuovere le ragioni di fondo che sono alla base dell´opposizione nei suoi confronti. Risolvere finalmente il conflitto di interessi. Togliere le mani dalla Rai. Accettare il dissenso e la critica. Rispettare la Costituzione, senza rinunciare ad aggiornarla nelle forme previste e dovute. Onorare la divisione dei poteri. Rispondere alla magistratura, nei tribunali della Repubblica, come qualsiasi altro cittadino.
Non è certamente con la censura che guadagnerà il rispetto degli avversari. Né tantomeno con la criminalizzazione del dissenso e della critica. E neppure con le campagne denigratorie e intimidatorie contro la libera informazione. Forse non sarà "amore", ma almeno vivremo tutti in un clima più composto e civile.
(sabatorepubblica.it)


Repubblica 19.12.09
Colonne d’Ercole del Novecento
di Adriano Prosperi

Nelle prime ore della mattina di venerdì 18 dicembre qualcuno ha strappato via la targa di metallo con la scritta "Arbeit macht frei" che sovrastava l´ingresso del lager di Auschwitz. È stato un gesto deliberato, preparato accuratamente: solo questo è quel che sappiamo per ora.
Non conosciamo gli autori: ma sappiamo perché l´hanno fatto e come si chiama il loro delitto. Si tratta del furto non di un pezzo di metallo ma di un simbolo sacro alla memoria dell´umanità. È dunque un reato di lesa memoria umana quello che è stato consumato.
Qualcuno forse si chiederà perché quel simbolo non fosse sorvegliato, perché non ci fosse una polizia speciale a impedire l´azione criminale. Ebbene noi non crediamo che si debba proteggere a forza quel simbolo: è l´umanità intera che deve sapere quale soglia altissima di rispetto e di tutela debba alzarsi nella mente di tutti davanti a quel pezzo di metallo. È da lì che deve emanare una forza capace di tenere lontana ogni volontà aggressiva. Come la biblica Arca dell´Alleanza che si tutelava da sola folgorando l´incauto che allungava la mano per sostenerla, la scritta di Auschwitz deve bruciare gli infami che hanno consumato il sacrilegio. La scritta "Arbeit mach frei" significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste sono le colonne d´Ercole oltre le quali l´umanità intera è entrata in una nuova storia, ha scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva continuare a vivere in un mondo dove si respirava un´aria densa delle ceneri di milioni di morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo.
Nell´opera della ricostruzione, tra le macerie della guerra, i pochi testimoni sopravvissuti alla Shoah incontrarono enormi difficoltà a farsi ascoltare. Il processo lungo e difficile attraverso il quale quella storia è stata non spiegata, non compresa – impossibile comprendere, impossibile spiegare – ma almeno raccontata per ricomposizione di indizi e dati statistici è sufficiente a mostrare la difficoltà di ricordare ma anche l´assoluta necessità della memoria. È un dovere intollerabile e inevitabile. Che sia intollerabile lo sappiamo bene. L´asportazione della scritta di Auschwitz lo dimostra. Molti sono i percorsi battuti per raggiungere lo stesso effetto: aggiustando l´arredo del campo, inserendovi simboli e presenze religiose istituzionali, mettendo via via a rischio la desolazione di uno spazio che la presenza immateriale di milioni di vite cancellate ha reso l´unico vero spazio sacro della storia umana dopo la cesura irrecuperabile tra passato e futuro che si chiama Shoah.
Perdita di memoria: è questo che si vuole ottenere. Lo tentarono gli aguzzini che cancellarono coi forni crematori l´esistenza delle vittime e si preoccuparono di nascondere le tracce di quel che avevano fatto. Lo hanno tentato poi in vario modo gli avamposti dei narratori accademici della storia con le loro faticose elaborazioni sul "passato che non passa". Erano solo le avanguardie di un´umanità che voleva inghiottire a ogni costo quel groppo intollerabile. E tuttavia da allora una legge non scritta, incisa nei cuori, ci dice che c´è un solo dovere, una sola legge obbligatoria per chi vuole continuare a vivere nel mondo che ha conosciuto la Shoah: ricordare.
È per questo che ogni anno milioni di visitatori compiono un pellegrinaggio che è l´ultima sopravvivenza del sacro nella quale l´umanità tutta, senza distinzioni di culture o di religioni, è obbligata a riconoscersi: la visita ai lager nazisti, quella minuscola città sacra che occupa uno spazio immenso, quella vasta necropoli senza tombe di cui Auschwitz è la capitale. È da lì in poi che la storia del mondo è cambiata. Se è vero che ciò che ci costituisce come esseri umani è la memoria, è un fatto indiscutibile che solo lì è nato il legame di memoria che ha unificato la nostra specie. Al di sopra delle appartenenze nazionali e delle identità culturali e religiose, tutti sono obbligati a riconoscersi in quel simbolo e a guardare a quella scritta che oggi è stata rubata.
Noi tutti sappiamo che ricordare la Shoah, ricordare Auschwitz, è l´unico modo che ci rimane per metterci in guardia da noi stessi. Perciò quella scritta deve tornare al suo posto: è un reperto sacro. Né si dovrà sopportare che gli autori di questo crimine contro l´umanità restino impuniti. Il loro atto è un´offesa a milioni di morti, un delitto contro i viventi di oggi e di domani, un attentato al legame di memoria che ci unisce al passato e che vogliamo trasmettere al futuro.

Repubblica 19.12.09
I nemici della memoria
di Elie Wiesel

Chi è stato a rubare l´insegna di Auschwitz, recando offesa alla memoria degli ebrei e a chi è impegnato a tutelarla? Da dove vengono? Che intenzioni hanno, qual è il loro progetto? Questo incidente criminale riverbera la sua immagine in tutto il mondo e suscita stupore, shock e rabbia.
La Verità e la Memoria sono i nostri valori comuni che devono essere difesi

Ma quale idea perversa può aver motivato un simile abominio?
Quell´iscrizione era ed è ancora la massima espressione di cinismo e brutalità
Deve restare immutabile e intatto per generazioni e generazioni

Cosa avevano in mente i ladri quando hanno rimosso l´iscrizione che centinaia di migliaia di vittime arrivate nel campo vedevano ogni giorno, ogni sera? Cosa immaginavano di poter fare? Di venderla in televisione per enormi somme di denaro? Di tenerla incorniciata a casa loro? Quale idea perversa può aver motivato un simile abominio?
In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria. Dunque, quel Luogo è d´importanza e significato speciale, perché si basa su entrambi quei valori costitutivi, Verità e Memoria. Chiunque voglia cancellare il passato ha naturalmente interesse a rimuovere quella scritta, che è parte così visibile del Passato della Memoria.
In un certo senso, si può esprimere sorpresa per il fatto che non si sia mai tentato prima di compiere quanto è accaduto oggi. È così facile distruggere, è così facile rubare, eppure, grazie al cielo, persino quelli che sono i nostro nemici non avevano osato, fino ad oggi, di intraprendere un simile furto.
In virtù di ciò che è avvenuto all´interno di quell´incommensurabile cimitero di cenere, Auschwitz deve restare un monumento intoccabile al dolore, allo strazio e alla morte di più di un milione di ebrei e altre minoranze.
Benché protetto a livello internazionale dalla rabbia e dalla pietà che suscita in centinaia di migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo, il campo necessita ovviamente di maggior sicurezza. Devono provvedervi le autorità polacche ai massimi livelli. Tutto ciò che si trova entro le recinzioni di filo spinato deve restare immutabile e intatto per generazioni e generazioni.
Quanto ai ladri, verranno senza dubbio interrogati a lungo da personale specializzato, psichiatri inclusi. Siamo tutti ansiosi di conoscere ogni aspetto della loro personalità, del loro carattere, del loro passato. E di conoscerne l´appartenenza ideologica.
Hanno agito da soli? Appartengono a gruppi neonazisti? Volevano dimostrare qualcosa entrando in possesso dell´insegna, e se sì, che cosa?
"Arbeit macht frei" era, ed è ancora, massima espressione di cinismo, inganno e brutalità. Dietro quel cancello il lavoro non portava libertà. Agli ebrei e agli altri portava fatica, umiliazione, fame e morte. Dentro tutto equivaleva alla morte.
È questo che il ladro voleva cancellare?
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 19.12.09
Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz: "Quella scritta è il simbolo del nazismo"
"È uno sfregio alla Shoah così cancellano la Storia"
di Alberto Mattone

Mi pare sia stata un´azione dimostrativa, compiuta da un gruppo di persone ben organizzate

ROMA - «Hanno profanato un pezzo di storia, hanno compiuto uno sfregio alla memoria della Shoah. Quella scritta rubata all´ingresso del lager era la sintesi e il simbolo di tutte le nefandezze del nazismo». Piero Terracina scuote la testa e non si dà pace. All´ombra di quelle parole forgiate col ferro ("Arbeit macht frei", "Il lavoro rende liberi") ha perso i genitori, due fratelli, una sorella, il nonno, uno zio. Tutti ebrei arrestati insieme a lui dalle SS nella razzìa del ghetto di Roma e portati ad Auschwitz-Birkenau con i vagoni piombati. «L´unica libertà che avevamo in quel terribile lager - riflette - era quella di morire di lavoro. La fatica uccideva - aggiunge - e alla fine di ogni giornata accatastavamo i cadaveri dei nostri compagni che non ce l´avevano fatta».
Lei è uno dei pochi testimoni viventi di Auschwitz, Piero Terracina. Cosa ha pensato quando ha saputo che avevano rubato la scritta all´entrata del lager?
«Sono rimasto sconcertato. "Arbeit macht frei" caratterizzava tutto il complesso di Auschwitz-Birkenau e, quindi, il nazismo. Lì è stato studiato il progetto di sterminio del popolo ebraico, lì sono state costruite le prime camere a gas. Era stridente entrare nel campo, leggere "Il lavoro rende liberi" e trovarsi di fronte al dolore e alla morte. E non era l´unica scritta che i nazisti avevano impresso sulle baracche dei deportati».
Quali erano gli altri "slogan"?
«Sul muro dove dormivo io c´era scritto in tedesco "siate sempre camerati". In altre baracche campeggiavano inviti all´ordine e alla pulizia. Parole senza senso, beffarde, se si pensa che in quei campi in Polonia si entrava solo per morire e la morte era spesso una liberazione».
Chi può aver rubato quell´insegna?
«Mi pare che sia stata un´azione dimostrativa, organizzata da un gruppo di persone ben attrezzate. Portare via una scritta lunga dieci metri, posizionata a una certa altezza, e composta da lettere in ferro di almeno 35-40 centimetri, non è impresa facile. Per farlo, hanno dovuto portare una gru e un camion, almeno. Ma è stato fin troppo semplice aggirare la sorveglianza. Non ci sono telecamere né controlli: avrebbero potuto portare via le testimonianze del museo di Auschwitz, distruggere le prove di quello che è successo, gli oggetti sottratti ai deportati: scarpe, capelli, valigie».
Qualcuno vuole cancellare la memoria dell´Olocausto?
«Non si possono lasciare incustoditi gli oggetti della memoria di Auschwitz. Quella scritta rubata è un pezzo di storia che se ne va. Quell´insegna mi è rimasta impressa la notte più drammatica della mia vita, il 22 gennaio del ´45. Quel giorno iniziai la "marcia della morte" nella foresta polacca con altre trecento persone. C´era anche mio fratello Leo».
Cosa successe?
«Le SS ci portarono fuori dal campo di Birkenau, ci dissero che se qualcuno non era in grado di camminare, doveva farsi da parte perché sarebbe venuto un camion a prelevarlo. Noi optammo per la marcia. Partimmo e sentimmo i colpi di mitra».
Erano le SS?
«Sì, uccisero subito quelli che non se la sentivano di camminare. Noi procedemmo, era una fila lunga e io ero in coda insieme a un amico. All´improvviso, non vedemmo più nazisti, avevano fretta di scappare dai sovietici che stavano per arrivare»
Fu l´attimo della liberazione?
«Era buio, faceva un freddo terribile. Lasciamo il "corteo", fuggimmo verso delle sagome scure: era il campo, vuoto, di Auschwitz, poco lontano da Birkenau. Ci infilammo in uno dei casolari per ripararci dopo aver attraversato l´ingresso con la scritta "Arbeit macht frei". Stemmo lì tutta la notte. Ci salvammo, ma mio fratello non l´ho più rivisto».

Repubblica 19.12.09
«Arbeit macht frei»
"Quella frase cinica e beffarda anticipava i piani per l´Europa"

Se il fascismo avesse prevalso, quelle parole si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine
I Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, erano i primi, precoci germogli dell´Ordine Nuovo

«Arbeit macht frei». Come è noto, erano queste le parole che si leggevano sul cancello di ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il lavoro rende liberi»; il loro significato ultimo è assai meno chiaro, non può che lasciare perplessi, e si presta ad alcune considerazioni.
Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall´inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; è quindi credo da escludersi che quella frase, nell´intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale.
È più probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press´a poco così: «Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. Questa volontà appare già chiara nell´aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all´assurdo, nell´universo concentrazionario.
Allo stesso scopo tende l´esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per così dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non era una triste necessità transitoria, bensì i primi, precoci germogli dell´Ordine Nuovo. Nell´Ordine Nuovo, alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente; altre, ad esempio gli slavi in genere ed i russi in specie, sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all´Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valide solo per quest´ultimo.
Se il fascismo avesse prevalso, l´Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri.
(L´articolo è stato pubblicato nel novembre 1959 da "Triangolo Rosso", la rivista dell´Aned, Associazione nazionale ex deportati)

Repubblica 19.12.09
I territori della psiche
Invenzioni strane e studi bizzarri per spiegare il lato ludico del pensiero
Anelli e altri misteri le mille scoperte della gaia scienza
a cura di Doriano Fasoli

Il 2 luglio 1830, nei suoi Discorsi a tavola, Samuel Taylor Coleridge notò che «gli uomini nascono aristotelici o platonici». Il che è solo un modo poetico di dire che ciascuno di noi privilegia uno dei due modi complementari di pensare e ricordare che ci fornisce la lateralizzazione del nostro cervello, scoperta dal premio Nobel per la medicina Roger Sperry: l´emisfero sinistro è infatti razionale, analitico e concettuale, mentre quello destro è istintivo, sintetico e sensoriale. E le realizzazioni concrete di questo doppio atteggiamento astratto sono le scienze, la matematica, la logica e la filosofia analitica da un lato, e le arti, la letteratura, la religione e la filosofia continentale dall´altro.
Naturalmente, così come i due emisferi sono collegati da un corpo calloso che li mette e li tiene in comunicazione, così scienza e umanesimo non sono compartimenti stagni che procedono indipendentemente e all´insaputa l´uno dell´altro, anche se spesso la prima si presenta e viene percepita come un´impresa molto formalizzabile, ma poco visualizzabile.
Niente di più lontano dalla realtà, come dimostrano due meravigliose strenne natalizie scientifiche che sembrano, e in effetti sono, dei veri e propri libri d´arte: Le immagini della scienza di John Barrow (Mondadori, pagg. 624, euro 32) e Bolle di sapone di Michele Emmer (Bollati Boringhieri, pagg. 301, euro 60).
D´altronde, non è soltanto con le loro ultime opere che i due autori sfidano lo stereotipo dello scienziato freddo e distaccato che scrive libri difficili e noiosi, ma con la loro intera produzione e, più in generale, con la loro stessa storia personale. Barrow, ad esempio, annovera fra i suoi titoli L´universo come opera d´arte (Rizzoli, 1997) e Dall´io al cosmo: arte, scienza e filosofia (Cortina, 2000), ed è stato nel 2006 il vincitore del premio Templeton da un milione di dollari per i legami fra la scienza e la religione. Emmer, invece, è letteralmente figlio d´arte, e dal famoso padre-regista Luciano ha ereditato la passione per il cinema, che l´ha stimolato a girare ben 18 film a soggetto matematico e a produrre Visibili armonie (Bollati Boringhieri, 2006), un´altra bella strenna sui rapporti tra arte, cinema, teatro e matematica.
Benché accomunate dall´uso sapiente e accattivante delle immagini, però, le loro ultime due opere sono antitetiche nella concezione e nella realizzazione. Barrow spazia infatti su tutte le scienze, isolando singole immagini che hanno caratterizzato in maniera visiva un´idea o un risultato, e sono diventate icone di una particolare disciplina scientifica in un particolare momento storico. Emmer si concentra invece su una specifica area della matematica e raduna ogni possibile testimonianza artistica che possa illustrarla, in un lavoro collezionistico che gli è letteralmente costato una vita di ricerca.
Come svela fin dal titolo, Bolle di sapone è un libro che dovrebbe stare (e sicuramente ci starà, non appena verrà tradotto) sul mitico tavolo della libreria Barnes and Noble di Union Square a New York, che raduna come in una collana le perle letterarie dedicate monograficamente ad argomenti inusuali, sorprendenti e affascinanti.
In questo caso le bolle di sapone, appunto, che come Emmer racconta sono soluzioni naturali, in senso sia letterale che metaforico, di quei problemi variazionali legati alle superfici minime che hanno portato alla medaglia Fields matematici come Jessie Douglas nel 1936 ed Enrico Bombieri nel 1974. Ma sono anche un punto d´incontro della sensibilità umanistica di pensatori come Erasmo, poeti come Baudelaire, musicisti come Bizet, architetti come Fuksas e, soprattutto, di tanti pittori, da Bruegel a Rembrant a Manet, affascinati dalle potenzialità tecniche e artistiche delle loro trasparenze e dei loro riflessi.
Bolle di sapone è dunque un libro da sfogliare e godere, oltre che da leggere, perché le sue più di trecento illustrazioni ne costituiscono una parte preponderante, fruibile anche a prima vista. Le immagini della scienza, simmetricamente, è un libro da leggere e meditare, oltre che da sfogliare, perché in maggioranza le sue altrettante illustrazioni richiedono una spiegazione o un inquadramento, senza di cui sarebbero difficilmente comprensibili. Ma ciascuna di esse costituisce un capitolo a se stante, che si può leggere indipendentemente dagli altri, anche se tutti insieme ripercorrono l´intera storia scientifica, dalle prime osservazioni dell´antichità alle ultime ricerche della contemporaneità.

Repubblica 19.12.09
Un viaggio al femminile nelle ceramiche esposte a Vicenza Tra dedizione alla casa, cura dei figli e lavori artigianali
Quando un vaso greco racconta le donne
di Giuseppe Della Fina

VICENZA Intorno al mistero di una figura femminile effigiata su un vaso attribuito al Pittore di Leningrado e databile intorno al 470 a. C. ruota la mostra «Le ore della donna. Storie e immagini nella collezione di ceramiche attiche e magnogreche di Intesa Sanpaolo» allestita a Palazzo Leoni Montanari (sino all´11 aprile 2010: la rassegna è dedicata a Fatima Terzo, che valorizzò questa collezione e che è scomparsa nel maggio scorso). Sul vaso - una hydria, destinata a contenere acqua - è dipinta la bottega di un ceramista: tre artigiani sono al lavoro e la loro bravura è riconosciuta dalla dea Atena e da due Nikai che li incoronano: una raffigurazione rara, interessante, ma negli schemi. Modelli che saltano quando notiamo che, isolata, in disparte, una giovane donna, seduta su uno sgabello di legno, sta lavorando nella stessa officina ed è intenta a dipingere un vaso: con la mano sinistra avvicina a sé un cratere di notevoli dimensioni e con la destra tiene un pennello. Si tratta di una persona libera che indossa un chitone e un himation. Il pittore del vaso è riuscito a rendere bene la concentrazione della fanciulla, l´orgoglio per il lavoro che sta svolgendo e, allo stesso tempo, la naturalezza della sua azione. Nella società greca di epoca classica, la donna svolgeva la sua attività e, in fondo, trascorreva la propria vita prevalentemente all´interno della casa: chi è la figura femminile intenta a lavorare in una bottega artigiana?
Altre donne fuori dagli schemi sono raffigurate su un vaso diverso, ma sempre attico a figure rosse e di poco più recente. Si tratta di un cratere a colonnette dove sono dipinte tre cortigiane: una di loro ha un laccio stretto intorno alla gamba che è stato interpretato come un amuleto contraccettivo. Un´altra ha in mano uno stivaletto che può rappresentare un´allusione erotica. Va rammentato che il vaso in questione, per la sua forma, rinvia al simposio ovvero a un contesto prettamente maschile aperto eventualmente solo alle cortigiane.
Non mancano, nella mostra, nemmeno Amazzoni e Menadi, altre figure con spiccati caratteri d´indipendenza. Nella maggioranza dei vasi è rappresentata una donna più legata agli schemi della società del tempo, ma la curatrice dell´esposizione, Federica Giacobello, ha voluto restituirci una realtà del mondo femminile greco più articolata e contraddittoria di quella che pigramente viene di solito riproposta. E prima di lasciare la mostra, torniamo a osservare la giovane donna intenta a dipingere: vuole dirci qualcosa.

Repubblica 19.12.09
Muti: al Senato con i giovani e un appello per il Presidente
Dalla Cherubini un messaggio a Napolitano sul futuro dell´arte
di Leonetta Bentivoglio

ROMA, Appena rientrato da New York, dov´è volato come un fulmine per ricevere lo scettro di Musician of the Year (massimo premio musicale americano), Riccardo Muti s´è immerso nelle prove con l´Orchestra Giovanile Cherubini di cui è fondatore e guida appassionata. Insieme a lui, nell´Aula del Senato domenica a mezzogiorno, la Cherubini sarà protagonista del Concerto di Natale, trasmesso in diretta Eurovisione su RaiUno e su Radio3.
Lei ha scelto la Quinta Sinfonia di Beethoven come «inno all´ottimismo», auspicando un futuro luminoso per la cultura in Italia. Crede davvero, maestro, che si possa essere ottimisti?
«A confortarmi sono proprio i ragazzi della Cherubini, rinnovata per il secondo triennio di attività e formata da settanta giovani italiani seri ed impegnati. Sono fiero che il Paese produca ragazzi di un tale livello umano e musicale. Al Senato consegneranno una lettera al presidente Napolitano nella quale esprimono preoccupazione per il futuro della musica. Appello civile e privo di toni polemici, è un segnale di maturità. Intendiamo il concerto, che al solito è a scopo benefico, come messaggio d´entusiasmo al servizio della cultura».
A Roma lei tornerà per lavorare al Teatro dell´Opera, che dirigerà dall´anno prossimo, e anche il suo impegno come direttore musicale della Chicago Symphony parte dal 2010.
«Sono due mondi diversi. A Roma, dove ho accettato di lavorare dopo aver stabilito un bel rapporto con l´orchestra, vorrei portare la mia esperienza augurandomi che ci sia agilità amministrativa e si possa operare in modo scevro da influenze non puramente musicali. A Chicago, dove l´orchestra è tecnicamente formidabile, si fa "musica per la musica" e il direttore musicale lavora solo coi collaboratori stretti: non ci sono Consigli d´Amministrazione formati in base a scelte politiche. E in quell´interessantissima città multietnica che è Chicago ho già impostato vari progetti e collaborazioni».
Quali?
«Ho invitato il geniale violoncellista Yo-Yo Ma, musicista apertissimo ai giovani, ad essere il nostro Creative Consultant, e ho nominato Composers in Residence dell´orchestra l´inglese Anna Clyne e l´americano Mason Bates, entrambi trentenni e autori di musica sperimentale ed elettronica. Inoltre vorrei portare verso la musica fasce di popolazione che ora ne sono lontane, con concerti in carceri minorili e un ampio lavoro di diffusione in zone diverse della città. Pochi sono gli ispanici e le persone di colore ai concerti, dunque sarò io ad andare da loro. E nella prima stagione metterò l´accento sulla musica del Messico».

Corriere della Sera 19.12.09
Vaticano Congregazione per i vescovi, il nome di Bertello
Le grandi manovre nel governo della Chiesa
Imminente la sostituzione del cardinal Re
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — L’unico non tenuto a presenta­re le dimissioni era il cardinale Tarcisio Bertone, dato che l’uf­ficio del Segretario di Stato si esercita ad nutum Summi Pon­tificis : dipende dalla sola vo­lontà del Papa. Così quando Bertone, 75 anni il 2 dicembre, si è presentato con la lettera, Benedetto XVI ha sorriso, «guardi che non ce n’era biso­gno! », e lo ha confermato fin­ché resterà lui. Per tutti gli al­tri vertici della Curia romana, invece, a 75 anni si rimette il mandato, al massimo ci sono proroghe: e anche quelle limi­tate.

Perciò nei prossimi mesi si preparano a cambiare alcune caselle decisive, nel governo della Chiesa: a cominciare dal­la potente Congregazione per i vescovi, che dal 2000 è guidata dal cardinale Giovanni Battista Re. La sostituzione di Re è data per imminente, il 30 gennaio compirà 76 anni, scadrà il pri­mo anno di proroga e Oltrete­vere non è previsto un secon­do. Ci sono state dilazioni più lunghe, due anni e oltre, ma il dicastero che «provvede a tut­to ciò che attiene alla nomina dei vescovi» non vive un bel momento: da ultimo, lo scan­dalo dei preti pedofili in Irlan­da, con relativi vescovi che li hanno coperti, ha provocato lo «sdegno» e la «vergogna» del Papa, qualcosa non ha funzio­nato nella gestione dei pastori e si impone un rinnovamento.

Non sono ancora state prese decisioni, anche se il nome più accreditato è quello dell’arcive­scovo Giuseppe Bertello, 67 an­ni, nunzio apostolico in Italia: originario del Canavese come il cardinale Bertone, è molto stimato dal segretario di Stato, che lo volle nunzio nel 2007.

Un altro nome autorevole è quello del cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney: a luglio, però, il Papa ha nomina­to segretario della congregazio­ne (cioè numero due) il porto­ghese Manuel Monteiro de Ca­stro, ed è quindi più probabile che il prefetto sia italiano. Il cardinale Pell, piuttosto, po­trebbe guidare in futuro Propa­ganda Fide , congregazione per le terre di missione, il cui pre­fetto viene definito «Papa ros­so »: il cardinale Ivan Dias, 73 anni, non è in scadenza ma ha qualche problema di salute.

Oltre la scadenza, invece, è il cardinale Walter Kasper, 77 anni a marzo, presidente del Consiglio per l’unità dei cristia­ni: entro Pasqua è atteso il suc­cessore (sì è parlato, ma è solo un’ipotesi, del vescovo di Rati­sbona Gerhard Müller). Anche il cardinale Claudio Hummes, prefetto della Congregazione per il clero, compie in agosto 76 anni, come in settembre il cardinale Franc Rodé, alla gui­da degli istituti di vita consa­crata, e il cardinale Paul Cor­des, presidente del pontificio consiglio «Cor Unum» per i progetti umanitari. Si provve­derà per gradi: nello stile della «riforma gentile» avviata nel 2005 da Benedetto XVI.

venerdì 18 dicembre 2009

Repubblica 18.12.09
Il rapporto Murphy, commissionato dal governo irlandese, rivela decenni di violenze
"Così adescavano i bambini e la polizia guardava altrove"
Fotografava le bambine nude in ospedale. Ma il vescovo decise di non avvertire Roma

Quelli che seguono sono stralci del Rapporto Murphy sugli abusi sessuali compiuti da membri del clero in Irlanda
Marie Collins, come tanti altri bambini oggetto di abusi da parte di padre Edmondo (pseudonimo adottato dalla commissione Murphy, ndr), dichiara nella documentazione presentata alla Commissione quanto segue:
«Il Padre (Edmondo) ha tradito la fiducia riposta in lui dai suoi superiori religiosi. Ha tradito la fiducia delle autorità ospedaliere. Ha tradito la fiducia dei miei genitori.
Ero stata affidata alla sua custodia. Ha tradito la mia fiducia e la mia innocenza. Ha abusato del suo potere e sfruttato il rispetto che avevo della sua carica religiosa per umiliarmi e abusare di me, una bambina. Non solo, una bambina malata.
Come si può cadere più in basso? Un uomo del genere merita le nostre preghiere ma non la nostra protezione».
Il caso di padre Edmondo è all´esame della commissione in quanto coinvolge un sacerdote autore di molteplici atti di libidine ai danni di giovani pazienti di età compresa tra gli otto e gli 11 anni presso l´Ospedale pediatrico Our Lady di Crumlin, alla fine degli anni ‘50 e l´inizio degli anni ‘60. Sedici anni dopo, quando risiedeva a Co Wicklow, abusò sessualmente di una bimba di nove anni.
Padre Edmondo, nato nel 1931 e ordinato sacerdote nel 1957, fu cappellano dell´ospedale psichiatrico Our Lady dal 1958 al 1960. Nell´agosto 1960, l´arcivescovo McQuaid fu informato che l´addetto alla sicurezza di un laboratorio fotografico del Regno Unito aveva sottoposto all´esame di Scotland Yard una pellicola a colori inviata allo sviluppo da Padre Edmondo. Scotland Yard sottopose la questione alla polizia irlandese.
Il commissario Costigan incontrò l´arcivescovo McQuaid e, stando al verbale dell´incontro, gli disse che il laboratorio fotografico aveva «consegnato a Scotland Yard una pellicola a colori con etichetta "Rev. Edmondo, Ospedale pediatrico, Crumlin, Dublino", in cui 26 negativi avevano come oggetto le parti intime di bambine di 10 o 11 anni». Il commissario di polizia chiese all´arcivescovo McQuaid di assumere il caso, in quanto vedeva il coinvolgimento di un sacerdote e la polizia «non era in grado di provare nulla». Il commissario disse all´arcivescovo McQuaid che non avrebbe compiuto ulteriori azioni.
Apparentemente non si cercò di stabilire l´identità delle due bambine fotografate.
Il giorno dopo l´Arcivescovo McQuaid si incontrò con padre Edmondo, che ammise di aver fotografato le bambine in pose sessuali, da sole o in gruppo. Le foto erano state scattate nell´ospedale di Crumlin.
L´Arcivescovo McQuaid e il vescovo Dunne convennero che non si ravvisava un reato oggettivo e soggettivo del tipo previsto dalle istruzioni del 1922, e che di conseguenza non era necessario deferire la questione al Santo Uffizio a Roma.(...)

Padre Patrick Maguire è membro della Società Missionaria di San Colombano. Nato nel 1936 e ordinato sacerdote nel 1960, fu missionario in Giappone per vari anni tra il 1961 e il 1974. A quell´epoca trascorreva lunghi periodi di ferie in Irlanda. Operò in seguito nel Regno Unito e in Irlanda; per un breve periodo, anche come vicario in una parrocchia dell´Arcidiocesi di Dublino.
Padre Maguire è stato condannato per reiterati abusi sessuali su minori. È stato condannato per atti di libidine nel Regno Unito e in Irlanda e ha scontato pene detentive in entrambi i paesi. Nel 1997 ha ammesso di aver abusato di 70 bambini maschi in vari paesi e di aver violentato almeno una bambina. Quando fu accusato dei reati, dichiarò alla Società missionaria che una volta reso pubblico il suo nome avrebbero potuto emergere circa 100 vittime di abusi in Irlanda.
Il modus operandi di Padre Maguire è stato così descritto da uno dei suoi terapeuti: «Utilizzava abitualmente una elaborata tecnica di pianificazione e adescamento che coinvolgeva i minori e gli adulti attorno a loro, ad esempio: "Escogitavo modi per conoscere i bambini e parlare con loro, modi per vederli assieme ai loro familiari e verificare il tipo di rapporto che avevano con i genitori. Programmavo incontri assieme ad altri bambini e infine modi per trovarmi solo con loro in luoghi in cui si sentivano al sicuro. Programmavo modi per portarli da soli lontano da altri sguardi, dove spogliarli non sarebbe apparso loro fuori luogo, tipo fare il bagno assieme, cambiarsi in piscina, fare la doccia dopo il nuoto, e infine modi per far loro trascorrere la notte, dormire con me nel letto…" Padre Maguire utilizzava una formula ben collaudata per portare la sua vittima ad assecondare le sue intenzioni, oltre al fatto di detenere una posizione di autorità che in tale situazione rendeva la vittima inerme. Ha descritto gli abusi ai danni delle sue vittime come stare nudo assieme a loro a letto e toccarli, accarezzargli il corpo e i genitali».
Nel 1997, ha ammesso i seguenti abusi.
Prima di diventare sacerdote: un bambino; ha anche ammesso di aver avuto rapporti sessuali con un ragazzo della sua età da adolescente e di aver adescato due altri ragazzi.
1963-1966: tre bambini in giappone; e ne adescò anche altri
1967: sei o sette bambini nei suoi soggiorni in irlanda.
1968-1972: due bambini
1973: dieci bambini in Irlanda e dieci in Giappone.
1974-1975: otto bambini in Irlanda.
1976-1979: otto bambini e una bambina; ha anche ammesso di aver organizzato una rete di vittime e di famiglie in cui poteva commettere abusi.
1984: tre bambini
1984-1989: due bmbini; è inoltre rimasto in contatto con altre vittime e le loro famiglie.
1992-1994: un adulto vulnerabile (21 anni).
1996: adescamento
Ha dichiarato alla Commissione che questa lista non è completa
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 18.12.09
Coprì decine di preti pedofili si dimette il vescovo irlandese
Cade la testa di monsignor Murray. Il Vaticano: "Atto imperdonabile"
Sì del Papa all´autosospensione Gli abusi consumati per 30 anni nella diocesi di Dublino
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - Cade la prima testa per lo scandalo dei preti pedofili irlandesi. E´ monsignor Donal Brendan Murray, costretto a dimettersi da vescovo di Limerick perché accusato di aver coperto decine di sacerdoti che, negli anni passati, avevano violentato centinaia di bambini. Crimini consumati nella diocesi di Dublino, dove Murray (69 anni compiuti il 29 maggio scorso) era vescovo ausiliare, secondo quanto riportato dal rapporto della commissione governativa irlandese Murphy, un drammatico dossier di 720 pagine con la descrizione dettagliata delle violenze sessuali perpetrate in quasi 30 anni - dal 1975 al 2004 - da 46 sacerdoti ai danni di 320 piccole vittime. Una indagine pubblicata nei giorni scorsi in Irlanda, dopo un´altra inchiesta svolta dalla Commissione Ryan resa nota 6 mesi fa su analoghi casi avvenuti nelle scuole irlandesi delle congregazioni dei Fratelli Cristiani e delle Suore della Misericordia, nelle quali a partire dagli anni ‘40 sarebbero stati compiute 11.337 violenze sessuali costate circa 34 milioni di euro di risarcimenti.
Ieri la Sala stampa vaticana ha reso noto che il Papa ha accettato le dimissioni, «con effetto immediato», di monsignor Murray, a poco meno di una settimana dall´udienza concessa dallo stesso Ratzinger ai vertici della Conferenza episcopale irlandese per decidere il da farsi alla luce dei due scottanti rapporti. «Chi ha sbagliato dovrà pagare», annunciò papa Ratzinger venerdì scorso, alla fine dell´udienza, dopo aver ascoltato - «con stupore, dispiacere, vergogna» - le rivelazioni dei vescovi islandesi. In particolare, Murray nel Rapporto Murphy è accusato di aver coperto gli abusi sessuali, essendosi limitato solo a spostare in altre parrocchie i preti pedofili. Un modo di agire - si legge nella relazione - «discutibile ed imperdonabile». Per questo motivo, la scorsa settimana il vescovo era stato convocato in Vaticano dal cardinale prefetto della congregazione dei vescovi Giovanni Battista Re, al quale aveva offerto le dimissioni, accolte in seguito dal Papa e rese pubbliche ieri.
È stato lo stesso Murray ad annunciarlo ieri ai dipendenti della diocesi di Limerick, subito dopo la diffusione della nota ufficiale vaticana. «So bene - ha ammesso il vescovo - che le mie dimissioni non possono annullare il dolore che le vittime di quegli abusi hanno sofferto in passato e continuano a soffrire ogni giorno. Chiedo umilmente scusa ancora una volta a tutti coloro che sono stati abusati quando erano bambini. A tutti i sopravvissuti ripeto che la mia principale preoccupazione è quella di aiutare in ogni modo possibile, il loro cammino verso la sperata serenità». Murray è solo il primo vescovo irlandese a farsi da parte per lo scandalo della pedofilia. Ma la lista dei responsabili è molto più lunga. Non è escluso quindi che altri alti prelati saranno puniti in applicazione di quella «tolleranza zero» promessa da Benedetto XVI sulla scia di quanto aveva già assicurato il predecessore Giovanni Paolo II nell´ultima fase del suo pontificato.

Repubblica 18.12.09
Sos per la lettura qualcuno salvi le biblioteche italiane
I Beni Culturali: Roma a rischio chiusura
Un dossier del ministero: per le Statali e le Nazionali budget dimezzato
di simonetta Fiori

ROMA - Se è vero che l´identità di un paese si rispecchia nelle sue biblioteche, la fotografia nazionale appena prodotta dal ministero dei Beni Culturali ci restituisce il ritratto di un´Italia smarrita, priva di memoria, che volge le spalle alla sua stessa tradizione. Nell´arco di cinque anni, le risorse finanziarie per l´attività delle biblioteche pubbliche statali - quarantasei istituti, tra cui la Braidense, la Laurenziana, la Malatestiana, l´Angelica e la Casanatense - sono state ridotte della metà (da trenta milioni a sedici milioni di euro), con un depauperamento ancora più marcato per le due Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e Firenze, custodi delle stesse fonti dell´identità nazionale italiana. Dall´acquisizione dei libri alla valorizzazione, dalla prevenzione alla tutela, dai servizi per il pubblico all´informatizzazione, non c´è passaggio nell´attività delle biblioteche che oggi non mostri limiti e disfunzioni. Il confronto con la British Library di Londra o la Bibliothèque Nationale de France finisce per essere mortificante. E per l´istituto romano di viale Castro Pretorio, si rischia la chiusura.
Il merito di aver prodotto un quadro aggiornato del "costume bibliotecario degli italiani" è della stessa Direzione generale per le Biblioteche. «Mi auguro che sia lo strumento per ottenere maggiore attenzione politica e soprattutto un incremento di fondi», spiega il direttore Maurizio Fallace. Il rapporto redatto da una commissione di esperti non è sospettabile di ambiguità: la situazione appare molto critica, quasi disperata. Diminuisce la qualità dei servizi, decresce di conseguenza anche la domanda, ossia il numero dei prestiti e delle persone ammesse al servizio. «Se non si aggiornano le collezioni librarie e se non si ha la possibilità di catalogare tempestivamente il materiale acquisito, anche l´utenza è scoraggiata», recita il rapporto del ministero. Per inquadrare il malessere, basterà qualche cifra. Se nel 2005 si spendeva per il patrimonio bibliografico 8.263.311 euro, la previsione per il 2010 è di 3.605.877. La spesa per il funzionamento del servizio bibliotecario informatico passa da cinque milioni a meno di quattro milioni di euro, mentre per la tutela dei libri e dei documenti la perdita è ancora più secca: da 3.525.966 a 650.000 euro (consentita appena la manutenzione degli impianti di sicurezza, antifurto o antincendio, mentre mancano le risorse per i lavori di spolveratura, rilegatura, disinfestazione). Anche la catalogazione nel Sistema Bibliotecario Nazionale mostra una vera emorragia: dagli 823.821 euro del 2005 agli 84.645 euro previsti per il prossimo anno. Cifra del tutto inadeguata: solo per il materiale del Novecento, sono almeno cinque milioni i volumi non ancora catalogati (il loro recupero costerebbe circa venti milioni di euro).
Emblema del grave declino è rappresentato dalle due Biblioteche Centrali, di Roma e Firenze. Quella romana risulta oggi la più sacrificata, con una dotazione di 1.590.423 euro (rispetto al 2001 la decurtazione è pari al 50 per cento): per un buon funzionamento occorrerebbero almeno trenta milioni di euro. Il paragone con le sorelle europee è schiacciante: la dotazione annua della Bibliothèque Nationale de France è 254 milioni di euro, quella della British Library supera i 159 milioni. Se riferiti al personale, i dati sono ancora più clamorosi. Anche in questo caso, la comparazione può essere utile: alla Bibliothèque Nationale lavorano 2.651 persone, in quella inglese 2.011, a Firenze 205, a Roma 264: complessivamente le due biblioteche nazionali italiane hanno un patrimonio librario equivalente a quello parigino - circa 14 milioni di volumi - ma vi lavora meno di un quinto del personale impiegato a Parigi.
Le conclusioni del rapporto non fanno presagire niente di buono. Per la Biblioteca Nazionale di Roma, «le risorse attualmente disponibili non bastano a garantire neppure la pura e semplice sopravvivenza dell´istituto». Come distruggere la propria carta d´identità, quella in cui siamo venuti meglio.

Repubblica 18.12.09
Lo studioso Tullio Gregory: si perde un patrimonio

"Sono laboratori di cultura è un danno gravissimo"

ROMA - «La biblioteca è un centro di ricerca intellettuale, al pari di un laboratorio scientifico. Necessitano entrambi degli strumenti più aggiornati. In caso contrario, ci si condanna a guardare le stelle ancora con il cannocchiale di Galileo». Bibliofilo appassionato, Tullio Gregory ha famigliarità con il patrimonio librario di mezzo mondo. «In Italia ci si dimentica che l´investimento nella ricerca è direttamente produttivo. Non a caso i paesi più attenti alla cultura sono quelli più sviluppati».
Un´intera comunità di ricercatori, studenti, professori rischia di rimanere senza biblioteche. Con quali conseguenze?
«Il caso italiano è grave. Non solo si privano i lettori di strumenti essenziali, ma si rinuncia a valorizzare un patrimonio straordinario. Le biblioteche sono laboratori di cultura, dotati di fondi preziosi che devono essere ancora studiati e analizzati».
La Biblioteca nazionale di Roma non ha i soldi per acquistare libri stranieri.
«Questo significa che non possiamo più acquisire importanti collezioni di classici latini pubblicate all´estero. Né potranno essere completate le raccolte di periodici e riviste italiane cominciate da decenni. Un patrimonio condannato a essere svalutato».
Un danno anche per l´immagine del paese.
«Sì, finanziamenti così esigui e personale drammaticamente insufficiente non sono propri di un paese civile».
(Simonetta Fiori)

Repubblica 18.12.09
Venti anni fa in Romania il regime del dittatore finì nel sangue Parla Ion Iliescu, che guidò la rivolta e poi divenne presidente

"Così decidemmo di fucilare Ceausescu"
di andrea Tarquini

All´inizio credemmo in lui. Ma poi si infatuò della Corea del Nord e divenne uno spietato stalinista
Molte cose ancora non vanno: ma abbiamo imboccato la via della democrazia. E non torneremo indietro

«All´inizio credemmo in lui, era popolare, diceva di no a Mosca. Poi s´infatuò della Corea del Nord, divenne uno spietato stalinista. E oggi eccoci qui, vent´anni dopo, a ricordare la rivoluzione che pose fine alla sua tirannide e alla sua vita. Molte cose da noi ancora non vanno, ma in quel gelido dicembre, quando popolo e soldati sfidarono i suoi sgherri, imboccammo la via della libertà, del ritorno in Europa. Processarlo e giustiziarlo fu necessario». È la caduta di Nicolae Ceausescu, narrata da un testimone eccezionale: Ion Iliescu, riformatore nel Pc romeno, divenne leader del nuovo potere e fu poi più volte presidente postcomunista ma democraticamente eletto.
Presidente, 20 anni dopo, per Lei, quali emozioni e quali ricordi?
«Fu un lungo processo. La mia generazione fu segnata dalle speranze aperte da Kruscev col 20mo congresso del Pcus. Ma poi nel ‘64 Kruscev stesso volle imporre una divisione del lavoro coloniale nel blocco socialista. Bucarest seppe dire di no, Ceausescu fu coraggioso. Rifiutò la de-industrializzazione per diktat di Mosca. Vennero liberalizzazione, rilascio dei prigionieri politici, dialogo con l´intelligentsija, il rifiuto di rompere con Israele, il no nel ‘68 all´invasione di Praga. Un ruolo di ponte tra i blocchi: con lui aiutammo Sadat e Begin, Nixon e i cinesi a parlarsi. Anni di speranza, poi tramontarono».
Quando? Perché?
«Nel ‘71. Lui cominciò a farsi molto sospettoso, cambiò nell´animo. Ricordo un viaggio in Asia. A Pyongyang, mi confessò ammirazione per il sistema nordcoreano. Ero membro della Segreteria. ‘Compagno Nicolae´, gli dissi, ‘attento, sarebbe una vergogna per il socialismo copiare Kim Il-Sung. Siamo europei».
Lui come reagì?
«Prima, silenzio. Poi al Plenum del partito mi attaccò per ‘intellettualismo´. Fui escluso dal vertice, inviato in provincia, poi espulso. Mi guadagnai la vita da ingegnere. Poi mi fu vietata anche questa professione. Vissi anni bui. Sperimentai nel quotidiano una situazione economica sempre più pesante per la nostra gente. La sua ossessione di ripagare il debito estero ed esportare tutto il possibile impose gravi sofferenze al popolo. E nell´89, mentre tutto il blocco andava alle svolte, lui le osteggiò, definì Gorbaciov traditore».
Quando cominciò a ritenere inevitabile uno sbocco violento?
«Quando nell´89 vidi la svolta polacca e ungherese, e poi anche a Praga. Da noi non cambiava nulla. Un´esplosione popolare mi sembrò inevitabile. Ero a Iasi, nella piccola editoriale, aspettavamo libri che una tipografia di Timisoara ci doveva fornire. Ritardavano, il 17 dicembre telefonammo. ‘Ma non sapete che succede? La gente è in piazza, la repressione si scatena, sparano´, ci risposero. Poi cadde subito la linea. Ci preparammo al peggio, ma lui commise un errore fatale. Convocò un comizio a Bucarest il 22. Sperava di galvanizzare la folla come da giovane. Invece divenne rivolta. Fuggì in elicottero, cominciarono gli scontri. Cominciò nel sangue il nostro cammino verso la libertà. Mi chiamarono a Bucarest, avventurosamente riuscii a raggiungerla. Riunimmo il Comitato centrale, pronunciai il primo messaggio tv al paese. Di strada in strada si combatteva, giovani e ragazze, soldati e ufficiali cadevano negli scontri sventolando il tricolore».
Ma stavate vincendo, perché decideste di fucilarlo?
«Erano passati 3 giorni di guerra ovunque, nessuno sapeva più chi sparava contro chi. I suoi stavano creando l´anarchia, lo Stato si dissolveva. Dovemmo dare un segnale politico per fermare la tragedia, decidemmo un processo eccezionale. Improvvisato, lo ammetto. Ma due giorni dopo la sua esecuzione, la violenza si fermò. Non potevamo fare altro o la tragedia si sarebbe prolungata in un´eterna guerra civile».
Poi vennero le proteste degli studenti, represse dai minatori filogovernativi…
«Venne la fase più difficile. Costruire istituzioni democratiche, trasformare l´economia dal Piano al mercato…ci mancava l´esperienza. La rivolta giovanile riportò pericoli di anarchia, assaltarono il palazzo del Pc, la Tv. Il nuovo conflitto sociale, minatori contro giovani intellettuali, fu tragico, ma lo Stato non aveva mezzi per imporre l´ordine. Quanto avvenne ebbe un terribile impatto negativo sulla nostra immagine nel mondo, pesò sull´approdo a Ue e Nato. ‘Iliescu è rimasto comunista´, dissero in molti. Io mi ritengo un democratico. Quel che conta, oggi siamo europei e atlantici, una democrazia».
Vent´anni dopo, cosa le piace della Romania e cosa no?
«La democrazia, il fatto che il Terrore, il clima di divieto di pensare, siano solo ricordi. Ma dobbiamo fare ancora molto. Contro le disuguaglianze che accendono nostalgie. Non verso Ceausescu ma verso le sicurezze sociali del passato. La democrazia deve mostrarsi dalla parte dei deboli, dei poveri. E ci vuole una pubblica amministrazione onesta. Non mi piace il clima della rielezione di strettissima misura dell´attuale presidente Basescu. Non è aperto al dialogo, attacca lo Stato di diritto, le opposizioni, il Parlamento e la magistratura, crea un clima di tensione. Spero che esperienza e riflessioni lo aiutino a cambiare. In quei giorni dell´89 dicemmo che ci sarebbero voluti vent´anni per costruire una democrazia normale, oggi penso che ce ne vorranno altri venti almeno».

Repubblica 18.12.09
Un originale testo di Holenstein sui luoghi e sui percorsi del pensiero

Così le carte geografiche spiegano anche la filosofia
di Antonio Gnoli

Nell´apparato iconografico del volume i luoghi della cultura

Nonostante avesse inserito nel suo magistero anche l´insegnamento della geografia e amasse intrattenere i commensali a tavola, parlando con vigore e competenza dell´Africa o della lontana Asia, Kant non si mosse mai dalla sua adorata Königsberg. Tutto il mondo sensibile confluiva nella sua mente, in quella rete di connessioni in cui si elabora la conoscenza. Più inquieto fu Hegel che non disdegnava viaggiare, anche se il massimo che riuscì a compiere nella sua vita fu un´escursione sulle Alpi. Ma diversamente da Kant - che aveva fissato la conoscenza nelle categorie immobili dello spazio e del tempo - Hegel guardò al pensiero come a qualcosa di mobile. Di dialettico appunto. Immaginò non solo un percorso verticale, un´ascesa, una purificazione, che pure era nella sua visione trionfalistica di una storia che marcia verso lo spirito assoluto, ma anche uno spostamento orizzontale. Immaginò un pensiero nomadico che, nato nelle remote distese asiatiche, approdava dopo millenni in Europa, e in particolare nella Germania del XIX secolo. «La storia del mondo» - scrisse nelle sue lezioni berlinesi - «va da Oriente a Occidente, l´Europa è infatti la fine della storia del mondo, così come l´Asia ne è il principio... Qui nasce il sole esteriore, fisico, che tramonta a Occidente; ma qui nasce anche il sole interiore dell´autocoscienza». Tutto questo, lo diciamo in modo scherzoso, ricorda la celebre storia del birillo che gli avventori del bar di Foligno considerano il centro del mondo.
Davvero possiamo accontentarci di spiegare il pensiero filosofico come una vicenda tutta europea? Helmar Holenstein, con il suo Atlante di filosofia (Einaudi, pagg. 299, euro 65), rimette in discussione questa tesi la cui solennità poggia sull´idea che i concetti non debbano in nessun modo occuparsi del dove e del quando ma solo se ciò che è detto sia argomentabile come vero o falso.
È noto che alla nascita del mondo moderno contribuirono, oltre alla rivoluzione scientifica, anche le grandi scoperte geografiche. Quando il dominio passò dalla terra ai mari e la scoperta dei mondi lontani si fece più frequente, le concezioni in merito alla vita e ai costumi si relativizzarono. Fu allora che per la prima volta si affacciò il nichilismo: una bestia che i cartografi si illusero di ingabbiare con il loro lavoro di riduzione della Terra a immagine. Quelle superbe esecuzioni indicavano non solo che nel mondo era in atto una rivoluzione, ma anche il fatto che l´Occidente stava fornendo un codice visivo di portata globale.
Non è senza fondamento quello che scrive Franco Farinelli nel bel libro La critica della ragione cartografica (Einaudi, pagg. 249, euro 18), quando nota che tra il Cinque e il Seicento «il pensiero occidentale diventa, non soltanto con Cartesio, il protocollo della logica cartografica, assumendone la natura». Un´intera epoca - oscillante tra razionalismo ed empiria - si appropria di ciò che fino a quel momento era stato dominio di Dio, cioè il mondo, e ne fa una rappresentazione sia scientifica che filosofica. In un lento svanire delle vecchie acquisizioni, muta il quadro di insieme: si fanno strada motivi che dureranno fino a oggi: l´astratto prevale sul concreto, l´universale ha la meglio sul dettaglio, il perenne scalza il transeunte. In fondo quello del cartografo non è solo un lavoro di astrazione e precisione, ma altresì di volontà di potenza e di codificazione di un dominio fondato sulla scienza e la filosofia, sulle vele e i cannoni.
Correggendo in qualche modo Hegel, Max Weber affermò che non c´è nulla che non sia stato pensato, sotto qualche forma, in Asia. Qui, nella parte meridionale, si sviluppò intorno al V secolo a. C. un pensiero filosofico senza l´ausilio della scrittura: si trattava per lo più di versi della dottrina Yoga che contenevano riflessioni astratte e complesse, facilmente memorizzabili. Soltanto in seguito i sutrani (il nome che presero questi componimenti orali) furono messi per iscritto. Ma è in Africa, secondo Holenstein, che il pensiero filosofico, sotto forma di letteratura sapienziale, sarebbe nato. In alcune zone del Kemet (l´odierno Egitto), più di tremila anni fa, vennero elaborate le prime massime etiche fondate non tanto su un ordine etico o religioso quanto filosofico.
Si mette così in discussione l´idea che la filosofia sia nata in Grecia come passaggio dal Mito al Logos. I presocratici, Platone, Aristotele avrebbero dunque degli antecedenti (o dei contemporanei) in altre parti del globo. Ma perché alla fine è il modello ellenico a prendere il sopravvento? La risposta è tutta iscritta nel destino che l´Europa svolgerà nel millennio successivo. Certo, anche la cultura filosofica non sarà estranea alle contaminazioni. Già con le conquiste di Alessandro il pensiero ellenico si apre al contributo asiatico (sciamanico e religioso) e in seguito tutta la tradizione greca troverà un appoggio fondamentale in quegli scrittori arabi (soprattutto medici e matematici) che si faranno carico di tradurre e conservare le opere filosofiche più importanti. Ad alcuni oggi può suonare come una bizzarria o una bestemmia che uno dei pilastri della cultura occidentale sia stato salvato e arricchito dal quel pensiero islamico che vide nei nomi di al Farabi, al Ghazali, Avicenna, Averroè i protagonisti di una storia che seppe illuminare i secoli bui dell´Europa.
Naturalmente, Holenstein prova a sciogliere i ghiacci della metafisica occidentale, e a diluirli nel mare dei valori interculturali. Attraverso le carte, l´Atlante mostra in che modo la filosofia abbia viaggiato nel mondo, spostandosi a volte da un continente all´altro. Come i venti e le correnti, così il pensiero non conosce veri confini. Cosa concludere? Si può giungere a uno stesso grado di consapevolezza della verità seguendo metodi differenti. È un chiaro invito al confronto culturale: niente è così centrico e autoreferenziale da pretendere di escludere ciò che nel resto del mondo è stato pensato.
Si tratta di un libro scritto contro le paranoie del moderno. Quando Tolomeo fornì nel II secolo d. C. i criteri per descrivere su un piano orizzontale il mondo allora noto, si aprì uno scenario sorprendente. Quel signore, geografo, astronomo, astrologo, così distante dalle moderne rivoluzioni scientifiche, avrebbe inventato il sistema di coordinate (latitudine e longitudine) senza il quale sarebbe risultato difficile ridurre la Terra a un insieme di punti geometrici. Fu Tolomeo ad annunciare lo spazio moderno e tutti i successivi atlanti? Farinelli ne è talmente convinto da ritenere che, nonostante Copernico e Keplero, noi continuiamo ad avere una percezione tolemaica del mondo. La Terra anche se scientificamente non è più al centro del nostro Universo continua ad esserlo di fatto. E per secoli, l´Europa ne rappresentò idealmente il cardine. Almeno fino a quando Nietzsche vide nel vecchio continente un malato incurabile. Ma questa è un´altra storia.

Corriere della Sera 18.12.09
Visto da New Delhi Il diplomatico Shashi Tharoor, ex vice di Kofi Annan all’Onu
«Non negate a 600 milioni di indiani il diritto di ottenere l’elettricità»
di Alessandra Muglia

Il summit di Copenaghen vi­sto da New Delhi: quasi un falli­mento?

«Non siamo preparati ad accet­tare la nozione di fallimento: sia che si arrivi in extremis a un qual­che accordo, sia che si approdi soltanto a una dichiarazione poli­tica per continuare la trattativa dopo Copenaghen».

Shashi Tharoor, sottosegreta­rio agli Esteri indiano, una carrie­ra da diplomatico alle spalle an­che come vice segretario dell’Onu con Kofi Annan, nominato nel 1998 «leader globale di domani» al World Economic Forum di Da­vos, scrittore di saggi e romanzi di successo, si porta dietro quello sguardo allargato utile per affron­tare nodi planetari come quello del clima. «Parlare di fallimento significa che rinunciamo al piane­ta, e noi non siamo preparati a far­lo — assicura —. Il fallimento non è un’opzione: l’accordo che non c’è ora deve essere trovato più in là».

Stiamo però andando più len­tamente di quanto dovremmo. Chi è responsabile?

«Dobbiamo tener presente che i precedenti trattati come il proto­collo di Kyoto sono stati tutti il ri­sultato di ardui negoziati. Non credo sia saggio che alcuni Paesi cerchino di buttare via quello che è stato concordato in anni di di­scussioni e trattative. Dobbiamo concentrarci su quel che è già sta­to fatto e da lì procedere oltre».

L’India come la Cina finora ha rifiutato tagli vincolanti alle emissioni di Co2. Non sta così remando contro un accordo glo­bale?

«Premetto che pur senza obbli­ghi particolari noi stiamo facen­do molto all’interno del nostro Pa­ese attraverso leggi e azioni che hanno un impatto positivo sul surriscaldamento globale. Abbia­mo lanciato la campagna naziona­le 'Per un’India verde' e iniziati­ve speciali sulle energie alternati­ve. Per esempio a New Delhi tutti i bus e i trasporti pubblici vanno a gas naturale e non a benzina (nel governo c’è pure un ministro per le Energie rinnovabili, ndr ) ».

Iniziative apprezzabili ma nes­sun impegno vincolante.

«In India ci sono 600 milioni di abitanti che non hanno accesso al­l’elettricità. Non possiamo nega­re alla nostra gente il diritto ad avere la luce elettrica. Voi siete a un livello di sviluppo che noi dob­biamo ancora raggiungere. Certo, vogliamo crescere nel modo più efficiente e pulito possibile. Noi stiamo facendo la nostra parte, ma per riuscirci ci occorrono aiu­ti e trasferimenti di tecnologia verde».

L’India sembra presentare la stessa ambivalenza della Cina: portavoce dei poveri con l’ambi­zione di sedere al tavolo dei ric­chi.

«Non è giusto paragonarci alla Cina. L’India ha il 17,5% della po­polazione mondiale ma oggi è re­sponsabile soltanto del 4% delle emissioni. Dobbiamo correre ai ri­pari per una situazione creata da due secoli di industrializzazione a cui l’India non ha contribuito. Og­gi siamo considerati il quinto in­quinatore al mondo: può essere, ma il nostro contributo al surri­scaldamento è del 4% mentre quello di Cina e Usa insieme è del 50%».

Quale ruolo ha l’India nello scontro tra Paesi in via di svilup­po e nazioni ricche?

«Un ruolo ponte. L’India è un membro del G77 ed è uno dei quattro Paesi del Basic (con Brasi­le, Sudafrica e Cina, ndr). Noi cer­chiamo di mediare tra le diverse posizioni del G77».

Crede che la Cina stia ostaco­lando l’intesa?

«Non accuso nessuno, vorrei soltanto che i Paesi ricchi fossero un po’ più costruttivi».

La Clinton ha annunciato 100 milioni di dollari all’anno fino al 2020 dai Paesi occidentali. Ora tocca ai Paesi in via di sviluppo: è abbastanza per accettare tagli vincolanti alle emissioni?

«Diamo il benvenuto a qualsia­si iniziativa del mondo sviluppa­to che tenga in considerazione la sua specifica responsabilità e ca­pacità ».